Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

TERZA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Sophie Pétronin, la Silvia Romano francese: scambiata per 200 jihadisti dopo 4 anni di prigionia, torna dai suoi rapitori. Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021.  «Voi mi chiamate Sophie, ma di fronte avete Mariam. Pregherò per il Mali, implorerò le benedizioni e la misericordia di Allah, perché sono musulmana». Furono le prime parole dell'operatrice umanitaria francese Sophie Pétronin al momento della sua liberazione, dopo quattro anni di prigionia nelle mani dei jihadisti in Mali. Liberazione, avvenuta nella notte tra l'8 e il 9 ottobre 2020, che scatenò un'ondata di polemiche in Francia. Anzitutto perché il suo rilascio, assieme all'ex ministro delle Finanze del Mali Soumaïla Cissé, fu possibile solo in cambio della liberazione di duecento jihadisti sul territorio maliano: un prezzo carissimo da pagare dal punto di vista diplomatico e securitario, visto che la Francia è impegnata da anni nella delicata operazione anti-terrorismo "Barkhane" e ha già perso 52 soldati in Mali. In secondo luogo, perché, come Silvia Romano in Italia, la 76enne francese tornò in patria convertita all'islam, velata e pronunciando parole tutt' altro che ostili nei confronti di chi l'aveva sequestrata. «Sto bene, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare. Sono sempre stata rispettata. Si sono presi cura di me. Hanno fatto venire un medico quando ero malata. È tornato a visitarmi più volte», dichiarò Mariam. E aggiunse che non bisognava chiamarli «jihadisti», bensì «gruppi armati di opposizione al regime maliano».

MANDATO DI CATTURA

Da un anno non si avevano quasi più notizie della fondatrice dell'Association in Gao (Aag), Ong che si occupa di bambini malnutriti. Attraverso un documento pubblicato da alcuni giornalisti maliani venerdì 29 ottobre e citato dall'agenzia di stampa turca Anadolu si sa qualcosa in più: Sophie Pétronin è tornata discretamente in Mali ed è attivamente ricercata dalle autorità maliane. Il documento firmato dal colonnello Amadou Camara, vice direttore generale della gendarmeria maliana, è rivolto a «tutte le unità» del Paese. All'interno, si afferma che l'operatrice francese è stata «avvistata verso Sikasso», vicino alla frontiera col Burkina Faso, a 375 chilometri dalla capitale Bamako, e viene chiesto, «in caso di ritrovamento», «di arrestarla e di condurla sotto scorta alla direzione generale della gendarmeria».

ZONA ROSSA

I motivi del mandato di cattura non sono specificati, ma alcuni siti maliani sottolineano che il ritorno in Mali dell'ex ostaggio nasconde diverse zone d'ombra. Secondo Maliweb.net, Sophie Pétronin potrebbe aver raggiunto i gruppi jihadisti (che lei definiva «gruppi armati di opposizione al regime maliano») nell'aerea di Sikasso, considerata "zona rossa", dunque sconsigliata agli stranieri. Colpita dalla sindrome di Stoccolma? Molti ne sono convinti, nonostante le ripetute smentite del figlio, Sébastien Chadaud-Pétronin. Stando a quanto riportato ieri da Libération, Sophie "Mariam" Pétronin si era trasferita a fine 2020 in Svizzera, dove il figlio lavora come ristoratore. Dopo il trasloco, secondo le informazioni del quotidiano parigino, la volontaria aveva presentato diverse domande di visto per tornare in Mali, tutte respinte dal ministero degli Esteri francese. Poi, ad aprile, ha trovato lo stratagemma: è partita in Senegal "in vacanza", Paese che non richiede il visto. «È a partire da questo Paese, dopo un lungo viaggio in autobus, camuffata dietro foulards che la rendevano irriconoscibile, che raggiunge Bamako. Lì, si fa più discreta», rivela Libération. Su Twitter, ha reagito duramente Hélène Laporte, eurodeputata del Rassemblement national: «Va ricordato che Sophie Pétronin era stata rilasciata in cambio della liberazione di duecento jihadisti, alcuni dei quali erano stati arrestati dai militari francesi. Quanto disprezzo per l'impegno del nostro esercito nella lotta contro il terrorismo islamista!».

Giovanni Bianconi per corriere.it il 30 marzo 2021. In origine dovevano essere due sequestri simulati, tanto che uno degli ostaggi, Alessandro Sandrini, è indagato di simulazione di reato e truffa; poi però sono diventati sequestri veri, perché le vittime sono state effettivamente prese in consegna da due gruppi seguaci di Al Qaeda, presenti tra Turchia e Siria. E così c’è pure l’accusa di terrorismo ed eversione a carico dei due albanesi e un italiano arrestati stamani dai carabinieri del Ros, su ordine della Procura di Roma.

Gli albanesi in carcere. Il giudice dell’indagine preliminare ha mandato in carcere gli albanesi Fredi Frrokaj e Olsi Mitraj, di 42 e 41 anni, e il bresciano Alberto Zanini, 54 anni, perché considerati gli autori – in concorso con altri complici, alcuni dei quali tuttora ignoti – dei rapimenti di Sergio Zanotti e Alessandro Sandrini, entrambi scomparsi in Turchia, il primo a maggio e il secondo a ottobre del 2016, poi segregati in Siria e tornati liberi tra aprile e maggio del 2019. Tre anni e più di prigionia nonostante all’inizio ci fosse, secondo l’accusa, l’accordo tra rapiti e rapitori per guadagnare e spartirsi i soldi di eventuali riscatti.

L’ex fidanzata di Sandrini: «Mi promise 100 mila euro per tenere il gioco». Almeno nel caso di Sandrini, il trentacinquenne partito da solo per un’improbabile vacanza ad Adana, nel Sud della Turchia, del quale la ex fidanzata ha raccontato agli inquirenti: «Prima di partire mi aveva garantito che appena rientrato in Italia 100 mila euro sarebbero stati miei se gli avessi mantenuto il gioco con la sua famiglia, i giornali e le forze dell’ordine». Sulla base di altre testimonianze gli inquirenti hanno ricostruito che il giovane (al momento del sequestro non aveva ancora compiuto 31 anni) confidava di fare «molti soldi» con il finto rapimento. Poi si è convertito all’Islam.

Le «modalità anomale». Le modalità del suo prelevamento sono molto simili a quelle con cui era sparito dalla circolazione l’imprenditore – sempre bresciano: tutte le trame sono riconducibili alla città lombarda, dove risiedono anche gli indagati stranieri – Sergio Zanotti, oggi sessantunenne, partito per Antiochia con l’intenzione di trovare e commercializzare dinari iracheni ormai fuori corso, dell’era di Saddam Hussein. Modalità simili e considerate anomale dagli investigatori del Ros dei carabinieri e dello Sco della polizia, coordinati dal sostituto procuratore romano Sergio Colaiocco: dalla comune origine geografica delle vittime al modo in cui sono stati prelevati, senza agguati e narcotizzati subito dopo essere finiti in mano ai banditi. C’è anche un terzo tentato sequestro che sarebbe stato pianificato dalla stessa banda italo-albanese in raccordo con i complici in Turchia, di un altro imprenditore di Rezzato (sempre in provincia di Brescia), che però al momento della partenza non si è presentato all’aeroporto; fallito quel tentativo, la banda ha poi ripiegato su Sandrini, che agli inquirenti avrebbe taciuto il presunto accordo con i rapitori parlando di un viaggio con scopi «esclusivamente turistici, in un periodo buio della mia vita».

Indagati anche un italiano e quattro stranieri. Il ruolo centrale nell’organizzazione dei due sequestri (più quello fallito) viene attribuito a Fredi Frrokaj, che non solo ha avuto contatti le vittime prima del rapimento, ma a sequestri avvenuti e in corso si è occupato di dare o far avere soldi (alcune migliaia di euro, per ciò che l’indagine ha potuto ricostruire) alla figlia di Zanotti e all’ex fidanzata di Sandrini. L’obiettivo di questo “mantenimento” occulto di familiari o persone legate agli ostaggi era di alleggerire la loro apprensione, in modo che non fosse troppo intenso e invasivo l’impegno delle autorità di polizia e diplomatiche. Nonostante ciò, l’attività dell’intelligence italiana riuscì a far liberare i sequestrati, nonostante il caso di Zanotti avesse destato da subito molti sospetti. A tenerlo segregato, dopo il rapimento in Turchia, sarebbe stato il gruppo jihadista siriano Jund Al Aqsa, che l’ha liberato senza aver raggiunto apparenti obiettivi politici, quindi è possibile che sia stato pagato un riscatto. Sandrini invece è finito nelle mani del Turkestan Islamic Part, di ispirazione qaedista, che avrebbe ottenuto (oltre a un ipotetico bottino) un riconoscimento da parte del regime siriano in funzione anti-Isis. Oltre ai tre arrestati e a Sandrini, nell’inchiesta sono indagate altre sei persone: un altro italiano residente in Germania, un albanese, due siriani, un egiziano e un marocchino che avrebbero partecipato alla preparazione e poi alla gestione dei viaggi tramutatisi in sequestri di persona. Pianificati e organizzati in alcuni bar di Brescia.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. L'ex fidanzata di uno dei due ostaggi ora accusato del suo stesso rapimento, capì tutto subito. L'uomo - Alessandro Sandrini, all'epoca poco più che trentenne - gliel'aveva confessato al momento della partenza per la Turchia: «Durante il viaggio verso l'aeroporto Sandrini mi continuava a dire che dovevo stare tranquilla, perché al rientro avrebbe avuto molti soldi che sarebbero arrivati dalla Farnesina come riscatto del suo falso sequestro... Aggiungo che sentivo Zanini e Olsi dire a Sandrini di non preoccuparsi della sua dipendenza dagli stupefacenti, poiché sarebbe stato in una bella villa, da cui non sarebbe potuto uscire, ma in compenso avrebbe avuto tutto ciò di cui necessitava: donne, alcol e droga». Ora Sandrini è indagato per simulazione di reato e truffa, mentre Alberto Zanini (54 anni, bresciano di Collio Val Trompia) e il 41enne albanese Olsi Mitraj sono finiti in prigione per sequestro di persona a scopo di terrorismo ed eversione, assieme all'altro albanese Fredi Frrokaj, 44 anni, residente nel bresciano, implicato in un altro rapimento «anomalo»: quello dell'imprenditore Sergio Zanotti, bresciano pure lui. Ma al di là delle trame ordite nei bar della provincia lombarda, dall'indagine della Procura di Roma sfociata negli arresti e nelle perquisizioni di ieri affiora in maniera abbastanza chiara un sospetto, svelato ora che non ci sono connazionali in mano ai carcerieri: al mercato dei rapimenti nelle «zone a rischio» del mondo, gli italiani sono merce pregiata, perché c'è la convinzione che il governo di Roma sia propenso a pagare i riscatti. Quando Sandrini diceva «Farnesina», come riferito dalla sua ex fidanzata, intendeva ministero degli Esteri. E in una telefonata del 21 gennaio 2018 - dopo quasi un anno e mezzo di prigionia; verrà liberato solo a maggio 2019 - sembra confermare alla madre la necessità di fare pressioni in quella direzione: «Ti vogliono mandare un video, vogliono mandarlo alla famiglia, che lo divulghi la famiglia... Ma', la Farnesina non si sta occupando, non vogliono pagare, non vogliono dare soldi... per me». Ancora la ex fidanzata del giovane bresciano ha raccontato che «prima di partire Sandrini mi aveva garantito che appena rientrato in Italia 100.000 euro sarebbero stati miei se gli avessi mantenuto il gioco, con la sua famiglia, i giornali e le forze dell'ordine». La donna ha anche detto ai carabinieri del Ros e ai poliziotti dello Sco che subito dopo la partenza di Sandrini i suoi amici italo-albanesi le davano 50-100 euro alla settimana «per il mio fabbisogno, affinché stessi tranquilla», e quando ne chiese 3.000 tutti insieme nacque una discussione dalla quale «è emerso che questi avevano incassato in tutto o in parte il corrispettivo del sequestro di Sandrini». E in alcune intercettazioni riferiva di un credito di 20.000 euro, di cui «gli amici di Alessandro» ne avevano trattenuti 7.000. Tuttavia le indagini coordinate dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco hanno permesso di stabilire che il finto sequestro è diventato vero quando Sandrini è finito in mano al Turkestan Islamic Party, gruppo vicino ad Al Qaeda che ha successivamente ottenuto (oltre a un ipotetico bottino) un riconoscimento politico da parte del regime siriano in funzione anti-Isis. Le modalità del rapimento di Sandrini, prelevato in hotel e «addormentato con un tampone», sono simili a quelle del sequestro Zanotti, narcotizzato dopo aver preso un taxi vicino ad Antiochia, dove era andato ufficialmente per recuperare dinari iracheni fuori corso da rivendere. Come per Sandrini, ci sono contatti tra il futuro ostaggio e la banda italo-albanese fino alla partenza, e anche i familiari di Zanotti (che al momento del rapimento, nel 2016, aveva 56 anni) hanno ricevuto soldi da Frrokaj mentre lui era in mano ai carcerieri. Identificati con un'altra organizzazione jihadista vicina ad Al Qaeda, Jund Al Aqsa, contrapposta al governo siriano. A differenza di Sandrini, Zanotti non è indagato né per simulazione di reato né per truffa, tuttavia quando ieri gli investigatori si sono presentati a casa sua per ascoltarlo, prima ha confermato le precedenti versioni dei fatti e poi s'è rifiutato di collaborare. Rischiando così l'accusa di favoreggiamento. A riportare Zanotti in Italia, nell'aprile 2019, furono i funzionari dell'Aise, l'agenzia dei servizi segreti per la sicurezza esterna, e l'ex premier Giuseppe Conte annunciò la bella notizia «a conclusione di una complessa e delicata attività di intelligence». Come è consuetudine in questi casi, nessuno ha mai ammesso o confermato il pagamento di un riscatto, ma il dubbio che ciò sia avvenuto è rimasto. Per questo e per altri sequestri. Oltre agli arrestati, la Procura romana indaga su almeno altri sei presunti complici: due siriani, un turco, un marocchino, un egiziano e un altro albanese, residenti a Brescia e dintorni. Prima di Sandrini avrebbero progettato di far sequestrare in Turchia un altro imprenditore con cui avevano preso contatti, che però al momento della partenza non s'è presentato. Ora gli inquirenti confidano che si faccia avanti per svelare la sua identità e l'eventuale piano al quale è sfuggito.

Grazia Longo per "La Stampa" il 31 marzo 2021. Una truffa nella truffa. La prima nei confronti dello Stato: organizzare un falso sequestro all'estero con la speranza di intascare i soldi del riscatto. La seconda nei confronti dei due sequestrati, Alessandro Sandrini e Sergio Zanotti, che alla fine sono stati realmente ceduti, per tre anni, agli jihadisti di Al Qaeda. Nelle 52 pagine dell'ordinanza della gip Paola Della Monica, su richiesta del pm Sergio Colaiocco, emerge lo spaccato del modus operandi dei tre arrestati accusati di sequestro con finalità di terrorismo. I due albanesi Fredi Frrokaj e Olsi Mitraj (di 42 e 41 anni) e l'italiano Alberto Zanini (54 anni). I tre uomini «in concorso tra loro e con altri soggetti rimasti ignoti operanti in Italia, Turchia e Siria, questi ultimi aderenti e comunque riconducibili alla galassia jihadista» hanno proposto all'imprenditore in difficoltà economiche Alessandro Sandrini di recarsi in Turchia «al fine di simulare un sequestro di persona ma una volta lì lo privavano effettivamente della libertà personale e poi lo conducevano contro la sua volontà in Siria, consegnandolo successivamente al Turkestan Islamic Part, gruppo che si richiama ad Al Qaeda». Ma a Sandrini (indagato per truffa e simulazione di reato) avevano invece garantito che si sarebbe trattato di un falso rapimento e che anzi «sarebbe stato sistemato in una bella villa da cui non sarebbe potuto uscire, ma in compenso avrebbe avuto tutto ciò di cui necessitava: donne, alcol e droga». La banda arrestata dai carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco poteva contare «su un notevole disponibilità di denaro, essendo state corrisposte somme, anche consistenti (10 mila euro ai rapiti), sia alle future vittime che ai familiari». Un testimone racconta che «Sandrini contava di fare molti soldi con il falso sequestro e prima del rapimento gli erano stati consegnati 10 mila euro, mentre 20 mila erano stati dati alla sua fidanzata». A quest'ultima, poi, il sequestrato (confidando di poter spartire il riscatto con la banda) aveva promesso 100 mila euro, se gli avesse tenuto il gioco sul finto sequestro. I tre arrestati hanno foraggiato mensilmente anche la figlia di Zanotti (il quale al momento non è indagato ma a breve lo sarà per favoreggiamento, poiché ieri mattina, interrogato come teste non ha voluto rispondere alle domande degli inquirenti e la cui posizione per il pm Colaiocco è sovrapponibile a quella di Sandrini), per un totale che si dovrebbe aggirare intorno ai 10 mila euro. Zanotti era finito nelle mani del gruppo jihadista siriano Jund Al Aqsa, che l'ha liberato senza aver raggiunto evidenti guadagni politici, quindi non escluso è che sia stato pagato un riscatto. Durante la perquisizione a casa di uno due albanesi sono stati ritrovati, nascosti sotto la cappa della cucina, quasi 90 mila euro. Sono una parte del riscatto pagato dalle autorità italiane? La Farnesina ha sempre negato di aver mai ceduto al ricatto dei terroristi. E in ogni caso sono trascorsi tre anni dalla liberazione avvenuta nel 2019. Oltre ai tre arrestati e a Sandrini, nell'inchiesta sono indagate altre sei persone: un italiano residente in Germania, due siriani, un albanese, un marocchino e un egiziano. Gli investigatori stanno cercando di identificare un terzo bresciano che inizialmente si disse disponibile a farsi sequestrare per finta ma poi non si presentò in aeroporto per la partenza.

Ecco che fine ha fatto Silvia Romano: cosa fa adesso. Luca Sablone il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Ha lasciato Milano e adesso insegna lingue straniere. Il 5 ottobre scorso si è sposata con un amico di infanzia, che si è convertito all'Islam. È passato un anno dalla liberazione di Silvia Romano. La ragazza volontaria, rapita a Chakama in Kenya la sera del 20 novembre 2018, ha deciso di farsi una nuova vita. Lontana dai riflettori di quei giorni concitati, dalla perenne presenza dei giornalisti sotto casa e dalle continue domande che non sempre gradiva. La famiglia ha così deciso di tornare a vivere, allontanandosi da Milano. Ha 26 anni, insegna lingue straniere in una scuola per adulti e ha trovato la tranquillità. Una "felicità piena", racconta chi le è vicino. Silvia è riuscita a trovare anche l'amore. Il 5 ottobre scorso - si legge su La Stampa - si è sposata con rito islamico a Campegine, un piccolo centro a metà strada tra Milano e Bologna. Tra casa sua e quella del marito Paolo, un ragazzo italiano di origini sarde che all'epoca viveva in Emilia-Romagna e che prima di sposarla si è convertito all'Islam. Silvia e Paolo sono amici dall'infanzia: da piccoli trascorrevano sempre del tempo insieme, ma poi ognuno aveva intrapreso la propria strada. Dal quel 9 maggio però Paolo ha provato a mettersi in contatto nuovamente con la giovane volontaria. Così dopo anni hanno ripreso a frequentarsi, ritrovandosi e iniziando a sentirsi. Ecco perché si dice che la loro è una "storia da favola su cui si potrebbe girare un film". Alla fine si sono innamorati. Paolo ha deciso di convertirsi e così ha abbracciato la stessa fede di Silvia. In tal modo l'ha potuta sposare, senza alcuna esposizione mediatica. Ora la ragazza sta bene e sogna di poter tornare in Africa. Ma sa benissimo che, come spiegano fonti vicine alla famiglia, "sua madre morirebbe di paura". Non manca il dispiacere per quanto avvenuto in questi mesi. Una serie di avvenimenti che l'ha costretta ad andare via dalla sua casa e dalla sua città. Ma nonostante tutto ciò, assicura chi la conosce bene, "il suo sorriso è più bello di quello di prima". Silvia Romano è scesa in campo per combattere e contrastare l'islamofobia: ha deciso di essere in prima linea per promuovere un progetto europeo dal nome "YES – Youth Empowerment Support for Muslim communities". Come riferito dell'associazione Progetto Aisha, la volontà è quella di "poter contribuire a sensibilizzare l'opinione pubblica su un tema che raramente viene trattato dai media e che invece ha un impatto quotidiano specialmente sulla vita delle donne musulmane del nostro Paese". 

Silvia Aisha Romano, la nuova vita della ragazza liberata in Somalia: dalla conversione al matrimonio islamico, cosa fa ora. Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Non vive più a Milano Silvia Aisha Romano, dove era tornata l'anno scorso dopo diciotto mesi di prigionia in Somalia. Nemmeno sua mamma vive nella palazzina al Casoretto, quartiere multietnico della città. La giovane, rapita a Chakama, in Kenya, la sera del 20 novembre 2018 e liberata il 9 maggio 2020, si è trasferita in un piccolo comune alle porte del capoluogo lombardo, lontano da giornalisti, fotografi e curiosi. È passato un anno dal giorno della liberazione, arrivato dopo un complesso lavoro d' intelligence e il pagamento di un riscatto, e tutta la famiglia di Silvia Aisha, riporta La Stampa, ha lasciato la città. Silvia ora ha 26 anni e insegna in una scuola per adulti le lingue straniere (si era laureata poco prima di partire per l'Africa) ed è felice, secondo quanto racconta chi è molto vicino alla famiglia. Soprattutto, ha trovato l'amore. Silvia infatti si è sposata, con rito islamico, il 5 ottobre scorso a Campegine, un piccolo centro a metà strada tra Milano e Bologna, tra la sua casa e quella del marito, Paolo P., ragazzo italiano di origini sarde che all' epoca viveva proprio lì, in Emilia Romagna, e che si è convertito anche lui all'islam. Silvia e Paolo in realtà si conoscono da quando erano bambini. Da piccoli giocavano sempre insieme. Poi si erano persi. E avevano seguito strade diverse. Fino a quel 9 maggio, quando Silvia è tornata a casa. Paolo, a quel punto, l'ha cercata e l'ha trovata. Hanno cominciato a frequentarsi e si sono innamorati. Per amore lui ha abbracciato la fede di Silvia e ha così potuto sposarla. Ma tutto è avvenuto in gran segreto, senza feste né cerimonie, soltanto pochi intimi.  

Monica Serra per “la Stampa” il 7 maggio 2021. In questo palazzo dai muri ingialliti al Casoretto, periferia multietnica a nord est di Milano, non c'è più neanche mamma Francesca. Mentre lei, Silvia Aisha Romano, liberata l'anno scorso dopo diciotto mesi di prigionia in Somalia, ha scelto di tornare alla vita andando ad abitare lontano dalle polemiche, dalla città. E si è sposata. Le tapparelle marroni dell'appartamento al terzo piano del palazzo sono state tirate giù per l'ultima volta. E non per tenere lontani giornalisti e curiosi che per giorni si sono affollati sotto casa di Silvia, rapita a Chakama, in Kenya, la sera del 20 novembre 2018. Non ci sono più, e per fortuna, gli hater e i troll che hanno perseguitato la volontaria gracile, dagli occhi gentili, per giorni e mesi dopo la sua liberazione, il 9 maggio del 2020. Che l'hanno accusata per via della conversione all'Islam, per il suo jilbab verde (abito tradizionale somalo), per i soldi che l'Italia avrebbe pagato per il riscatto, forse anche per il suo sorriso. L'hanno sommersa di odio e cattiveria e fatta finire sotto "tutela" a casa sua, spingendo anche la procura ad aprire un'inchiesta. È passato un anno da quel sabato pomeriggio di nuvole e sole, il giorno della liberazione, arrivato dopo un lungo e complesso lavoro d' intelligence e con la collaborazione dei servizi turchi. E la famiglia, tutta, ha deciso di allontanarsi da Milano per ricominciare a vivere. Ancora chiusa nel più stretto riserbo, ha finalmente trovato la serenità che cercava, lontano dalle offese e dalle telecamere. Ognuno per la sua strada, in città e regioni diverse, a partire da lei, Silvia Aisha (che significa "viva": il nome scelto dopo la conversione). Oggi ha ventisei anni, vive distante da sguardi indiscreti in un paese alle porte di Milano, insegna in una scuola per adulti le «adorate» lingue straniere (si era laureata poco prima di partire per l'Africa), ed è felice. Di una «felicità piena», racconta chi è molto vicino alla famiglia. Ha trovato l'amore Silvia e si è sposata, con rito islamico, il 5 ottobre scorso. A Campegine, un piccolo centro di cinquemila anime, a metà strada tra Milano e Bologna, tra la casa di Silvia e quella del marito, Paolo P., un ragazzo italiano di origini sarde che all' epoca viveva proprio lì, in Emilia Romagna. E che, prima di sposarla, si è convertito all' Islam e ha abbracciato anche la sua fede. Una «storia da favola su cui si potrebbe girare un film», racconta chi le vuole bene. Perché Silvia e Paolo, suo coetaneo, sono amici da quando erano bambini. Da piccoli giocavano sempre insieme. Poi la vita li ha divisi ed entrambi hanno intrapreso la propria strada. Fino a quel 9 maggio, al ritorno a casa di Silvia. La sua storia, il clamore mediatico, le foto ovunque. Così Paolo, con tutto l'affetto che accompagnava i ricordi dell' infanzia, ha provato a rimettersi in contatto con lei. E ci è riuscito. Hanno iniziato a sentirsi, a frequentarsi. Dopo tanti anni, si sono ritrovati. E innamorati. Lui si è convertito, ha abbracciato la stessa fede che Silvia Aisha racconta nell' unica intervista affidata a luglio a Davide Piccardo, esponente della comunità islamica milanese e direttore del sito "La luce", e ha potuto sposarla. In gran segreto. Senza feste e cerimonie. Con pochi, pochissimi intimi. Ora vivono insieme, lontano da tutto quel che è stato. «Rinati», dopo una sofferenza che tutta la famiglia ha vissuto per più di cinquecento giorni, mentre Silvia era nelle mani del pericoloso gruppo terroristico di Al Shabab, affiliato ad al Qaeda. Ceduta dal commando armato di pastori kenioti di etnia somala che l'avevano rapita alle sette e mezza della sera del 20 novembre di tre anni fa. Era una domenica di pioggia e Silvia era arrivata da una decina di giorni a Chakama, a fare la volontaria per Africa Milele, una piccola associazione, troppo poco strutturata e che non adottava le giuste misure di sicurezza, nata per aiutare i bambini del villaggio, a ottanta chilometri a ovest di Malindi. Non aveva esperienze di cooperazione internazionale Silvia, né una formazione specifica. Eppure Lilian Sora, fondatrice dell'associazione, era tornata a Fano, dove vive, nelle Marche, e l'aveva lasciata lì come referente italiano sul posto, a gestire l'economia della Onlus. Con lei c'era un masai keniota, compagno di Sora e padre di sua figlia. Ma quando arrivarono i rapitori armati di kalashnikov non c'era nessuno. A causa del cambio di guardia, hanno poi spiegato. La ragazza è stata trascinata via, portata al di là del confine, costretta a cambiare almeno tre covi diversi, tenuta prigioniera dai terroristi. Recenti servizi delle Iene hanno messo in dubbio tempi e modalità della liberazione, condotta dall' Aise, con l'aiuto delle forze locali. Mai si è saputo se l'Italia ha pagato un riscatto per ottenere il rilascio. E con sicurezza mai si saprà. Quel che è certo è che ora Silvia sta bene ed è felice. Sogna di poter un giorno tornare in Africa ad aiutare i suoi amati bambini. Ma per ora non ci pensa, «sa che sua madre morirebbe di paura», spiegano fonti vicine alla famiglia. Quel che spiace è che, per ricominciare davvero, è dovuta andare via dalla sua casa, dalla sua città. Lontano dagli odiatori seriali che l'avevano presa di mira. Messa in pericolo, qui, in Italia. Nonostante loro, nonostante tutto, oggi «il suo sorriso è più bello di quello di prima».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'8 maggio 2021. Ha cambiato nome, religione e status. Silvia Romano è diventata Aisha, ha abbracciato la fede musulmana e da qualche mese, come fa sapere La Stampa, ha sposato con rito islamico un altro italiano, un amico di infanzia a sua volta convertitosi all' islam. E così ha aderito a pieno alla cultura che pure l'aveva resa prigioniera: in Africa Silvia era stata ostaggio per 18 mesi dagli islamisti di Al Shabaab. Più che una sindrome di Stoccolma, una sindrome de La Mecca. Silvia Aisha Romano con i famigliari a Ciampino dopo il rientro in Italia seguito a mesi in cui la ragazza era stata sequestrata da jihadisti in Africa Il racconto della sua nuova vita a un anno dalla liberazione è interessante innanzitutto per le modalità con cui sarebbe avvenuto il matrimonio. «Le nozze con rito islamico in Italia contratte da due italiani», ci fa notare Souad Sbai, presidente dell'associazione Donne marocchine in Italia, «non hanno alcun valore. Per alcuni serve a fare propaganda, ma al più si tratta di una benedizione, priva di effetti giuridici, perché non esiste alcun concordato tra lo Stato e la comunità musulmana, né l'imam ha la facoltà di conferire effetti civili al rito». Ma proprio perché non valido per le nostre leggi, questo matrimonio rischia di essere preoccupante e «pericoloso»: «È una cosa senza precedenti. Alcuni vorrebbero utilizzarlo come un tentativo di creare uno Stato nello Stato, una specie di piccolo Stato islamico». Anche considerando le ricadute di ciò che un matrimonio islamico comporterebbe per una donna, c' è poco da stare allegri. Le nozze musulmane prevedono la figura di un tutore, una sorta di notaio, incarnato di solito dal padre o dal fratello della sposa, che dà il consenso alle nozze: la morte dell'autodeterminazione femminile. «Anche Silvia Romano», nota la Sbai, «se ha seguito quel rito, deve aver avuto un tutore». Ci sono poi questioni legate ai diritti economici, lavorativi e umani della donna. «Nel matrimonio islamico», spiega la Sbai, «l'eredità che spetta a una moglie è la metà rispetto all' uomo. Quanto all' obbligo per il marito di mantenere la moglie, che non dovrebbe lavorare ma limitarsi a curare i figli e la casa, esso è presente in alcune associazioni islamiche in Italia che vogliono riportare la società al Medioevo». Quanto poi al ricorso alla violenza domestica verso le mogli insubordinate, legittimato da un versetto del Corano («Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele»), la Sbai riconosce: «Molte comunità musulmane in Italia seguono ancora alla lettera queste cose di tradizione. In Paesi come il Marocco viceversa questa regola è considerata assurda». Ma la mancata equità delle nozze islamiche in termini di diritti uomo-donna è evidente anche nella possibilità di avere altre relazioni (la poligamia vale per il marito, non per la moglie) e si palesa in caso di rottura del matrimonio: secondo il Corano solo l'uomo può ripudiare la donna, pronunciando una formula verbale (Taláq Taláq Taláq). «Anche in questo caso», avverte la Sbai, «ci sono in Italia imam radicali che vorrebbero introdurre il ripudio e la poligamia, pur rifiutati dallo Stato». Contraendo queste nozze, sebbene prive di effetti giuridici, la Romano si esporrebbe insomma a una possibile limitazione dei propri diritti. L' ultimo aspetto da notare è il clamore sulle sorti della Romano che contraddice «la sua esigenza di sottrarsi all' attenzione morbosa dei media», come la definiscono i giornali. Se ci fosse stata tutta questa voglia di sottrarsi ai riflettori, le fonti vicine alla famiglia non avrebbero lasciato trapelare gli affari privati di Silvia, dai dettagli sul suo matrimonio (si è sposata in Emilia Romagna con Paolo, coetaneo che non vedeva da bambina, una «storia da favola su cui si potrebbe girare un film»), fino a quelli sulla sua professione di insegnante di lingue straniere e sul suo trasferimento in un paese vicino a Milano. «Vuole essere dimenticata e lasciata in pace», dice chi le è vicino. Be', questo non è parso il modo migliore per farla tornare all' anonimato.

Quel mistero su Silvia Romano: chi c'è dietro la sua liberazione. Matteo Viviani e Le Iene continuano a indagare sul caso della liberazione di Silvia Romano e sull'uomo che potrebbe aver avuto un ruolo chiave. Francesca Galici - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Matteo Viviani e Le Iene sono tornati a occuparsi del caso del rapimento di Silvia Romano, concentrando le loro energie sulla figura di Valter Tozzi. L'uomo risulta essere un geometra rietino ed è molto noto nella sua città ma la sua figura pare sia stata centrale nelle operazioni di liberazione della connazionale, rapita in Kenya nel 2018. Lo dimostrerebbero alcune telefonate che, stando a quanto rivela il testimone ascoltato da Le Iene, sarebbero intercorse tra lui e Valter Tozzi. In quest'occasione, quello che dovrebbe essere il geometra, parlava per interposta persona a nome di Giuseppe Conte, rivelando alcuni dettagli sulla liberazione e il rapimento. La registrazione della telefonata risalirebbe al dicembre 2018. Dettagli che, stando alla ricostruzione effettuata da Viviani, potrebbero coincidere con altre dichiarazioni effettuate in momenti successivi da Luigi Di Maio e Giuseppe Conte. Tuttavia, in un servizio successivo, Valter Tozzi ha negato di essere in qualche modo coinvolto nella vicenda, di non aver mai messo piede in Kenya e che tutto quello non era altro che una goliardata. Sarebbe tutto uno scherzo, quindi? Valter Tozzi a Le Iene ha dato questa versione dei fatti ma nel servizio in onda pochi giorni fa, Matteo Viviani ha mostrato numerose immagini che mostrano il geometra, ripreso e fotografato, ad alcuni dei più importanti eventi istituzionali che si sono svolti nel nostro Paese. Sono diverse le immagini mostrate da Matteo Viviani. Matteo Viviani, quindi, ha documentato la testimonianza di un compaesano di Valter Tozzi, che lo avrebbe incontrato durante la compravendita di un immobile da un alto graduato militare. In quell'occasione si presentò come geometra ma, una volta in casa, l'uomo ha rivelato che Tozzi gli avrebbe mostrato il tesserino dei Servizi segreti e che si sarebbe qualificato proprio come appartenente al corpo di intelligence. Una sbruffonata? Una chiacchiera? Tuttavia, nel servizio de Le Iene è stato riportata anche la testimonianza del fratello di Valter Tozzi. I due non hanno buoni rapporti e tra loro intercorrono diverse denunce ma l'uomo ha dichiarato che delle sue contro Valter non c'è traccia nei tribunali dove dovrebbero trovarsi. Inoltre, il fratelli del geometra ha raccontato che in più occasioni avrebbe dato un passaggio a suo fratello Valter, che avrebbe portato con sé l'uniforme dei carabinieri, che una volta avrebbe avuto i gradi da generale. Rincorso da Matteo Viviani, Valter Tozzi si è sottratto alle domande de La Iena ma, prima di allontanarsi definitivamente, si rivolge a lui con una frase precisa: "Non posso farti capire a te. Avete toccato un tasto che non è per voi". La liberazione di Silvia Romano è ancora avvolta dal mistero.

GIORNATA DELLA MEMORIA DEI CADUTI DELL’INTELLIGENCE ITALIANA. Franco Gabrielli, prefetto e sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega ai Servizi Segreti, su Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2021. Messaggio dell’Autorità Delegata per la sicurezza della Repubblica. Il 22 marzo è la giornata in cui la Comunità di intelligence nazionale celebra i propri Caduti. Ed è per me una data particolarmente significativa. In primo luogo perché un tratto importante della mia esperienza professionale si è svolto proprio nel mondo dell’intelligence. Ma, elemento ancor più importante, perché ho conosciuto personalmente uno dei nostri caduti, Nicola Calipari, cui mi legava una profonda stima. E sono addolorato che la grave pandemia, che ancora oggi attanaglia il nostro Paese, non ha reso possibile attribuire a questa ricorrenza il valore che avremmo voluto conferirle. Una giornata che condensa in sé molteplici significati. E’, innanzitutto, l’occasione per ribadire la nostra gratitudine a Vincenzo Li Causi, Nicola Calipari, Lorenzo D’Auria e Pietro Antonio Colazzo, che hanno compiuto il sacrificio estremo, anteponendo il servizio alla Nazione alla loro stessa vita. Ma è anche l’occasione per abbracciare idealmente le famiglie dei caduti, che hanno pagato il prezzo più alto e ancora oggi vivono il vuoto di una ingiusta sottrazione. Ma coloro che hanno vissuto il dolore profondo della perdita di un proprio congiunto, caduto in Paesi lontani per difendere con altruismo ed abnegazione gli ideali in cui credeva, deve essere consapevole che la sua memoria non andrà persa: costituisce la straordinaria eredità morale che guida il nostro agire. Per tutti gli appartenenti al DIS, all’AISE, all’AISI, e, più, in generale al Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica il nostro quotidiano lavoro si alimenta del loro esempio. Ne è riprova l’afflato che percorre l’intera Comunità intelligence nella Giornata della Memoria: un sentimento corale che vuole essere un sincero omaggio ai quattro Caduti, in una Giornata che vede quest’anno anche il varo di un’iniziativa volta a ricordare il percorso umano e professionale di Pietro Antonio Colazzo attraverso l’indizione di un Premio a lui intitolato. Una memoria, dunque, che non è solo patrimonio esclusivo delle donne e degli uomini dei nostri Organismi informativi, ma diviene patrimonio di tutta la comunità nazionale. La testimonianza di vita di Vincenzo Li Causi, Nicola Calipari, Lorenzo D’Auria e Pietro Antonio Colazzo è un luminoso punto di riferimento che orienta ogni giorno noi tutti, spronandoci ad affrontare con coraggio le difficoltà del nostro tempo.

(ANSA il 22 febbraio 2021) L'ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista congolese Mustapha Milambo sono stati uccisi mentre viaggiavano a bordo di un convoglio del Pam, il Programma alimentare mondiale dell'Onu, nella Repubblica democratica del Congo. Nel Paese africano opera dal 1999 anche la Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), la più importante missione di peacekeeping nel mondo, con circa 15mila caschi blu. Il suo mandato è stato rinnovato a dicembre per un altro anno dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Pakistan, India e Bangladesh sono i Paesi che contribuiscono maggiormente al contingente militare. L'attacco di oggi è avvenuto mentre la delegazione si recava da Goma a Rutshuru per ispezionare un programma del Pam per la distribuzione di cibo nelle scuole. La strada era stata precedentemente controllata e dichiarata sicura per essere percorsa anche "senza scorte di sicurezza", ha fatto sapere il Programma alimentare mondiale in una nota.

(ANSA il 22 febbraio 2021) "Sono devastato dalla morte dell'ambasciatore Luca Attanasio". Lo ha detto il vice rappresentante speciale del segretario generale e capo della missione Onu in Congo (Monusco), David McLachlan-Karr, il quale ha "condannato fermamente" l'attacco al convoglio del Pam. "I responsabili di questo attacco devono essere identificati e perseguiti con la massima determinazione", ha aggiunto.

(ANSA il 22 febbraio 2021) Sono due, entrambi del Programma alimentare mondiale (Pam), i veicoli presi di mira oggi nell'attacco nella Repubblica democratica del Congo in cui sono rimasti uccisi l'ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e un autista dello stesso Pam. Lo ha detto il rappresentante aggiunto del segretario generale dell'Onu nel Paese, David McLachlan-Karr, che "condanna con la più grande fermezza" l'episodio. L'attacco è avvenuto a nord-est di Goma.

(ANSA il 22 febbraio 2021) Vittorio Iacovacci, morto in un attacco in Congo assieme all'ambasciatore Luca Attanasio e all'autista, era fidanzato e stava programmando le nozze per questa estate. Nella frazione di Sonnino dove abitava tutti lo conoscevano. In molti, tra amici e parenti, si stanno stringendo in queste ore ai genitori, al fratello e alla fidanzata del carabiniere con un via vai silenzioso dalla loro abitazione.

Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2021. Ore 10,15, villaggio di Kibumba, tre chilometri da Goma. Nella savana più pericolosa del più pericoloso Paese africano, avanzano due jeep bianche. Davanti c' è una missione del World Food Programme, dietro c'è l' ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio: l'accompagna un funzionario italiano del Wfp, Rocco Leone, e lo scorta un carabiniere, Vittorio Iacovacci. Due autisti, due bodyguard congolesi, sette persone in tutto: un piccolo e discreto convoglio, solo i distintivi Onu sulle portiere. È una missione informale, l'addetto consolare Alfredo Russo doveva parteciparvi ma all' ultimo è rimasto a casa. L'ambasciatore ha passato la domenica da un amico saveriano, padre Franco Bordignon, e ora in sneaker e occhiali scuri va a Rutshuru per visitare una scuola che deve ricevere aiuti alimentari. Nessuno porta l'auricolare di sicurezza, non ci sono ponti radio d'allerta, la strada è considerata «pulita» e relativamente sicura. L'agguato è rapido. Simile a tanti da queste parti: un mucchio di pietre nel mezzo della strada Rn4, le macchine costrette a rallentare, a frenare. Dalla boscaglia spuntano sei, forse sette uomini con armi leggere. All' inizio è una raffica d' avvertimento, verso l' alto. Un'altra mira subito alla macchina del diplomatico e uccide l'autista, Mustafa Milambo. L'ambasciatore Attanasio, Rocco Leone e il carabiniere Iacovacci vengono fatti scendere: sono loro l'obbiettivo, i bianchi. I banditi danno ordini in swahili ai tre italiani - «fate presto, camminate veloci!» -, ma parlano fra loro in kinyarwanda: è una lingua ruandese comune tanto tra i fuorusciti hutu delle Fdlr, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, quanto fra jihadisti ugandesi Adf che vantano legami con l'Isis e imperversano in questi confini del Congo. Di chiunque si tratti, è un tentativo di rapimento: si intavola una trattativa ma inutilmente. L'ambasciatore e il carabiniere, già feriti, vengono fatti camminare per qualche decina di metri. Poi la sorpresa, almeno secondo la versione ufficiale di Kinshasa: compaiono dal nulla i soldati e i ranger governativi, richiamati dai colpi dei banditi, e c' è una sparatoria. Non si sa bene chi ammazza chi. Il carabiniere Iacovacci, 30 anni, latinese di Sonnino, muore subito. L' ambasciatore Attanasio, 43 anni, brianzolo di Limbiate, moglie e tre bambine, è colpito all' addome e perde molto sangue. Lo caricano su un pick-up, la bodyguard di Leone gli tiene la testa: quando arriva all' ospedale di Goma, una ventina di chilometri di strada, non c' è più nulla da fare. Rocco Leone finisce ricoverato, sotto choc, ma senza ferite. Non è chiaro che ne sia degli altri del convoglio: secondo alcune fonti sarebbero stati rapiti. È ancora meno chiaro che cosa cercassero i killer. Soldi? Un'azione terroristica? O magari un' arma di ricatto sugli investimenti energetici, anche italiani, nel Nord Kivu? L' ambasciatore Attanasio non aveva un' auto blindata. Non aveva una vera scorta. Non indossava un giubbotto antiproiettile. Non c' erano bandierine italiane che ne identificassero la presenza. I congolesi e l' Onu gli avevano garantito che quella strada era tranquilla. E allo stesso tempo il governatore della regione, Carly Nzanzu Kasivita, ora dice di sentirsi «sorpreso» dalla missione e di non esserne stato informato in anticipo. Troppe cose non tornano. E chi e perché abbia ucciso l' ambasciatore - questo è chiaro dal primo istante -, non è solo materia d' indagine per la polizia congolese. I Ros sono già in volo per il Congo, la Procura di Roma ha aperto il fascicolo di rito. La Farnesina chiede un report dettagliato al Wfp e un' inchiesta Onu per chiarire su quali basi, la Rn4 fosse ritenuta sicura. Le domande sono da rivolgere alla già fin troppo criticata missione Monusco, qui dal 1999, oggi una delle più grandi e organizzate del mondo, un miliardo di dollari di budget, un' inefficacia assoluta coi suoi 16mila caschi blu: è stata l' Onu, attraverso il Wfp, a comunicare all' ambasciata italiana che non serviva una scorta armata. E questo nonostante in quell' area, chiamata «le Tre Antenne», tre anni fa siano stati rapiti due turisti inglesi. E nel parco Virunga, solo negli ultimi anni, siano stati uccisi duecento ranger. E sulla famosa strada 2 che attraversa il paradiso dei gorilla di montagna sia frequente che spariscano preti, contadini, volontari in cambio di riscatti da mezzo milione di dollari. Un aereo militare riporterà a casa le salme dei due italiani. Come accadde per gli aviatori di Kindu, sessant' anni fa. Come fu nel 1995 per sei volontari di Lecco, massacrati allo stesso modo e nello stesso posto: una banda li sorprese a Rutshuru, proprio il villaggio che Attanasio cercava di raggiungere, e dopo ucciso l' autista sparò sugli altri. Morirono anche due bambini, quella volta. Proprio lì, proprio in quel modo. Ma quasi tutti se li sono dimenticati.

Vincenzo Nigro  e Raffaella Scuderi per repubblica.it il 22 febbraio 2021. L'ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci, il carabiniere della sua scorta, e Mustapha Milambo, l'autista, sono stati uccisi in un attacco a un convoglio delle Nazioni Unite nel Congo orientale. L'attacco sembra facesse parte di un tentativo di rapire il personale Onu. L'ambasciatore viaggiava in un convoglio formato da due veicoli del World Food Programme  che comprendeva anche il Capo Delegazione Ue: a bordo c'erano in tutto 7 persone. Sentiti gli spari che annunciavano l'agguato, immediatamente i rangers di Virunga hanno lanciato un'operazione e si sono resi conto che il diplomatico e il militare erano stati rapiti: ma non sono riusciti a salvarli. La strada su cui è avvenuto l'attacco è stata ritenuta "sicura" e quindi senza necessità di scorta. A questo proposito il Wfp ha detto che "il convoglio era stato autorizzato senza scorta di sicurezza". Tutto è successo intorno alle 10 (le 9 italiane) presso la cittadina di Kanyamahoro. Sono molti i gruppi armati che operano nella zona dei monti Virunga, fra Congo, Ruanda e Uganda, e spesso prendono di mira i ranger del parco, famoso per i gorilla di montagna. Fonti sostengono che la milizia responsabile appartenga ai ribelli ruandesi, che superano il confine per rubare, uccidere e rapire. Il corpo di Iacovacci è stato l'ultimo a essere evacuato dalla foresta scenario dell'attacco. Durante lo scontro a fuoco con i ranger del Virunga, il nostro ambasciatore è rimasto colpito e i ribelli hanno iniziato a scappare portando con sé Iacovacci. Dopo un chilometro e mezzo circa hanno ucciso il carabiniere lasciando lì il corpo, poi raggiunto da esercito e ranger.

Le reazioni. Sgomento e dolore in Italia e in Europa. "Ho accolto con sgomento la notizia del vile attacco che poche ore fa ha colpito un convoglio internazionale nei pressi della città di Goma uccidendo l'ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. La Repubblica taliana è in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell'adempimento dei loro doveri professionali nella Repubblica Democratica del Congo". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio di cordoglio al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime profondo cordoglio per la morte di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci". Così si legge in una nota di palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio e il governo "si stringono ai familiari, ai colleghi della Farnesina e dell'Arma dei Carabinieri. La Presidenza del Consiglio segue con la massima attenzione gli sviluppi in coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri".

"Immenso dolore" è stato espresso dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Unico diplomatico italiano a Kinshasa, l'ambasciatore Attanasio, era nato a Saronno (Varese) nel 1977 e si era laureato alla Bocconi in economia aziendale, entrando in diplomazia nel 2004. Esperienze a Berna, al consolato generale in Casablanca e poi Abuja, in Nigeria, era ambasciatore a Kinshasa dal settembre 2017. "Con tutti i ministri degli Esteri Ue, abbiamo espresso la nostra vicinanza al ministro Luigi Di Maio e all'Italia, per la morte di tre persone nella Repubblica Democratica del Congo, fra cui l'ambasciatore italiano Luca Attanasio. Restiamo determinati a continuare a combattere contro ogni violenza nella regione", ha detto l'Alto rappresentante Ue, Josep Borrell.

Congo, muoiono in un’imboscata l’ambasciatore italiano Attanasio e il carabiniere Iacovacci. I terroristi sapevano che non c’era scorta. Gli assalti armati nella regione sono numerosi. Ma la strada percorsa dai fuoristrada delle Nazioni Unite era considerata sicura. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 22 febbraio 2021. Qualche voce ha parlato troppo lungo la rotta che l'ambasciatore italiano, Luca Attanasio, 43 anni, e il carabiniere, Vittorio Iacovacci, 30, stavano percorrendo la mattina di lunedì 22 febbraio, ai confini orientali della Repubblica Democratica del Congo. I terroristi sapevano che sulla pista principale del parco nazionale dei Virunga, a nord della città di Goma, sarebbe transitato un piccolo convoglio del World Food Programme, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, con i rappresentanti dell'Unione Europea che avrebbero voluto rapire. I fuoristrada bianchi con il logo azzurro non passano inosservati su quei percorsi di terra battuta in mezzo alla foresta, nella regione del Nord Kivu che segna la frontiera con il Ruanda e l'Uganda. L'ambasciatore Attanasio, il carabiniere Iacovacci, originario di Sonnino in provincia di Latina e in forza al 13° Reggimento “Friuli Venezia Giulia” di Gorizia, e il loro autista, Mustapha Milambo, sarebbero stati uccisi dagli uomini del commando, messo in fuga dal successivo intervento dei soldati congolesi e dei ranger armati del parco. La dinamica dell'imboscata verrà chiarita nelle prossime ore. Ma non c'è dubbio che un bilancio così pesante per la diplomazia internazionale e per i piani delle Nazioni Unite, presenti in zona con la missione multinazionale di stabilizzazione “Monusco”, rivelino una grave falla nell'organizzazione del viaggio. Il convoglio, formato soltanto da due fuoristrada, non era infatti protetto da una scorta militare perché il percorso era considerato sicuro. Un'informazione che, molto probabilmente, era arrivata anche ai terroristi. La meta era a circa settanta chilometri a nord di Goma, nell'abitato di Rutshuru. Una distanza che, se non piove, si percorre in due ore e un quarto. La delegazione avrebbe dovuto visitare uno dei progetti di alimentazione scolastica con cui le Nazioni Unite, garantendo una maggiore sicurezza alimentare e sanitaria, puntano ad aumentare la presenza in classe. L’ambasciatore Luca Attanasio, originario di Limbiate in provincia di Monza e Brianza, padre di tre bimbe piccole e sposato con Zakia Seddiki, fondatrice di un'associazione di aiuto alle donne africane, sarà ricordato per il suo impegno per la pace e il sostegno ai progetti per la popolazione delle zone più povere del Congo. Ma l'attacco che ha subito è ordinaria quotidianità nella regione orientale. La vicinanza con l'Uganda, la presenza nel sottosuolo di terre rare ricercate dall'industria digitale e, soprattutto, i duemilacinquecento chilometri di distanza dalla capitale Kinshasa, raggiungibile soltanto in aereo, hanno favorito l'infiltrazione nelle zone a nord e a sud di Goma di una costellazione di eserciti privati. Oltre al coltan, la miscela di columbite e tantalite con cui si producono i condensatori di cellulari e computer, la Repubblica Democratica del Congo estrae la maggior parte del fabbisogno mondiale di cobalto, materia prima per il funzionamento delle batterie che muovono le auto elettriche di ultima generazione. L'ingresso sempre più ingombrante della Cina nei rapporti con Kinshasa, dal 2008 a oggi, sta spiazzando i signori della guerra che spesso sono loro stessi trafficanti o proteggono i traffici di materie prime. Il conflitto civile nelle regioni orientali del Congo non è quindi l'effetto di uno scontro etnico, come è spesso rappresentato, ma l'influenza di forze esterne al Paese. Il portale “Kivu security tracker”, nato da una collaborazione tra Human Rights Watch e il Centro di cooperazione internazionale dell'Università di New York, calcola un bilancio di 9973 vittime negli ultimi tre anni, 3721 attacchi, 5573 rapimenti e altri 4226 morti per aggressioni, rapine, violenze sessuali, riferibili direttamente o indirettamente alle incursioni delle bande armate che infestano il territorio. L'osservatorio ha infatti registrato l'attività di quarantacinque organizzazioni terroristiche nel Nord Kivu, tra le città di Goma e Beni, dove l'ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci sono stati uccisi. E di altre sessantaquattro nel Sud Kivu. Alcune di queste, come le Allied Democratic Forces (Adf), fuorilegge sia in Uganda sia in Congo, si ispirano al jihadismo. Il loro fondatore Jamil Mukulu, alias David Steven, 57 anni, è un ex cattolico ugandese. Si è avvicinato all'estremismo islamista in Kenia, dove ha studiato economia, e si è radicalizzato dopo un periodo di indottrinamento in Arabia Saudita. Mukulu è stato arrestato sei anni fa in Tanzania e da allora il gruppo armato è comandato dal suo vice, Musa Seka Baluku, 43 anni, un altro fanatico che ha dichiarato di ispirarsi ai terroristi iracheni dello Stato islamico e ai fanatici africani di Al-Shabaab in Somalia e di Boko Haram in Nigeria. Il gruppo Adf è il principale sospettato dalle autorità di Kinshasa. Poche ore dopo l'omicidio dell'ambasciatore italiano, del carabiniere di scorta e del loro autista, un altro attacco è stato messo a segno a Kasindi, un posto di frontiera lungo una delle strade che portano al lago Vittoria in Uganda. Sempre secondo gli osservatori di “Kivu Security Tracer”, l'organizzazione di Musa Seka Baluku ha ucciso due uomini e tre donne il 7 febbraio vicino alla città di Beni e altre quattordici persone nel villaggio di Mabule il 5 febbraio. A volte le tensioni sfociano in sanguinose battaglie perfino tra i componenti delle stesse bande. Una situazione di caos che nella regione, proprio come sta accadendo in questi giorni, favorisce la propagazione di nuovi focolai del virus ebola. E da decenni condanna la verde Repubblica Democratica del Congo, sospesa tra una natura generosa e una corruzione galoppante, a essere una delle nazioni più affamate al mondo.

Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, una morte terribile. Senza auto blindata, portati nella foresta dai ribelli. "L'Onu ce li ha sulla coscienza". Libero Quotidiano il 22 febbraio 2021. Passato lo sgomento iniziale per la morte di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, sono molte le domande scottanti sulla triste vicenda dei due italiani uccisi brutalmente mentre stavano viaggiando su un convoglio dell'Onu in Congo, diretti a un evento del "Programma alimentare mondiale". Dagospia è il primo a porsele, non nascondendo un velo di polemica: "Qualcuno al palazzo di vetro di New York dovrà rispondere della loro morte. Come mai le Nazioni Unite non hanno fornito un'auto blindata, o garantito una scorta al diplomatico italiano?". La strada era stata precedentemente controllata e dichiarata sicura per essere percorsa anche senza scorte di sicurezza, ha fatto sapere il Programma alimentare mondiale in una nota ufficiale. Resta il fatto che era nota quella zona per la presenza di diversi gruppi armati che spesso prendono di mira i ranger del parco: fonti sostengono che la milizia responsabile appartenga ai ribelli ruandesi, che superano il confine per rubare, uccidere e rapire. L'ambasciatore Attanasio pare sia stato raggiunto da colpi di arma da fuoco, mentre il carabiniere Iacovacci sarebbe stato preso dai ribelli, che dopo un chilometro e mezzo circa lo avrebbero ucciso, lasciando il corpo nella foresta. "E' questo il modo di proteggere il personale diplomatico in una zona che da 15 anni è epicentro dell'instabilità del Congo?", si chiede ancora Dagospia. Il quale tra l'altro fa notare che questo potrebbe essere il terzo "contenzioso" con l'Onu nel giro di un anno e mezzo: ancora si attendono notizie su Mario Paciolla - trovato morto il 15 luglio 202 in Colombia - e su Francesco Zambon - il ricercatore che ha ricevuto pressioni dall'Oms per il rapporto critico sulla gestione italiana del Covid. "Speriamo di non dover aspettare altri mesi per sapere la verità sul decesso dei due cittadini italiani in Congo, morti mentre dovevano essere tutelati proprio dalle Nazioni Unite", è la chiosa di Dagospia. 

DAGONEWS il 22 febbraio 2021. Al momento sembra quasi certo che i responsabili materiali della morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci in Congo siano uomini delle “forze democratiche per la liberazione del Ruanda”, il “Fdlr-Foca”. Ma qualcuno dovrà rispondere anche al palazzo di Vetro di New York, dove come minimo ci dovrà essere un’indagine interna per stabilire cosa accaduto. Attanasio stava viaggiando su un convoglio dell’ONU, diretto a un evento del Programma alimentare mondiale (il World Food Programme). Come mai le Nazioni Unite non hanno chiamato un’auto blindata, o garantito una scorta minima al diplomatico italiano? Mentre i vertici delle istituzioni europee hanno manifestato il loro cordoglio, le Nazioni Unite hanno fatto parlare il vice rappresentante speciale del segretario generale - capo della missione nel paese africano - David McLachlan-Karr. Per ora nessuna dichiarazione da parte del segretario generale Antonio Guterres. Oggi era troppo impegnato a parlare di suprematisti, neonazisti e della repressione in Birmania per fare uno statement  sui due italiani morti in Congo. Se l’Italia farà sentire la propria voce, sarebbe il terzo “contenzioso” con l’ONU in un anno e mezzo. Stiamo ancora aspettando la verità sul collaboratore delle nazioni unite Mario Paciolla, trovato senza vita il 15 luglio 2020 in Colombia. Per quella vicenda sono stati indagati i poliziotti locali che hanno permesso alla Missione di Verifica delle Nazioni unite di raccogliere gli effetti personali del giovane italiano e di ripulire il suo appartamento, cancellando eventuali prove. Stiamo ancora aspettando la verità sulle pressioni dell’OMS (altra agenzia ONU) al ricercatore Francesco Zambon, uno degli autori del rapporto critico sulla gestione italiana del Coronavirus. Speriamo di non dover aspettare altri mesi per sapere la verità sul decesso dei due cittadini italiani in Congo, morti mentre dovevano essere tutelati proprio dalle Nazioni Unite.

Marco Di Liddo per "Centro Studi Internazionale" il 22 febbraio 2021. L’uccisione dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio, avvenuta il 22 febbraio ad alcune decine di chilometri da Goma, capitale del North Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) al confine con il Ruanda, ha improvvisamente riacceso l’attenzione internazionale su uno dei focolai di conflitto piu violenti, complessi e duraturi di tutto il continente africano. Da oltre 15 anni, infatti, il North Kivu è uno degli epicentri dell’instabilità nazionale congolese, nonche il luogo dove si è manifestata con maggiore intensità sia la Seconda Guerra del Congo (1998-2003) che i conflitti irrisolti da essa derivata, come la guerra del Kivu (2004 – 2007), l’insurrezione del Movimento 23 Marzo (2012-2013) e dell’Alleanza delle Forze Democratiche (AFD, 2017-2021). Nonostante l’enorme ricchezza naturale e mineraria, il North Kivu è una delle regioni più povere, sottosviluppate e fragili del Paese, dove le vulnerabilità sociali rappresentano il principale incentivo alla feroce conflittualità etnico-settaria. Oltre 20 gruppi etnici e relative milizie armate combattono contro le Forze governative, i Caschi Blu della missione ONU MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) e le une contro le altre per il controllo del territorio e delle sue risorse, in particolare quelle agricole e minerarie. Su tutte, oro, pietre preziose e minerali per l’industria ad alta tecnologia (coltan). La dinamica principale degli scontri inter-etnici vede opposti i movimenti armati Tutsi, presumibilmente sostenuti dal vicino governo ruandese, e le bande Hutu, che usufruiscono del sostegno finanziario e logistico del Burundi. In entrambi casi, il coinvolgimento più o meno diretto dei due Paesi della regione dei Laghi e motivato dalla volontà di destabilizzare la Repubblica Democratica del Congo ed utilizzare le milizie etniche per controllare i traffici illeciti di oro, diamanti e minerali per l’industria ad alta tecnologia. In questo contesto, negli ultimi 4 anni e cresciuto esponenzialmente il ruolo dell’Alleanza delle Forze Democratiche, una milizia multietnica (con sostanziali quote Konjo e Amba) un tempo supportata dall’Uganda e dal movimento islamico Tablighi Jamaat. Infatti, a partire dal 2015, l’ADF ha intensificato i proprio contatti con la galassia jihadista internazionale, finchè una parte dei suoi combattenti ha deciso di giurare fedelta al Califfo al-Baghadi e fondare cosi una branca locale dello Stato Islamico (Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale, SIAC). Ad oggi, appare quasi impossibile distinguere le due organizzazioni, il cui tratto peculiare e la tendenza alla statualizzazione e ad un controllo del territorio capillare ed efficace, addirittura superiore a quello delle stesse istituzioni statali. In un simile contesto, gli attacchi delle milizie etniche contro le Forze Armate congolesi ed il personale sia civile che militare delle Nazioni Unite hanno un significato politico ed economico, teso a ribadire la propria presenza sul territorio allo scopo di proseguire il controllo dei traffici illeciti. Anche in assenza di un quadro informativo esaustivo, l’attacco contro il convoglio di MONUSCO nel quale e rimasto ucciso l’Ambasciatore Attanasio potrebbe rientrare in questa dinamica ibrida tra insorgenza politica e dissuasione criminale. Un grosso interrogativo avvolge l’ipotesi circa un presunto tentativo di rapimento ai danni dell’ambasciatore finito in tragedia. Infatti, sebbene in tutta la Repubblica Democratica del Congo simili episodi non siano rari, nessuna milizia si era mai spinta ad attaccare un target di cosi alto valore politico e cosi ben protetto e scortato. Dunque, al momento, le ipotesi piu concrete conducono a valutare la possibilità di un attacco di una milizia Tutsi a scopo intimidatorio verso MONUSCO oppure di una azione ostile perpetrata dall’ADF / Stato Islamico in Africa Centrale al fine di proseguire il proprio percorso di crescita e “accredito” internazionale. Infatti, sebbene questa branca del Califfato sia una delle più attive ed in espansione nel continente (dal Congo fino al Mozambico), ancora le manca un’azione dalla grande eco mediatica e politico-simbolica. In tal senso, l’attacco al convoglio di MONUSCO rientrerebbe perfettamente in tale strategia.

Tutti gli interrogativi sulla morte dell’ambasciatore Attanasio. Daniele Bellocchio su Inside Over il 23 febbraio 2021. Sebbene siano passate più di 12 ore da quando nella Repubblica democratica del Congo si è registrato il drammatico agguato durante il quale l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo hanno perso la vita, la dinamica dell’accaduto è ancora incerta e i nomi dei responsabili dell’omicidio non si conoscono. A poche ore di distanza dall’accaduto sono molti gli interrogativi senza risposte che permeano il drammatico episodio. Il principale è perché l’ambasciatore si stesse muovendo senza scorta armata in una zona molto insicura. L’ambasciatore italiano stava infatti viaggiando a bordo di un convoglio del World Food Programme, da Goma verso Rutshuru, per recarsi a visitare un progetto del WFP in una scuola del Nord Kivu. L’agenzia delle Nazioni Unite ha diramato una nota in cui ha fatto sapere che le autorità locali hanno autorizzato il viaggio senza scorta. Notizia che invece è stata smentita dai rappresentanti del governo congolese, in primis dal Ministero degli Interni di Kinshasa, che in un comunicato ufficiale ha fatto sapere: ”I servizi di sicurezza e le autorità provinciali non hanno potuto assumere delle misure di messa in sicurezza del convoglio, né venire in loro soccorso tempestivamente, dal momento che erano all’oscuro della presenza del convoglio su cui viaggiava l’ambasciatore in una regione ritenuta instabile e dove si registrano attività di gruppi ribelli armati nazionali e stranieri”. Se questo è il primo grande quesito, il secondo invece riguarda la dinamica dell’accaduto: fonti diverse stanno dando ricostruzioni ondivaghe e con molte dissonanze. Leggendo i media locali c’è chi dice che il convoglio era composto da tre vetture e chi invece da due veicoli, alcuni media sostengono che gli autori dell’omicidio abbiano sparato contro la vettura uccidendo l’autista e ferendo a morte l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci mentre una fonte di InfoAfrica ha così descritto quanto accaduto: ”I membri del convoglio, sette persone compreso l’ambasciatore Luca Attanasio, hanno trovato una barriera fatta di sassi e tronchi sulla strada. Quando la macchina si è arrestata sono stati prima portati nella boscaglia dagli assalitori che hanno parlato in kinyarwanda, e poi sono stati uccisi dagli stessi assalitori, durante uno scontro a fuoco tra questi ultimi e un gruppo di guardie forestali di pattuglia nella zona, con il sostegno di militari delle forze armate congolesi”. Il fatto che la fonte abbia sottolineato che i rapitori parlassero in kinyarwanda è un particolare che è stato preso molto in considerazione dalle autorità congolesi che ora stanno accusando i ribelli dell’FDLR di essere loro i colpevoli di quanto accaduto. L’FDLR (Forze democratiche per la liberazione del Ruanda) è una delle formazioni irregolari più longeve e maggiormente organizzate che operano nel Nord Kivu. Si sono costituite nella seconda metà degli anni ’90 e sono composte dai genocidari suprematisti Hutu che, dopo la conquista di Kigali da parte del Fronte Patriottico Ruandese di Kagame, si sono ritirati sulle montagne congolesi dove hanno dato vita a una formazione guerrigliera che ha mantenuto il proposito di abbattere il governo di tutsi di Kagame e negli anni si è macchiata di azioni terroristiche, stupri, omicidi indiscriminati e saccheggi. Il fatto però che ora vengano considerati colpevoli i ribelli dell’FDLR crea molte perplessità soprattutto tra diversi analisti e reporter locali. Akilimali Saleh Chomachoma, uno dei primi giornalisti ad essersi recato sul luogo dell’imboscata, si è così espresso in merito a quando dichiarato dall’esecutivo di Kinshasa sulle responsabilità dei ribelli ruandesi. ”Mi sembrano considerazioni affrettate e semplicistiche. Già poche ore dopo l’incidente c’era chi incolpava i ribelli ruandesi dell FDLR e dei Nyatura. Per quel che riguarda quest’ultimi mi assumo la responsabilità di dire che è impossibile che siano stati loro. E’ un gruppo che opera a ovest di Rutshuru, lungo l’asse che conduce a Masisi e a Walikale. Non è una parte di territorio dove loro sono presenti quella in cui si è registrato l’attacco”. Poi proseguendo nella lucida analisi, il giornalista Saleh ha proseguito dicendo: ”Per quel che riguarda l’FDLR è più complesso il ragionamento: è vero che sono presenti nella zona, ma sono una formazione militarmente ben organizzata e anche, per quanto deprecabile, dotata di un’agenda politica. Perchè avrebbero dovuto compiere quest’omicidio? Non c’è nessun legame tra l’ambasciatore Attanasio e questa formazione. Un gruppo così strutturato perchè mai dovrebbe compiere un’azione di questo tipo sapendo che le conseguenze sono poi pesantissime? Fatico a credere che siano stati gli FDLR che hanno un modus operandi molto diverso. Le fonti sul posto mi hanno confermato che si è trattato di uomini in abiti civili, i guerriglieri hutu invece agiscono sempre facendo sfoggio delle loro uniformi. Sono un esercito, non dei banditi”. In conclusione Saleh ha poi raccontato: ”Io credo si sia trattato di un atto di banditismo finalizzato al rapimento e alla richiesta di riscatto. E lo dico perchè a maggio 2020, mio padre, proprio nella stessa zona, è stato rapito e i rapitori hanno poi chiesto un riscatto. Tutti a Goma e in Congo sanno che all’interno del Parco del Virunga operano centinaia di gruppi ribelli ma allo stesso tempo tutti sanno che in quella zona specifica si è sviluppata una rete di banditi che fanno dei sequestri lampo la loro attività principale”. In queste ore troppi coni d’ombra avvolgono ancora la vicenda e una verità oggettiva su quanto successo fatica ad emergere anche se l’impegno delle autorità italiane e congolesi è di lavorare congiuntamente affinché questa affiori quanto prima e possa essere fatta giustizia per la memoria di tre uomini: Luca Attanasio, Vincenzo Iacovacci e Mustapha Milambo.

Congo: nell’inferno di coltan e cobalto del Nord Kivu. Francesca Salvatore su Inside Over Il 23 febbraio 2021. La morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, assieme al carabiniere Vito Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo ha lasciato sgomenta l’opinione pubblica internazionale e l’Italia intera. L’uccisione del diplomatico italiano è avvenuta durante un trasferimento da Goma, capitale del Nord Kivu, verso Rutshuru. La vicenda ha puntato il faro, ancora una volta, su una regione il cui nome all’uomo della strada dice ben poco ma che, in realtà, ci riguarda tutti. Il Congo è bersagliato da ogni genere di dramma: emergenze sanitarie come l’Ebola, guerre intestine, banditismo e perfino la penetrazione dell’ISIS. Una nazione che non conosce pace, men che mai dalla sua indipendenza. Ma il Congo, oggi, non è a caso una delle nazioni africane maggiormente oggetto delle brame internazionali: oro, diamanti, avorio, legname pregiato ma soprattutto cobalto e coltan, indispensabili per la fabbricazione dei nostri smartphone e di tutta la tecnologia a nostro servizio, qui sono presenti in abbondanza. Tutt’attorno, una complessa rete di gruppi militari, paramilitari, deboli strutture statali e committenti internazionali.

Il cobalto. Il cobalto è uno di quegli elementi essenziali per le inesauribili batterie al litio di smartphone e auto elettriche sulle quali così tanto puntiamo per la svolta green. Un’estrazione molto complessa poiché spesso questo minerale viene ritrovato assieme ad altre sostanze e va perciò raffinato, quasi sempre da lavoratori in condizioni terribili. Su quasi 300mila minatori “artigianali” che tengono in piedi questa catena di progresso e morte, circa 35mila sono bambini in condizioni di schiavitù, prediletti per la loro agilità ed energia in cunicoli soffocanti, spesso trasformati in trappole mortali dagli allagamenti. Per quanto disperato possa essere, quei circa 0,65$ al giorno che ricevono dai trader stranieri sono l’unico mezzo di sopravvivenza per loro e le loro famiglie. Più del 60% della fornitura mondiale di cobalto viene estratto nella “cintura del rame” delle province sud-orientali della Rdc. Secondo una stima dell’agenzia governativa incaricata della supervisione del settore minerario “artigianale”, almeno il 20% di questa fornitura è estratta da gente del posto e a mano, il resto è prodotto da miniere industriali gestite da società straniere in seguito al crollo dell’azienda mineraria statale, Gécamines.

In un report del 2017 di Amnesty International, che aveva scoperchiato il vaso di Pandora sulla vicenda, l’organizzazione aveva rintracciato il cobalto di queste miniere in una un’azienda di trasformazione cinese chiamata Huayou Cobalt, i cui prodotti finiscono poi nelle batterie utilizzate per alimentare l’elettronica e i veicoli elettrici. Nonostante Amnesty abbia seguito con attenzione il progresso in materia, nessuna delle società citate nella relazione sta intraprendendo azioni adeguate per conformarsi agli standard internazionali. Questo nonostante siano a conoscenza dei rischi e gli abusi dei diritti umani legati all’estrazione di cobalto nella RDC. Apple è stata la prima azienda a pubblicare i nomi dei suoi fornitori di cobalto e la ricerca di Amnesty mostra che attualmente è leader del settore per ciò che concerne l’approvvigionamento responsabile di cobalto. Dal 2016, Apple si è impegnata attivamente con Huayou Cobalt per identificare e affrontare il lavoro minorile nella sua catena di fornitura. Dell e HP hanno mostrato segnali importanti: hanno iniziato a indagare sui loro collegamenti a Huayou Cobalt e hanno anche messo in atto alcune delle politiche più forti per rilevare i rischi e gli abusi dei diritti umani nelle loro catene di approvvigionamento. Meno virtuose Microsoft e Lenovo che o non rivelano i propri fornitori o hanno intrapreso solo azioni minime per identificare i rischi per i diritti umani o indagare sui collegamenti a Huayou Cobalt e alla RDC.

Il coltan. Quanto al coltan (columbite-tantalite), quest’ultimo si usa sotto forma di polvere metallica nell’industria elettronica e dei semiconduttori per la costruzione di condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte, che sono largamente usati nei telefoni cellulari e computer. Anche il coltan si estrae a mani nude per più di dieci ore al giorno: un’attività sfiancante che lede polmoni e sistema linfatico dei più piccoli. Una giornata di lavoro ha il valore di 1/2 $ a seconda dell’età del bambino per scendere fino a 0,50 $ nelle cave illegali: si tratta, inoltre, di cifre lorde poiché questi “salari” includono anche le somme che i piccoli minatori sono costretti a versare alla banditaglia che sorveglia la miniera e che si macchia spesso di abusi sessuali nei loro confronti. Il coltan passa, poi, prima per le mani di soldati e mercenari, almeno fino al confine con il Ruanda e l’Uganda; in seguito, viene ceduto alle compagnie di import/export per poi passare alle maggiori compagnie che trattano la raffinazione in Germania, Cina e Stati Uniti: infine, giunge nelle catene di montaggio delle grandi multinazionali dell’elettronica. Un’attività che non conosce sosta e che deve fronteggiare la richiesta famelica dell’ “oro nero congolese” per via delle nuove tecnologie ma anche di tutto quel comparto legato ai videogiochi che fa registrare cifre da capogiro. Un esempio fra tutti: come racconta Nena agency, nel 2000 con l’uscita di Sony PlayStation 2 si registrava una corsa all’oro nero, la domanda di tantalio aumentò facendo oscillare i prezzi del coltan da 35 dollari a libbra fino a quasi 400 dollari, mentre ai lavoratori nelle miniere veniva pagato 0,18 centesimi al chilo.

Un’ economia violenta. Il Kivu del nord, durante la lunga presidenza di Mobutu Sese Seko, ha mantenuto pressoché integri fino alla fine del secolo scorso i depositi minerari di cui dispone. Molti di questi, inoltre, non erano nemmeno così ambiti fino a trent’anni fa. Questo aspetto, oggi, ne fa una delle regioni più ambite dai meccanismi predatori legati ai minerali “preziosi” sottesi dai gruppi armati locali.

Gli stessi paesi africani usano i proventi derivanti dalla vendita delle pietre congolesi per finanziare le loro campagne militari, a volte dirette proprio a prendere il controllo di nuovi depositi. I gruppi paramilitari locali hanno come strategia sistematica quella di terrorizzare la popolazione dell’area estrattiva di loro interesse (spesso puntando a lasciare orfani bambini ed adolescenti per tramutarli più facilmente in schiavi) procurandosi così manodopera a bassissimo costo. I minerali non sono, tuttavia, la diretta causa del conflitto nel Kivu, ma hanno portato ad una “convenienza economica” del conflitto stesso: un circolo vizioso mondiale dove nessuno è innocente.

La ricostruzione dei drammatici momenti. Attacco in Congo, 6 gli aggressori armati di mitra e machete: ribelli Ruanda negano responsabilità. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. L’assalto che è costato la vita in Congo all’ambasciatore italiano Luca Attanasio, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista locale Mustapha Milambo sarebbe stata opera di sei persone “armate con 5 armi tipo AK47 e un machete” che avrebbero “proceduto con colpi di avvertimento prima di costringere gli occupanti dei veicoli a scendere e seguirli fino in fondo al Parco, dopo aver sparato a uno dei conducenti per creare panico”. È quanto sostiene il governo di Kinshasa in una nota – citata da Cas-Info – della commissione di crisi indirizzata al ministro dell’Interno incaricato degli affari interni, sicurezza e consuetudine della Repubblica Democratica del Congo. Secondo la ricostruzione delle autorità congolesi, i rapitori avrebbero “sparato a bruciapelo alla guardia del corpo, morta sul posto, e all’ambasciatore ferendolo all’addome”. L’attacco sarebbe avvenuto “alle 10:15” quando il convoglio sarebbe caduto “in un’imboscata a circa 15 km da Goma e 3 km prima del Comune rurale di Kibumba, più precisamente a Kanyamahoro sulla RN2 nel territorio del Nyiragongo”, precisa ancora la nota. Le Forze Democratiche della Liberazione del Ruanda (Fdlr), principali indiziati come responsabili dal governo del Congo, negano la responsabilità dell’attacco. È quanto si legge in un loro comunicato, ripreso sui social, in cui “condannano con forza” l’attacco e “respingono categoricamente” le accuse delle autorità di Kinshasa, dichiarando “di non essere per nulla implicati” nella vicenda e “chiedendo alle autorità congolesi e Monusco di far luce sulle responsabilità di questo ignobile assassinio”. Secondo Fdlr, l’attentato sarebbe avvenuto “non lontano” da pattuglie delle forze armate della Repubblica Democratica del Congo. “Le Fdlr rivolgono le loro condoglianze ai familiari delle vittime, al governo e al popolo italiano”, conclude la nota. Il Fdlr-Foca, come è noto il principale gruppo residuo di ribelli ruandesi, è conosciuto a livello globale per il genocidio in Ruanda: i ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda sono infatti quasi quasi interamente da Hutu, che si oppongono ai Tutsi. Secondo gli Stati Uniti, il gruppo è responsabile di una dozzina di attentati terroristici realizzati nel 2009.

La prima ricostruzione dell'agguato. Attacco in Congo, indaga la Procura di Roma: ambasciatore e carabiniere rapiti e uccisi nella foresta. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Una ricostruzione ufficiale non arriverà nel breve periodo, ma col passare delle ore si più chiara la dinamica dell’attacco avvenuto questa mattina alle 10 (le 9 italiane) presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nel Congo orientale, in cui hanno perso la vita l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio, il carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci, e Mustapha Milambo, l’autista del convoglio delle Nazioni Unite. Quel che appare sempre più chiaro è che l’attacco fosse un tentativo di rapire personale dell’Onu: nel convoglio formato da due veicoli del World Food Programme c’era anche il Capo Delegazione Ue, in totale sette persone. Un gruppo armato ha fatto fuoco sui veicoli, delle jeep bianche: gli spari hanno allertato i rangers di Virunga, il noto parco nazionale congolese, che giunti sul posto hanno preso atto dalla scomparsa dell’ambasciatore italiano, 43ennne originario di Limbiate (Monza e Brianza), sposato con tre figlie, e del militare Vittorio Iacovacci, 30enne originario di Sonnino, in provincia di Latina, in forza al battaglione Gorizia dal 2016. La zona è notoriamente ritenuta pericolosa a causa della presenza in particolare dei ribelli della Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) che tendono imboscate in strada partendo dal parco. Ma nonostante la pericolosità, il World Food Programme ha spiegato in una nota che l’attacco “è avvenuto su una strada che era stata precedentemente dichiarata sicura per viaggi senza scorte di sicurezza”. Secondo fonti di polizia locale Attanasio e Iacovacci sono stati inizialmente catturati e quindi portati all’interno di una foresta dopo che il commando ha ucciso il loro autista, Mustapha Milambo. Il diplomatico italiano sarebbe stato colpito durante lo scontro a fuoco con i Rangers del Virunga, con gli attentatori che hanno proseguito scappando e portando con loro Iacovacci. Il gruppo dopo circa un chilometro e mezzo avrebbe quindi ucciso il carabiniere della scorta lasciando nella foresta il corpo, poi ritrovato dai ranger. L’ambasciatore Attanasio invece, secondo una fonte dell’Ansa, è deceduto dopo essere stato ferito da colpi d’arma da fuoco all’addome ed è arrivato all’ospedale di Goma in condizioni critiche. Quanto alla paternità dell’attacco, nessuna ipotesi è stata ancora scartata, dato che nell’area agiscono più gruppi para-militari: l’ipotesi prevalente resta quella che l’azione sia responsabilità del Fronte di Liberazione del Ruanda. Secondo la ministra degli Affari esteri del Congo, Marie Tumba Nzeza, il convoglio Onu “è caduto in un’imboscata“. “Prometto al governo italiano – ha aggiunto ai media locali – che l’esecutivo del mio Paese farà di tutto per scoprire chi c’è dietro questo vile omicidio”. Sulla morte di Attanasio e Iacovacci la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine. Nel procedimento coordinato dal procuratore capo Michele Prestipino si procede per sequestro di persona con finalità di terrorismo: le indagini sono state delegate ai carabinieri del Ros.

L'agguato al convoglio Onu. Chi c’è dietro l’attacco in Congo: dai ribelli ruandesi ai jihadisti, l’ex colonia belga è una polveriera. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Un Paese che nell’ultimo secolo di storia non ha mai conosciuto una pace stabile, condizionato non solo da guerre sanguinarie e violente, ma anche da carestie e pandemie. È questo il Congo, l’ex colonia belga nel centro dell’Africa dove questa mattina sono stati uccisi l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. I due sono sono morti in un agguato messo avvenuto intorno alle 10 (le 9 italiane) presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nella parte orientale del Paese. L’attacco era probabilmente un tentativo di rapire personale dell’Onu: nel convoglio formato da due veicoli del World Food Programme c’era anche il Capo Delegazione Ue, in totale sette persone. Una circostanza, quella del rapimento, che sarebbe confermata dal governo della Repubblica Democratica del Congo, che ha riferito come tre persone del convoglio del World Food Programme sono state rapite, con una quarta poi ritrovata dalle Forze armate del Paese. Quello che ancora non è chiaro è di chi sia la mano dietro la morte dei due italiani e del loro autista, Mustapha Milambo. L’ipotesi prevalente, avanzata in particolare dai media locali congolesi, resta quella che l’azione sia responsabilità del gruppo ribelle armato ‘Forze democratiche per la liberazione del Ruanda‘. Ipotesi ovviamene al vaglio della Procura di Roma che ha aperto un fascicolo di indagine per sequestro di persona con finalità di terrorismo. Il Fdlr-Foca, come è noto il principale gruppo residuo di ribelli ruandesi, è conosciuto a livello globale per il genocidio in Ruanda: i ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda sono infatti quasi quasi interamente da Hutu, che si oppongono ai Tutsi. Secondo gli Stati Uniti, il gruppo è responsabile di una dozzina di attentati terroristici realizzati nel 2009. Ma nella zona dove è avvenuto l’attacco, il North Kivu, regione al confine con il Ruanda, trovano rifugio altri gruppi para-militari. Nell’area ha trovato rifugio il gruppo armato ugandese di ispirazione salafita dell’Adf, Allied Democratic Forces, un gruppo jihadista ugandese responsabile di numeri massacri nella regione e che ha come obiettivo quello di trasformare l’Uganda in una Repubblica islamica. La presenza islamica nella regione sarebbe confermata anche dalla rivendicazione da parte del Daesh di un attacco ad una postazione militare, la caserma di Kamango, avvenuto nell’aprile dello scorso anno. Sulla sfondo restano poi gli interessi economici sull’area, con la competizione armata per il controllo e lo sfruttamento delle ricchezze del suolo e sottosuolo, tra minerali e materie prime preziose. La raccolta di oro e coltan, in mano spesso a gruppi criminali, permette a quest’ultimi di finanziare l’acquisto di armi per controllare il territorio, in un circolo vizioso. L’instabilità dell’area ha poi spinto diverse multinazionali, preoccupate per la sicurezza, a lasciare il Paese e la regione: gli ex lavoratori, trovatisi di punto in bianco senza occupazione, sono stati di fatto spinti ad unirsi ai gruppi armati per sostenere sé stessi e le proprie famiglie.

L'ambasciatore e il carabiniere: chi sono i due italiani uccisi in Congo. Luca Attanasio, 43 anni, era in Congo dal 2017. Vittorio Iacovacci, carabiniere di 30 anni, era specializzato in scorte. Federico Giuliani - Lun, 22/02/2021 - su Il Giornale. L'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci hanno perso la vita nel corso di un assalto avvenuto oggi nella città di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo. Il primo, 43 anni, dal 5 settembre 2017 era Capo Missione a Kinshasa, e dal 31 ottobre 2019 era stato confermato in qualità di ambasciatore straordinario plenipotenziario accreditato; il secondo, 30 anni, era un carabiniere specializzato come addetto alla scorta di personale sensibile. L'attacco ha provocato anche una terza vittima. Si tratta dell'autista del mezzo sul quale viaggiavano Attanasio e Iacovacci. Lo ha confermato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una nota di cordoglio pubblicata dal Quirinale. "Ho accolto con sgomento la notizia del vile attacco che poche ore fa ha colpito un convoglio internazionale nei pressi della citta di Goma uccidendo l’Ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. La Repubblica Italiana è in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell’adempimento dei loro doveri professionali in Repubblica Democratica del Congo".

Chi era Luca Attanasio. Classe 1977, Luca Attanasio era un uomo estremamente legato all'Africa. Come ricordato sul Giornale.it, "Attanasio assieme alla moglie, Zakia Seddiki, aveva ricevuto il premio Nassiriya per via dell'impegno della coppia nel sociale. La coppia ha curato infatti la fondazione l'associazione umanitaria 'Mamma Sofia', impegnata ad aiutare bambini e ragazze madri in Congo". Attanasio, sposato e con tre figlie, è stato ricordato dai suoi conoscenti come persona estremamente allegra. "Era il ragazzo a cui volevo più bene. Era uno dei giovani più brillanti della nostra diplomazia. Ieri sera era a cena a Goma con i nostri che sono lì. Sono addolorato", ha dichiarato, riportato dal Corsera, Alfredo Mantica, il dirigente di Alleanza nazionale che da sottosegretario agli Esteri lo ebbe nella propria segreteria alla Farnesina. Ripercorrendo le tappe più importanti della sua vita, non possiamo che partire dal 2001. Attanasio si laurea con lode presso l'Università Luigi Bocconi. Dopo aver svolto un breve percorso professionale nella consulenza aziendale e ottenuto un master in politica internazionale, inizia la carriera diplomatica. Come ricorda l'agenzia Lapresse, alla Farnesina finisce prima alla direzione per gli Affari Economici, ufficio sostegno alle imprese, per poi passare alla segreteria della direzione generale per l'Africa. In seguito, nel 2004, diventa vice capo segreteria del sottosegretario di stato con delega per l'Africa e la cooperazione internazionale. All'estero, come anticipato, è capo dell'Ufficio Economico e Commerciale presso l'Ambasciata d'Italia a Berna, carica che ricopre dal 2006 al 2010, e Console generale reggente a Casablanca fino al 2013. In quello stesso anno rientra alla Farnesina per ricevere l'incarico di capo segreteria della direzione generale per la mondializzazione e gli affari globali. Nel 2015 torna nuovamente in Africa come Primo Consigliere presso l'Ambasciata d'Italia in Abuja in Nigeria, prima di svolgere le ultime mansioni Repubblica Democratica del Congo.

Chi era Vittorio Iacovacci. Attanasio stava viaggiando a bordo di un mezzo della Monusco, la missione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per stabilizzare il turbolento Paese africano, quando il convoglio è caduto in un agguato. L'ambasciatore e l'autista - del quale non si conoscono ancora le generalità - sono morti assieme a Vittorio Iacovacci, carabiniere di 30 anni. Quest'ultimo apparteneva al XIII Reggimento Friuli Venezia Giulia, era di stanza a Gorizia. Come ha sottolineato l'AGI, Iacovacci proveniva da un reparto d'èlite dell'Arma dei Carabinieri, e aveva anche ottenuto brillanti risultati nel suo percorso al GIS, il Gruppo intervento speciale dell’Arma. Rientrato a Gorizia per motivi personali - scrive Infodifesa.it - Iacovacci è stato assegnato a Kinshasa in un contesto molto complicato. Fino ad oggi, Iacovacci ha fatto parte del team di close protection, insieme ad altri operatori del XIII Reggimento. La famiglia di Iacovacci è originaria di Sonnino, provincia di Latina. L'uomo non era sposato e non aveva figli. Come ricorda ancora il Corsera, si era arruolato nel 2016. Dopo aver frequentato la Scuola allievi carabinieri di Iglesias (Cagliari), è stato detinato al Reggimento. Da qui provengono molti militari dell’Arma destinati alle missioni all’estero.

Da lastampa.it il 22 febbraio 2021. Nato nella provincia di Milano, 43 anni, laureato con lode all’Università Commerciale Luigi Bocconi (2001), dopo un breve percorso professionale nella consulenza aziendale ed un Master in Politica Internazionale, Luca Attanasio intraprende la carriera diplomatica (2003). Alla Farnesina viene assegnato alla direzione per gli Affari Economici, Ufficio sostegno alle imprese, poi alla segreteria della direzione generale per l’Africa. Successivamente è vice capo segreteria del sottosegretario di Stato con delega per l’Africa e la Cooperazione Internazionale (2004). All’estero è capo dell’Ufficio Economico e Commerciale presso l’Ambasciata d’Italia a Berna (2006-2010) e console generale reggente a Casablanca, Marocco (2010-2013). Nel 2013 rientra alla Farnesina dove riceve l’incarico di Capo Segreteria della direzione generale per la mondializzazione e gli affari globali. Ritorna poi in Africa quale primo consigliere presso l’ambasciata d’Italia in Abuja, Nigeria (2015). Dal 5 settembre 2017 è capo missione a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo. Dal 31 ottobre 2019 è stato confermato in sede in qualità di Ambasciatore Straordinario Plenipotenziario accreditato in RDC.

La tragedia in Africa. Chi era Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano ucciso nella Rd del Congo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. È morto Luca Attanasio, ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo. Anche un carabiniere morto in un attacco ai danni della vettura sulla quale viaggiava il diplomatico. Attanasio è stato portato d’urgenza in ospedale a Goma. Nulla da fare per lui. Il veicolo faceva parte di un convoglio del World Food Programme, del quale faceva parte anche il capo delegazione dell’Unione Europea. Ancora da chiarire i motivi dell’agguato, avvenuto nei pressi di Nyiragongo. Secondo un portavoce del Virunga National Park, l’attacco sarebbe rientrato in un tentativo di sequestro di personale dell’Onu. Massima apprensione della Farnesina che ha seguito la vicenda fino alla notizia della morte del diplomatico. Il carabiniere morto nell’attacco aveva 30 anni e si chiamava Vittorio Iacovacci. Era in servizio a Kinshasa dal settembre del 2020. Attanasio aveva 43 anni. Lo scorso ottobre aveva ricevuto il Premio Internazionale Nassiriya per la Pace 2020 “per il suo impegno volto alla salvaguardia della pace tra i popoli” e “per aver contribuito alla realizzazione di importanti progetti umanitari distinguendosi per l’altruismo, la dedizione e lo spirito di servizio a sostegno delle persone in difficoltà”. Era uno degli ambasciatori italiani più giovani al mondo. Attanasio era nato a Saronno, in provincia di Varese, il 23 maggio 1977. Aveva studiato alla Bocconi di Milano, laurea in economia aziendale. Dal 2003 nominato Segretario di legazione in prova nella carriera diplomatica (specializzazione commerciale). Successivamente all’Istituto Diplomatico, corso di formazione professionale ‘Costantino Nigra’. Poi Sottosegretario di Stato, dal 2006 secondo segretario commerciale a Berna, in Svizzera, dal 2010 al 2013 al Consolato Generale di Casablanca, in Marocco, da Console, quindi Capo Segreteria della Dir. Gen. Mondializzazione e Questioni globali e dal 2014 Primo segretario ad Abuja (assegnazione breve), in Nigeria. Era capo missione a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo. “Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato – aveva dichiarato ricevendo il Premio Nassiriya – non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere. Il ruolo dell’ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani ma anche contribuire per il raggiungimento della pace”. Attanasio era sposato con Zakia Seddiki, fondatrice e presidente dell’associazione umanitaria “Mama Sofia” che opera nelle aree più difficili del Congo.

L'ambasciatore Luca Attanasio nel 2019 a Propaganda Live: "Gli italiani vennero in Congo per un futuro migliore". L'Espresso il 22 febbraio 2021. Luca Attanasio, ambasciatore italiano in Congo, è rimasto ucciso in un attacco contro un convoglio delle Nazioni Unite a Goma, insieme a un militare dei carabinieri, Vittorio Iacovacci, e al suo autista. In una puntata di Propaganda Live del 22 marzo 2019 l'ambasciatore raccontava l'immigrazione italiana in Congo.

Attacco in Congo, Solfrini amico dell'ambasciatore ucciso: "Portava aiuto ai poveri, era una persona eccezionale". L'Espresso il 22 febbraio 2021. Al Tg Zero di Radio Capital Maurizio Solfrini, agronomo, in Congo da anni, amico dell’ambasciatore Attanasio e sostenitore di “Mamma Sofia”, la ong fondata in Congo dalla moglie di Attanasio, Zakia Seddiki: "Ho sentito Attanasio una settimana fa, era sereno, nessun sentore del pericolo. Era un padre eccezionale, con una famiglia eccezionale. Insieme alla moglie, con l’associazione di lei, portavano aiuto alle famiglie povere. Avevano una missione nella vita, la missione umanitaria. Lui era anche un diplomatico con la D maiuscola". "Era un amico fraterno, persone così se ne provano poche nella vita, era una grande persona che cercava la pace".

Morte Luca Attanasio, l’amico prete: “Amava questa gente più di noi”. Chiara Nava su Notizie.it il 23/02/2021. Padre Pierfrancesco Agostinis, amico prete di Luca Attanasio, ha parlato dell'ambasciatore ucciso in Congo. Padre Pierfrancesco Agostinis, 51 anni, missionario saveriano in Congo, originario di Ovaro, in provincia di Udine, non avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe successo al suo amico Luca Attanasio. L’ambasciatore è morto in un attacco avvenuto in Congo. “Ci vedremo fra poco. Adesso devo proprio partire. Ma tornerò” sono state le ultime parole che Luca Attanasio ha detto al suo amico prete. “Per noi l’ambasciatore Attanasio era Luca, senza protocolli” ha dichiarato Padre Pierfrancesco Agostinis. “Luca era un uomo che ce la metteva tutta per fare del bene e amava questo Paese come noi missionari. Forse di più. Era in visita in Sud Kivu per incontrare gli italiani che vivono qui. È partito domenica mattina per Goma. Ci siamo incontrati sabato sera a Bukavu ed è stato un incontro molto bello” ha aggiunto il prete, parlando di Luca come di una persona di famiglia. Ha spiegato che non era il classico diplomatico, che dormiva con loro, nella casa regionale dei Missionari saveriani e non è mai andato a cercarsi un hotel. “Mi dicono: È arrivato il nuovo ambasciatore. Io sento una pacca sulle spalle e vedo un ragazzo giovane che si presenta dicendo: Ciao, sono l’ambasciatore” è stato il loro primo incontro. Il missionario, arrivato in Congo per la prima volta 25 anni fa da studente, è tornato nel 2004 a Kinshasa, dove ha trascorso dieci anni, per poi andare a Bukavu tre anni fa, dopo essere stato a Parigi per studio. Durante l’incontro avvenuto lo scorso sabato Padre Agostinis aveva conosciuto anche il carabiniere Vittorio Iacovacci. “Credo gli mancasse solo un mese per terminare il servizio in Congo e rientrare a casa. Aveva tutta la vita davanti” ha dichiarato. Il luogo dell’agguato, come ha spiegato il prete, è una zona particolarmente pericolosa. “Il Congo è un Paese difficile. Attraversare quel parco è pericoloso. Dove siamo noi c’è molta violenza, si spara anche in pieno giorno, ma nella gran parte dei casi si tratta di intimidazioni per furti, difficilmente le persone muoiono. Quella dove è stato ucciso Luca, invece, è una zona in cui ci sono diversi gruppi armati” ha aggiunto. Padre Agostinis si stava preparando a partire per Goma. “Non abbiamo paura. Partiremo con il primo battello in quattro missionari, per essere presenti e testimoniare che Luca era una persona che ha amato il Congo. Era anche un papà: voleva tornare da noi con la sua sposa fra un mese per fermarsi più a lungo” ha spiegato.

Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it

Alberto Mattioli per "La Stampa" il 23 febbraio 2021. Don Angelo Gornati, ex parroco di Limbiate, lo conosceva dai tempi dell'oratorio di San Giorgio. Il ragazzino era diventato ambasciatore d'Italia ed è stato don Angelo a sposarlo con Zakia Seddiki, marocchina e musulmana: «Una doppia cerimonia, islamica là e cristiana qui. Luca era una luce che si accendeva e illuminava gli altri, un raggio di sole. Veniva da una bella famiglia, molto unita, e ne aveva costruita un'altra così. Sempre sorridente, positivo, altruista. All'oratorio aveva fondato un gruppo di sostegno per gli anziani malati e poi un altro per i ragazzi disabili. Aveva continuato anche da diplomatico come presidente dell'associazione "Mama Sofia", fondata dalla moglie per aiutare le mamme e le bambine di strada del Congo. Non dimenticava la sua città e gli amici. La diplomazia l'ha imparata qui. Era un appassionato frequentare della comunità di Taizé e una volta che un gruppo internazionale di una sessantina di ragazzi si è riunito a Limbiate è stato lui a gestirlo». De mortuis nihil nisi bonum, certo. Eppure l'impressione è che in questa cittadona di 36 mila abitanti fra Milano e Monza, 4 mila extracomunitari, il 70 per cento dei cittadini arrivati a suo tempo dal sud, Luca Attanasio fosse davvero amato. Era il compaesano che aveva fatto strada nel mondo, e tutti ne erano contenti. «Abbiamo sempre pensato che fosse destinato a un bell'avvenire», dicono in piazza Cinque giornate. I genitori, papà Salvatore, ingegnere in pensione, e mamma Alida, casalinga, sono chiusi in casa. Hanno appreso la notizia dai tiggì. L'ultimo messaggio dal figlio l'hanno ricevuto ieri mattina: una fotografia di lui in partenza per quella che sarebbe stata la sua ultima missione. «Mi spiace, non abbiamo intenzione di vedere nessuno»: neanche in momenti come questi la famiglia riesce a essere sgarbata con i giornalisti. Don Angelo ha sentito la sorella minore, «è una tragedia, siamo sconvolti», gli ha detto, come qualcuno che ancora non si capacita di quel che è successo dall'altra parte del mondo. La moglie di Attanasio è a Kinshasa con le loro tre figlie: una ha tre anni, le gemelline due. A Limbiate c'è un'atmosfera strana, sospesa fra disperazione e incredulità. Attanasio era l'espressione del cattolicesimo lombardo più tipico, fede e opere, l'oratorio come base, il volontariato come missione, concretezza e voglia di aprirsi al mondo. Uno dei migliori amici dell'ambasciatore assassinato («Il nome no, per piacere») ha fatto con lui il master all'Ispi dopo la laurea a pieni voti alla Bocconi. Attanasio prima aveva lavorato due anni alla McKinsey, poi ha scelto la carriera che aveva sempre sognato, quella diplomatica. «Ci conoscevamo dai tempi dell'oratorio di cui gli piaceva tutto tranne che giocare a pallone, l'unica cosa che non è mai riuscito a fare bene. Ma la sua vera passione era il prossimo. Attenzione: era buono, non buonista. Non si limitava all'empatia, passava ai fatti. Aveva delle idee ed era anche capace di realizzarle». Fino a rischiare? «Non credo sia mai stato imprudente. Era sempre consapevole di quel che faceva». Una vita glocal, la sua. Il mal d'Africa l'aveva colpito fin dai tempi in cui era console a Casablanca, dove aveva incontrato Zakia. Poi l'aveva accompagnato in Nigeria. Lì non si trovava bene, «posso uscire solo in certi orari, e sempre scortato», raccontava. Infine era approdato in Congo, certo non una sede da diplomatici di lusso. Ma allo stesso tempo non dimenticava le radici, questo pezzo d'Italia magari anonimo ma di antica civiltà. Il sindaco, Antonio Romeo, è nel suo ufficio, affranto. «Mi ha mandato l'ultimo messaggio venerdì. Era felice perché il Comune era finalmente riuscito ad acquistare una villa storica per farci il Centro culturale. "Era il nostro sogno", scriveva». L'ambasciatore con la faccia da ragazzino dimostrava meno dei suoi 43 anni anche perché metteva la cravatta solo quando era necessario. Era impegnato in progetti di cooperazione internazionale concreti, non chiacchiere e distintivi. Per questo, l'anno scorso avevano attribuito a lui e alla moglie il premio Nassiriya per la pace. Il suo discorso suona come un testamento, o una premonizione: «Il ruolo dell'ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani, ma anche di contribuire al raggiungimento della pace. La nostra è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l'esempio». Racconta l'ex sindaco Raffaele De Luca, amico di famiglia: «Era in Congo da tre anni e mezzo, la regola è quattro, quindi si chiedeva già se gli avrebbero dato un'altra sede o richiamato a Roma. Ma avrebbe fatto bene ovunque». Davanti al Municipio le bandiere sono a mezz'asta. In attesa del lutto cittadino si è già deciso di dedicare a Luca Attanasio il Centro culturale. Seduta a un tavolino del «Petit bistrot», davanti al Comune, una sua coetanea non riesce ancora a crederci: «Era una bella persona». E si capisce che è proprio così.

Luca Attanasio, l’ambasciatore per cui il mondo era una questione di cuore. Davide Casati su Il Corriere della Sera il 24/2/2021. «L’educare è questione di cuore». Chissà quante volte Luca Attanasio avrà accarezzato con lo sguardo questa frase, passando sotto l’arco dove è incisa, all’ingresso del suo oratorio, quello di San Giorgio, a Limbiate. Ora che il suo nome, per il più crudele dei motivi, è sulle labbra di tutti, sono in molti a rimanere senza parole davanti alla vastità delle onde generate da quella vita interrotta. Il dolore di tre bimbe e della loro mamma, certo. Dei genitori, della sorella, degli amici, dei colleghi che sui social, in ogni lingua, lo hanno ricordato increduli. E però anche quello di una, due, innumerevoli comunità. E patrie. «Una perdita enorme per tutti noi», ha detto l’ex sindaco del suo paese Raffaele De Luca al nostro Giampiero Rossi: aggiungendo poi — ed è una frase decisiva — «e per tanti altri che non lo hanno nemmeno conosciuto e non sanno che, magari, si è occupato tanto anche di loro». Nelle parole di uno dei suoi amici più cari, l’ambasciatore Attanasio — «Luca, semplicemente» — è stato «ambasciatore di gioia, di intelligenza, di chiacchiere, di risate, di vita, di Limbiate, di adolescenza, gioventù, di altruismo, di attenzione. Ambasciatore nostro». E in quel «nostro» c’è, nascosto, un universo. Una visione del mondo. Quella di una generazione che ha imparato a tenere nel cuore l’angolo di terra che li ha visti crescere, e ad allargare da subito sguardo e abbracci. Sapendo, in qualunque punto del pianeta ci si trovi, che in una chat dal nome improbabile ci sono raccolti gli amici di sempre: e gioendo, da migliaia di chilometri di distanza, per una villa storica recuperata dal Comune, da mettere a disposizione dei più giovani. Quella di chi prova a fare di una professionalità altissima il motore della propria carriera: ma che metteva da parte cariche e titoli, e al centro il darsi da fare, inesausto, per gli altri. Quella di chi si percepisce sempre in difetto di fronte al troppo da sistemare: e tenta però la strada di un rammendo paziente alle imperfezioni della vita. Di una prossimità sorridente, curiosa, partecipe: lungo una linea ininterrotta che parte dal pullman che ti porta al liceo — ultimi posti, per fare mucchio — e arriva al convoglio di una missione umanitaria nella foresta del Congo: fuori dal dovere codificato, dentro un dovere più grande e nascosto. Non sono, queste, qualità fragorose. Per questo, forse, escono a volte dai radar dei megafoni più tradizionali. Non escono però — mai — dalle vite che incrociano. Lo sanno i colleghi della Carriera diplomatica, gli ex compagni di scuola e università, i ragazzi disabili che Luca aveva assistito da ragazzo, i volontari, i missionari, le donne, gli uomini e i bambini cui l’ambasciatore aveva portato — dal Marocco alla Nigeria — l’eco di una scritta lontana, incisa su un arco di pietra. Per tutti loro, per molti altri, valgono le parole di un’amica di Luca, sui social, in queste ore sconvolte. «A questo mondo manchi tanto», ha scritto. «E anche a noi».

LUCA ATTANASIO ERA MUSULMANO. (Agenzia Nova il 24 febbraio 2021) - L’ambasciatore d’Italia nella Repubblica democratica del Congo ucciso lunedì 22 febbraio in un attacco armato, Luca Attanasio, si era convertito all’Islam durante la sua permanenza in Marocco come console generale a Casablanca. La notizia, pubblicata in prima battuta dal quotidiano online “La Luce”, è stata confermata ad “Agenzia Nova” da Hamza Piccardo, ex portavoce dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucoii) e autore dell’edizione italiana del Corano approvata dall’Arabia Saudita. È possibile che la conversione all’Islam si sia resa necessaria per consentire al diplomatico di sposare Zakia Seddiki, la moglie di origini marocchine con la quale avrebbe successivamente fondato l’organizzazione non governativa Mama Sofia. Sulla vicenda è intervenuto anche l’imam della Moschea di Maria di Cascina Gobba, che fa capo all'Associazione islamica di Milano, Baraa al Obeidi, secondo cui Attanasio va considerato a tutti gli effetti un martire secondo la definizione islamica, poiché ucciso da innocente e nell’ambito del suo impegno umanitario. “La Luce” riferisce che alcune comunità islamiche in Italia si stanno dunque organizzando per celebrare questo venerdì la Salat al ghaib, la preghiera per il defunto in assenza per Attanasio e per il suo autista Mustapha Milambo.

Da laluce.news il 24 febbraio 2021. La notizia è stata confermata a La Luce da fonti affidabili vicine alla famiglia.  I musulmani italiani si sono attivati per far pervenire le proprie condoglianze e fare sentire la propria vicinanza sia alle istituzioni sia alle famiglie di Attanasio e di Vittorio Iacovacci, in tal senso si sta muovendo sia l’organizzazione a livello nazionale sia le comunità locali della Brianza, in primis proprio quella di Limbiate. Interpellato in merito alla vicenda dell’ambasciatore Attanasio, Baraa Al Obeidi, imam della Moschea di Maria di Milano, (Cascina Gobba) ha chiarito che Luca Attanasio va considerato a tutti gli effetti un martire secondo la definizione islamica, questo in quanto è stato ucciso da innocente e in quanto ucciso nell’ambito del suo impegno umanitario. Alcune comunità islamiche si stanno organizzando pertanto per celebrare questo venerdì la Salat al ghaib, ovvero la preghiera per il defunto in sua assenza per Attanasio e per il suo autista Mustapha Milambo. Luca Attanasio, diplomatico quarantatreenne originario di Limbiate, in provincia di Monza e Brianza, ha perso la vita in un attacco avvenuto il 22 febbraio 2021 mentre viaggiava a a bordo di una vettura parte di un convoglio della Monusco, (la missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo). La zona confina con l’Uganda e con il Ruanda e vi operano numerosi gruppi ribelli e criminali tra i quali gli Hutu delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda in guerra con il governo di Kigali e Lord’s Resistance Army sanguinario gruppo armato ugandese di matrice cristiana guidato da Joseph Kony, per questo la reponsabilità dell’attacco non è ancora stata appurata. Nella sanguinoso tentativo di sequestro sono rimasti uccisi anche un giovane carabiniere, Vittorio Iacovacci di 30 anni e l’autista Mustapha Milambo in servizio presso il World Food Program. Luca Attanasio era stato incaricato del Consolato italiano a Casablanca nel 2010 e nel paese nordafricano aveva conosciuto la moglie Zakia Seddiki, attivista per i diritti umani delle donne e dei bambini, dalla loro unione sono nate tre bambine. Nel 2017 Attanasio era stato nominato ambasciatore a Kinshasa e proprio in Congo Zakia ha fondato la ONG Mama Sofia che aiuta migliaia di bambini di strada congolesi, i due coniugi infatti consideravano il lavoro umanitario una vera e propria missione e si spendevano senza riserve così come hanno raccontato in questi giorni tutti gli amici ed i collaboratori di Luca Attanasio e di Zakia Seddiki. L’Italia perde un suo grande servitore ed un grande uomo che ha onorato al meglio il paese ed il suo ruolo, In verità noi apparteniamo a Dio e a Lui ritorniamo.

Dom. Aga. per "la Stampa" il 25 febbraio 2021. È diventata un giallo la presunta conversione all’islam dell’ambasciatore Luca Attanasio, morto assassinato in Congo. Lo ha risolto l’imam Pallavicini: sarebbe un equivoco generato da una «testimonianza di fede» che il diplomatico avrebbe compiuto per sposare sua moglie, musulmana. Anche a Milano si getta acqua sul fuoco: altrimenti - ragionano in arcidiocesi - come si giustificherebbero le esequie di Stato nella basilica di Santa Maria degli Angeli e quelle di sabato celebrate dall’arcivescovo monsignor Mario Delpini? Mentre in Africa i missionari e i cooperanti della Fondazione Avsi assicurano: «Luca era un cattolico praticante, conversione mai avvenuta». E raccontano delle messe a cui partecipava, a cominciare da quella di domenica dai Saveriani, riportata da padre Franco Bordignon. Attanasio avrebbe acconsentito alla «prova di fede» in Marocco in qualità di console generale e sarebbe stato quindi musulmano: così ha scritto il quotidiano online La Luce. Il rito sarebbe stato collegato al matrimonio con Zakia Seddiki. Baraa Al Obeidi, imam della Moschea di Maria di Milano (Cascina Gobba), ha sostenuto che «Attanasio va considerato un martire secondo la definizione islamica, in quanto è stato ucciso da innocente e nell'ambito del suo impegno umanitario». Ma l'imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, presidente della Coreis, la Comunità religiosa islamica italiana, ha poi spiegato all’agenzia Dire la sua deduzione: «L’ambasciatore può aver ritenuto di dare una dimostrazione di conversione all’islam» solo «per via delle regole che disciplinano il matrimonio con una musulmana marocchina». E in ogni caso, «credo che laddove non ci sia traccia della disposizione di una sepoltura di rito islamico, debba essere rispettata l’identità religiosa di nascita».

Il diplomatico ucciso in un attacco in Rdc. Chi è Zakia Seddiki, la moglie dell’ambasciatore Luca Attanasio e presidente dell’ong Mama Sofia. Vito Califano su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. L’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo lascia la moglie Zakia Seddiki e tre figli. Non c’è stato niente da fare per il diplomatico, rimasto ucciso in un agguato stamattina. Viaggiava in un convoglio del World Food Program quando l’attacco, presumibilmente con armi leggere, portato forse a fini di sequestro, ha ucciso lui e Vittorio Iacovacci, carabiniere italiano di 30 anni. Seddiki era impegnata anche lei in Africa. Aveva fondato nel 2017 a Kinshasa la ong Mama Sofia. Era presidente dell’organizzazione. “Sognare un mondo più bello insieme è possibile”, si legge sul sito dell’organizzazione. Parole attribuite alla donna. “Le necessità di assistenza in RDC sono così numerose che Mama Sofia ha deciso di operare secondo due diverse modalità. La prima è costituita da ‘Iniziative ed eventi’ ad hoc che intendono dare una risposta immediata a richieste di aiuto per situazioni di grave disagio e difficoltà. La seconda, attraverso la realizzazione di ‘Progetti’ duraturi che, ove possibile, possano auto-mantenersi nel tempo e creare reddito per chi ha più’ bisogno, soprattutto mamme e famiglie in difficoltà in RDC”, si legge sempre tra gli obiettivi del sito dell’ong. Seddiki era stata premiata con il marito lo scorso ottobre con il Premio Internazionale Nassiriya per la Pace 2020. “Non si può essere ciechi davanti a situazioni difficili che hanno come protagonisti i bambini. È necessario agire per dare loro un futuro migliore. Cerchiamo, nel nostro piccolo, di ridisegnare il mondo”, aveva dichiarato in quell’occasione la donna a Camerota. Diplomatico di lungo corso, e nonostante la giovane età, Attanasio aveva conosciuto sua moglie, di origini marocchine, durante la sua permanenza al consolato di Casablanca. I due si erano sposati nel 2015.

Parla la moglie di Attanasio. Ambasciatore Attanasio ucciso in Congo, la moglie Zakia: “Luca tradito da chi gli era vicino”.

Fabio Calcagni su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. “Qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito”. Sono parole chiare e durissime quelle che pronuncia Zakia Seddiki, moglie dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso lunedì mattina in un agguato in Congo assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista del convoglio Mustapha Milamb. Le accuse vengono pronunciate al telefono, con la voce ancora strozzata dal dolore delle perdita, dopo i funerali di Stato che si sono svolti giovedì nella basilica di Santa Maria degli Angeli a piazza della Repubblica a Roma. Da lì Zakia si è diretta a Limbiate, in Brianza, dove sabato verranno celebrate le esequie dell’ambasciatore 43enne morto nell’attacco nell’ex colonia belga. Zakia, sentita da Il Messaggero, conferma che il marito aveva fatto richiesta di una nuova auto blindata pochi giorni prima dell’agguato mortale avvenuto presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nel Congo orientale. Ma i due fatti non sarebbero connessi: “Luca aveva fatto richiesta per una nuova macchina perché quella che era a disposizione in ambasciata, aveva avuto alcuni problemi meccanici. Quindi non c’è nessuna relazione con ciò che è accaduto quella terribile mattina”. Ma in attesa delle indagini del Ros, delegati dalla Procura di Roma, “l’unica risposta” che si dà la moglie di Attanasio “è che qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito. Mentre io ho perso l’amore della mia vita”. Anche quella mattina i due si erano sentiti al telefono, via WhatsApp. “Lui lo faceva sempre, mi ha mandato due foto nel giro di pochissimi minuti. Venti minuti dopo mi ha ripetuto la stessa frase che mi diceva quando non eravamo insieme: “Ti amo amore mio e mi mancate”. Era tranquillo, sorridente. Non avevo nessuna percezione del pericolo e come me, lui. Anche nell’ultima foto, quella con il carabiniere Iacovacci rimasto vittima insieme a Luca nell’agguato. Nello scatto, sorridono e salutano. L’appuntamento di quella mattina poi era in programma da tempo per un progetto del World Food Programme. E invece…”.

Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 26 febbraio 2021. «Luca è stato tradito da qualcuno vicino a noi, alla nostra famiglia. Quella mattina la sua era un' operazione che non implicava direttamente il suo lavoro di ambasciatore». È ancora stravolta dal dolore Zakia Seddiki, moglie dell' ambasciatore italiano ucciso lunedì mattina in un agguato nella foresta di Virunga in Congo. Nella stessa imboscata è stato ucciso anche il carabiniere, Vittorio Iacovacci. Ieri, dopo i funerali di stato che si sono svolti nella basilica di Santa Maria degli Angeli a piazza della Repubblica a Roma, Zakia si è diretta a Limbiate dove sabato verranno celebrate le esequie. Al telefono, la sua voce è strozzata dal pianto. Ma è un dolore lucido.

Quella mattina, quando ha parlato l' ultima volta con suo marito?

«Ci siamo scritti via WhatsApp. Lui lo faceva sempre, mi ha mandato due foto nel giro di pochissimi minuti. Venti minuti dopo mi ha ripetuto la stessa frase che mi diceva quando non eravamo insieme: Ti amo amore mio e mi mancate. Era tranquillo, sorridente. Non avevo nessuna percezione del pericolo e come me, lui. Anche nell' ultima foto, quella con il carabiniere Iacovacci rimasto vittima insieme a Luca nell' agguato. Nello scatto, sorridono e salutano. L'appuntamento di quella mattina poi era in programma da tempo per un progetto del World Food Programme. E invece...».

Dal numero di suo marito, l'ultimo accesso è registrato alle 8.49: pochi minuti dopo averle scritto quindi e, da quanto ricostruito dagli investigatori, appena un' ora prima dell' agguato...

«Esatto. Anche se, cosa sia davvero accaduto ancora non è stato chiarito. Così come, cosa ci sia dietro la sua uccisione».

L'ambasciatore però, pochi giorni prima dell'agguato, aveva fatto richiesta di una nuova auto blindata: temeva forse per la vostra incolumità?

«No. Non ne avevamo motivo. Anzi, la nostra vita fino a quella mattina è andata avanti senza nessuna avvisaglia. Però è vero: Luca aveva fatto richiesta per una nuova macchina. Perché quella che era a disposizione in ambasciata, aveva avuto alcuni problemi meccanici. Quindi non c'è nessuna relazione con ciò che è accaduto quella terribile mattina».

Lei ha qualche sospetto?

«No, saranno le indagini ad accertare cosa è accaduto nella foresta. In queste ultime ore sono stata travolta dagli eventi, dal dolore per me, per la mia famiglia distrutta. L'unica risposta che mi sono data, e che posso dare, è che qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito. Mentre io ho perso l' amore della mia vita».

Come vi siete conosciuti?

«La prima volta che ci siamo incontrati Luca era console in Marocco. Un amico comune ci ha presentati, il giorno di San Valentino. Per tutti è due è stato un colpo di fulmine. Abbiamo iniziato a frequentarci, ci siamo innamorati. E non ci siamo mai più separati. Non so dire se è stato destino, di certo ci siamo scelti. Ma scegliere Luca è stato facile. Un uomo davvero speciale».

Quindi vi siete sposati...

«Sì, nel 2015 con il rito delle religioni miste. Perché sono di origine marocchine e di fede islamica. Ma tra di noi non c'era alcuna divisione, non è stato neanche necessario affrontare la questione. Dividevamo e condividevamo tutto perciò anche le rispettive religioni: frequentavo la chiesa, con i riti cattolici. E lui faceva lo stesso, partecipando ai riti islamici. Non c' è stato mai alcun problema anche sull'educazione delle nostre figlie a cui abbiamo sempre letto sia la bibbia che il corano».

Dopo i funerali che si celebreranno a Limbiate cosa farà?

«Non lo so. Negli ultimi quattro giorni la mia vita, quella delle mie figlie e della mia famiglia è stata stravolta: è un dolore che non so ancora come affrontare».

Attanasio, la moglie: «L’agenzia Onu disse a Luca che garantiva la sicurezza. Non lo ha fatto». Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2021. Zakia Seddiki racconta dei contatti di Attanasio con il Programma alimentare mondiale prima della partenza per Goma. Parla di lui, della vita insieme e dice: «All’Italia sarò sempre grata. Chiedo di rispettare Luca. Rispettiamolo, si rispetti il nostro dolore». «Chiedo di rispettare Luca», dice in questa intervista Zakia Seddiki, la moglie dell’ambasciatore Luca Attanasio ucciso lunedì scorso nella Repubblica Democratica del Congo. Di origini marocchine, fondatrice e presidente dell’organizzazione di volontari «Mama Sofia» che aiuta bambini e donne in difficoltà, parla come si esprime una persona gentile. Ferita nei sentimenti, ma che il dolore non trascina via da una natura garbata. Da lunedì scorso Zakia Seddiki sta attraversando giorni che hanno il peso di anni. Meno di una settimana fa la notizia dell’agguato al marito nel Nord Est del Paese africano, le incognite su perché siano stati colpiti a morte con armi il suo uomo, il carabiniere Vittorio Iacovacci che lo accompagnava e l’autista Mustapha Milambo. Martedì un volo notturno in aereo da Kinshasa per Roma. Mercoledì la camera mortuaria. Giovedì i funerali di Stato, poi partenza per la Lombardia nella quale verrà sepolto l’ambasciatore. Improvvisa notorietà non cercata. Un affetto strappato.

Che cosa sapeva del viaggio di suo marito nella zona di Goma, quasi 2.500 chilometri di distanza dall’ambasciata d’Italia a Kinshasa?

«Luca è stato invitato dal Programma alimentare mondiale per una visita su un progetto del Pam per le scuole. Era previsto che organizzassero tutto loro. Ha domandato: “Chi si occupa della sicurezza e di tutto?”. Hanno risposto: “Ci pensiamo noi alla sicurezza”».

Invece è a Kinshasa che l’ambasciata dispone di due auto blindate. È così?

«Sì, a Kinshasa ci sono scorta e macchine blindate. Per spostarsi secondo l’invito ricevuto, quindi, Luca ha dovuto porre la domanda: chi si occupa della sicurezza? Non è che il Pam sia una piccola organizzazione. Hanno detto ce ne occupiamo noi ed è giusto fidarsi di un’organizzazione così grande, soprattutto parlando di questo».

Nel viaggio Luca Attanasio era scortato soltanto da Iacovacci. In genere in posti come quello della visita si va con giubbotti antiproiettile.

«Sì, ma a Kinshasa abbiamo tutto. E Luca non ha mai fatto un passo fuori dalla residenza o l’ambasciata senza la sua scorta e senza i controlli della sicurezza. Si è fidato».

Che a occuparsi della sicurezza sarebbe stato il Pam gli era stato comunicato per telefono, secondo quanto lei ricorda, o in altri modi?

«Sì, al telefono. E ho sentito. Luca non ha mai viaggiato senza pensare alla sicurezza. Anche chi è nella scorta fa il proprio lavoro, contatta il posto, chiede informazioni. Erano sempre attenti. Sono stati respinti altri inviti perché, a fronte della richiesta, non c’erano mezzi per la sicurezza. Questa volta ci siamo fidati, tutti si sono fidati di un’istituzione come le Nazioni Unite (il Pam si coordina con l’Onu e il suo direttore esecutivo viene nominato anche dal segretario generale del Palazzo di Vetro, ndr)».

A quando risale la telefonata con il Pam?

«A subito dopo l’invito. Poi anche prima del viaggio sono state poste queste domande. Luca di solito le poneva e poi la sua scorta faceva il proprio lavoro».

Ricorda chi era la persona con la quale suo marito parlò al telefono?

«No».

Stando a quanto leggo lei ha dichiarato: «Luca è stato tradito da qualcuno vicino a noi, alla nostra famiglia». A chi si riferiva?

«È stato tradito nel senso che chi ha organizzato sapeva che la sicurezza non era nella misura adeguata per proteggere lui e le persone con lui».

Può sembrare che lei alludesse a una spia che avrebbe dato indicazioni.

«Il Pam non ha organizzato la protezione in modo opportuno. Non hanno fatto quello che va fatto per una zona a rischio. Sicuramente dentro il Pam qualcuno sapeva che la scorta non era efficace».

Quindi non c’entra qualcuno vicino alla famiglia?

«No, macché vicino alla nostra famiglia. No».

Lei ha avuto la possibilità di farsi un’idea sul motivo dell’attacco di lunedì all’auto nella quale si muovevano l’ambasciatore, il carabiniere e l’autista? Se l’assalto servisse a una rapina, a un rapimento o era un agguato di tipo politico?

«Non ho modo di saperlo».

Quando ha salutato suo marito?

«Mentre usciva di casa. Prima delle cinque».

Del mattino?

«Sì. Hanno cambiato tre volte l’orario del volo Kinshasa-Goma delle Nazioni Unite. Hanno detto si parte alle cinque, poi alle undici. La sera hanno informato che sarebbe stato alle cinque. Ovviamente quella mattina ci siamo salutati».

Lo scopo del viaggio quale era?

«Umanitario».

L’ambasciatore andava spesso fuori da Kinshasa?

«Sì, ha fatto varie missioni fuori. Consolari, umanitarie, per progetti, per andare a trovare italiani. Insieme abbiamo fatto un paio di viaggi, ma non c’erano mai stati questi problemi».

Non era la prima volta per lui a Goma.

«A Goma era stato, nella zona intorno però no».

Come descriverebbe Luca Attanasio a chi non lo ha conosciuto?

«Una persona semplice, che ama il prossimo. Motivato. Voleva fare tante cose. E col cuore generoso e grande. Penso che nessuna parola può definire Luca. È unico».

Quando vi eravate conosciuti a Casablanca avevate già in comune l’interesse per attività umanitarie?

«Ci siamo incontrati come due persone normali, tramite un amico di entrambi. Poi abbiamo scoperto di avere cose in comune».

Lei doveva ancora fondare «Mama Sofia», l’organizzazione con la quale aiuta a curarsi bambini di strada e assiste detenute?

«’Mama Sofia’ è stata fondata quando siamo arrivati in Congo».

Che cosa aveva portato Luca Attanasio e lei a Kinshasa?

«In precedenza eravamo in Nigeria, lo ha deciso il ministero. Luca è stato chiamato per la sede in Congo. Come uno che lavora per lo Stato, ha sempre detto di sì. Come moglie e madre l’ho seguito».

La Costituzione italiana, all’articolo 19, riconosce che «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede». Eppure c’è chi considera ragione di discussione se suo marito si fosse convertito all’Islam oppure no.

«Tra di noi dopo che ci siamo conosciuti è andata così: ognuno ha la sua religione, ha la sua identità e l’amore era più forte. Ognuno ha mantenuto la sua identità con rispetto dell’altro. Non è che sia complicato».

Gliene ho parlato soltanto perché le sue parole su questo valgono più di dicerie altrui.

«Alle volte non capiamo perché certa gente deve approfittare di momenti così brutti per inventarsi le cose».

Quale ricordo conserva del carabiniere Iacovacci?

«Quelli della scorta a Kinshasa erano persone di famiglia, sempre disponibili 24 ore su 24. Vittorio era un ragazzo giovane, a una delle prime missioni, che cercava di dare tutto e anche di più. Un ragazzo educato che faceva il suo lavoro come si doveva».

Lei adesso dovrà tornare in Congo.

«Per forza. Ho lì gli affari personali e dovrò chiudere le cose per tornare».

In Italia?

«Non lo so. È un momento brutto che rende difficile pensare già ad altri argomenti».

Se ritiene lei di dover aggiungere qualcosa, dica pure.

«L’Italia è nel cuore. È stato sempre il mio secondo Paese. È il Paese di mio marito, ho tre bimbe con identità italiana. All’Italia sarò sempre grata. Chiedo di rispettare Luca. Rispettiamolo, si rispetti il nostro dolore. Lo dico a chi vuole solo scrivere per scrivere, senza avere informazioni, o cambiare mie parole per dare un altro senso. Chiedo rispetto. Rispetto per una persona che amava il suo Paese».

Grazia Longo per "la Stampa" il 23 febbraio 2021. La villetta in cui il carabiniere Vittorio Iacovacci è cresciuto prima di arruolarsi e partire in missione per il Congo dove ha trovato la morte a soli 30 anni, è immersa nelle campagne di Sonnino, provincia di Latina. Il cancello è sempre aperto per accogliere parenti e amici che vengono a offrire una parola di conforto a papà Marcello, operaio, mamma Angela e ad Alessia, la sorella di 27 anni del militare ucciso. L' altro fratello, Dario, è anch' egli in missione in Libia come incursore della Marina. Un cordone di carabinieri della compagnia di Terracina presidia l' ingresso della casa a protezione della famiglia. Ma uno zio si ferma a parlare con i cronisti per raccontare chi era Vittorio. Un altro si fa portavoce del dolore e della disperazione dei genitori del giovane. «Mio nipote era un ragazzo stupendo, un vero servitore dello Stato - dice lo zio Angelo -. I miei cognati non riescono a darsi pace per quello che è accaduto. Marcello, che tra l' altro è a letto malato con la febbre, mi ha detto "Che ci vuoi fare? Lo sai anche tu che fare il carabiniere era il suo sogno, tanto che ha lasciato l'esercito per arruolarsi. Uno pensa che certe tragedie non capitano mai e invece poi succedono". Mia cognata Angela invece non ha la forza neppure di parlare, piange a dirotto insieme alla figlia». Sarà proprio Alessia, impiegata in una ditta di corrieri espresso, insieme a Domenica, fidanzata di Vittorio, assistente in uno studio dentistico, a partire per il Congo per riportare in Italia la salma. «Ci vanno insieme per farsi coraggio l'una con l'altra - interviene un altro zio, Giovanni -. Domenica e Vittorio erano fidanzati da alcuni anni, lui con i risparmi aveva costruito una villetta qui, proprio dietro a quella dei suoi genitori. Avevano programmato di sposarsi l'anno scorso ma poi hanno dovuto rimandare per colpa del coronavirus. Ora si parlava di giugno, ma ancora una data non era stata fissata». Quel che è certo che a breve i due fidanzati si sarebbero potuti riabbracciare: la missione di Vittorio in Congo stava per scadere, sarebbe dovuto rientrare in Italia il 10 marzo. «Dire che siamo di fronte a uno scherzo del destino è dire poco - osserva un amico, Marco -. Vittorio avrebbe compiuto 31 anni il 6 marzo, il 10 sarebbe dovuto ritornare a Sonnino e invece ce lo riporteranno chiuso in una bara. Era un ragazzo straordinario, un carabiniere con i calli alle mani, come diciamo qui in paese per spiegare che era un gran lavoratore». Il militare - che quand' era nell' Esercito era stato anche paracadutista della Folgore a Livorno - era partito per il Congo, a Kinshasa, lo scorso settembre. Nel 2016, dopo il trasferimento nell' Arma, era stato destinato al Tredicesimo Reggimento carabinieri «Friuli Venezia Giulia» con sede a Gorizia. Lì ha svolto diversi corsi di addestramento per le operazioni militari all' estero e nel 2018 anche quello per la sicurezza nelle ambasciate. Sino a ieri ha fatto parte del team di «close protection», insieme ad altri operatori del XIII Reggimento, dal quale provengono molti militari dell' Arma destinati alle missioni all' estero. Come alcuni fra i caduti dell'attentato di Nassiriya del novembre 2003. Il ministro della difesa Lorenzo Guerini dichiara «profondo dolore per l'attacco nel quale oggi hanno perso la vita l'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. Alle famiglie delle vittime, all'Arma dei carabinieri il più profondo cordoglio, vicinanza e solidarietà a nome mio e di tutta la Difesa». Il comandante generale dell'Arma, generale Teo Luzi esprime vicinanza alle famiglie delle due vittime e bolla l'agguato come «un gesto vile che ci lascia sgomenti. I carabinieri ancora una volta pagano un prezzo altissimo per il loro servizio fatto di impegno e sacrificio a tutela delle sicurezza dei cittadini, delle Istituzioni in Italia e all' estero. Sono 16 le ambasciate a rischio nel mondo, Vittorio Iacovacci era stato addestrato ma purtroppo lo hanno ucciso». «La comunità di Sonnino è sgomenta per questa giovane e tragica perdita» afferma il sindaco Luciano De Angelis. «Era andato a portare la pace - aggiunge - ed è stato ucciso. Ci stringiamo attorno alla famiglia. Il giorno del funerale proclamerò il lutto cittadino». E il governatore del Lazio Nicola Zingaretti conclude: «Alla famiglia e ai suoi amici la vicinanza di tutta la Regione Lazio, non dimenticheremo mai il sacrificio di Vittorio Iacovacci».

Chi era Vittorio Iacovacci, il carabiniere ucciso nell’attentato in Congo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Si chiamava Vittorio Iacovacci il carabiniere ucciso nell’attacco in Congo contro un convoglio delle Nazioni Unite. L’attacco è avvenuto questa mattina presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nella parte orientale del Paese. Iacovacci faceva parte del convoglio in cui viaggiava l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, l’ambasciatore morto in seguito alle ferite riportate nell’attacco. Il carabiniere, che avrebbe compiuto 31 anni il prossimo marzo, era originario di Sonnino, in provincia di Latina, ed era effettivo al 13esimo Reggimento Carabinieri ‘Friuli Venezia Giulia’ con sede a Gorizia, avendo prestato servizio in passato anche alla Folgore. Iacovacci non era sposato e non aveva figli e si era specializzato proprio come addetto alla protezione e scorta di personale sensibile. Secondo alcuni media locali come Actualite.cd, gli autori dell’attentato avrebbero avuto come obiettivo principale proprio Attanasio. Il sito riferisce quindi che sul posto che “sono intervenute le Fardc”, ossia le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo, “e le guardie del Parco nazionale dei Virunga”. Il commando terroristico avrebbe utilizzato armi leggere per l’attacco avvenuto nel percorso tra Goma e Bukavu. La zona è ritenuta pericolosa a causa della presenza in particolare dei ribelli della Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) che tendono imboscate in strada partendo dal parco. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha “espresso profondo cordoglio del Governo e suo per la tragica morte di Luca Attanasio, Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, e di Vittorio Iacovacci, appuntato dei Carabinieri che lo accompagnava a bordo di un convoglio a Goma”. Il Presidente del Consiglio e il Governo “si stringono ai familiari, ai colleghi della Farnesina e dell’Arma dei Carabinieri. La Presidenza del Consiglio segue con la massima attenzione gli sviluppi in coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri”. Il sindaco di Sonnino, Luciano De Angelis, ha già annunciato di voler proclamare il lutto cittadino: “La comunità di Sonnino è sgomenta per questa giovane e tragica perdita. Proclameremo il lutto cittadino. Era andato a portare la pace ed è stato ucciso – conclude il sindaco – ci stringiamo attorno alla famiglia”.

Attentato Congo: il carabiniere Iacovacci si sarebbe sposato in estate. Notizie.it il 22/02/2021. Si sarebbe sposato nell’estate del 2021 il carabiniere Vittorio Iacovacci morto nell’attacco insieme all’ambasciatore Attanasio. Una morta avvenuta troppo presto quella di Vittorio Iacovacci, il carabiniere deceduto in seguito all’attacco nella Repubblica Democratica del Congo durante la quale sono morti l’autista del convoglio e l’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Iacovacci, giovane carabiniere di 30 anni si sarebbe dovuto sposare nell’estate del 2021 ed era prossimo al ritorno in Italia il cui rientro sarebbe stato fissato già nelle prossime settimane. Un dolore quindi troppo grande per i parenti, la fidanzata e chiunque volesse bene al giovane militare. Nel frattempo dall’Italia e non solo è arrivato il cordoglio per il militare e l’ambasciatore italiano Luca Attanasio. In segno di lutto le autorità italiane hanno esposto a Palazzo Chigi e negli uffici pubblici ministeriali le bandiere italiane ed europea a mezz’asta. Sarebbe dovuto rientrare nelle prossime settimane il carabiniere Vittorio Iacovacci, uno degli uomini uccisi durante l’attacco nel Congo. Membro effettivo del XIII Reggimento Gorizia Iacovacci si trovava nel Paese Africano in missione ormai da settembre. Un’esperienza prossima al termine che avrebbe dovuto essere coronata con il matrimonio del militare che sarebbe stato programmato per l’estate del 2021. A dare l’annuncio della morte del carabiniere di Sonnino il comandante dei carabinieri della stazione del paese natale Gaetano Borrelli e il comandante della compagnia dei carabinieri di Terracina Francesco Vivona. A dare il cordoglio per la morte del giovane carabiniere anche il sindaco di Sonnino, paese del quale Iacovacci era originario: “Una notizia straziante e dolorosa. Una notizia che lascia attoniti per la drammaticità e la violenza. Sono rattristato per la morte dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, rimasto ucciso insieme al nostro paesano Vittorio Iacovacci, un militare dell’Arma dei Carabinieri, e all’autista, nella cittadina di Kanyamahoro, l’area Est del Congo al confine con il Rwanda. Voglio condannare con fermezza questa azione violenta e vigliacca, si tratta di una enorme tragedia a cui non possiamo restare indifferenti. Vittorio appena trentenne ha pagato con la vita il suo spirito di sacrificio e l’abnegazione per la divisa che indossava. Ci stringiamo al dolore dei familiari e di tutte le persone che lo conoscevano. Solidarietà al corpo diplomatico e all’Arma dei Carabinieri. Il giorno dei funerali sarà proclamato il lutto cittadino”.

Il sindaco: "Intitoliamogli la caserma dei carabinieri". La vita distrutta di Vittorio Iacovacci: la missione in Congo, il rientro tra pochi giorni e il matrimonio in estate. Giovanni Pisano su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Avrebbe compiuto 31 anni tra poche settimane, a marzo, quando sarebbe dovuto tornare dalla sua missione in Congo, dove si trovava dallo scorso settembre, e programmare il matrimonio con la sua fidanzata storica (che dal nord si era trasferita nel suo paesino) in programma a giugno. Sonnino, piccolo comune in provincia di Latina, è un paese segnato dal dolore. La salma di Vittorio Iacovacci, il carabiniere ucciso in un agguato nella foresta del Congo insieme all’ambasciatore italiano Luca Attanasio, 43 anni, e al loro autista, Mustapha Milambo, tornerà questa sera in Italia e domattina, 24 febbraio, è disposta l’autopsia al Policlinico Gemelli di Roma. Vittorio, secondo una prima ricostruzione della presidenza congolese, è stato ucciso dai rapitori che hanno assalito il convoglio su cui viaggiavano in totale sette persone. I killer gli hanno sparato a bruciapelo. “A 500 metri, i rapitori hanno tirato da distanza ravvicinata sulla guardia del corpo, deceduta sul posto, e sull’ambasciatore, ferendolo all’addome”, si legge nel comunicato riportato dal sito Cas-Info. Il militare è morto “nell’adempimento del proprio dovere” e nella villetta di Capocroce, frazione di Sonnino (Latina), a un’ora e mezza sud di Roma, i genitori Marcello e Angela e la sorella minore Alessia sono distrutti. Vittorio ha un altro fratello maggiore, Dario, impegnato in una missione in Libia con la Marina Militare. Vittorio era a Kinshasa dallo scorso settembre e faceva parte dell’aliquota dell’Arma che garantisce la tutela della rappresentanza diplomatica italiana in Congo, paese dove gli equilibri sono instabili da tempo. Il suo compito era quello quello di proteggere l’ambasciatore Attanasio nelle sue uscite. Il militare – che in precedenza aveva prestato servizio anche alla Folgore – si arruolato nell’Arma nel 2016 e come primo servizio, nello stesso anno, e’ stato destinato al 13/o Reggimento Carabinieri ‘Friuli Venezia Giulia’ con sede a Gorizia dove ha svolto diversi corsi di addestramento per le operazioni militari all’estero e nel 2018 anche quello per la sicurezza nelle ambasciate. “Era un ragazzo indescrivibile, pieno di vita, era orgoglioso di quello che faceva”, racconta ai cronisti presenti all’esterno della villetta della famiglia lo zio Benedetto. “Non sono in grado di parlare per il dolore. Amava la sua fidanzata ed il calcio“, dice Marco, altro zio del 31enne. Un’altra zia, tra le lacrime, spiega che “era un bravissimo ragazzo. Era fidanzato con una ragazza originaria del Nord che ora vive e lavora qui a Sonnino. Erano una bellissima coppia, avevano già preparato casa e dovevano sposarsi. L’ho visto l’ultima volta a settembre prima che partisse per il Congo”. “La comunità di Sonnino è sgomenta per questa giovane e tragica perdita”, fa sapere il sindaco Luciano De Angelis. “Era andato a portare la pace – aggiunge – ed è stato ucciso. Ci stringiamo attorno alla famiglia”. Il comune adesso vorrebbe intitolargli ora la locale caserma dei carabinieri. “Noi oltre ad indire il giorno di lutto cittadino in concomitanza con i funerali, vogliamo chiedere ai vertici dell’Arma di intitolare la caserma dei carabinieri di Sonnino a Vittorio Iacovacci” dice all’Ansa il sindaco.

Da "la Stampa" il 23 febbraio 2021. Si chiamava Mustapha Milambo l'autista di Luca Attanasio ucciso insieme all'ambasciatore italiano e al carabiniere Vittorio Iacovacci nell' attacco ieri mattina nel Nord Kivu. Mustapha era nato e risiedeva a Goma, proprio dove è avvenuto l'attentato. Dopo aver frequentato il Collège Alfajiri, a Bukavu, e l'università di Kinshasa, aveva iniziato a lavorare per il World Food Programme come autista. Secondo ciò che vi è scritto sui suoi social, l' autista lascia una moglie e quattro figli. In diversi post sui social condannava con decisione la violenza di gruppi ribelli ed estremisti che popolano il Nord Ovest del Congo. Il presidente della Repubblica democratica del Congo, Félix Tshisekedi Tshilombo, citato dal sito Actualite.cd ha condannato fermamente «questi atti odiosi perpetrati a Kibumba, vicino a Goma (nel Kivu-Nord)» e ha dato l' incarico ai «servizi preposti» di fare luce sull' accaduto.

Era sulla jeep con Attanasio e Iacovacci. Chi è Rocco Leone, telefonata alla moglie dell’italiano sopravvissuto alla strage in Congo: “Sto bene”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Rocco Leone è l’unico italiano sopravvissuto alla strage avvenuta lunedì mattina, 22 febbraio, in Congo. Sono passate da poco le 10 quando nel villaggio di Kibumba, a tre chilometri da Goma, nel cuore della foresta del Paese africano due jeep bianche (non blindate) del Programma alimentare mondiale ‘Pam’ sono dirette alla a volta del comune di Kiwanja, in territorio di Rutshuru, per far visita alla scuola di un villaggio. Leone, 56 anni, è il vice direttore del Pam a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, ed è rimasto illeso nel conflitto a fuoco tra i ranger e i rapitori dove hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, 43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci, 30 anni, e l’autista Mustapha Milambo. E’ stato portato in ospedale per controlli subito dopo l’agguato ma non ha riportato alcuna ferita.

LA TELEFONATA ALLA MOGLIE – La moglie di Rocco Leone, direttore aggiunto del World Food Programme, sopravvissuto all’agguato in Congo, ha potuto parlare con il marito, che l’avrebbe rassicurata sulle sue condizioni di salute. Il cooperatore è ricoverato in un ospedale africano dopo lo shock in seguito alla sparatoria. Della telefonata con la moglie, che abita a Firenze, riferisce il sito internet Notizie di Prato. Rocco Leone, 56 anni, ha studiato all’istituto Cicognini di Prato e poi si è laureato in matematica. A Prato è conosciuto anche per la sua attività di scout, visto che è stato a lungo nell’Agesci. Da circa 20 anni lavora per il World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare ed è presente il quasi 80 paesi. Leone era in Congo da circa due anni ma in precedenza aveva vissuto in molti altri paesi africani. A Prato vivono il padre e le due sorelle.

LA RICOSTRUZIONE – Rocco Leone si trovava sulla jeep, con i distintivi Onu sulle portiere, insieme ad Attanasio, Iacovacci, due autisti, due bodyguard congolesi: sette persone in tutto. Alla missione avrebbe dovuto partecipare anche l’addetto consolare Alfredo Russo ma all’ultimo è rimasto a casa. Secondo una prima ricostruzione, “a circa 25 chilometri dalla città di Goma, la prima autovettura, sulla quale viaggiavano le vittime, è stata oggetto di colpi di arma da fuoco esplosi da un gruppo armato che avrebbe agito per rapinare il convoglio e/o sequestrare personale dell’Onu”. Dopo aver ucciso l’autista, sempre secondo la prima ricostruzione, gli assalitori “hanno aperto il fuoco sugli altri occupanti del veicolo; subito dopo hanno prelevato dal mezzo l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci, presumibilmente al fine di rapirli e chiedere poi un riscatto in denaro”. A quel punto, seguendo la ricostruzione dell’intelligence, un addetto alla sicurezza dell’Onu che viaggiava sulla seconda vettura (non colpita da proiettili) ha intavolato “una trattativa con gli assalitori, chiarendo lo status dei connazionali”. Successivamente vi sarebbe stato uno scontro a fuoco tra gli assalitori ed elementi appartenenti alle forze Rangers ed all’Esercito congolese intervenuti dopo aver sentito i primi spari. Conflitto a fuoco dove hanno perso la vita i due italiani e il loro autista.

L’INDAGINE DEI ROS – Saranno acquisiti dagli investigatori del Ros dei carabinieri i verbali dei testimoni ascoltati dalle autorità di polizia locale in relazione all’agguato costato la vita ad Attanasio e Iacovacci. Gli inquirenti della Procura di Roma, inoltre, hanno disposto controlli e verifiche anche sulle armi utilizzate dai ranger del parco del Virunga e che sono intervenuti durante l’azione in cui hanno perso la vita i due italiani ed il loro autista congolese. Tra i testi ascoltati ieri – si spiega – c’è anche l’italiano funzionario del World Food Programme, Rocco Leone. Oltre a due guardie del corpo congolesi e un altro guidatore locale. I pm di Roma Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti che indagano per sequestro di persona con finalità di terrorismo hanno disposto l’esame autoptico dei due corpi (in Italia in serata) che verrà effettuato presso l’istituto di medicina legale del Policlinico mercoledì 24 febbraio. Secondo un comunicato della presidenza congolese sono stati i rapitori a uccidere l’ambasciatore e il carabiniere, sparando loro a bruciapelo. “Allertate, le Ecoguardie e le Fardc”, le Forze armate congolesi, “si sono messe alle calcagna del nemico. A 500 metri, i rapitori hanno tirato da distanza ravvicinata sulla guardia del corpo, deceduta sul posto, e sull’ambasciatore, ferendolo all’addome”, si legge nel comunicato riportato dal sito Cas-Info.

Raffaella Scuderi per "la Repubblica" il 25 febbraio 2021. «Non sembrava neanche lui. Era sotto shock. Si interrompeva a ogni parola per la commozione». Rocco Leone si trovava sul convoglio assalito da una delle 122 milizie che uccidono, rapiscono e rapinano sulla strada che da Goma porta verso il Nord delle Repubblica democratica del Congo. Direttore del programma Onu del World Food Programme, è il terzo italiano a bordo dei due veicoli assaliti, scampato alla morte perchè era rimasto indietro. Un vantaggio che gli ha permesso di scappare prima che scoppiasse l'inferno. Di lui ci parla il missionario saveriano Franco Bordignon, amico fraterno dell' ambasciatore Attanasio, da quasi 50 anni in Congo. La sera di martedì ha cenato con Leone. «Mi ha raccontato quello che sapeva, anche se di quanto successo nella boscaglia a Luca e a Iacovacci non aveva visto nulla perché era già in fuga». Solo il giorno prima del massacro, Leone, Attanasio e i due uomini della scorta, Iacovacci e Mansour del Wfp, avevano percorso duecento chilometri di strada sterrata da Goma a Bukavu per andare a trovare Bordignon alla missione. «Luca voleva aprire un consolato qui a Goma. Era la quarta volta in meno di un anno che veniva da noi. Nessun ambasciatore in 50 anni lo aveva mai fatto prima». Il viaggio di sabato dei quattro, anche questa volta, era avvenuto senza scorta e senza blindati. Una sola persona armata, il carabiniere Iacovacci, perché la guardia di sicurezza Onu non indossava armi. «Domenica alle 10.15 - racconta Bordignon riportando le parole di Leone - sono stati fermati da un commando di sei persone armate, violente e disorganizzate. Li hanno obbligati tutti a scendere. Mustapha, l' autista, si è rifiutato ed è stato freddato sul posto». A quel punto il gruppo del convoglio di sei persone è stato brutalmente trascinato nella boscaglia. «Mentre Attanasio e Iacovacci camminavano davanti trascinati dai banditi, Leone invece, mi ha raccontato, ha avuto la fortuna di rimanere indietro. Questo gli ha consentito poi di scappare». Stando alle parole di Bordignon, Leone non avrebbe visto nulla di quanto successo dopo, perché appena libero, è corso sulla strada per cercare i soccorsi. «Intanto il gruppo di balordi veniva circondato dai ranger del parco Virunga e dalle forze armate congolesi. Lo scontro a fuoco è avvenuto con i nostri due connazionali in mezzo. Attanasio è stato colpito da tre proiettili, racconta il padre saveriano, Iacovacci da uno-due, mortali. Dal momento in cui il nostro ambasciatore è stato colpito a quando è arrivato all' ospedale di Goma dove è morto, sono passati 50 minuti. Un tempo lunghissimo e cruciale in cui forse si sarebbe potuto salvare». Certo è che stiamo parlando di 25 chilometri di distanza in un territorio immerso nella foresta e attraversato da strade sterrate molto trafficate. Bordignon continua il suo racconto, e ci tiene a sottolineare, d' accordo con Leone, che il vero testimone chiave dell' assalto, è la guardia di sicurezza del Wfp, Mansour Rwagaza, che si trova ricoverato ancora sotto shock all' ospedale di Goma. Lui si è salvato fingendosi morto a terra. «Sarà impossibile determinare chi li ha uccisi - dice il missionario -. Ne ho viste tante di inchieste in Congo. Iniziano, ma non hanno mai fine. Leone mi ha detto che erano molto brutali e sembravano criminali allo sbaraglio, improvvisati. È altamente improbabile che appartengano alle Fdlr (le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, che appartengono all' etnia hutu, nemica giurato del governo di Kigali, ndr ). Anche il direttore del Pam con cui ho parlato la pensa così». Kinshasa, a distanza di poche ore dall' agguato, attraverso il ministro dell' Interno, ha subito puntato il dito contro le milizie Fdlr, riportando le testimonianze di abitanti locali e basandosi sulla lingua parlata dai banditi: il kinyarwanda. «Ma in questa regione tutti la parlano. Che prova è? Il gruppo ribelle Fdlr è come il comune denominatore in matematica. Se la prendono tutti con loro». E la sicurezza. «Hanno ammazzato un ambasciatore come niente fosse - continua il missionario - . Non è concepibile che lui girasse senza scorta e senza blindato, in una zona di guerra come questa. Ogni giorno quella strada è percorsa da veicoli Onu e Pam. Tutti sono scortati e blindati». Secondo Bordignon, che conosceva molto bene Attanasio, forse è stato proprio lui a non insistere sulla scorta, «per non disturbare». «Era un bellissimo amico. Insieme abbiamo fatto tante cose. Aveva tanti progetti. Semplice, squisito. Parlava sempre con tutti. Aveva una missione umana e cristiana, perché era un forte credente», conclude il missionario con la voce incrinata per la commozione.

Stamane l'informativa alla Camera del ministro Di Maio. Rientrate in Italia le salme di Attanasio e Iacovacci, Draghi a Ciampino: i mille dubbi nelle indagini. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. Sono rientrati nella tarda serata di ieri in Italia i corpi dell’ambasciatore nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, morti in un agguato lunedì mattina. Il rientro all’aeroporto di Ciampino, a Roma. Presente il Presidente del Consiglio Mario Draghi. Assente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma soltanto per problemi di salute. Presenti anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e degli Esteri Luigi Di Maio. Prima dei funerali si terranno le autopsie sui cadaveri al Policlinico Gemelli di Roma. Gli investigatori dei Ros hanno preteso e ottenuto che le autorità congolesi intervenissero il meno possibile sui corpi e sulla scena del crimine per raccogliere elementi. I funerali di Stato si terranno domani alla Chiesa di Santa Maria degli Angeli. Ancora troppi i dubbi sull’agguato che ha colpito il diplomatico e il militare italiani. Il governo, con il ministro dell’Interno, di Kinshasa ha incolpato i guerriglieri hutu del Fronte Democratico di liberazione del Ruanda. Questi hanno smentito, rimandando l’accusa al mittente. Nel Nord del Kivu sono centinaia, circa 170 le bande che imperversano. Hanno natura politica, etnica, religiosa o semplicemente criminale. C’è ancora anche da capire chi ha esploso i proiettili che hanno ucciso rapidamente l’ambasciatore e il carabiniere. E anche da scoprire perché la strada sulla quale viaggiava il convoglio di due auto – non blindate – era stata definita sicura dall’Onu. “Asse rosso, negativo”, il messaggio che definiva la strada Rn2 sulla quale viaggiavano i due veicoli e che avrebbe portato il diplomatico in visita a una scuola di Rutshuru. Tutto organizzato dal World Food Programme. Nessun “asse rosso” dunque, nessun pericolo. I due uomini non indossavano nemmeno il giubbotto anti-proiettili. Su tutto questo indagano i Ros in Congo da lunedì stesso. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine, al momento contro ignoti, per sequestro di persona con finalità di terrorismo. Preziosa la testimonianza di Rocco Leone, vicedirettore locale del World Food Programme, che viaggiava con Attanasio e Iacovacci. Morto anche l’autista della jeep sulla quale viaggiava il diplomatico nell’attacco. Stamattina alle 9:00 alla Camera dei deputati l’informativa del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, alle 10:45 al Senato.

Grazia Longo e Giordano Stabile per "la Stampa" il 24 febbraio 2021. C'era il presidente del Consiglio Mario Draghi - insieme ai ministri di Esteri e Difesa Di Maio e Guerini - ad attenderli sulla pista dell' aeroporto di Ciampino. L' aereo militare è partito ieri pomeriggio alle 16 e 20 da Goma, Kivu settentrionale, ed è atterrato alle 23,30. A bordo le salme dell' ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, caduti in un agguato dai risvolti ancora poco chiari. Le bare, avvolte nel tricolore, sono state portate a spalla dai militari che le hanno accompagnate. Le salme sono state poi trasferite al Policlinico Gemelli dove, su ordine della Procura, già stamattina dovrebbero svolgersi le autopsie. Sono previsti per domani mattina a Roma i funerali di Stato di Attanasio e di Iacovacci. Le esequie si terranno nella chiesa di Santa Maria degli Angeli. Successivamente le salme saranno trasferite nei Comuni di residenza, Limbiate (Monza-Brianza) per Attanasio e Sonnino (Latina) per Iacovacci. Fra i militari presenti a Ciampino ieri c' erano anche gli esperti del Ros, che hanno raccolto materiale e testimonianze per tutta la giornata di ieri. Fondamentale sarà quella di Rocco Leone, vicedirettore in Congo del Programma alimentare mondiale, (Pam) che sarà sentito però al suo ritorno in Italia per motivi giurisdizionali. Faceva parte del gruppo di sette persone sulle due auto del convoglio, ma è riuscito a salvarsi come in un film. Mentre gli altri venivano trascinati verso la boscaglia, ha finto di zoppicare e i sequestratori l' hanno lasciato indietro. È illeso e sotto choc. Ha parlato però con la moglie al telefono. Anche gli altri tre colleghi rapiti, tutti congolesi, Fidele Zabandora, Mansour Rwagaza, Claude Mukata, sono stati rilasciati, in buone condizioni. Leone sarà sentito in Italia dai pm Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti. Originario di Prato, potrebbe rientrare presto in Italia. Altrimenti si procederà con convocazione tramite rogatoria. Il suo racconto è prezioso per ricostruire le modalità dell'attacco. È un fatto acclarato che sul posto sono intervenuti i ranger, che hanno il compito di presidiare il parco del Virunga. Ma chi ha sparato per primo? Chi ha colpito a morte l'ambasciatore e il carabiniere? E quest' ultimo a che punto è intervenuto nella sparatoria? I Ros ieri hanno recuperato anche la sua pistola, che sarà sottoposta ad analisi. Si procederà poi a comparare le munizioni usate dai guerriglieri e dai ranger. In Congo usano tutti lo stesso fucile mitragliatore, il Kalashnikov Ak47, per cui sarà importante verificare i proiettili incastrati nelle jeep colpite nell' agguato per metterli a confronto con quelli che verranno recuperati stamattina nell' autopsia delle due vittime al Policlinico Gemelli. Restano troppi dubbi. Il gruppo accusato, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, smentisce e riversa i sospetti sull' esercito regolare congolese. Dall' Onu filtra sconcerto su come è stata organizzata la sicurezza. Martedì il nostro diplomatico si era fidato del Pam ed era volato da Kinshasha a Goma convinto di trovare un dispositivo adeguato. E invece si è trovato davanti «due vecchi fuoristrada» non blindati. Ieri il dipartimento di sicurezza delle Nazioni unite si è riunito con i rappresentanti delle sue agenzie a Goma. Un funzionario dell'Unicef, Jean Metenier, ha ribadito che «non c' erano segni di un possibile attacco». Anche perché i gruppi armati che operano nel distretto di Rutshuru non hanno mai osato assalire le organizzazioni internazionali. Ma alcuni testimoni parlano alle tivù locali di un agguato «ben organizzato» e confermano che l'autista, Mustafa Milambo, è stato ucciso subito. I sequestratori erano sei, «cinque armati di kalashnikov e uno di machete». Hanno costretto i passeggeri a scendere e a seguirli nel fitto della foresta ai lati della strada. È a quel punto che, secondo la presidenza congolese, sono intervenuti i militari. Dopo un chilometro in fuga, quando i ranger erano a «500 metri», i rapitori hanno sparato a bruciapelo a Iacovacci e all'ambasciatore. Un'esecuzione feroce, che le Fdlr respingono. «Non abbiamo alcuna postazione nell' area - ha precisato un portavoce - il convoglio è stato attaccato non lontano dall' esercito congolese». Kinshasa è convinta che siano loro perché «parlavano kinyarwanda», una lingua ruandese. Ma in quell'area non sono i soli. Ci sono anche i Nyatura o l' ex M-23. I Ros allargheranno lo spettro delle indagini. Nel Kivu settentrionale operano 45 gruppi differenti, tutti con metodi identici. Sequestri, estorsioni, "tasse" imposte ai contadini, traffici di avorio, minerali fra il Congo e i Paesi vicini. Secondo la ong Alerte congolaise si tratta di «banditi, senza un'agenda politica». Venti ranger sono stati uccisi l'anno scorso, e oltre duemila civili sono morti fra il gennaio del 2019 e l'ottobre del 2020. L'arrivo di un gruppo jihadista legato all' Isis, l'Adf, ha peggiorato la situazione. Il governo di Kinshasa ha assicurato «piena collaborazione» nelle indagini.

Congo, la Camera ricorda Attanasio e Iacovacci. Fico: "Ferocia vigliacca e incomprensibile". L'Espresso il 23 febbraio 2021. Un minuto di silenzio e le poche parole di Roberto Fico, presidente della Camera dei Deputati, nel ricordo dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in un attentato in Congo. "Siamo addolorati e costernati per questo atto di incomprensibile e vigliacca ferocia contro due connazionali impegnati in un'azione di sostegno e di solidarietà".

Da repubblica.it il 23 febbraio 2021. Queste immagini provengono da Kibumba, il luogo dell'attacco al convoglio Wfp su cui viaggiavano l'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi insieme all'autista congolese Mustapha Milambo. Il video, girato nel momento dell'imboscata da un uomo del villaggio, descrive i momenti di paura in cui avviene l'attacco, gli spari degli aggressori e la gente che getta a terra moto e biciclette con tutto il carico per allontanarsi. Fra le urla si distingue una frase: "Eccoli, eccoli. Sono loro. Si stanno togliendo l'uniforme". I gruppi armati che operano nell'area, che confina con il Parco Virunga, spesso indossano le uniformi dei ranger per creare confusione.

L’addio a Luca e Vittorio: «Sono stati uccisi da una violenza stupida». Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 26/2/2021. I funerali hanno ritmi lenti, ma in certi momenti possono portare velocemente il pensiero in altri tempi e altri luoghi. Vicino alla Fontana delle Naiadi, ieri a Roma, le autorità che si raccoglievano davanti ai bagagliai aperti delle auto con le bare dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci sembravano una versione ordinata dell’affacciarsi attonito di autorità e funzionari dietro alla Renault 4 nella quale, il 9 maggio del 1978, giaceva in via Caetani martoriato il corpo di Aldo Moro. In questo caso casse rivestire di bandiere tricolori coprivano due uomini dello Stato ai quali lunedì scorso, nella Repubblica democratica del Congo, per moventi ancora non del tutto noti erano stati inflitti supplizi più veloci, ma non meno ingiusti, di quello che le Brigate rosse riservarono allo statista sequestrato. «Funerali di Stato» è definizione che pare irreggimentare sofferenze, stirarle secondo un protocollo rituale. È vero in parte, non per intero. Tratteneva la commozione con disciplina, eppure si sentiva che dietro alla sua voce c’era un uomo autentico l’appuntato che nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri ha letto la Preghiera del Carabiniere. Si chiama Salvatore Di Giacomo. Si è offerto di sostituire Iacovacci a Kinshasa e vigilare in Congo sull’ambasciatore che prenderà il posto di Attanasio. Sul viso dell’appuntato le lacrime si stavano affacciando. L’autocontrollo le ha respinte indietro. Ad ascoltare la messa c’erano nelle prime file la moglie di Attanasio, Zakia Seddiki, la donna che avrebbe dovuto sposare Iacovacci tra breve, Domenica Benedetto, e alte cariche della Repubblica Italiana: la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati in rappresentanza di Sergio Mattarella, assente a causa di un disturbo vestibolare, il presidente della Camera Roberto Fico, il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ministri, tra i quali quelli degli Esteri Luigi Di Maio e della Difesa Lorenzo Guerini. Il comandante generale dell’Arma Teo Luzi. Nell’incrociarsi di due categorie, diplomazia e militari, in passato solo maschili, ministre, carabiniere, le segretarie generali del Senato Elisabetta Serafin, della Camera Lucia Pagano, della Farnesina Elisabetta Belloni. «Presentat arm!». Marcia funebre di Chopin. Onori ai cadutida parte di un picchetto militare. Così erano cominciati questi funerali di Stato che trovavano chi rappresentava lo Stato in una condizione tutt’altro che ordinaria. Da un lato il varo appena terminato di un governo con maggioranza ampia, in una legislatura che pur avendo riservato due formule inedite in precedenza aveva escluso l’attuale. Dall’altro, nell’arco di tre giorni, tre lutti oltre ai tanti dovuti al Covid-19: un ambasciatore ucciso in una parte di Africa che cercava di aiutare, un carabiniere morto con lui, un uomo delle istituzioni — quale era stato Antonio Catricalà — vittima mercoledì a Roma delle contraddizioni della vita che possono portare un’esistenza a eliminare se stessa. «Luca, Vittorio e Mustapha sono stati strappati a questo mondo dagli artigli di una violenza stupida e feroce che non porterà nessun giovamento, ma solo altro dolore. Dal male viene solo altro male», ha messo in evidenza nell’omelia il cardinale Angelo De Donatis, vicario del Papa per la Diocesi di Roma. Mustapha Milanbo era l’autista dell’auto con Attanasio attaccata in Congo. «Vi sono ancora — ha affermato il prelato — troppi cuori di uomini che, invaghiti dal denaro e dal potere, tramano la morte del fratello (...). Vengono in mente le parole di rammarico di Gesù: “Se trattano così il legno verde, che ne sarà di quello secco?”. Se questa è la fine degli operatori di pace, che ne sarà di tutti noi?». Come esempio da seguire, sulla base delle letture della messa, il cardinale ha indicato la regina Ester e quanto ha sostenuto era all’altezza di solennità e solidità del luogo: «Il funzionario della Corte di Artaserse, Aman, odiava i giudei e tramò presso il re mentendo sulla loro fedeltà alle leggi per indurre il sovrano a prendere provvedimenti definitivi nei loro confronti. E ci riuscì. Il decreto del re sanciva che il popolo di Dio doveva essere annientato. Ma Ester, figlia di ebrei e da poco regina, decise che non poteva restare a guardare lo sterminio del suo popolo dalla finestra della reggia. Doveva fare qualcosa, mettendo da parte i suoi interessi privati. Si rivolse al Signore. Per avere il coraggio di recarsi senza permesso presso la sala del trono, dove chi entrava veniva ucciso sul posto, e lì svelare al re le trame di Aman. È bella questa preghiera di Ester, è meravigliosa. Perché Ester non domanda a Dio di intervenire, ma chiede il coraggio necessario per agire, per affrontare senza paura il potente sovrano. In altre parole Ester supplica Dio di potersi sporcare le mani». Un’omelia di parole semplici, intensa ed essenziale. «La violenza sta tornando di moda in ogni ambiente, in ogni latitudine. Non è solo qualcosa che si manifesta nel Nord Est del Congo, lontano da qui. Spesso la violenza che si annida nel fondo dell’anima si camuffa da insensibilità. Occorre smascherare il germe dell’indifferenza violenta che è nei cuori e dire: ‘È un problema mio”», è stata la tesi principale. Rinunciare a indifferenza, secondo il Cardinale, è quanto facevano Attanasio e Iacovacci in aiuto del Congo, affannato da miseria diffusa e strascichi di guerra mai eliminati.

Il video dell’attacco in Congo dove sono stati uccisi l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. “Sono stati attaccati davanti e lateralmente“. E’ il racconto di Kambale Musavuli, portavoce dei “Friends of the Congo”, che sul suo profilo Facebook ha pubblicato alcuni video che sarebbero di poco successivi all’agguato testo alla delegazione Onu in Congo e che ha provocato la morto dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milamb. I video sembrano attendibili perché girati vicino ai tre ripetitori telefonici dove è avvenuto effettivamente il tentativo di sequestro degenerato poi nel sangue. Nelle immagini, diffuse sui social, si sentono spari in lontananza, alcune persone che urlano, altre si buttano a terra. C’è chi poi imbraccia un’arma e inizia a sparare in direzione della collinetta da dove provengono i colpi d’arma da fuoco. “Si sentono le persone che sembrano disperate poiché vengono attaccate da uomini armati” racconta Kambale Musavuli che poi spiega che gli “attacchi sono arrivati da davanti all’auto e al fianco”. Il pilota sopravvissuto spiega ai presenti – sempre secondo il racconto di Kambale Musavuli-  che poteva vedere gli aggressori dalla parte anteriore dell’auto”. Secondo l’iniziale ricostruzione, “a circa 25 chilometri dalla città di Goma, la prima autovettura, sulla quale viaggiavano le vittime, è stata oggetto di colpi di arma da fuoco esplosi da un gruppo armato che avrebbe agito per rapinare il convoglio e/o sequestrare personale dell’Onu”. Dopo aver ucciso l’autista, sempre secondo la prima ricostruzione, gli assalitori “hanno aperto il fuoco sugli altri occupanti del veicolo; subito dopo hanno prelevato dal mezzo l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci, presumibilmente al fine di rapirli e chiedere poi un riscatto in denaro”. A quel punto, seguendo la ricostruzione dell’intelligence, un addetto alla sicurezza dell’Onu che viaggiava sulla seconda vettura (non colpita da proiettili) ha intavolato “una trattativa con gli assalitori, chiarendo lo status dei connazionali”. Successivamente vi sarebbe stato uno scontro a fuoco tra gli assalitori ed elementi appartenenti alle forze Rangers ed all’Esercito congolese intervenuti dopo aver sentito i primi spari. Conflitto a fuoco dove hanno perso la vita i due italiani e il loro autista.

Dagospia il 23 febbraio 2021. IL COMUNICATO UFFICIALE CONGO SULLA MORTE DI LUCA ATTANASIO. Lunedì 22 febbraio 2021 intorno alle 9 (ora locale), un convoglio del Programma alimentare mondiale è stato vittima di un attacco armato da parte di elementi delle forze democratiche per la liberazione del Rwuanda (FDLR), sulla strada per Rutshuru, nel territorio del Nyiragongo. L'attacco ha causato tre vittime tra cui un congolese (il conducente di uno dei veicoli) e due cittadini italiani, il sig. Luca Attanasio, ambasciatore della Repubblica d'Italia presso la Repubblica democratica del Congo, e la sua guardia del corpo, il signor Vittorio lacovacci. Colpito da proiettili all'addome, l'ambasciatore Luca Attanasio è stato salvato dalle guardie dell'Istituto Congolese per la Conservazione della Natura (ICCN), quindi trasportato a Goma all'ospedale della missione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo, dove è morto a causa delle ferite ore dopo. I servizi di sicurezza e le autorità provinciali non hanno potuto garantire misure di sicurezza preventive specifiche per il convoglio, né venire in loro aiuto, per mancanza di informazioni sulla presenza – del convoglio -  in questa parte del Paese, considerata instabile e in preda ad alcuni gruppi armati ribelli nazionali e stranieri. Allo stato attuale, una delle quattro persone rapite durante questo attacco è stata trovata dagli elementi delle forze armate della Repubblica democratica del Congo che continuano lo ricerche  sul luogo della tragedia. Il governo della Repubblica democratica del Congo si rammarica di questa tragedia e rivolge il suo più triste cordoglio alle famiglie delle vittime, alla Repubblica italiana e a tutta la comunità diplomatica insediata nella Repubblica democratica del Congo. Inoltre, garantisce che venga compiuto uno sforzo per il ripristino della sicurezza, in particolare in questa regione del paese afflitta da gruppi armati nazionali e stranieri sostenuti da persone che beneficiano dello sfruttamento illegale delle nostre risorse naturali a scapito del popolazione locale ammaccata.

Da "open.online" il 23 febbraio 2021. Dopo l’attentato in cui sono stati uccisi l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, il ministero dell’Interno di Kinshasa punta il dito contro i ribelli Hutu delle Forze di Liberazione del Ruanda. Nell’attacco, avvenuto «sulla via del Rutshuru, nel territorio di Nyiragongo», oltre ai due cittadini italiani ha perso la vita l’autista di uno dei veicoli del convoglio, un cittadino congolese. Il comunicato, inoltre, specifica che l’ambasciatore italiano non è morto nei minuti successivi all’attentato, ma «qualche ora dopo nell’ospedale della missione dell’Onu in Congo, a causa delle ferite» riportate all’addome. Nel testo le autorità del Paese aggiungono: «I servizi di sicurezza e le autorità provinciali non hanno potuto garantire misure precauzionali di sicurezza per il convoglio, né venire in loro aiuto». Il motivo? «La mancanza di informazioni sulla presenza – del convoglio – in questa parte del Paese, considerata instabile e afflitta dall’attività di gruppi armati di ribelli nazionali e stranieri». Il ministero dell’Interno ha assicurato che «le forze armate della Repubblica democratica del Congo continueranno le ricerche sul luogo della tragedia», e ha espresso «le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime, alla Repubblica italiana e a tutta la comunità diplomatica presente in Congo».

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 24 febbraio 2021. La zona delle tre antenne (ad alto rischio di sicurezza già dal 2018 , quando vi furono infatti rapiti 2 cittadini britannici). Un viaggio senza auto blindate ed in più senza scorta (prassi ordinaria in tutta l’Africa subsahariana dove persino civili e aziende che fanno ricorso a gruppi consistenti di contractors). In più, il governo del Congo reclama che il viaggio non era stato notificato alle autorità locali, che affermano in un comunicato ufficiale di non averne mai saputo nulla. Insomma, una missione pericolosa, quella dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, per sovrintendere alla distribuzione di cibo del Programma alimentare mondiale (WFP) ucciso vicino Goma , con il carabiniere unico militare di scorta Vittorio Iacovacci. Questo è il quadro dell’agguato su cui sta lavorando il Ros dei Carabinieri (arrivati ieri sulla scena del crimine) e l’intelligence italiana (AISE) e su cui riferirà domattina alle 9 il ministro degli Esteri, Di Maio, in Aula alla Camera. Un quadro su cui si allunga anche l’ombra di gruppi collegati allo Stato islamico, che secondo alcuni analisti sarebbero pronti al salto internazionale, con un obbiettivi italiani molto appetibile, anche solo come ostaggi, visto tra l’altro l’Italia, tra poco guiderà una delle missioni più importanti della missione NATO, quella in IRAQ.

Un ambasciatore come vittima. Luca Attanasio è il primo ambasciatore italiano a morire in servizio. In Africa, dopo l’ambasciatore francese che nel 1993 rimase vittima casuale di una sparatoria nello Zaire, solo altri due diplomatici hanno perso la vita in Africa, il nunzio apostolico (ambasciatore del Papa ) Michael Courney nel 2003 in Burundi e l’ambasciatore americano in Libia nel 2012. Secondo una lettera pubblicata dall’Espresso, l’ambasciatore temeva per la sua incolumità e stava per ricevere un’auto blindata.

La zone delle tre antenne. Il luogo dell’assalto, la zona delle tre antenne, è famosa per la presenza di gruppi terroristici e di banditi. Il territorio è contiguo al Parco di Virunga all’interno del quale operano diverse milizie armate che si sono formate a seguito di guerre civili ufficialmente terminate nel 2003. Il parco, con la sua fitta vegetazione offre protezione alle attività delle varie milizie (traffici illeciti di materie prime, contrabbando, racketing), in una delle zone più ricche del mondo per oro e metalli rari. Uno dei gruppi più pericolosi e più attivo dell’area è quello delle Forze Democratiche Alleate (Allied Democratic Forces - ADF) che il 10 gennaio 2021 hanno ucciso 6 Ranger proprio nello stesso Parco. In base al primo rapporto dei servizi segreti italiani sull’attacco”, tuttavia il gruppo delle Allied Democratic Forces (ADF), di origine ugandese, recentemente sospettato di adesione al jihadismo, opera di norma in una zona molto più a Nord di Rutshuru (Beni), nel parco di Virunga. Le dinamiche dell’evento sembrano evidenziare che gli assalitori fossero a conoscenza del passaggio del convoglio lungo la viaria RN2. Appare probabile che l’evento sia da ricondurre a una delle tre milizie sopracitate e/o forze affini (Hutu ruandesi), che potrebbero aver condotto l’azione a scopo di rapina. Il personale e i mezzi della missione MONUSCO sono un target generalmente pagante. Allo stato, tuttavia, non si può escludere che l’azione sia riconducibile ad elementi ADF, anche in relazione alla presenza di una cellula logistica del gruppo in Goma”. Sempre secondo gli analisti dei servizi segreti italiani , citati dall’AdnKronos“ , dal 2017, nella parte meridionale del Parco di Virunga (Provincia del Nord Kivu) sono stati registrati circa 1300 incidenti di sicurezza con vittime, oltre 1.280 scontri e quasi 1.000 casi fra sequestri e rapimento ai fini di riscatto. Nel Paese, inoltre, è emerso, negli ultimi mesi, un crescente dinamismo terroristico dell’Islamic State Central Africa Province (ISCAP), la locale affiliazione del Daesh. Il gruppo avrebbe guadagnato il controllo di alcune zone, stabilendo delle basi operative nelle aree di Rwenzori e Irumu dalle quali lanciare operazioni terroristiche effettuate, sia mediante l’utilizzo di armi e munizioni sequestrate dai militanti a seguito di attacchi realizzati contro le forze militari e di sicurezza congolesi, sia attraverso IED e granate”.

Lo stato Islamico. In questo contesto, il CESI ( Centro Studi Internazionali, presieduto da Andrea Margelletti) sottolinea l’irruzione dello “Stato islamico nel conflitto”. “Negli ultimi 4 anni è cresciuto esponenzialmente il ruolo dell’Alleanza delle Forze Democratiche, una milizia multietnica (con sostanziali quote Konjo e Amba) un tempo supportata dall’Uganda e dal movimento islamico Tablighi Jamaat. Infatti, a partire dal 2015, l’ADF ha intensificato i proprio contatti con la galassia jihadista internazionale, finché una parte dei suoi combattenti ha deciso di giurare fedeltà al Califfo al-Baghdadi e fondare così una branca locale dello Stato Islamico (Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale, SIAC). Ad oggi, appare quasi impossibile distinguere le due organizzazioni, il cui tratto peculiare è la tendenza alla statualizzazione e ad un controllo del territorio capillare ed efficace, addirittura superiore a quello delle stesse istituzioni statali. Chi era a conoscenza deI viaggio non ufficiale? Un grosso interrogativo avvolge l’ipotesi circa un presunto tentativo di rapimento ai danni dell’ambasciatore finito in tragedia. Infatti, secondo il Cesi sebbene in tutta la Repubblica Democratica del Congo simili episodi non siano rari, nessuna milizia si era mai spinta ad attaccare un target di così alto valore politico. “Dunque, al momento, le ipotesi più concrete - continua il Rapporto -  conducono a valutare la possibilità di un attacco di una milizia Tutsi a scopo intimidatorio verso MONUSCO (la missione dell’ONU per la stabilizzazione del Congo) oppure di una azione ostile perpetrata dall’ADF / Stato Islamico in Africa Centrale al fine di proseguire il proprio percorso di crescita e “accredito” internazionale. Infatti, sebbene questa branca del Califfato sia una delle più attive ed in espansione nel continente (dal Congo fino al Mozambico), ancora le manca un’azione dalla grande eco mediatica e politico-simbolica. In tal senso, l’attacco al convoglio di MONUSCO rientrerebbe perfettamente in tale strategia”. “Le dinamiche dell’evento sembrano evidenziare che gli assalitori fossero a conoscenza del passaggio del convoglio lungo la viaria RN2 “, scrivono i nostri servizi segreti. Nel convoglio era presente anche Rocco Leone , vice Capo del World Food Programme nella Repubblica democratica del Congo, rimasto illeso. Secondo una prima ricostruzione, “a circa 25 chilometri dalla città di Goma, la prima autovettura, sulla quale viaggiavano le vittime, è stata oggetto di colpi di arma da fuoco esplosi da un gruppo armato che avrebbe agito per rapinare il convoglio e/o sequestrare personale dell’ONU”. Dopo aver ucciso l’autista, sempre secondo la prima ricostruzione, gli assalitori “hanno aperto il fuoco sugli altri occupanti del veicolo; subito dopo hanno prelevato dal mezzo l’Ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci (probabilmente già feriti), presumibilmente al fine di rapirli e chiedere poi un riscatto in denaro”. A quel punto, seguendo la ricostruzione dell’Intelligence, un addetto alla sicurezza dell’ONU che viaggiava sulla seconda vettura (non colpita da proiettili) ha intavolato “una trattativa con gli assalitori, chiarendo lo status dei nostri connazionali”. Ipotesi  conflitto a fuoco tra ranger e rapitori  A fornire informazioni ai Ros - almeno sui primi momenti dell’agguato - sarà anche il racconto di Leone,  fortunatamente rimasto illeso anche se in stato di shock. I militari italiani vogliono soprattutto appurare da quali armi siano partiti i proiettili che hanno ucciso: dai rapitori o dai ranger intervenuti contro i rapitori in un secondo momento. Secondo  la presidenza congolese i due italiani sono stati  entrambi stati uccisi dai loro rapitori, armati di “cinque kalashnikov e un machete”. L’autopsia dei corpi avverrà questa sera, all’arrivo in Italia delle salme, al Policlinico Gemelli.

Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2021. «Asse rosso, negativo». Tre parole in codice. Sono bastate: ad aprire la strada Rn2 al convoglio italiano che lunedì mattina andava a Rutshuru e a chiudere il destino dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista, Mustafa Milambo Baguna. Nelle comunicazioni via radio di chi lavora in Congo, l'«asse rosso» è l'allerta. E vuol dire che su quella strada occorre una scorta armata, fornita dai caschi blu della missione Monusco o dall'esercito congolese. «Asse rosso, negativo», invece, è il messaggio che la sicurezza italiana riceve venerdì alle 10.30, appena atterra a Goma col jet 5y-Sim della Monusco.

Ci sono 72 ore di tempo per verificare le condizioni delle strade con l'Undss, il dipartimento per la sicurezza dell' Onu che deve proteggere gli internazionali: il tempo che serve anche a preparare l'agguato, mentre Attanasio inizia il suo breve e ben visibile tour umanitario. «Asse rosso, negativo»: è su quel via libera, forse troppo superficiale, che adesso si concentrano le indagini dei Ros volati lunedì da Roma nel Nord Kivu. Chi l'ha pronunciato? E sulla base di quali certezze? A fornire spiegazioni è il World Food Programme dell'Onu che aveva organizzato la visita alla scuola di Rutshuru, garantendo la sicurezza del percorso. Nell'ospedale di Goma, i carabinieri ascoltano il racconto scioccato del vicedirettore locale del Wfp, Rocco Leone, che era sulle jeep ed è scampato all'attentato. «Di solito, chi va a Rutshuru è scortato dalla polizia», spiega un missionario. «Quella strada non è particolarmente pericolosa, da anni ci viaggiamo senza problemi», dice un volontario italiano che vive a Goma, Nicolò Carcano: «Ma Attanasio non era un semplice umanitario - aggiunge -, era un ambasciatore. E credo ci debba essere un trattamento diverso, per un ambasciatore». Le bare tornano in Italia nel buio, con gli onori dovuti a un ambasciatore e a un militare caduti così. Coperte dai fiori a Kinshasa le accarezza Zakia, la moglie di Luca, che tiene le tre bambine protette dalla tragedia. E abbracciate dai tricolori le riceve a Ciampino il premier Mario Draghi - non c'è il presidente Mattarella per un lieve malessere -, in attesa dei funerali solenni. Prima, le autopsie: gli investigatori dei Ros hanno preteso che i congolesi toccassero il meno possibile la scena del crimine, chiedendo di controllare le armi di tutti i soldati e i ranger della sparatoria. Bisogna capire di chi sono, i proiettili che hanno ucciso. Con una rapidità sorprendente, per un governo che non ha mai fornito nemmeno i dati definitivi delle ultime elezioni, il ministro dell'Interno di Kinshasa è riuscito in 24 ore a twittare (e poi cancellare) che l'agguato era «specificamente mirato contro l'ambasciatore italiano», concludendo che i machete e i cinque Ak-47 appartenevano di sicuro ai guerriglieri hutu del Fdrl, il Fronte democratico di liberazione del Ruanda, una delle 170 bande che spadroneggiano nella savana dell'Est. Noi non c'entriamo, ha smentito in un attimo il Fronte, e poco conta che i banditi parlassero ruandese in una regione dove il ruandese lo parlano tutti: «Anziché ricorrere ad accuse frettolose, chiediamo un'inchiesta indipendente per fare piena luce sulle responsabilità di questo ignobile assassinio. Il convoglio è stato attaccato non lontano da postazioni delle forze armate congolesi e dell'esercito ruandese» (che ha da mesi sconfinato). Quante mezze verità: il capo della polizia locale, nonostante i suoi uomini l'avessero accolto all' aeroporto di Goma, ripete che nessuno sapeva della presenza dell'ambasciatore. E i rapiti del convoglio? Mistero su chi siano, e se ci siano. «È stato un attacco insolito», commenta Christophe Garnier, capo dei medici Msf in Congo: «L'ha organizzato gente esperta. E se gli ostaggi sono stati uccisi, forse era per mandare un messaggio. A chi? Non è chiaro».

(ANSA il 24 febbraio 2021) Sono in totale quattro i colpi che hanno causato la morte in Congo dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci. E' quanto emerge dai primi risultati dell'autopsia svolta oggi. Le vittime sono state raggiunte da due colpi ciascuno. La Tac ha fatto emergere che i proiettili hanno trapassato i corpi da sinistra a destra.

Congo: autopsia, su cc trovato proiettile. (ANSA il 24 febbraio 2021) In base a quanto emerge dall'autopsia svolta oggi l'ambasciatore Luca Attanasio è stato raggiunto da colpi all'addome e l'esame ha individuato sia il foro di entrata che quello di uscita. Non sono stati individuati residui metallici. Per quanto riguarda il carabiniere Vittorio Iacovacci è stato colpito nella zona del fianco e, poi, alla base del collo dove è stato individuato un proiettile di un AK47, un Kalasnikov. Il corpo del carabiniere presenta multifratture all'avambraccio sinistro. Questo fa ipotizzare che il proiettile fermatosi al collo abbia colpito prima l'arto fratturato. La Procura ha disposto esami balistici. (ANSA).

Congo, l’uccisione dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci non è stata un’esecuzione. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 25/2/2021. Agguato in Congo, non è stata un’esecuzione: Attanasio e Iacovacci colpiti da lontano. Non hanno sparato a bruciapelo. Non è stata un’esecuzione. E sono stati in tutto quattro spari d’Ak-47, di kalashnikov, a uccidere l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. Due colpi per ciascuno, tutti dal lato sinistro. Il diplomatico è stato centrato all’addome: le cinque ore d’autopsia hanno individuato sia i fori d’entrata, sia quelli d’uscita, perché nessuno dei due proiettili è stato trattenuto. Il militare invece, colpito anche su un fianco, ne aveva in corpo ancora uno, alla base del collo.

L’autopsia sui corpi di Attanasio e Iacovacci. Gli esiti dei primi accertamenti — svolti dai professori Vincenzo Pascali, Cesare Colosimo e Antonio Oliva, dell’Università Cattolica di Roma — hanno fornito altri dettagli. Uno è che Iacovacci è morto sul momento, o quasi, mentre l’emorragia di Attanasio è stata molto lenta, facendo durare più a lungo l’agonia. Inoltre, sul corpo del carabiniere sono state trovate fratture multiple all’avambraccio sinistro: questo potrebbe significare che uno dei proiettili ha prima rotto altre ossa, oppure che l’uomo abbia tentato di proteggere se stesso o forse l’ambasciatore, facendogli scudo. Altri dettagli potranno venire dagli esami balistici, disposti dai pm Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti. In ogni caso, il lavoro dei medici ha spinto i magistrati romani a trarre una prima, provvisoria conclusione: Attanasio e Iacovacci non sono stati vittime di un’esecuzione. Li hanno sequestrati e poi sono stati ammazzati nel conflitto a fuoco che è seguito al rapimento, una sparatoria che forse è stata provocata dall’intervento dell’esercito e dei ranger. A questo punto, bisogna capire di chi fossero gli Ak-47 che hanno ucciso. E verificare se siano gli stessi in dotazione ai militari congolesi. I due italiani sono stati colpiti a distanza, dai sequestratori o dal fuoco amico, probabilmente in un concitato tentativo di fuga.

La testimonianza di Rocco Leone. I carabinieri del Ros, volati in Congo per recuperare le salme, non solo sono tornati senza aver interrogato l’italiano superstite, Rocco Leone, il capomissione del World Food Programme: non hanno potuto nemmeno vederlo. Sarebbe stato detto loro che è ricoverato in ospedale e che al momento è inavvicinabile. La sua testimonianza è fondamentale, per ricostruire quel che è accaduto, capire chi autorizzò il convoglio a percorrere la Rn2 senza una vera scorta, accertare se l’agguato fosse mirato. Sembra ormai certa la pista del tentato rapimento, tanto che il governo di Kinshasa ha deciso di vietare i viaggi di qualsiasi ambasciatore al di fuori della capitale, se non autorizzato. Ma una domanda resta: perché la banda avrebbe dovuto eliminare gli ostaggi dopo averli presi, come sostiene la polizia congolese? E che cos’è accaduto nella breve trattativa, prima della sparatoria? E come mai l’agguato è stato organizzato proprio alle «3 antenne», un luogo che da sempre è presidiato da militari?

I funerali di Attanasio e Iacovacci a Santa maria degli Angeli a Roma. In attesa di saperlo, Luca e Vittorio ora possono riposare in pace. I funerali di Stato giovedì mattina, alla Basilica romana di Santa Maria degli Angeli. Più intimi, a Limbiate e a Sonnino. Per l’ambasciatore, quella di sabato al campo sportivo con l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, non sarà l’unica cerimonia funebre: diverse moschee italiane domani ricorderanno Attanasio e il suo autista congolese, Mustafa Milambo, con lasalat al ghaib, la preghiera musulmana dedicata ai defunti in assenza. Secondo Hamza Piccardo, portavoce delle comunità islamiche in Italia, l’ambasciatore s’era avvicinato all’Islam durante la sua permanenza in Marocco da console generale a Casablanca. E dal giornale online Luce, che già aveva raccolto le dichiarazioni di Silvia Romano dopo il sequestro in Kenya, spiegano come Attanasio avesse recitato una dichiarazione di fede e si fosse dato il nome di Amir: «Per noi è un martire — dice il direttore, Davide Piccardo — e a Limbiate la nostra comunità l’onorerà come si fa per un fratello nella fede». In realtà, la «conversione» d’Attanasio non trova conferme altrove: quando l’ambasciatore si sposò con Zakia, la moglie marocchina, a Limbiate ricordano che fu celebrata una cerimonia inter-religiosa, per consentire la partecipazione d’entrambi i coniugi di fedi diverse. Attanasio firmò una dichiarazione e lo stesso avvenne in Marocco, dice don Angelo Gornati, l’ex parroco che conosceva Luca fin da bambino: «Era un uomo di vedute molto aperte. Ma da lì a dire che si fosse convertito, ce ne corre. Non mi risulta niente del genere. Di sicuro, me ne avrebbe parlato».

Attanasio, funerali a Limbiate: “Dio gli dirà: sarai sempre giovane”. Debora Faravelli su Notizie.it il 27/02/2021. Si sono conclusi a Limbiate i funerali di Luca Attanasio: al termine della cerimonia è stato fatto ascoltare un suo messaggio vocale. Dopi i funerali di Stato tenutesi a Roma alla presenza di alcune tra le più alte cariche dello Stato, nella mattinata di sabato 27 febbraio a Limbiate si è tenuta una celebrazione per dare l’ultimo saluto a Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano ucciso durante un attacco ad un convoglio delle Nazioni Unite in Congo. Hanno preso parte alle esequie, accanto alla moglie Zakia Seddiki, anche il governatore Fontana, l’assessore Fermi e una delegazione di sindaci dei paesi del territorio. La cerimonia ha avuto luogo nel campo sportivo della cittadina dove decine di persone hanno accolto con un applauso il feretro del loro concittadino. Queste le prime dichiarazioni dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini che ha presieduto la celebrazione: “Le parole più difficili da trovare sono quelle per la moglie e le figlie, e credo che la parola più significativa è quell’oasi di celebrare la messa e chiedere al Signore di consolare i vivi e accogliere nella sua gloria colui che è andato via così“. Al centro della sua omelia Delpini ha immaginato un dialogo tra il giovane ambasciatore e Dio in cui il primo diceva al secondo di arrivare da “una terra dove si muore e non importa a nessuno, dove si può far soffrire senza motivo e senza chiedere scusa” e il secondo lo rassicurava di fronte alla fine prematura della sua vita: “Non volgerti indietro, tu sarai giovane per sempre“. Al termine delle esequie ha preso la parola il primo cittadino di Limbiate Antonio Romeo. Ricordando la carriera e il carattere di Attanasio, ha sottolineato “la sua umiltà con cui dimostra che anche dalla periferia possono crescere i fiori più belli“. Non ha potuto non menzionare l’ingiustizia causata dalla morte di una persona buona e giusta la cui missione era quella di non lasciare indietro nessuno. Ha quindi ricordato un messaggio vocale inviatogli da Luca in cui quest’ultimo mostrava entusiasmo per l’acquisto della Villa Medolago e del suo parco. “Dedicheremo a te questo progetto che tu hai chiamato "un sogno che si realizza"“, ha annunciato. Nel corso della cerimonia funebre è stato fatto anche ascoltare un messaggio vocale di Attanasio in cui esultava per essere riuscito ad organizzare due voli dal Congo con a bordo 300 persone che volevano fuggire dall’insicurezza e dalle violenze del Paese africano. Queste le sue parole: “Siamo riusciti a far partire 300 persone dal Congo con due voli, fra cui un centinaio di italiani. Viva l’Italia, sempre un passo avanti“.

Carlo Bonini per "la Repubblica" il 24 febbraio 2021. In un massacro in cui le certezze sono ancora decisamente poche, una prima ipotesi, che è poi quella formulata dalla Procura di Roma, sembra prendere forma. Il convoglio delle Nazioni Unite su cui viaggiavano l'ambasciatore Luca Attanasio e il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e che, lunedì mattina, procedeva sulla strada che da Goma porta a Rutshuru, era stato venduto a una delle 120 milizie in armi che hanno trasformato questo angolo di Congo orientale in uno dei luoghi più pericolosi del continente (duemila vittime civili nel solo 2020). Doveva essere un sequestro a scopo di estorsione. L' incrocio con una pattuglia di ranger del parco dei vulcani Virunga lo ha trasformato in un bagno di sangue. Lo suggeriscono le circostanze di quanto accaduto prima e dopo il sequestro, sulla cui matrice, terroristica o criminale, è buio fitto. La dinamica con cui si è consumato e concluso. E la cortina sollevata in queste prime ventiquattro ore a protezione di chi ne è stato a sua volta vittima e testimone chiave. È un italiano. Si chiama Rocco Leone. È vice-direttore del World Food Programme in Congo. Lunedì mattina viaggiava su uno dei due veicoli del convoglio caduto nell' imboscata alle porte di Kibumba. È riuscito a comunicare telefonicamente sia con la moglie che con la sorella che vivono a Firenze, ma ai suoi ricordi non è stato dato sin qui accesso né agli uomini dell' Aise (la nostra intelligence estera), né ai carabinieri del Ros arrivati da Roma, perché "ricoverato in stato di choc in un ospedale di Goma". Forse, oggi, i nostri investigatori avranno più fortuna. Forse, nelle prossime ore, Leone sarà in grado di dare un senso e una spiegazione alla sequenza di eventi che hanno posto le premesse di quanto è accaduto. E che, allo stato, trovano una prima ricostruzione in tre fonti: le testimonianze raccolte dalla polizia congolese a Goma; un sintetico quanto generico rapporto che le Nazioni Unite, ieri sera, hanno trasmesso alla Farnesina; le evidenze che i militari del Ros e gli uomini dell' Aise hanno potuto raccogliere dall' esame obiettivo dei corpi di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci prima che venissero imbarcate alla volta di Roma dove, questa mattina, verranno sottoposte ad autopsia. Un esame che darà una prima risposta su quali proiettili, di quale calibro ed esplosi da quali armi e angolazione abbiano ucciso Attanasio, colpito all' addome. E Iacovacci, colpito alla testa. I fatti, dunque. Quelli accertati, almeno. Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci arrivano a Goma venerdì 19 febbraio. Partono da Kinshasa su un volo della MONUSCO, la missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo. È dunque l' Onu che, come si dice nel gergo degli addetti, li ha da quel momento "in carico". Risponde della loro sicurezza. Dei loro movimenti all' interno del Paese. Delle comunicazioni con le autorità di polizia e militari locali. Il viaggio deve portare Attanasio lungo il confine orientale con il Ruanda, in una serie di villaggi dove il World food Programme sta portando avanti i suoi progetti di cooperazione e sostegno. E di cui Rocco Leone è tra i responsabili. A Goma, non è dunque un mistero né la presenza di Attanasio (che, per altro, ha spesso confidato la sua intenzione di farne una sede consolare italiana), né le ragioni e lo scopo della visita. Né, tantomeno, l'itinerario e i tempi che la visita avrà. Le Nazioni Unite, per ragioni che il rapporto inviato ieri alla Farnesina non solo non chiariscono, ma neppure affrontano, ritengono che la strada che il nostro ambasciatore dovrà percorrere lunedì mattina sia "sicura". Al punto da non meritare nessuna scorta. E questo a dispetto dei 12 assalti fatti registrare in quell' area nel 2020 e del sequestro di due turisti britannici (rimasti prigionieri nove mesi) nel 2018. Lo stesso Attanasio, per quel che è possibile ricostruire, non sembra coltivare preoccupazioni. In un sms mandato a Gianni Bertino, conosciuto a Casablanca (dove era stato console) e proprietario del ristorante "La buona forchetta", spiega di essere in partenza per una missione e promette di farsi sentire al suo rientro a Kinshasa. Partito da Goma alle 9 del mattino di lunedì 22 febbraio, alle 10.15 ora locale (alcune testimonianze parlano delle 9.30) un convoglio di due veicoli delle Nazioni Unite sta per fare ingresso nel villaggio di Kibumba. Su una delle due auto viaggiano l'autista Mustapha Milanbo, Attanasio, Iacovacci. Sulla seconda, Rocco Leone, l'assistente al programma di alimentazione scolastica del WFP Fidele Zabandora, l'addetto alla sicurezza WFP Mansour Rwagaza e l'autista del WFP, Claude Mukata. E quel che accade in quel momento è nelle testimonianze dei sopravvissuti. Il convoglio viene affiancato da una macchina con almeno sei o sette miliziani che, esplodendo colpi di avvertimento, lo costringe a fermarsi. La banda sa evidentemente chi sta cercando. Chi deve prendere e dove portarlo. Attanasio, Iacovacci e i cinque delle Nazioni Unite vengono fatti scendere dai veicoli. L'autista Mustapha Milanbo viene giustiziato sul posto. Gli altri sei, vengono costretti dai miliziani ad addentrarsi nella boscaglia. Ed è a questo punto, in un luogo che dista neppure 500 metri dal punto del sequestro, che l' incrocio a quanto pare casuale con una pattuglia di ranger e militari congolesi cambia il corso degli eventi. Un primo conflitto a fuoco lascia a terra l' ambasciatore Attanasio. Il colpo che lo raggiunge all' addome, provocando l'emorragia cui non sopravviverà, è esploso frontalmente e, dunque, ragionevolmente, dalle armi di chi sta provando a salvarlo. La banda dei sequestratori percorre in fuga almeno un altro chilometro nella foresta. Inseguita dai ranger e qui trova la morte Iacovacci. Il colpo che lo uccide lo raggiunge alla testa. E solo l' autopsia di questa mattina potrà stabilire se esploso a bruciapelo e dunque, verosimilmente, dai sequestratori. O, anche in questo caso, da chi, i ranger, ha continuato ad inseguire i sequestratori. Fino a provocarne la fuga, lasciando dietro di sé gli ostaggi sopravvissuti. Fidele Zabandora, Mansour Rwagaza, Claude Mukata, e Rocco Leone.

Attacco in Congo, come sono morti Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci: la terrificante scoperta dall'autopsia. Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. L'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci non sono state vittime di un'esecuzione. I due sono morti durante lo scontro a fuoco: sono stati uccisi durante un tentativo di rapimento finito male, terminato con un conflitto a fuoco nell'est del Congo. E' questo quanto emerge dai primi risultati dell'autopsia effettuata sui corpi dei due italiani. Autopsia disposta dalla Procura di Roma e svolta oggi presso il Policlinico Gemelli. I colpi mortali, come scrive Repubblica, sarebbero stati quattro in totale: due hanno raggiunto il diplomatico e due il carabiniere. La Tac ha fatto emergere anche che i proiettili li hanno trapassati da sinistra a destra. Le salme delle vittime sono rientrate in Italia ieri sera. Le bare, avvolte dai tricolori, sono state accolte all'areoporto di Ciampino dal premier Mario Draghi in attesa dei funerali solenni. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, invece, non è potuto essere presente a causa di un malore. Per permettere una giusta esecuzione delle autopsie, inoltre, gli investigatori dei Ros hanno preteso che i congolesi toccassero il meno possibile la scena del crimine, chiedendo di controllare le armi di tutti i soldati e i ranger della sparatoria. Bisognerà capire, infatti, di chi sono i proiettili che hanno provocato la morte di Attanasio e Iacovacci. Il capo della polizia locale, nonostante i suoi uomini l’avessero accolto all’aeroporto di Goma, va ripetendo che nessuno sapeva della presenza dell’ambasciatore in quella zona. Tanti dubbi, poi, anche sui rapiti del convoglio. Non si sa chi sono e se ci sono per davvero. "È stato un attacco insolito", ha commentato Christophe Garnier, capo dei medici Msf in Congo.

"No esecuzione, è stato un conflitto a fuoco". Strage in Congo, l’autopsia: Attanasio e Iacovacci uccisi con pistole e kalasnikov. Redazione su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. Uccisi nel corso di un conflitto a fuoco, non è stata una esecuzione. E’ quanto emerge dall’autopsia effettuata al Policlinico Gemelli di Roma sui corpi dell’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, e del carabiniere Vittorio Iacovacci, 30 anni, morti in Congo lunedì 22 febbraio durante un tentativo di sequestro. Sono in totale quattro i colpi che hanno causato la morte dei due italiani, raggiunti da due proiettili ciascuno. La Tac ha evidenziato che i proiettili hanno trapassato i corpi da sinistra a destra. Attanasio è stato raggiunto da colpi all’addome e l’esame ha individuato sia il foro di entrata che quello di uscita. Non sono stati individuati residui metallici. Iacovacci è stato colpito nella zona del fianco e, poi, alla base del collo dove è stato individuato un proiettile di un AK47, un Kalasnikov. Il corpo del carabiniere presenta multifratture all’avambraccio sinistro. Questo fa ipotizzare che il proiettile fermatosi al collo abbia colpito prima l’arto fratturato. La Procura ha disposto esami balistici. Le salme dei due italiani sono rientrate in Italia nella tarda serata del 23 febbraio. All’aeroporto di Ciampino, a Roma, erano presenti il Presidente del Consiglio Mario Draghi, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e degli Esteri Luigi Di Maio. Assente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma soltanto per problemi di salute. I funerali di Stato si terranno giovedì 25 febbraio nella Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma. Ancora troppi i dubbi sull’agguato che ha colpito il diplomatico e il militare italiani. Il governo, con il ministro dell’Interno, di Kinshasa ha incolpato i guerriglieri hutu del Fronte Democratico di liberazione del Ruanda. Questi hanno smentito, rimandando l’accusa al mittente. Nel Nord del Kivu sono centinaia, circa 170 le bande che imperversano. Hanno natura politica, etnica, religiosa o semplicemente criminale. C’è ancora anche da capire chi ha esploso i proiettili che hanno ucciso rapidamente l’ambasciatore e il carabiniere. E anche da scoprire perché la strada sulla quale viaggiava il convoglio di due auto – non blindate – era stata definita sicura dall’Onu. “Asse rosso, negativo”, il messaggio che definiva la strada Rn2 sulla quale viaggiavano i due veicoli e che avrebbe portato il diplomatico in visita a una scuola di Rutshuru. Tutto organizzato dal World Food Programme. Nessun “asse rosso” dunque, nessun pericolo. I due uomini non indossavano nemmeno il giubbotto anti-proiettili. Su tutto questo indagano i Ros in Congo da lunedì stesso. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine, al momento contro ignoti, per sequestro di persona con finalità di terrorismo. Preziosa la testimonianza di Rocco Leone, vicedirettore locale del World Food Programme, che viaggiava con Attanasio e Iacovacci. Morto anche l’autista della jeep sulla quale viaggiava il diplomatico nell’attacco.

"I due italiani in Congo uccisi dal fuoco amico". Il militare non ha sparato. Niente scorta, auto blindate e giubbotti antiproiettile. E troppi silenzi sono sospetti. Fausto Biloslavo - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale.  «Gran parte dei poliziotti e militari congolesi sono un'Armata Brancaleone, poco addestrati e con il grilletto facile. Figuriamoci i ranger del parco nazionale intervenuti per primi dopo l'imboscata del 22 febbraio. Non c'è da stupirsi se aprendo il fuoco abbiano ucciso, per sbaglio, l'ambasciatore ed il carabiniere» spiega al Giornale chi ha fatto il lavoro di scorta in Congo. I due ostaggi italiani potrebbero essere stati uccisi da «fuoco amico» colpiti da 4 proiettili di kalaschnikov, l'arma più usata in Africa, tutti sul lato sinistro, due per ciascuno. Vittorio Iacovacci, il carabiniere di scorta, non poteva neppure reagire perchè la sua pistola d'ordinanza è rimasta sul fuoristrada bianco del Programma alimentare mondiale. Il caricatore era intatto con tutti i proiettili. Gli assalitori hanno sparato subito all'autista, Mustapha Milambo, che si rifiutava di scendere e hanno tirato giù dall'auto l'ambasciatore Luca Attanasio ed il suo unico uomo di scorta, che evidentemente non ha potuto prendere la pistola. Un altro aspetto incredibile è che l'imboscata sia avvenuta 20 chilometri a nord di Goma, a Kibumba, chiamata la zona delle tre antenne. Nell'unico video amatoriale, molto confuso, dell'agguato si intravede per poco una collina che domina la strada con delle antenne radio. Una posizione probabilmente presidiata dai militari. Per questo i rangers del vicino parco nazionale di Virunga sono intervenuti dopo un quarto d'ora. Il terzo italiano, Rocco Leone, vicedirettore del Programma alimentare mondiale, zoppicava e sarebbe rimasto indietro. Si è salvato così dandosi alla fuga durante il conflitto a fuoco. La sua guardia del corpo è stata colpita, ma ha salvato la pelle fingendosi morta. Nel caos della sparatoria scoppiata con i rangers, Iacovacci è morto sul colpo. Attanasio, gravemente ferito, è stato prima trasportato dai caschi blu pachistani e poi all'ospedale della missione Onu a Goma, ma purtroppo inutilmente. Sulla tragica imboscata sono state aperte tre inchieste: una del dipartimento per la sicurezza dell'Onu (Undss), quella della procura di Roma, che ha inviato i Ros in Congo e le indagini delle autorità congolesi. Il governo di Kinshasa ha mandato a Goma sei esperti nel settore Difesa e sicurezza per capire cosa è accaduto. Il Programma alimentare mondiale dovrà chiarire perchè non è stata chiesta una scorta adeguata nè ai caschi blu, nè alle autorità congolesi. E soprattutto non sono state usate macchine blindate e giubbotti anti proiettile. La presidenza congolese ha convocato ieri alcuni ambasciatori stranieri per fornire informazioni sull'attacco, dopo il divieto di spostamenti dei diplomatici fuori dalla capitale senza autorizzazione. Jean-Jacques Diku, rappresentante dell'Unione per la democrazia e il progresso sociale, il partito di governo a Kinshasa, sostiene che «non ci sia stata comunicazione da parte del Pam della presenza dell'ambasciatore Attanasio. Se le autorità locali non erano state informate bisogna chiarirne i motivi». Il politico di maggioranza sostiene che «secondo la dinamica dei fatti c'è stato un tentativo di rapimento andato male quando le guardie della zona hanno cercato di intervenire».

Grazia Longo per "la Stampa" il 25 febbraio 2021. Non è stata un' esecuzione. E i colpi non sono stati sparati a bruciapelo. Non è quindi escluso che l' ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci siano caduti sotto il fuoco amico dei ranger intervenuti per salvarli dal tentativo di sequestro da parte dei guerriglieri, in Congo lunedì scorso. La ricostruzione di quello che è accaduto realmente è ancora da chiarire, ma l' autopsia, di oltre cinque ore, eseguita ieri al Policlinico Gemelli, rivela che i nostri due connazionali sono stati uccisi durante un conflitto a fuoco. Per capire a quale distanza sarà necessario attendere l' esisto della perizia balistica disposta ieri dal pm Sergio Colaiocco. Sia Attanasio, sia Iacovacci sono stati colpiti da due proiettili a testa: il primo all' addome (con chiari segni del foro di entrata e uscita), il secondo al fianco e al collo. Proprio alla base del suo collo è stato recuperato un proiettile di un Ak-47 usato sia dai guerriglieri sia dai ranger. Il carabiniere ha inoltre riportato una frattura multipla all' avambraccio sinistro che fa ipotizzare che il proiettile arrivato al collo abbia prima colpito l' arto. Entrambi sono stati colpiti sul lato sinistro, segno che stavano scappando verso la loro destra, ma non si può sapere con esattezza chi avessero alle spalle. Da un primo esame della pistola di ordinanza del carabiniere non risulta che abbia sparato, il giovane peraltro ha perso la vita sul colpo, a differenza dell' ambasciatore, perché è stato ferito all' aorta. In attesa degli sviluppi sul fronte balistico, non si fermano intanto le indagini dei carabinieri del Ros, su delega della Procura di Roma: proseguiranno nella loro attività di investigazione con la polizia locale e con il personale della missione Onu di peacekeeping Monusco in Congo. All' impegno del Ros si aggiunge poi quello della nostra intelligence estera, l' Aise, che sta lavorando in Africa per cercare di scoprire a quali milizie appartenessero gli assassini dei due italiani. Sulla necessità di una cooperazione con l' Onu è inoltre intervenuto, ieri mattina in un' informativa alla Camera, anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Al Programma alimentare mondiale (Pam in sigla, ndr) e all' Onu abbiamo chiesto formalmente l' apertura di un' inchiesta che chiarisca l' accaduto, le motivazioni alla base del dispositivo di sicurezza utilizzato e in capo a chi fossero le responsabilità di queste decisioni. Ci aspettiamo nel minor tempo possibile, risposte chiare ed esaustive». Il motivo della sollecitazione è semplice: «L' ambasciatore e il carabiniere si sono affidati al protocollo delle Nazioni Unite, che li ha presi in carico fin da Kinshasa, su un aereo della missione Onu Monusco, per il viaggio fino a Goma. La missione si è svolta su invito delle Nazioni Unite. Quindi anche il percorso in auto si è svolto nel quadro organizzativo predisposto dal Programma Alimentare Mondiale». Il ministro ha poi precisato «che l' ambasciata è dotata di due vetture blindate, con le quali appunto l' ambasciatore si spostava in città e per missioni nel Paese, sempre accompagnato da almeno un carabiniere a tutela». Subito dopo ha ricordato che il vice segretario Generale per le Operazioni di pace delle Nazioni Unite, Jean-Pierre Lacroix, ha annunciato già lunedì scorso l'avvio di un' indagine da parte di Monusco. L'agguato al convoglio dell' ambasciatore, ha proseguito Di Maio, «è avvenuto in una regione dal contesto securitario assai fragile e con grandi contraddizioni: enormi ricchezze naturali, povertà e violenza. Il Congo ha la seconda riserva di rame al mondo, un quarto dell' oro globale, un terzo dei diamanti, l' 80% di cobalto e coltan, ma è uno dei fanalini di coda per indice di sviluppo umano. Si contano oltre 120 gruppi armati, proliferano autorità paramilitari e forze ribelli, che da decenni si contendono il controllo del territorio. Oggi ci saranno i funerali di Stato dei due connazionali, ci sarà il premier Draghi. La Farnesina si fermerà domani alle 9,30 per ricordare l' ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. In coincidenza con l' inizio della cerimonia, i dipendenti della Farnesina che non potranno partecipare a causa delle restrizioni Covid si raccoglieranno un minuto di silenzio sul piazzale antistante il ministero».

"Attacchi in Congo aumentati del 107 per cento". Il dossier dell’Onu che non ha protetto l’ambasciatore Luca Attanasio. Il segretario generale Guterres aveva avvertito il Consiglio di sicurezza sull’aumento degli assalti. Un accordo tra Italia e Kinshasa metteva fuori gioco i signori della guerra nella regione in cui il diplomatico e il carabiniere Iacovacci sono stati uccisi. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 25 febbraio 2021. L’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, del carabiniere Vittorio Iacovacci, 30, e dell’autista del Programma alimentare mondiale, Mustapha Milambo Baguna, è il sintomo più evidente del fallimento della missione di pace delle Nazioni Unite che da ventun anni tenta di stabilizzare le province orientali della Repubblica Democratica del Congo. Ma è anche un chiaro avvertimento: senza un deterrente internazionale, l’intera regione dei Grandi laghi, che dal Nord al Sud Kivu confina con Uganda, Ruanda e Burundi, precipiterebbe in una nuova carneficina. Lunedì 22 febbraio, durante il trasferimento dalla città di Goma al paese di Rutshuru, dove Attanasio e i suoi accompagnatori erano attesi in una scuola, la sicurezza dei due fuoristrada era affidata all’Onu. La presenza a bordo di Rocco Leone, il vicedirettore dell’ufficio del Pam in Congo, sopravvissuto al tentativo di sequestro, ha convinto gli organizzatori del viaggio che non fosse necessaria una scorta militare. Il percorso di circa settanta chilometri era infatti considerato moderatamente sicuro. Una valutazione però smentita dallo stesso segretario generale dell’Onu, António Guterres: secondo il suo ultimo rapporto consegnato al Consiglio di sicurezza lo scorso mese di novembre, gli attacchi contro il personale delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo sono aumentati del 107 per cento. Il resoconto è confermato dall’osservatorio “Kivu Security Tracker” che calcola nelle foreste della ragione l’attività di 109 organizzazioni armate, tra gruppi terroristici e bande criminali, la maggior parte dei quali sconfina dai Paesi vicini. Contro i loro attacchi, Monusco, questo il nome della missione internazionale delle Nazioni Unite, impiega oggi sul campo 17.467 inviati, tra i quali 12.303 militari, 2.970 funzionari civili e 1.403 poliziotti. I primi cinque Paesi di provenienza dei soldati sono, nell’ordine, Pakistan, India, Bangladesh, Indonesia e Sud Africa. E per quanto riguarda le forze di polizia: Senegal, Egitto, Bangladesh, India e Niger. La difesa dei civili e il consolidamento della pace sono quindi affidati anche a eserciti e polizie responsabili, negli Stati di provenienza, di gravi violazioni dei diritti umani. Scandali e denunce di abusi sessuali, che non risparmiano i bambini, hanno accompagnato la presenza dei caschi blu in Congo, tanto che il primo luglio 2010 alla precedente missione Monuc è stato cambiato nome. A questo si aggiungono i costi mostruosi e le accuse di inefficienza. L’ultimo stanziamento approvato dall’Assemblea generale per il periodo dal primo luglio 2020 al 30 giugno 2021 stima una spesa di un miliardo 154 milioni 140 mila 500 dollari: un miliardo e 75 milioni per il mantenimento della missione, oltre 61 milioni per le spese di supporto alle operazioni, quasi 10 milioni e mezzo per il funzionamento della base logistica di Brindisi e circa 7 milioni per il centro servizi regionale di Entebbe, in Uganda. Ma i dodici milioni e mezzo di congolesi che vivono tra Nord e Sud Kivu, compresi circa quarantasettemila rifugiati dal Burundi, non vedono alcuna ricaduta economica, a parte il solito incasso di bar e prostitute legato al tempo libero dei militari.

LE INDAGINI. A fine novembre 2019, dopo l’omicidio di otto civili nella città di Beni e il rapimento di altri nove da parte del gruppo islamista Allied Democratic Forces, che di democratico non ha proprio nulla, gli abitanti esasperati hanno assaltato e incendiato la base locale della missione. I caschi blu, secondo i testimoni, hanno ucciso due manifestanti. Poi hanno abbandonato la caserma. La regione, oltre a essere ricchissima di materie prime dal cobalto al petrolio, ospita laghi, vulcani attivi e il paradiso naturale dei gorilla. Da quando la pandemia di Covid-19 ha azzerato l’indotto del turismo, però, le bande si finanziano con i sequestri di persona. Il rapimento dell’ambasciatore italiano per incassare un riscatto potrebbe essere il movente dell’imboscata ai due fuoristrada del Programma alimentare mondiale. Ma il ministero dell’Interno congolese in un tweet, poi rimosso, non ha escluso un attacco mirato. Se fosse così, le indagini non dovranno trascurare i buoni rapporti tra il presidente della Repubblica, Félix Tshisekedi, e l’Italia. Il 14 settembre 2019 Tshisekedi aveva discusso a Kinshasa con l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, l’avvio di un progetto per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili e la sua distribuzione per usi civili e industriali e anche lo sviluppo di iniziative per difendere le foreste dal commercio illegale di legname. Portare energia nella regione dei Grandi laghi, dove Eni dal 2009 è stata autorizzata a condurre studi sui giacimenti di gas e petrolio, toglierebbe potere ai tanti signori della guerra che per estrarre metalli rari, come cobalto e coltan, nelle miniere senza elettricità sfruttano le braccia di migliaia di bambini. Ma soprattutto l’accordo italiano con il governo centrale di Kinshasa metterebbe fuori gioco le varie società di intermediazione con uffici in Sud Africa, Burundi e Uganda che finanziano la guerriglia e non intendono rinunciare alla loro parte di potere e guadagno. La debolezza della missione Monusco rende il quadro ancor più complicato. La reputazione dei caschi blu è infatti da tempo al minimo, anche per quanto accade al di fuori dei propri compiti. Nonostante la linea dura adottata dalle Nazioni Unite per fermare gli abusi, nel 2017 un militare romeno è stato sospeso per aver messo incinta una ragazza minorenne. E altri cinque colleghi sono stati accusati di violenze e sfruttamento sessuale durante tre mesi di servizio. L’anno dopo si aggiunge la storia di una ragazzina violentata dagli assassini che avevano ucciso i suoi genitori davanti ai suoi occhi, dai soldati governativi inviati a proteggere la comunità e, infine, da un militare della forza multinazionale che si era offerto di aiutarla. Da allora le linee guida dell’Onu obbligano i comandanti a sensibilizzare il personale e i soldati devono trascorrere il tempo libero in caserma. Davanti ad adolescenti e a volte bambine che si offrono in cambio di qualcosa da mangiare, gli abusi si sono così trasferiti sui mezzi di servizio durante i turni di pattugliamento. Secondo alcune testimonianze, gli ufficiali adesso invitano gli equipaggi a parcheggiare i veicoli bianchi delle Nazioni Unite lontano da bar e club, in modo che possano continuare a fare quello che vogliono senza essere visti. Di fronte a una generazione di ragazzine e ragazzini affamati, bastano una saponetta o qualche spicciolo. Gli abissi umani raccontati da Joseph Conrad in “Cuore di tenebra” e raffigurati da Francis Ford Coppola in “Apocalypse Now” sono ordinaria quotidianità a nord e sud di Goma. Ed è in questa miscela esplosiva che una delegazione delle Nazioni Unite ha pensato di lasciar partire l’ambasciatore Attanasio e il suo seguito senza alcuna scorta militare. «Le tante vittime civili hanno portato a un aumento delle manifestazioni e del risentimento contro Monusco», ammette il segretario generale Guterres nell’ultimo rapporto sulla missione: «Da luglio a ottobre sono stati documentati 2747 abusi e violazioni dei diritti umani, una piccola diminuzione rispetto ai quattro mesi precedenti. Agenti statali, in particolare soldati della Repubblica Democratica del Congo, sono responsabili del quarantotto per cento di queste violazioni, mentre il cinquantadue per cento è stato commesso dai gruppi armati... Circa metà di tutte le violazioni documentate tra luglio e ottobre è avvenuta nel Nord Kivu, durante le quali almeno 407 civili (308 uomini, 72 donne e 27 bambini) sono stati uccisi e 237 feriti (188 uomini, 37 donne e 12 bambini) durante gli attacchi e gli scontri tra gruppi armati. Nel conflitto tra comunità del Sud Kivu sono stati invece uccisi trentacinque civili (26 uomini, 8 donne e un bambino) e sono stati distrutti interi villaggi». Anche la pandemia di Covid-19 è un pretesto per diffondere paura nella popolazione. «Tra luglio e ottobre», aggiunge il segretario generale dell’Onu nella sua relazione sulla missione Monusco, «ventisette violazioni dei diritti umani sono state documentate in relazione all’imposizione delle misure di prevenzione, di cui diciotto commesse da agenti della polizia nazionale congolese. Le violazioni comprendono l’omicidio extragiudiziale di due uomini, il maltrattamento di 42 persone (34 uomini, 5 donne e 3 bambini) e la detenzione illegale di 16 persone (13 uomini e 3 donne)... Sono state inoltre documentate 76 morti in custodia (74 uomini, una donna e un bambino) dovute alle condizioni di detenzione... Circa 50 donne recluse sono state circondate nel cortile e 21 di loro sono state violentate». Un capitolo è dedicato ai minori. «Nove bambini (quattro femmine e cinque maschi) sono stati uccisi o menomati, compresi due bimbi uccisi dall’esercito della Repubblica Democratica del Congo, durante i combattimenti contro i gruppi armati del Nord Kivu. Trenta ragazze sono state violentate o sottoposte ad altre forme di violenza sessuale, comprese le violenze attribuite ad agenti statali». Di fronte al fallimento della missione, anche il personale delle Nazioni Unite dal 2020 viene preso di mira: «Sono stati registrati 158 attacchi», rivela il segretario generale António Guterres, «il 107,8 per cento in più rispetto agli attacchi documentati nel periodo precedente». Ma lunedì 22 febbraio qualcuno ha garantito che lungo la strada non c’erano pericoli.

L'uccisione di Attanasio e Iacovacci. Ministro Di Maio, la sicurezza degli italiani all’estero non si affida all’Onu! Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Sulla morte dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci abbiamo letto molte riflessioni commoventi. Al di là però di tutte queste sincere manifestazioni di dolore a nostro avviso c’è un problema non risolto neanche da ciò che ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella sua esposizione in Parlamento. Anzi, per certi aspetti, proprio l’esposizione del ministro pone dei problemi molto seri. Infatti, Di Maio ha messo in evidenza l’estrema pericolosità esistente in molte zone del Congo. Allora, francamente, il fatto che a tutela dell’ambasciata italiana a Kinshasa, cioè del suo ambasciatore e dell’altro personale, siano in tutto quattro carabinieri mette in evidenza l’esistenza di una questione assai seria. Parliamo infatti del Congo, non di uno staterello, e di un Paese nel quale peraltro manifestiamo la giusta intenzione di sviluppare una vasta iniziativa umanitaria. Ora, paradossalmente, il basso numero di scorte non riduce i pericoli, anzi li aumenta per tutti. Per di più affidarsi all’Onu per la tutela dei nostri militari è obiettivamente un tragico errore perché al di là della retorica la storia delle Nazioni Unite è piena di défaillance su questo terreno, e non soltanto a Srebrenica. Non devono essere i singoli diplomatici a doversi dare da fare per proteggersi, ma deve esserci un impegno del sistema Italia. Allora, il ministero degli Esteri, il ministero della Difesa, l’Aise devono fare una mappa dei rischi nel mondo e sulla base di questa mappa vanno tratte le conseguenze sulla quantità e sulla qualità della copertura militare da assicurare. Per esempio, se non ricordiamo male, a suo tempo l’ambasciata italiana in Iraq era saldamente protetta da un contingente del Tuscania, cioè di gente ad altra professionalità. Apprendere dalle ricostruzioni fatte che il nostro diplomatico si è mosso su un’auto non blindata e con un carabiniere di scorta francamente accentua le perplessità e gli interrogativi. La presenza di una scorta mette in evidenza la consapevolezza dell’esistenza di un pericolo, ma combinare insieme un singolo diplomatico con un singolo uomo di scorta vuol dire andare incontro a pericoli gravissimi come poi in effetti è tragicamente avvenuto. Il problema non è quello ex post di ricostruire gli avvenimenti che hanno portato alla tragedia, ma se possibile ragionare anche in modo autocritico sul modo di evitarla questa tragedia. Da questo punto di vista finora non abbiamo ascoltato riflessioni convincenti, ma ricostruzioni basate su un giustificazionismo che tende a riversare su altri non responsabilità, ma impegni che invece dovremmo prendere in prima persona. Per essere chiari fino in fondo, non possiamo svolgere una benemerita attività umanitaria se non ci poniamo in modo assai rigoroso l’obiettivo di proteggere dall’Italia, non con delega ad altri, la sicurezza degli italiani che svolgono questa attività. Le commemorazioni, specie se sincere come è nel nostro caso, sono apprezzabili, ma sarebbe molto più apprezzabile se si lavorasse preventivamente proprio per evitarle. Da questo punto di vista non abbiamo colto purtroppo i termini di nessuna riflessione critica e autocritica.

Questa tragedia non deve passare in archivio senza conseguenze. Ecco perché Di Maio è responsabile dell’uccisione di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. Appena ucciso, hanno subito cominciato ad assassinarlo di nuovo con palate di parole altisonanti e retoriche sul “servitore dello Stato che ci è stato strappato con la violenza”. Retorica che serve solo a nascondere l’unico fatto importante: l’ambasciatore Attanasio non sarebbe caduto nella trappola mortale in cui è caduto senza che il nostro ministero degli Esteri ne portasse la responsabilità. Quando l’amministrazione Obama fu colpita dalla sciagura dell’uccisione del console americano a Bengasi, in Libia, l’11 settembre 2012, emerse subito la responsabilità oggettiva – e dunque la colpa – del ministro degli Esteri degli Stati Uniti Hillary Clinton, la quale ammise: “Sono io la responsabile di tutto ciò che accade ai 60.000 diplomatici americani sparsi in 516 posti diversi del mondo”. Il nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio, invece, non sarebbe responsabile di altro che del suo stupore per la notizia della tragedia che è piombata non soltanto a Roma, ma a Ginevra dove risiedono gli uffici delle Nazioni Unite e a Bruxelles. Si è così saputo che il più giovane ambasciatore italiano, Luca Attanasio di 43 anni, andava in giro con un convoglio dell’Onu nella zona del nord est del Congo infestata da bande armate (la stessa in cui i Rangers inviati dal governo belga hanno perso in cinque anni 200 dei 700 loro effettivi decimati dall’Esercito di liberazione del Rwanda che imperversa con violenze saccheggi e stupri) senza avere l’autorizzazione della Farnesina a Roma. Questo non è possibile. I movimenti del nostro personale diplomatico nel mondo, specialmente nelle zone comunque a rischio, sono regolati da protocolli e coordinati dal ministero che concede o nega le autorizzazioni, con il compito di monitorare e proteggere tutte le situazioni a rischio. Si sa che l’ambasciatore Attanasio viaggiava senza scorta, che gli era stata negata all’ultimo momento dal governo di Kinshasa e senza un’auto blindata, che aveva richiesto e che gli era stata promessa “fra qualche giorno”. Oggi si viene a sapere che le forze governative sarebbero intervenute dopo l’attacco al convoglio dell’Onu – di cui facevano parte Attanasio e il povero carabiniere Vittorio Iacovacci – ingaggiando un conflitto a fuoco. Lo scopo dell’attacco armato sembra fosse quello di catturare ostaggi delle Nazioni unite, ma questi dettagli saranno chiariti nelle inchieste sul terreno congolese. Noi chiediamo solo di sapere come sono andate le cose dentro la Farnesina, responsabile di tutto ciò che accade alle ambasciate e ai diplomatici di ogni rango insieme agli uomini dei servizi segreti nelle ambasciate. Attanasio era il più giovane ambasciatore italiano. Aveva un’aria allegra e positiva, e insieme a sua moglie gestiva persino una propria organizzazione a favore dei bambini. Malgrado tanta generosa attività, tutto ciò che è accaduto era prevedibile. La questione che oggi è degna di attenzione prima di tutto del presidente del consiglio Draghi è la valutazione delle responsabilità del ministro. Qui i casi sono due: o esiste un protocollo che stabilisce se come e quando il personale delle ambasciate può avventurarsi in zone ad altissimo rischio, o un tale protocollo manca del tutto. Sta al presidente del Consiglio Mario Draghi valutare se intende mantenere al suo posto un ministro degli esteri che si è rivelato ignaro e stupefatto di fronte a un delitto avvenuto nelle circostanze dettagliatamente documentate dai nostri servizi di intelligence. Saranno i congolesi, le Nazioni Unite e se vorrà la stessa Unione europea a compiere le indagini sul terreno. Ma noi abbiamo il dovere e il diritto di sapere se e come è tutelata la diplomazia italiana nelle zone di guerra, guerriglia, scontri etnici e tribali. Vogliamo sapere se come quando l’ambasciatore Attanasio ha comunicato i suoi propositi e movimenti e se tali comunicazioni sono state approvate. Un capo della diplomazia non può farsi ammazzare i diplomatici mentre è altrove e del tutto ignaro delle attività svolte da un diplomatico. Questa tragedia deve avere conseguenze.

Le colpe della Farnesina su Attanasio. "L'ambasciatore? Perché è morto? E che ce frega a noi perché! Era in un convoglio delle Nazioni Unite. E che noi siamo le Nazioni Unite? No. E allora non sono affari nostri ma delle Nazioni Unite". Paolo Guzzanti - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Provate a immaginare uno di quei personaggi cui dava vita Alberto Sordi, per esempio nei panni di un ministro degli Esteri che dice: «L'ambasciatore? Perché è morto? E che ce frega a noi perché! Era in un convoglio delle Nazioni Unite. E che noi siamo le Nazioni Unite? No. E allora non sono affari nostri ma delle Nazioni Unite». Quando abbiamo chiesto alla Farnesina di spiegare con quale criterio avesse approvato il piano di viaggio dell'ambasciatore Attanasio con il carabiniere Iacovacci malgrado i dettagliatissimi rapporti dei nostri servizi che descrivevano l'area di destinazione come una trappola mortale, la risposta è stata questa: «L'ambasciatore Attanasio non si trovava in ambasciata ma era in prestito alle Nazioni Unite in un'area lontana. Noi la Farnesina, ovvero il Ministero degli Esteri ci occupiamo soltanto dell'ambasciata, tapparelle, cucine e bollette della luce. Mica facciamo la balia a un ambasciatore che per hobby va a rappresentare l'Italia nelle Nazioni Unite». Non è pazzesco? Molto di più: è pentastellare. Ma come: i servizi segreti documentano che in quell'area ammazzano i Ranger, rapiscono e uccidono chiunque passi senza scorta e il nostro ministro degli Esteri dice che non era affar suo? Si metta d'accordo con se stesso: se Attanasio era un «servitore dello Stato», allora seguitava ad esserlo anche in un convoglio dell'ONU che portava aiuti umanitari. Ma se era un servitore dello Stato ed è stato ammazzato per incuria e incompetenza, adesso chi paga? Né sussurri né grida da Palazzo Chigi?

L'uccisione dell'ambasciatore e del carabiniere. Agguato contro Attanasio, Di Maio prova a scaricare la responsabilità sull’Onu. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Marzo 2021. Se il Di Maio avesse detto: «Hanno ucciso il nostro ambasciatore in Congo e io ho ordinato un’inchiesta per sapere come sia stato possibile che viaggiasse in una zona a rischio senza scorta né auto blindata», avremmo detto: bravo ministro, è quel che devi fare. Invece Di Maio ha detto: ci dispiace molto, ma state tranquilli, troveremo chi gli ha sparato. È stata quella frase che ha fatto capire che c’era del marcio. L’assassinio di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci, il carabiniere che ha perso la vita con lui, è un crimine orrendo, ma lo scandalo che copre le responsabilità di questo delitto è un ulteriore delitto perché i due uomini – c’era anche il console Russo che se l’è cavata con un terribile spavento – erano in missione per conto dello Stato italiano accompagnando un convoglio delle Nazioni Unite in una zona remota e insanguinata del Congo dove Luca Attanasio – un brillantissimo diplomatico di quarantatré anni – rappresentava l’Italia. Ma era costretto a rappresentarla a mani e petto nudi, senza scorta e senza una macchina blindata. La Farnesina, il nostro ministero degli Esteri, si è subito trincerata dietro una posizione da Ponzio Pilato: Attanasio, povero ragazzo che persona splendida e quanto ci dispiace, viaggiava con le Nazioni Unite, dunque era l’Onu che doveva provvedere alla sua incolumità, ci dispiace che non l’abbia fatto, ma non è colpa nostra. Questa versione lagnosa, falsa e codarda è stata registrata passivamente dalla maggior parte dei giornali e telegiornali con rare eccezioni e anche un certo tono di commiserazione nei nostri confronti che abbiamo subito gridato allo scandalo chiedendo la verità e le dimissioni del ministro: ma che dite? Ma non sapete come vanno queste cose? È l’ente che organizza una missione che deve garantire la sicurezza, non quello cui appartiene la vittima, cioè il ministero degli Esteri. È un’obiezione ipocrita. Del resto, basta un piccolo esercizio di fantasia: ve lo immaginate un ambasciatore americano, o francese o del Regno Unito abbandonato dai suoi servizi segreti, dalla sua ambasciata e dal suo governo per andare a fare una bella gita nel posto più pericoloso dell’Africa, dove da decenni si uccidono centinaia di soldati (duecento Ranger in cinque anni), dove cento diverse bande armate si contendono il traffico di uomini, donne, animali e minerali pregiati e in cui operano fazioni armate del Vicino Rwanda come strascico della orribile guerra razziale fra Hutu e Tutsi? L’Onu ha – in Congo come altrove – responsabilità gravissime e l’onore di questa (fintamente) sacra istituzione è continuamente macchiato da accuse di massacri, incompetenza, stupri, sopraffazioni. Il solo fatto di essere nelle mani delle Nazioni Unite costituisce un pericolo, come del resto le morti di Attanasio e Iacovacci dimostrano. E questo è il motivo per cui siamo trasaliti quando abbiamo visto che alla retorica del “servitore dello Stato ucciso mentre serviva il suo Paese” si aggiungeva quella dell’Onu, responsabile di troppi disastri fra tante attività umanitarie come quella cui partecipava. La manovra era evidente: scaricare queste due morti su un ente senza nome e referente, insinuando che Luca Attanasio agisse di testa sua, senza dar conto a nessuno. Questo è falso: il giovanissimo ambasciatore nel Congo-Kinshasa, ex Zaire, ex colonia belga in cui i belgi hanno praticato le più violente sopraffazioni e angherie pur di rapinare le risorse minerarie di quelle terre intrise di sangue e di odio, ha tempestato la Farnesina di richieste di scorta, protezione blindata e nel caso specifico di questo viaggio è stato a lungo incerto se partecipare o no proprio a causa della situazione di estremo pericolo e senza difesa per lui e chi lo accompagnava. Come conseguenza dei suoi dubbi, l’ambasciata italiana a Kinshasa aveva informato il ministero degli Esteri della Repubblica Democratica del Congo, con una lettera protocollare pubblicata dall’agenzia AfricaNews Media Rdc in cui si legge che la missione, dapprima accettata il 15 febbraio con una nota diretta alla Direzione nazionale del Protocollo di Stato e firmata dal suo direttore Banza Ngoy Katumve, era stata poi annullata. Perché? Perché mancavano le condizioni minime di sicurezza per l’ambasciatore, il console Alfredo Russo (rimasto illeso anche se sotto shock) e il carabiniere Iacovacci. Tutto su carta intestata, tutto con protocolli formali che certamente la Farnesina riceveva in copia, essendo continuamente aggiornata su ogni vicenda delle sue ambasciate. Poi è successo qualcosa che ha fatto valutare di nuovo il viaggio come possibile, sicché Attanasio, Russo e Iacovacci hanno preso un volo da Kinshasa a Goma, dove li aspettava il personale dell’Onu che li ha accompagnati al convoglio diretto verso la pericolosissima zona detta delle Tre Antenne. Chi o che cosa abbia prodotto questo ritorno al piano originale, non lo sappiamo e lo vorremmo sapere. Ma è sotto gli occhi di tutti – anche della Farnesina che finge di non saperne niente – che la causa delle decisioni e dei ripensamenti è una sola: la mancanza di sicurezza in un viaggio ad altissimo rischio che infatti si è concluso con un massacro. Attanasio, arrivato alla sede di Kinshasa nel 2017 chiese nel 2018 una protezione più affidabile: che i carabinieri passassero da due a quattro (cioè da uno a due, per i turni di riposo) e che fosse provvisto di un mezzo blindato. Era a quell’epoca ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi che lasciò il suo posto a Luigi Di Maio il 5 settembre 2019. La Farnesina seguendo le pignole procedure burocratiche mandò qualcuno a fare un’ispezione e la conclusione fu che Attanasio aveva esagerato. Non c’era bisogno di più carabinieri. Quanto al mezzo blindato, se ne sarebbe potuto parlare, ma c’era da aspettare e infatti Attanasio ancora aspettava quando è morto. Quindi alla Farnesina sapevano tutto. Sapevano che da tre anni Attanasio si sentiva a rischio, che non aveva ancora avuto il blindato e anche di aver riluttato prima di partire per la missione perché non si sentiva protetto. La Farnesina, e il suo ministro Di Maio, si rifugiano poi su una seconda linea ipocrita: poiché la missione in cui sono morti Attanasio e Iacovacci si svolgeva a 2,500 chilometri di distanza, come avrebbe potuto una macchina blindata dell’ambasciata accompagnarlo in un tale viaggio? Risposta: e che ne sappiamo noi? È per questo che esistono i ministeri degli Esteri, i servizi segreti, persino le compagnie di leasing di auto anche blindate e persino la possibilità di vietare la missione. Bastava che la Farnesina annullasse – visto che disponeva di tutti gli elementi anche burocratici e formali – il viaggio suicida di Attanasio e Iacovacci, anche considerando il dettagliato e scioccante rapporto dei nostri servizi segreti, perfettamente noto non solo ad Attanasio ma anche al ministero, al ministro e persino alla Commissione parlamentare di controllo sui servizi. Il ministero e il ministro disponevano di tutti gli elementi e di tutti gli strumenti per impedire una tragedia, ma non hanno fatto niente. Trincerandosi dietro il paravento della responsabilità dell’Onu, che era il vettore della gita, quello che forniva mezzi di trasporto ma non di sicurezza, personale civile ma non militare. Dunque, l’Onu ha le sue colpe e ci farebbe un gran piacere se anche in quell’agenzia qualcuno pagasse per la doppia morte annunciata. Ma le responsabilità dell’Onu non mitigano in alcun modo quelle del datore di lavoro e di funzioni dell’ambasciatore Attanasio e quel datore di lavoro e di funzione è il ministero degli Esteri, prima sotto la responsabilità di Moavero e poi di Luigi Di Maio. Per ora siamo in attesa che il pachiderma bianco della Farnesina si risvegli della sua marmoreità e dica finalmente qualcosa. Ci dica per esempio se è vero o no che la richiesta di avere una scorta più adeguata da parte di Attanasio, presa in considerazione dalle autorità competenti (quali?) fu bocciata: questo giovane ambasciatore è troppo impressionabile, non abbiamo carabinieri da sprecare per lui. E anche: questo giovane ambasciatore chi crede di essere con la sua pretesa di avere una scorta quando si muove (e lo fa spesso) in zone di guerra, un sottosegretario? E veniamo a Di Maio. Proviamo a concedergli delle attenuanti generiche: è un politico politicante, non è famoso per la sua assidua presenza e ho parlato con diverse feluche d’esperienza che sorridono mestamente quando lo sentono nominare. Concediamogli quindi l’attenuante (in realtà un’aggravante) di non aver saputo un accidente finché la tragedia è avvenuta. E che quando è avvenuta lo abbiano sommerso di briefing: lei deve dire questo, lei non deve dire quello, punti sul sacrificio eroico del servitore dello Stato, è importante che i telegiornali ci vengano dietro, lì ci penso io conosco tutti, la gente deve vedere uno sfoggio barocco di simboli, parate funerarie, orazioni, squilli di tromba e mi raccomando di ripetere ogni dieci secondi “servitore dello Stato”. Poi dica, signor ministro, che naturalmente noi siamo impegnati nell’inchiesta per scoprire chi l’ha ucciso. Dica che è colpa dell’Onu, in fondo ci dovevano pensare loro. Chiarisca bene che l’Ambasciata e anche il ministero non potevano fare niente in quel postaccio così lontano, lasci capire che il povero Attanasio era talmente vitale e generoso che, sì, insomma faccia intendere che da parte sua c’è stata imprudenza, che da parte dell’Onu c’è stata incoscienza, ma che noi, come ministero e lei come ministro non possiamo essere chiamati in causa perché non sapevamo, non vedevamo, e comunque c’erano di mezzo troppi chilometri. Ah: e l’ambasciata non è una balia. Ha capito bene? Vuole ripetere? No, non ce n’era bisogno. Di Maio ha capito al volo e anche giornali e telegiornali: il servitore dello Stato, pardon, il carabiniere Iacovacci. e però non dimentichiamo anche quel povero disgraziato di Moustapha Milambo, l’autista locale, e andiamo via così. Ecco, così, eccellenza, cercheranno di far emergere le sue pretese responsabilità ma ricordi sempre la nostra linea diplomatica e non la abbandoni mai, come si fa quando si è scoperti in adulterio: negare, negare, negare sempre, negare specialmente l’evidenza.

Luigi Di Maio, ciò che il grillino deve spiegare sugli italiani ammazzati in Congo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 28 febbraio 2021. Domande, ancora domande. Chi è responsabile per non aver tutelato l'ambasciatore in Congo, il carabiniere di scorta e l'autista? Davvero il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha ragione a sentirsi a posto con la coscienza e così i suoi alti funzionari e i servizi segreti esteri (Aise)? E la Procura di Roma oltre a dar la caccia agli assassini, sta pensando o no di aprire un fascicolo con ipotesi di reato a carico di qualcuno che sta a Roma in alto loco? Intanto un po' di stupore. Tutti i partiti hanno accettato la versione autoassolutoria fornita da Di Maio alla Camera nell'informativa successiva ai fatti, e preso per buono lo scaricabarile messo in atto ripetutamente in questi giorni per addossare ogni responsabilità all'Onu. Non funziona così. Non esiste mai una delega assoluta della tutela quando c'è in ballo la sicurezza nazionale incarnata da un ambasciatore in territorio sensibile. Ricostruiamo i recenti avvenimenti, dalla parte per così dire dei "buoni", trascurando cioè l'identità dei killer e se fossero parte o meno di gruppi terroristici. Partiamo dall'ultima pagina. Ieri c'è stato il funerale a Limbiate, in provincia di Monza e Brianza, dell'ambasciatore Luca Attanasio. Nello stadio c'era l'arcivescovo Mario Delpini, c'è stata totale identificazione tra la sua gente e il suo "ragazzo d'oro". Cresciuto all'oratorio, eccellente negli studi, generoso come il vino e buono come il pane, ma niente affatto sprovveduto. Sapeva da quando era arrivato in Conco di essere in uno degli angoli di mondo più pericolosi. Il Congo-Kinshasa (ex Zaire) è attraversato sistematicamente da conflitti. Le zone di confine sono alla mercé di gruppi armati che zigzagano tra Stati (Ruanda, Uganda, Kenia) cercando prede. Luca aveva chiesto sin dalla fine del 2018 una scorta doppia. Arrivò un ispettore dalla Farnesina per capire se ne avesse i motivi (bella fiducia). Ma no, esagerava, fu la risposta. Attanasio non rinunciò però a fare il suo lavoro con la pienezza dei propri intendimenti magnanimi. Lo Stato aveva deciso che doveva accontentarsi di due carabinieri, meno cioè di quelli dediti a una qualsiasi scorta di basso calibro (minimo sei per coprire i vari turni)? Vuol dire che gli doveva andar bene così. Accorreva dovunque ci fosse una comunità di italiani, fossero essi imprenditori o membri di organizzazioni di volontariato internazionale, come l'Avsi, che dà una nuova vita ai bambini-soldato ad esempio. Era in servizio per l'Italia, era l'Italia, si può dire. Non un rappresentante in missione, ma l'incarnazione della patria e della sua bandiera. Per recarsi a Goma, nell'Est, presso il Lago di Kivu (a 2540 km da Kinshasa, in auto sarebbero stati due giorni e mezzo. Ha usato i mezzi dell'Onu, ponendosi sotto la protezione delle Nazioni Unite. Ma che ritenesse insufficiente e vagamente problematica questa copertura lo dimostra il fatto stesso di esseri fatto accompagnare dal carabiniere Vittorio Iacovacci, non un segretario factotum, ma una guardia del corpo d'eccellenza. L'Onu aveva deciso che quel percorso che ha portato i due, con l'autista Mustapha Milambo, al sequestro e alla morte, non era passibile di accompagnamento dei caschi blu. Non è precisamente un comportamento raro da parte delle sigle internazionali. Ed ora due precedenti. Entrambi in Libia. 1) Nell'estate del 2015 quattro tecnici della società Bonatti di Parma, furono sequestrati da milizie armate mentre si recavano su una jeep e con una solo guardia armata dalla Tunisia al loro cantiere di Mellitha in Libia. Due di essi finirono uccisi. I dirigenti sono finiti sotto processo per aver sottovalutato i rischi collegati alla situazione libica, «sempre più instabile e sfuggente». In fondo si erano fidati della sicurezza garantita da un governo riconosciuto dall'Italia (quello di Al Serraj) Il quesito che pongo è: ciò che vale per il settore privato vale anche per un ministero? Se questo è il caso allora il titolare della Farnesina dovrebbe rispondere nella stessa maniera del Presidente della società Bonatti, Paolo Ghirelli. Sono veramente curioso di vedere come il titolare del fascicolo, il Procuratore capo di Roma Michele Prestipino, procederà o meno nei confronti di Luigi Di Maio. 2) Quando in Libia, precisamente nel consolato Usa a Bengasi, l'ambasciatore americano Chris Stevens fu ammazzato dai rivoltosi l'11 settembre 2012, Hillary Clinton rischiò di saltare con tutta la sua petulante alterigia. Il più potente Stato del mondo non aveva garantito la sicurezza né dei suoi uomini (oltre all'ambasciatore quattro tra marines e agenti della Cia) né quella del consolato. Com' era stato possibile quanto accaduto? La Cnn scovò mail di Stevens al Dipartimento di Stato nei quali manifestava preoccupazione e riteneva insufficienti le misure a tutela sua e delle sedi diplomatiche. Esagerava pure lui. Immediatamente dagli Stati Uniti si fece sapere che tutto questo era imprevedibile, che era stata una ribellione spontanea causata da un film (ricordiamo il pretesto fasullo della maglietta di Calderoli?), eccetera... Bugie, era stato qualcosa di pianificato da formazioni jihadiste tra l'altro usate in precedenza dagli americani proprio per abbattere Gheddafi. Hillary subì da una commissione d'inchiesta parlamentare un interrogatorio di 11 ore. Obama aveva comunque mandato subito 200 marines per snidare gli assassini, e far capire che gli ambasciatori americani non si toccano. E noi? Un bel telegramma. Tante condoglianze per gli eroi. 

Quelle ambasciate indifese e senza soldi. Così i servitori dello Stato sono a rischio. Dal Pakistan al Venezuela: pochi uomini e male equipaggiati Il bilancio è passato dallo 0,28% allo 0,09%. E la sicurezza latita. Fausto Biloslavo - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. L'ambasciatore Luca Attanasio, ucciso in Congo, aveva chiesto nel 2018 alla Farnesina di raddoppiare la scorta di carabinieri da due a quattro, ma gli hanno risposto picche. «É anche arrivato a Kinshasa (la capitale congolese, nda) un ispettore del ministero degli Esteri da Roma, ma ha fatto subito capire che per problemi economici non si sarebbe fatto nulla» spiega una fonte del Giornale. La punta di un iceberg della mancanza di fondi, lungaggini burocratiche e scarsa attenzione alle ambasciate «dimenticate» come quella in Congo. «In Venezuela abbiamo avuto una montagna di problemi a fare arrivare le nostri armi nel paese, che è tutt'altro che sicuro» racconta una fonte dell'Arma. Come in Congo i carabinieri addetti alla sicurezza sono pochi: appena 5 divisi fra l'ambasciata ed i consolati. «Nei Paesi a medio rischio come il Pakistan o l'Arabia Saudita bisogna arrangiarsi - spiega la fonte - La protezione spesso non è adeguata. E abbiamo trovato pure giubbotti anti proiettili talvolta scaduti e comunque non i migliori». Le ambasciate ad alto rischio a Tripoli, Baghdad e Kabul hanno scorte poderose. «In Iraq c'è una ventina di uomini e un'altra decina in appoggio di vigilanza. Oltre a tutti gli assetti americani sul terreno. In Congo, al contrario, vai da solo nella foresta» spiega un'altra fonte che è stata in prima linea. Anche per le ambasciate sotto tiro, come quella in Afghanistan c'è voluto tempo per costruire il secondo muro di cinta indispensabile per fermare gli attacchi con i camion bomba. «Gli specialisti delle protezioni passive fanno parte della Difesa, che però non è coinvolta nel sistema di sicurezza della ambasciate o ha un ruolo molto marginale. Un ufficiale del genio che fa una ricognizione ha più competenza di un carabiniere per capire cosa serve» sottolinea una fonte militare. Dal punto di vista puramente militare «fra il Congo con 16mila caschi blu e l'Afghanistan non cambia molto se parliamo di sicurezza». Il livello di sicurezza della nostra ambasciata in Congo si è ridimensionato negli anni. Dal 2014 ci sono solo 2 operatori di scorta, prima erano in 4 e prima ancora il reggimento Tuscania aveva 8 uomini. Un diplomatico con grande esperienza in zone di crisi ammette che «americani, russi e pure i turchi girano sempre super scortati e non lesinano in sicurezza». Francesco Saverio De Luigi, presidente del sindacato dei diplomatici (Sndmae), non ha dubbi: «Il problema è la costante erosione di fondi e personale nel contesto di una progressiva disattenzione verso il funzionamento delle nostre ambasciate e consolati. I numeri sono impietosi: vent'anni fa il bilancio della Farnesina era pari allo 0,28 % della spesa pubblica, oggi è dello 0,09 %. Significa essere fuori dal mondo» denuncia De Luigi. L'ambasciatore Michele Valensise ha scritto sul sito del sindacato un contributo in ricordo di Attanasio e le altre due vittime, netto fin dal titolo: Vita e morte da diplomatici, fra tanti rischi e pochi mezzi. La conclusione sulla tragedia è chiara: «Contribuirà soprattutto a tenere alta l'attenzione di governo e Parlamento sulla correlazione vitale da assicurare tra giusti obiettivi di politica estera e strumenti necessari per realizzarli, non ultimi i mezzi per la tutela della sicurezza di persone e cose. È un nesso essenziale, non se può prescindere, per la dignità dello Stato e per la memoria di chi è caduto».

L’ambasciatore Attanasio temeva per la sua incolumità e stava per ricevere un’auto blindata. Lo scorso 8 gennaio il diplomatico ucciso in Congo aveva firmato la determina per acquistare un mezzo antiproiettili da una ditta della Brianza. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 23 febbraio 2021. L’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso in un attentato in Congo insieme al carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milando, attendeva a breve la consegna di un’auto blindata che lui stesso aveva acquistato a inizio anno. Il diplomatico, da anni al lavoro in paesi dell’Africa e molto attivo nei progetti internazionali di aiuti alimentari e umanitari, temeva evidentemente per la sua incolumità e per quella dei suoi collaboratori. Lo scorso otto gennaio aveva firmato la determina che concludeva l’iter di una gara di appalto per acquistare un mezzo blindato Vrs6 da sette posti a sedere: la gara era stata vinta da una ditta brianzola al costo di 205 mila euro. A metà febbraio erano scaduti i 35 giorni per presentare eventuali ricorsi alla gara e a breve l’auto blindata sarebbe stata consegnata. Attanasio il giorno dell’agguato viaggiava su una strada definita «sicura» dalle autorità locali ma su un mezzo normale.  

Grazia Longo per “la Stampa” il 26 febbraio 2021. L' ambasciatore Luca Attanasio si era reso conto di operare in una zona molto pericolosa e per questo, raccontano adesso, aveva chiesto aiuto alla Farnesina per ottenere una scorta rafforzata, ma il suo allarme è rimasto inascoltato. Il diplomatico - caduto in Congo lunedì scorso in un agguato dai risvolti ancora poco chiari, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all' autista Mustafa Milambo - è arrivato a Kinshasa nel 2017. Un anno dopo, nel 2018, ha inviato una lettera alla Farnesina, a Roma, per richiedere formalmente che la scorta di due carabinieri di cui disponeva venisse raddoppiata. Evidentemente, nel corso delle missioni che aveva compiuto nell' arco di dodici mesi aveva avvertito che sarebbe stato più prudente e sicuro operare con una difesa personale più consistente. Il ministero degli Esteri, in seguito alla sollecitazione ricevuta, ha inviato, come da prassi, un suo ispettore a verificare la situazione. Ma la visita e la verifica sul posto non hanno purtroppo portato ad un esito positivo. Tant' è che Attanasio ha continuato ad essere protetto solo da due militari. A rafforzare la sua richiesta, in verità, c'era anche il fatto che prima del suo arrivo, l'ambasciatore italiano a Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo, aveva una scorta di quattro persone. Come mai furono poi ridotte a due? E sulla base di quali elementi non è stato espresso parere favorevole alla domanda di Luca Attanasio? La Farnesina, contattata in serata da La Stampa, non ha dato risposte in merito alla vicenda. Ma non sono queste le uniche questioni sul tappeto. Molti, troppi dubbi restano ancora da chiarire. A partire dal ruolo dell' Onu e del Pam (Programma alimentare mondiale) nella missione Monusco, quella che aveva organizzato il viaggio dell' ambasciatore Attanasio. Lunedì scorso il nostro diplomatico si era fidato del Pam ed era volato da Kinshasha a Goma, territorio sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite, convinto di trovare un dispositivo adeguato. Ma così non è stato, perché la strada che era stata definita sicura si è rivelata mortale. E infatti il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha chiesto tanto all' Onu quanto al Pam chiarimenti urgenti a riguardo. Sappiamo - soprattutto dalla testimonianza di Rocco Leone, vice direttore del Programma alimentare mondiale in Congo scampato all' attacco - che i sequestratori erano sei, «cinque armati di kalashnikov Ak47 e uno di machete». Hanno ucciso subito l' autista Mustafa e poi hanno costretto i passeggeri a scendere e a seguirli nel fitto della foresta ai lati della strada. Rocco Leone sarà sentito in Italia dai pm Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti. Sul luogo dell' agguato sono poi intervenuti i ranger, che hanno il compito di presidiare il parco del Virunga, il paradiso dei gorilla. Ma chi ha sparato per primo? Chi ha colpito a morte l' ambasciatore e il carabiniere? Dall' esame autoptico è emerso che non sono stati vittime di un' esecuzione, ma sono stati uccisi durante un conflitto a fuoco. Nel collo del carabiniere è stato trovato un proiettile di Kalashnikov Ak47, ma quest' arma è utilizzata sia dai guerriglieri sia dai rangers. È acclarato che il carabiniere non ha sparato alcun colpo, presumibilmente non ha avuto il tempo di reagire al blitz messo in atto dal commando. La sua pistola d' ordinanza, da cui non risulta essere partito alcun proiettile, si trovava nel fuoristrada. Agli atti della procura di Roma, che ha delegato per le indagini i carabinieri del Ros, si trova anche un tablet, sempre rinvenuto a bordo della jeep degli italiani, che potrebbe fornire elementi preziosi alle indagini soprattutto per quanto riguarda il piano di viaggio dell' ambasciatore e l' organizzazione degli spostamenti. L' obiettivo di chi indaga è capire quante persone fossero a conoscenza della missione del nostro diplomatico ed eventualmente raccogliere elementi sul perché non fosse stata prevista una scorta armata.

Grazia Longo per “La Stampa” il 27 febbraio 2021. Era composta da cinque persone la commissione ispettiva che, nell'autunno 2018, andò per conto del ministero degli Esteri a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo e sede della nostra ambasciata, a verificare se esistessero le basi per accettare la richiesta inoltrata dall'ambasciatore Luca Attanasio. Il diplomatico - ucciso lunedì scorso in un agguato nell'area del parco nazionale di Virunga insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e al loro autista Mustapha Milambo - aveva sollecitato la Farnesina, con una lettera, per ottenere una scorta rafforzata. Puntava ad avere quattro carabinieri esclusivamente per la sua difesa personale - e non solo i due che aveva in dotazione - come peraltro era già accaduto al suo predecessore. La Farnesina, in una nota, precisa che la sua richiesta si riferiva solo al periodo elettorale (a fine 2018 in Congo si sono tenute le presidenziali) e in quel senso fu accolta: «L'ambasciatore Attanasio fece richiesta di una scorta rafforzata nel novembre 2018 in ragione dell'imminenza delle elezioni presidenziali e nazionali, previste per il 30 dicembre dello stesso anno, che si svolgevano in un clima di grandi tensioni politiche e sociali. Tale rafforzamento fu effettivamente disposto per il periodo richiesto». Ma altre fonti raccontano che la richiesta dell'ambasciatore non fosse affatto circostanziata al periodo delle consultazioni elettorali, ma fosse invece riferita a un periodo permanente. Non solo. Precisano, inoltre, che il contingente dei carabinieri a Kinshasa non fu potenziato durante le elezioni presidenziali: si mantennero due militari alla difesa personale di Attanasio e due alla sorveglianza dell'ambasciata. Gli unici rinforzi spediti da Roma furono in realtà dei sostituti dei carabinieri che si assentarono per le vacanze di Natale. La nota della Farnesina arriva nel tardo pomeriggio di ieri, dopo una lunga giornata trascorsa negli uffici ad esaminare numerosi faldoni di documenti. E si apprende che un funzionario diplomatico verrà a breve inviato a Kinshasa «a supporto del personale presente in Ambasciata». Resta il fatto che dopo quasi un anno e mezzo in Congo, Luca Attanasio si era evidentemente reso conto della necessità di consolidare la sua tutela personale. Inoltre c'è la questione, ancora aperta, della protezione che avrebbe dovuto garantire il Programma alimentare mondiale (Pam) alla missione di Attanasio. Su questo aspetto la Farnesina precisa «che in tutti i contesti esteri dove i nostri dipendenti effettuano missioni organizzate dalle Nazioni Unite o da altre organizzazioni internazionali, la responsabilità in materia di sicurezza è in capo a queste ultime. Infatti, il Pam ha dichiarato che la missione nell'area di Goma, località nella quale l'ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci erano giunti a bordo di un aereo dell'Onu, si svolgeva su veicoli del Pam. Che ha formalmente manifestato la propria disponibilità a fornire assistenza agli organi inquirenti italiani». Dal Ministero degli Esteri insistono sul fatto che le misure di sicurezza al momento dell'agguato mortale ricadessero nelle competenze e nelle responsabilità del Pam. Il motivo? Era stato il Pam «a organizzare la missione nella regione di Goma e a indicare nel suo comunicato del 22 febbraio che il percorso "era stato autorizzato senza scorta armata"». Zakia Seddiki, moglie dell'ambasciatore ucciso, ha descritto le fasi della preparazione della missione a Goma: «L'agenzia Onu disse a Luca che garantiva la sicurezza. Lui ha chiesto: "Chi si occupa della sicurezza e di tutto? Gli hanno detto che ci avrebbero pensato loro. Ma non lo hanno fatto». La vicenda mantiene contorni ancora poco definiti. Sono state pertanto avviate indagini per fare chiarezza sui fatti: «In data 24 febbraio, riscontrando la richiesta formale in tale senso presentata a nome del governo italiano dalle nostre rappresentanze permanenti presso le Nazioni Unite a New York e a Roma, il Dipartimento per la Sicurezza dell'Onu ha formalmente comunicato di avere avviato una indagine, insieme a Pam e la missione Monusco, sui tragici fatti del 22 febbraio e che tale indagine dovrebbe concludersi il 9 marzo prossimo, assicurando che gli esiti saranno condivisi con le autorità italiane».

 Draghi intervenga come fece Berlusconi. Di Maio ha negato l’auto blindata ad Attanasio, si dimetta come Scajola quando fu ucciso Biagi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Quando fu scandalosamente chiaro che Marco Biagi, prima di essere assassinato dalle Brigate Rosse a Bologna il 19 marzo del 2002, aveva vanamente chiesto la macchina blindata e la scorta – e gli erano state negate – il ministro degli Interni del governo Berlusconi, Claudio Scajola, fu costretto a dimettersi. Oggi non si capisce con quale mancanza di pudore il ministro degli Esteri non si sia dimesso, visto che anche l’ambasciatore italiano nel Congo Luca Attanasio, ucciso con il carabiniere Vittorio Iacovacci e un autista congolese, aveva chiesto da tre anni sia la scorta che un’auto blindata. La richiesta l’aveva avanzata nel 2018, un anno dopo essere stato assegnato all’ambasciata di Kinshasa. Attanasio era un esemplare “servitore dello Stato” come ha retoricamente ripetuto il ministro Di Maio che – capo della diplomazia italiana – era il suo referente e responsabile. In un macabro e disonorevole tentativo di occultare la verità, sia la Farnesina che Di Maio si sono prontamente lavati le mani dalla responsabilità di aver lasciato morire i due servitori dello Stato, sostenendo che l’ambasciatore Attanasio, quando è stato attaccato e assassinato, non si trovava nell’ambasciata ma su un convoglio (due automobili non blindate) delle Nazioni Unite per una missione di distribuzione di cibo nelle scuole. Attanasio era su una delle due auto perché sosteneva con il massimo impegno questa missione dell’Onu e lo faceva nella sua qualità di ambasciatore d’Italia, al servizio dello Stato italiano di cui era un “fedele servitore”. Dunque, se si trovava su un convoglio dell’Onu, era lì nel pieno delle sue funzioni e non perché partecipasse a una gita. Abbiamo riportato ieri una parte del rapporto che i servizi segreti italiani avevano da tempo consegnato al governo italiano, al ministero degli Esteri e anche all’ambasciata italiana a Kinshasa. In questo rapporto si descrive la zona in cui è avvenuto lo scontro a fuoco che ha portato alla morte dei due italiani come un territorio pericolosissimo, percorso da un centinaio di diverse bande armate, da un sedicente fronte di liberazione del Rwanda e da predatori di minerali, animali e esseri umani di ogni risma. In quella zona sono stati uccisi in cinque anni duecento dei settecento “Ranger” inviati dall’ex potenza coloniale belga. Conoscendo perfettamente la situazione, Luca Attanasio aveva chiesto nel 2018 una macchina blindata e una scorta per proteggere i suoi movimenti non soltanto nella capitale Kinshasa ma in tutto il Congo dove la sua opera di supporter delle Nazioni unite lo portava di frequente a viaggiare in nome per conto del governo italiano. Anziché mandargli immediatamente una delle tantissime auto blindate del parco gestito dalla polizia, o dai carabinieri, o dalla Guardia di finanza, il sagace governo italiano, che già vedeva alla sua testa un avvocato, Giuseppe Conte, e alla Farnesina l’onorevole Luigi Di Maio, con velocità tutta italiana da uno vale uno (e anche nulla) scatenarono addirittura una gara d’appalto per ottenere il mezzo blindato richiesto con urgenza dall’ambasciatore, ora sepolto con tutti gli onori, salvo quello della verità. La gara è andata un po’ per le lunghe, la macchina blindata non si è mai vista, nessuna scorta armata è stata messa a disposizione del diplomatico. È quindi evidentissimo che l’ambasciatore Attanasio è morto per colpa dello Stato, ma più precisamente del governo e degli uomini che rappresentano il governo nelle sue funzioni, in questo caso il ministero degli esteri. È stato penoso e anzi vergognoso ascoltare nelle news italiane, oltre che in Parlamento, l’oscena versione secondo cui l’ambasciatore Attanasio non poteva essere protetto dallo Stato, cioè dal ministero degli esteri e dalle decisioni del ministro Di Maio, perché “era troppo lontano dalla capitale” e dunque fuori dalla giurisdizione protettiva che lo Stato assicura ai suoi diplomatici. Evidentemente gli uomini del precedente governo-Conte, ora riavvitati sulle stesse sedie dall’attuale governo Draghi, pensano di aver fatto davvero tutto il loro dovere e di non doversi sentire sopraffatti dalla vergogna e correre a consegnare le loro dimissioni senza un attimo di dubbio. Al contrario, da quando Attanasio è stato assassinato con Iacovacci, abbiamo assistito ad una parata di espressioni patetiche e retoriche. Si è suggerito, anzi si è dichiarato spudoratamente che ciò che era accaduto all’ambasciatore Attanasio doveva ricondursi alla sventura, all’imprevedibilità, ma più probabilmente alla scapestrata generosità, alla incauta propensione al viaggio del più giovane diplomatico italiano che – a quanto pare – aveva il vizio di correre a nome del proprio paese insieme alle missioni delle Nazioni unite a portare cibo e soccorsi ai bambini che necessitavano di aiuto nel paese in cui rappresentava più che degnamente lo stato italiano. Il confronto da fare è evidentemente quello con quanto accadde nel 2002 quando Marco Biagi fu assassinato dalle Brigate Rosse, essendo in carica il governo Berlusconi con Claudio Scajola al ministero degli interni, e si scoprì che Marco Biagi aveva vanamente chiesto scorta e macchina blindata, che però gli erano state negate malgrado l’imminente pericolo in cui si trovava il professore giuslavorista. Ci fu allora una grande levata di scudi, specialmente dalle sinistre, che chiesero a gran voce la testa del ministro degli interni per incapacità, incuria e complicità morale nell’assassinio di un innocente servitore dello Stato. Il ministro Scajola ricevette dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi l’incoraggiamento alle immediate dimissioni. E si dimise. Perdendo per sempre un posto d’apice nel governo e vedendo così rovinata la propria carriera politica. Ma nessuno ebbe dubbi sul fatto che le dimissioni fossero dovute e che ogni ritardo fosse una ulteriore offesa alla persona che era stata uccisa anziché protetta. Oggi siamo allo sconcio, siamo di fronte all’assurdo spettacolo di un ministro che finge di non avere capito, che si diletta nell’esprimere continuamente ossessivamente delle filastrocche di parole vane come se potessero metterlo al riparo dalle responsabilità oggettive che lui ha, e che aveva il governo di allora. E qui la palla passa al governo di oggi. Il governo di oggi ha il dovere di guardare ciò che è accaduto e di provvedere affinché il segno di discontinuità (ma di continuità nell’onore e delle regole dello Stato) venga osservato ed onorato. E che sia realmente onorata la memoria e il sacrificio disumano di due giovani funzionari che avevano dato il meglio di sé a questo nostro paese così vergognosamente incapace di esprimere una linea di condotta morale che dovrebbe cominciare con il racconto della verità. Oggi è cambiato il primo ministro ne abbiamo uno nuovo di zecca che riluce come un diamante. Vorremmo che questo diamante non si opacizzasse. E vorremmo quindi vedere immediatamente le conseguenze delle premesse, tutte note visibili e non controvertibili. Presidente Mario Draghi, ora tocca a lei. Di Maio deve lasciare.

La Farnesina chiede all'Onu di accertare le responsabilità. Attacco in Congo, Di Maio alla Camera sulla morte di Attanasio: “L’ambasciata aveva due auto blindate”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. Un “vile agguato” che è costato il sacrificio di uomini che hanno dedicato la loro esistenza “al servizio dell’Italia, della pace e dell’assistenza ai più deboli”, per i quali il Paese organizzerà “funerali di Stato” e dei quali la nazione resta “profondamente orgogliosa”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha parlato in un’informativa alla Camera dell’attentato in Congo che due giorni fa è costato la vita all’ambasciatore Luca Attanasio, al carabiniere della scorta Vittorio Iacovacci, e all’autista del mezzo su cui viaggiavano, Mustapha Milambo. Uccisi mentre si spostavano nella zona nei pressi del parco nazionale dei Virunga, vittime di un tentativo di sequestro terminato con una sparatoria con i ranger del parco accorsi per difendere i funzionari. “È stato straziante ieri sera – prosegue Di Maio – accogliere, a fianco del Presidente Draghi e dei familiari, le salme dei nostri due connazionali”. Un sacrificio che per la Farnesina “illuminerà la vita dei molti, diplomatici e militari, che silenziosamente compiono il proprio dovere per difendere l’Italia e i nostri valori, in Paesi lontani e a rischio”. Le parole del ministro sono state interrotte da un lungo applauso tributato da tutti i presenti in aula. Luca Attanasio era un grande conoscitore del Paese in cui operava dal 2017, un funzionario “brillante ed appassionato”. “Essere ambasciatore è una missione, anche se rischiosa. Ma dobbiamo dare l’esempio”, aveva dichiarato in occasione del premio Nassirya che gli era stato conferito a ottobre. Era innamorato del suo lavoro, dell’Africa e della sua famiglia. “Lascia tre splendide piccole bimbe e la moglie Zakìa, con cui condivideva anche l’impegno del volontariato”, ricorda Di Maio. Vittorio Iacovacci, invece, una famiglia voleva formarla a breve, “al termine imminente della sua missione in Congo, dove lui, addestrato dai nostri migliori reparti speciali, era stato inviato proprio per proteggere il Capo Missione”. La Farnesina ha fatto sapere che “non sarà risparmiato nessuno sforzo per arrivare alla verità”, assicurando anche “impegno e l’attenzione per l’Africa, un continente cruciale per gli equilibri del mondo”. Un Paese, il Congo, che secondo il Ministero degli Esteri è classificato a un “livello di minaccia alto”, tanto che l’ambasciata a Kinshasa è protetta da due vetture blindate e altrettanti carabinieri in missione quadriennale, ai quali si aggiungono due carabinieri in missione di tutela che si alternano regolarmente per periodi di 180 giorni. Il carabiniere Vittorio Iacovacci rientrava in questa “missione di tutela” e per questo aveva accompagnato l’ambasciatore nella missione Onu a Goma, portando con sé la pistola di ordinanza. Lo spostamento del convoglio si è svolto su invito delle Nazioni Unite nell’ambito del programma “World Food Programme”. “Per questo ho immediatamente chiesto al Wfm a Roma e alle Nazioni Unite, interessando direttamente il Segretario generale Antonio Guterres, di fornire un rapporto dettagliato sull’attacco al convoglio per accertare le responsabilità delle decisioni prese”, ha fatto sapere Di Maio, che ha infine ricordato l’attacco di Kindu avvenuto sessant’anni fa: “È una storia antica di violenza e instabilità, l’Italia già allora pagò un tributo pesantissimo alla ricerca della pace, quando furono trucidati 13 nostri aviatori”.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 26 febbraio 2021. C'è una sorta di pedaggio che le auto delle missioni sono solite pagare in quella zona del Congo, a nord di Goma, dove dominano milizie e guerriglieri. Un lasciapassare di qualche centinaia di dollari che garantisca, almeno in parte, la tranquillità del viaggio. Il convoglio del World food programme si sarebbe imbattuto proprio in questa specie di posto di blocco. Ed è per questo che lunedì mattina uno degli addetti alla sicurezza del gruppo Onu avrebbe cercato di intavolare una trattativa con i sei uomini armati di kalashnikov Ak47. Probabilmente perché pensava di convincerli a trovare il solito accordo.

IL REPORT. In base a un report degli 007: «le dinamiche dell' evento sembrano evidenziare che gli assalitori fossero a conoscenza del passaggio del convoglio lungo la viaria RN2. Il personale e i mezzi della missione Monusco4 sono un target generalmente pagante». Ma quella mattina il destino aveva già preso una strada diversa. Gli spari in aria per convincere le jeep a fermarsi, hanno richiamato l'attenzione dei rangers che presidiano il parco di Virunga e dell' unità dell' esercito congolese che si trovavano a poche centinaia di metri. In un attimo la situazione è precipitata. Il commando ha sparato e ucciso l' autista dell' auto che trasportava l' ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, probabilmente per far capire che dovevano eseguire gli ordini: scendere subito dalla jeep e seguirli. È avvenuto tutto molto in fretta, tanto che il militare italiano di scorta al diplomatico non ha avuto il tempo di prendere l' arma che è rimasta nell' auto e che è stata recuperata dai carabinieri del Ros durante la missione in Congo. È stato accertato, poi, che la pistola di ordinanza non ha sparato, a conferma di questa ricostruzione. Il gruppo viene trascinato nella foresta. L' altro italiano, Rocco Leone, vice direttore del Wfp del Congo, comincia a zoppicare, forse finge per tentare di salvarsi. Viene lasciato lì, e ancora oggi la sua versione dei fatti non c' è stata, perché sconvolto da quanto accaduto. Ros e procura potranno sentirlo quando tornerà in Italia, ma solo dopo aver avviato una rogatoria, in quanto dipendente Onu. Criminali e ostaggi non fanno in tempo a entrare nella giungla che piombano rangers e militari. Scoppia un conflitto a fuoco e, ancora oggi, dai risultati dell' autopsia effettuata al policlinico Gemelli sui corpi delle vittime, non si esclude che Attanasio e Iacovacci siano stati uccisi dal fuoco amico: quattro colpi - due ciascuno -, con una traiettoria da sinistra a destra.

PIANO DI VIAGGIO. Le indagini, intanto, stanno puntando a definire meglio la dinamica. Agli atti c' è anche il tablet dell' ambasciatore, trovato a bordo della jeep. Potrebbe fornire elementi importanti, soprattutto per quanto riguarda il piano di viaggio e l' organizzazione degli spostamenti. L' obiettivo di chi indaga è capire quante persone fossero a conoscenza della missione e raccogliere elementi sul perché non fosse stata prevista una scorta armata. I due connazionali si trovavano nell' area nord est del Paese da almeno due giorni. Una presenza che, probabilmente, non è passata inosservata a chi era pronto a «vendere» a bande di rapitori i due cittadini occidentali.

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 27 febbraio 2021. Il Programma alimentare mondiale si difende dalle accuse, dicendo che «la strada da Goma era considerata sicura per il viaggio al momento della missione» dell'ambasciatore italiano Attanasio, e quindi «la nostra valutazione è stata che non fosse necessaria una scorta armata o un veicolo blindato». Inoltre «la responsabilità in casi come questo è inevitabilmente condivisa», e quindi se lo ritenevano necessario, anche le autorità italiane e congolesi avrebbero dovuto fare di più per proteggere il convoglio. Solo dieci giorni prima, però, una delegazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu guidata dal diplomatico belga Axel Kenes aveva visitato le stesse zone, con una rete difensiva della missione Monusco assai più solida. Qualcuno quindi dovrà spiegare perché queste misure erano state giudicate necessarie per il viaggio avvenuto dall'11 al 13 febbraio, ma superflue per quello del 22, in cui invece è stato assalito il convoglio del Pam. Greg Barrow, vicedirettore della comunicazione del Programma alimentare mondiale, ha difeso così l'operato dell'organizzazione che ospitava Attanasio: «La strada da Goma era considerata sicura, se ci fosse stato qualche dubbio avremmo preso altre misure. I protocolli sono stati seguiti». Quindi ha aggiunto: «La nostra valutazione è stata che fosse "verde", e non fosse necessaria una scorta armata o un veicolo blindato». Nessuna spiegazione, però, su chi avesse classificato così la strada e perché, mentre le autorità congolesi l'avevano definita "gialla", ossia più pericolosa. Questo lo aveva determinato il Department of Safety and Security (DSS) dell'Onu, che sta conducendo una delle tre inchieste in corso, e dovrebbe dare le risposte entro il 9 marzo. Barrow poi ha spiegato: «La responsabilità in casi come questo è inevitabilmente condivisa. Non voglio puntare il dito contro il Congo, se sia responsabile della sicurezza all'interno dei suoi confini, o se sia primariamente responsabilità dell'Onu o del Pam, o di qualsiasi ospite che viaggi con il Pam. Questo è un giudizio che non sono in grado di formulare». Al Palazzo di Vetro però non manca chi approfondisce il senso di queste parole, ricordando ad esempio che quando l'ambasciatrice americana all'Onu Samantha Power aveva visitato le stesse regioni, gli Usa avevano ascoltato le raccomandazioni degli addetti alla sicurezza di Monusco, ma poi avevano mobilitato un imponente apparato nazionale per garantire una protezione aggiuntiva assai più solida. La domanda implicita, o lo scaricabarile, diventa quindi perché gli italiani non abbiano fatto altrettanto per Attanasio. O magari era stato lo stesso ambasciatore a non volere più difese, fidandosi della valutazione del DSS? Il problema si complica perché dall'11 al 13 febbraio una delegazione del Consiglio di Sicurezza aveva visitato le stesse zone, atterrando a Goma. Poi aveva visitato Virunga e proprio la regione di Rutshuru, dove era diretto Attanasio, fermandosi nella base dei caschi blu Monusco a Kiwanja. A guidarla era il diplomatico belga Axel Kenes, accompagnato dai direttori politici dei ministeri degli Esteri di Estonia e Irlanda, e da un funzionario dell'ambasciata della Norvegia a Kinshasa, aperta a fine gennaio. Forse Monusco in questo caso si era mobilitata perché le sue basi erano tappe della visita, oppure perché la rappresentanza del Consiglio di Sicurezza richiedeva più attenzione. Resta però da spiegare perché il 13 febbraio quel percorso meritasse più attenzione del 22. Anche la difesa del governo locale, secondo cui non era stato informato del viaggio di Attanasio e quindi non poteva proteggerlo, è crollata ieri. Infatti è stata pubblicata una nota verbale dell'ambasciata italiana a Kinshasa, datata 15 febbraio 2021, che avvertiva il ministero degli Esteri della Repubblica Democratica del Congo della visita. Questo rilancia anche i dubbi su quante persone fossero informate della missione, e quindi quante avrebbero potuto rivelarne i dettagli agli assalitori. Barrow ha detto che il viaggio era stato pianificato dall'anno scorso, ma tutto il possibile era stato fatto per evitare fughe di notizie. Il vicedirettore per il Congo del Pam, Rocco Leone, che era nel convoglio con Attanasio, ieri ha parlato attraverso un comunicato: «Non posso entrare nei dettagli dell'attacco, ma siamo pronti a dare tutte le informazioni e stiamo lavorando con tutti gli inquirenti». È necessario e urgente, per arrivare alla verità.

 (ANSA il 27 febbraio 2021) Il 15 febbraio l'ambasciata italiana a Kinshasa informò con la nota verbale Prot. n. 219 il ministero degli Esteri del Congo dell'imminente viaggio nella regione di Goma dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio, e che il viaggio si sarebbe svolto dal 19 al 24 febbraio. Del documento, che circola da ieri sui social media, è stata confermata all'ANSA l'autenticità da fonti qualificate. Dopo l'uccisione di Attanasio e Iacovacci, il ministero congolese dell'Interno aveva detto che né i servizi di sicurezza né le autorità locali avevano potuto garantire la sicurezza del convoglio, per mancanza di informazioni sulla loro presenza.

Attanasio e lo scontro sul suo viaggio: «Il Congo era stato informato». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 28 febbraio 2021. L’ambasciata italiana avvertì Kinshasa una settimana prima del viaggio. La replica: «Lui venne a dirci che non partiva più». Nessuno sapeva niente? Leggete qui. «Ambassade d’Italie. Prot. n: 219. Note verbale…». Diciassette righe che non dicono tutto, ma di sicuro spiegano molto. È il documento che la segreteria di Luca Attanasio inviò al ministero degli Esteri congolese una settimana prima dell’agguato. Per informare le autorità di Kinshasa del viaggio che l’ambasciatore stava per compiere nel Nord Kivu. La Farnesina lo fa filtrare mentre troppe verità e molti scaricabarile banalizzano, confondono le ultime ore di Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci. Una bugia su tutte: già lunedì scorso, pochi minuti dopo la sparatoria, il governatore della regione Carly Nzanzu Kasivita s’affrettava a dire che nessuno l’aveva informato della missione italiana. E per tutta la settimana, questa è stata la linea: Attanasio era partito senza informare i congolesi. Invece no: la lettera dell’ambasciata, data 15 febbraio, forniva tutti i dettagli. Chiedendo l’accesso alla saletta vip dell’aeroporto di Ndjili. Dando i nomi dei viaggiatori (con Attanasio e Iacovacci, anche il console Alfredo Russo) e dell’autista di Kinshasa che li avrebbe accompagnati, Floribert Basunga. Indicando date e orari dei voli su Goma. Raccomandando di non toccare il bagaglio diplomatico. E in definitiva chiedendo un’ovvietà — il trattamento riservato a un rappresentante diplomatico — che ora appare semmai una necessità, visti i colpi di kalashnikov che aspettavano Attanasio e i buchi di memoria che scandiscono l’inchiesta. Nessuno sapeva niente? Sale la nebbia, sui misteri del Virunga. L’imbarazzo dei congolesi è evidente, dopo la fretta nel dare la colpa ai ribelli ruandesi dell’Fdlr. Al documento esibito dall’Italia, l’unica risposta è una debole precisazione del Protocollo di Stato che sostiene (senza fornire documenti) d’avere in realtà ricevuto una visita personale d’Attanasio, lo stesso 15 febbraio «a fine giornata», con l’annuncio che il viaggio a Goma «non ci sarebbe più stato e che sarebbe stata inviata a tal fine una nota» agli stessi funzionari del Protocollo. Ma perché Attanasio avrebbe dovuto cancellare una missione in programma dal 2020? I congolesi sostengono d’essere rimasti «sorpresi», il 22 febbraio, quando seppero dai social dell’assassinio dell’ambasciatore «mentre eravamo ancora in attesa della nota d’annullamento». In ogni caso, precisa Kinshasa, la nota verbale dell’ambasciata italiana parlava solo d’una visita alla comunità italiana a Goma e a Bukavu, non facendo cenno al viaggio verso Rutshuru (in effetti potrebbe avere un senso la testimonianza della moglie dell’ambasciatore, che ha descritto quest’ultima tappa come non di stretta pertinenza diplomatica). Nessuno sapeva niente? Anche la Farnesina è costretta a dare spiegazioni, a proposito dell’auto blindata che non c’era e della scorta rafforzata che Attanasio aveva domandato per l’ambasciata. Ma gli interrogativi riguardano soprattutto il Programma alimentare mondiale che fa capo all’Onu. L’ambasciatore non passò per la saletta vip dell’aeroporto, ma per quella Onu, e volò con aerei della missione Monusco, si mosse per una loro causa e usò le loro auto: perché il Pam non provvide in modo adeguato a scortarlo? E perché gli diede semaforo verde, su quella strada così pericolosa? C’è il racconto di Rocco Leone, vicedirettore Pam per il Congo, scampato all’assalto. C’è un’inchiesta interna. E c’è quella della Procura di Roma, che avrà qualche vantaggio interrogando un corpo Onu che proprio a Roma tiene il suo quartier generale. L’indagine ricalca un caso di quattro tecnici italiani rapiti in Libia nel 2015, dicono fonti giudiziarie, quello che portò alla sbarra i vertici dell’azienda per la quale lavoravano, la Bonatti di Parma. Il processo evidenziò negligenze nella sicurezza: se i tecnici fossero stati scortati, il sequestro forse si sarebbe evitato. Uno dei pm d’allora, Sergio Colaiocco, è lo stesso che indaga sulla morte di Attanasio. Chissà se le conclusioni saranno uguali.

(ANSA il 10 marzo 2021) - ROMA, 10 MAR - Rocco Leone, sopravvissuto all'agguato all'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovicci e ascoltato dal Ros in ambasciata a Kinshasa, ha riferito agli inquirenti che il carabiniere è intervenuto per tentate di portare via l'ambasciatore dalla linea del fuoco nella sparatoria tra sequestratori e Rangers intervenuti. A quel punto gli assalitori avrebbero sparato nella direzione dei nostri connazionali.

Congo, così il carabiniere Iacovacci fece scudo all'ambasciatore italiano. I nostri connazionali uccisi dai banditi, non dal "fuoco amico". Fausto Biloslavo - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. Il carabiniere di scorta dell'ambasciatore Luca Attanasio avrebbe cercato di fare scudo con il suo corpo per mettere in salvo il diplomatico, ma purtroppo sono stati uccisi entrambi sembra dai sequestratori e non da fuoco amico. I carabinieri del Raggruppamento operativo speciale che indagano sul caso compieranno una terza missione in Congo proprio per concentrasi sulle perizie balistiche e le falle della sicurezza. La procura di Roma sta procedendo con due filoni d'inchiesta: il primo per terrorismo sull'imboscata e la morte dei due italiani e la seconda con l'ipotesi di omicidio colposo sulla mancata sicurezza. Nel frattempo alcuni comboniani indicano una pista opposta sugli assassini rispetto a quella del governo di Kinshasa, che punta il dito contro gli hutu delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda. I missionari chiamano in causa il discusso colonnello Jean Claude Rusimbi legato al governo ruandese e coinvolto in massacri nel Kivu, la zona dove è stato ucciso l'ambasciatore. La Farnesina, per ora, non da credito a queste accuse. I Ros hanno sentito diversi testimoni dell'agguato del 22 febbraio compreso Rocco Leone, vice direttore del Pam in Congo, sopravvissuto all'imboscata. Le versioni concordano che i due italiani sono stati uccisi nello scontro a fuoco, non in una vera e propria esecuzione, ma comunque per mano dei sequestratori mentre cercavano di fuggire dalla sparatoria con i ranger del parco Virunga intervenuti per liberare gli ostaggi. Il carabiniere Iacovacci avrebbe tentato di portare l'ambasciatore fuori dalla linea del fuoco proteggendolo, ma è stato colpito mortalmente. L'ambasciatore, gravemente ferito, è spirato più tardi nell'ospedale dei caschi blu. «Il parco di Virunga è una giungla. Non ci sono turisti causa Covid ed i ranger non vengono pagati. Nel Kivu, dove è avvenuto l'agguato, esistono 160 gruppi armati. In molti casi sono solo criminali» spiega una fonte missionaria del Giornale, che conosce bene l'Africa. «Per i due italiani la pista più attendibile è quello di un tentato sequestro per riscatto finito male» sostiene il religioso. Ieri si è recato in Kivu il capo della Missione di stabilizzazione dell'Onu nel paese (Monusco), Bintou Ketia, arrivata a Bukavu proprio per discutere del peggioramento della sicurezza. Nelle stesse ore veniva assaltata una postazione delle forze armate congolesi. Due militari sono stati uccisi nello scontro a fuoco. E dalla vicina provincia di Ituri i miliziani jihadisti delle Forze democratiche alleate ugandese hanno attaccato sette villaggi mettendo in fuga la popolazione che sta scappando verso il parco di Virunga. A Roma i titolari dell'inchiesta, Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti, hanno sentito la moglie dell'ambasciatore ucciso, Zakia Seddiki, che ha parlato di «tradimento» di chi conosceva gli spostamenti del marito. La magistratura sta indagando sulle falle nella sicurezza e sulla mancata richiesta di protezione confermata da un membro interno dei caschi blu dell'Onu. La terza missione dei Ros in Congo dovrà fare luce anche su questo corto circuito e sull'eventuale fuga di informazioni che ha condannato a morte l'autista, il carabiniere di scorta e l'ambasciatore.

Grazia Longo per "La Stampa" l'11 marzo 2021. «Dopo aver ammazzato l'autista Mustapha Milambo, ci hanno portati nella savana e ci hanno fatto sedere per terra. L'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci si sono improvvisamente alzati e hanno provato a scappare, ma i sequestratori gli hanno sparato contro e li hanno uccisi. A nulla è servito il tentativo del carabiniere di portare via l'ambasciatore dalla linea del fuoco». È questa una delle rivelazioni più importanti che emerge dai testimoni ascoltati dai Ros su delega del procuratore di Roma Michele Prestipino e dei due pm titolari delle indagini, Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti, sull'agguato del 22 febbraio scorso sulla strada Rutshuru-Goma. Ma non è l'unica. Durante i 5 giorni trascorsi a Kinshasa, capitale del Congo, i carabinieri del Ros hanno anche raccolto la testimonianza dell'altro carabiniere della scorta dell'ambasciatore che ha spiegato che «era stata richiesta al servizio di sicurezza del Pam (Programma alimentare mondiale, ndr) una macchina blindata a Goma e il giubbotto antiproiettili, ma ci venne negato con la giustificazione che il percorso era considerato verde, cioè non pericoloso». A Kinshasa Attanasio aveva la macchina blindata dell'ambasciata italiana ma per raggiungere la lontana Goma aveva dovuto prendere l'aereo e atterrare all'aeroporto internazionale di Ndjili. Durante la trasferta africana i Ros hanno sequestrato il computer fisso e il portatile dell'ambasciatore: il Ritel, Reparto indagini telematiche dei Ros, provvederà all'analisi del materiale informatico alla ricerca di tracce scritte inerenti il viaggio che è costato la vita al diplomatico, al carabiniere di scorta e il loro autista. Non a caso l'inchiesta della procura di Roma non si concentra solo sul sequestro a fine terroristico, ma anche sul reato di omicidio colposo. Gli inquirenti puntano, cioè, a chiarire eventuali negligenze sul rispetto dei protocolli Onu e Pam nell'organizzazione della missione del diplomatico nella zona del Parco di Virunga. Chi indaga vuole, infatti, verificare se ci siano state anomalie nel sistema di comunicazione tra le due strutture nel complesso sistema che regola le attività delle security. I carabinieri del Ros hanno inoltre ascoltato il personale dell'ambasciata italiana sull'organizzazione della missione a Goma. Tra le persone sentite anche Rocco Leone, vice direttore del Pam in Congo, sopravvissuto all'agguato. La sua testimonianza, nell'ambito della collaborazione con Pam e Onu, è avvenuta nell'ambasciata di Kinshasa. Leone è riuscito a salvarsi perché si è finto zoppo, dopo essere inciampato durante il rapimento, e alla fine della sparatoria tra i sequestratori e i ranger ha potuto confrontarsi con gli altri membri della spedizione sopravvissuti all'agguato. Sono stati loro, rapiti insieme ad Attanasio e Iacovacci, a fornirgli tutti i dettagli della situazione. Le versioni dei testimoni avvalorano la ricostruzione secondo cui i due italiani sono morti non in un'esecuzione ma colpiti dagli assalitori mentre il carabiniere tentava di portare l'ambasciatore fuori dalla linea di fuoco tra i sequestratori e i ranger, intervenuti immediatamente. Leone ha di fatto confermato quanto emerso dai primi risultati delle autopsie svolte a Roma. L'ambasciatore e il carabiniere sono morti nel corso di «un intenso conflitto a fuoco» e raggiunti dagli spari della banda che aveva tentato di sequestrarli. Accantonata, quindi, l'ipotesi del fuoco amico. La procura di Roma sta ora valutando una nuova missione da parte dei Ros nella zona di Goma per acquisire elementi sulla dinamica della sparatoria e effettuare accertamenti balistici. I pm hanno anche inviato una rogatoria internazionale in Congo con la quale si chiede di trasmettere gli atti di indagini svolti finora dalle autorità africane. Per i primi giorni della prossima settimana è, invece, atteso nella capitale il report dell'Onu. Dall'esame del tablet di Luca Attanasio non è, infine, emersa alcuna attività utile alle indagini poiché veniva utilizzato solo per scopi personali non attinenti alle missioni diplomatiche.

Da repubblica.it il 28 febbraio 2021. Rimpallo di responsabilità tra l'ambasciata italiana, Kinshasa, World Food Programme e il governo congolese, sull'uccisione dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci il 22 febbraio a 25 chilometri da Goma. In un primo momento Kinshasa aveva dichiarato di non essere a conoscenza del viaggio al Nord di Attanasio, declinando qualsiasi responsabilità sull'assenza di scorta armata al convoglio, non blindato, del World Food Programme. Il Wfp da parte sua, nei momenti successivi all'attacco, ha sostenuto che la strada fosse classificata come verde, quindi percorribile senza necessità di un apparato di sicurezza. Oggi si viene a sapere che l'ambasciata d'Italia aveva effettivamente informato il ministero degli Esteri della Repubblica democratica del Congo della missione che intendeva compiere a Goma, con una nota verbale inviata il 15 febbraio scorso. Ma il protocollo di Stato, quella sera stessa, era stato informato dell'annullamento della missione dell'ambasciatore Luca Attanasio. Lo si legge in un tweet di AfricaNews Media Rdc, che pubblica la foto di un documento della Direzione nazionale del Protocollo di Stato, firmato oggi da Banza Ngoy Katumve, direttore del Protocollo, che ricostruisce: "Lunedì 15 febbraio 2021, la Direzione ha ricevuto la nota verbale n.prot.219 proveniente dall'ambasciata d'Italia a Kinshasa, inviata lo stesso giorno, con la quale si chiede l'accesso alla sala diplomatica dell'aeroporto internazionale di Ndjili per l'ambasciatore Luca Attanasio, accompagnato dal console Alfredo Russo, e dal carabiniere Vittorio Iacovacci, insieme all'autista Floribert Basunga, che si recheranno a Goma e Bukavu dal 19 al 24 febbraio 2021, avendo come motivo una visita alla comunità italiana delle due città". "Nella stessa data, a fine giornata, l'ambasciatore d'Italia ha fatto visita al direttore del Protocollo di Stato per annunciargli che questo viaggio non ci sarebbe più stato e che sarebbe stata inviata a tal fine una nota alla direzione". Per cui, "la direzione è rimasta sorpresa nell'apprendere nelle prime ore della mattina del 22 febbraio attraverso i media che l'ambasciatore era stato assassinato mentre era in attesa della nota che annullava la prima. Dopo la verifica, ha appreso che il dramma era avvenuto sulla strada Goma-Rutshuru con un convoglio del Wfp, che non era stato menzionato nella nota verbale". Dunque, conclude la nota, "l'Antenna del Protocollo di Stato all'aeroporto di Ndjili è stata contattata per verificare se l'ambasciatore avesse utilizzato la sala per il suo imbarco come richiesto nella nota verbale, ma gli agenti deputati a questo servizio non l'hanno mai visto imbarcarsi". La questione macchina blindata o no della Farnesina sembrerebbe superflua. Anche se l'ambasciata avesse avuto una flotta di auto blindate, non le avrebbe certo potute usare per il Kivu: 2500 km di distanza. La vita di Attanasio, Iacovacci e Milambo era nelle mani del World Food Programme, e in seconda battuta del governo congolese. Ci vorrà tempo per capire cosa è successo veramente. E forse non si saprà mai. Sul campo, a capo delle indagini, il generale di polizia, Vital Awashango, capo delle forze dell'ordine del North Kivu, sospeso nel 2019 per aver aggredito malamente un sospettato durante un interrogatorio.

F.Bat. per il "Corriere della Sera" il 2 marzo 2021. Altro che «strada sicura». Appena dieci giorni prima dell' agguato all' ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, qualcun altro era passato di lì: una folta delegazione dell' Onu, il medesimo tragitto sulla Rn2, partenza da Goma e direzione Rutshuru. C'era un diplomatico belga, Axel Kenes, assieme a suoi colleghi estoni, irlandesi e norvegesi di stanza a Kinshasa. La missione nel Nord Kivu per conto del Consiglio di sicurezza era durata tre giorni, dall' 11 al 13 febbraio, facendo sosta anche alla base Monusco, la missione internazionale per la stabilizzazione del Congo. Ebbene: si scopre adesso che le Nazioni Unite, le stesse che avevano segnalato come sicuro quel tragitto, tanto da non prevedere alcun servizio di scorta per gli italiani, in realtà consideravano tutta l'area ad altissimo rischio. «Si sono sottolineate le enormi sfide nella protezione dei civili, poste soprattutto dai numerosi gruppi armati che agiscono sul territorio», si legge nel rapporto compilato al termine degli incontri, con una valutazione sul rischio di rapimenti: «S'è inoltre affrontata la questione dei sequestri a scopo di riscatto, che sono ora dilaganti nella regione». La missione Onu sapeva benissimo che quel percorso non era affatto «green», privo di pericoli, e infatti si fece accompagnare da un contingente di caschi blu: le foto di blindati e mitragliere sulle torrette, di scorta alle jeep, sono ancora pubblicate dal sito della Monusco. Sull' uccisione di Attanasio, del carabiniere Iacovacci e del loro autista, ieri a Goma c'è stato un primo incontro tra investigatori congolesi, ma ne è uscito solo un generico appello agli operatori umanitari stranieri perché informino le autorità dei loro spostamenti. In attesa di qualche elemento utile per identificare i killer, l' inchiesta dei pm romani si sta concentrando per ora sulle responsabilità di chi aveva organizzato quel viaggio nella savana, senza adeguate protezioni e senza considerarne tutti i rischi. E poiché il diplomatico italiano si trovava in un convoglio del World Food Program, il programma alimentare dell' Onu che aveva dato semaforo verde, è lì che si vogliono cercare le risposte.

Luca Attanasio, l'imprenditore-amico e quel tragico equivoco che potrebbe aver provocato l'attacco al convoglio Onu. Il presidente di Novae Terrae è a capo di un gruppo minerario che opera in Congo. E la sua associazione è stata coinvolta in un'inchiesta su tangenti per nascondere le torture in Azerbaigian. Fabrizio Gatti su L'Espresso l'1 marzo 2021. L'ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci, 30, e l'autista Mustapha Milambo Baguna potrebbero essere morti per un tragico equivoco. Come racconta il missionario saveriano Franco Bordignon, il diplomatico italiano «era la quarta volta in un anno che andava a Goma, perché lì voleva aprire un consolato». Ma le ripetute visite nella città più pericolosa della regione orientale probabilmente non sono passate inosservate. Anche perché, da documenti accessibili su Internet in francese, risulta che l'importante opera umanitaria di Attanasio e della moglie Zakia Seddiki, attraverso l'associazione “Mama Sofia”, era sostenuta dal proprietario di un gruppo minerario che opera nella Repubblica Democratica del Congo: lo stesso gruppo che l'8 gennaio di quest'anno ha vinto l'appalto per la vendita all'ambasciata italiana a Kinshasa di un Suv blindato. E le miniere, nella guerra permanente intorno a Goma, dal Nord Kivu al Sud Kivu lungo i confini con Uganda, Ruanda e Burundi, sono un argomento estremamente sensibile. L'attacco di lunedì 22 febbraio è certamente un brutto imprevisto nella politica energetica italiana, che dopo aver perso il legame privilegiato con Tripoli sta cercando nuovi sbocchi in Africa. Sulla sua pagina Linkedin l'imprenditore, Emanuele Gianmaria Fusi, 54 anni, si presenta come presidente della società mineraria “CDN-Compagnia del Nord” di Meda in provincia di Monza e Brianza; presidente e proprietario della “West Africa Mining Company” e presidente della “GEA Environment and resources Co. Ltd” di Khartoum in Sudan. Tra le specializzazioni, Fusi indica: «Minerali rari, materie prime, sviluppo sostenibile, ecologia applicata, esplorazione mineraria».

I FONDI PER “MAMA SOFIA”. Emanuele Fusi è anche fondatore e presidente della Fondazione Novae Terrae con cui raccoglie donazioni e sostiene l'associazione “Mama Sofia” di Zakia Seddiki. Fin dall'arrivo nella Repubblica Democratica del Congo, l'ambasciatore Attanasio e la giovane moglie sono stati subito apprezzati per la loro attività di volontariato, soprattutto nell'assistenza alle migliaia di bambini di strada della capitale. Luca Attanasio non era infatti uno di quei diplomatici che trascorrono il fine settimana a giocare a golf con i colleghi. Per questo l'imprenditore minerario, attraverso la sua fondazione, da allora collabora con i tre progetti principali di “Mama Sofia”: portare aiuti agli orfanotrofi pubblici di Kinshasa che ospitano i minori abbandonati dai genitori e che per mancanza di fondi sono in condizioni disperate; finanziare il servizio di una squadra medica che con un'ambulanza di strada possa raggiungere i quartieri più poveri e pericolosi di Kinshasa; realizzare un orfanotrofio con un reparto maternità che permetta alle mamme di partorire gratuitamente e di essere assistite. Ma anche l'attività di Novae Terrae potrebbe essere stata travisata. Sui suoi conti bancari, secondo un'inchiesta della Procura di Milano, sono transitati milioni di euro destinati a finanziare l'internazionale della destra sovranista, dal cardinale tradizionalista Raymond Leo Burke a Steve Bannon, l'ex consigliere del presidente americano Donald Trump. E uno dei sette fondatori della fondazione, l'ex parlamentare Udc Luca Volonté, è stato accusato di aver incassato, attraverso il paravento di Novae Terrae, tangenti per due milioni 390 mila euro: sarebbe stato il compenso con cui il governo dell'Azerbaigian intendeva corrompere Volontè e comprare il suo voto nell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa perché il rapporto del deputato tedesco, Christoph Strässer, sulle torture e i trattamenti disumani nelle carceri azere venisse bocciato. Come infatti è accaduto.

LA CONDANNA DELL'EX PARLAMENTARE. Mesi dopo l'avvio dell'inchiesta, il 31 gennaio 2019 la fondazione ha quindi registrato un nuovo statuto. Quel giorno, davanti a un notaio di Meda in Brianza, si sono presentati come soci fondatori il presidente Emanuele Fusi, Luca Volontè nonostante fosse indagato e altri esponenti della destra cattolica come Gianfranco Amato, Flavio Felice, Giuseppe Zola e Nicola Abalsamo. Passano due anni e l'11 gennaio 2021 Volontè è stato condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per corruzione internazionale, insieme con gli imputati azeri Elkhan Suleymanov e Muslum Mammadov. Sul totale di bonifici pagati dall'Azerbaigian all'ex parlamentare, il Tribunale di Milano ha riconosciuto tre tangenti per una somma complessiva di cinquecentomila euro, mentre ha assolto gli imputati per gli altri diciotto versamenti. Il dossier, che denunciava la corruzione del politico italiano e di altri colleghi ai danni di una delle istituzioni più prestigiose di Strasburgo, è ovviamente pubblico e si può leggere tuttora su Internet con i riferimenti alla fondazione di Emanuele Fusi. La foto di Luca Volontè al Congresso mondiale delle famiglie, a Salt Lake City negli Stati Uniti nel 2015, apre tuttora la homepage di Novae Terrae. Goma però non è Strasburgo. E tanto meno Kinshasa. Il potere centrale del presidente Félix Tshisekedi è lontano duemilacinquecento chilometri di foresta equatoriale. E la crisi civile, militare e umanitaria nella regione dal Nord al Sud Kivu, ricca di acqua, vegetazione e risorse minerarie, è aggravata dallo stallo tra la maggioranza che ha vinto le ultime elezioni e l'opposizione di Joseph Kabila, l'ex presidente al potere dal 2001 al 2019. Nel vuoto amministrativo, l'autorità a Goma continua a reggersi su un gioco di specchi in cui il disordine pubblico, le bande armate, il traffico di bambini, il loro sfruttamento nell'estrazione dei minerali e l'esportazione illegale di cobalto, coltan e legname sono espressione dello stesso potere locale.

AMICI FRATERNI DA QUINDICI ANNI. Emanuele Fusi e Luca Attanasio erano amici fraterni da quindici anni. Lo dimostrano le tante fotografie sulle pagine Facebook e i messaggi di affetto tra le due famiglie. Quando il 6 novembre scorso l'ambasciatore ha pubblicato il bando di gara per l'acquisto di un fuoristrada/suv con un livello di blindatura VR6, uscita di emergenza dal tettuccio, aspiratore antifumo e un sistema di erogazione dell'aria fresca in caso di emergenza, l'offerta migliore di 205 mila euro è stata presentata dalla “Gruppo Effe srl”, una ditta che commercia auto a Barlassina vicino a Meda, di proprietà di Mitzi Mascheroni, 50 anni, moglie di Emanuele Fusi. La Gruppo Effe e Mitzi Mascheroni sono a loro volta formalmente titolari della società mineraria CDN-Compagnia del Nord, di cui Fusi è amministratore unico dal 2004, anche se su Linkedin si presenta come presidente. Dal suo sito, oltre che nella Repubblica Democratica del Congo, l'impresa dichiara di operare in Azerbaigian, Albania, Marocco, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Nigeria, Sudan, Venezuela e Uruguay. E di rispettare l'ambiente, i diritti dei lavoratori e la tutela della salute sui luoghi di lavoro. Non si conoscono però i singoli contratti: «Per motivi legati alla privacy ed al rispetto dei non-disclosure-agreement in essere», spiega la società, «non possiamo pubblicare i nomi delle compagnie e dei governi con i quali abbiamo in corso degli accordi». L'amicizia fraterna e sincera di un imprenditore minerario, che con Novae Terrae sta ora partecipando alla campagna per la libertà di religione in Sudan; il progetto del nuovo consolato a Goma; i colloqui tra il presidente Tshisekedi e l'italiana Eni per le concessioni nella regione orientale; gli ottimi rapporti dell'ambasciatore con il governo centrale: tutto questo, nelle menti sanguinarie dei signori della guerra e nel precario equilibrio che regola il gioco di specchi in Congo potrebbe essere stato mal interpretato.

LA VOCE MISTERIOSA. La versione ufficiale dell'autorità giudiziaria locale, il grande buco nero dentro cui secondo i rapporti delle Nazioni Unite spariscono ogni anno i destini di centinaia di innocenti, accusa un giorno i ribelli hutu, un altro le bande di rapinatori. Ma resta da spiegare perché nel breve inseguimento nella boscaglia, a soli venticinque chilometri da Goma, l'esercito regolare e i ranger del parco dei Virunga abbiano colpito a morte due ostaggi su due, facilmente distinguibili dal colore della loro pelle, e nemmeno uno dei sequestratori. Forse la pista da seguire è davvero il tweet sull'attacco mirato che, come fa notare l'intelligence italiana nel suo rapporto al governo, il ministero dell'Interno congolese ha pubblicato dopo l'imboscata e subito cancellato. In questa terra di tenebre, una misteriosa voce da Kinshasa voleva probabilmente far sapere che da quel viaggio Luca Attanasio e il suo seguito non dovevano più tornare. E la notizia che il convoglio fosse senza scorta militare ha reso molto più facile l'operazione.

Vito Califano per ilriformista.it il 25 febbraio 2021. Dopo Luca Attanasio, l’ambasciatore 43enne ucciso in un attacco nella Repubblica Democratica del Congo con il carabiniere Vincenzo Iacovacci, l’Italia perde un altro giovane diplomatico. Pietro Panarello aveva 40 anni. Era figlio dell’ex deputato regionale ed esponente della Cgil Filippo Panarello. È stato trovato senza vita a Messina, al villaggio Pistunina, ieri pomeriggio (luned poco dopo la notizia dell’agguato ai danni dell’ambasciatore italiano in Congo. Panarello serviva anche lui in Africa, in Etiopia. Si trovava in Sicilia per una visita di alcuni giorni ai parenti. Da diversi anni era funzionario dell’Ambasciata Italiana ad Addis Abeba dopo aver vinto il concorso. Panarello è stato primo Segretario del Commercio e degli Affari Culturali dell’Ambasciata Italiana in Etiopia. Prima di trasferirsi in Africa viveva a Roma, dove aveva comprato una casa. Il padre Filippo Panarello, classe 1950, eletto nel collegio di Messina alla XVI legislatura, in carica dall’aprile 2008 al marzo 2013, e precedentemente alla XV, XIV e XIII legislatura. Nel luglio 2019 era stato nominato commissario provinciale del Partito Democratico ennese dalla Direzione Nazionale. Pochi anni fa Pietro Panarello era stato colpito dalla tragedia della morte della figlia Daria. Le indagini sul caso sono affidate alla Polizia di Stato, che è intervenuta nell’appartamento. A quanto emerso l’uomo si sarebbe suicidato. I funerali si svolgeranno oggi (martedì 24 febbraio) nella Chiesa di Giampilieri alle 15:30. Cordoglio espresso per la tragedia da parte dell’ex ministro per il Sud Giuseppe Provenzano: “Ieri se ne è andato un giovane del Sud. Mentre l’Italia piangeva la tragica morte in Congo dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, perdeva un altro giovane diplomatico. Prestava servizio anche lui in Africa, in Etiopia, all’ambasciata di Addis Abeba. Si chiamava Pietro Panarello, aveva conosciuto il dolore più fondo, nella sua giovane vita. Era tornato a Messina, a casa sua, per una pausa. Ieri, proprio dopo la notizia di Attanasio, ha scelto di togliersi la vita. Piango per i suoi genitori, un uomo e una donna giusti. Io lo voglio ricordare ragazzo, coltissimo, dolcissimo. Un ragazzo d’oro”, ha scritto sui social Provenzano.

Farnesina, morto un altro diplomatico: Pietro Panarello si è tolto la vita infilando la testa in un sacchetto. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 26 febbraio 2021. Poco dopo aver appreso dell'assassinio di Luca Attanasio, il 23 febbraio, un altro diplomatico, Pietro Panarello, 40 anni, si toglieva la vita nella propria abitazione di Messina. Il giovane siciliano, primo Segretario per il Commercio e degli Affari Culturali dell'Ambasciata Italiana in Etiopia, è stato trovato con un sacchetto di plastica in testa. I suoi familiari insospettiti dal fatto che non riuscivano a mettersi in contatto con lui erano andati nella sua abitazione e lo avevano trovato già morto. Sul posto erano intervenuti gli uomini delle volanti della polizia di Stato e la Scientifica per i rilievi. La Procura non ha aperto una inchiesta. I funerali si sono svolti mercoledì a Messina.

«Non stava bene». Pietro era figlio di un ex deputato all'Assemblea regionale siciliana per il Partito Democratico, Filippo Panarello, che pochi anni fa aveva perso un'altra figlia a causa di un tumore. Il giovane era tornato a Messina per trascorrervi le vacanze di Natale ma aveva prolungato il suo soggiorno in Sicilia perché, come ha spiegato un suo conoscente, «non stava bene». L'ex ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha espresso il proprio cordoglio per la perdita ricordandolo sui social come un «ragazzo coltissimo, dolcissimo. Un ragazzo d'oro». E anche i commenti post mortem, sulla pagina Facebook della rappresentanza diplomatica ad Addis Abeba, lo ritraggono come persona gentile, disponibile, i cui consigli si rivelavano preziosi. Anche l'Etiopia, dove Panarello prestava il proprio servizio, sta attraversando da oltre tre mesi un periodo di conflitto armato, esploso nel novembre scorso con una serie di assalti del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) contro installazioni militari etiopi, in particolare a Macallè.

Emergenza umanitaria. In seguito all'intervento militare congiunto delle forze armate etiopi ed eritree, la fase più acuta degli scontri sembra trascorsa, tuttavia la guerriglia continua e il Paese versa in una grave situazione umanitaria. Decine di migliaia di persone sono fuggite in Sudan e i partiti di opposizione hanno denunciato 52mila vittime civili, oltre a episodi di violenze etniche, stupri, devastazione di beni culturali di cui la regione è molto ricca. Secondo la Croce rossa, circa 3,8 milioni di persone hanno necessità di aiuto umanitario in Tigray, dove sono operativi solo quattro ospedali su 40 e le carenze di forniture mediche hanno paralizzato le sale operatorie. Nel Tigray sono sotto attacco anche i campi profughi di Shimelba e Hitsatsi, che ospitavano eritrei fuggiti dal regime di Isais Afewerki: i campi sono stati chiusi e i loro residenti eritrei trasferiti. Un'altra zona a rischio anche per i diplomatici italiani. 

Si chiama Coltan, ed è il motivo per cui si muore in Africa.  Stefano Liberti su L'Espresso l'1 marzo 2021. Il minerale serve per smartphone, microchip, apparecchiature mediche. E troppo spesso la sua estrazione nelle miniere è controllata dagli squadroni della morte. L’assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo vicino a Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, ci riguarda molto più di quanto immaginiamo. È dalle miniere sparse per il Nord-Kivu, la provincia di cui Goma è capitale, che viene estratta una parte rilevante delle materie prime essenziali a molti strumenti del nostro vissuto quotidiano. È da qui che proviene il coltan, quella miscela di columbite e tantalite presente in cellulari, telecamere, micro-chip, oltre che in diverse apparecchiature mediche. È ancora qui che si ricava l’oro utilizzato nelle fedi nuziali, nei gioielli, ma anche come conduttore in vari dispositivi elettronici. Secondo una mappatura dell’istituto di ricerca belga International Peace Information Service (Ipis), nell’est del Congo ci sono circa 2000 siti d’estrazione. Di questi, almeno un terzo è controllato da gruppi armati, siano essi ribelli o battaglioni dello stesso esercito congolese. La presenza di questi miliziani crea un clima di instabilità permanente e alimenta quegli scontri incrociati in cui è caduta vittima anche la missione guidata dal diplomatico italiano. Sempre secondo l’Ipis, sono 200mila le persone impiegate in queste miniere informali. Fra queste, numerosi sono i bambini: particolarmente apprezzati per la loro capacità di infilarsi in cunicoli stretti, lavorano senza protezioni, scavando spesso a mani nude. Lo ha potuto constatare recentemente una missione della Fondazione Magis, l’ente della provincia euro-mediterranea della Compagnia di Gesù che sta conducendo un progetto volto a promuovere una filiera etica per l’oro esportato dal Congo in Italia. Perché è bene allargare la visuale e capire qual è la destinazione finale di quelle tanto ambite risorse minerarie. Il terminale ultimo dei conflitti che da 25 anni sconvolgono la Repubblica Democratica del Congo sono appunto i nostri cellulari, i nostri computer, i nostri anelli. Esiste un filo rosso tra strumenti e oggetti per noi di uso comune e quello che accade nell’est del Congo. Se lo smartphone è oggi alla portata di tutti, è anche perché l’estrazione delle materie prime necessarie al suo funzionamento avviene in queste condizioni di sfruttamento, senza rispetto per la dignità dei lavoratori né per i più basilari standard ambientali. E senza che lo stato congolese incassi le giuste royalties: i miliziani o gli intermediari che controllano questo commercio contrabbandano le risorse minerarie nei paesi vicini, da dove sono vendute alle industrie produttrici o ai raffinatori. Particolarmente tortuoso è il percorso dell’oro: dopo essere portato illegalmente in Uganda o in Ruanda, viene esportato in Sudafrica o a Dubai, dove è raffinato e trasformato in lingotti. In questa forma raggiunge i mercati finali, l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina e l’India. La lunghezza della filiera rende complesso il processo di tracciabilità. Ma la buona notizia è che tale processo è oggi obbligatorio, almeno nell’Unione Europea: il 1° gennaio scorso è entrato in vigore il regolamento 821/2017, che obbliga gli importatori europei di stagno, tantalio, tungsteno, dei loro minerali, e di oro ad adempiere ai doveri di diligenza per impedire che i profitti provenienti da questo commercio vadano a finanziare conflitti. D’ora in poi, chi importa coltan e oro all’interno dell’Ue dovrà indicarne l’origine e gli spostamenti lungo la catena di approvvigionamento. Il regolamento è appena entrato in vigore. Bisognerà vedere nei fatti come avverrà la sua applicazione. Ma è certo che si tratta di un primo importante passo per migliorare le condizioni di vita e lavoro nelle miniere congolesi. E per rendere più trasparente una filiera in cui siamo più coinvolti di quanto immaginiamo.

Chi sono le Forze per la liberazione del Ruanda, i ribelli sospettati dell’agguato in Congo a Luca Attanasio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Per il governo congolese non ci sono dubbi: dietro l’attacco al convoglio Onu  cui sono morti l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista locale, ci sono le Forze per la liberazione del Ruanda, i guerriglieri ribelli Hutu conosciuti per il genocidio in Ruanda. Ma la responsabilità dell’attacco avvenuto a presso la cittadina di Kanyamahoro, circa 15 km a nord della città di Goma, nella parte orientale del Congo, viene negata chiaramente dai ribelli.  “Le Fdlr”, si legge in un loro comunicato, “dichiarano di non essere coinvolte in alcun modo nell’attacco e chiedono alle autorità congolesi e alla Monusco (la missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Rdc, ndr) di fare tutto il possibile per far luce sulle responsabilità di questo ignobile assassinio”. Anzi, le Fdlr-Foca, come sono conosciute le Forze per la liberazione del Ruanda, fanno anche i nomi dei possibili autore dell’attacco costato la vita ai due italiani. Secondo i ribelli ruandesi “le responsabilità di questo spregevole assassinio” sono da ricercare nella Fardc, l’esercito congolese, nei soldati dell’esercito ruandese e nei loro “sponsor che hanno stabilito un un’alleanza innaturale per perpetuare il saccheggio dell’Est del Congo”. Ma chi sono le Forze per la liberazione del Ruanda? Dietro questo nome agiscono i ribelli ruandesi di etnia Hutu, già noti per il genocidio in Ruanda nel 1994 di almeno 800mila persone di etnia Tutsi. Sempre al Fdlr-Foca viene attribuita la ‘paternità’ di almeno una dozzina di attentati terroristici realizzati nel 2009, che hanno provocato decine di morti e feriti. Nel corso degli anni le Forze per la liberazione del Ruanda hanno però cambiato il modo di agire, passando da azioni terroristiche ad attacca a “bassa intensità”, soprattutto rapimenti. Nel 2018 uno dei casi più noti, col rapimento di due turisti inglesi (rilasciati due giorni dopo dietro pagamento di un riscatto) nel parco nazionale di Virunga, scenario dell’agguato di ieri costato la vita a Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci.

La ricostruzione dei drammatici momenti. Attacco in Congo, ribelli del Ruanda negano responsabilità: stasera il rientro dei feretri in Italia. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. L’assalto che è costato la vita in Congo all’ambasciatore italiano Luca Attanasio, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista locale Mustapha Milambo sarebbe stata opera di sei persone “armate con 5 armi tipo AK47 e un machete” che avrebbero “proceduto con colpi di avvertimento prima di costringere gli occupanti dei veicoli a scendere e seguirli fino in fondo al Parco, dopo aver sparato a uno dei conducenti per creare panico”. È quanto sostiene il governo di Kinshasa in una nota – citata da Cas-Info – della commissione di crisi indirizzata al ministro dell’Interno incaricato degli affari interni, sicurezza e consuetudine della Repubblica Democratica del Congo. Secondo la ricostruzione delle autorità congolesi, i rapitori avrebbero “sparato a bruciapelo alla guardia del corpo, morta sul posto, e all’ambasciatore ferendolo all’addome”. L’attacco sarebbe avvenuto “alle 10:15” quando il convoglio sarebbe caduto “in un’imboscata a circa 15 km da Goma e 3 km prima del Comune rurale di Kibumba, più precisamente a Kanyamahoro sulla RN2 nel territorio del Nyiragongo”, precisa ancora la nota. Le Forze Democratiche della Liberazione del Ruanda (Fdlr), principali indiziati come responsabili dal governo del Congo, negano la responsabilità dell’attacco. È quanto si legge in un loro comunicato, ripreso sui social, in cui “condannano con forza” l’attacco e “respingono categoricamente” le accuse delle autorità di Kinshasa, dichiarando “di non essere per nulla implicati” nella vicenda e “chiedendo alle autorità congolesi e Monusco di far luce sulle responsabilità di questo ignobile assassinio”. Secondo Fdlr, l’attentato sarebbe avvenuto “non lontano” da pattuglie delle forze armate della Repubblica Democratica del Congo. “Le Fdlr rivolgono le loro condoglianze ai familiari delle vittime, al governo e al popolo italiano”, conclude la nota. Il Fdlr-Foca, come è noto il principale gruppo residuo di ribelli ruandesi, è conosciuto a livello globale per il genocidio in Ruanda: i ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda sono infatti quasi quasi interamente da Hutu, che si oppongono ai Tutsi. Secondo gli Stati Uniti, il gruppo è responsabile di una dozzina di attentati terroristici realizzati nel 2009. I feretri dei due italiani uccisi in Congo torneranno in patria nella tarda serata di oggi: per domani mattina sono già state fissate le autopsie sui corpi dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci presso il Policlinico Gemelli di Roma. A disporre l’esame autoptico sono stati i pm di Roma Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti che indagano per sequestro di persona con finalità di terrorismo.

Il precedente. Ambasciatore morto in Congo, il precedente del 1993: l’attentato a Kinshasa. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. La tragica morte di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano in Congo morto questa mattina in un attacco nei confronti di un convoglio delle Nazioni Unite nella città di Goma, nel Congo orientale, ha un precedente nella storia del Paese centrafricano. Il 28 gennaio del 1993, quando il Congo era ancora Repubblica dello Zaire, venne assassinato a Kinshasa l’allora ambasciatore francese Philippe Bernard. L’esperto diplomatico transalpino, nato a Tolone il 23 marzo del 1931, venne colpito da un proiettile vagante sparato durante scontri all’interno dell’ambasciata francese tra soldati lealisti e ribelli che combattevano contro l’allora presidente Mobutu, lo spietato dittatore che nel 1960 rovesciò il governo di Patrice Lumumba col sostegno di Belgio e CIA instaurando un regime crollato soltanto nel 1997, con la fuga in Marocco di Mobutu. Come racconta un articolo di Repubblica dell’epoca, Bernard si trovava da solo nel suo ufficio ad osservare dalla finestra gli scontri all’esterno, dopo aver spento le luci. Erano in atto infatti, sulla Boulevard 30 giugno, principale arteria della capitale dell’allora Zaire, violenti scontri a fuoco. L’ambasciatore sarebbe stato colpito in pieno petto e a una mano da un proiettile vagante.

Michela Allegri per "il Messaggero" il 24 febbraio 2021. Una missione che dura ormai da più di un ventennio, montagne di soldi spesi - oltre un miliardo di dollari ogni anno - e pochissimi risultati raggiunti. La Missione dell' Organizzazione delle nazioni unite per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo (Monusco), con 20mila uomini in campo, dei quali circa 16mila sono caschi blu armati, i peacekeepers, è una delle più costose nella storia e si è rivelata praticamente inutile. Lo scopo finale sarebbe la riconciliazione delle forze che si contrappongono militarmente nella provincia orientale del Kivu, quello immediato sarebbe, invece, la difesa della popolazione dalle violenze dei gruppi armati in guerra per accaparrarsi i tesori che questa terra offre: diamanti, oro e, soprattutto, coltan, fondamentale per la produzione di smartphone e cellulari. Ma ormai da anni a protestare contro i caschi blu sono proprio i civili, che hanno chiesto da tempo un aiuto più concreto, contestando alla Monusco inerzia e mancata protezione. Le proteste più forti sono state nella città di Beni, dove nel novembre 2019 la base Onu è stata attaccata e incendiata, mentre in queste settimane sono stati organizzati blocchi stradali e sit-in. L' Onu sostiene di non poter intervenire senza una richiesta formale da parte delle Forze armate della Rdc, ma, in base alla risoluzione del 28 marzo 2013, in realtà, le forze della Monusco potrebbero scendere in campo, anche senza preventive autorizzazioni, in caso di minaccia per la sicurezza della popolazione.

LE ACCUSE. Ai pacekeepers, in sostanza, viene contestato da anni di assistere passivamente alle violenze e alle scorribande armate. A volte sono anche stati accusati di connivenza. Va detto che il quadro non è semplice. Il Kivu, nel 1996 e nel 1998, è stato devastato da quella che è stata definita la guerra mondiale d' Africa, con quasi 6 milioni di vittime, innumerevoli feriti e intere città rase al suolo. Poi sono iniziate le rivolte etniche. Tutto questo mentre le milizie ribelli e gli eserciti stranieri cercano da anni di contendersi l' enorme ricchezza del Congo. In questo scenario si inserisce la conflittualità tra la Monusco e le popolazioni locali, che spesso accusano i caschi blu di collaborare con i gruppi armati, saccheggiare le risorse naturali, partecipare a traffici illegali, violenze, crimini economici. Nel novembre 2019, per esempio, la furia popolare si era scatenata, dopo il rifiuto della Monusco di assistere le forze armate congolesi nella guerra contro il gruppo terroristico ruandese Fdlr e altri ribelli, con l' obiettivo di pacificare le province dell' est. Ad avanzare la richiesta era stato il presidente Felix Tshisekedi, ma la Monusco aveva rifiutato. Un anno prima, l' ex presidente Kabila aveva sottolineato varie inefficienze della missione, come l' inadeguatezza nella lotta ai gruppi armati nelle regioni orientali del Paese. Kabila aveva anche accusato la Monusco di «voler restare a lungo termine nel Paese», in modo da esercitare una sorta di tutela politica.

LE CIFRE. La strategia delle milizie ribelli, sostiene il governo centrale di Kinshasa, è quella di portare la popolazione all' esasperazione con il terrore, rendendo evidente l' incapacità delle forze governative di garantire la sicurezza. Ed è proprio in questo contesto che viene denunciato l' immobilismo dei caschi blu: la più costosa e longeva missione di peacekeeping dell' Onu, con oltre 16mila militari sul campo, non ha mai dato i frutti sperati. Tanto che dal 2017 è stata studiata un exit strategy per un' uscita graduale dal Paese. I costi folli della missione si trovano elencati nei documenti ufficiali e nei resoconti Onu: circa 1,2 miliardi all' anno. Tra luglio 2017 a luglio 2018 la spesa è stata di 1.189.238.500 dollari, mentre l' anno successivo, 2018/2019, la cifra è salita a 1.194.557.200 dollari. Per l' anno 2019/2020 il costo è stato 1.012.252.800 dollari. Il budget approvato per il periodo che va da luglio 2020 a luglio 2021 è di 1.154.140.500 dollari. Il Consiglio di Sicurezza, alla fine del 2019, aveva approvato l' estensione del mandato, applicando però alcuni tagli, soprattutto nel numero dei caschi blu presenti sul posto: ne erano stati previsti 1.240 in meno, e aveva individuato in 3 anni il tempo necessario per completare il ritiro delle truppe. A schierarsi contro la Monusco erano stati da un lato Donald Trump, che già nel 2017 l' aveva definita «una costosissima missione di pace incapace sul piano militare» e aveva imposto forti tagli di uomini e fondi, e dall' altro lato le stesse autorità congolesi.

Perché è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il movente dietro l’attentato di Kinshasa. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. È morto sul campo, in quell’Africa che aveva sempre amato. È stato ucciso nell’area più pericolosa del Congo mentre era in viaggio per distribuire alimenti. E con lui, ha perso la vita un giovane carabiniere che faceva parte della scorta. Il convoglio di jeep nel quale viaggiavano è stato assaltato da un gruppo di uomini armati, ancora non identificati, che hanno aperto il fuoco contro i mezzi nel tentativo di sequestrare l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio. Così hanno perso la vita lo stesso diplomatico, 44 anni da compiere, che lascia una moglie e tre figlie, il carabiniere Vittorio Iacovacci, di 30 anni, e Mustapha Milambo, l’autista del mezzo a bordo del quale viaggiavano. Il gruppo, composto da sette persone divise in tre macchine, è stato assaltato intorno alle 10 di mattina nei pressi della città di Kanyamahoro, nella parte orientale del Paese, vicino a Goma: «Gli autori dell’attacco avevano come obiettivo principale proprio il diplomatico italiano», scrivono alcuni media locali. Stavano viaggiando con il World Food Programme «da Goma a visitare il programma di distribuzione di cibo nelle scuole del Wfp a Rutshuru», fanno sapere dall’agenzia Onu che specifica: «Precedentemente era stato autorizzato il viaggio su quella strada senza una scorta di sicurezza», come si vede dalle foto che mostrano l’utilizzo di jeep non blindate in un’area del Paese considerata ad alto rischio. Eppure c’è chi ha ritenuto “sicura” la strada su cui è avvenuto l’attacco, sicura e quindi senza necessità di scorta. Una scelta esiziale di cui qualcuno, ai vertici della missione Onu in Congo, dovrà dar conto. L’imboscata è avvenuta «nei pressi di Goma (Nord-Kivu) nel territorio di Nyiragongo», secondo i media locali che aggiungono: «Sono intervenute le Fardc», ossia le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo, «e le guardie del Parco nazionale dei Virunga» Un diplomatico di alto rango a Kinshasa ha spiegato all’Afp che Attanasio è morto “in seguito alle ferite riportate” dopo essere stato colpito dai proiettili esplosi dagli assassini contro il convoglio. «Lungo la strada operano gruppi ribelli, come le ex Fdlr ruandesi, ma anche combattenti congolesi come i Mai mai e soprattutto banditi comuni, che colpiscono solo per rapinare; in più tratti, prima e dopo il settore di Kanya Bayonga, la scorta è essenziale»: a raccontarlo da Goma all’agenzia Dire è Etienne Kambale, direttore dell’ong Fondation Point de vue de Jeunes Africains pour le Developpement. «Sulla strada ci sono aree considerate più sicure, dove ribelli e banditi non si spingono anche perché ci sono posti di blocco delle Fardc, le Forze armate congolesi» sottolinea Kambale. Secondo Kambale, ad alimentare l’insicurezza sono spezzoni delle Fdlr, le Forces democratiques de liberation du Rwanda. L’Fdlr – responsabile di violenze e rapimenti a scopo di lucro – è il principale gruppo residuo di ribelli ruandesi aderenti alla dottrina dell’”Hutu Power”, operante nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Formato quasi interamente da Hutu, che si oppongono ai Tutsi per il dominio sulla zona, hanno come comandante in capo Paul Rwarakabije. Secondo quanto reso noto dall’Institut Congolais pour la Conservation de la Nature (ICCN), le guardie del parco sono intervenute in un secondo tempo, «mentre era già in corso l’attacco contro i due veicoli dell’Onu avvenuto verso le 10.15 presso una località nota come 3 antennes, sulla Route Nationale n. 2». Si tratta della stessa località in cui due turisti britannici erano stati rapiti da uomini armati non identificati l’11 maggio 2018, a una quindicina di chilometri da Goma, nel mezzo del Parco dei Virunga. In quella zona ritenuta “sicura” il convoglio è stato crivellato di colpi, e due italiani sono stati portati nella foresta e uccisi. Luca Attanasio era uno degli ambasciatori italiani più giovani nel mondo. Era nato a Saronno (Varese) il 23 maggio 1977. «Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato – raccontava il diplomatico – non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere. Il ruolo dell’ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani ma anche contribuire per il raggiungimento della pace». «In Congo – amava ricordare – parole come pace, salute, istruzione, sono un privilegio per pochissimi, e oggi la Repubblica Democratica del Congo è assetata di pace, dopo tre guerre durate un ventennio». L’ambasciatore Attanasio era sposato con Zakia Seddiki, fondatrice e presidente dell’associazione umanitaria “Mama Sofia” che opera nelle aree più difficili del Congo salvando la vita ogni anno a centinaia di bambini e giovani madri. «Ho accolto con sgomento la notizia del vile attacco che poche ore fa ha colpito un convoglio internazionale nei pressi della città di Goma uccidendo l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista. La Repubblica italiana è in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell’adempimento dei loro doveri professionali nella Repubblica Democratica del Congo». Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio di cordoglio al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Unanime è il cordoglio espresso da tutte le forze politiche. «Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime profondo cordoglio per la morte di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci», si legge in una nota di Palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio e il governo «si stringono ai familiari, ai colleghi della Farnesina e dell’Arma dei Carabinieri. La Presidenza del Consiglio segue con la massima attenzione gli sviluppi in coordinamento con il Ministero degli Affari Esteri». «Quella dell’ambasciatore è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio». Erano le parole che l’ambasciatore Attanasio rilasciò a Camerota (Salerno) il 12 ottobre scorso, in occasione del ricevimento del premio internazionale “Nassirya per la pace”, consegnato dalla locale associazione culturale “Elaia”. «Io e mia moglie viviamo in Congo con tutta la famiglia, tre bambini piccoli. Qualcuno si stupisce di questa scelta, soprattutto per i rischi che comporta, ma è nostro dovere dare l’esempio», concludeva Luca Attanasio. Un esempio a cui non è venuto meno, pagando con la vita. Un eroe italiano.

Alessandro Orsini per "Il Messaggero" il 23 febbraio 2021. La Repubblica democratica del Congo balza alle cronache dopo l'uccisione dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci. Per comprendere ciò che accade in questo Paese martoriato, occorre partire dai fatti più recenti. I problemi sono iniziati quando tutti speravano che sarebbero finiti, il 30 dicembre 2018, giorno delle prime elezioni democratiche della storia moderna del Paese. Dopo diciotto anni di dura e corrotta dittatura, Trump aveva imposto al presidente Joseph Kabila di non correre per il terzo mandato, minacciandolo di sanzioni vigorose. Le elezioni sono state vinte da Felix Tshisekedi, che, alleatosi segretamente con Kabila, è accusato di avere orchestrato con lui una serie di brogli elettorali. E, così, il nuovo presidente democratico è apparso subito anti-democratico e sono scoppiate le proteste popolari. Ad avere vinto le elezioni sarebbe stato Martin Fayulu, congolese dall'educazione americana, già manager della compagnia petrolifera statunitense Exxon. Il che aiuta a comprendere la sollecitudine di Trump, che, dall'elezione di Fayulu, sperava forse di trarne un vantaggio per la propria economia, visto che il Congo vanta il record di essere uno dei Paesi più ricchi di risorse al mondo con una delle popolazioni più povere. Il povero ricco Congo è un Paese che consente di fare investimenti enormi, essendo pieno di risorse non sfruttate per mancanza di attrezzature e conoscenze, di cui americani ed europei abbondano. Pieno di ardimento, Fayulu si è rivolto alla Corte costituzionale, straripante di giudici nominati dal vecchio dittatore, i quali hanno assicurato che non potrebbe esistere presidente più legittimo di quello che si è alleato con il presidente precedente. Il problema è che Fayulu era gradito non soltanto a Trump, ma anche alla popolazione congolese, che aveva identificato in lui il vero nemico della corruzione, che rischia di perpetuarsi. Per rimuovere la corruzione, Tshisekedi dovrebbe rimuovere gli uomini corrotti nominati dal suo predecessore, al quale deve il posto. È esattamente l'impegno che Fayulu aveva preso con i congolesi, a cui aveva addirittura promesso un'investigazione contro Kabila e i suoi fedeli, balzando in testa ai sondaggi. Persino la chiesa cattolica, che in Congo gode di notevole prestigio, si è schierata al fianco di Fayulu, dopo avere inviato l'incredibile cifra di 40.000 osservatori nel Paese a controllare il voto. Forse è anche per l'appoggio della chiesa che l'Unione Africana si è persuasa che Tshisekedi abbia vinto in modo irregolare, salvo poi riconoscere il suo governo, un po' per paura che i disordini in Congo pongano problemi ai Paesi confinanti e un po' perché alcuni membri dell'Unione Africana, non proprio democratici, temono di avere presto analoghi problemi con i brogli elettorali. Il punto è che la popolazione congolese, afflitta ed affamata, non ragiona in base alla ragion di Stato e protesta, mentre il governo reprime e, quindi, morti e feriti a Kikwit e Goma. Ecco spiegata la missione Monusco dell'Onu, che, iniziata il 30 novembre 1999, non finisce mai, come i conflitti in quel Paese martoriato. La ragione per cui Kabila ha deciso di appoggiare un oppositore del suo regime, quale era Tshisekedi, è che il suo candidato ufficiale, Emmanuel Shadary, non attirava voti. Mossa astuta: oggi Kabila si gode il seggio di senatore a vita, assicurato da Tshisekedi, invece dell'investigazione giudiziaria, promessa da Fayulu. I giochi di potere restano, come il dramma dei Paesi che sognano di transitare pacificamente dalla dittatura alla democrazia. Siccome le democrazie promettono di mettere in carcere i dittatori, questi usano brogli e violenze per evitare le manette o magari la pena capitale. Nel digerire Tshisekedi, Kabila avrà forse ricordato l'impiccagione di Saddam Hussein da parte del democratico Iraq.

Domenico Quirico per "la Stampa" il 23 febbraio 2021. La foresta nel Kivu è così fitta che sembra un muro. È bella da ferirti gli occhi. E terribile al punto che può uccidere. Ciascuno si sente piccolo, qui, precipitato in una terra che non pare fatta per gli uomini. Dove la lotta per sopravvivere è così continua, sfiancante, ossessiva che non ti lascia pensare ad altro. Tutto ti può uccidere: un serpente, ebola e mille altre malattie subdole e feroci, un altro uomo. Ecco: gli uomini, i protagonisti della eterna «grande guerra d’Africa» nell’est del Congo, lunga, atroce, macchiata di frode e di crudeltà, dove nessuno di coloro che sparano è quello che dice di essere. I rivoluzionari e i ribelli sono in realtà banditi, i governativi indossano uniformi ma si battono non per la paga che nessuno gli dà ma, anche loro, per il bottino, le donne da violentare. E i soldati dell’Onu, la più grande e fallimentare operazione di pace della storia, ventimila uomini, un miliardo di dollari l’anno? Da vent’anni sono lì, frustrati spettatori di una pace metafisica che non c’è, caschi blu arruolati in Paesi ancor più poveri di questo, mercenari della miseria. Arrivi a Goma e ti accorgi che ci sono due mondi, il mondo del giorno dove comandano i funzionari del remotissimo governo di Kinshasa, i soldati, i caschi blu. E poi c’è il mondo della notte dove incontri gli altri. Gli ultimi arrivati sono quelli affiliati al Califfato, il «Gruppo armato delle forze democratiche alleate». Sono tagliagole nati in Uganda ma qui hanno trovato un eldorado senza legge e proclamato la nascita della «provincia islamica dell’Africa centrale». Chissà: ci sono tante ricchezze da rubare che potrebbe davvero esser questa, la zona dei grandi laghi, il tesoro delle future guerre sante. Questo è un luogo pieno di crudeltà, loro ci stanno benissimo. Poi ci sono i ribelli delle tribù che non riconoscono il governo centrale. E i killer bambini dell’Esercito del signore, che cacciato dall’Uganda è sconfinato in Congo. Nei villaggi dell’alto Huelè non c’è giorno in cui bambini e bambine non vengano rapiti, trasformati in schiave sessuali e in combattenti, spie, portatori. Li marchiano sulla fronte, sul dorso e sul petto con croci disegnate con olio di karité, che i miliziani acholi chiamano «moo-ya» e dicono sia una pianta sacra. E poi ci sono milizie comandate da stregoni che promettono l’invulnerabilità con pozioni magiche e gris gris, e le bande degli antichi massacratori hutu del genocidio ruandese degli Anni novanta. Sono sfuggiti alla vendetta dei tutsi rifugiandosi nelle foreste del Kivu e si sono trasformati in una armata di spiriti, avida e feroce. E poi piccoli signori della guerra, imprenditori di milizie che le affittano per difendere le miniere, saccheggiare, offrire protezione: la guerra business, la guerra che nessuno racconta perché è un romanzo criminale. Qualcuno ha provato a contarli: dicono che i gruppi armati siano almeno un centinaio. Sono uomini cenciosi ma con i kalashnikov, particolare che fa la differenza tra padrone e vittima, tra uomo e insetto da schiacciare. Come ieri nell’agguato al convoglio dell’ambasciatore italiano emergono dalle foreste, occupano un villaggio, saccheggiano una miniera, attaccano soldati malvestiti, affamati, che si trascinano dietro, come nomadi, famiglie e bestie. Le guerre nel Kivu hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev: il coltan, l’oro, il tungsteno. Chi ricorda che arrivano dal Congo marchiati da delitti, sfruttamento, schiavitù, disperazione? Il tantalio: un metallo che resiste alla corrosione, ad esempio. Lo scavano in queste foreste da cui sono balzati fuori i killer dell’ambasciatore, lo scavano uomini e bambini con la vanga, le mani impastate di fango e di sudore. Tante piccole mani distruggono la foresta per cercarlo. Uomini armati li controllano, pronti a sparare. Il padrone della concessione, con un satellitare, tratta forniture, contratti, conti in banca e le tangenti per i funzionari e i ministri del governo. Paga la gente della notte, perché eliminino i concorrenti, diano la caccia agli schiavi che hanno tentato la fuga. E la cassiterite? La avete mai sentita nominare? Esiste, serve per saldare e per le leghe speciali: si nasconde in questa terra nera come sangue raggrumato. Qui tutti sono dei sopravvissuti a ultradecennali macelli. Anime timorose e fragili, figli innocenti della guerra, della paura, dell’esilio e della fame. Sopravvissuti fuggendo camminando urlando di dolore e di paura, invocando pietà in mille dialetti. Sono ancora vivi. Non li hanno uccisi le angherie iperboliche di Mobutu, il Grande Furfante, che aveva messo fuori legge il Natale e le cravatte. Possono raccontare di quando arrivarono le folle di hutu ruandesi braccati dalla vendetta dei tutsi e una parte di loro, quelli armati, gli artigiani del genocidio, non chiedeva pietà ma esigeva terre e denaro. Non li hanno ammazzati i soldati dei due Kabila presidenti, il padre rivoluzionario contrabbandiere che riuscì a disgustare anche un fragile Che Guevara spedito per punizione in Congo, e il figlio, presidente-padrone della nuova generazione dei despoti africani. E poi possono rievocare i tempi del pittoresco generale Nkunda che su ordine dei ruandesi doveva diventare signore per procura del Kivu. Piaceva ai giornalisti occidentali che sudavano nella foresta per raggiungerlo e descrivere la sua divisa immacolata, il ghigno arrogante. Durò poco. I suoi padroni di kigali lo vendettero per un accordo con Kabila. Le donne sono sopravvissute alle violenze di tutte le milizie di passaggio, sono vive, forse è giusto cercare di dimenticare, i bambini sguazzano nel fango e tra i rifiuti, vestiti di stracci, anche loro sono vivi, sfuggiti all’arruolamento in qualche armata di fantasmi. Quando la guerra si infiamma tutti sono pronti, caricano sulla schiena il basto formato dalle poche cose sfuggite ai saccheggi e si mettono in marcia, pazienti, dimessi. Bisogna nascondersi nel fastoso fittume di foreste di acqua e di nuvole accaldate e basse che assiste indifferente alle tragedie. Paccottiglia umana per la cui difesa nessuno mai sparerà una pallottola. Le bandiere nere sono ormai sulle sponde dei grandi laghi, ribattezzata «provincia dell’Africa centrale», crocevia delle guerre eterne per rame, uranio, coltan, dei feroci conflitti tribali. Il «Gruppo armato delle forze democratiche alleate», nato in Uganda e ora alleatosi al Califfato, colpisce nel Kivu, in Congo. Queste terre ricche di minerali e politicamente fragili saranno l’eldorado del terrorismo mondiale.

Agguato in Congo: ucciso il magistrato coinvolto nelle indagini per la morte di Attanasio. È morto in un agguato in Congo il magistrato impegnato nelle indagini per l'attribuzione di responsabilità per la morte di Luca Attanasio, del carabiniere e del loro autista. Francesca Galici - Gio, 04/03/2021 - su Il Giornale. È stato "ucciso in una imboscata il procuratore che indagava sulla morte del nostro ambasciatore del carabiniere di scorta e del loro autista nel nord Kivu". A diffondere al notizia su Twitter Geopolitical Center, gruppo di analisi strategica, militare, politica ed economica indipendente basato in Italia. "Situazione molto particolare", conclude il tweet. Il clima in Congo si fa sempre più infuocato a pochi giorni dall'assassinio dell'ambasciatore Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta e del loro autista. La tensione nel Kivu sta salendo. La notizia dell'uccisione del magistrato è trapelata già nelle scorse ore ma non era chiaro se fosse coinvolto nelle indagini per l'assassinio di Luca Attanasio. Quel che è certo è che l'agguato sia avvenuto a circa 300 chilometri dal luogo dove sono stati uccisi lo scorso 22 febbraio l'ambasciatore d'Italia a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l'autista del Programma alimentare mondiale (Pam) Mustapha Milambo. Il magistrato era di ritorno a Rutshuru dopo più di una settimana trascorsa a Goma, regione nella quale è stato uscito l'ambasciatore. Da tempo le istituzioni e la popolazione locale sono preoccupate per il deterioramento della situazione della sicurezza nell'area di Rutshuru. In particolare è la strada strada Goma-Rutshuru a preoccupare. Qui le autorità congolesi stanno progressivamente perdendo il controllo del territorio sia a causa del proliferare delle milizie armate ribelli presenti nell'area sia a causa di diversi episodi di faide interne allo stesso esercito, spesso fra reggimenti rivali, alimentate da collusioni interne. Le agenzie riportano che non si tratta, infatti, del primo episodio simile avvenuto in tal senso. Un anno fa, esattamente il 20 febbraio 2020, una jeep dell'esercito congolese con a bordo sette militari che trasportavano circa 100 mila dollari in contanti per il pagamento degli stipendi fu presa d'assalto lungo la strada nazionale R2 - la stessa dove è stato ucciso Attanasio - da aggressori ignoti. Sul caso è stata in seguito avviata un'indagine che hanno portato ad attribuire la responsabilità alle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), tuttavia dall'analisi dei dati effettuata dal Kivu Security Tracker (Kst) emerge che nell'area di Rwaza il gruppo non vi fosse più attivo da almeno sei mesi, mentre le aree circostanti il villaggio sono state colpite da incidenti che hanno coinvolto spesso le Fardc e le Nyatura-Forze di difesa del popolo (Fdp), alleate delle Fdlr.

Ricchi ma poveri. L'incubo del Paese che non trova pace. Gas, petrolio, cobalto e risorse infinite, ma un popolo stremato dalla fame e reso schiavo. Ecco lo scenario in cui operava l'ambasciatore Luca Attanasio. Marco Valle - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. La terribile morte, il 22 febbraio scorso, dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci ha ricordato improvvisamente all'opinione pubblica italiana, sempre molto distratta, l'esistenza del Congo, il «cuore di tenebra» del continente africano. Un'occasione amara, amarissima che ci obbliga a pensare, a far luce su un Paese immenso, grande quanto l'Europa occidentale, e le sue tante, troppe tragedie. Dal giorno dell'indipendenza dal Belgio, il 30 giugno 1960, il Congo ha attraversato una serie di sanguinose guerre civili, poi la trentennale dittatura cleptocratica di Joseph-Désiré Mobutu a cui è seguita l'opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l'attuale uomo forte di Kinshasa ha poco o nulla di cui sorridere. Il governo naviga a vista, l'esercito resta inquieto, le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le enormi ricchezze del sottosuolo, il Congo questo formidabile «scandalo geologico» rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta. In più il Nord Est la regione del Kivu dove sono caduti Attanasio e Iacovacci è ormai fuori controllo. Da oltre vent'anni un centinaio di milizie armate si contendono a colpi di kalashnikov il controllo di un'area già flagellata da due guerre inter-africane (1996-97 e 1998-2003), devastata dall'Ebola e oggi dal Covid, punteggiata da spettrali campi profughi e luride bidonville. Un inferno in terra dove operano i volontari italiani della Fondazione Avsi di cui è vice presidente il senatore Alfredo Mantica, già sottosegretario nei governi Berlusconi per l'Africa e amico e mentore di Attanasio. Con questi coraggiosi volontari il giovane diplomatico ha trascorso la serata di lunedì. L'ultima cena della sua vita. L'ambasciatore era sul posto per seguire il World Food Programme, il piano delle Nazioni Unite per aiutare una popolazione stremata, massacrata dai banditi e ridotta in quasi in schiavitù dai «signori dei minerali». Già, il disgraziato Kivu è, assieme al Katanga, la cassaforte mineraria del Congo. Oltre ai giacimenti di gas e petrolio celati nel lago Kivu o nel parco del Virunga, la regione è ricca di tantalio, necessario per gli smartphone e i laptop, di cassiterite da cui si ricava lo stagno e, soprattutto, di cobalto. Una brutta, bruttissima storia. Il minerale serve per la realizzazione di batterie al litio di cui il Congo copre oltre il 60 per cento della produzione mondiale. Un affare gigantesco per le multinazionali dell'elettronica e dell'automobilismo occidentali e asiatiche e per le aziende raffinatrici la cinese Huayou e l'anglo-svizzera Glencore , una nuova tentazione per i famelici boss di Kinshasa e i contrabbandieri che lo trasportano in Ruanda e in Uganda e l'ennesima maledizione per gli abitanti. Cosa succede? Accanto alle grandi compagnie che impiegano impianti industriali per l'estrazione in parallelo si muove un'umanità disperata che assicura un quarto della produzione. Sono i creuseurs (gli scavatori), una folla di donne e ragazzini che quotidianamente, senza alcuna protezione, rischia vita e salute nelle piccole miniere a cielo aperto per raccogliere e ripulire il minerale per soddisfare gli intermediari (per lo più cinesi) delle grandi società. Quando non crepano sepolti in gallerie fatiscenti o quando non si ammalano a causa delle esalazioni tossiche, ricevono un dollaro, un dollaro e mezzo al giorno. Ricordiamo che nel primo semestre 2020, malgrado i rallentamenti dovuti alla pandemia, sul mercato mondiale il prezzo medio di una tonnellata di cobalto si aggira tra i 28.000 e i 35.000 dollari. A seguito delle proteste, le grandi compagnie Apple, Dell, Daimler, Sansung, Microsoft, Tesla, Lenovo, Sony, Bmw ecc. hanno assicurato verifiche e inchieste per poi scaricare il problema sui raffinatori del cobalto, ovvero Huayou e Glencore, e il malfermo governo congolese che ha subito dichiarato «l'oro blu» monopolio statale annunciando controlli. Grandi proclami ma, complice il diffondersi del Covid, pochissimi risultati. La chiusura dei confini e la mancanza di cibo hanno rigettato i più nell'inferno delle miniere. Nell'indifferenza dei potenti d'ogni latitudine. Luca Attanasio lo sapeva. Ancora una volta l'unico punto di riferimento è la Chiesa locale. Nell'anniversario della fine dell'occupazione belga, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario: «Contrariamente ai paesi vicini, l'indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell'indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze, noi, in Congo, sognavamo l'indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Per i congolesi dell'epoca sognare l'indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l'esercizio dell'autorità o l'esercizio delle cariche, qualunque incarico è stato visto come l'occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l'idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l'accento sul piacere». Parole durissime e coraggiose che hanno infastidito non poco i centri di potere congolesi e indispettito i «buonisti» d'Europa.

Cos’è la Guerra Mondiale Africana, il conflitto nel quale è maturato l’attacco all’ambasciatore Luca Attanasio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. A volte la sintesi giornalistica può essere parziale, esagerata, pretenziosa. Può essere tutto questo ma può essere anche necessaria. Si sta parlando molto in queste ore della “Guerra Mondiale Africana” dopo l’agguato che ha ucciso nella Repubblica Democratica del Congo l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, alla guida di uno dei due mezzi che stava accompagnando il diplomatico in un convoglio del World Food Program. Nessuna rivendicazione, al momento. Si cerca intanto di fare chiarezza sul movente oltre che sull’identità degli aggressori. La “Guerra Mondiale Africana” è un conflitto totale, che si è concentrato nella Regione dei Grandi Laghi, dentro e intorno al Congo soprattutto. Mille gli episodi, i rivoli, le milizie, le balcanizzazioni, i casus belli esplosi facendo riferimento a questa espressione. Di certo le cause di questo conflitto, per larghi tratti a bassa intensità, caratterizzato quasi sempre da azioni e sconvolgimenti che in Occidente non hanno grande (se non proprio nessuna) eco, e da veri e propri confronti di eserciti anche nazionali, vanno a scavare nella storia del continente africano: dal colonialismo al razzismo passando per le rivalità etniche fino allo sfruttamento delle risorse naturali, delle quali questa parte di mondo è ricchissima, nonostante resti poverissima. Avvenire scrive che la cosiddetta “Guerra Mondiale Africana” ha visto nove Stati coinvolti, 25 milizie armate, oltre cinque milioni di morti negli ultimi due decenni. Un conto in continuo aggiornamento visto il riverberarsi di tensioni tra Paesi e nelle popolazioni. L’espressione indica di solito le tensioni esplose nel 1996 in quel Paese che allora era chiamato Zaire, poi degenerate in un conflitto interstatuale. Si cercherà di seguito di ricostruire, attraverso dei momenti simbolici che hanno fatto da antefatto e da turning point alla storia di questa parte di mondo, motivi e dinamiche che hanno fatto esplodere questa specie di conflitto perenne.

ZAIRE – Era il 17 gennaio 1961 quando Patrice Lumumba veniva giustiziato. Era stato Primo Ministro della Repubblica Democratica del Congo tra il giugno e il settembre 1960. Il 30 giugno del 1960 il Belgio aveva deciso di concedere l’indipendenza al Paese dopo che il re del Belgio Leopoldo II lo aveva conquistato a fine ottocento facendone uno Stato di proprietà personale. Una colonia da sfruttare per la raccolta del caucciù, diamanti, avorio e altre risorse naturali. Lumumba arrivò alla guida di un Paese enorme conteso nel bel mezzo della Guerra Fredda da Urss e Usa. Decise per l’africanizzazione dell’esercito, ancora in mano a quadri belgi. Le truppe ripararono nella Regione del Katanga e il parlamento si schierò con il Presidente. A dicembre il generale Mobutu Sese Seko lo fece arrestare con un colpo di stato. Proprio in Katanga, con due fedelissimi, Lumumba fu giustiziato. I resti fatti a pezzi e buttati nell’acido. Mobutu era stato supportato dal Belgio e dalla CIA americana. Era stato nominato Capo di Stato Maggiore dallo stesso Lumumba. Dopo un periodo di faccia a faccia tra i leader politici Tshombe e Kasavubu, il generale prese il potere nel 1965. Il Paese cambiò nome nel 1971 in Zaire, per distinguerlo dalla Repubblica del Congo, e lui divenne Mobutu Sese Seko. Il suo regime, basato sul culto della personalità, una cleptocrazia, durò fino al 1997. Solo agli inizi degli anni Novanta, a causa dell’inflazione dilagante, del debito pubblico e delle svalutazioni correntizie, si decise a condividere parte del potere con i leader delle opposizioni.

IL GENOCIDIO – Era il 6 aprile del 1994 quando veniva abbattuto l’aereo del presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana: fu il casus belli che diede il via al Genocidio del Ruanda: secondo soltanto all’Olocausto a opera dei nazisti, quasi un milione di persone massacrate, anche a colpi di machete, in circa quattro mesi. Altro Paese dal passato tormentato, il Ruanda: prima colonia tedesca, poi Belgio, infine l’indipendenza nel 1962. Un forte legame soprattutto con la Francia. Il 4 agosto 1993 erano stati firmati gli Accordi di pace di Arusha, in Tanzania: il Ruanda si avvicinava al multipartitismo dopo l’egemonia monopartitica del Mouvement Révolutionaire National Pour le Développement di Habyarimana, appoggiato dalla maggioranza hutu, che discriminava i tutsi. Un sistema messo in crisi dagli assalti del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr), formata da esuli tutsi in Uganda, supportato dalla Resistance Army del presidente ugandese Yoweri Museveni, che portavano attacchi a Kigali. Mai chiariti del tutto i responsabili dell’attentato – un’inchiesta francese nel 2006 concluse che i mandanti dell’attentato furono il futuro presidente Paul Kagame e l’Fpr. Sull’aereo di Habyarimana, abbattuto da missili terra-aria viaggiava anche il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. L’attacco divenne comunque il pretesto per il massacro da parte degli estremisti hutu ai danni dei tutsi e degli hutu moderati. Nel 1994, sotto i colpi dell’Fpr ruandese, finiva la guerra civile. Alla presidenza arrivarono due hutu moderati. Nel 2000 Kagame arrivò alla Presidenza che mantiene ancora oggi. Due milioni di ruandesi erano intanto fuggiti in Tanzania, Burundi e Zaire.

PRIMA GUERRA DEL CONGO – Tra i rifugiati ruandesi hutu in quello che ancora si chiamava Zaire c’erano molti guerriglieri determinati a dare la caccia ai tutsi. I campi profughi del Congo orientale divennero le basi per colpire il governo di Kigali. Le truppe ruandesi entrarono così nello Zaire nel 1996, sostenendo le milizie dell’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo-Zaire (Afdl) guidata da Laurent-Désiré Kabila. Della coalizione facevano parte anche Uganda, Burundi e Angola. Nel giro di un anno la Afdl entrava a Kinshasa e costringeva Mobutu all’esilio: sarebbe morto in Marocco, di cancro alla prostata, quello che secondo molti osservatori ha rappresentato l’archetipo del dittatore africano.

SECONDA GUERRA DEL CONGO – Quando i ribelli tutsi – che avevano combattuto con Kabile – e i fedeli del nuovo leader cominciarono a scontrarsi esplose la Seconda Guerra del Congo. Le sigle dei ribelli erano il Rassemblement Congolais pour la Démocratie (Rcd) e il Mouvement pour la Libération du Congo (Mlc). A sostegno anche Ruanda, Uganda e Burundi. Il Presidente contava sull’appoggio di Angola, Namibia e Zimbabwe. Otto Paesi e 25 gruppi armati si scontrarono. Obiettivo del conflitto erano le risorse del Congo orientale. La Repubblica Democratica del Congo si spaccò a metà: a ovest l’esercito di Kabila, a est i ribelli. A Lusaka, in Zambia, si firmò nel 1999 il cessate il fuoco che non riuscì comunque a far ritirare tutte le truppe straniere dal Paese. Nel gennaio del 2001 venne Kabila assassinato da una guardia del corpo nell’ambito di un colpo di stato che però fallì. Nel 2003 si firmarono gli Accordi di pace di Sun City, nella Repubblica Sudafricana, che portarono all’approvazione della Costituzione transitoria e alla formazione di un governo di transizione: alla guida il figlio di Kabila, Joseph; i diversi leader delle forze di opposizione nella carica di vice-presidenti. Joseph Kabila nel 2006 vinse le prime elezioni libere dopo 45 anni, si confermò nel 2011. Nel conflitto congolese morirono cinque milioni e mezzo di persone, anche per via delle carestie. È considerato il secondo più cruento dalla Seconda Guerra Mondiale. Ufficialmente le ostilità sono chiuse me attività belliche oltreconfine non sono mai scomparse. Nell’est del Paese le scorribande sono all’origine del giorno. LE TENSIONI – Il Presidente della Repubblica Democratica del Congo in questo momento è Felix Tshisekedi, figlio di un ex Primo Ministro dello Zaire sotto Mobutu Sese Seko. Ha vinto le elezioni del dicembre 2018. Un voto fortemente contestato per le accuse di brogli. Il Presidente ha appena cambiato il premier, nominando l’ex capo della compagnia mineraria statale Sama Lukonde Kyenge. Il Paese è oggetto oggi ancora più di ieri di interessi e speculazioni da parte delle grandi potenze e delle multinazionali, per via delle materie prime come il coltan, usato per la fabbricazione di cellulari, computer portatili, fibre ottiche, strumentazioni per l’industria aerospaziale. Un materiale estremamente raro. Il governo di Kinshasa ha indicato le Fdlr come responsabili dell’agguato ai danni dell’ambasciatore italiano. Le milizie hutu ruandesi delle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (Fdlr) hanno negato qualsiasi coinvolgimento. Nell’area cresce anche l’influenza di Adf/Iscal, della galassia dello Stato Islamico. Tra gli estremisti hanno trovato nuova vita anche le Forze Democratiche Alleate, nate nel 1995 per mano di congolesi e salafiti ugandesi. Circa 170 le milizie – religiose, politiche, etniche o semplicemente criminali – che operano nella zona. L’Onu conta che, in due anni, da quest’area circa due milioni di civili siano scappati per via dei gruppi armati. “In Congo – ricordava l’ambasciatore Attanasio – parole come pace, salute, istruzione, sono un privilegio per pochissimi, e oggi la Repubblica Democratica del Congo è assetata di pace, dopo tre guerre durate un ventennio”.

Da tgcom24.mediaset.it l'8 marzo 2021. L'ambasciatore italiano Luca Attanasio sarebbe stato assassinato nell'"Operazione Milano", organizzata dal colonnello Jean Claude Rusimbi, signore della guerra del vicino Ruanda, indagato dalla Corte internazionale per crimini contro l'umanità. Questa è l'ipotesi investigativa indicata dai missionari comboniani: il colonnello Rusimbi aveva appreso "che Attanasio era venuto a conoscenza di molte informazioni su diverse uccisioni di massa e voleva visitare i siti sospetti". Per questo avrebbe pianificato di eliminarlo. La nuova ipotesi investigativa - Rusimbi, dunque, per fermare il lavoro di Attanasio avrebbe inviato il luogotenente Didier nei pressi di Goma, "con altri quattro soldati addestrati come killer". Eseguito l'omicidio, gli assassini, sempre secondo i missionari comboniani, da decenni radicati nella Repubblica del Congo - avrebbero fatto ritorno a Rubavu, in Ruanda. Attanasio voleva, dunque, verificare la reale destinazione di fondi e aiuti per le missioni umanitarie e sapere di più sulle uccisioni di massa della zona: un attivismo che andava oltre il suo ruolo di diplomatico e che aveva insospettito le autorità ruandesi. Il presunto mandante dell'agguato mortale sarebbe proprio Paul Kagame, da oltre 25 anni presidente del Ruanda, che controlla la regione dei grandi laghi. Ci si continua, allora, a chiedere come mai la spedizione del Pam, il Programma alimentare, su cui viaggiavano Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, non avesse una scorta adeguata. La zona, infatti, è teatro di frequenti scontri e massacri per le incursioni del vicino Ruanda che punta alle ricchezze minerarie del Congo.

L’ombra dei signori della guerra dietro la morte dell’ambasciatore Attanasio. Francesca Salvatore su Inside Over l'8 marzo 2021. Sono trascorse appena due settimane dall’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio assieme al carabiniere Vito Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo. Sulle prime, la strage ha generato ogni tipo di sospetto e ricostruzione senza peraltro mai abbandonare l’ipotesi dello “sfortunato incidente”, in una terra disgraziata dove le imboscate del banditismo locale sono all’ordine del giorno. Poi, ancora, lungo quella stessa strada, che corre dalla città di Goma verso Rutshuru e il Parco dei Virunga, il 2 marzo scorso è stato ucciso anche il magistrato Williams Mulahya Hassan Hussein, che aveva avviato indagini sull’agguato di pochi giorni prima. Da qui in poi credere alle sfortunate coincidenze è sempre più difficile, pur trattandosi di una realtà priva di qualsivoglia forma di rule of law.

L’ipotesi. A tirare fuori l’ipotesi che possano esserci dietro i cosiddetti “signori della guerra” è padre Filippo Ivardi Ganapini, direttore di Nigrizia: questi ultimi sarebbero legati all’occupazione da parte del Rwanda di parte del territorio congolese. Del resto, tutta l’area di Goma, capoluogo del Nord Kivu, è di fatto territorio ruandese, occupato sin dal lontano 1994. In prima battuta (a dire il vero appena tre ore dopo l’attentato) le autorità congolesi hanno accusato del massacro l’Fplr (Fronte patriottico di liberazione del Rwanda), il movimento di ribelli, in gran parte da hutu ruandesi, più numeroso nella zona. Ipotesi confermata in meno di 24 ore anche da Kigali. Secondo padre Ivardi “Fonti ruandesi, verificate nel dettaglio e confermate da diversi congolesi contattati, invitano a guardare oltre confine, verso il vicino Rwanda e si spingono ad affermare che l’ambasciatore italiano nella Rd Congo è stato assassinato nell’operazione “Milano””. Tale missione sarebbe stata approntata dalla guarnigione marina di Butotori dal colonnello Jean Claude Rusimbi, ex militare nella rivolta guidata da Laurent Nkunda, signore della guerra indagato dalla Corte internazionale per crimini contro l’umanità, oggi eminenza grigia dell’intelligence ruandese nella regione del Nord Kivu. Nella tesi dei missionari comboniani qualsiasi ricostruzione sull’omicidio Attanasio non deve lasciare spazio al caso e deve partire dall’analisi della personalità del diplomatico stesso: la voglia di andare a fondo nelle cose, la volontà di monitorare gli aiuti umanitari e il loro percorso, la volontà di approfondire e indagare sulle stragi che in Congo sono all’ordine del giorno. Un modus operandi che può facilmente avergli fatto acquisire delle informazioni scomode che gli sono costate la vita. Le sue visite regolari all’ospedale di Panzi per incontrare il dottor Mukwege, premio Nobel per la pace 2018 che chiedeva un Tribunale penale internazionale per il Congo, presumibilmente destavano sospetti. Il più grande di questi è che l’ambasciatore volesse visitare alcuni siti dove presumibilmente erano state seppellite vittime innocenti all’interno di fosse comuni disseminate nella provincia del Nord-Kivu, in cui si trovano i corpi delle vittime dei massacri perpetrati dalla Rdf attraverso la sudditanza delle milizie regolari RdC a Goma, quelle del National Congress for the Defence of the People (Cndp), l’unità Afdl ed il movimento M23. Dal timore di uno scandalo internazionale, sarebbe quindi maturata l’idea di inviare dei killer ben addestrati per ucciderlo. Alla testa dell’operazione, presumibilmente Paul Kagame, da 25 anni presidente del Rwanda, ras della regione dei Grandi Laghi.

L’ombra del Rwanda. Si tratterebbe della stessa sorte toccata nel 1996 al vescovo Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo, il “Romero del Congo”, ai sacerdoti canadesi Guy Pinard and Claude Simard negli anni Novanta, o ai funzionari ONU Michael Sharp e Zaida Catalan uccisi barbaramente quattro anni fa nella regione di Kasai, nel centro del Paese, mentre indagavano su presunti abusi commessi da un gruppo di ribelli operativi nella zona. Tutti uomini e donne che, avendo scoperchiato verità inquietanti sulle vicende del Congo e del Rwanda, hanno pagato con la vita. Sta di fatto che il caso Attanasio ha riportato nuovamente il Congo all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale in una fase di pericoloso avvicinamento tra Kinshasa e Kigali, legato agli incontri bilaterali organizzati per affrontare le comuni minacce alla sicurezza nazionale. I due governi, guidati da Paul Kagame e Felix Tshisekedi, hanno posto l’accento sulla questione della sicurezza regionale, in particolare del Kivu, quale motore per un futuro sviluppo sostenibile dei due Paesi. Tshisekedi, proclamato vincitore alle presidenziali del dicembre 2018 (la cui attendibilità è ancora fortemente discussa), si è da tempo sbarazzato dell’alleanza pericolosa con l’ex uomo forte del Paese, Joseph Kabila, uomo di fiducia di Paul Kagame. Ergo, l’omicidio del nostro ambasciatore potrebbe essere un segnale -l’ennesimo- per urlare chi comanda davvero in Congo, con diritto di vita e di morte su chiunque. Sostiene ancora padre Ivardi, infatti, che accendere i riflettori sull’instabilità del Congo è lo strumento migliore per Kagame per giustificare lo sconfinamento delle sue milizie e per tenere le miniere congolesi in uno stato di perenne caos.

UN MESE DOPO. L'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio in Congo: i sospetti sulla guerra fredda tra presidente e opposizione. Il capo dello stato Tshisekedi schierato con Stati Uniti e Francia contro il filocinese Kabila. I killer vestiti da poliziotti e la milizia M23 già accusata di massacri. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 22 marzo 2021. A un mese esatto dall'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell'autista delle Nazioni Unite, Mustapha Milambo, l'unica certezza è la morte del procuratore militare che stava indagando sull'attacco: il maggiore Assani William, in servizio al Tribunale della guarnigione di Rutshuru nel Nord Kivu, è stato assassinato il 2 marzo mentre rientrava dalla città di Goma, dove aveva partecipato a una riunione per fare il punto sull'inchiesta. Qualcuno all'interno delle forze armate inviate nell'Est della Repubblica Democratica del Congo, di cui il magistrato era anche il revisore dei conti e quindi il controllore dei flussi di denaro, temeva il suo lavoro: una circostanza che rende meno probabile il coinvolgimento dei ribelli del Ruanda nell'attentato del 22 febbraio scorso e restringe i sospetti su reparti, milizie e ufficiali di esercito e polizia fedeli all'ex presidente filocinese Joseph Kabila. L'alleanza con Stati Uniti e Francia dell'attuale capo dello Stato, Félix Tshisekedi, con cui anche l'ambasciatore Attanasio manteneva ottime relazioni, così come gli altri diplomatici occidentali accreditati a Kinshasa, ha infatti aperto nell'ex colonia belga un nuovo clima da guerra fredda.

L'AMICO: LUCA NON SI OCCUPAVA DI MINIERE. Emanuele Gianmaria Fusi, amico fraterno dell'ambasciatore italiano, conferma a L'Espresso che Luca Attanasio, nel tempo libero, collaborava con l'associazione umanitaria della moglie Zakia Seddiki nel dare soccorso ai bambini di strada e alle donne di Kinshasa. Ma non si occupava di miniere, né dello sfruttamento di minori nella provincia di Goma. Lo stesso Fusi, titolare di un'impresa mineraria, non opera in Congo da circa due anni. «Non abbiamo al momento progetti attivi nella Repubblica Democratica», spiega l'imprenditore lombardo, «e l'ultimo era localizzato nei pressi di Matadi, a duemila chilometri di distanza dal Nord Kivu. Non siamo una multinazionale con budget miliardari, ma un'industria mineraria che opera nel rispetto dell'ambiente, dei diritti umani e del coinvolgimento delle realtà locali».

LE INDAGINI. Fusi in Italia è anche presidente di Novae Terrae, una fondazione che collabora con l'associazione Mama Sofia della signora Attanasio. «Ma non abbiamo mai finanziato Mama Sofia. Abbiamo il piacere di condividere alcuni progetti umanitari gestiti da soggetti terzi, ai quali abbiamo trasmesso direttamente i fondi raccolti. In un'altra occasione, l’ambasciatore mi aveva personalmente chiesto di interessarmi per il reperimento di un farmaco introvabile in Congo e molto difficile da ottenere anche in Italia, destinato alla cura di una ragazza congolese che versava in gravissime condizioni di salute. Dopo molte ricerche», aggiunge Fusi, «siamo riusciti a trovare il farmaco, grazie a una multinazionale farmaceutica coreana e lo abbiamo fatto arrivare in Congo, in modo che l’ambasciatore potesse consegnarlo ai medici congolesi che hanno in cura la ragazza. Cosa che ha fatto pochi giorni prima di lasciarci. Continuiamo a chiederci perché colpire una persona meravigliosa come Luca, ma ancora non troviamo risposte».

I SOSPETTI SU UFFICIALI E MILIZIE. Un testimone dell'attacco, in un video che riprendeva gli assassini in fuga, ha commentato le immagini con queste parole: «Si tolgono le divise e mettono quelle dei poliziotti». Solo qualche ufficiale dell'esercito e della polizia congolese poteva infatti sapere che il fuoristrada delle Nazioni Unite su cui viaggiava l'ambasciatore Attanasio non era blindato ed era appena partito da Goma senza scorta armata. È improbabile che nel giro di pochi minuti la notizia fosse già arrivata ai miliziani delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), la formazione accusata dalla versione ufficiale subito dopo l'attacco. È invece normale che il particolare fosse conosciuto a militari e poliziotti, tra i quali sono molti gli ufficiali rimasti fedeli all'ex presidente Kabila.

INCHIESTA. La mattina di lunedì 22 febbraio l'occasione era davvero inaspettata: un diplomatico occidentale, come tutti gli occidentali buon amico di Félix Tshisekedi, stava lasciando Goma senza alcuna protezione. Tshisekedi non è solo l'attuale presidente della Repubblica Democratica del Congo. Dal 6 febbraio è anche presidente di turno dell'Unione Africana, l'organizzazione internazionale che ha sede a Addis Abeba in Etiopia. Il sorprendente omicidio di un ambasciatore europeo doveva essere un attacco frontale all'immagine del nuovo potere che si sta consolidando a Kinshasa. Secondo i funzionari governativi che nella capitale sono convinti di questa ipotesi, l'obiettivo del commando non era quindi l'Italia. Luca Attanasio, 43 anni, Vittorio Iacovacci, 30, e Mustapha Milambo sono tre delle tante vittime del conflitto sotterraneo tra Kabila e Tshisekedi. «Non significa che l'ex presidente sia coinvolto», spiega una fonte a Kinshasa, «ma tra gli ufficiali e i miliziani finanziati di nascosto da Kabila, molti temono la perdita di potere del loro protettore. Stare all'opposizione, in questa parte dell'Africa, significa essere esclusi dagli affari che contano».

LO SGARBO DELL'AMBASCIATORE AMERICANO. Joseph Kabila, 49 anni, ha guidato la Rdc dal 2001 al 2019, dopo l'omicidio del padre presidente Laurent-Désiré Kabila. Dal 25 gennaio di due anni fa il vincitore delle elezioni, Félix Tshisekedi, ne ha preso il posto e ha accompagnato la prima transizione di governo senza particolari spargimenti di sangue. L'equilibro, garantito dalla nomina del premier e di alcuni ministri scelti tra gli esponenti del Fronte comune per il Congo di Kabila, è venuto meno il 29 gennaio di quest'anno con il voto di sfiducia da parte dell'Assemblea nazionale. Diversi parlamentari avevano infatti voltato le spalle all'Fcc dell'ex presidente. Joseph Kabila, molto gradito a Pechino, mantiene comunque il controllo sull'attività mineraria e continua ad avere un ampio sostegno tra gli ufficiali di esercito e polizia. Come fa notare la rivista “Jeune Afrique”, oggi il potere nella Repubblica Democratica del Congo è esercitato da cinque istituzioni: il presidente, il Parlamento, il governo, l'autorità giudiziaria e Mike Hammer. Il suo cognome in inglese significa martello: Michael Hammer è l'ambasciatore degli Stati Uniti a Kinshasa, nominato dall'amministrazione Trump e tuttora in carica, che durante il 2020 ha costantemente martellato l'alleanza tra Kabila e Tshisekedi. Una strategia che esclude dal dialogo l'Fcc dell'ex presidente. Ed è ovviamente ben accolta dall'attuale capo dello Stato. Il colpo definitivo risale al 22 ottobre scorso, quando gran parte degli ambasciatori di Stati Uniti e Unione Europea si sono incontrati con Félix Tshisekedi, dimostrando tacitamente il loro appoggio al nuovo corso che porterà presto il partito di Kabila all'opposizione. Lo stesso giorno Hammer ha annunciato lo stanziamento di altri sei milioni di dollari per il programma di distruzione di armi convenzionali nella Repubblica Democratica del Congo. «Da diciotto anni gli Stati Uniti cercano di promuovere la stabilità e la sicurezza, in particolare nell'Est del Congo», spiega l'ambasciatore americano: «Gli Stati Uniti hanno migliorato la sicurezza di ottantuno depositi di munizioni, addestrato circa duecento custodi e distrutto più di millesettecento tonnellate di munizioni e centottantamila armi in eccesso». Il sequestro e la distruzione di fucili d'assalto e ordigni è un'operazione necessaria al termine di ogni conflitto. Ma nei territori a Nord e a Sud di Goma questo significa disarmare anche i miliziani con cui la fazione di Kabila fa il suo gioco sfruttando il disordine. L'esercito privato più famoso si chiama M23 e già nel 2017 era stato accusato dall'organizzazione internazionale Human Rights Watch della morte indiscriminata di decine di civili, durante le proteste contro Joseph Kabila nei suoi ultimi mesi di mandato.

ANCHE LA FRANCIA SCENDE IN CAMPO. Le settimane che precedono la morte dell'ambasciatore Attanasio sono cruciali. Da gennaio, infatti, il presidente Félix Tshisekedi mostra apertamente di voler uscire dall'orbita cinese, dove il suo predecessore aveva condotto la Repubblica Democratica del Congo. La rinata collaborazione con gli Stati Uniti prevede ora percorsi di addestramento militare congiunto, l'autorizzazione ad attività della Cia sul campo e, in futuro, la possibile apertura di una base di Africom, il comando americano delle operazioni in Africa. Ma dove si muove Washington, la Francia non resta a guardare. Il 5 gennaio a Kinshasa l'ambasciatore François Pujolas ha inaugurato l'anno accademico della Scuola di guerra di Kinshasa: è il nuovo centro di addestramento che formerà i futuri comandanti congolesi, sotto lo stretto controllo di Parigi. L'obiettivo non è solo contrastare la Cina nelle future concessioni minerarie per coltan, cobalto, gas e petrolio, ma anche la sua penetrazione strategica nel cuore dell'Africa. Quattro giorni dopo l'attacco sulla strada tra Goma e Rutshuru, il presidente Tshisekedi ha infatti parlato al telefono con la vicepresidente americana Kamala Harris per quasi un'ora. «Entrambi sono d'accordo sulla necessità di collaborare per garantire la pace nell'Est della Repubblica Democratica del Congo e nella regione», conclude il suo comunicato Mike Hammer. Forse il 22 febbraio, sul piccolo convoglio delle Nazioni Unite con l'ambasciatore Attanasio e i suoi accompagnatori lasciati senza scorta, la nuova guerra fredda ha davvero sparato i suoi primi colpi.

L’importanza del ruolo dell’Italia in Africa. Mauro Indelicato su Inside Over il 13 marzo 2021. L’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio dello scorso 22 gennaio, ha riproposto al centro dell’attenzione il ruolo che il nostro Paese può rivestire in Africa. Il diplomatico, rimasto ucciso assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci a seguito di un agguato nella Repubblica Democratica del Congo, rappresentava l’Italia a Kinshasa e dunque nel cuore del continente africano. Una zona che forse all’opinione pubblica appare molto lontana, tanto a livello geografico quanto sotto il profilo dei nostri interessi nazionali. Ma in realtà è proprio qui, assieme ad altre aree dell’Africa, che convergono una serie di questioni delicate sotto il profilo politico ed economico in grado di riguardarci da vicino. Ed è proprio qui che l’Italia deve continuare ad esserci.

In che modo l’Italia è presente in Africa. Per provare a mantenere un ruolo di primo piano negli scenari internazionali più delicati, Roma deve continuare ad essere presente anche negli angoli solo apparentemente più remoti del continente africano. Luca Attanasio era in missione in una provincia, quale quella del North Kivu, funestata da anni di guerre, carestie e crisi sanitarie. Una zona instabile e dalle precarie condizioni di sicurezza, difficile anche da raggiungere. Eppure anche lì l’Italia era presente, in primis con il nostro ambasciatore ucciso poi nell’imboscata. Ma anche con diverse organizzazioni umanitarie che da anni operano nell’area. Quello del Congo è solo un esempio, reso molto attuale dalla tragedia che ha colpito Attanasio. Sono diversi i territori dove l’Italia è presente sotto varie forme. A partire proprio da quella diplomatica. Sono 25 le ambasciate italiane in Africa, l’ultima è stata aperta in Niger nel gennaio 2018. A Tripoli la sede della nostra rappresentanza diplomatica è l’unica realmente operativa tra quelle dei Paesi occidentali. Sono presenti poi diversi consolati sparsi in quasi tutti i Paesi africani. Una ragnatela di rappresentanze che rende bene l’idea dell’importanza per l’Italia di essere presente nel continente. C’è poi l’aspetto militare. In Africa i nostri soldati sono impegnati in diverse operazioni. Proprio in questi giorni in Mali dovrebbero arrivare membri delle forze armate italiane per avviare definitivamente la missione Takuba. Non molto distante, dal 2018 operano in Niger altri nostri militari in una missione volta all’addestramento delle forze locali. L’Italia nel Sahel è chiamata soprattutto a frenare le avanzate dei terroristi e dar manforte agli eserciti di questi Paesi nel contrasto all’immigrazione irregolare. Buona parte dei flussi migratori che arrivano in Libia hanno proprio nel Niger il principale snodo. Terrorismo e immigrazione sono alcuni dei principali interessi che riguardano da vicino il nostro Paese. Militari italiani sono presenti anche nel corno d’Africa, a partire dalla Somalia. A Gibuti è operativa la base Amedeo Guillet, a sostegno soprattutto delle operazioni anti pirateria. A largo delle coste del Benin, nello scorso mese di novembre, la fregata Federico Martinengo della Marina militare italiana è intervenuta per sventare l’attacco di pirati contro una nave cargo.

Gli investimenti del nostro Paese. Occorre sottolineare poi il lato economico. Secondo la United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), l’Italia è al sesto posto tra i Paesi che hanno maggiormente investito in Africa. Davanti al nostro Paese soltanto Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Gli investimenti diretti italiani nel continente dal 2018 in poi sono ammontati ad una media di 28 miliardi di Euro. A trainare l’Italia nella top ten di questa speciale classifica, sono soprattutto le operazioni di alcune grandi aziende operanti nel settore energetico. L’Eni ad esempio ha diversi stabilimenti in Libia, così come in Nigeria e in altri 12 Paesi africani. Proprio la società italiana nel 2015 si è resa protagonista della scoperta del giacimento di gas di Zohr, dirimpettaio alle coste egiziane e accreditato come il più grande del Mediterraneo. In Africa c’è anche la presenza di Enel, mentre in Etiopia la cosiddetta “Diga della rinascita” è stata costruita dalla Impregilo.

L’importanza della permanenza dell’Italia. Economia, petrolio, sicurezza, immigrazione, sono soltanto alcuni dei temi che giustificano una significativa presenza del nostro Paese in Africa. L’argomento quindi, specialmente dopo la morte di Luca Attanasio, è tornato ad essere tra quelli più centrali in tema di politica estera italiana: “La tragica morte dell’ambasciatore e del carabiniere – ha dichiarato nei giorni scorsi Carlo Fidanza, responsabile esteri di Fratelli d’Italia – ha riacceso i fari su un continente dimenticato dalla politica estera italiana. L’instabilità politica, lo sfruttamento neocoloniale, il ruolo crescente della Cina, l’espansione del radicalismo islamico, i fenomeni migratori impongono una maggiore attenzione da parte dell’Italia e dell’Europa. Ci auguriamo che alla Farnesina qualcuno decida di occuparsene”. A fargli eco la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: “L’Africa è un continente ricchissimo di materie prime, nonostante sia il più povero del mondo. Nessuna “transizione energetica” e “green economy” sarebbe possibile senza l’Africa ma il leader mondiale dell’estrazione e trasformazione dei metalli in materiale tecnologico è la Cina – si legge in una sua recente dichiarazioni – L’Africa è la più grande riserva mondiale del “nuovo petrolio”, consentire agli africani di godere della loro ricchezza è la chiave per inaugurare una nuova stagione di prosperità e libertà per tutti”. Interventi che potrebbero preludere, a margine dei tragici eventi che hanno riguardato il nostro ambasciatore in Congo, a una nuova fase di dibattito sul ruolo italiano nel continente africano.

I sospetti per la morte dell’ambasciatore italiano vengono interrogati. Agguato in Congo, arresti per l’omicidio di Attanasio e Iacovacci: “C’è un’organizzazione”. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2021. L’indagine sull’attentato di Kibumba, in Congo, in cui morirono lo scorso 22 febbraio l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo, porta ad una prima svolta. Le autorità della Repubblica democratica del Congo hanno arrestato alcuni sospettati, come riferito dal presidente congolese Felix Tshisekedi, citato dal sito di informazione Actualite. Le indagini comunque continueranno perché, ha spiegato Tshisekedi, “al di là di questi sospetti, c’è sicuramente un’organizzazione”. Gli autori dell’attacco in cui morirono Attanasio, Iacoavvi e Milambo, ha sottolineato ancora il presidente congolese, erano organizzati “in bande, sono banditi che intercettano e aggrediscono gli automobilisti sulla strada e che hanno sicuramente qualcuno che li guida. Questo è tutto ciò che dobbiamo mettere insieme e risalire come una catena”. All’inchiesta hanno collaborato i servizi italiani, ha aggiunto ancora Tshisekedi. L’ambasciatore Annatasio venne ucciso in un agguato nel parco nazionale dei Virunga, a nord di Goma, non lontano dal confine col Ruanda, mentre era assiema al carabiniere Iacovacci e all’autista. Il diplomatico, ferito all’addome, morì poco dopo all’ospedale Onu di Goma. “Conoscevo personalmente questo ambasciatore. È terribile. Sono rimasto davvero sconvolto dalla sua morte. Mi motiva di più a cercare sospetti e soprattutto a porre fine a queste sacche di violenza nella parte orientale del Paese”, ha sottolineato il presidente congolese, che attualmente si trova a Parigi in occasione della Conferenza per il sostegno alle economie africane. Al momento comunque la Procura di Roma non avrebbe ricevuto comunicazioni in merito.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 23 maggio 2021. Gli arresti a marzo di alcuni banditi nella Repubblica democratica del Congo sarebbero, almeno per le massime autorità locali, il primo passo per arrivare alla verità sull'assassinio dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, uccisi in un agguato mentre viaggiavano a bordo di un'auto del Programma alimentare mondiale (il Pam). A spiegare un possibile coinvolgimento di alcune persone, fermate due mesi fa, nell'omicidio dei nostri connazionali è lo stesso presidente congolese Félix Tshisekedi: «Ci sono sospetti che sono stati arrestati e vengono interrogati. al di là di questi sospetti, c'è sicuramente un'organizzazione». Tuttavia il peso che il capo di stato del Congo attribuisce agli uomini fermati dalla polizia del paese centro africano, in un'intervista rilasciata ieri, ha colto di sorpresa gli investigatori italiani, così come la Farnesina. Insomma da Roma quegli arresti non vengono considerati così decisivi come ritiene Kinshasa. Intanto Tshisekedi, nella sua analisi, ha evocato una possibile rete: «Sono banditi che intercettano e aggrediscono gli automobilisti sulla strada, organizzati in bande e che hanno sicuramente qualcuno che li guida. Questo è tutto ciò che dobbiamo mettere insieme per risalire agli altri anelli della catena».

LA DINAMICA. La mattina del 22 febbraio, Attanasio e Iacovacci stavano viaggiando sulla strada tra Goma e Rutshuru, in una regione del Paese africano - il Nord Kivu - da anni teatro di violenti scontri tra decine di milizie che si contendono il controllo del territorio e delle sue risorse naturali. Il diplomatico italiano avrebbe dovuto visitare un programma di distribuzione di cibo nelle scuole dell'agenzia dell'Onu, fresca di Nobel per la pace. Le due auto del Pam furono invece fermate a circa 15 chilometri da Goma, nei pressi di Nyiaragongo, nel parco nazionale di Virunga. A bloccarle un commando di sei persone che aprì il fuoco, prima sparando in aria, poi uccidendo l'autista. Gli assalitori avrebbero quindi portato il diplomatico e il carabiniere della scorta nella foresta dove esplose un conflitto a fuoco con una pattuglia di ranger e con forze dell'esercito locale.

CONFLITTO A FUOCO. Uno scontro nel quale Iacovacci e Attanasio rimasero colpiti a morte. Inutile per il diplomatico un disperato viaggio verso l'ospedale di Goma. Immediatamente il governo di Kinshasa aveva puntato il dito contro le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, ribelli di etnia Hutu conosciuti per il genocidio del 1994, che hanno stabilito la loro roccaforte nell'area dell'agguato. Ma fin da subito la verità sulla morte dell'ambasciatore è sembrata nascondersi dietro una coltre sempre più fitta di affermazioni contraddittorie, di smentite, di rimpalli di responsabilità, in particolare su chi doveva proteggerlo e su chi aveva la responsabilità della sua sicurezza durante quell'ultimo viaggio. Poche settimane dopo la morte di Attanasio, in Congo è stato ucciso anche un magistrato militare che indagava sull'agguato, in un'imboscata sulla stessa strada Rutshuru-Goma.

LE TRE INDAGINI. Sono tre le indagini che in contemporanea cercano di fare luce sull'agguato del 22 febbraio: una del Dipartimento per la sicurezza delle Nazioni Unite, una della magistratura italiana, il pubblico ministero è Sergio Colaiocco, e l'ultima della Repubblica democratica del Congo. «Dobbiamo mettere tutti gli elementi in fila. Abbiamo la collaborazione dei servizi italiani e stiamo lavorando duramente», assicura Tshisekedi. Il presidente congolese quest' anno ricopre anche il ruolo di presidente ad interim dell'Unione africana. Adesso la notizia degli arresti sembra riaccendere la speranza di avvicinarsi ai colpevoli, o perlomeno di rispondere a qualcuno dei molti interrogativi che ancora avvolgono il destino del diplomatico italiano.

A che punto sono le inchieste sulla morte dell’ambasciatore Attanasio. Mauro Indelicato su Inside Over il 3 giugno 2021. Sono passati più di tre mesi da quando l’ambasciatore Luca Attanasio, nostro rappresentante diplomatico nella Repubblica Democratica del Congo, e il carabiniere Vittorio Iacovacci sono deceduti a seguito di un agguato nella provincia del North Kivu. Assieme a loro è morto anche l’autista congolese Mustapha Milambo. Da allora è stato registrato soltanto qualche passo in avanti nelle indagini, ma gli assassini non hanno ancora né un nome e né un volto. Si è parlato nei giorni scorsi di sospetti, lo ha fatto in primo luogo il presidente congolese Félix Tshisekedi, ma il quadro non sembra abbastanza chiaro. Su quella tragica vicenda di recente è tornata nuovamente la politica. Il 14 maggio scorso infatti il vice ministro degli Esteri, Marina Sereni, ha risposto a un’interrogazione relativa alle responsabilità sulla sicurezza dell’ambasciatore. Le sue frasi hanno innescato non poche polemiche.

Il punto sulle tre indagini. L’agguato è scattato nella mattinata del 22 febbraio. L’ambasciatore Luca Attanasio stava viaggiando in un convoglio del Programma Alimentare Mondiale (Pam) da Goma, capoluogo del North Kivu, alla città di Rosthuru. Il mezzo con a bordo il rappresentante diplomatico, scortato dal carabiniere Vito Iacovacci, è stato raggiunto da alcuni colpi di arma da fuoco mentre percorreva la N2, la strada adiacente al Virunga National Park. Il militare di scorta sarebbe morto sul colpo, Attanasio invece almeno 50 minuti dopo rendendo vana la corsa nell’ospedale di Goma. Questo è il primo responso dato dalle autopsie. Da quel momento sono state aperte tre inchieste. La prima, già ufficialmente consegnata alle autorità italiane, è delle Nazioni Unite. L’evento a cui l’ambasciatore stava per partecipare era organizzato dal Pam, la quale è un’agenzia dell’Onu. Da qui l’apertura del fascicolo in seno al palazzo di Vetro. Il 20 marzo da qui è arrivata la notizia della conclusione delle indagini. Il fascicolo è stato messo a disposizione del nostro Paese, tuttavia i contenuti, su espressa richiesta dell’Onu, non devono essere divulgati per via della sensibilità di alcuni dati contenuti. C’è poi l’indagine in corso in Congo. E qui la situazione è ancora più delicata. Basti pensare che il primo magistrato congolese a prendere in mano l’inchiesta è stato assassinato il 5 marzo scorso, dunque due settimane dopo l’agguato fatale all’ambasciatore. Si chiamava William Assani e l’auto nel quale viaggiava, anche in questo caso da Goma a Rosthuru, è stata raggiunta da proiettili sparati lungo la N2. L’inchiesta però sta andando avanti. Ad oggi ci sono diversi punti chiave che hanno aiutato a capire quanto meno la dinamica dell’azione contro Attanasio. In particolare, l’assalto non è stato organizzato dai gruppi che da anni nella zona lottano per il controllo del territorio. Dunque, l’imboscata non è stata opera né delle Forze Democratiche Ruandesi (Fdlr), né dei miliziani jihadisti stanziati da diverso tempo più a nord del luogo dell’agguato. Ad agire invece sono state bande di criminali il cui unico scopo era rapire un occidentale a scopo estorsivo. Una circostanza confermata dallo stesso presidente Tshisekedi nei giorni scorsi durante un’intervista rilasciata sul sito Actualité: “Le indagini continuano – ha dichiarato il capo dello Stato congolese – sono stati arrestati alcuni sospetti: vengono interrogati e dietro di loro c’è sicuramente un’intera organizzazione. Sono banditi di strada organizzati in gang, sicuramente hanno chi li guida. Dobbiamo risalire a questa catena”. Gli arresti di cui ha parlato Tshisekedi però non sarebbero recenti ma, al contrario, risalirebbero al mese di marzo. Una precisazione resa nota da fonti governative italiane dopo l’intervista del presidente congolese. Il terzo fascicolo è stato aperto a Roma. Le indagini nella capitale sono coordinate dal procuratore Michele Prestipino, assieme ai pm Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti. Agli atti è stata acquisita la testimonianza di un italiano superstite dell’agguato, ossia il vice direttore di Pam in Congo, Rocco Leone. Quest’ultimo ha raccontato del sequestro dell’ambasciatore e del tentativo di fuga di Attanasio coperto dal carabiniere Iacovacci. Sarebbero partiti proprio in quel frangente i colpi fatali a entrambi. A Roma si sta indagando su due binari: da un lato si sta provando a dare un nome e un volto agli assassini, dall’altro si sta affrontando la questione relativa alla sicurezza. Capire cioè se ci sono state falle nei sistemi di protezione del nostro ambasciatore.

Il discorso relativo alla sicurezza. Proprio la sicurezza sta rappresentando un fronte molto caldo. A livello investigativo, gli inquirenti si sono trovati davanti a un rebus: a chi faceva capo la responsabilità? In ballo potrebbe esserci il ministero degli Esteri. Ma al tempo stesso c’è chi ha puntato il dito contro il Pam e dunque l’Onu, visto che il convoglio era delle Nazioni Unite. Il Palazzo di Vetro potrebbe essere tirato in ballo anche per la presenza nella regione del North Kivu di migliaia di caschi blu della missione Monusco. Infine c’è la possibile responsabilità del governo locale. La questione non è semplice da risolvere: Farnesina, Onu e governo congolese hanno tre distinti protocolli di sicurezza, difficile comprendere in primo luogo quale doveva essere applicato. Sotto il profilo politico, a marzo sulla vicenda è stata presentata un’interrogazione al Senato da parte Claudio Barbaro e Isabella Rauti, esponenti di Fratelli d’Italia. I due hanno chiesto dettagli sui livelli di sicurezza del corpo diplomatico in Congo e sulle possibili responsabilità della morte di Attanasio. Per il governo a rispondere è stato il vice ministro degli Esteri Marina Sereni: “L’ambasciatore d’Italia a Kinshasa (Repubblica democratica del Congo) è la figura individuata quale datore di lavoro – si legge nella risposta pubblicata il 14 maggio – cui spettano, nell’ambito della propria autonomia gestionale e finanziaria, la valutazione dei rischi ed ogni opportuno intervento a mitigazione degli stessi, con pieni poteri organizzativi e di spesa”. Sereni ha fatto riferimento, tra le altre cose, anche al decreto del Presidente della Repubblica n. 54/2010, la norma che regola l’autonomia gestionale e finanziaria delle rappresentanze diplomatiche. La risposta data dalla rappresentante del governo ha innescato la reazione di Barbaro e Rauti: “La tesi sostenuta dal governo –si legge in una nota dei due senatori – è sconcertante, avvilente e denigratoria per memoria di due Servitori dello Stato. Le norme riportate a sostegno delle tesi in risposta, assegnano allo stesso Attanasio le responsabilità tipiche del datore di lavoro. È altresì da ricordare come lo stesso ambasciatore, nel novembre del 2018, chiese il rafforzamento del proprio assetto di protezione ravvicinata: come mai lo chiese se aveva ampi poteri decisionali e di spesa in materia di sicurezza?”.

(ANSA il 9 giugno 2021) C'è un primo indagato nell'indagine della Procura di Roma relativa alla morte dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, morti in Congo il 22 febbraio scorso. Si tratta di un funzionario del Programma alimentare mondiale (Pam) accusato di omesse cautele in relazione all'omicidio dei due italiani. L'indagato, cittadino congolese, era il responsabile della sicurezza del convoglio sul quale viaggiavano Attanasio e Iacovacci. L'iscrizione, effettuata dal procuratore Michele Prestipino e del sostituto Sergio Colaiocco, è avvenuta dopo l'audizione del funzionario. Il secondo filone di indagine, in cui si ipotizza il reato di tentativo di sequestro di persona con finalità di terrorismo, è al momento senza indagati. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti, che hanno affidato gli accertamenti ai carabinieri del Ros, i due italiani sono morti nel corso di un conflitto a fuoco tra la banda di sei sequestratori, armati di kalashnikov e macete, e i Ranger del parco di Virunga, nella zona nord-est del Paese africano, intervenuti sul luogo. Attanasio e Iacovacci era stati prelevati dalla jeep dalla banda e portati all'interno della foresta. Dopo circa un chilometro l'intervento dei guardia parco e la sparatoria. Nel corso del conflitto il carabiniere Iacovacci tentò di allontanare l'ambasciatore dalla linea di fuoco ma i due rimasero uccisi dai proiettili sparati dagli assalitori.

Luigi Guelpa per “Il Giornale” il 10 giugno 2021. Potrebbe esserci una svolta nelle indagini della morte di Luca Attanasio, l'ambasciatore italiano in Congo trucidato lo scorso 22 febbraio insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, e all'autista Mustapha Milambo. La procura di Roma ha infatti indagato un funzionario del World Food Programme, il Programma alimentare mondiale, nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio. I pubblici ministeri contestano i reati di omesse cautele in relazione al delitto, secondo gli articoli 40 e 589 del codice penale. La formalizzazione dell'accusa è avvenuta dopo l'audizione del funzionario congolese, responsabile della sicurezza del convoglio dei due italiani. Gli accertamenti sulla vicenda, coordinati dal procuratore Michele Prestipino e seguiti dal pm Sergio Colaiocco, hanno portato dopo settimane di lavoro ad avere un quadro completo ed esauriente su quanto avvenuto in quella tragica mattina nei pressi della località di Nyiaragongo, nella regione del nord del Kivu. Sulla base di quanto riferito dai testimoni, e accertato dalle consulenze medico legali, i due italiani sono stati fermati e catturati in una zona del parco del Virunga e portati con la forza a un paio di chilometri di distanza. Prima però i guerriglieri hanno eliminato l'autista Milambo con un colpo alla testa. E mentre Attanasio e Iacovacci risalivano il primo tratto di una zona montuosa, sotto la minaccia di sei assalitori armati di mitragliatori kalashnikov e di machete, sono intervenuti i ranger del parco che hanno innescato un conflitto a fuoco con i rapitori. Iacovacci, che era di scorta, ha tentato fino all'ultimo di salvare Attanasio, sottraendolo alla linea di fuoco e facendo scudo con il proprio corpo. Una volta ucciso il carabiniere, e messi in difficoltà dall'intervento dai ranger, gli assalitori si sono dati alla fuga non prima di aver esploso alcuni colpi di arma da fuoco verso l'ambasciatore italiano, morto durante il disperato trasporto all'ospedale di Goma. Per quel che riguarda il filone dell'inchiesta sull'omicidio, i magistrati procedono per il reato di sequestro con finalità di terrorismo. Gli elementi a disposizione degli inquirenti sono però ancora pochi, nonostante lo scorso 22 maggio il presidente della repubblica Félix Tshisekedi dichiarò che i suoi uomini avevano «stretto le manette ai polsi di soggetti che hanno avuto un ruolo importante nella morte dell'ambasciatore italiano». Il funzionario del World Food Programme, che era responsabile della sicurezza, non sarebbe al momento coinvolto nell'imboscata di Nyiaragongo. L'uomo, un cittadino congolese, non avrebbe curato con la dovuta attenzione il sistema di sicurezza e per questo è accusato di omesse cautele in relazione all'omicidio dei due italiani e del loro autista. Non si escludono però a questo punto nuovi colpi di scena nelle indagini, soprattutto dopo quanto dichiarato nei giorni scorsi dal ministro degli interni congolese Daniel Aselo Okito, convinto che Attanasio sia stato tradito da qualcuno del suo staff. «I malviventi conoscevano molto bene non soltanto il tragitto del convoglio diplomatico - ha rivelato alla tv RTNC - ma anche l'orario esatto in cui sarebbe caduto nell'imboscata. É chiaro che qualcuno ha parlato in cambio di denaro». Anche gli inquirenti congolesi sono convinti, al di là di quale gruppo sia responsabile dell'assalto, che si sia trattato di tentativo di sequestro e non di rapina finita male.

Da liberoquotidiano.it il 13 luglio 2021. Michele Colosio, volontario italiano di 42 anni, è stato ucciso con quattro colpi di pistola a San Cristobal de Las Casas, in Chiapas, Messico. Lo riporta il Giornale di Brescia. L'uomo, originario di Borgosatollo (in provincia di Brescia) sarebbe stato ucciso mentre andava a fare la spesa a pochi passi da casa. Colosio (nella foto pubblicata sul GdB) da una decina d'anni faceva la spola tra il suo Paese, dove è sempre rimasto residente, e il Messico in cui aveva avviato dei progetti di cooperazione. Da una prima ricostruzione sembrerebbe che a sparare sia stato un motociclista. Non è ancora chiaro, però, se sia trattato di un tentativo di rapina finito male o di un agguato in piena regola. Il volontario pare sia stato subito soccorso e trasportato in ospedale ma le ferite riportate sarebbero state troppo gravi. Ex tecnico di radiologia agli Spedali civili di Brescia, aveva lasciato tutto per dedicarsi a un piccolo podere in Messico in cui allevava animali da cortile e progettava interventi per l'istruzione dei bambini poveri del posto.  Colosio, come rivela El Coleto Informa, aveva fatto di tutto: artigiano, pastore di capre, contadino, meccanico di biciclette, ed era convinto che il suo compito fosse quello di darsi da fare per aiutare gli altri. "Non meritava di fare questa fine, era andato là solo per fare del bene", ha detto Daniela Stanga, la madre di Michele. La donna, che vive ancora a Brescia, vorrebbe raggiungere il Messico nelle prossime ore ed è attualmente in contatto con le autorità per il rientro della salma di suo figlio. 

Chiara Baldi per "la Stampa" il 14 luglio 2021. Michele Colosio aveva scelto il Messico ormai dieci anni fa. Non per una ragione precisa, raccontano gli amici della comunità italiana in Chiapas, ma perché lì si sentiva a casa: certo, il movimento zapatista lo aveva affascinato, ma era stata più la casualità a portarlo tra le montagne. Domenica sera «Miguel» - così ormai lo chiamavano tutti, sia nel paese che lo aveva adottato che in quello d'origine, Borgosatollo, novemila abitanti in provincia di Brescia - è stato freddato con quattro colpi di pistola da un uomo in sella a una moto mentre tornava a casa dopo la partita degli Europei. Forse una rapina - anche se a sparire è stato solo un «vecchio cellulare senza valore» - o forse perché i confini di quel terreno che Colosio, ex radiologo degli Spedali Civili di Brescia, aveva acquistato per allevare capre e costruire casette ecologiche, davano fastidio ai contadini indigeni «che qui si ammazzano per un nonnulla», raccontano gli amici messicani. Della vicenda si sta occupando il ministero degli Esteri: «L'Ambasciata italiana a Città del Messico è in contatto sia con le autorità di polizia messicane per seguire lo sviluppo della vicenda, sia con i familiari della vittima, a cui sta prestando la massima assistenza». Mentre ieri sera la Casa di accoglienza Yi' bel Ik' «Raiz del Viento» di San Cristobal, per cui Colosio aveva prestato servizio come volontario, ha organizzato una veglia in suo ricordo: «La bontà del suo cuore lo aveva avvicinato alla nostra comunità, perché Michele era convinto di dover dare, dover aiutare tante persone, senza distinzione di lingue, confini e colore della pelle» ha scritto l'associazione su Facebook. «Miguel - hanno spiegato - è morto in seguito a un'aggressione, una delle tante che si verificano quotidianamente nella "Città Magica" di San Cristobal, località in balia di tanti gruppi armati (criminalità comune, organizzata, narcotrafficanti, gruppi d'assalto e paramilitari, sicari in uniforme) che agiscono grazie alla complicità di tutti i governi e alla corruzione di tutte le forze di polizia. Il marciume istituzionale, la povertà diffusa e l'impunità hanno trasformato questa bellissima città nell'ennesimo inferno fra le migliaia esistenti in questo Paese ferito». Ma proprio in quel paese Colosio voleva costruire il suo futuro: un podere in cui allevare capre, alcuni piccoli bungalow da affittare, la passione per la natura, la vita da vivere un po' alla giornata. A Borgosatollo vive ancora la madre. «Non meritava di fare questa fine, era andato là solo per fare del bene», ha detto Daniela Stanga, che in Chiapas era volata più volte per andare a trovare il figlio. Ma a piangere Colosio nel paese in cui l'uomo era nato, sono in molti. Il sindaco Giacomo Marniga lo ricorda come «uomo bono», mentre gli amici hanno voluto scrivere una lunga mail per ricordarlo. «La tua bontà e allegria - scrive Davide - sono sempre stati contagiosi. Hai dedicato questi anni della tua vita alle tante persone in difficoltà che incontravi sulla sua strada. Non sarai dimenticato e resterai un esempio per tanti». Pierlaura e Andrea raccontano invece della sua vitalità: «Miguel, arrivavi sempre all'improvviso come un tornado e con i tuoi racconti di mille avventure e le grandi risate il tempo rallentava, facevi dimenticare a chiunque lo stress e la routine. Il tuo pandino a metano, il viola, la bicicletta, il coraggio e la libertà di viaggiare e poter cambiare sempre. Dicevi che a casa nostra un bicchiere di vino per te c'era sempre. E se casa nostra esiste è anche merito tuo. Berremo sempre un po' di rosso alla tua salute».

Cristiana Mangani per il Messaggero il 17 luglio 2021. Una esecuzione: quattro colpi sparati a distanza ravvicinata. La morte di Michele Colosio, il volontario italiano che viveva e lavorava a San Cristobal de las Casas, in Chiapas (Messico), non è stata causata da una rapina. Le indagini della polizia messicana stanno prendendo una pista ben diversa dall'assalto per il furto di qualche soldo, sebbene in quelle zone si uccida per molto meno. Colosio, 42 anni, tecnico radiologo, nato a Borgosatollo nel bresciano, si occupava di cooperazione e collaborava con la Casa de salud comunitaria Yì Bel ik- Raiz del Viento.

I KILLER L'agguato è avvenuto la sera dell'11 luglio scorso, dopo la vittoria dell'Italia ai Campionati europei. Colosio si era recato in un negozio per fare un po' di spesa, quando è stato avvicinato nei pressi della propria abitazione da una o più persone, che sono arrivate forse a bordo di uno scooter, e potrebbero avergli detto qualcosa prima di cominciare a sparare. Il volontario è stato colpito frontalmente in diverse parti del corpo (all'addome, a una gamba, al torace). Karla Concepciòn Alcazar Velàsquez, ex moglie della vittima, ha ricevuto l'autorizzazione a ritirare la salma per farla cremare, ma l'operazione è stata bloccata dal vice Procuratore incaricato dell'inchiesta, Rene Daniel Gordllo Zavareta, visto che le indagini sono ancora aperte e potrebbe essere necessario effettuare qualche altro accertamento sul cadavere. La salma è ora nell'obitorio di Tuxtla Gutierrez, Capitale del Chiapas, in attesa delle decisioni delle Autorità competenti. Dalle prime indagini, l'esecuzione non sembra essere legata all'attività di volontariato di Colosio all'interno della Casa de salud comunitaria che, subito dopo il delitto aveva dedicato un post sui social alla vittima, insistendo sul fatto che in quella zona del mondo le bande criminali e i narcotrafficanti la fanno da padroni. E che Colosio era stato certamente assassinato durante una rapina finita male. La dinamica dell'omicidio, comunque, non è ancora chiara, si sta lavorando alla ricerca di un movente. Qualcuno potrebbe averlo ucciso per il suo impegno nella tutela degli ultimi e nella lotta alle ingiustizie. Colosio potrebbe aver dato fastidio a qualcuno con la sua attività di pastore e contadino, e anche con i suoi progetti legati ai bambini. «Non meritava di fare questa fine, era andato lì solo per fare del bene - si sfoga Daniela Stanga, la madre di Michele -. Era uscito di casa per fare delle compere in un negozio poco distante. Erano circa le 22, l'alba qui da noi. Qualcuno gli si è avvicinato e lo ha aggredito a colpi di pistola». I magistrati locali sembrano orientati a una esecuzione e non a una tentata rapina, proprio per le modalità in cui si è svolto l'agguato. Nella zona non sembrano esserci telecamere attive, anche se si sta cercando di fare ogni verifica su possibili testimoni e immagini. 

IL NARCOTRAFFICO In quell'area del Chiapas c'è una forte presenza di cartelli del narcotraffico, e in particolare il Cartello di Sinaloa, che detiene il pieno controllo della zona al confine con il Guatemala; il Cartello Jalisco Nueva Generación, che si estende fino alla costa sud-occidentale; e il Cartello del Golfo, che detiene il controllo della zona che si estende dal pacifico al confine con Oaxaca e alla parte meridionale di Veracruz. Nell'area della capitale Tuxla Gutiérrez domina il Cartello Los Zetas. E il 7 luglio scorso un gruppo armato di circa 80 persone è entrato nel Comune e ha bloccato l'autostrada Chenalhó-Pantelhó. Anche la procura di Roma ha aperto un'inchiesta per omicidio ed è in attesa delle informative dei carabinieri del Ros. Il fascicolo è seguito direttamente dal procuratore Michele Prestipino ed è al momento contro ignoti.

Dagotraduzione da La Prensa il 10 luglio 2021. Giorgio Scanu «era un uomo molto sensibile e arrabbiato» secondo i residenti di Santa Ana de Yusguare, Choluteca, nel sud dell’Honduras. L’italiano, linciato dalla folla, «parlava con la gente ma allo stesso tempo era un uomo dal carattere forte, molto arrabbiato. Non gli piaceva quando uno passava vicino a casa sua» ha detto ai media Dayanara Soriano, residente. Alcuni hanno raccontato che aveva vissuto in quella comunità per circa due anni, si era sposato e aveva due figli. «Ma la famiglia è andata a vivere a Tegucigalpa, e lui è rimasto solo. A volte i bambini venivano a trovarlo nei fine settimana» ha aggiunto Soriano. Secondo la ricostruzione la folla avrebbe linciato Scanu perché avrebbe messo fine recentemente alla vita di un anziano residente, Juan de Dios Flores. Ma per i cittadini, l’italiano si è tolto la vita. «Era un uomo che non scherzava con nessuno, due anni fa girava per le strade raccogliendo spazzatura. Aveva una famiglia, ma viveva da sola in una casetta sotto il ponte, si alzava presto per spazzare in un’azienda alimentare dove gli davano da mangiare». «Quel giorno ha iniziato a pulire il giardino dell’italiano, che era trascurato, e lì è iniziato il problema». 

Da "La Stampa" il 13 luglio 2021. La polizia dell'Honduras ha arrestato almeno cinque persone sospettate di aver preso parte al linciaggio e all'uccisione dell'italiano Giorgio Scanu, che ha coinvolto circa 600 persone armate di machete, bastoni e pietre a Santa Ana de Yusquare, nel sud del Paese centroamericano. Lo rende noto oggi il governo di Tegucigalpa, citato dall'agenzia Reuters sul proprio sito. Gli arrestati - prelevati ieri dalla polizia, hanno fra i 19 e i 55 anni. La folla inferocita accusava Scanu di aver pestato a morte e ucciso un anziano vicino di casa dopo un litigio. 

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2021. L'hanno ammazzato come un topo appestato, un serpente da schiacciare con ogni mezzo possibile. Giorgio Scanu, 66 anni, è stato linciato giovedì in Honduras a colpi di bastoni, machete e pietre, sotto gli occhi di poliziotti terrorizzati dalla ferocia del branco, e davanti alle telecamere dei cellulari, che hanno rilanciato in tempo reale la lapidazione in Rete. Erano in 600, contro un uomo solo e disarmato. Ieri sono stati arrestati cinque sospetti - quattro fra i 19 e i 27 anni e uno di 55. Nei video, orribili, che circolano online si vedono chiaramente i volti degli assassini. D'altronde, nello Stato centro-americano, il 90% degli omicidi resta impunito. Il Medio Evo ai tempi dei social network ha da ieri le sue immagini. Sono state girare nel quartiere Los Mangos a Santa Ana de Yusguare, villaggio ad un'ottantina di chilometri dalla capitale Tegucigalpa, verso l'Oceano Pacifico. Sarebbe un luogo bellissimo in cui vivere, l'Honduras. Se non fosse anche il terzo Paese più pericoloso dell'America Latina, secondo la classifica di "Insight Crime", dopo Giamaica e Venezuela: 37,6 assassinii ogni 100.000 abitanti. Una delle ultime vittime è Giorgio Scanu, che da oltre vent' anni aveva lasciato la Sardegna e la famiglia per trasferirsi in America Centrale dove aveva avuto altri due figli da una honduregna che però ora non viveva più con lui. L'uomo ha tentato di sottrarsi alla furia di chi lo voleva morto. Nei filmati, crudissimi, del suo linciaggio, lo si vede rattrappito sotto una stufa nel cortile di casa sua, in cerca di un nascondiglio inesistente mentre intorno urlavano «Uccidi quel cane, uccidilo!». Scanu chiede aiuto e pietà, invano. I quattro poliziotti accorsi per sedare la folla si limitano a bloccare la porta per impedire ad altri di entrare. In un altro spezzone di video, l'italiano è steso a terra, le gambe coperte di sangue, ormai agonizzante. Un uomo dà il colpo di grazia lasciando cadere una grossa pietra sulla sua faccia. Accanto a lui c'è un poliziotto, immobile. Quindi la torma ha dato fuoco alla casa e all'auto di Scanu e se n'è andata. L'italiano è morto in ospedale. Il procuratore del dipartimento di Choluteca ha aperto un'inchiesta e ha dichiarato che i poliziotti «hanno agito in modo negligente». La Farnesina sta seguendo il caso attraverso l'ambasciata italiana in Guatemala. Perché è stato ucciso forse non si saprà mai del tutto. I giornali locali riferiscono la versione degli abitanti di Yusguare: Scanu non piaceva a molti, era noto per i suoi scatti d'ira, ma la miccia della violenza di massa sarebbe stato l'omicidio di un anziano del posto: una telecamera privata, scrive il quotidiano E l Heraldo , mercoledì avrebbe ripreso Scanu mentre uccideva a sassate Juan de Dios Flores, un anziano del quartiere, forse ubriaco, colpevole di aver tagliato una pianta del suo giardino. Il giorno dopo, i parenti di Dios Flores sarebbero andati al comando di polizia chiedendo di arrestare "lo straniero" e di fronte al rifiuto degli agenti avrebbero raccolto centinaia di conoscenti, per "vendicarsi". Una versione che le autorità non hanno confermato, fino a ieri sera. Mauricio Turcios, sindaco di Yusguare, ha però difeso il suo villaggio «tan tranquilo, tan noble», dichiarando a El Heraldo che Scanu in passato «aveva già colpito un ragazzo e non permetteva a nessuno di passare sul marciapiede davanti alla sua casa... era proibito, e la gente del posto pensava che la polizia non facesse abbastanza per proteggerli dalla sua rabbia». Nel poverissimo Honduras, reso ancora più miserabile dalla pandemia, la vita vale davvero poco. La criminalità organizzata che gestisce anche il traffico di droga dal Sudamerica agli Stati Uniti è responsabile del 65% delle morti violente. E poi ci sono le faide fra gang - le famigerate Mara Salvatrucha (MS13) e Barrio 18 - per il controllo del racket. Mai, però, si era vista un'aggressione di massa così brutale, in un paesino di 10.000 abitanti dove in 600, fra cui donne e minori, d'improvviso si sono sentiti tutti giustizieri.

Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2021. Il migliore amico ancora non ci crede. «Giorgio ha ucciso il suo vicino di casa? Lo escludo assolutamente, la violenza non era nel suo modo di essere. Che cerchino la verità. È stato ammazzato con ferocia barbara. Una folla contro un uomo solo e indifeso». Efisio Cau e Giorgio Scanu, coetanei, si erano visti l'ultima volta poco più di tre anni fa, ma si sentivano spesso al telefono. «L'ultima volta mi ha detto che voleva aprire un ristorante a Tegucigalpa. "Ti aspetto, penso a tutto io: quando vuoi venire, ti mando il biglietto dell'aereo". Era in pensione, mi voleva come suo socio, aveva molti progetti». Giorgio Scanu era andato via dalla Sardegna più di 20 anni fa, addirittura quasi 30, dicono a Santa Giusta, centro che è praticamente periferia di Oristano, direzione Cagliari. Era nato a Donigala, una frazione vicina, si era spostato di qualche chilometro. Un primo matrimonio durato pochi mesi, giusto per veder nascere un figlio, il lavoro - apprezzato - come tecnico di telefonia. Ma poi alla Sirti, società che eseguiva appalti per Telecom Italia, è arrivata la crisi e la cassa integrazione. E lui aveva conoscenze a Deutsche Telekom. Gli hanno proposto di trasferirsi in Centro America, ha fatto le valigie ed è partito. Nel suo passato anche anni da calciatore, prima e seconda categoria, campionato dilettanti, fino alle partitelle fra amatori, fama di «mastino» come difensore laterale. «È vero, lo chiamavano Terrore - ricordano Sergio Vacca e Tino Melis, che si sono occupati delle squadre nelle quali ha giocato: Milis, Nurachi, Riola, paesi dell'Oristanese - perché in campo era deciso, gli attaccanti avversari giravano al largo. Giocava duro ma corretto. Ed era rispettato. La passione per il calcio l'ha sempre avuta. Ha dovuto smettere di giocare un po' per l'età e per qualche guaio muscolare. Ha voluto tentare anche come allenatore. Era duro anche con i suoi giocatori, pretendeva disciplina. È partito dicendo: il calcio mi mancherà». I primi anni da emigrato sono stati duri. Trasferte lunghe, sedi disagiate. Proposte di lavoro in Guatemala, possibilità di trasferirsi in Brasile. Ma ormai nell'Honduras si era rifatto una vita, nuovo matrimonio e due figli. «Certo, qui è tutta un'altra mentalità, l'Italia e la Sardegna sono un'altra cosa». Ogni tanto un po' di nostalgia. Nel 2005 qualche settimana di vacanza in Sardegna e una tentazione. Ma aveva subito rinunciato: «Sono ormai vicino alla pensione e vedo che qui non c'è lavoro. Che cosa ritorno a fare?».

(ANSA il 2 giugno 2021) "Spero in una soluzione rapida e serena per tutti, soprattutto per lui, per la sua famiglia e per i suoi amici". Così il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, all'ANSA, sul rapimento ad Haiti dell'ingegnere Vanni Calì, che per diversi anni, dal 1995, è stato assessore della giunta della Provincia di Catania, di cui era il Presidente. "E' stato in quegli anni - ricorda Musumeci - un grande assessore e un ottimo dirigente. Ha studiato a Catania e si è perfezionato al Politecnico di Torino, un professionista di altissimo livello, che si è formato lavorando nelle più grandi imprese di livello internazionale. Sono vicino alla sua famiglia - conclude il governatore - e spero con tutto il cuore che si arrivi a una soluzione serena per tutti e in tempi rapidi".

Mario Barresi per lasicilia.it il 2 giugno 2021. È quella di Vanni Calì, 74 anni, ingegnere conosciutissimo a Catania, l’identità dell’italiano rapito ad Haiti. Rapito ieri mattina nel cantiere dove stava lavorando, era lì per conto della ditta romana di costruzioni Bonifica Spa: si stava occupando della costruzione di una strada. Il rapimento sarebbe da ricondurre a scopi estorsivi, secondo quanto è trapelato ieri sera da fonti informate. La notizia è stata confermata dalla Farnesina. Insieme all’ingegnere siciliano sembra che ci fosse anche un altro tecnico, di cui per ora si ignora la nazionalità, che potrebbe essere stato anch’egli sequestrato, sebbene al riguardo non ci siano conferme. Haiti, uno fra i Paesi più poveri al mondo le cui condizioni si sono aggravate esponenzialmente con il terremoto del 2010, ha visto crescere negli ultimi anni la piaga dei sequestri a scopo di riscatto: 243 nel solo 2020, rispetto ai 78 dell’anno precedente. Fra i casi più recenti e clamorosi, il sequestro l'11 aprile di sette religiosi cattolici, tutti prelevati a forza da un albergo della capitale Port-au-Prince: tre preti e una suora haitiani, un sacerdote e una suora francesi, per i quali è stato chiesto il pagamento di un milione di dollari. Calì è responsabile della posa dell'asfalto sulla strada che collega i dipartimenti del Centro e del Nord di Haiti, sarebbe stato sequestrato da una nota gang locale chiamata “400 Mawozo”. Lo indicano fonti informate ad Haiti. Il sequestro, aggiungono, sarebbe avvenuto in una località chiamata Croix des Bouquets, un comune dell'entroterra non distante dalla capitale Port-au-Prince. Apprensione e paura a Catania, città dove il professionista è molto stimato. Laurea sotto il Vulcano e specializzazione al Politecnico di Torino, Calì ha alternato ruoli professionali in aziende (fu dirigente della Cogei e capo missione in Togo per la Staim) a incarichi dirigenziali. Fu anche assessore ai Lavori pubblici nella giunta dell’allora presidente della Provincia, Nello Musumeci, ma restò come esperto e consulente tecnico anche col successore Giuseppe Castiglione. Politicamente di destra (molto vicino a Enzo Trantino), alla Provincia l’ingegnere Calì è stato dirigente (Pianificazione territoriale, Protezione civile e Trasporti) per un decennio, fino al 2011. Prima di tornare in campo da “professionista imprenditore”, come ama definirsi, con una società di costruzioni specializzata in lavori all’estero. La famiglia, ovviamente, è stata avvisata dalla Farnesina. Ed è chiusa in un comprensibile silenzio, all’insegna della paura. Ma anche della speranza. «Haiti sta vivendo un’esplosione di rapimenti ed una condizione di insicurezza che condiziona tutta la popolazione», ha osservato l’ambasciatore d’Italia a Panama Massimo Ambrosetti, responsabile anche per Haiti, per il quale la tipologia di questo rapimento è senz'altro la stessa di quella vista nei casi già avvenuti, ossia a scopo di estorsione.

Il 74enne è stato assessore di Musumeci in Sicilia. Chi è Giovanni “Vanni” Calì, l’ingegnere italiano rapito ad Haiti: “Chiesti 500mila dollari”. Vito Califano su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Si chiama Giovanni Calì l’ingegnere italiano sequestrato ad Haiti. Quando ieri è stata data la notizia, l’identità dell’uomo non era stata resa nota. Si tratta del 74enne tecnico siciliano, originario di Catania. Per la sua liberazione sarebbe stata chiesta la cifra di 500mila dollari. Giovanni detto “Vanni” sarebbe stato rapito insieme con un cittadino haitiano. L’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri lavora sul caso. “Vanni” Calì è un ingegnere che lavora per la ditta romana di costruzioni Bonifica Spa. A rendere noto il suo nome il quotidiano La Sicilia. Calì è stato assessore ai Lavori pubblici alla Provincia di Catania, dal 1995, guidata in quegli anni dall’attuale Presidente della Regione Nello Musumeci. Successivamente l’ingegnere è stato mobility manager della Provincia. Calì si è laureato a Catania, si è specializzato al Politecnico di Torino, è stato dirigente della Cogei e capo missione della Staim. Quindi sub-commissario per l’emergenza cenere lavica durante l’eruzione dell’Etna del 2002. Con la Provincia ha collaborato come consulente tecnico e come dirigente di Pianificazione Territoriale, Protezione Civile e Trasporti per un decennio, fino al 2011. Calì è molto noto a Catania e in Sicilia. “È stato in quegli anni un grande assessore e un ottimo dirigente. Ha studiato a Catania e si è perfezionato al Politecnico di Torino, un professionista di altissimo livello, che si è formato lavorando nelle più grandi imprese di livello internazionale. Sono vicino alla sua famiglia e spero con tutto il cuore che si arrivi a una soluzione serena per tutti e in tempi rapidi”, ha dichiarato Musumeci. A essere contattata per il riscatto la famiglia del cittadino haitiano catturato con l’ingegnere. Quando è stato rapito Calì stava compiendo dei rilievi a Tabarre, un distretto di Port-au-Princ,e per la costruzione di un’autostrada. La pista del sequestro è stata fin dall’inizio quella più accreditata. Questo tipo di azioni sono molto frequenti nel Paese caraibico, dove nel solo 2020 sono stati registrati 243 sequestri. A inizio aprile il prelievo, che ha sconvolto il Paese, di sette religiosi cattolici francesi da un albergo della capitale, quindi liberati il 30 aprile. Per questi era stato chiesto un riscatto da un milione di dollari; non è stato mai chiarito se sia stato saldato. La vicenda ha provocato le dimissioni del premier Joseph Jouthe, sostituito da Claude Joseph. I sospetti si sarebbero mossi in direzione di una gang locale nota come 400 Mawozo. I rapimenti sono così comuni ad Haiti che i familiari delle vittime spesso ormai rivolgono appelli attraverso le radio per invitare i rapinatori a non fare del male ai sequestrati e per far partire delle collette.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Ad annunciarlo la Farnesina: non sono noti i dettagli. Haiti, liberato l’ingegnere Giovanni Calì dopo 22 giorni di sequestro. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Dopo 22 giorni di prigionia, è stato rilasciato Giovanni Calì, l’ingegnere italiano di 74 anni, originario di Catania, sequestrato ad Haiti da una banda di criminali comuni. Ad annunciarlo è la Farnesina che in una nota ricorda che “il nostro connazionale era stato prelevato presso il cantiere dove lavorava da un gruppo criminale locale. La liberazione, dopo soli 22 giorni, è stata possibile grazie al lavoro quotidiano della nostra intelligence e dell’Unità di Crisi della Farnesina, che ha mantenuto giorno dopo giorno i contatti con la famiglia in Sicilia”, si legge. “Grazie alla nostra intelligence e all’Unità di Crisi del ministero degli Esteri”, ha commentato il titolare del Dicastero Luigi di Maio, in un tweet pubblicato in piena notte. Calì era ad Haiti per conto della ditta di costruzioni Bonifica Spa, con sede a Roma, e si stava occupando della costruzione di una strada. Sin dal primo momento gli inquirenti seguirono la pista del rapimento a scopo di riscatto, una attività illecita molto diffusa nel Paese, basti pensare che nel 2020 sono stati ben 243 i sequestri a scopo estorsivo. In particolare si pensò alla gang 400 Mawozo, già responsabile, secondo le forze dell’ordine di Haiti, del rapimento di sette religiosi cattolici a Port-au-Prince. L’ipotesi della richiesta di riscatto era di circa 500mila dollari. Al momento non sono chiari i dettagli del rilascio di Calì.

PREMIO “PIETRO ANTONIO COLAZZO, UN NOSTRO EROE”. Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2021. Il Premio “Pietro Antonio Colazzo, un nostro eroe”, è dedicato all’agente ucciso in Afghanistan il 26 febbraio 2010, con l’obiettivo di rendere omaggio ad un professionista della Comunità intelligence nazionale che ha compiuto l’estremo sacrificio operando a servizio del Paese. In concomitanza con la celebrazione della “Giornata della Memoria dei Caduti dei Servizi di informazione per la sicurezza”, istituita con Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 2017, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS) lancia un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica ed in particolare i giovani sull’eredità morale dei Caduti dell’Intelligence, nonché ad accrescere la consapevolezza sulla missione istituzionale del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. E’ indetto, a tal fine, il Premio “Pietro Antonio Colazzo, un nostro eroe”, dedicato all’agente ucciso in Afghanistan il 26 febbraio 2010, con l’obiettivo di rendere omaggio ad un professionista della Comunità intelligence nazionale che ha compiuto l’estremo sacrificio operando a servizio del Paese. Pietro Antonio Colazzo, era il numero due dell’AISE in Afghanistan, la struttura italiana di servizi segreti che si occupa della sicurezza esterna. Colazzo originario di Galatina (Lecce), era considerato ufficialmente Consigliere diplomatico. Gli spararono dopo che aveva dato l’allarme e salvato 4 italiani. Perse la vita il 26 febbraio del 2010, in un attacco Taliban che seminò il terrore per quattro ore consecutive a Kabul, provocando un totale di 18 morti e oltre 30 feriti. Dopo che alcuni attentatori suicidi si fecero esplodere all’ingresso di tre alberghi, notoriamente frequentati da stranieri e considerati simboli della rinascita di Kabul, il resto del commando irruppe negli stabili aprendo il fuoco. All’interno di uno degli hotel presi di mira c’era anche Pietro Antonio Colazzo, profondo conoscitore del dari, uno dei dialetti afghani, che si muoveva nel Paese con grande facilità e non comune competenza. Il bando prevede la possibilità di partecipare con un “racconto breve” o un “soggetto originale”, liberamente ispirati alla figura di Pietro Antonio Colazzo, immaginandone il percorso umano e professionale che ha preceduto la sua tragica fine. Possono partecipare al concorso tutti i soggetti, italiani e stranieri, che abbiano compiuto il 18° anno di età e possiedano gli ulteriori requisiti indicati nel bando. Le opere, espressione del lavoro intellettuale dell’autore, dovranno essere inedite, redatte in lingua italiana e dovranno consistere di:

per la categoria “Racconto breve”: un minimo di 10 e un massimo di 20 cartelle;

per la categoria “Soggetto originale”: un minimo di 3 e un massimo di 7 cartelle.

Una Commissione di Valutazione, composta da esponenti del Comparto intelligence e del mondo della cultura, assegnerà 3 premi da € 2.000,00 (duemila/00) per ciascuna categoria. La Commissione individuerà i vincitori in considerazione della qualità letteraria e della capacità di esprimere i valori incarnati da Pietro Antonio Colazzo e dalla Comunità intelligence nazionale.

DA video.lastampa.it il 9 giugno 2021. Si è ammainata la bandiera nella base del contingente italiano, albanese e statunitense ad Herat. Con una cerimonia solenne, alla presenza del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, simbolicamente è terminata la missione italiana in Afghanistan. La smobilitazione della base è iniziata il primo maggio e vedrà liberato il luogo definitivamente tra qualche settimana. "Sono 53 le lacrime che non dimenticheremo", ha detto il capo di Stato maggiore della Difesa, Vecciarelli. "Il vostro il loro sacrificio ha dato risultati a livello internazionale".

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 9 giugno 2021. In Afghanistan non abbiamo vinto e l' ammaina bandiera ad Herat assomiglia molto ad una sconfitta semi nascosta e mascherata da orgogliosi discorsi ufficiali. La realtà sul terreno è che, nel solo mese di maggio, 26 fra avamposti e basi delle forze di sicurezza afghane, in quattro province, si sono semplicemente arresi ai talebani. Gli insorti jihadisti minacciano 17 dei 34 capoluoghi afghani e sono ben attestati a 50 chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, la porta d' ingresso della capitale. Nel 2014, quando la Nato aveva deciso di passare il testimone della sicurezza agli afghani, nessun capoluogo era sotto tiro. Solo negli ultimi tre anni i talebani hanno conquistato il doppio dei distretti (88) e contestano la presenza governativa in altri 213. Secondo alcune stime gli eredi di mullah Omar controllano già il 60% del territorio a parte le grandi città. All' ammaina bandiera ad Herat è stato giustamente ricordato il sacrificio dei 53 caduti italiani e di 700 feriti, ma abbiamo sempre relegato in secondo piano le medaglie dei tanti episodi di coraggio ed eroismo dei nostri soldati. Piccole e grandi vittorie nelle battaglie contro i talebani, che stonano, però, con la litania della missione di pace propinata dalla politica di tutti i governi. Per tanto tempo la Difesa ha anche «ridotto» il numero dei feriti d' Italia circoscrivendolo ai circa 150 casi più gravi, altrimenti sarebbe stato ancora più chiaro che in 20 anni abbiamo combattuto pure una guerra e non solo portato caramelle ai bambini. Le meritate decorazioni vengono assegnate lontano dai riflettori, senza alcuna enfasi, e per portarle agli onori della cronaca bisogna andarle a cercare con il lanternino. L' ultimo caso «scovato» da PerseoNews e ripreso da Analisi difesa è l' onorificenza concessa al caporale maggiore Diego Magno Massotti del 66° Reggimento fanteria aeromobile Trieste. La medaglia è stata consegnata il 2 giugno, festa della Repubblica, in prefettura a Forlì senza fare troppa pubblicità, come per dozzine di decorazioni al valore. Pure le motivazioni subiscono l' influenza del «politicamente corretto». Il coraggioso mitragliere di un blindato Lince ha risposto al fuoco «di un elemento ostile», che non abbiamo mai il coraggio di chiamare con il suo nome, «nemico» e nemmeno talebano. Alla fine in un fuoco d' inferno di razzi anticarro e armi automatiche il decorato «neutralizzava la minaccia» perché anche solo il termine «eliminare» chi ti spara addosso è un tabù. I soldati italiani, nelle tante battaglie degli ultimi vent' anni, hanno ammazzato forse migliaia di talebani, ma guai a farlo sapere fino in fondo. L' atto di coraggio del caporale maggiore Massotti risale al 2 gennaio 2019. Nei comunicati dai teatri operativi di allora, come ricorda Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa, non c' era una solo riga sullo scontro a fuoco, come di tanti altri prima. Piuttosto che accendere i riflettori sulle piccole e grandi vittorie in combattimento abbiamo sempre preferito mandare in diretta il ritorno delle bare dei caduti avvolte dal Tricolore, che oggi più che mai suonano come simbolo di una missione incompiuta, se non una sconfitta annunciata. L' Afghanistan è stato nei secoli la tomba degli imperi, ma forse la guerra potevamo vincerla se i militari non fossero stati costretti a combattere con una mano legata dietro la schiena per colpa dei pruriti e timori politici. Alla fine la ritirata suonata dagli americani ci impone anche una smobilitazione frettolosa entro le fine di luglio, ma proprio da Washington, il repubblicano Michael McCaul, presidente della Commissione Esteri del Congresso, evoca lo spettro del Vietnam: «Non possiamo permetterci che l' Afghanistan sia un' altra Saigon». L' 11 settembre, la data di fine missione scelta dal presidente Joe Biden, è già un tragico paradosso. Nel 2001 i B-52 incenerivano i campi di Al Qaida assieme al regime di mullah Omar e aprivano la strada al lungo intervento occidentale con il Tricolore che prima sventolava a Kabul e poi ad Herat. Per l' 11 settembre di vent' anni dopo i talebani stanno preparando la parata della vittoria.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 9 giugno 2021. Dopo vent'anni, martedì si è tenuta la cerimonia conclusiva e i soldati torneranno nelle prossime settimane, con i colleghi della Nato. Dopo oltre 240 mila persone uccise, 54 militari italiani morti, un numero incalcolabile di feriti e di danni economici e sociali, si è conclusa la missione (per tanti una vera e propria occupazione) in Afghanistan iniziata dopo l’attacco alle Torri Gemelle in America nel 2001 per dare la caccia a Bin Laden e ai terroristi islamici. Un momento storico, ma anche l’occasione per fare il punto su una delle più discusse operazioni antiterrorismo della storia. Ne abbiamo parlato con il giornalista Massimo Fini, profondo conoscitore di questi temi per essersene occupato anche attraverso un libro dedicato al mullah Omar – capo storico e guida spirituale dei talebani – e per la sua proverbiale schiettezza.

Fini, qual è il bilancio di questi 20 anni di presenza militare occidentale in Afghanistan?

È un bilancio disastroso. Abbiamo distrutto un paese che già non se la cavava benissimo facendo più danni dei sovietici. Oltre ai danni materiali abbiamo compiuto danni morali e sociali volendo imporre i nostri valori, la nostra democrazia, tutte cose che non riguardano certo gli afgani, talebani e non talebani.

Qual è stato il grande errore?

Che gli americani si sono lanciati in quel paese senza conoscere usanze e abitudini. Faccio un solo esempio: quella è una società organizzata per clan. Poniamo che uno di questi non stia né con noi né con i talebani, se uccidi un uomo di quel clan ti fai come minimo 1500 nemici. È quel che è accaduto.

Il contingente italiano ha fatto gli stessi errori?

Peggio! Noi italiani siamo stati fedeli come cani, ma sleali. Abbiamo avuto pochissimi morti, 54, dei quali solo 20 in combattimento e gli altri per vari incidenti. Ma l’errore maggiore è essere venuti a patti con i comandanti talebani. C’è un famoso episodio che racconto nel mio libro Il mullah Omar. Quando abbiamo fatto un accordo con un capo talebano, per fingere che loro ci attaccassero e noi di avere sotto controllo il territorio, ma in realtà non era vero niente. Un altro episodio grave, sempre dopo aver stipulato un altro patto, quando il contingente italiano è stato sostituito da quello francese in una determinata zona. Ma quest’ultimo, non sapendo dell’accordo, subirà una delle sue più gravi perdite in Afghanistan. I nemici si combattono, non si viene a patti con loro.

Ora in tanti si chiedono: ci si può fidare dei talebani?

Il controllo del territorio ce l’hanno già. Ora è da capire la differenza fra i talebani di oggi e quelli capeggiati dal Mullah Omar. Il mullah ai suoi tempi emanò una amnistia che fece rispettare per tutto il periodo del suo governo, dal ’96 al 2001. Questi di oggi sono incarogniti da 20 anni di resistenza, per cui tutti i collaborazionisti rischiano. Il portavoce talebano ha detto che non sarà fatto loro nulla, ma in una dichiarazione ambigua perché ha aggiunto “purché si pentano del loro tradimento nei confronti del paese”. Non credo verranno toccati i soldati dell’esercito regolare, chiamiamoli così, perché sono poveri ragazzi che per trovare un salario si sono arruolati. Tutte le altre gerarchie, invece, dovrebbero essere salvate portandole in Occidente on in Paesi sicuri.  

Avremmo potuto ritirare prima i nostri militari?

Lo ha detto anche il Pentagono, che il ritiro avrebbe dovuto essere organizzato molto prima. E poi non era obbligatorio rimanere in Afghanistan. Gli olandesi se ne sono andati nel 2010 quando si sono resi conto che non era il caso di rimanere. Si erano battuti bene e avevano perso anche il figlio del loro comandante. Ricordo che il portavoce dei talebani che dipendeva dal mullah Omar, scrisse un comunicato in cui ringraziava il governo e il popolo olandese. Per cui non era necessario rimanere fino all’ultimo, come ha detto il nostro ministro della Difesa. 

E allora perché ci siamo rimasti?

Perché in guerra siamo sempre fedeli come cani agli americani, ma in fondo anche sleali verso i popoli invasi. Si è visto in Afghanistan, ma anche in Libia dove abbiamo partecipato all’aggressione a Gheddafi, tra l’altro contro i nostri interessi, ma siccome gli americani avevano deciso di partecipare li abbiamo assecondati. E nonostante Berlusconi, allora presidente del consiglio, avesse dimostrato grande amicizia verso il colonnello. Però quando morì disse cinicamente “sic transit gloria mundi”.

·        Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

Finanza e investimenti. Ccnl: sono 935 e 4 su 10 sono firmati da sindacati “fantasma”. Redazione di Investire il 29/06/2021 su Notizie.it. 351 contratti sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale. Su 935 Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) vigenti e depositati al CNEL entro il 31 dicembre scorso, 351 sono stati firmati da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali non riconosciute dallo stesso Consiglio Nazionale: praticamente 4 su 10, precisamente il 37,5 per cento del totale. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA, la Cassa degli Artigiani di Mestre che da sempre si occupa di realizzare studi sull’economia reale. E oggi è il turno della proliferazione dei contratti di lavoro che si sono letteralmente moltiplicati in Italia e sigle sindacali “fantasma”. Intendiamoci, nessuno mette in discussione la libertà sindacale che, in un Paese democratico va sempre garantita. Tuttavia, non è un mistero che spesso sigle sindacali “fantasma” che non rappresentano nessuno, o quasi, sottoscrivono dei contratti di lavoro a livello nazionale che molti definiscono, correttamente, “pirata”. Sia chiaro: non siamo nel “far west”, ma in alcune filiere produttive poco ci manca. Sono accordi che spesso abbattono i diritti più elementari, indeboliscono la legalità, favoriscono la precarietà, minacciano la sicurezza nei luoghi di lavoro, comprimendo paurosamente i livelli salariali. Accordi fortemente al ribasso che creano concorrenza sleale delegittimando quelle organizzazioni che, invece, hanno una rappresentanza sindacale presente su tutto il territorio nazionale, fatta di storia, di cultura del lavoro e del fare impresa, di iscritti, di sedi in cui operano migliaia e migliaia di dipendenti che erogano servizi a milioni di imprese e milioni di lavoratori dipendenti.

Al CNEL il compito di “controllare” la regolarità dei contratti. In un momento in cui il mondo del lavoro sta vivendo delle tensioni sociali profondissime, secondo la CGIA è giunto il momento di rivedere il sistema della rappresentanza, consentendo alle organizzazioni datoriali e sindacali che sono riconosciute dal CNEL la titolarità di sottoscrivere accordi-contratti di lavoro a livello nazionale e locale, mentre a tutte le altre sigle che firmano un nuovo Ccnl, lo stesso dovrebbe essere “asseverato” da un’istituzione pubblica terza che, ad esempio, potrebbe essere proprio il CNEL. Senza questa “bollinatura”, il contratto non potrebbe essere applicato, fino al momento in cui le parti non apportano i correttivi richiesti. In alternativa, con una legge parlamentare si potrebbero stabilire i requisiti dimensionali minimi che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese devono possedere per potersi definire tali, potendo così sottoscrivere su base nazionale un contratto collettivo di lavoro. Una soluzione, quest’ultima, più facile a dirsi che a farsi, visto che le parti sociali ne parlano da almeno 40 anni, ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati: 15 mestieri che si possono svolgere in smart working. Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 27 febbraio 2021.

Gestore di trasporti, stoccaggio e distribuzione. Si possono svolgere in gran parte da casa, non c'è bisogno del "pezzo di carta" e sono pagate profumatamente. Utilizzando le statistiche dell'anno 2020 del Bureau of Labor Statistics, il sito Business Insider ha messo in fila i 15 lavori più pagati negli Usa che non richiedono la laurea. E che peraltro nella maggior parte dei casi non richiedono la presenza fisica del lavoratore e quindi possono essere comodamente svolti in modalità «smart working». In vetta troviamo il gestore di trasporti, stoccaggio e distribuzione: il dipendente impiegato in questo ruolo pianifica e dirige il sistema di trasporti e stoccaggio delle merci e gestisce la loro distribuzione. Negli Usa si contano circa 132 mila persone che svolgono questo mestiere per il quale c'è bisogno di un diploma di scuola superiore e il salario medio è di circa 87.000 euro (103 mila dollari) l'anno. 

Responsabile e coordinatore degli addetti alle vendite non al dettaglio. Al secondo posto troviamo il responsabile e supervisore di addetti alle vendite non al dettaglio. Il suo compito è quello di coordinare l'attività dei dipendenti di un'azienda che smercia prodotti all'ingrosso. Negli Usa sono 249 mila gli impiegati in questo ruolo e guadagnano in media 72 mila euro (86 mila dollari) l'anno. 

Analista di intelligence. Segue l'analista d'intelligence che svolge attività di ricerca e studia i fenomeni che possono rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale. Questa mansione occupa almeno 105 mila americani ed è pagata mediamente 72 mila euro (86 mila dollari). 

Agente immobiliare. Negli Usa ci sono circa 42 mila agenti immobiliari che guadagnano mediamente 68 mila euro (81 mila dollari). 

Direttore di ufficio postale. Negli Stati Uniti basta un diploma di scuola superiore per diventare direttore di un ufficio postale. La paga annuale è di 65 mila euro (78 mila dollari).

Gestori di proprietà e immobili. Sesta posizione per i gestori di proprietà e immobili. Negli Usa sono 220 mila i cittadini che ricoprono questo ruolo con un reddito annuale di 60 mila euro (71 mila dollari). 

Rappresentanti di vendita. Settima posizione per i rappresentanti di vendita. Negli Usa svolgono questo lavoro più di un milione e trecentomila persone con una paga media di 59 mila euro (71 mila dollari).

Perito assicurativo. Ottava posizione per il perito assicurativo. Chi svolge questo lavoro investiga, analizza e calcola l'ammontare dei danni per i quali è richiesto un indennizzo. Negli Usa se ne contano oltre 280 mila e il loro reddito annuale è in media 58 mila euro (69 mila dollari). 

Agenti assicurativi. Seguono gli agenti assicurativi. La loro mansione è vendere prodotti e servizi assicurativi nella propria zona di competenza. Negli Usa superano i 410 mila occupati e guadagnano 56 mila euro (67 mila dollari). 

Assistenti amministrativi. Decimo posto per gli assistenti amministrativi. Chi svolge questo lavoro d'ufficio, crea e compila documenti, inserisce dati archivia pratiche e si assicura che tutti gli adempimenti amministrativi dell'azienda siano portati a termine. Gli assistenti amministrativi sono più di mezzo milione negli Usa e guadagnano ogni anno 52 mila euro (62 mila dollari). 

Reclutatori di braccianti agricoli. Undicesimo posto per i reclutatori di braccianti agricoli. Il loro compito è selezionare la manodopera da impiegare nei campi.  Negli Usa svolgono questo mestiere solo 160 persone che guadagnano in media 52 mila euro (62 mila dollari).

Responsabili dei dipendenti d'ufficio. Seguono i responsabili dei dipendenti d'ufficio, che si occupano di coordinamento e tutoraggio in azienda. Negli Usa svolgono questa mansione oltre 1,5 milioni di persone che guadagnano in media 50 mila euro (60 mila dollari). 

Responsabili dei lavoratori nei trasporti e nel movimento materiali. Seguono  i coordinatori di lavoratori nel comparto trasporti e movimento materiali. Il loro compito è supervisionare l'attività dei dipendenti che trasportano merci. Negli Usa occupano questo ruolo 455 mila addetti, che guadagnano in media 49 mila euro (58 mila dollari).

Detective investigativo. Affascinante e reso ancora più suggestivo dalle serie tv, il mestiere del detective negli Usa occupa 35 mila addetti e può essere intrapreso da persone con un semplice diploma di scuola superiore. Il salario medio è di 48 mila euro (57 mila dollari). 

Impiegati in agenzie di intermediazione. Chiudono la top 15 gli impiegati delle agenzie di intermediazione. Anche in questo caso più che il titolo di studio (basta un diploma di scuola superiore) è necessario un buon apprendistato. Negli Usa fanno questo lavoro quasi 48 mila persone che guadagnano in media 46 mila euro all'anno (55 mila dollari).

·        La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Io e la mia famiglia senza mezzi di sostentamento nel paese dei foraggiati e degli assistiti.

Mi impediscono di lavorare: per ritorsione a quello che io scrivo. Non riuscendo a farmi condannare con gli innumerevoli procedimenti penali, mi inibiscono l’accesso alla professione forense e mi bocciano ad ogni altro concorso pubblico.

Non posso accedere a qualsivoglia strumento di sostegno. Perchè possiedo un immobile ricevuto in donazione dai genitori che supera di pochi euro il limite stabilito per legge. Immobile dato gratuitamente in gestione ad una ONLUS e per il quale il Comune di Avetrana chiede i tributi, nonostante vi sia l’esenzione per legge.

Requisiti:

Cittadinanza. Essere cittadino italiano o europeo o lungo soggiornante e risiedere in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi 2 in via continuativa.

ISEE. Avere un ISEE (Indicatore di Situazione Economica Equivalente) aggiornato inferiore a 9.360 euro annui.

Patrimonio immobiliare. Possedere un patrimonio immobiliare, diverso dalla prima casa di abitazione, non superiore a 30.000 euro.

Patrimonio finanziario. Avere un patrimonio finanziario non superiore a 6.000 euro che può essere incrementato in funzione del numero dei componenti del nucleo familiare e delle eventuali disabilità presenti nello stesso.

Reddito familiare. Avere un reddito familiare inferiore a 6.000 euro annui moltiplicato per la scala di equivalenza. La soglia del reddito è elevata a 9.360 euro nei casi in cui il nucleo familiare risieda in una abitazione in affitto.

Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

Michela Murgia, l'ultimo delirio: "Il momento della lotta di classe", ecco come vuole impoverirci tutti. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 10 settembre 2021. Marx e Saviano, ecco i riferimenti ideologici di Michela Murgia. Lo ha esplicitato ieri lei stessa al Festivaletteratura di Mantova. «Le battaglie femministe oggi sono vitali, così come quelle Lgbt e contro la razzializzazione delle persone. Ma la lotta di classe, più trasversale di altre, è quasi assente. Spero ci sia un movimento forte che si batta contro le differenze economiche». La sinistra riscopre dunque il suo odio anti-ricchi. Insieme al disprezzo per la famiglia. «Saviano», continua la Murgia, «ha detto che le mafie finiranno quando finiranno le famiglie. Mi chiedo anche io se sia possibile ripensare la società, mettendo in discussione il concetto di famiglia».

La povertà è fame: sei impossibilitato a sfamare te e la tua famiglia.

La povertà è solitudine: non puoi avere una famiglia.

La povertà è emarginazione: non puoi avere amici.

La povertà è sporcizia: sei impossibilitato a lavarti e ad adottare le più elementari forme di igiene.

La povertà è vivere senza un tetto o in abitazioni insalubri.

La povertà è vivere con vestiti logori e sporchi.

La povertà è malattia: sei impossibilitato a curare te e la tua famiglia.

La povertà è ignoranza: non puoi far studiare te e i tuoi figli per migliorare il futuro.

La povertà è sopraffazione: non puoi difenderti da accuse penali infamanti.

La povertà è staticità: non puoi viaggiare per fuggire.

La povertà è non avere potere e non essere rappresentati adeguatamente.

La povertà è mancanza di libertà e di dignità.

La povertà è silenzio: nessuno ti scolta, anche se hai tanto da insegnare.

La povertà assume volti diversi, volti che cambiano nei luoghi e nel tempo, ed è stata descritta in molti modi.

La povertà è una situazione da cui la gente vuole evadere con qualsiasi mezzo e compromesso.

La povertà è essere indifeso, quindi vittima di sopraffazione ed ingiustizie altrui.

Per capire come si può ridurre la povertà, per capire ciò che contribuisce o meno ad alleviarla e per capire come cambia nel tempo, bisogna vivere la povertà. Dato che la povertà ha tante dimensioni, deve essere osservata mediante una serie di indicatori; indicatori dei livelli di reddito e di consumo, indicatori sociali ed anche indicatori della vulnerabilità e del livello di accesso alla società e alla vita politica. Una forte incidenza della povertà si associa al basso titolo di studio o al basso profilo professionale e, come è naturale, anche, per i casi di disoccupazione.

La Povertà ed il Metadone di Stato.

Giorgia Meloni a Dritto e Rovescio di Rete4 il 9 settembre 2021.

Del Debbio: Ha definito il reddito di cittadinanza una sorta di Metadone di Stato”. Senta cosa gli ha risposto Giuseppe Conte interpellato dal nostro Angelo Macchiavello.

Giuseppe Conte: E’ un’espressione volgare, veramente offensiva. Il Reddito di Cittadinanza ha ridato dignità ai cittadini. Se usiamo questo linguaggio, togliamo dignità ai cittadini.…

Giorgia Meloni: Ma guardi non so cosa ci sia di volgare agli occhi dell’ex presidente del Consiglio. Può essere un’espressione che lui considera irrispettosa, ma non verso i cittadini, ma verso di lui. Verso il Movimento 5 Stelle. Verso chi ha voluto il reddito di Cittadinanza. Guardi, io ho detto una cosa molto precisa. Ho detto che il principio del Reddito di Cittadinanza in rapporto alla povertà è lo stesso principio che si usa con il Metadone in rapporto ad una persona tossico dipendente. Perché che cosa fa il Metadone. Il Metadone non risolve il problema di quella persona: la mantiene in quella condizione, perché non dia fastidio allo Stato. Col Reddito di Cittadinanza la mentalità è esattamente la stessa: io non risolvo il problema della povertà di quella persona trovandole un lavoro, dandole la possibilità di migliorare la sua condizione. No, io la mantengo in quella condizione, serva di una politica che sono costretto a votare, perché magari mi dà la paghetta, senza poter mai migliorare. Diceva, l’ho detto tante volte, diceva il premio Nobel per l’economia Amartya Sen che la povertà non è semplicemente la mancanza di soldi. La vera povertà è l’impossibilità che tu hai di migliorare la condizione nella quale ti trovi, che è data dal contesto che ti circonda. Quando io, ad esempio, sentì dire dall’allora ministero dell’economia per il Sud che la soluzione che il Governo aveva individuato era il Reddito di Cittadinanza, io non ci sto. Perché non ci sto a dire al Mezzogiorno d’Italia che quelle persone non possono migliorare la loro condizione. Che non ci sarà mai un investimento infrastrutturale, che non ci sarà mai uno sviluppo vero. Che non ci sarà mai una crescita; una possibilità di competere ad armi pari. No, tutti a 300, 400, 500 euro col Movimento 5 Stelle, rimanendo esattamente lì dove si è. Questo è lo stesso principio del Metadone di Stato.

Aggiungo io, Antonio Giangrande, Metadone di Stato è anche il considerare mafiosi tutti i cittadini meridionali e per gli effetti tutte le imprese meridionali. Le informative amministrative antimafia artefatte che precludono l'esercizio delle imprese del Sud solo per il sentore di mafiosità, dovuto a mille fattori non delinquenziali. Gli annosi procedimenti giudiziari antimafia di alcuni Pm mediatici, che spesso risultano dei bluff. La distruzione metodica del tessuto produttivo meridionale, nell'interesse delle imprese del Nord, porta desertificazione lavorativa e assoggettamento all'assistenzialismo che perdura la povertà. Senza impresa non c'è lavoro.

La rivelazione sul reddito di cittadinanza: "Ecco come lo pagano". Federico Garau il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. La rivelazione di Giorgetti sul reddito 5 Stelle: soldi presi ai pensionati. Scontro di fuoco in Cdm. Il reddito grillino divide il governo. Reddito di cittadinanza rifinanziato con milioni di euro destinati al pensionamento di lavoratori precoci o impiegati in attività usuranti. Questa rivelazione arriva da Giancarlo Giorgetti, subito dopo il Cdm di fuoco di oggi. E proprio questa verità sarebbe l'origine dello scontro fra i partiti riuniti per dare il via libera al decreto legge con norme fiscali. Nel corso del Cdm di oggi, le principali tensioni si sono registrate per le problematiche relative alla misura economica di matrice grillina. Ad animare i presenti sono state le diverse vedute sul reddito di cittadinanza: delle posizioni talmente distanti tra di loro da aver costretto l'ex governatore della Banca centrale europea a rimandare eventuali decisioni in merito alla vicenda al prossimo Cdm. La riunione, quindi, dovrebbe aver luogo martedì prossimo, quando la discussione dovrebbe vertere principalmente sulla legge di bilancio.

Esplode in Cdm la lite sul reddito 5S. E spuntano nuovi fondi

Ma cosa è successo? Oggi, durante il Consiglio dei ministri che ha dato il via libera al decreto fiscale, le diverse anime del governo si sono scontrate sul reddito di cittadinanza. Da un lato i grillini (e Pd) cercano di preservare qualche punto percentuale difendendo a spada tratta la propria creatura, dall'altra si sono schierati tutti gli altri partiti che vedono questa misura fallimentare. E Draghi? Non si è mai pronunciato in modo esplicito, aprendo alla possibilità di apportarvi modifiche senza tuttavia entrare mai nel dettaglio, così da evitare mal di pancia in grado di far vacillare la maggioranza che lo sostiene. "Il reddito è ispirato a principi di uguaglianza, ma ha dei limiti soprattutto sul fronte delle politiche attive del lavoro", aveva infatti replicato a uno studente che gli aveva inviato la tesi di laurea a tema "reddito di cittadinanza". Resta quindi la sensazione che qualcosa verrà modificato, anche se non si riesce bene a cogliere le modalità di tale presumibile cambiamento.

La Lega critica aspramente il reddito a cinque stelle a causa delle modalità di rifinanziamento. Stando a quanto dichiarato da Giancarlo Giorgetti subito dopo il Cdm, per alimentare fino a fine anno la misura sarebbero state sottratte risorse al reddito di emergenza, all'accesso anticipato al pensionamento per lavori usuranti, all'accesso al pensionamento dei lavoratori precoci ed infine ai congedi parentali.

Le parole di fuoco di Giorgetti

"Chiedo scusa, sono arrivato adesso perché abbiamo avuto qualche problema in Cdm oggi", esordisce il leghista, giustificando il proprio ritardo al comizio in sostegno di Matteo Bianchi a Varese."Vedo che i siti titolano 'scontro in Cdm sul reddito di cittadinanza'. Il problema", precisa Giorgetti, "è sì il rifinanziamento, ma quello che a me e alla Lega è sembrato inaccettabile è che la copertura degli ultimi tre mesi del reddito di cittadinanza era finanziato con 40 milioni di euro, inutilizzati, per il pensionamento dei lavoratori precoci e 40 milioni dei lavori usuranti".

Il ministro è lapidario: "Utilizzare le risorse, per gente che ha cominciato a lavorare a 15 anni, sul reddito di cittadinanza era quantomeno provocatorio. Io auspico che la versione finale del decreto legge non contenga queste norme di copertura".

Il M5S non ci sta

Le parole di fuoco di Giorgetti hanno sortito effetto. "Mentre la viceministra Todde da 12 ore cerca di chiudere la più importante vertenza del Mise (Whirlpool), il ministro Giorgetti è in vacanza a Varese, in campagna elettorale, a insultare i cittadini che vivono sotto soglia di povertà. Chiedendo di togliere loro il reddito di cittadinanza. Che torni a Roma a lavorare", fanno sapere fonti M5s dopo le dichiarazioni del ministro sul reddito di cittadinanza. "È surreale che il Ministro o presunto tale Giorgetti abbia scelto di andare in campagna elettorale a Varese disertando la vertenza Whirlpool", aggiungono le fonti.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto 

Il premio all'indiano Amartya Sen per i suoi contributi sul welfare. Il Nobel per l'economia a uno studioso della povertà. La Repubblica il 14 ottobre 1998. Il premio Nobel 1998 per l'Economia è stato assegnato all'indiano Amartya Sen per i suoi contributi sull'economia del benessere. Il lavoro di Sen ha contribuito alla teoria della scelta sociale, alla definizione di benessere e povertà e agli studi sulla carestia, dice l'Accademia svedese nella motivazione dell'assegnazione del riconoscimento. Amartya Sen è nato nel 1933 a Santiniketan, nel Bengala. E' attualmente professore al Trinity College della prestigiosa università di Cambridge in Gran Bretagna, ma ha svolto attività di insegnamento e ricerca negli atenei di Calcutta (1956-63), Delhi (1964-71), presso la London School of Economics (1071-77) e l'università di Oxford. Gli studi di Sen hanno dato contributi importanti in molti campi come la teoria dello sviluppo, i problemi della misurazione della dispersione nella distribuzione del reddito, la teoria delle scelte collettive. Nella motivazione dell'Accademia svedese si afferma che il riconoscimento è stato attribuito per "i suoi contributi alle teorie economiche del welfare" che hanno contribuito a metter in luce le cause che provocano le carestie e la diffusa povertà che si riscontra in gran parte del mondo in via di sviluppo. Sen pubblicò un'opera sulla carestia del Bangladesh del 1974 e in seguito ha analizzato le cause di altre catastrofi umanitarie in India, Bangladesh e in paesi africani. Tra le sue opere più famose si ricordano Scelta delle tecniche: un aspetto dello sviluppo economico pianificato (1960), Scelta collettiva e benessere sociale (1970), Sull'ineguaglianza economica (1973), Occupazione, tecnologia e sviluppo (1975), Povertà e carestie (1981), Merci e capacità (1985). Quello per l'economia non è un vero premio Nobel in quanto non è finanziato con l'eredità lasciata da Alfred Nobel ed è nato solo nel 1969, istituito dalla banca centrale svedese Riksbank e chiamato Premio per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel. È però altrettanto prestigioso ed è ormai assimilato agli altri che indicò l'inventore della dinamite nel suo testamento. Viene infatti assegnato dall'Accademia delle Scienze con le stesse procedure degli altri Nobel, dei quali ha eguale valore economico: 7,6 milioni di corone, pari a 1,9 miliardi di lire. Il gran finale della stagione è previsto per venerdì 16 a Oslo, dove verrà annunciato il vincitore o i vincitori del premio per la pace. La consegna ufficiale avrà luogo, come ogni anno, nella capitale svedese il 10 dicembre, anniversario della morte di Alfred Nobel, avvenuta nel 1895, un anno dopo la creazione del premio.

Amartya Sen. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Premio Nobel per l'economia 1998. Amartya Kumar Sen (Santiniketan, 3 novembre 1933) è un economista, filosofo e accademico indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University.

Biografia. Nato nello stato indiano del Bengala Occidentale, all'interno di un campus universitario, da una famiglia originaria dell'odierno Bangladesh, dopo gli studi al Presidency College di Calcutta ha conseguito il PhD al Trinity College di Cambridge.[1] Ha insegnato in numerose e prestigiose università tra le quali Harvard, Oxford e Cambridge. È stato, inoltre, docente presso la London School of Economics.[2] È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea. Il 17 giugno 2005 ha ricevuto una laurea honoris causa in Economia, politica e istituzioni internazionali dall'Università degli Studi di Pavia.

Vita privata. Sen si è sposato tre volte. Con la prima moglie, Nabaneeta Dev Sen, scrittrice e studiosa indiana, ha avuto due figlie: Antara, giornalista ed editrice, e Nandana, attrice di Bollywood. Il matrimonio finì poco dopo il trasferimento a Londra nel 1971. Nel 1973, Sen si sposò con Eva Colorni, figlia di Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, morta per cancro allo stomaco nel 1985. Da Eva Colorni ha avuto due figli: Indrani, giornalista negli Stati Uniti, e Kabir, insegnante di musica. Nel 1991 Sen sposò l'attuale moglie, Emma Georgina Rothschild della famiglia Rothschild.

Rapporto tra etica ed economia. Partendo da un esame critico dell'economia del benessere, Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla teoria dell'eguaglianza e delle libertà. In particolare, Sen ha proposto le due nuove nozioni di capacità e funzionamenti come misure più adeguate della libertà e della qualità della vita degli individui. Sen elabora la teoria dei funzionamenti, che si pone come alternativa alle più consuete concezioni del well-being economico come appagamento dei desideri, felicità o soddisfazione delle preferenze, (comunemente etichettate come concezioni welfariste o benesseriste, di cui uno degli esempi più noti è l'utilitarismo). Il benessere interno lordo è la visione secondo cui la bontà di una certa situazione può essere interamente giudicata dalla bontà delle utilità di quella situazione, l'utilitarismo è un caso speciale di welfarismo. Mentre i suddetti approcci privilegiano aspetti soggettivi del well-being, la visione dei funzionamenti si basa sulla realizzazione di certe dimensioni oggettive, definite da Sen come stati di fare o di essere, o genericamente funzionamenti, che sono dei risultati acquisiti dall'individuo su piani come quello della salute, della nutrizione, della longevità, dell'istruzione." Sen intende quindi proporre, in contrasto con una teoria del benessere sociale centrata sull'appagamento mentale soggettivo e non coincidente necessariamente con livelli adeguati di vita, una prospettiva tesa all'effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani. La scienza economica tende da tempo a spostare l'attenzione dal valore delle libertà a quello delle utilità, dei redditi e della ricchezza. Leggiamo in Lo sviluppo è libertà: "I livelli di reddito della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente. Tuttavia accade spesso che il livello di reddito non sia un indicatore adeguato di aspetti importanti come la libertà di vivere a lungo, la capacità di sottrarsi a malattie evitabili, la possibilità di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine." Sen sottolinea la sterilità, sotto il profilo teorico, della prospettiva di discorso utilitarista affermando la necessità di mediare tra quest'ultima e una dottrina fondata sui diritti. Per l'utilitarismo ciò che conta sono gli stati di cose, la sua è un'impostazione aggregativa, non è sensibile a come le utilità sono di fatto distribuite, ma si concentra esclusivamente sull'utilità complessiva, tralasciando l'importanza dell'individuo come tale che diviene un 'tramite per progetti collettivi'. Sen è d'accordo con John Rawls, il quale richiede l'uguaglianza dei diritti e doveri fondamentali e sostiene in contrapposizione con l'utilitarismo che le ineguaglianze economiche e sociali sono ammesse, cioè sono giuste, ma non se avvantaggiano pochi, molti o anche i più tralasciando coloro che si trovano nelle situazioni più precarie. Il fatto che esistano degli svantaggiati è, per Rawls, un dato di fatto, ma è necessario che le istituzioni usino dei criteri che risultino compensativi rispetto a tali situazioni, egli valuta quindi il miglioramento del benessere sociale non in base allo sviluppo del benessere generale, ma soprattutto in base a quello dei più svantaggiati, senza alcuna polemica per il fatto che questo possa portare anche al miglioramento delle posizioni più avvantaggiate. Sen utilizza il concetto di attribuzioni per indicare l'insieme dei panieri alternativi di merci su cui una persona può avere il comando in una società, usando l'insieme dei diritti e delle opportunità. Tale concetto può essere usato per spiegare le morti causate dalle carestie: le modeste attribuzioni di una parte della popolazione espone queste persone ai rischi della carestia benché il paese a cui appartengono possieda risorse alimentari sufficienti a sfamarli. Il concetto di capacità indica l'abilità di fare cose. Dall'espansione delle capacitazioni dipende per Sen lo sviluppo economico. Le attribuzioni sostanziano le capacità. L'uso di queste categorie ha spiegato perché l'India è stata capace di combattere le carestie meglio della Cina, che a sua volta si è dimostrata più abile nel combattere la povertà e la fame endemica. In India le opposizioni e la stampa hanno indotto i governi a intervenire per affrontare le carestie, che hanno provocato molti più morti in un paese privo di una opposizione e di una stampa libera qual è la Cina, dove politiche sbagliate non sono state corrette in conseguenza di critiche insistenti. La struttura economica capitalista dell'India d'altra parte ha fatto sì che mancasse qualsiasi tutela per la qualità della vita della popolazione più povera, e mentre in Cina si istituivano ambulatori rurali e la lunghezza della vita aumentava ciò in India non accadeva.

«sembra che l'India riesca a riempire ogni otto anni il suo armadio di più scheletri di quanti la Cina non ve ne abbia stipati nei suoi anni di vergogna [1958-61]»

Il merito di Sen è di aver usato nuove categorie, capaci di superare i limiti delle analisi economiche tradizionali. Grazie agli studi di Sen si viene infatti a delineare un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita. Ed è proprio l'attenzione posta sulla qualità, più che sulla quantità, a caratterizzare gli studi di questo economista. È stato tuttavia, anche sulla base di dati FAO, un limite di Sen di non aver previsto il cambiamento dello scenario mondiale, che ha portato ad un aumento del prezzo delle derrate agricole e a un accentuarsi del pericolo di una nuova era di carestia.

Il paradosso di Sen. Prendendo spunto dal teorema dell'impossibilità di Arrow, Sen dimostra che, in uno stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà, possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti. Egli dunque dimostra matematicamente l'impossibilità di perseguire l'efficienza ottimale, secondo Vilfredo Pareto, e insieme il liberalismo. Il paradosso è analogo a quello di Arrow sulla democrazia. Come per quest'ultimo, sono possibili alternative sociali che non ne sono soggette, ma richiedono l'abbandono dell'una o dell'altra assunzione. Prendiamo l'esempio di Sen del libro licenzioso. Ci sono due individui (chiamiamoli Andrea e Giorgio) e tre possibilità (1: Andrea legge il libro, 2: Giorgio legge il libro, 3: nessuno legge il libro). Andrea è un puritano e preferisce che nessuno legga il libro (possibilità 3) ma, come seconda possibilità, preferisce leggere lui il libro affinché Giorgio non possa leggerlo. Abbiamo dunque 3 preferito a 1 e 1 preferito a 2. Giorgio trova piacere ad imporre la lettura a Andrea. Preferisce 1 a 2 e 2 a 3. Secondo il principio dell'ottimo paretiano, se si deve scegliere tra 1 e 2, bisogna scegliere 1 poiché per le due persone 1 è preferito a 2. Una società liberale non vuole imporre la lettura a Andrea e perciò 3 è preferito a 1. Essa lascia inoltre che Giorgio legga il libro (2 è preferito a 3). Abbiamo dunque 2 preferito a 3 e 3 preferito a 1. Questo risultato è contrario al principio dell'ottimo paretiano poiché, come abbiamo visto, 1 è preferito a 2. Sen intitola il suo articolo: "Sull'impossibilità di un liberale paretiano". L'importanza della negazione dell'ottimo paretiano consiste nel superamento del concetto che il solo mercato basti per sviluppare una società liberale, derivato dal teorema di Arrow che fa da base anche al lavoro di Herbert Scarf[3] sul disequilibrio dei mercati lasciati a sé.

Opere. Risorse, valori e sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, La diseguaglianza, Il Mulino, Bologna, 1994

Il liberalismo sociale di Amartya Sen: Mattia Baglieri ne parla a TPI. Dottore di ricerca al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, Mattia Baglieri ha ripercorso il pensiero economico di Amartya Sen, premio Nobel per l'Economia nel 1998, nel volume Amartya Sen. Welfare, educazione, capacità per il pensiero politico contemporaneo. Azzurra Meringolo il 4 Gennaio 2020 su Tpi.it.

Economista, filosofo e accademico indiano, Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla teoria dell’eguaglianza e delle libertà. Sen si è sempre mostrato critico nei confronti del concetto di Pil, considerato come unico indicatore di ricchezza economica, sostenendo che la ricchezza sia principalmente rappresentata dall’umanesimo dei valori e dall’impegno dei governi nel promuovere benessere e capacità individuali. Il pensiero dell’economista indiano è stato analizzato da Mattia Baglieri, Dottore di ricerca al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, nel libro Amartya Sen. Welfare, educazione, capacità per il pensiero politico contemporaneo. L’autore ne ha parlato a TPI.

Nel suo volume lei scrive che Sen ha un approccio etico alle discipline economiche. In che cosa consiste?

L’economista Premio Nobel Amartya Sen, nonostante abbia scritto numerose opere di carattere econometrico e di matematica finanziaria, è principalmente uno storico dell’economia, per quanto il suo pensiero sia ben poco conosciuto in questo settore. Egli ha l’obiettivo principale di un’indagine sulle radici moderne del capitalismo in quello straordinario laboratorio filosofico-politico che è stato l’Illuminismo, tanto di matrice continentale, quando di marca anglosassone, studiando il pensiero di autori come François Quesnay, Robert Malthus, Jeremy Bentham, John Stuart Mill e, soprattutto, Adam Smith, ovverosia il Padre dell’economia come “scienza dello statista e del legislatore”. È nell’ambito di questo contesto storico che origina l’alleanza dell’economia con l’etica e la morale che, a dire di Sen, mai andrebbero disgiunte dall’agire economico individualistico, giacché solo con lo sguardo rivolto al benessere comune, le società possono dirsi avanzate. Ancora nel 2013 ad Atene, in dialogo con l’economista del Massachusetts Institute of Technology Acemoglu Daron, Amartya Sen sottolineava come le policies neoliberiste cui la Grecia è stata costretta per rientrare nei parametri economici europei siano state eccessivamente dure sotto il profilo della tenuta del sistema istituzionale, a partire dalle politiche di welfare e di spesa pubblica, fortemente ridimensionate soprattutto sul fronte sanitario e previdenziale.

Quest’anno, per esempio, si celebreranno i 30 anni degli Human Development Report adottati dalle Nazioni Unite per misurare lo sviluppo umano. Quale è stato il contributo di Sen, considerando che l’autore è critico del concetto di PIL quale indicatore unico di ricchezza economica?

Il liberalismo che Sen ha in mente è un liberalismo individualista. Alcuni autori, come il filosofo Giovanni Giorgini, lo hanno definito un “liberalismo eretico” perché Sen si richiama moltissimo alla teoresi economica marxiana, il che non è assolutamente comune negli autori di formazione anglosassone come Sen. Parlare di “liberalismo individualista” significa che secondo Sen il progresso delle società nel loro insieme deriva sempre da un ampliamento delle opportunità di sviluppo assegnate a ciascun singolo individuo, mentre Sen è fortemente critico verso gli autori comunitari e multiculturalisti come Charles Taylor e Will Kymlicka che sostengono che i diritti di gruppi specifici debbano essere prioritari rispetto ai diritti delle donne e degli uomini che compongono la comunità internazionale. Insieme all’economista pakistano Mahbub Ul-Haq, nel 1990, quindi esattamente trent’anni fa, Sen ha introdotto per le Nazioni Unite un nuovo algoritmo, lo Human Development Index, che non tiene soltanto in considerazione il Prodotto pro-capite, ma anche il numero di anni di scolarità di cui in media gli uomini e le donne godono all’interno di ciascun singolo Stato, così come l’aspettativa di vita alla nascita. L’ONU, attraverso il Dipartimento sullo Sviluppo Umano, chiede inoltre annualmente a ciascun paese la redazione di Rapporti nazionali che studino anche la distribuzione delle risorse economiche nelle aree interne. Pensiamo all’Italia, paese del G8 e ottava quanto a Prodotto Interno Lordo, ma addirittura ventiseiesima per quanto riguarda l’indice di sviluppo umano. Ci sono parecchie posizioni da recuperare!

Parlando della sua India caratterizzata da una crescita economica a turbo Sen parla di una gloria incerta. Che cosa non lo convince?

Se già osserviamo una forbice tra PIL e sviluppo umano nel nostro Paese, ebbene il caso dell’India è certamente più eclatante: settima come PIL al mondo, ma solo centotrentunesima secondo la misurazione seniana dello sviluppo umano. Per le donne l’indice di sviluppo umano, studiato comparativamente tra i generi, è notevolmente più basso, soprattutto quanto a risorse economiche possedute dalle donne e a possibilità di studiare. L’ultimo libro di Sen, The country of first boy, sottolinea proprio il fatto che gli uomini indiani abbiano da sempre una posizione di vantaggio rispetto alle donne, principalmente in ambito politico ed economico. Un altro libro, proprio Una gloria incerta, scritto con l’economista e antropologo Jean Drèze nel 2013, prende a prestito un verso dei Due gentiluomini di Verona di William Shakespeare dedicato alla stagione primaverile per sottolineare le ambiguità dello sviluppo indiano: è vero che, grazie all’irrobustimento del regime democratico, in India – a differenza, ad esempio, della Cina – dopo la fine della seconda guerra mondiale non ci sono più state carestie, ma è altrettanto vero che oggi sono sorti partiti identitari a ideologia estremista induista (Hindutva) che stanno minando dall’interno le relazioni con le minoranze religiose, soprattutto musulmane. Ecco perché lo sviluppo indiano è assai incerto, per quanto portentoso. Oggi, inoltre, è esemplificativo il caso del Kashmir, una regione in cui dall’agosto scorso vige un forte accentramento imposto dalla capitale Delhi, dato che il Premier indiano Modhi ha revocato lo Statuto speciale di cui lo Stato federato del Kashmir godeva sin dal ‘48. Da più di tre mesi la rete internet è bloccata e i giornalisti non possono raccontare sul campo quanto sta accadendo. Lo stesso Amartya Sen è intervenuto sulla prima rete nazionale induista per criticare fortemente il governo indiano rispetto alle restrizioni imposte sullo Stato kashmiro e rispetto alla militarizzazione della regione, tacciando senza mezzi termini il governo Modi di un approccio neoimperialista simile a quello della madre patria britannica ai tempi dell’India coloniale.

Sen è così legato a Tagore che invita la storiografia a indagare il “lato Tagore” della storia indiana. In che cosa consiste?

Nel suo libro L’altra India, del 2014, Sen studia le origini della democrazia indiana nel pensiero dei Padri fondatori della propria nazione, ovverosia Gandhi, Tagore e Nerhu. Sebbene egli si sia dedicato a ricostruire le strette relazioni intellettuali tra Gandhi e Tagore, possiamo dire con certezza che il cosiddetto “lato Tagore” della storia indiana sia, a suo dire, maggiormente applicabile al presente globale rispetto al pensiero gandhiano, pur così fondamentale per l’indipendenza dalla Gran Bretagna in modo non eccessivamente violento. Laddove Gandhi appariva profondamente convinto che gli indiani non avrebbero mai potuto rinunciare alla propria forte appartenenza confessionale (per quanto in un clima di pluralismo religioso), possiamo affermare che Tagore fosse maggiormente aderente ad una politica laica di tipo moderno e progressista. Al contrario, Gandhi è sempre stato particolarmente critico verso il progresso e il periodo storico che egli criticava maggiormente era proprio l’Illuminismo, un periodo in cui sono stati introdotti concetti quali il progresso e il meccanicismo politico. Quando nel ’34 la regione del Bihar fu scossa da un forte terremoto, ad esempio, Gandhi ebbe a sostenere che il sisma rappresentasse una punizione divina contro i comportamenti malvagi degli abitanti della regione, una constatazione del tutto scellerata secondo Tagore. Nell’Università di Visva Bharati, vicino a Calcutta, Tagore, inoltre, si dedicò a costruire un grande campus progressista, mettendo a sistema le idee educative dei più importanti studiosi internazionali di inizio Novecento, come John Dewey, Maria Montessori e Leonard Elhmirst.

Come Sen ha contrastato la teoria dello scontro di civiltà di Huntington?

Il filosofo neoconservatore Samuel P. Huntington rappresenta per Sen il principale obiettivo polemico da diversi anni, per quanto egli ravvisi l’origine dei pericoli del neoconservatorismo americano già molti anni prima di Huntington, ovvero negli anni Settanta e Ottanta, con le pubblicazioni economiche di Milton Friedman e quelle politologiche di Allan Bloom: si tratta delle cosiddette letture “virtue-inculcating” che sostenevano che l’America sarebbe tornata grande con il taglio della spesa pubblica e un forte approccio proibizionista nei confronti del dilagare delle droghe, unito al ritorno dello stigma verso le fasce meno abbienti della società americana. Gli esiti della retorica repubblicana sono fortemente visibili ancora oggi. Se, secondo Sen, le politiche proposte da Huntington, e realizzate dai mandati Bush, si sono rivelate riduzioniste rispetto alla descrizione della storia globale, allo stesso modo la cosiddetta nozione introdotta da Huntington di “scontro di civiltà” presuppone che l’identità personale di ciascun individuo sia ascrivibile alla sola religione e cultura di appartenenza, incapace di essere affascinato da influenze e contaminazioni di culture diverse e di apprezzare le tante sfaccettature che, a dire di Sen, caratterizzano la vita di ogni uomo. Ecco, allora, perché il pensiero seniano può essere utile nel momento in cui riteniamo corretto impostare un dialogo, e non già una contrapposizione, tra le diverse espressioni culturali: in questo senso sarebbe bene ripercorrere la storia delle società occidentali e non occidentali per rendersi conto di come da sempre l’arte, la letteratura e la stessa politica, siano manifestazioni di un ventaglio di reciproche relazioni di incontro e non solo di scontro.

Famiglie, arriva l’assegno unico per i figli: aiuti fino a 50mila euro di Isee. Si parte dal 1° luglio con autonomi e disoccupati. Per i primi sei mesi importi medi di 1.056 euro a famiglia e di 674 euro a figlio. Interessate 1,8 milioni di famiglie e 2,7 milioni di minori. Marco Mobili e Emilia Patta il 4 giugno 2021 su Il Sole 24 Ore. Assegno unico per i figli al via ben prima delle aspettative. La misura, giudicata «epocale» dallo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi durante il suo intervento agli Stati generali della natalità il 14 maggio scorso e lodata anche da Papa Francesco, salvo sorprese dell’ultima ora approderà oggi 4 giugno in Consiglio dei ministri sotto forma di decreto legge-ponte per coprire il periodo da luglio a dicembre per arrivare a regime dal gennaio del 2022.

Benefici a 1,8 milioni di famiglie. In questo periodo anche coloro che non percepiscono assegni al nucleo familiare, ossia autonomi e disoccupati, avranno un beneficio medio di 1.056 euro per nucleo e 674 euro per figlio. Secondo le stime del governo a usufruire del nuovo assegno saranno circa 1,8 milioni di famiglie nelle quali sono presenti 2,7 milioni di figli minori.

Il dettaglio degli importi degli assegni. L’aiuto statale verrà corrisposto per ciascun figlio minore in base al numero dei figli stessi e alla situazione economica della famiglia certificata con l’Isee. Nella tabella allegata al decreto vengono riportati gli importi mensili per ciascun figlio e rapportati a ogni singolo indicatore economico della famiglia. Ad esempio con un Isee fino a 7mila euro si avrò diritto a un assegno di 167,5 euro a figlio nei nuclei fino a 2 minori. Importo che salirà a 217,8 con almeno tre figli. L’assegno sarà garantito con Isee fino a 50mila euro, nel qual caso l’assegno mensile sarà di 30 euro per nuclei con due figli e di 40 per quelli con tre. Inoltre l’importo dell’assegno è sempre maggiorato di 50 euro in caso di figli disabili.

Come fare richiesta. Per ottenere il nuovo assegno bisognerà presentare domanda on line all’Inps o ai patronati secondo le regole che saranno fissate dall’Inps entro il 30 giugno. Lo schema di decreto oggi all’esame di Palazzo Chigi garantisce comunque la decorrenza dell’assegno dal mese di presentazione della domanda. Inoltre per le domande che saranno presentate entro il 30 settembre 2021 alle famiglie interessate saranno corrisposte le mensilità arretrate a partire dal mese di luglio. Tutto avverrà con bonifico bancario direttamente sul conto corrente. In caso di affido condiviso dei minori l’assegno sarò accreditato al 50 per cento sull’Iban di ciascun genitore.

Assegno esentasse. L’assegno sarà esentasse e compatibile con il reddito di cittadinanza e con l’eventuale fruizione da parte delle famiglie di altre misure in denaro di sostegno a favore dei figli a carico erogate da regioni, province e comuni. Una cabina di regia nella tarda serata del 3 giugno ha dato dunque il via all’intervento ponte fortemente voluto dalla ministra per la Famiglia e le Pari opportunità Elena Bonetti e messo a punto nei giorni scorsi con il ministero dell’Economia Daniele Franco. Per questi primi sei mesi si mantengono le detrazioni fiscali e gli assegni al nucleo familiare esistenti, che anzi saranno maggiorati in modo tale che quando detrazioni e assegni vari saranno sostituiti dall’assegno unico anche le famiglie con i redditi più alti non ci rimetteranno. Un modo per evitare il sistema sgradevole della “restituzione” già sperimentato, Matteo Renzi al governo, con il bonus degli 80 euro. Le maggiorazioni per i nuclei fino a due figli sono fissate dall’articolo 5 della bozza del decreto in 37,5 euro a figlio nei nuclei dove ce ne sono due e in 55 euro per minore nelle famiglie dove di con almeno tre figli.

Verso la riforma. Si tratta di un primo passo verso una riforma che a regime - ed è uno degli obiettivi del legislatore - semplificherà drasticamente la giungla degli interventi oggi in vigore. Si tratta inoltre di una misura strutturale sulla quale le famiglie potranno contare negli anni potendo dunque progettare la crescita del loro nucleo. E anche questo, ossia dare certezza economica alle famiglie e alle giovani coppie, è intento del legislatore per provare a invertire la tendenza alla denatalità del nostro Paese. La legge delega votata dal Parlamento prevede espressamente che l’assegno venga erogato con continuità dal settimo mese di gravidanza fino alla maggiore età del figlio e anche dopo, fino ai 21 anni, per motivi di studio.

L’allarme dei Caf. Intanto è già allarme Caf sui servizi ai contribuenti. Uno dei passaggi chiave per chi avrà diritto all’assegno unico anche in versione “ponte” è infatti strettamente legato al calcolo del valore Isee del nucleo familiare. E la scadenza ormai vicina del primo luglio ha fatto letteralmente lievitare le richieste di assistenza da parte di cittadini e autonomi a tal punto che la stessa consulta dei Caf nei giorni scorsi ha scritto alla ministra Bonetti, al ministro Andrea Orlando (Lavoro) e al presidente dell’Inps Pasquale Tridico evidenziando che dall’inizio dell’anno i modelli elaborati sono stati 5,7 milioni con un incremento rispetto all’anno precedente del 26 per cento.

Bonus Inps senza ISEE 2021: quali sono, a chi spettano e come richiederli. Debora Faravelli su Notizie.it il 4 aprile 2021. L'elenco degli incentivi Inps che possono essere richiesti anche senza presentare l'ISEE, dal Bonus Bebè all'Assegno Unico. Sono diversi i bonus confermati dal governo ed erogati dall’Inps per cui sarà possibile fare domanda senza la presentazione dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente): quali sono, a chi spettano e come si possono richiedere? Bonus Inps senza ISEE 2021. Si tratta principalmente di incentivi destinati alle famiglie (Bonus Bebè, Bonus Asilo Nido, Bonus Mamma Domani, Assegno Unico Universale) ma anche alle partite IVA (Bonus Iscro). Inoltre, lo scorso 30 marzo il Senato ha dato il via libera all’Assegno Unico Universale, provvedimento centrale del Family Act, il Ddl Famiglia.

Bonus Bebè 2021. È un sussidio che viene erogato per ogni figlio nato, adottato o preso in affidamento nel 2021. I requisiti per potervi acceder sono la cittadinanza italiana o il permesso di soggiorno, la residenza in Italia del genitore richiedente e la sua convivenza con il minore. Chi non presenta l’ISEE avrà diritto ad un importo minimo mensile di 80 euro (960 all’anno). Chi invece ha un reddito basso e richiede la dichiarazione potrà ottenere una somma maggiore:

160 euro al mese con un reddito pari o inferiore a 7mila euro e

120 euro mensili con un reddito compreso tra 7.001 e 40mila euro

Bonus Asilo Nido. Si tratta di un contributo da utilizzare per pagare le rette degli asili nido, pubblici e privati, e/o l’assistenza domiciliare per bambini minori di tre anni affetti da gravi patologie. Per chi non presenta l’ISEE l’importo annuo che si può ricevere ammonta a 1.500 euro. Queste invece le fasce per chi ha il reddito basso e richiede la dichiarazione:

3 mila euro per i nuclei familiari con ISEE inferiore a 25mila euro

500 euro per la fascia tra 25 mila e i 40 mila euro.

Bonus Mamma Domani. Il Bonus Mamma Domani è destinato a chi diventerà genitore nel 2021. Si tratta di un importo erogato una tantum pari ad 800 euro che è possibile richiedere a partire dall’ottavo mese di gravidanza o, in caso di adozione e affidamento preadottivo, dal momento dell’ingresso in famiglia del minore. Il termine ultimo per fare richiesta è al compimento di un anno dalla nascita o dall’adozione. La domanda può essere fatta compilando il modulo sul sito dell’Inps, chiamando il Contact Center (803 164 da telefono fisso e 06 164 164 da cellulare) o rivolgendosi a enti di patronato o intermediari dell’Istituto di Previdenza.

Assegno Unico Universale. Il bonus dovrebbe entrare in vigore dal 1° luglio 2021. L’importo minimo ammonterà a circa 250 euro al mese per ogni figlio a carico dal settimo mese di gravidanza al 21esimo anno di età (con maggiorazioni previste per figli disabili o dal terzo figlio in poi). Per i figli maggiorenni l’incentivo sarà erogato se frequentano un corso di formazione scolastica o professionale o se disoccupati. Chi presenterà la dichiarazione ISEE e ha un reddito basso avrà diritto ad una somma maggiore.

Bonus Iscro per le partite IVA. L’incentivo è destinato ai lavoratori autonomi e parasubordinati (collaboratori coordinati e continuativi con contratto co-co-co) che nel 2020 abbiano avuto difficoltà senza avere diritto alla cassa integrazione. L’importo del bonus varia dai 250 agli 800 euro al mese che vengono erogati dall’INPS sul conto corrente del destinatario per sei mensilità. Tra i requisiti necessari per accedervi vi sono il possesso di una regolare partita IVA da almeno quattro anni e un calo di reddito del 50% nell’anno precedente alla domanda rispetto alla media di quello del triennio precedente (per ottenerlo nel 2021 si dovrà considerare il reddito del 2020 e confrontarlo con la media di quello del triennio 2017-2019).

(ANSA il 19 novembre 2021. ) - A ottobre 2021 erano 1.357.171 le famiglie beneficiarie del reddito o della pensione di cittadinanza con un importo medio del sussidio di 544 euro. Le persone interessate in questi nuclei sono 3.012.087. Lo rileva l'Inps nell'Osservatorio sul reddito di cittadinanza dal quale emerge che i nuclei che hanno avuto almeno una mensilità tra gennaio e ottobre sono stati 1.713.101 per 3.843.354 persone interessate. A ottobre le famiglie con il reddito di cittadinanza sono state 1.218.327 per oltre 2,8 milioni di persone (575 euro medi il beneficio a nucleo) mentre quelle con la pensione di cittadinanza sono state 138.844.

Francesco Moscatelli per "la Stampa" il 19 novembre 2021. «Io e mia moglie ci siamo messi lì anche ieri sera. Ma devo dire la verità: dopo anni di ore perse ad affrontare i labirinti della burocrazia e quelli del sito dell'Inps, ormai siamo molto zen. Aspettiamo e vediamo se davvero alla fine del mese avremo ricevuto un euro in più dallo Stato». Nella villetta unifamiliare della famiglia Pianarosa a Casasco, una frazione di poche centinaia di abitanti del comune di Centro Valle Intelvi, a metà strada fra il lago di Como e quello di Lugano, in questi giorni la calcolatrice non può mancare. Per Diego e Claudia, dodici figli, otto maschi e quattro femmine dai 4 mesi ai 19 anni, l'assegno unico universale votato ieri dal Consiglio dei ministri avrà l'effetto di una piccola rivoluzione. Almeno finanziaria. «Potrebbe - mette le mani avanti Diego, consulente informatico di 44 anni nella vicina Menaggio -. In Italia le sorprese non finiscono mai. Io sono rimasto a quello che disse Mario Monti: "Questo non è un Paese per famiglie numerose"». La casa, sette camere da letto, tre bagni e due televisori - «Appena sposati abitavamo sul lago ma comprare lì era impossibile, diciamo che siamo stati lungimiranti» - è gestita come un campeggio degli scout. Inutile dire che dopo i mesi del lockdown e della didattica a distanza, qualunque sfida oggi sembra una passeggiata. Sul frigorifero un cartellone con una freccia indica l'incarico che spetta a ogni bambino - pulizia del pavimento, apparecchiare la tavola, lavare i piatti - e Paolo, il primogenito, l'unico con la patente, fa un po' anche da tassista per i fratelli. «La nostra gestione famigliare più che complicata è piena» spiega Claudia, cresciuta a sua volta con sei fratelli, e per nulla contenta quando la sua famiglia viene definita «speciale». A tutti quelli che glielo chiedono ribadisce che chiedere ai figli qualche sacrificio in più, e avere un buon rapporto con la parola «No», più che un limite può essere un vantaggio educativo. Le doti pedagogiche e organizzative sono importanti ma anche la gestione economica, fra carrelli della spesa monstre ogni due settimane e iscrizioni alle attività sportive, è degna di un amministratore delegato. «Questa è una terra di frontalieri, lavorano tutti in Svizzera e guadagnano bene. Paghiamo di tasca nostra anche tutti i servizi comunali: il bus che passa a prendere i bambini per portarli alle elementari e alle medie a San Fedele, i buoni mensa, le rette della materna» raccontano. I Pianarosa, da ieri, sperano che qualcosa cambi davvero. «Finora abbiamo sempre guardato con invidia gli altri Paesi europei, dove esiste il quoziente famigliare - ragionano -. Negli ultimi mesi non abbiamo percepito nemmeno gli assegni. Abbiamo ereditato alcuni immobili, che al momento sono totalmente inutilizzabili e che non abbiamo certo la forza economica di sistemare, ma questo è bastato per farci uscire dai parametri reddituali. Una beffa, visto che a luglio la nostra famiglia si è ulteriormente allargata. Nel 2021 ci siamo fatti bastare un migliaio di euro di detrazioni fiscali». Da marzo le cose dovrebbero cambiare. Per i Pianarosa, che sono mono reddito dato che Claudia si occupa a tempo pieno della famiglia e che attualmente hanno un Isee sotto i 15 mila euro, ogni mese i soldi in arrivo dallo Stato dovrebbero quasi triplicare. In base ai primi calcoli, fatti con le dita incrociate, dovrebbero ricevere ogni mese 175 euro per ognuno dei dieci figli minorenni, 85 euro per i due figli maggiorenni, ulteriori 85 euro moltiplicati per ogni figlio a partire dal terzo e i 100 euro forfettari previsti per tutte le famiglie con più di quattro figli. Il totale fa circa 2800 euro. «Non mi occupo di politica ma se davvero fosse così non possiamo che dire viva Draghi - scherza Diego - Intanto dobbiamo aspettare di ricalcolare bene l'Isee». Non che abbiano in mente spese pazze, sia chiaro. «Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: le vacanze in Trentino partendo con un mini-van da nove posti e con un'automobile, la baby sitter che chiamiamo solo quando io e mia moglie vogliamo prenderci una serata libera e un paio di fine settimana ogni anno in cui ce ne andiamo in giro da soli o al limite con qualche altra coppia. Senza pargoli».

Enrico Marro per il "Corriere della Sera" il 21 dicembre 2021. L'Anpal prova a fare un po' di chiarezza, con in numeri, rispetto alle polemiche che circondano il Reddito di cittadinanza come strumento di inserimento al lavoro. La conclusione che se ne può trarre è che anche se non si è trattato di un fallimento, molto c'è da migliorare. Raffaele Tangorra, commissario straordinario dell'Agenzia del ministero del Lavoro, ha spiegato che su oltre 1,8 milioni di beneficiari dell'assegno di povertà considerati inseribili nel mercato del lavoro meno di un terzo, cioè 546.598, ha avuto almeno un contratto di lavoro. Tanti o pochi? Sicuramente pochi in termini assoluti, in pratica solo tre ogni dieci della platea potenzialmente attivabile. Ma un numero significativo tenendo conto del bassissimo grado di occupabilità di queste persone. Come detto, su un totale di 3,6 milioni di beneficiari del Reddito di cittadinanza, solo 1,8 milioni sono stati indirizzati ai Centri per l'impiego e si tratta comunque di persone con «caratteristiche di occupabilità deboli», dice il rapporto dell'Anpal: «Più della metà non ha acuna esperienza lavorativa negli ultimi tre anni». E per quelli che invece hanno avuto un'occupazione, «in un quarto dei casi di tratta di disoccupati di lunga durata, cioè da più di un anno». Ci sono poi 320mila che hanno ottenuto il sussidio di povertà pur avendo un contratto di lavoro. Sono i precari, i «working poor», lavoratori poveri appunto. In questo quadro, non desta sorpresa che i due terzi dei 546mila che hanno ottenuto un contratto lo hanno avuto a tempo determinato e nel 35% dei casi di durata inferiore al mese, nel 34% fra un mese e tre mesi e solo nell'1% superiore a un anno, mentre i contratti a tempo indeterminato e di apprendistato non hanno superato il 14%. «In oltre il 90% dei casi le competenze richieste sono basse o medio-basse».

Reddito di emergenza 2021, a chi spetta e quali sono i requisiti per ottenerlo. Redazione su Il Riformista il 9 Marzo 2021. La povertà assoluta, certificata nei giorni scorsi dall’Istat, è tornata a crescere nell’ultimo anno (ben 5,6 milioni di poveri assoluti, ossia il 9,4% della popolazione, mai così dal 2005) a causa della pandemia e il Governo di Mario Draghi stanzierà 32 miliardi di euro (ma la cifra potrebbe aumentare) nel decreto sostegno per aiutare imprese, famiglie, e lavoratori autonomi in difficoltà. Verrà riconfermato il contributo per il reddito di cittadinanza, percepito da circa 1,4 milioni d’italiani, verranno dati contributi alle aziende in rosso, finanziati i congedi parentali, voucher per le baby-sitter, bonus una tantum per le partite iva, stagionali, autonomi e intermittenti, proroga della cassa integrazione Covid e del blocco dei licenziamenti.

SOLDI ALLE AZIENDE – Gli indennizzi alle aziende andate in rosso a causa del Covid saranno sulla base della differenza di fatturato tra il 2020 e il 2019, anno su anno dunque e non su base mensile.

RINNOVO REDDITO DI CITTADINANZA – I 32 miliardi saranno utilizzati anche per rifinanziare il Reddito di cittadinanza (cui verrà destinato un miliardo) destinato, come detto, a quasi un milione e mezzo di italiani.

REDDITO DI EMERGENZA – Con il dl sostegno verrà prorogato per almeno due mensilità anche il reddito di emergenza, la misura di sostegno economico istituita con l’articolo 82 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio) in favore dei nuclei familiari in difficoltà a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. Come per il Reddito di Cittadinanza, il beneficiario della prestazione non è quindi il singolo richiedente ma l’intero nucleo familiare. Non potranno beneficiare del sussidio i percettori del reddito di cittadinanza o di assegni di invalidità, oltre che tutte quelle categorie di lavoratori e partite IVA già beneficiari di altri bonus. Non è incompatibile col Rem invece la Cassa Integrazione. Nel dettaglio, potranno accedere alla misura le famiglie in difficoltà, con Isee inferiore a 15 mila euro e con un valore del patrimonio immobiliare inferiore a 10 mila euro. Il bonus prevede un contributo che va dai 400 agli 800 euro a seconda del nucleo familiare.

PARTITE IVA – Nel Dl dovrebbero essere destinati contributi a fondo perduto per tutti i titolari di partita Iva con ricavi non superiori a 5 milioni di euro e perdite di almeno il 33%. I contributi vanno da un minimo di 1.000 a un massimo di 150mila euro. L’ammontare è calcolato in base alla differenza tra il fatturato di gennaio e febbraio 2021 con quello di gennaio e febbraio 2019 applicando tre percentuali: 20% per le imprese con ricavi o compensi nel periodo di imposta 2019 non superiori a 400mila euro, 15% per quelle con ricavi fino a 1 milione e 10% fino a 5 milioni.

CONGELAMENTO FISCALE – Verrà rinnovato il ‘congelamento’ dei versamenti fiscali e delle rate della rottamazione fino a fine aprile, con contestuale ripresa delle notifiche delle nuove cartelle. Le scadenze sospese andranno saldate entro il sessantesimo giorno dal termine della sospensione. Modificate anche le scadenze per le rate della rottamazione e del saldo e stralcio. Le rate saltate finora e relativi al 2020 andranno saldate entro il 31 luglio, quelle relative al 2021 (febbraio, marzo, maggio e luglio) entro il 30 novembre. Nel decreto sostegno potrebbe rientrare anche lo stralcio di tutte le cartelle ricevute tra il 2000 e il 2015. Nella bozza del decreto la misura compare ma non viene specificato l’importo delle cartelle prese in considerazione. Nella relazione tecnica sono elencate 6 ipotesi: 3mila euro, con un costo per lo Stato pari a 730 milioni; 5mila euro, con un costo di 930 milioni; 10mila euro, con un costo di 1,5 miliardi; 30mila euro, con un aggravio di circa 2 miliardi; 50mila euro, con costo di 2,3 miliardi. Infine, nel caso della cancellazione di tutte le cartelle dei 15 anni, l’aggravio per lo Stato si aggirerebbe sui 3,7 miliardi.

BLOCCO LICENZIAMENTI E CIG – Dieci miliardi del nuovo pacchetto andranno a sostenere il blocco dei licenziamenti, prorogato a fine giugno, e la cassa integrazione covid che dovrebbe essere prolungata per tutto l’anno.

CONGEDI PARENTALI E VOUCHER BABY SITTER- Circa 200 milioni, come anticipato dalla ministra per le pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, per il innovo dei congedi parentali per chi ha figli impegnati nella didattica a distanza. Vi è poi la possibilità di scegliere lo smart working sempre laddove vi siano necessità di cura, e i voucher baby-sitter.

ALTRI BONUS – Contributi a fondo perduto generalizzati senza codici Ateco e con autocertificazione oltre a bonus per i lavoratori stagionali, autonomi e intermittenti.

FONDI A FORZE DI POLIZIA E VIGILI DEL FUOCO – Il dl sostegno prevede fondi anche per le forze di polizia, i vigili del fuoco, la polizia penitenziaria e le capitanerie di porto impegnate nella lotta al Covid. Nella bozza viene autorizzata la spesa di 93,3 milioni in particolare per le indennità di ordine pubblico, l’impiego del personale delle polizie locali e per gli straordinari del personale delle Forze di polizia. Inoltre in considerazione del livello di esposizione al rischio di contagio da Covid-19 connesso allo svolgimento dei compiti istituzionali delle Forze di polizia, al fine di consentire la sanificazione e la disinfezione straordinaria degli uffici, degli ambienti e dei mezzi in uso alle medesime Forze, nonché assicurare l’adeguata dotazione di dispositivi di protezione individuale e l’idoneo equipaggiamento al relativo personale impiegato, è autorizzata per il 2021 la spesa complessiva di 24,9 milioni per l’anno 2021. Per gli straordinari dei vigili del fuoco la spesa ammonta a 5,7 milioni, mentre per garantire il rispetto dell’ordine e della sicurezza in ambito carcerario e far fronte al protrarsi della situazione emergenziale connessa alla diffusione del Covid-19, per il periodo dal primo febbraio al 30 aprile 2021, è autorizzata la spesa complessiva di euro 3,6 milioni per la polizia penitenziaria. Circa 3 milioni arrivano anche per le Capitanerie di porto.

Da ilfattoquotidiano.it il 13 novembre 2021. È il reddito di cittadinanza uno dei primi argomenti dell’ottava puntata di Fratelli di Crozza– in prima serata sul Nove e in streaming su Discovery+. Maurizio Crozza infatti ha dedicato al tema dei salari e della povertà il suo monologo settimanale.

Il 75% di chi prende il reddito grillino non ha mai lavorato. Domenico Di Sanzo il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Il presidente Inps insiste sul sussidio. Eppure la misura non piace a oltre metà del Paese. Secondo un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera, più della metà degli italiani intervistati giudica negativamente il reddito di cittadinanza. Ma il presidente dell'Inps Pasquale Tridico, professore vicino al M5s, è irremovibile sul sussidio e insiste: «Personalmente rifarei la misura». Nel frattempo continua il pressing di renziani e centrodestra per una revisione radicale della legge, oltre le modifiche già proposte dal governo. Il tema divide la politica e spacca i cittadini. Nonostante il rifinanziamento del Rdc, il 53% delle persone interpellate da Ipsos per il Corriere esprime un parere negativo sull'assegno bandiera del M5s. Nell'articolo di Nando Pagnoncelli, direttore dell'istituto di rilevazioni, viene specificato però che «solo» il 32% del campione esprime un giudizio positivo sul reddito di cittadinanza, a fronte di un 15% di «non saprei». Colpisce un dato: tra gli elettori dei diversi partiti gli unici ad essere entusiasti del sussidio sono i sostenitori dei 5 Stelle. Mentre, per certi versi, sorprende il posizionamento di chi si identifica nel Pd e nelle altre liste del centrosinistra. Per il 48% dei dem lo strumento pensato per fronteggiare la povertà è quantomeno da cambiare, il giudizio è negativo. Percentuale che stona con la strenua difesa della norma da parte di alcuni esponenti di peso del Nazareno. I no al Rdc salgono al 74% per chi vota le altre liste di centrosinistra. Segmento in cui sono comprese sia Leu e Articolo 1, che hanno difeso la misura, sia Italia Viva e Azione, tra i principali critici del Rdc. Scontata l'ostilità compatta dell'elettorato del centrodestra. In compenso un po' tutti gli elettori sono moderatamente soddisfatti dai ritocchi pensati dal governo Draghi. Dal centrodestra, comunque, pensano che si possa fare di più. Dall'opposizione Giorgia Meloni è in prima linea nella campagna contro l'assegno di stato voluto dal M5s. «È una vergogna aver messo altri 2 miliardi sul reddito di cittadinanza, una misura fallimentare. Era inevitabile che fallisse perché è una misura stupida», attacca a testa bassa la leader di Fdi durante un incontro a Milano con gli amministratori lombardi del partito. Meloni collega i fallimenti del reddito di cittadinanza alla questione degli stipendi - spesso molto bassi - degli amministratori locali. «Credo sia assolutamente giusto oggi tornare a parlare di retribuzioni adeguate per gli amministratori locali. È una follia che in questa Nazione chi si occupa della collettività spesso percepisca meno di chi prende il reddito di cittadinanza», dice Meloni, anche se il governo ha previsto nella manovra un aumento delle paghe dei sindaci. Parole dure dalla presidente di Fdi, ma non più pesanti rispetto a quelle pronunciate dal leader di Iv Matteo Renzi, che venerdì sera a Otto e Mezzo ha parlato di «reddito di criminalità». A Bergamo, a pochi chilometri di distanza dalla riunione dei meloniani, va in scena il controcanto di Tridico. Intervenendo al festival d'Impresa, il presidente dell'Inps parla di «un atteggiamento verso i poveri molto violento, molto aggressivo e indifferente». «Il Paese non è pronto politicamente ad accettare l'esistenza di un reddito minimo», la decisa presa di posizione. «Il reddito esiste per la platea di poveri che esistono e non inoccupabili per questo - continua Tridico - personalmente lo rifarei, perché bisogna contrastare la povertà». Infine la giustificazione per le difficoltà sulle politiche attive del lavoro. «Il Rdc oggi copre oltre 3 milioni di persone, di cui due terzi minori, disabili, anziani. Il 75% di queste persone non ha mai lavorato». Domenico Di Sanzo

Futuro dei navigator, ecco i sindacati delle cause perse. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Cgil e Uil, che hanno indetto lo sciopero generale più surreale nella storia del sindacato, domani scaldano i muscoli in vista del 16 dicembre con un presidio nazionale organizzato davanti al ministero dello Sviluppo economico per chiedere risposte sul futuro dei navigator, il cui contratto scade a fine anno. La battuta verrebbe facile, ma sarebbe scontata: sindacati delle cause perse, perché di queste mitiche creature partorite dal genio creativo dell’altrettanto mitico Parisi, ex presidente di Anpal, si era persa ogni traccia nei duri mesi del lockdown, e nessuno ne sentiva la mancanza. Tanto che, dopo la proroga concessa ad aprile, i navigator sono scomparsi dai radar della legge di bilancio per essere sostituiti dalle Agenzie private del lavoro. Il sipario sembrava dunque definitivamente calato su di loro, ma siamo in Italia, dove mai nulla è definitivo, per cui usciti dalla porta, sono subito rientrati dalla finestra grazie a un emendamento dei relatori al decreto legge Recovery, che consente alle Regioni di subentrare ad Anpal nella sigla dei nuovi contratti. Per farla breve, i navigator potranno quindi proseguire per altri sei mesi la stessa missione fallita in questi anni, ossia accompagnare al lavoro i beneficiari del reddito di cittadinanza fino al «completamento delle procedure di selezione e di assunzione del personale da destinare ai centri dell'impiego». Come la famosa telefonata di uno spot, anche un emendamento dunque può allungare la vita, ma è legittimo chiedersi se non si tratti in questo caso di vero e proprio accanimento politico: dopo due anni e mezzo e 180 milioni di euro spesi tra stipendi e formazione, infatti, il loro impatto sull’occupazione è stato praticamente nullo. Secondo il presidente di Confindustria Bonomi, che citava dati Istat, attraverso il sistema di politiche attive dei navigator sono state assunte 423 persone, numeri neanche da fallimento: da ecatombe. D’altronde, il ruolo del Job advisor, nei collaudati servizi per l’impiego del Centro-Nord d’Europa, è altamente qualificato, e ci si approda dopo una formazione specialistica ottenuta con corsi post-laurea, mentre i nostri 2500 navigator sono stati reclutati da Di Maio con la stessa superficialità con cui annunciò di aver abolito la povertà dal balcone di Palazzo Chigi. «Oggi – disse l’allora vicepremier - inizia una rivoluzione nel mondo del lavoro, mettiamo il tassello fondamentale dei navigator, e molti giovani italiani quando arriveranno ai centri dell’impiego non troveranno più un’umiliazione, ma un’opportunità. Sono stato preso in giro ma questi ragazzi sono gli alfieri di un nuovo modo di portare avanti le politiche attive in Italia». Questo piccolo e improvvisato esercito era stato caricato di funzioni oggettivamente improbe: oltre all’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, anche il controllo dei truffatori del reddito di cittadinanza: «Il sussidio – assicurò Di Maio - sarà erogato a livello nazionale ma la riforma dei centri per l’impiego darà la possibilità di conoscere ogni giorno chi sta percependo il reddito, come si sta formando, come si sta comportando e se ne ha diritto». Abbiamo visto com’è andata. E nonostante la comprensibile difesa corporativa di chi rivendica il lavoro svolto e si sente scivolare via il posto, sfugge francamente la logica dell’ulteriore proroga di sei mesi che si sta profilando. L'incendiario leader della Uil Bombardieri ieri si è scagliato contro il ministro Giorgetti, reo di questa battuta ritenuta «vergognosa»: «I navigator non sono stati in grado di navigare». Ma il ministro ha detto solo la verità.

Sedotti e abbandonati. La protesta dei navigator delusi è l’amara prova dell’incompetenza grillina. Marco Fattorini su L'Inkiesta il 19 Novembre 2021. Luigi di Maio li aveva definiti i nuovi alfieri delle politiche attive. Dopo due anni e mezzo e 180 milioni di euro spesi tra stipendi e formazione il loro impatto sull’occupazione è stato nullo. «Il ministro non si era mai occupato di politiche del lavoro, ma era convinto che la competenza non servisse, che per eliminare la povertà bastassero le escogitazioni dell’ultimo momento». «Voi avete studiato più di me, non avete un ruolo da scrivania ma un lavoro dinamico. Con voi inizia una rivoluzione». Così nell’estate del 2019 Luigi Di Maio parlava ai navigator appena assunti. Li aveva definiti «gli alfieri di un nuovo modo di portare avanti le politiche attive in Italia». Talmente nuovo che dopo due anni rischia di sparire. Il contratto di 2500 navigator è in scadenza il 31 dicembre e la legge di Bilancio non ne ha previsto il rinnovo. «Al loro posto ci saranno Agenzie private del lavoro», ha dichiarato il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta. I Cinquestelle sognavano di abolire la povertà con un decreto. Ma oggi a estinguersi potrebbero essere i professionisti che avevano il compito di trovare un lavoro a centinaia di migliaia di beneficiari del reddito di cittadinanza. Accolti da aspettative messianiche e dileggi, i navigator sono costati 180 milioni di euro tra stipendi e formazione. «Quella del navigator una figura nata male. Anzi, malissimo». Ne è convinto Pietro Ichino, giuslavorista, ordinario alla Statale di Milano ed ex senatore del Partito Democratico, che a Linkiesta spiega: «Il ruolo del Job advisor, nei servizi per l’impiego dei Paesi del Centro e Nord-Europa, si caratterizza per una formazione specialistica ottenuta con corsi di due o tre anni dopo la laurea. I nostri navigator sono bravissime persone, ma il ruolo che è stato loro assegnato non lo si può improvvisare». In questi mesi i navigator si sono mossi tra centri per l’impiego sguarniti, banche dati regionali che funzionano a singhiozzo e sistemi che non comunicano. Solo 420mila beneficiari del sussidio sono stati presi in carico, il 37,9 per cento di tutti quelli che hanno firmato il patto per il lavoro. Secondo la Corte dei Conti, al 10 febbraio 2021 erano 152.673 le persone che avevano instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda: il 14,5 per cento del totale. Nelle ultime settimane il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, citando dati Istat, ha rincarato la dose: «Tramite il sistema di politiche attive dei navigator sono state assunte 423 persone». Secondo Ichino la prima colpa della politica nei confronti dei navigator «è stata nel buttarli allo sbaraglio senza preoccuparsi minimamente del management che avrebbe dovuto organizzarne il lavoro, e neppure di definire con precisione il compito che si assegnava loro. Così, nel migliore dei casi, si è finito coll’affiancarli ai dipendenti di ruolo dei Centri per l’Impiego, perché li aiutassero nei loro compiti burocratici. Poi, la pandemia ha fatto il resto». La manovra economica del governo Draghi prevede una riforma del reddito di cittadinanza, con più controlli contro i furbetti e le solite polemiche. «Siamo il capro espiatorio di una battaglia politica, siamo stati strumentalizzati anche da chi avrebbe dovuto difenderci», racconta a Linkiesta Antonio Lenzi. Quarantadue anni, una laurea in scienze politiche e un dottorato in storia dei partiti politici, Lenzi è il portavoce dell’associazione nazionale navigator A.N.NA. «Ce ne hanno dette di tutti i colori, che non abbiamo mai lavorato e siamo incapaci. Ma senza di noi i centri per l’impiego collassano e il meccanismo si inceppa. Chi gestirà la platea dei beneficiari del reddito?». I professionisti, tutti laureati e assunti dopo una selezione pubblica a cui si erano presentati in 80mila, non ci stanno a passare per miracolati. «I dati – precisa Lenzi – non riescono a mostrare completamente il lungo lavoro per preparare le persone a un’occupazione. E comunque in questi anni abbiamo contattato 580mila aziende. Facciamo tutto quello che serve per reinserire i nostri utenti sul mercato, valutando competenze e condizioni familiari. Li indirizziamo a corsi di formazione, li prepariamo per i colloqui. Stiamo parlando di una platea particolare. Il 72 per cento dei percettori del reddito ha la licenzia media, è assente dal mondo del lavoro da più di cinque anni, non ha un mezzo proprio, ha un’alfabetizzazione digitale quasi nulla». Il padre dei navigator , l’ex capo dell’Anpal (Associazione nazionale politiche attive del lavoro) Mimmo Parisi rimosso a maggio dal governo Draghi, aveva annunciato un software che avrebbe aiutato a incrociare la domanda con l’offerta di lavoro. Un programma chiamato “Mississippi Works”, inventato da Parisi e utilizzato dallo stato del Mississippi. La versione italiana però non è mai arrivata. Con buona pace del professore che, dopo essersi fatto rimborsare i viaggi aerei in business class, è tornato negli Stati Uniti. Il morale delle truppe volute da Parisi è ai minimi. In Liguria il 60 per cento dei navigator si è licenziato perché insoddisfatto o perché ha trovato un altro lavoro. «D’altronde siamo precari, non abbiamo ferie, maternità né tredicesima», raccontano. La paga è di 27mila euro lordi annui più 300 euro mensili di rimborsi forfettari. Chi trova di meglio, e magari ha una famiglia da mantenere, va altrove. Intanto giovedì a Roma i navigator sono scesi in piazza insieme a Cgil, Cisl e Uil per protestare contro il mancato rinnovo contrattuale. E c’è chi scommette: «Non spariremo, al massimo sparirà il nome navigator ». Dal Movimento 5 Stelle fanno sapere che cercheranno di trovare «una soluzione “in zona Cesarini” per garantire continuità occupazionale a questi professionisti». Magari coinvolgendoli nell’attuazione della riforma delle politiche attive prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Anche il ministro Brunetta si è detto «disponibile a trattare il dossier». La questione è politica. Come la propaganda e i trionfalismi del governo gialloverde, che ormai sono un ricordo beffardo. Pietro Ichino non ha dubbi: «Questa è stata la prima colpa di Luigi Di Maio nella veste di ministro del Lavoro. Si è toccato con mano che cosa significa l’espressione “improvvisazione al Governo”. Il ministro non si era mai occupato in precedenza di politiche del lavoro, ma era convinto che la competenza non servisse, che per eliminare la povertà e per dare lavoro a tutti bastassero le escogitazioni dell’ultimo momento. Per fortuna è una persona intelligente, che da allora ha saputo fare molta strada. Oggi – ne sono certo – si vergogna della figuraccia che ha fatto in veste di ministro del Lavoro. E non solo con i navigator : l’esperienza del prof. Parisi a capo dell’Anpal è stata anche peggio».

Niente fondi nella legge di bilancio. Navigator addio, non prorogato il contratto ai 2500 ‘consulenti’: certificato il flop del reddito di cittadinanza grillino. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Addio navigator. I 2500 professionisti chiamati ad affiancare i percettori del reddito di cittadinanza nella ricerca di un lavoro non vedranno rinnovati i loro contratti. La legge di bilancio non prevede infatti altri fondi per proseguire l’esperimento: il loro contratto, scaduto ad aprile, era stato prorogato dal decreto Sostegni fino al termine dell’anno. La bozza della legge di bilancio visionata dall’Ansa che le Agenzie per il lavoro iscritte all’Albo e autorizzate dall’Anpal possano “svolgere attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro per i beneficiari di reddito di cittadinanza”. Il loro ruolo, scrive ancora l’Ansa, si affianca a quello dei centri per l’impiego ed è volto ad agevolare l’occupazione dei percettori di Rdc, esplicita la bozza che le include negli incentivi. Per ogni assunto è riconosciuto il 20% dell’incentivo previsto per il datore di lavoro. L’addio ai navigator era stato preannunciato dal ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta in un’intervista al Corriere della Sera sul reddito di cittadinanza, in cui si annunciava l’intenzione di sostituirli con agenzie del lavoro private. Per il ministro di Forza Italia “le agenzie private sono tante, circa 100 autorizzate, con una rete di 2.500 filiali sparse in tutto il Paese e decine di migliaia di dipendenti diretti. Non sono certo i poveri navigator, è gente che conosce il territorio. Questa è una vera riforma, quasi una rivoluzione, che ha visto la massima collaborazione di tutti i partiti della maggioranza, senza arroccamenti ideologici. Ne esce un assetto totalmente diverso”. Parlando del reddito di cittadinanza, Brunetta ha quindi aggiunto che sul provvedimento bandiera dei 5 Stelle “è stata fatta una rivoluzione”, il vecchio sistema “era un’accozzaglia di confusione, ideologismi, soluzioni improbabili. In due anni e mezzo è costato 19,6 miliardi. L’importo medio erogato è cresciuto dell’11%, con una serie di abusi e distorsioni sul mercato del lavoro”, “ora chi non si presenta al centro per l’impiego ogni mese, se non ha ragioni valide, perde il sussidio o gli viene ridotto”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

"Hanno solo ingolfato i centri per l'impiego". Gian Maria De Francesco il 12 Novembre 2021  su Il Giornale. Il docente della Bocconi: "L'operazione navigator? È stata solamente di facciata". Il reddito di cittadinanza non avrebbe mai potuto mai funzionare come strumento per favorire l'occupazione per via della mancanza, a monte, di investimenti sulle politiche attive per il lavoro. Parola di Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro all'Università Bocconi di Milano, presidente dell'Anpal dal 2016 al 2019 e consigliere giuridico del governo Renzi.

Professor Del Conte, quali sono i difetti strutturali del reddito di cittadinanza?

«Il problema non sono le truffe ma cosa si è pensato di realizzare con questo strumento. Quando è stato proposto è stato indicato come uno strumento di politiche attive che avrebbe consentito di riattivare al lavoro chi era in stato di povertà. Una lettura assolutamente astratta e superficiale come segnalato dall'Alleanza contro la povertà che evidenziò la necessità di prendersi cura di quei fenomeni che generano la trappola della povertà come i disagi educativi, abitativi, familiari e le dipendenze. Abbiamo scambiato questo problema con quello della disoccupazione e si è creduto di poter rilanciare la rete delle politiche attive con il reddito di cittadinanza invertendo l'ordine logico degli elementi».

In cosa consiste effettivamente questa inversione?

«Posso aiutare i beneficiari del reddito a trovare lavoro se prima ho costruito un sistema molto efficiente di politiche attive. Ma meno di un terzo dei percettori era effettivamente accompagnabile in un percorso di rafforzamento delle competenze per affrontare l'incontro con le imprese. L'operazione navigator è stata di facciata, si voleva immaginare che avrebbero risolto il problema quando sappiamo benissimo che la componente dei disoccupati in stato di povertà non è immediatamente occupabile, ma ha bisogno di un percorso di qualificazione professionale perché disoccupati di lunga durata o perché mai entrati nel mondo del lavoro».

In Francia e Germania questi sussidi hanno funzionato perché al reddito si aggiunge un percorso di formazione. In Italia anche Garanzia Giovani è stata un insuccesso.

«Occorreva collegare Anpal, Inps e Centri per l'impiego ridisegnando il sistema delle competenze con investimenti - che al tempo erano possibili - per assumere profili qualificati. Si è preferita la retorica, ossia raccontarsi che sarebbe stato sufficiente incrociare domanda e offerta con un'App (il sistema ideato dall'ex presidente Anpal Mimmo Parisi, ndr) per creare posti di lavoro. Alla fine non c'è stata nemmeno l'App».

Da un punto di vista keynesiano come si dovrebbe strutturare questo strumento?

«Bisogna creare prima le infrastrutture che garantiscono la capacità di prendersi in carico dei disoccupati e portarli a essere spendibili sul mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza deve venire dopo e appoggiarsi su un sistema solido così come avviene in Germania. Così quando il cittadino si rivolge a questi servizi, si mette in gioco con un soggetto la cui efficacia è stata testata, noi questa parte non l'abbiamo ancora realizzata, caricando di una nuova e massiccia utenza i servizi già fragili dei 550 Centri per l'impiego».

I 4,4 miliardi del Pnrr per la Gol avranno qualche effetto?

«Le risorse sono condizione necessaria ma non sufficiente. Se si guarda alla Gol, ha il difetto di non indicare obiettivi reali e misurabili ma solo di consentire alle strutture sul territorio di accogliere più disoccupati e infatti l'obiettivo è prendere in carico 1,5 milioni di disoccupati ma il problema non è parcheggiarli nei Centri per l'impiego ma portarli a essere veramente occupati».

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop. 

Un paradosso che rafforza la povertà. Pier Luigi del Viscovo il 12 Novembre 2021  su Il Giornale. Il reddito di cittadinanza non sconfigge la povertà, al massimo ne allevia gli effetti. Il reddito di cittadinanza non sconfigge la povertà, al massimo ne allevia gli effetti. Ma così facendo, poiché nulla è gratis, ne rafforza le cause, che stanno da ambo le parti e che la classe dirigente avrebbe il dovere morale, prima che politico, di estirpare. Dire che non c'è lavoro significa che per gli attori, dal piccolo artigiano alla multinazionale, è via via più difficile fare impresa e assorbire manodopera. Eppure, un tempo eravamo più poveri ma creavamo più ricchezza. Troppe complicazioni piccole e invisibili si sono accumulate nei decenni, sebbene per nobili finalità, e ora sono un fardello insostenibile. Non sono solo le tasse o la lentezza e l'incertezza della giustizia. C'è molto di più ed è nascosto in tante pieghe del sistema, che però chi produce incontra ogni giorno. Ci inciampa, cade e si rialza, ma perde velocità e spende energie: dopo un po' si stanca e rinuncia. La politica dovrebbe trovarle ed eliminarle. Comporta scelte difficili, ma è ciò che va fatto. Però c'è anche un deficit di competenze e abilità. Per fare un occupato non basta un posto di lavoro, serve pure una persona capace e disponibile. Troppi disoccupati o saltuari hanno requisiti al di sotto di quel minimo necessario a garantirsi un'impiegabilità duratura. Molte colpe stanno nella scuola, la cui funzione però non è propriamente quella di formare le prossime generazioni, quanto piuttosto di impiegare quelle attuali. Almeno, questo si desume analizzando nei fatti il sistema scolastico. Però pure le famiglie hanno la loro responsabilità, innanzitutto culturale, avendo dato ai figli il benessere che avevano o le garanzie che potevano, a cominciare da un posto fisso, invece degli strumenti e della capacità di prodursela da soli, la ricchezza. Noi la misuriamo dai soldi, che invece sono solo il suo prodotto. La ricchezza sta nella capacità di crearla. Molti sono ricchi prima di avere soldi, perché hanno un'idea e la determinazione e le capacità di realizzarla. Un ragazzo che abbia voglia di studiare per apprendere, di imparare cose nuove e di migliorare sempre non è ricco, ma lo può diventare e almeno avrà sempre un lavoro e di che vivere. I ricchi puntano su formazione e informazione, non su qualcuno che gli dia soldi. Sconfiggere la povertà si può, ma non col reddito di cittadinanza. Bisogna prima di tutto odiarla, la povertà, e trasformare i poveri in ricchi, non di soldi ma di volontà di guadagnarseli. Chi si aspetta che lo Stato debba dargli un lavoro o almeno dei soldi non sarà mai ricco. Chi non voglia restare povero deve smettere di criticare i ricchi e anzi osservarne i valori e i comportamenti, per capire cosa prendere per sé. Secondo una massima attribuita a Bill Gates, se nasci povero non è colpa tua, ma se muori povero sì. Pier Luigi del Viscovo

Succede in Emilia Romagna: la testimonianza dei Navigator. Rifiuta 20 offerte di lavoro ma non perde il reddito di cittadinanza: “Vi spiego perché”. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2021. Venti offerte di lavoro rifiutate: eppure ha ancora il reddito di cittadinanza. La rivelazione, all’indomani della stretta sul beneficio prevista con la prossima Legge di Bilancio, arriva direttamente da uno dei 125 navigator dell’Emilia Romagna. Intervistato da Repubblica, ha spiegato: “Perché nessuno gli toglie l’assegno? Perché formalmente le 20 offerte, anche a tempo indeterminato, che gli ho proposto, quasi tutte in presenza, non sono offerte congrue, come le definisce la legge”. Ma non nella sostanza, bensì per  una direttiva precisa della Regione, contenuta in un documento interno. 

“Ci è stato imposto di mettere sempre no”

Il reddito di cittadinanza decade quando il beneficiario rifiuta tre offerte di lavoro (che diventeranno due a partire dal 2022). Ma se il rifiuto non risulta, allora l’Inps continuerà a ricaricare la card gialla con la somma spettante.

Ed è proprio ciò che è accaduto, stando a quanto riferito, in Emilia Romagna, a causa della richiesta di non classificare le offerte come congrue sulla piattaforma apposita creata dall’Anpal, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive. “Ci è stato detto di mettere ‘sempre no’ nel campo dell’offerta congrua a prescindere dalla durata del contratto di lavoro che viene offerto” ha raccontato sempre a Repubblica un altro navigator. 

La smentita della Regione

La Regione Emilia Romagna, però, fa sapere che non esiste un suggerimento generale, che il divieto non vale per tutte le offerte, bensì solo per quelle con durata inferiori a 90 giorni, che sono la maggior parte.

Ma i navigator non ci stanno e mostrano il documento, da loro ricevuto tra febbraio e marzo scorso, in cui vengono elencate le caratteristiche che deve avere un lavoro ‘congruo’ e che testimonia quanto dichiarato. Si legge infatti: “Offerta congrua: mettere sempre ‘no’ nel campo corrispondente.” 

“Io ad esempio ho proposto anche 5, 7, 10 posti ad un singolo percettore: in alcuni casi anche contratti stabili, in altri comunque ben al di sopra dei tre mesi e sono stati rifiutati perché non erano interessati” ha raccontato un’altra ‘navigatrice’. Anche se nell’articolo non sono specificati ulteriori dettagli riguardanti le proposte di lavoro rifiutate.

Navigator addio

Intanto la figura lavorativa dei navigator è destinata a scomparire. Nella bozza della Legge di Bilancio non compaiono fondi per il rinnovo dei contratti, che quindi dovrebbero scadere a fine anno. Il loro posto verrà preso da agenzie di lavoro private. Uno scenario per cui è stata già annunciata dai sindacati FeLSA CISL, NIdiL CGIL e UILTemp una mobilitazione nazionale il prossimo 18 novembre a Roma.

Antonella Aldrighetti per “il Giornale” l'11 novembre 2021. Con la manovra finanziaria arriva la tanto preannunciata nonché auspicata, stretta sul reddito di cittadinanza. La misura economica, riformulata dal governo Draghi, si prefigge di arginare abusi e irregolarità per incentivare occupazione e inclusione sociale. E sembra totalmente condivisa dallo stesso Luigi Di Maio (in foto) che la ritiene: «Un tagliando al reddito con tanto di aggiornamento e controllo sulle truffe». Furbetti, amanti sconsiderati del divano e lavoratori in nero attenzione, i nuovi vincoli saranno così rigidi che non consentiranno malintesi: chi trasgredirà le regole rimarrà fuori dal beneficio senza appello. Al contempo ai 2.980 navigator in servizio da 2 anni e 6 mesi non saranno rinnovati i contratti ma lasceranno il posto alle agenzie di lavoro interinale iscritte all'Albo e autorizzate dall'Anpal. Saranno loro a svolgere le necessarie attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro tra aziende e percettori dell'assegno di Stato. E per ogni assunto è riconosciuto il 20% dell'incentivo previsto per il datore di lavoro. Tuttavia i nuovi requisiti entreranno in vigore dall'1 gennaio prossimo a partire dalle offerte di lavoro che passeranno da 3 a 2, dal rigore con il quale verrà firmato il patto per il lavoro e quello per l'inclusione sociale che tratteggeranno le nuove caratteristiche sottoscritte nell'articolo 21 del Ddl bilancio 2022 in merito al riordino della disciplina del reddito di cittadinanza. Chi non si atterrà alle nuove direttive vedrà revocato il beneficio: stop al reddito di cittadinanza dopo due proposte di lavoro congrue rifiutate. L'offerta è considerata congrua se il lavoro dista al massimo 80 chilometri dalla residenza, o vi si arriva in 100 minuti con mezzi pubblici; ma il vincolo territoriale salta dalla seconda offerta, che diventa congrua da qualsiasi luogo arrivi in tutt'Italia. Al contempo però già a partire dal prima rifiuto entra il cosiddetto décalage, la decurtazione di una prima porzione di reddito. «Non è sicuramente con un décalage di 5 euro al mese che si risolvono i problemi, qua c'è qualche miliardo da destinare ad altre voci di spesa». È il commento del leader della Lega Matteo Salvini. Ulteriore stop all'assegno arriva se non ci si presenta almeno una volta ogni mese, senza comprovato giustificato motivo, presso un centro per l'impiego. A partire da gennaio si incominceranno a firmare i cosiddetti patti per il lavoro anche per quanti, a causa della pandemia, non si sono potuti recare al centro di zona anche per l'assenza di operatori che lavoravano in smartworking. Sottoscrivendo il patto si accetta il percorso di inclusione sociale che preveder servizi in presenza con un progetto personalizzato e congruo al percettore, altrettanto verranno considerati nuovi progetti utili alla collettività: ciascun comune sarà vincolato a integrare nell'ambito di questi progetti almeno un terzo dei percettori. Vincoli stringenti per la partecipazione in presenza: ogni percorso prevede la frequentazione periodica del percettore di reddito di cittadinanza, ovviamente dotato di green pass, al quale per l'impegno formativo e sociale non verrà riconosciuto alcun bonus aggiuntivo. Una vigilanza speciale sarà svolta dall'Inps alla quale viene chiesta «una specifica attività di monitoraggio a cadenza trimestrale e, entro il mese successivo alla fine di ciascun trimestre». I risultati verranno comunicati al ministero del Lavoro e al ministero dell'Economia.

"I centri per l'impiego devono convocare 600mila persone al mese". Come cambia il reddito di cittadinanza in 10 mosse: tutte le proposte e i paletti per chi rifiuta il lavoro. Redazione su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Più paletti e controlli da una parte, più inclusione sociale dall’altra. La manovra del Governo Draghi, in attesa di essere approvata entro fine anno, conferma la stretta sul Reddito di cittadinanza pur riconoscendo che rappresenta uno strumento indispensabile per contrastare la povertà. Chi avrà la possibilità di lavorare e rifiuta una offerta considerata congrua vedrà scattare un decalage mensile, ovvero un taglio del sussidio. Dopo il secondo rifiuto ci sarà la revoca del reddito. Questa una delle novità confermata nella riunione a Palazzo Chigi del premier Mario Draghi con i ministri del Lavoro, Andrea Orlando, delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, e della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta.

Il taglio dell’assegno sarà quindi legato al sì o no rispetto all’offerta di lavoro (quelli proposti a mille chilometri di distanza non saranno presi in considerazione) e non sarà automatico. Ma prima di procedere entrerà in gioco anche un meccanismo di verifica per accertare che il beneficiario abbia effettivamente ricevuto e nel caso rifiutato l’offerta di lavoro, oltre ai meccanismi per facilitare l’incontro tra domanda e offerta.

Le parole di Brunetta: “Chi non si presenta al cpi perde sussidio”

“Il vecchio sistema era un’accozzaglia di confusione, ideologismi, soluzioni improbabili. In due anni e mezzo è costato 19,6 miliardi. L’importo medio erogato è cresciuto dell’11 per cento, con una serie di abusi e distorsioni sul mercato del lavoro. Basti pensare alle difficoltà di reperire personale nel turismo o nel terziario”. “L’idea di fare tutto per via digitale, a distanza, – continua il ministro – non poteva funzionare. Questa è una materia che richiede la presenza, colloqui costanti. Ora chi non si presenta al centro per l’impiego ogni mese, se non ha ragioni valide, perde il sussidio o gli viene ridotto“. Brunetta osserva che “la prima grande innovazione è tracciare una netta distinzione fra occupabili e non. Oggi 1,68 milioni di nuclei familiari ricevono il Reddito, per un totale di 3,8 milioni di persone coinvolte, ma dei beneficiari solo circa un terzo è occupabile. E su questo che si deve intervenire con le politiche attive del lavoro”.

“I centri per l’impiego devono convocare 600mila persone al mese”

Gli attuali centri per l’impiego dovranno convocare ogni mese 600 mila persone: “E’ fondamentale. Sono ordinario di Economia del lavoro da 40 anni e la letteratura su questo tema è inequivocabile: per collocare le persone bisogna parlarci, conoscerle, confrontarsi in presenza. Nel sistema com’è i beneficiari possono ricevere una raccomandata a casa con l’offerta di lavoro, ma c’è chi la evita proprio per non far scattare l’eventuale rifiuto. Meglio rafforzare il personale dei centri per l’impiego per fare gli screening che mandare assegni online in Romania”, ha concluso Brunetta.

Le 10 proposte per cambiare e migliorare il Reddito

Intanto sono dieci, al momento, le proposte avanzate dal comitato scientifico guidato da Chiara Saraceno e istituito lo scorso marzo al ministero del Lavoro perché previsto dalla legge istitutiva del Reddito. Dieci proposte per migliorare il Reddito di cittadinanza ed eliminare le “criticità” emerse in questi anni. Il lavoro della commissione scientifica “è una base da cui il Parlamento può partire per eventuali integrazioni” ha spiegato il ministro del Lavoro Orlando, “Verrà sottoposto a confronto con le altre forze politiche e valuteremo quali sono le proposte che possono marciare in modo più fluido e altre che possono essere divisive e verranno rimesse al parlamento”.

La prima è quella di non discriminare stranieri: ridurre a 5 anni requisito residenza

“Per ricevere il reddito di cittadinanza sono oggi necessari 10 anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi 2 continuativi”, sottolinea Saraceno. Un limite “altissimo, nessun Paese ce l’ha così alto. Aspettare così tanto a sostenere una famiglia in povertà significa lasciare molti in un percorso di esclusione quasi irreversibile. Il contrasto alla povertà deve agire tempestivamente, non quando è troppo tardi”. Si propone dunque di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza per gli stranieri per l’accesso al reddito di cittadinanza, con un costo di circa 300 milioni di euro in più portando dentro circa 68mila famiglie.

La seconda è quella di rivedere la scala di equivalenza: non si penalizza intero nucleo familiare

Una proposta nata per ridurre il gap tra le famiglie numerose e quelle piccole e i single. Ovvero ridurre la soglia di partenza per i nuclei di una persona da 6000 a 5400 euro; equiparando, nella scala di equivalenza, i minorenni agli adulti, attribuendo a tutti, dal secondo componente della famiglia in su, il coefficiente 0,4; portare il valore massimo della scala di equivalenza a 2,8 (2,9 in presenza di persone con disabilità); in caso di decadenza dal diritto al beneficio a causa di non ottemperanza agli obblighi da parte di un componente della famiglia, la decadenza valga solo per questi, quindi per la sua quota, non per l’intero nucleo. “Ci sono dei problemi nella scala di equivalenza, uno è legato all’Isee, l’altro è legato alla famiglia come il fatto che un minorenne vale la metà di un adulto, ciò va a sfavore dei minorenni: la nostra proposta è di equiparare adulti e minorenni e alzare il coefficiente da 2,1 a 2,8 abbassando l’importo minimo da 500 a 400 euro, quindi con una redistribuzione interna. Oggi il calcolo è più favorevole a famiglie piccole e di adulti. L’assegno unico potrebbe impattare su questo discorso ma va cambiato innanzitutto il meccanismo di accesso”.

La terza: “Una migliore capacità di sostenere i costi dell’abitare”

Secondo il comitato scientifico occorre differenziare il contributo per l’affitto in base alla dimensione del nucleo familiare, riducendolo per i nuclei di una sola persona e incrementandolo progressivamente al crescere del numero dei componenti.

La quarta: parte del reddito anche a chi lavora

“Non penalizzare chi lavora”: nella determinazione del reddito ai fini del calcolo dell’importo del sussidio da considerare, per chi inizia a lavorare o è già occupato, il reddito da lavoro solo per il 60%, senza limiti di tempo, ma fino a quando viene raggiunto il reddito esente da imposizione fiscale (nel 2021, 8174 euro per i redditi da lavoro dipendente e 4800 per i lavoratori autonomi), considerando al 100% la parte eccedente questa soglia.

La quinta: “Considerare il patrimonio in modo flessibile”

Considerare il patrimonio mobiliare come una delle tre fonti – insieme con reddito familiare e RdC – che, in quanto liquidabile, contribuisce a determinare la capacità di spesa (potere di acquisto) di una famiglia; prevedere che una parte del patrimonio mobiliare non sia liquidabile in quanto costituisce un cuscinetto riserva per le famiglie, per un ammontare di 4.000 euro (nel caso di famiglia con un solo componente); calcolare l’entità del RdC dovuto come la differenza tra la soglia di reddito complessivo che il RdC intende garantire e la somma del reddito disponibile e della quota di patrimonio liquidabile.

La sesta: “Eliminare l’obbligo di dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro per chi è indirizzato ai servizi sociali”

Richiedere la dichiarazione di immediata disponibilità solo dopo l’indirizzamento ai Centri per l’impiego e ai servizi sociali e solo a coloro che sono indirizzati (o reindirizzati successivamente) ai primi.

La settima: “Ridefinire i criteri di lavoro congruo per stimolare l’accesso all’occupazione”

Nella considerazione dell’entità minima della retribuzione accettabile rimodularla in base all’orario di lavoro per tenere conto anche di occupazioni part time; per quanto riguarda l’orario di lavoro ritenuto congruo, invece di riferirsi a rapporti di lavoro a tempo pieno o con orario di lavoro non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro, stante che in molti casi questo riferimento non è possibile, fare riferimento a rapporti con orario di lavoro non inferiore all’60% dell’orario a tempo pieno previsto nei contratti collettivi di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015; considerare, almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi, ma anche contratti di lavoro per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare ad entrarvi e fare esperienza; eliminare le severe disposizioni che, ai fini della congruità dell’offerta lavorativa, fissano, dopo la prima offerta, il distanziamento del luogo di lavoro entro 250 chilometri dal luogo di residenza, ovvero su tutto il territorio nazionale, disposizioni palesemente assurde e inutilmente punitive per lavori spesso a tempo parziale e con compensi modesti.

L’ottava: incentivi ai datori di lavoro per le assunzioni dei percettori Rdc

Estendere l’attuale incentivo alle imprese che assumono i beneficiari del RdC anche nel caso di assunzioni con contratto a tempo indeterminato con orario parziale, assunzioni con contratto a tempo determinato, purché con orario pieno e di durata almeno annuale; sospendere, almeno temporaneamente in attesa che il meccanismo divenga più fluido ed efficiente, il requisito della presenza dell’offerta di lavoro sulla piattaforma.

La nona: “Rafforzare i patti per l’inclusione e l’attuazione dei progetti di utilità collettiva”

Oltre a rafforzare e formare adeguatamente l’organico dei servizi sociali comunali, specie laddove è più sotto-dimensionato, occorre definire meglio un sistema di governance molto complesso, che vede interagire soggetti diversi – pubblici, di terso settore, privati – oltre a valutare se utilizzare criteri di priorità generali e rigidi per coinvolgere i beneficiari nei Puc (i componenti adulti della famiglia più giovani) sia il modo più adeguato per far funzionare i progetti e per rafforzare le capacità delle persone.

La decima: Abolire obbligo di spendere tutto in un mese

“Superare le distorsioni nell’utilizzo del RdC”: abolire l’obbligo di spendere l’intero contributo economico entro una scadenza predefinita; ridurre i vincoli sull’utilizzo.

Da "iene.mediaset.it" il 3 novembre 2021. Mentre si discute di nuovo del reddito di cittadinanza, Silvio Schembri ci racconta una protesta di disoccupati a Palermo anche contro molti luoghi comuni. Non vogliono più il reddito di cittadinanza, vogliono lavorare, pure per non sentirsi chiamare più parassiti o fannulloni. Altro che rifiutare le proposte: non hanno mai ricevuto un'offerta. Noi siamo andati a indagare nei Centri per l'impiego, trovando situazioni incredibili (e anche un lavoro per Nadia)

(ANSA il 3 novembre 2021) - "Abbiamo deciso di apportare modifiche alla legge sul Reddito di cittadinanza, innanzitutto facendo un tagliando. Ma io non ho mai sentito nel dibattito sulle truffe alle pensioni di invalidità che qualcuno voleva abolire le pensioni di invalidità. L'1% delle truffe è legato al Rdc, questo però ha una visibilità maggiore rispetto alle altre. Attenzione a non buttare il bambino con l'acqua sporca". Lo ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, presentando il suo libro 'Un amore chiamato politica" alla libreria Feltrinelli a Roma. "Renzi e Salvini lo attaccano ma ne hanno votato il rifinanziamento in Cdm, non un anno fa, 8 giorni fa", ha concluso.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 3 novembre 2021.  Auto di lusso, figli inventati, precedenti penali per reati di criminalità organizzata: ci sono casi incredibili tra quelli scoperti dai carabinieri indagando sui percettori del reddito di cittadinanza. In cinque mesi - tra il 1° maggio e il 17 ottobre - sono state scoperte «4.839 posizioni irregolari, (i cosiddetti furbetti, ndr) il 12% dei 38.450 nuclei familiari controllati per un campione di 87.198 persone». La cifra percepita indebitamente è di quasi 20 milioni di euro. Tra il 2019 e il 2021 la cifra totale di aiuti economici finita nelle tasche sbagliate sfiora i 48 milioni di euro. Sono più di 41 milioni solo nel 2021, ottenuti da chi ha percepito irregolarmente il reddito di cittadinanza. 

I figli

Scrivono i carabinieri: «A Nova Siri un cittadino asiatico ha dichiarato falsamente la presenza in Italia della moglie e delle due figlie, che così hanno percepito il reddito pur abitando nel Paese d’origine. A Napoli si registra aveva due nuclei familiari che avevano ambedue chiesto e ottenuto il beneficio. In provincia di Caserta un uomo si è inventato una famiglia che non aveva e tutti prendevano i soldi. In provincia di Bari una donna si era ‘dimenticata’ di indicare, non solo la targa o l’estremo di registrazione di un veicolo di proprietà, ma addirittura il coniuge. In provincia di Caserta 8 persone dello stesso nucleo familiare hanno falsamente attestato di appartenere a 3 distinte famiglie e di risiedere in altrettante unità abitative, pur abitando nello stesso stabile». 

Auto e altri beni

Secondo il dossier «in provincia di Avellino un uomo aveva una Ferrari , numerosi immobili e terreni di proprietà. Un altro prendeva i soldi nonostante fosse accusato di essere il reggente del clan camorristico «Cavalese». Ad Isernia una donna, titolare di una società di autonoleggio e proprietaria di 27 autoveicoli, con false attestazioni relative alla residenza, al reddito percepito e all’attività lavorativa, ha indebitamente ottenuto il reddito di cittadinanza. In provincia di Lecce i soldi venivano erogati a un detenuto ai domiciliari proprietario di una grossa imbarcazione da diporto. A Taranto un 71enne disoccupato che percepiva il reddito di cittadinanza pur essendo il proprietario, unitamente alla moglie ed al figlio conviventi, di ben 17 autovetture e di una motocicletta, tra cui una BMmw, 1 Mini Cooper, 3 Jeep, 2 Smart e una Kawasaki Ninja. Un altro risultava proprietario di 4 veicoli, di cui due di lusso. Inoltre un percettore del reddito faceva parte di un nucleo familiare che, nell’ultimo triennio, aveva dichiarato rispettivamente redditi pari a euro 324.000, 143.000 e 164.000. In provincia di Potenza è stato denunciato il titolare di una scuola di ballo. 

Criminalità

Ci sono molti detenuti tra chi prende il reddito nonostante sia uno dei divieti espressi contenuti nella legge: «In provincia di Napoli sono stati denunciati tra gli altri 80 soggetti, tutti contigui alla criminalità organizzata, che con dichiarazioni omissive sono riusciti ad ottenere 852.515,91 euro di illecita percezione del reddito di cittadinanza. A Bari Palese un noto pluripregiudicato (arrestato il mese scorso in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare, per furto) aveva richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza nonostante fosse colpito da Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza, avendo omesso di comunicare l’esistenza della misura di prevenzione a suo carico. In provincia di Brindisi un anziano esponente di rilievo della Sacra Corona Unita, ha percepito il reddito omettendo di comunicare di essere sottoposto alla misura della detenzione domiciliare».

Gli stranieri

In provincia di Barletta «le irregolarità emerse hanno riguardato cittadini stranieri sia comunitari, sia extra UE, che hanno falsamente dichiarato di riunire il requisito della residenza in Italia da oltre 10 anni, risultando in realtà presenti da periodi molto più brevi, o addirittura già cancellati all’anagrafe poiché irreperibili da anni, ma artatamente ricomparsi e reiscritti soltanto ai fini della presentazione della domanda tesa a ottenere il reddito di cittadinanza. Altri ancora, una volta ottenuto il reddito sono stati cancellati dall’anagrafe comunale poiché resisi irreperibili o rientrati nel proprio Paese di origine, tornando in Italia circa una volta al mese esclusivamente al fine di poter spendere e monetizzare quanto indebitamente percepito. Vi sono stati anche casi di numerosi soggetti che hanno dichiarato di far parte di nuclei familiari composti da 15-20 persone asseritamente residenti nella stessa abitazione, ma in realtà per l’anagrafe irreperibili o inesistenti».

Scoperte 5mila irregolarità in pochi mesi di controlli. Le storie del reddito di cittadinanza: dai finti figli a Ferrari, barche e aziende, bruciati 20 milioni. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 3 Novembre 2021. Quasi 20 milioni di euro di reddito di cittadinanza percepito indebitamente nel Sud Italia in poco più di cinque mesi di controlli. Sono 4.839 le irregolarità riscontrate, il 12% dei 38.450 nuclei familiari controllati per un campione di 87.198 persone. Ben 1.338 percettori indebiti del reddito erano già noti alle Forze di Polizia per altri motivi e 90 di loro hanno condanne o precedenti per gravi reati di tipo associativo. Chi aveva la Ferrari, chi la barca, chi molteplici appartamenti, chi un autonoleggio con 27 auto, chi una scuola di ballo. E c’è persino chi si è inventato di avere dei figli (ben sei). C’è un po’ di tutto tra coloro che hanno percepito indebitamente il reddito di cittadinanza nel Meridione d’Italia. È quanto è emerso tra il 1° maggio e il 17 ottobre nei controlli realizzati dai Carabinieri del Comando Interregionale “Ogaden”, con giurisdizione sulle Regioni Campania, Puglia, Abruzzo, Molise e Basilicata, unitamente con il Comando Carabinieri Tutela del Lavoro. Controlli mirati a verificare la reale sussistenza dei requisiti da parte dei percettori del reddito di cittadinanza.

In famiglia

A Collepasso (LE), un soggetto ha dichiarato la presenza nel proprio nucleo familiare di sei minori stranieri mai censiti in quel comune, senza avere con gli stessi alcun vincolo di parentela e con l’indicazione dei dati anagrafici priva del luogo di nascita e della nazionalità. Nello stesso Comune pugliese una coppia ha inserito nel proprio nucleo familiare la presenza di altri familiari, in realtà residenti in Germania.

A Nova Siri (MT), i Carabinieri hanno deferito un cittadino asiatico per aver dichiarato falsamente la presenza in Italia della moglie e delle due figlie, che così hanno percepito il reddito pur abitando di fatto nel Paese d’origine.

A Napoli si registra il caso curioso di un uomo del quartiere Stella, presente in due distinti nuclei familiari che avevano ambedue chiesto e ottenuto il beneficio.

In provincia di Caserta un soggetto ha falsamente dichiarato di far parte di un nucleo familiare composto da più persone, di fatto invece inesistente.

A Santeramo in Colle (BA) una donna è stata segnalata all’Autorità Giudiziaria perché si era “dimenticata” di indicare, non solo la targa o l’estremo di registrazione di un veicolo di proprietà, ma addirittura il coniuge. I Carabinieri in questo caso hanno appurato che la donna, al fine di percepire il reddito di cittadinanza aveva richiesto la residenza anagrafica in una via del comune santeramano che altro non era lo stesso appartamento in cui domiciliava e risiedeva il marito, ovvero un unico appartamento, con due ingressi diversi.

In provincia di Caserta 8 persone dello stesso nucleo familiare hanno falsamente attestato di appartenere a 3 distinte famiglie e di risiedere in altrettante unità abitative, pur abitando nello stesso stabile. 

“Nullatenenti”

In provincia di Avellino un 70enne convivente con un Funzionario Comunale (non indagata) possedeva un’automobile marca Ferrari, numerosi immobili e terreni di proprietà.

Sempre in provincia di Avellino, percepiva il reddito di cittadinanza un 50enne, ritenuto il reggente del clan camorristico “Cavalese”, operante in zona.

Ad Isernia una donna, titolare di una società di autonoleggio e proprietaria di 27 autoveicoli, con false attestazioni relative alla residenza, al reddito percepito e all’attività lavorativa, ha indebitamente ottenuto il reddito di cittadinanza.

Ad Aradeo (LE) un individuo, oltre a essere sottoposto alla misura restrittiva della detenzione domiciliare, è risultato intestatario di una grossa imbarcazione da diporto.

A Taranto la “task force” istituita dai Carabinieri ha individuato un 71enne disoccupato che percepiva il reddito di cittadinanza pur essendo il proprietario, unitamente alla moglie ed al figlio conviventi, di ben 17 autovetture e di una motocicletta, tra cui una BMW, 1 Mini Cooper, 3 Jeep, 2 Smart e una Kawasaki Ninja.

A Talsano (TA) un fruitore del beneficio risultava proprietario di 4 veicoli, di cui due di lusso. Inoltre un percettore del reddito faceva parte di un nucleo familiare che, nell’ultimo triennio, aveva dichiarato rispettivamente redditi pari a euro 324.000, 143.000 e 164.000.

In provincia di Caserta aveva chiesto il reddito di cittadinanza un soggetto appartenente ad un nucleo familiare i cui componenti erano titolari di due imprese con reddito annuo di circa 150.000,00 euro complessivi. Nella stessa provincia un soggetto ha falsamente attestato di essere nullatenente pur se intestatario di più immobili.

A Castelfranci (AV) un 22enne, figlio di un dipendente comunale, ha effettuato un cambio di residenza fittizio, costituendo un nucleo familiare a sé stante, pur rimanendo a vivere all’interno della stessa abitazione della madre che è titolare di un’azienda agricola produttrice di uve da vino particolarmente pregiate.

Ad Avigliano (PZ), i Carabinieri hanno deferito all’AG di Potenza 5 persone, una delle quali percettore di reddito di cittadinanza nonostante esercitasse attività lavorativa come gestore di una scuola di ballo.

A Campobasso un giovane 19enne ha presentato domanda di ammissione al beneficio del Reddito di Cittadinanza pur risultando proprietario di tre immobili, non dichiarati.

Criminalità

In provincia di Napoli un soggetto 41enne percettore di Reddito di Cittadinanza al momento della richiesta aveva omesso di dire che era sottoposto a misura detentiva, benché fosse agli arresti domiciliari con tanto di braccialetto elettronico perfettamente funzionante. Nella stessa provincia sono stati denunciati tra gli altri 80 soggetti, tutti contigui alla criminalità organizzata, che con dichiarazioni omissive sono riusciti ad ottenere 852.515,91 euro di illecita percezione del reddito di cittadinanza.

A Bari Palese un noto pluripregiudicato (arrestato il mese scorso in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare, per furto) aveva richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza nonostante fosse colpito da Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza, avendo omesso di comunicare l’esistenza della misura di prevenzione a suo carico.

A San Pietro Vernotico (BR) un anziano esponente di rilievo della Sacra Corona Unita, omettendo di comunicare di essere sottoposto alla misura della detenzione domiciliare, è riuscito a percepire il Reddito di Cittadinanza.

 Irreperibili

A Campobasso quattro stranieri hanno presentato domanda di ammissione al beneficio del Reddito di Cittadinanza dichiarando, falsamente, di risiedere presso strutture di accoglienza dove erano stati ospiti ma ora chiuse e da dove si erano allontanati per ignota destinazione, tanto da essere stati anche cancellati dall’anagrafe comunale per “irreperibilità”;

A Canosa di Puglia e Trinitapoli (BT) le irregolarità emerse hanno riguardato cittadini stranieri sia comunitari, sia extra U.E, che hanno falsamente dichiarato di riunire il requisito della residenza in Italia da oltre 10 anni, risultando in realtà presenti da periodi molto più brevi, o addirittura già cancellati all’anagrafe poiché irreperibili da anni, ma artatamente ricomparsi e riscritti soltanto ai fini della presentazione della domanda tesa a ottenere il reddito di cittadinanza. Altri ancora, una volta ottenuto il reddito sono stati cancellati dall’anagrafe comunale poiché resisi irreperibili o rientrati nel proprio Paese di origine, tornando in Italia circa una volta al mese esclusivamente al fine di poter spendere e monetizzare quanto indebitamente percepito. Vi sono stati anche casi di numerosi soggetti che hanno dichiarato di far parte di nuclei familiari composti da 15-20 persone asseritamente residenti nella stessa abitazione, ma in realtà per l’anagrafe irreperibili o inesistenti.

I dati

Secondo l’Inps allo scorso 30 aprile risultavano percettori del sussidio in Campania, Puglia, Abruzzo, Molise e Basilicata 387.076 nuclei familiari. I Carabinieri hanno controllato i requisiti di 87.198 soggetti appartenenti a 38.450 famiglie beneficiarie (9,9% del totale). Nel corso delle operazioni sono state riscontrate 4.839 irregolarità (pari al 12,6% dei controlli effettuati) e deferite in stato di libertà all’Autorità Giudiziaria 3.484 persone (9,1% rispetto al numero dei nuclei familiari controllati). Di questi ultimi, il 38,4% sono soggetti già noti alle Forze di Polizia, tra cui il 2,6% (90) gravati da condanne o precedenti per reati associativi. L’azione di contrasto ha evidenziato che, nel periodo e nel territorio controllati, le irregolarità riscontrate hanno generato 19.112.615,72 di euro percepiti indebitamente.

Tra i soggetti deferiti nell’intera operazione, il 60,2% sono uomini (2.097) e il restante 39,8% sono donne (1.387). Inoltre, il 59,4% dei deferiti sono cittadini italiani (2.071), mentre il restante 40,6% di nazionalità straniera (1.431).

Campania. Nel territorio della Regione, a fronte di 245.611 nuclei familiari percettori del sussidio, la Legione Carabinieri ha controllato 9.327 famiglie beneficiarie, per 25.296 soggetti. Nel corso delle operazioni sono state riscontrate 2.806 irregolarità (pari al 29,9% dei controlli effettuati) e deferite in stato di libertà 1.722 soggetti, 647 dei quali noti alle Forze di Polizia (75 per gravi reati associativi). Tra le persone deferite il 63,3% sono uomini (1090) e il restante 36,7% sono donne (632). Inoltre, il 60,4% dei deferiti sono cittadini italiani (1040), mentre il restante 39,6% di nazionalità straniera (682). L’azione di contrasto ha permesso di acclarare che, nel periodo in esame, è stata indebitamente percepita la somma complessiva di 9.379.796,36 euro.

Puglia. Nel territorio della Regione, a fronte di 104.137 nuclei familiari percettori del sussidio, la Legione Carabinieri ha controllato 16.571 famiglie beneficiarie, per 39.409 soggetti. Nel corso delle operazioni sono state riscontrate 1.251 irregolarità (pari al 7,5% dei controlli effettuati) e deferite in stato di libertà 1.055 soggetti, 379 dei quali noti alle Forze di Polizia (12 per gravi reati associativi). Tra le persone deferite il 56,4% sono uomini (595) e il restante 43,6% sono donne (460). Inoltre, il 62,8% dei deferiti sono cittadini italiani (663), mentre il restante 37,2% di nazionalità straniera (392). L’azione di contrasto ha permesso di acclarare che, nel periodo in esame, è stata indebitamente percepita la somma complessiva di 5.468.784,05 di euro.

Abruzzo e Molise. Nel territorio delle due Regioni, a fronte di 27.632 nuclei familiari percettori del sussidio, la Legione Carabinieri ha controllato 6.445 famiglie beneficiarie, per 10.642 soggetti. Nel corso delle operazioni sono state riscontrate 383 irregolarità (pari al 5,9% dei controlli effettuati) e deferite in stato di libertà 319 soggetti, 163 dei quali noti alle Forze di Polizia (2 per gravi reati associativi). Tra le persone deferite 61,1% sono uomini (195) e il restante 38,9% sono donne (124). Inoltre, il 59,9% dei deferiti sono cittadini italiani (191), mentre il restante 40,1% di nazionalità straniera (128). L’azione di contrasto ha permesso di acclarare che, nel periodo in esame, è stata indebitamente percepita la somma complessiva di 1.917.361,85 euro.

Basilicata. Nel territorio della Regione, a fronte di 9.696 nuclei familiari percettori del sussidio, la Legione Carabinieri ha controllato 6.107 famiglie beneficiarie, per 11.851 soggetti. Nel corso delle operazioni sono state riscontrate 399 irregolarità (pari al 6,5% dei controlli effettuati) e deferite in stato di libertà 388 soggetti, 149 dei quali noti alle Forze di Polizia (1 per gravi reati associativi). Tra le persone deferite il 56% sono uomini (217) e il restante 44% sono donne (171). Inoltre, il 45,6% dei deferiti sono cittadini italiani (177), mentre il restante 54,4% di nazionalità straniera (211). L’azione di contrasto ha permesso di acclarare che, nel periodo in esame, è stata indebitamente percepita la somma complessiva di 2.346.673,46 euro.

Autodichiarazioni false e residenze spostate. Già 100 milioni regalati a chi non ha diritto. Paolo Bracalini il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Aumentano i controlli di Carabinieri e Fiamme gialle e cresce il numero di "furbetti" smascherati: soltanto da gennaio pizzicati 156mila truffatori. «Non c'è il rischio che metà reddito di cittadinanza possa finire nelle tasche di chi lavora in nero perché abbiamo in atto diverse interlocuzioni con le autorità preposte ai controlli, nessuno ne abuserà» assicurava Di Maio nel gennaio 2019, varando la grande riforma grillina per abolire la povertà. Tre anni dopo la profezia di Di Maio, invece, non si contano più le truffe, gli abusi, le svariate tipologie di criminali - da piccoli furbetti ai boss della camorra - che hanno arraffato il reddito di cittadinanza per mesi o anni senza averne alcun diritto. Anzi, a contarle sono le forze dell'ordine, ma si tratta probabilmente soltanto della punta dell'iceberg dell'illecito che circonda il reddito di cittadinanza. Solo nel corso del 2021 i Carabinieri hanno scoperto più di 41 milioni di euro indebitamente percepiti da 156.822 persone beneficiarie del reddito e finite nelle maglie dei controlli dell'Arma. Nel 2019 erano stati scoperti 10mila illeciti per un totale di quasi un milione di euro, nel 2020 altri 5,6 milioni sottratti con l'inganno della finta indigenza (Il totale in tre anni sfiora quindi i 48milioni di euro). Pochi rispetto alla montagna di abusi scoperti quest'anno, ma non perché nei due anni precedenti il reddito funzionasse meglio. Macché, sono semplicemente aumentati i controlli dei carabinieri, quattordici volte più frequenti rispetto a prima. Anche la Guardia di Finanza conduce controlli a tappeto sui finti poveri assistiti dall'assegno statale caro ai Cinque Stelle. E anche le fiamme gialle scoprono quotidianamente abusi e truffe. Nell'ultima relazione della Gdf sono documentati oltre cinquanta milioni percepiti indebitamente nel 2020 da percettori del reddito di cittadinanza tra cui, si legge, anche «soggetti intestatari di ville e autovetture di lusso, evasori totali, persone dedite a traffici illeciti e facenti parte di associazioni criminali di stampo mafioso, già condannate in via definitiva». Il numero complessivo dei furbetti del reddito è quindi certamente impreciso per difetto. Ma già così è sufficientemente scandaloso: 124mila percettori abusivi che, al 31 agosto scorso, hanno subito la revoca dell'assegno a causa delle false dichiarazioni rese per fingere di possedere i requisiti richiesti. Il problema è a monte, nel modo in cui è stato concepito il reddito, attraverso una autodichiarazione dell'Isee e della residenza, facilmente falsificabili in un paese in cui i furbi riescono a farsi passare per invalidi, farsi passare per nullatenenti, disoccupati o residenti in un indirizzo falso è un gioco da ragazzi. O meglio, un invito a truffare lo Stato e a farsi un secondo stipendio a spese di chi paga le tasse. E infatti così è stato e continuerà da essere. La torta è troppo grande e golosa. Nel 2021, prevede l'Inps, saranno spesi per reddito e pensione di cittadinanza 7,1 miliardi di euro, circa la stessa cifra del 2020 (7,2 miliardi), mentre nel 2019 erano stati solo 3,8 miliardi perché la misura era partita ad aprile. In tre anni quindi l'assegno grillino è costato quasi 18,3 miliardi. In questo oceano di soldi pubblici c'è un mare di truffe e abusi. Un regalo enorme ai furbi specializzati nel vivere a sbafo dello Stato, concentrati soprattutto al Sud, in particolare in alcune aree come Napoli, che conta più percettori di Reddito di cittadinanza di tutta la Lombardia e tutto il Veneto. Le stesse aree in cui il M5s, ovunque in calo vertiginoso di consensi, ha ancora un discreto serbatoio di voti. Una coincidenza, ovviamente. Paolo Bracalini

Non solo meridionali.

Da lastampa.it l'11 novembre 2021. Oltre 9mila persone sono state denunciate dai Finanzieri del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Cremona e Novara su disposizione della Procura della Repubblica di Milano, che stanno dando esecuzione a 16 ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti dei membri di una associazione a delinquere finalizzata alle estorsioni ed al conseguimento di erogazioni pubbliche, tra cui, in particolare, il reddito di cittadinanza. Gli arresti e le perquisizioni condotte nelle province di Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, Milano, Andria, Barletta e Agrigento, hanno consentito di sventare una truffa di oltre 60 milioni di euro relativa a indebite percezioni del reddito di cittadinanza. Si tratta di un’attività criminale studiata a tavolino da una banda di romeni, in tandem con alcuni italiani - in parte complici, in parte vittime di estorsione - in alcuni Caf-Centri di assistenza fiscale abilitati alle pratiche per le richieste di sussidio. L’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli accusa gli arrestati di essersi presentati nei Caf con i codici fiscali di centinaia di cittadini romeni per volta, sostenendo che queste persone esistessero, fossero residenti in Italia da 10 anni e avessero i titoli per usufruire del Reddito di cittadinanza. Nessuno di loro vive però in Italia. In alcuni casi gli italiani erano consapevoli e assecondavano la truffa dietro un compenso di 10 euro, riconosciuto loro dall’Inps, per ogni pratica, in altri casi venivano minacciati.

Truffa sul reddito di cittadinanza, 9mila denunce: 16 arresti. Redazione Tgcom24 l'11 novembre 2021. I finanzieri della guardia di finanza di Cremona e Novara hanno denunciato oltre 9mila persone che avrebbero percepito indebitamente erogazioni pubbliche, tra cui il reddito di cittadinanza. Nell'operazione, che ha consentito di sventare una truffa da 60 milioni di euro, sono state arrestate 16 persone facenti parte di un'associazione a delinquere che era riuscita a produrre "indebite istanze per una truffa di oltre 20 milioni di euro". Sgominata una banda di romeni - Secondo quanto divulgato dalla Gdf di Cremona, gli arresti e le perquisizioni sono state condotte nelle province di Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, Milano, Andria, Barletta e Agrigento. Le fiamme gialle hanno sgominato una banda di romeni che era riuscita a produrre "indebite istanze per una truffa di oltre 20 milioni di euro". Il gruppo esercitava anche pressioni su titolari di Caf compiacenti, loro connazionali, alcuni dei quali sono tra i destinatari delle misure.

Pressioni sui Caf compiacenti - Secondo quanto spiegato dai finanzieri, l'organizzazione, tramite complici in Romania, si faceva inviare nominativi e codici fiscali che poi venivano passati ai Caf compiacenti. Questi a loro volta istruivano le pratiche per persone spesso nemmeno mai state in Italia e se si rifiutavano, finivano per essere minacciati. Altri complici poi si recavano alle Poste per ritirare le card su cui venivano erogati i fondi. In inchieste analoghe, ad esempio, alcuni impiegati avevano notato che gli utenti che si presentavano non conoscevano la lingua italiana e nemmeno quello che stavano chiedendo all'amministrazione pubblica. 

Conoscevano cavilli procedurali - Le 16 persone arrestate poi hanno adottato una "procedura 'parallela' caratterizzata dalla completa elusione e disattesa delle più basilari disposizioni, legalmente sancite". Lo si legge nell'ordinanza del gip milanese Teresa De Pascale che nella sua ricostruzione ha evidenziato che "l’illecito business" architettato è "imprescindibilmente legato alla conoscenza di cavilli procedurali" da parte degli indagati. La truffa riguarda anche il reddito di emergenza.

Lo scandalo infinito del reddito M5s: soldi a 9mila romeni, spariti 15 milioni. Arrestate 16 persone. Luca Fazzo il 12 Novembre 2021  su Il Giornale. La Gdf sventa maxi truffa da 60 milioni. In cella il titolare di un Caf milanese: avviava le pratiche per stranieri mai stati in Italia. Il caso limite di un delinquente arrestato nel 2019: ha percepito il sussidio grillino fino a due mesi fa. «Fi..., 'sti cog... dell'Inps hanno accettato le domande dei rumeni!». È il 17 maggio scorso quando Oscar Nicoli, specialista dell'assistenza fiscale agli immigrati, manifesta il suo stupore. Persino per lui, che delle truffe allo Stato italiano ha fatto un business, la facilità con cui l'Inps si fa beffare dagli imbroglioni del reddito quel giorno appare stupefacente. Ieri Nicoli finisce in galera, insieme ad altri quindici complici. E la retata e le intercettazioni fanno irruzione nello scontro politico sulla legge-simbolo del Movimento 5 Stelle. Perché la rete scoperchiata dalla Guardia di finanza milanese non è fatta di abusi isolati, come ne sono emersi a raffica un po' ovunque nei mesi scorsi. A venire colpita è una associazione criminale strutturata e organizzata, con rami in Italia e all'estero. E le carte dimostrano la vulnerabilità totale del sistema, l'assenza quasi grottesca di controlli. Novemila domande accettate, quasi tutte di rumeni spesso che non hanno mai messo piede in Italia. Cinquantasei milioni di euro autorizzati, erogati solo in parte grazie all'intervento delle «Fiamme gialle». Ma un numero incalcolabile di milioni è comunque uscito: almeno, si stima, 14 milioni e 600mila euro. E sono soldi che lo Stato non rivedrà mai più. Ci sono storie di ogni genere, nell'ordinanza di custodia chiesta e ottenuta dal pm milanese Paolo Storari. Quella di due città rumene, Cariova e Sadova, dove da mesi centinaia di abitanti che non hanno mai visto l'Italia campano grazie al reddito grillino. Le storie di tre palazzi milanesi, nella banlieue di piazzale Selinunte, dove risultano abitare centinaia di rumeni che non ci sono mai stati, tutti percettori di assegno senza che l'Inps trovi strana la cosa. Quella dell'impiegato dell'Agenzia delle entrate di Barletta che si prestava a sfornare codici fiscali per rumeni che non aveva mai visto per la miserabile tangente di cinque euro a codice. E la storia più incredibile e tragica, quella di Lavinia Aiolaiei, ragazzina rumena di appena diciott'anni, ammazzata da un cliente nel 2013 vicino Lodi: a suo nome hanno intascato per anni il reddito, anche se Lavinia non c'era più. Tutto ruota intorno a una agenzia di patronato, la Nova servizi, e al suo capo Oscar Nicoli: l'agenzia è controllata dal Movimento cristiano dei lavoratori, l'associazione nata da una scissione a destra delle Acli negli anni Settanta. Ma di cristiano, nelle pratiche indagate dalla finanza, si respirava poco: l'obiettivo era solo procacciare il reddito a rumeni senza volto, esistenti solo nelle fotocopie dei documenti e a volte neanche in quelle. Come ha raccontato un impiegato dell'agenzia: ognuno dei procacciatori «si presentava presso i nostri uffici ogni 15/20 giorni e presentavano in media circa 20/30 carte di identità remote in fotocopia (...) la prassi è quella che prima facevamo l'Isee, praticamente quasi sempre pari a zero (...) i soggetti rumeni che mi consegnavano i documenti di identità a volte non avevano neanche le fotocopie degli stessi ma avevano delle immagini conservate sul proprio cellulare». Tutte prassi in violazione totale delle procedure previste dalla legge sul reddito, che richiedono la presenza fisica: ma chi controlla? Aiutini anche all'interno delle Poste: per ritirare la prepagata su cui viene accreditato il reddito in teoria serve esibire all'ufficio un codice ricevuto sul cellulare, ma un altro impiegato racconta che «Ispas mi aveva riferito che lui era in grado di ritirare le tessere in posta». Come faceva? E come faceva un altro dei faccendieri a accedere al sistema interno dell'Inps con l'elenco dei versamenti erogati, «tuto coanto, i soldi sono dentro»? D'altronde il cellulare indicato all'Inps per ricevere il codice era sempre lo stesso per otto, nove, dieci richiedenti. Neanche questo ha mai insospettito nessuno. L'ombra di «manine» interne agli uffici c'è, e d'altronde anche il giudice che dispone gli arresti parla di «rapporti corrotti e soggetti compiacenti». Ma quello che emerge dalle carte è sopratutto il ritratto di un sistema dove i controlli di fatto non esistono. E dove può accadere persino che, oltre ai poveri morti come Lavinia Ailoaiei, ottengano e percepiscano il reddito anche delinquenti colpiti da ordine di cattura come Costel Bosnea: il mandato di arresto è del gennaio 2019, l'Inps continua a mantenerlo fino a due mesi fa. Il meccanismo della truffa è così banale («arrivavano tantissime persone rumene senza appuntamento con blocchetti di carte di identità di altre persone ovvero liste di nomi e dati», ha raccontato un'altra impiegata della Nova Servizi) che l'unica difficoltà per il clan era trovare agenzie disposte a metterla in atto, a chiudere un occhio davanti a quei pacchetti di documenti fotocopiati, a volte quasi illeggibili. Al punto che quando in un centro di assistenza, controllato da sudamericani, fanno un po' di storie, i faccendieri rumeni arrivano là, urlano, spaccano, minacciano. «Fate come diciamo noi e vivrete tranquilli», dicono. Il sistema, raccontano le indagini, è quello. Una macchina che si è inserita con brutale efficienza in un provvedimento nato per aiutare chi era davvero in difficoltà. «Il gruppo criminale - scrive il giudice - ha dimostrato proficua organizzazione, estrema professionalità nel delitto e proclività a delinquere». Ma lo Stato gli ha dato una mano.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Musica e banconote: i romeni si "godono" il reddito 5S. Federico Garau l'11 Novembre 2021  su Il Giornale. La donna nelle immagini risulta essere uno dei 16 arrestati dalla guardia di finanza di Cremona nell'ambito dell'inchiesta sui fondi illecitamente sottratti allo Stato. Canzoni arabe e colonne sonore in stile gypsy a fare da sfondo ai video caricati su Tik Tok, mentre si diverte, senza preoccuparsi di eventuali conseguenze del suo gesto. Protagonista di tali filmati, che hanno fatto rapidamente il giro del web, è la 31enne romena Izabela Stelica la quale, come riportato da Repubblica, risulta addirittura essere senza fissa dimora. La straniera, che nelle immagini caricate online ama sfoggiare in favore di telecamera le numerose banconote da venti, cinquanta e cento euro di cui è in possesso, è una delle sedici persone tratte in arresto dalla guardia di finanza di Cremona nell'ambito dell'inchiesta, coordinata dalla procura della Repubblica di Milano, cha ha portato allo scoperto una grave truffa ai danni dello Stato. Una truffa applicata al reddito di cittadinanza che ha causato in tutta Italia perdite per circa 60 milioni di euro, 16 arresti ed oltre 9mila denunce effettuate nei confronti di coloro i quali percepivano illecitamente il sussidio grillino. Mentre proseguono ancora le perquisizioni da parte delle forze dell'ordine nelle province di Cremona, Lodi, Brescia, Pavia, Milano, Andria, Barletta e Agrigento, risulta al momento sgominata una banda criminale di romeni che si occupava non solo di estorsioni ma anche di conseguire erogazioni pubbliche. Appoggiandosi ad un centro di assistenza fiscale e a due distinti patronati operanti a Milano, tutti gestiti da un uomo di nazionalità italiana, il gruppo aveva infatti inoltrato migliaia di richieste di accesso al reddito di cittadinanza utilizzando nomi di cittadini romeni, tra cui addirittura quello di una donna risultata poi deceduta. "Un fenomeno criminale organico e unitario con numerose domande inoltrate all’Inps di Milano, in cui i soggetti dichiaravano falsamente di risiedere in Milano", ha scritto il giudice per le indagini preliminari relativamente al grave episodio. Nessuna preoccupazione, tuttavia, di essere scoperti o delle eventuali conseguenze nel caso in cui tutto fosse venuto a galla. Così, probabilmente si spiegano gli spavaldi video caricati online da Izabela Stelica, che comunque non sarebbe l'unica ad aver ceduto alla tentazione di far sfoggio della propria illecita ricchezza. In rete, sempre su Tik Tok, è comparso infatti anche il video della figlia di un altro dei 16 romeni finiti in manette: nelle immagini la bambina gioca con una mazzetta di banconote.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca. 

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 12 novembre 2021. Caratteristica del gruppo criminale era «l'estrema professionalità a delinquere». Non solo si dimostrava «capace di insinuarsi nelle maglie della burocrazia volta alla predisposizione delle pratiche di reddito di cittadinanza e di emergenza», scrive il gip Teresa De Pascale, architettando un «business imprescindibilmente legato alla conoscenza di cavilli procedurali». Ma dell'ente che truffavano si facevano anche beffa: «Sti co...oni dell'Inps hanno accettato le domande dei rumeni», scrive in una chat intercettata uno dei capi dell'organizzazione. Per il gigantesco raggiro ai danni dell'Istituto nazionale di previdenza sono state arrestate ieri sedici persone, tutte rumene tranne un italiano. Hanno inoltrato 6.000 domande di reddito a favore di altrettanti cittadini rumeni fantasma, che non avevano i requisiti per ottenere i sussidi, incassando indebitamente 14,6 milioni di euro, con un potenziale danno economico ai danni dello Stato di oltre 60 milioni. Solo l'intervento dell'autorità giudiziaria ha consentito l'immediata revoca da parte dell'Inps delle misure già approvate, con il blocco delle erogazioni. «Per delineare meglio la portata del fenomeno criminale - sottolinea il giudice - si consideri che, a fronte di un versamento mensile medio di 500 euro, il contributo erogato in uno solo mese riferito alle 6.000 domande è pari a tre milioni di euro». La truffa al centro dell'inchiesta della Procura di Milano coordinata dal pm Paolo Storari ruota attorno alla Nova Servizi, società con sede legale in centro città che opera in convenzione sia con il Patronato Sias che con il Caf Mcl (Movimento cristiano lavoratori), i cui soci e ideatori del maxi raggiro ai danni dell'Inps sono Oscar Nicoli e Njazi Toshkesi. Si presentavano ai Caf con pacchetti di richieste di reddito di cittadinanza intestate a persone originarie della Romania «che non risultano, contrariamente a quanto dichiarato», aver vissuto mai a Milano e nemmeno in Italia. La gran parte di loro «è titolare esclusivamente di codice fiscale attribuito solo pochi giorni prima che venisse presentata la domanda» di sussidio e inoltre «non hanno il requisito che prevede l'aver risieduto nel nostro Paese per almeno dieci anni». In sostanza, si sosteneva che migliaia di romeni vivessero stabilmente in Italia pur non avendoci mai messo piede. In alcuni casi chi lavorava nei Caf era consapevole della truffa e taceva intascando il compenso di dieci euro a pratica, chi si ribellava veniva convinto a suon di minacce. Le indagini hanno ricostruito la mappa della truffa con residenze fittizie tutte negli stessi palazzi di Milano: 518 persone hanno dichiarato di vivere in un condominio di piazza Selinunte, 287 in via degli Apuli allo stesso numero civico e 212 in una casa di viale Aretusa allo stesso indirizzo. Altra anomalia smaccata nelle domande fasulle è il codice fiscale attribuito in tempi record, oltre al fatto che nell'elenco dei percettori compaiono persone che non avrebbero nemmeno dovuto aprire la pratica. Tra i casi eclatanti spiccano quello di un uomo che «all'atto della presentazione della domanda risultava gravato da un provvedimento di cattura» e di una donna «deceduta, vittima di un omicidio nel settembre 2013». Chi incassava i soldi non resisteva alla tentazione dello sfregio finale, ostentare le mazzette di banconote sui social. Come Izabela Stelika, 33 anni, finita in cella. Nel suo video su Tik Tok è a letto, sotto le coperte, mentre sparge le banconote incassate attraverso un «illecito profitto ai danni della collettività - si legge nell'ordinanza - potendo contare su una rete ramificata di rapporti compiacenti, su metodiche collaudate, su una base operativa nei Caf e sulla capacità intimidatoria del gruppo». I governatori leghisti stigmatizzano: «Il rifinanziamento del reddito di cittadinanza non solo impegna risorse su una scelta assistenzialista, ma espone ulteriormente il Paese a truffe milionarie ordite da organizzazioni criminali».

1.500 immigrati col reddito 5s: la maxi-truffa. Federico Garau il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Gli uomini della Guardia di finanza sono risaliti a ben 1.532 domande illecite presentate da cittadini stranieri residenti per la maggior parte nei carruggi del centro storico. Maxi operazione delle Fiamme gialle che, grazie alla collaborazione dell'Inps, sono riusciti a risalire a ben 1.532 illecite domande di reddito di cittadinanza presentate da cittadini stranieri. La scoperta è stata effettuata dagli uomini del Nucleo Operativo Metropolitano del I Gruppo di Genova, impegnati in un'operazione di controllo finalizzato a tutelare la spesa pubblica.

I risultati dell'operazione

Le indagini hanno portato alla scoperta di un consistente numero di cosiddetti furbetti del reddito, quasi tutti extracomunitari, che avevano inoltrato la richiesta per ricevere il sussidio grillino durante lo scorso 2020. Nelle domande, però, non erano presenti quelli che restano i requisiti necessari per ricevere l'assegno, ossia la residenza ed il soggiorno sul territorio nazionale per dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi. I dati a disposizione della Guardia di finanza sono stati incrociati con quelli della Questura locale, ed il risultato è stato proprio quello di incastrare gli stranieri, la maggior parte dei quali residenti nei carruggi del centro storico. Secondo quanto riferito dalle autorità, gli extracomunitari si erano rivolti ad un Caf della zona, fornendo tuttavia informazioni false. La lunga lista di illeciti percettori del reddito è stata dunque tempestivamente inoltrata e segnalata agli uffici dell'Inps, che ha subito provveduto ad interrompere l'erogazione dell'assegno ed a revocare il sussidio. Tanto il denaro sottratto allo Stato ed alle persone che ne avevano effettivamente bisogno: stando alle ultime informazioni, si parla di ben 3.458.736,04 euro. Oltre a ciò, la Guardia di finanza ha scoperto che con gli assegni intascati molti degli stranieri non provvedevano ad acquistare cibo o beni di prima necessità. L'importo accreditato sulla carta emessa dalle Poste veniva monetizzato con la complicità di alcuni commercianti del centro storico genovese.

Le lacune del reddito grillino

Non si tratta, purtroppo, del primo caso di appropriazione indebita del reddito di cittadinanza da parte di extracomunitari. Di recente la Guardia di finanza di Catanzaro ha denunciato ben 469 cittadini stranieri che, fornendo informazioni false, erano riusciti ad intascare il sussidio. Si fa pertanto impellente la necessità di apportare delle modifiche alla misura varata dai 5 Stelle, intensificando anche i controlli. Mentre il leader di Italia Viva Matteo Renzi pensa a porre la parola fine al reddito di cittadinanza, mediante referendum abrogativo, al governo si lavora per cambiarlo. Lo stesso ministro del Lavoro Andrea Orlando ha parlato della sua intenzione di effettuare alcune correzioni.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).  

L'ultima truffa col reddito di cittadinanza: "rubati" 500mila euro. Giuseppe Spatola il 21 Settembre 2021 su Il Giornale. Il comando provinciale carabinieri di Brescia, in stretta collaborazione con la Direzione Provinciale dell’Inps di Brescia e il Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro di Brescia, ha denunciato 89 persone. Da oltre un anno e mezzo percepivano il reddito di cittadinanza senza averne diritto. Oggi il comando provinciale carabinieri di Brescia, in stretta collaborazione con la Direzione Provinciale dell’Inps di Brescia e il Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro di Brescia, a conclusione di approfonditi controlli, ha denunciato in stato di libertà 89 persone, ritenute responsabili di aver dichiarato il falso nella documentazione utilizzata per richiedere il reddito di cittadinanza.

Indagini a tappeto

Le indagini dei militari dell’arma hanno consentito di confermare l’indebita percezione del reddito con i denunciati che non hanno riferito di essere sottoposti a misure cautelari personali, di essere proprietari di autoveicoli, di percepire un reddito da lavoro dipendente con regolare contratto a tempo determinato. Alcuni avevano dichiarato falsamente di essere stati residenti in Italia per almeno 10 anni in maniera continuativa, altri risultavano irreperibili da tempo sul territorio nazionale. Altri ancora avevano presentavano modelli ISEE attestanti informazioni non vere in relazione alla situazione reddituale e patrimoniale.

Stato truffato per oltre mezzo milione di euro

La cifra complessiva percepita illecitamente ammonta a circa 500mila euro. I carabinieri hanno immediatamente avviato la procedura per sospendere l’erogazione dei benefici mentre, in collaborazione con la Direzione Provinciale dell’Inps di Brescia e il Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro di Brescia, sono ancora in corso approfondimenti sulle posizioni di circa 1000 persone. "Il reddito di cittadinanza fa notizia solo per le continue truffe e abusi. Usiamo le risorse disponibili per il lavoro di cittadinanza così come indicato dal ministro Giorgetti", così l’europarlamentare della Lega Angelo Ciocca. Stessa linea per Viviana Beccalossi, presidente del Gruppo Misto nel consiglio regionale della Lombardia. "Mi chiedo cosa si aspetti - ha detto Viviana Beccalossi- per porre rimedio a un sistema che in questi anni ha permesso abusi di ogni tipo”.

Nel mirino altre mille posizioni

La maxi inchiesta bresciana, che segue di pochi giorni quella portata a termine dalla Procura di Perugia che ha recuperato 186 mila euro, non è finita. Nel mirino di carabinieri e magistrati, infatti, ci sarebbero almeno altre mille persone che non avrebbero dichiarato la verità nelle autocertificazioni. I controlli incrociati, che arrivano anche all’estero, nelle prossime settimane potrebbero portare alla luce una delle più estese truffe i danni dello Stato messe a segno da quelli che nelle Procure di tutta Italia sono stati già ribattezzati “i furbetti del reddito di cittadinanza”.

Giuseppe Spatola. Sono nato a Modica (Ragusa) il 28 ottobre 1975 e subito adottato dalla Lombardia dove ho vissuto tra Vallecamonica, Milano, Pavia e lago di Garda bresciano. Giornalista professionista, sono sposato con una collega, Carla Bruni, e ho due figlie, Ginevra e Beatrice, con cui vivo a Desenzano insieme a due cani e quattro gatti.  Ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche a Pavia e il corso triennale in Sociologia dell'Ateneo di Chieti. Già consigliere nazionale dell'ordine dei giornalisti, segretario della commissione ricorsi, sono stato anche consigliere dell’Associazione Lombarda dei giornalisti e consigliere regionale dell'Ordine. Premio cronista dell'anno con menzione speciale del Vergani nel 2016, ho scritto 

Furbetti del reddito di cittadinanza con Porsche e Maserati, denunce da Nord a Sud. Brescia: Porsche e reddito di cittadinanza, denunciate 117 persone. Da ilsole24ore.com l'8 ottobre 2021. I finanzieri hanno individuato vari casi di percezione del reddito di cittadinanza pur in presenza di soggetti sottoposti a detenzione o destinatari di misura cautelare personale. I finanzieri del Comando Provinciale di Brescia, mediante una serie di attività di analisi (condotte anche con l'ausilio della componente specialistica del Corpo e in sinergia con l'Inps) e mirati accertamenti investigativi, hanno individuato e denunciato 117 persone che nella provincia hanno percepito il reddito di cittadinanza senza averne diritto. Oltre alla denuncia dei responsabili all'Autorità Giudiziaria, le Fiamme Gialle hanno provveduto a segnalare le risultanze investigative alla Direzione Provinciale dell'Inps, ai fini dell'immediata revoca dell'erogazione del beneficio e del recupero delle somme indebitamente incassate, ad oggi quantificabili in diverse centinaia di migliaia di euro.

Prestanome di auto nullatenenti: un business ricchissimo e pericoloso

Inoltre, un’articolata operazione ha consentito di segnalare 61 persone per violazione delle disposizioni del decreto. I finanzieri hanno individuato vari casi di percezione del reddito di cittadinanza pur in presenza di soggetti sottoposti a detenzione o destinatari di misura cautelare personale. Tra questi, alcuni condannati in via definitiva per gravi reati, una persona straniera che oltre a essere stata colpita da misura cautelare degli arresti domiciliari è risultata proprietaria di 3 autovetture di lusso, tra cui una Porsche di recente immatricolazione e di elevato valore commerciale.

Ieri a Treviso accertati 116 irregolari

Nella giornata di ieri 7 ottobre La Guardia di Finanza di Treviso aveva accertato in capo a 116 persone l'indebita percezione di somme per oltre 700 mila euro, in ragione dell'assenza delle condizioni legittimanti la fruizione del reddito di cittadinanza. I controlli, concentrati sulla veridicità dei dati contenuti nelle autodichiarazioni dei beneficiari, hanno consentito di rilevare appunto 116 posizioni irregolari, dislocate su tutto il territorio della provincia. Tra loro uno nel periodo di fruizione del reddito di cittadinanza ha addirittura acquistato un lussuoso Suv Maserati ’Levante’, un altro ha vinto oltre 1,6 milioni di euro al gioco online senza comunicarlo all’Inps. Per 45 persone, in gran parte cittadini stranieri, la causa della illegittima fruizione del beneficio è dovuta alla mancanza del requisito della residenza, tenuto conto che la legge prevede che il richiedente il sussidio debba essere residente in Italia da almeno 10 anni e che lo sia stato continuativamente negli ultimi due anni. Tra i richiedenti sono stati individuati anche tre italiani iscritti all'Aire, che hanno falsamente attestato di essere residenti in Italia, al solo scopo di ottenere il beneficio economico. Un coneglianese, emigrato nel 2011 in Venezuela, è rientrato in Italia nell'estate del 2019, presentando dopo appena due settimane l'istanza per accedere al Rdc.

Sul reddito Di Maio fa finta di non vedere: "Solo l’1% delle truffe..." Ignazio Riccio il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il ministro degli Esteri respinge nettamente l’idea di abolire il sostegno economico ai cittadini in difficoltà dopo le polemiche degli ultimi giorni: "Si rischiano problemi di ordine sociale". La difesa a spada tratta del Reddito di cittadinanza arriva da uno dei massimi esponenti del Movimento 5 Stelle, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che respinge nettamente l’idea di abolire il sostegno economico ai cittadini in difficoltà. Il pentastellato risponde alle accuse mosse nei confronti della misura dopo l’ultima maxi operazione condotta dai carabinieri nel Napoletano, dove le truffe sono all’ordine del giorno. Nella provincia partenopea sono migliaia gli irregolari che percepiscono il Reddito di cittadinanza, tra cui camorristi, lavoratori in nero, contrabbandieri e parcheggiatori abusivi. Di Maio è intervenuto come ospite nella trasmissione di La7 Non è l’arena, condotta da Massimo Giletti (clicca qui per vedere il video). “Il Reddito di cittadinanza equivale solo all'1% delle truffe in Italia – ha detto il ministro – e da sempre combattiamo i furbetti, ma lo facciamo anche nel caso delle pensioni di invalidità, dei bonus familiari, degli assegni familiari. Una cosa non ho capito, Giletti: perché quando lei si è occupato di falsi invalidi, nessuno ha chiesto di abolire le pensioni di invalidità? Noi con Draghi giustamente abbiamo cambiato i meccanismi per evitare queste truffe”. Una difesa ad oltranza quella di Di Maio che ha spostato il tiro sulle regioni, colpevoli di non riuscire a gestire il sostegno economico sul territorio, provocando anche la reazione ironica di Giletti. Per il pentastellato l'abolizione del Reddito creerebbe problemi di ordine sociale. “Allora è sempre colpa di Salvini – ha ribattuto il conduttore – ha in mano tutte le regioni”, ma il ministro ha sorvolato aggiungendo: “Ho messo a disposizione 1,5 miliardi per i centri per l'impiego e non li hanno usati. Ora mettiamo in contatto direttamente le imprese con i percettori. Io nel 2018 ho scritto una legge che diceva: chi rifiuta la proposta di lavoro deve perdere il reddito di cittadinanza. Lo sa perché non sta avvenendo? In alcune zone d'Italia si manda la mail ai percettori, dicendo che c'è un posto di lavoro libero. Dall'altra parte non si apre la mail e così non risulta che abbiano ricevuto un'offerta. Questo non è accettabile”. Infine, l’ultimo scambio di battute tra i due interlocutori. “Non mi si venga a dire – ha evidenziato Di Maio – che siccome non funziona la parte finale, che tra l'altro non dipende neanche dallo Stato, debba essere abolito tutto l'impianto per 3 milioni e mezzo di persone che durante la pandemia hanno dato da mangiare alle loro famiglie”. La risposta di Giletti è stata immediata: “Certo, ma si diceva anche che serviva a far trovare un lavoro”. Il ministro degli Esteri ha ribadito alcuni dei concetti espressi a Non è l’arena anche sulla rete televisiva Mediaset, nella trasmissione Mattino 5. (clicca qui per vedere il video). "Come tutti gli strumenti, il Reddito di cittadinanza – ha spiegato Di Maio – va collaudato e messo a punto. In Germania dieci anni fa è stata presa una misura simile, poi è cambiata quattro o cinque volte in dieci anni. Questo provvedimento trova concordi tutte le forze politiche di maggioranza”.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito d

SCHEDA DI SINTESI DELLA MISURA DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Il D.L. 4/2019, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 gennaio 2019, ha introdotto, tra l’altro, il “Reddito di Cittadinanza”, quale misura di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro, di contrasto alla povertà, con l’obiettivo, altresì, di favorire l’inclusione sociale. Il sussidio viene riconosciuto ai nuclei familiari in possesso, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione (18 mesi prorogabili di ulteriori 18), di svariati requisiti, tra cui quelli:

patrimoniali [ISEE inferiore a € 9.360; proprietà immobiliare in Italia o all’estero non superiore a € 30.000 (esclusa l’abitazione principale); patrimonio mobiliare (depositi, conto corrente, ecc.) non superiore a € 6.000 per nuclei familiari con 1 componente, € 8.000 per nuclei con 2 componenti, € 10.000 per nuclei composti da 3 o più componenti. Altresì, l’istante non deve possedere: navi ed imbarcazioni da diporto; autoveicoli immatricolati per la prima volta nei 6 mesi antecedenti la domanda; veicoli di cilindrata superiore a 1.600 c.c. nonché motoveicoli di cilindrata superiore a 250 c.c. immatricolati per la prima volta nei 2 anni antecedenti l’istanza];

di cittadinanza, residenza o soggiorno (essere cittadino: italiano o dell’Unione Europea; di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per lunghi periodi; apolide in possesso di analogo permesso; residente in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi 2 in modo continuativo);

Giudiziari (non essere sottoposto a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida di arresto o fermo; assenza di condanne definitive intervenute nei 10 anni precedenti la richiesta per “Associazione di tipo mafioso anche straniere”; “Scambio elettorale politico-mafioso”; “Strage”;  “Truffa aggravate per il conseguimento di erogazioni pubbliche”; “Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico”; “Attentato per finalità terroristiche o di eversione”;  “Sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

"Volevano abolire la povertà. Hanno abolito solo l'onestà". Pier Francesco Borgia il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Onorevole Paita (Iv), Renzi non usa mezzi termini. Dice: "Il reddito di cittadinanza anche a chi aveva la Ferrari. L'ennesimo capolavoro dei Cinque Stelle. E la chiamavano onestà".

Onorevole Paita (Iv), Renzi non usa mezzi termini. Dice: «Il reddito di cittadinanza anche a chi aveva la Ferrari. L'ennesimo capolavoro dei Cinque Stelle. E la chiamavano onestà».

«Gli scandali che stanno emergendo sono solo nuovi scandali. È da tanto che diciamo che il sistema così non funziona ed è immorale non pensare a una riforma che ne metta in discussione l'impostazione».

Oramai sono rimasti solo i Cinquestelle a difendere il Reddito di cittadinanza convintamente.

«La platea che condivide la nostra posizione è grande. È la parte del Paese che produce e che pensa che questo strumento non è altro che assistenzialismo fine a sé stesso. Mi faccia portare un esempio. Come sa, siamo a corto di camionisti e la patente di guida per tir costa fino a 7mila euro. Ho fatto inserire nel decreto Trasporti un emendamento nel quale si aiuta chi vuole prendere la patente a patto che poi vada a lavorare e non continui a vivere di Reddito di cittadinanza. Noi ci impegnano per le politiche attive del lavoro, non per l'assistenzialismo».

Anche Draghi, però, ha difeso il Rdc. Dicendo che va corretto ma che è importante come strumento per combattere la povertà.

«Giusto trovare strumenti che combattano la povertà. Il Reddito di cittadinanza, però, produce un danno culturale enorme».

Ritiene quindi il Reddito un fallimento politico?

«La realtà ha ampiamente dimostrato che questo strumento non ha combattuto la povertà. Non solo i centri per l'impiego non hanno funzionato ma non è stata adottata un'adeguata catena di controllo per evitare le truffe. Volevano abolire la povertà ma rischia di essere abolita l'onestà».

Renzi tempo fa aveva annunciato un referendum per rimettere in discussione il Rdc. State ancora raccogliendo le firme?

«La raccolta va avanti. Se, però, a livello politico la maggioranza trova una soluzione che superi la necessità di quel referendum ci fermiamo».

Sulle modifiche del Reddito tornerete a confrontarvi col Pd?

«Quando è stato introdotto il Reddito il Pd ha avuto posizioni molto critiche, sostenendo altri strumenti come il Rei (reddito di inclusione). Mi auguro il Pd voglia essere coerente con le posizioni di allora. E mi auguro che il rapporto con i Cinquestelle non faccia venir meno quel comune sentire».

A proposito di «comune sentire», com'è il rapporto col Pd?

«Alle amministrative ci siamo collocati nell'alveo del centrosinistra. E i risultati migliori il centrosinistra li ha ottenuti là dove si è aperto alle istanze del riformismo evitando accordi coi populisti».

Tra chi ha goduto di questa formula c'è il governatore dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini che ora dice che per questa coalizione il maggioritario è il sistema più adatto.

«Posto che sono favorevole al maggioritario, dico che la sua esperienza in Emilia Romagna conferma che se non ci allea con i populisti, si vince e si e' credibili. Ma il PD non sembra pensarla come Bonaccini».

Quindi la «cosa giallorossa» non fa per voi.

«Ci collochiamo nell'area riformista che è un progetto autonomo, che sposa l'agenda Draghi e che vuole investimenti, infrastrutture, la riforma della Pubblica amministrazione e soprattutto combattere l'assistenzialismo». Pier Francesco Borgia

Le modifiche alla misura simbolo del M5S. Come cambia il reddito di cittadinanza: vietato il ‘no’ al lavoro, meno soldi ogni mese senza impiego. Carmine Di Niro su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Il reddito di cittadinanza cambia. La misura simbolo del Movimento 5 Stelle viene modificata nella legge di bilancio del governo Draghi. Il premier aveva ribadito più volte di condividerne il principio, ma troppi sono stati gli abusi dalla sua nascita, e l’esecutivo ha quindi deciso di mettere mano al sistema. Sistema che, come chiarito dallo stesso presidente del Consiglio nella conferenza di giovedì, “va mantenuto, senza abusi, e non deve ostacolare il funzionamento del mercato del lavoro, cosa che invece è avvenuta”.

TAGLI ALL’ASSEGNO – La notizia più importante arriva dalla decisione di ‘tagliare’ l’assegno. A decorrere dal ° gennaio 2022, il beneficio economico mensile del Reddito di cittadinanza è ridotto di 5 euro ogni mese a partire dal sesto mese, finché uno degli elementi del nucleo familiare non sottoscriverà un contratto di lavoro. Un taglio che arriva sulla scia di quanto avviene già oggi per gli altri sussidi di disoccupazione Naspi e Dis-Coll (al 3%), mentre con l’Rdc è più leggero, con  l’1% del beneficio economico massimo per un single, pari a 500 euro mensili. Un taglio totale che ammonterà a 60 euro, il 10% della prestazione totale, come avviene già oggi (ma al 3%) per i sussidi di disoccupazione Naspi e Dis-Coll. Riduzione dell’assegno che non verrà applicata alle famiglie in cui tutti i componenti sono inoccupabili o finché c’è un componente che ha meno di tre anni oppure una disabilità grave oppure non è autosufficiente. Inoltre l’assegno non potrà mai scendere sotto i 300 euro al mese, (per un single, da moltiplicare per la scala di equivalenza) e quelli da 300 euro non saranno toccati, con il decalage che verrà sospeso il beneficiario inizia a lavorare e riprenderà se perde il posto.

CONTROLLI – Cambia anche il sistema dei controlli, vera e propria voragine che ha permesso l’emergere di numerosi casi di ‘furbetti’ che hanno intascato l’assegno senza averne diritto, in particolare i percettori abusivi perché condannati con sentenza passata in giudicato da meno di 10 anni.

Una stretta che sarà frutto di una triangolazione delle informazioni tra Inps, ministero del Lavoro e ministero della Giustizia. Controlli che, ha spiegato poi Draghi, dovranno essere ex ante e non post, come avvenuto fino ad oggi.

QUANDO DECADE L’ASSEGNO – Il Reddito di cittadinanza ‘decade’ se il beneficiario non si presenta al Centro per l’impiego quando convocato.

Non solo: niente più sussidio al secondo rifiuto di un’offerta di lavoro, e non tre come accade oggi. Offerta che potrà essere anche a tempo determinato, a 80 chilometri da casa, a part-time, in somministrazione (ma non sotto i tre mesi) e ovunque in Italia (solo contratti stabili).

LAVORARE PER IL COMUNE – I Comuni, si legge nella manovra, sono tenuti ad impiegare almeno un terzo dei percettori di RdC residenti. Ma per i beneficiari del sussidio lo svolgimento di tale attività non è assimilabile ad una prestazione di lavoro subordinato o parasubordinato e non comporta quindi l’instaurazione di un rapporto di pubblico impiego con le amministrazioni pubbliche’. 

Inoltre lo svolgimento di queste attività è da considerare a titolo gratuito.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

Cosa funziona e cosa proprio non va nel Reddito di cittadinanza. Il sussidio servirebbe a molte persone che invece non lo percepiscono, ma non sta ottenendo risultati sul fronte dell’avviamento al lavoro. Uno studio della Caritas prova a spiegare come andrebbe cambiato. Gloria Riva su L'Espresso il 13 ottobre 2021. Estenderlo, ridurlo, eliminarlo. Se c’è un argomento che spacca la maggioranza è il futuro del reddito di cittadinanza, percepito da 1,65 milioni di italiani per un costo complessivo di 8,3 miliardi. Il premier Draghi intende metterci mano per vincolare ancor di più l’erogazione del sussidio all’ingresso nel mondo del lavoro, il Pd sarebbe d’accordo, mentre il Movimento 5 Stelle lo difende a spada tratta, al contrario Italia Viva, Lega e Forza Italia vorrebbero abolirlo, trovandosi perfettamente allineati alla leader di Fratelli d’Italia, che l’ha definito «metadone di Stato». A tre anni dalla sua introduzione, è la Caritas a realizzare un monitoraggio sull’antidoto alla povertà assoluta e a suggerirne una riforma, almeno per far finire il reddito nelle tasche giuste, visto che nel 56 per cento dei casi il reddito viene percepito da famiglie che non sono in povertà assoluta. «Una revisione servirebbe, ma è politicamente complicato metterci mano. Per aggiustare il tiro, bisognerebbe togliere il reddito a quanti lo percepiscono impropriamente ed estendere il sussidio al Nord del paese, dove molte famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà perché il costo della vita è più elevato», spiega Cristiano Gori, professore all’Università di Trento, responsabile scientifico del rapporto Caritas e membro del Comitato Scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, nominato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Proprio il Comitato, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno, a breve fornirà al ministero una serie di indicazioni per modificare il reddito, che potrebbero già entrare nell’imminente finanziaria. 

IL DIVANO O IL LAVORO

Il punto politicamente più controverso è l’attivazione al lavoro. Imprenditori e liberisti sostengono che il sussidio sia un deterrente alla ricerca di un’occupazione. Affermazione vera solo in parte, dal momento che, secondo la Caritas, è vero che «per il Meridione è alto il rischio di trappola della povertà, perché il valore del Rdc è troppo elevato, al punto da avvicinarsi ai salari medi di persone poco qualificate». Ma è altrettanto vero che nel 57 per cento delle famiglie con il reddito c’è almeno una persona che lavora. Il problema, dunque, sta piuttosto nei bassi salari, che non consentono a una famiglia monoreddito di vivere dignitosamente e, una soluzione potrebbe essere l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne: «Se in ogni famiglia lavorassero due persone anziché una soltanto, allora la quota di nuclei in povertà assoluta scenderebbe dal dieci al due per cento», conferma il rapporto Caritas, secondo cui il 70 per cento delle famiglie con il sussidio ha al proprio interno una persona, per lo più donne o giovani disillusi, che potrebbe lavorare. Soluzione più facile a dirsi che a farsi. Perché in teoria il RdC prevede per tutti i componenti del nucleo famigliare un percorso di aiuto nella ricerca di lavoro, in pratica quasi nessuno ne ha trovato uno. Del milione e 650 mila beneficiari inviati ai Centri per l’impiego, poco più di un milione è risultato idoneo a sottoscrivere un patto per il lavoro, ovvero un impegno ad accettare un’offerta di lavoro, oltre a partecipare ai corsi di formazione. Di questi, solo 327mila hanno effettivamente sottoscritto l’accordo. E gli altri? Hanno dato forfait. E senza alcuna penalizzazione, dal momento che, a causa del Covid, è stata sospesa l’obbligatorietà all’attivazione al lavoro prevista per legge. In questi tre anni meno di un beneficiario su quattro ha ricevuto almeno un contratto di lavoro e solo il 14 per cento è ancora occupato. Dunque il sistema di attivazione è un buco nell’acqua, se si considera che i beneficiari del reddito lavorano solo 0,6 giorni in più al mese rispetto a prima: «Quindi non c’è stato un “effetto divano”. Il reddito non disincentiva la ricerca di un lavoro», dice il rapporto Caritas. I motivi di una mancata attivazione sono da ricercare altrove: «Ci si dimentica che l’Italia ha una carenza intrinseca di posti di lavoro, figuriamoci per persone con bassissima qualifica come lo sono i percettori del reddito», dice Gori. I beneficiari sono persone molto deboli dal punto di vista lavorativo e in grande difficoltà economiche, psicologica e sociale, il cui problema non è tanto l’inserimento nel mercato del lavoro, quanto nell’attivazione sociale, nella scarsa autostima e incapacità di connettersi al mercato del lavoro. I centri per l’impiego non sono strutturati per aiutare persone così fragili e, per il momento, non vi è traccia dell’implementazione di un tale servizio nell’imminente riforma del Lavoro. 

NELLE TASCHE SBAGLIATE

Anche se gli oltre otto miliardi messi a disposizione sarebbero sufficienti per andare in soccorso all’80 per cento delle famiglie in povertà assoluta, il reddito di cittadinanza ne aiuta solo il 44 per cento. In base alle ricerche del professor Massimo Baldini dell’Università di Modena il 36 per cento dei beneficiari non è povero, e se si considerano i dati della Banca d’Italia tale quota sale al 51 per cento. «Significa che non di rado la misura sbaglia mira. Perlopiù non si tratta di frodi, ma di errori nel disegno della misura. Il Reddito è stato costruito in modo da andare, in parte significativa, a persone con difficoltà economica che però non sono povere e dovrebbero essere aiutate in altro modo», spiega Cristiano Gori. Tra chi ne avrebbe diritto, ma è stato escluso, ci sono stranieri, lavoratori, famiglie con figli a carico e persone che risiedono al Centro Nord con case di proprietà. Al contrario, tra i falsi beneficiari ci sono famiglie con anziani, nuclei del Meridione, persone con disabilità, single che non lavorano. La Caritas invita a modificarne le regole di accesso in modo da limitare l’erogazione del reddito a chi ne ha davvero bisogno, «altrimenti, se si volesse usare il RdC per combattere l’intero fenomeno della povertà, servirebbero 32 miliardi l’anno», si legge nel dossier. La parte più complessa dell’agenda politica riguarda le sottrazioni: «Non esistono scorciatoie. Se non si toglie il reddito a chi non ne ha diritto, non è possibile tutelare in modo adeguato i poveri assoluti. Dare il reddito di cittadinanza a chi non è povero significa negarlo a chi lo è: può non piacere, ma le cose stanno così», dice Gori. Anche perché il numero dei beneficiari sta aumentando: erano 1,19 milioni di famiglie a marzo 2020, cresciute a 1,65 quest’anno. E parallelamente l’Istat dice che anche la povertà assoluta è in crescita, specialmente al Nord, dove quest’anno le famiglie gravemente indigenti sono passate da 331mila a 943mila. «Nelle Regioni del Nord è più probabile che vi siano famiglie povere che non ottengono il sussidio perché le soglie economiche di accesso al Reddito sono uguali per tutta la nazione, mentre non si considera che il costo della vita al Nord è più alto che nel resto del Paese. Ecco perché al Nord solo il 37 per cento delle famiglie che ne avrebbe diritto percepisce il reddito, contro il 69 del Centro e il 95 per cento del Sud», dice Gori. D’altronde la gran parte delle famiglie che impropriamente riceve il reddito non vive nell’oro: «Servono risposte adatte alla loro situazione attraverso una molteplicità di altre politiche di welfare pubblico, dal sistema fiscale, all’assegno unico per i figli e gli ammortizzatori sociali, tutte misure in fase di riforma. A maggior ragione, è questo il momento per fare chiarezza sugli obiettivi del reddito di cittadinanza, così da intervenire in modo appropriato sulle altre riforme», sostiene Gori. 

QUESTIONE STRANIERI

Spostare il peso del reddito di cittadinanza al Nord e avviare un forte investimento sulle politiche sociali e occupazionali per liberare i percettori del reddito dalla povertà assoluta, sono misure che stenteranno a trovare un padre politico. Figuriamoci quando si tocca la questione stranieri, in un paese dove lo Ius Soli è ancora un miraggio. Secondo il rapporto Caritas il 15,8 per cento dei percettori del reddito è straniero, ma esiste un vincolo rigidissimo per accedere al sussidio, ovvero dieci anni di residenza in Italia: «Il nostro è il paese europeo con i requisiti di residenza più stringenti d’Europa, insieme alla Danimarca (nove anni)», commenta Gori, secondo cui questa discriminante impedisce a quattro famiglie straniere in povertà su dieci di avere accesso al sussidio. 

FUORI CONTROLLO

Infine la Caritas si concentra sull’assenza di controlli, su tutti i fronti. Nonostante il reddito abbia delle regole ferree nell’ottenimento e altrettante nell’attivazione al lavoro, non esistono forme di verifica, se non qualche controllo random da parte dell’Inps. Non c’è una sorveglianza automatica sui patrimoni mobiliari, nessuna verifica sulle dichiarazioni Isee, neppure le autocertificazioni vengono vagliate al setaccio. E i centri per l’impiego non segnalano irregolarità e neppure badano alla latitanza di chi dovrebbe darsi da fare per trovare un lavoro. Nulla di nulla.

Il flop del reddito 5S: i 423 assunti ci costano 400mila euro l'uno. Francesca Galici il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Spesi quasi 20miliardi in tre anni per il reddito di cittadinanza: ogni lavoratore grillini assunto è costato 400mila euro allo Stato. L'unica povertà che finora il reddito di cittadinanza ha contribuito ad abolire è quella dei navigator che resistono. Intervistato dal quotidiano Libero, Carlo Bonomi lo dice molto chiaramente: "I numeri ci dicono che il reddito di cittadinanza non sta funzionando". Il presidente di Confindustria non usa mezzi termini per etichettare la misura come un fallimento su tutta la linea. Il reddito di cittadinanza tanto caro ai grillini non funziona "per la parte di contrasto alla povertà, che è giusto che ci sia, perché non sta intercettando gli incapienti del nord e scoraggia fortemente le assunzioni al sud". Ma non funziona nemmeno "per la parte delle politiche attive del lavoro: con i navigator ci sono stati 423 assunti, ma nel nel triennio 2019-2021 sono stati stanziati 516 milioni. Vuol dire che ognuno ci è costato 400mila euro all'anno". A oggi, come si legge su Libero, "la misura è costata alle casse dello Stato 16.7 miliardi di euro: 3.9 nel 2019, 7.1 nel 2020 e 5.7 nel 2021". Tutti soldi che non hanno avuto nessun effetto sull'occupazione. Inoltre, con la nuova legge di bilancio, il governo è pronto a stanziare un ulteriore miliardo per finanziare il reddito di cittadinanza ma senza che a questo vengano apportate modifiche per il suo miglioramento. Invece di lavorare sul miglioramento della misura grillina, il governo con Andrea Orlando ne sta approntando un'altra, la Garanzia occupabilità lavoratori, indicata dall'acronimo Gol. Si tratta di un progetto che nei prossimi tre anni dovrebbe ricevere ulteriori 5 miliardi di euro da dedicare alle politiche attive per il collocamento. In sostanza, Gol andrebbe a coprire la parte per la quale da anni vengono pagati i navigator. "Il fatto che si pensi di mettere un ulteriore miliardo sul reddito di cittadinanza senza riformarlo prima vuol dire che continuiamo a sprecare soldi pubblici", dice ancora Carlo Bonomi. Ma se il progetto Gol salpa dal porto, che fine faranno i 2.800 navigator che da 3 anni vengono pagati per trovare lavoro? Avrebbero dovuto trovare un impiego a 800mila disoccupati ma di questi sono stati collocati solo in 423. Molti dei navigator assunti tre anni fa hanno deciso di lasciare il loro impiego, che era a tutti gli effetti un controsenso. Erano lavoratori precari impegnati per trovare un lavoro a tempo indeterminato ad altre persone, che ora potrebbero trovarsi, almeno in parte, a passare dall'altra parte della barricata. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Francesco Bisozzi per "Il Messaggero" il 25 ottobre 2021. Ora i navigator cercano lavoro per loro stessi: in seicento (su tremila) hanno già lasciato i centri per l'impiego per un'altra occupazione. C'è chi si è riciclato nel pubblico e chi invece ha conquistato una scrivania nel privato. Risultato? Restano in circolazione secondo l'Anpal solo 2.400 navigator, con i contratti in scadenza alla fine dell'anno, e visto che non si intravedono nuove proroghe all'orizzonte (in realtà l'uscita di scena dei navigator era prevista per aprile scorso) presto i centri per l'impiego, già in evidente affanno, rimarranno senza personale.

LA PLATEA

Al 30 giugno i percettori di reddito di cittadinanza tenuti alla sottoscrizione del patto per il lavoro perché ritenuti occupabili erano 1.150.152, ma solo il 34 per cento risultava preso in carico. Considerato che il costo della misura è schizzato alle stelle (quest'anno rasenterà i nove miliardi di euro stando alle previsioni) smaltire lo stock di attivabili è diventato prioritario. Anche per questo preoccupa la fuga dei navigator: uno su cinque ha già mollato. Nelle regioni a cui sono stati assegnati meno navigator la situazione nei centri per l'impiego già è critica. Emblematico il caso della Liguria: oltre il 60 per cento dei navigator assunti nel 2019 per aiutare i beneficiari del reddito di cittadinanza a trovare un lavoro si è licenziato perché insoddisfatto o perché ha trovato un altro impiego e così oggi rimangono nei cpi liguri solo 24 navigator assunti a tempo determinato. Nelle regioni con più navigator, come per esempio la Campania, dove sono oltre 400, il contraccolpo per adesso invece si è sentito meno. Fortemente voluti dall'ex numero uno dell'Anpal Domenico Parisi, il professore del Mississippi chiamato dall'attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, i navigator sono stati assunti con un contratto di collaborazione di 20 mesi per 27 mila euro lordi l'anno (1.400 euro al mese più 300 euro di rimborso spese) poi prolungato di 8 mesi. 

IL BILANCIO

Da settembre 2019 a dicembre 2020, per intenderci, i navigator hanno effettuato in media meno di un colloquio al giorno con i percettori del reddito di cittadinanza (950mila in tutto), svolto 700mila verifiche e contattato circa 450mila aziende. I numeri insomma non sembrano essere dalla loro parte. Più nel dettaglio, i percettori che questa estate risultavano presi in carico ammontavano a 392.292. La fuga dei navigator però è iniziata già da diversi mesi.

LE TAPPE

All'inizio di quest'anno quelli ancora in attività erano poco più di 2.650. Il problema è che l'addio anticipato dei tutor del reddito di cittadinanza si somma al mancato potenziamento dei centri per l'impiego, che fin qui hanno assunto solo una minoranza degli 11.600 addetti specializzati che erano previsti in entrata, essenzialmente per via dei ritardi delle Regioni nella pubblicazione dei bandi. Nel frattempo il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha di nuovo precisato che il sussidio necessità di correttivi: «Ci sono oggettivamente delle cose da correggere. Penso alla penalizzazione delle famiglie più numerose. Poi a tutto il tema di come si combina meglio il reddito di cittadinanza con il lavoro». Nel mese di agosto i nuclei percettori del reddito di cittadinanza hanno raggiunto quota 1,22 milioni, mentre le famiglie beneficiarie della pensione di cittadinanza hanno sfiorato le 135mila unità. Per un totale di quasi 1,36 milioni di nuclei raggiunti dalle due prestazioni di sostegno al reddito e oltre 3 milioni di persone coinvolte nel complesso. Prevalgono i nuclei composti da tre e quattro persone, rispettivamente 646mila e 673mila. I nuclei con minori sono quasi 443mila, con un numero di persone coinvolte pari a oltre 1,64 milioni. Le famiglie con disabili sono quasi 231mila, con oltre 536mila persone coinvolte. L'importo medio erogato a livello nazionale nel mese di agosto è stato di 576 euro per quanto riguarda il solo reddito di cittadinanza. La platea dei percettori del reddito di cittadinanza e della pensione di cittadinanza è composta da 2,58 milioni di cittadini italiani, 318mila cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno Ue e 119mila cittadini europei. La distribuzione per aree geografiche vede 592mila beneficiari al Nord e 427mila al Centro, mentre al Sud e nelle isole si superano i 2 milioni di percettori. Infine, nei primi otto mesi del 2021 il beneficio messo in campo dal M5S è stato revocato a 83mila nuclei. Le decadenze, sempre nei primi otto mesi di quest' anno, sono state oltre 230mila. 

Quarta Repubblica, reddito di cittadinanza: le parole del navigator sotto anonimato seppelliscono il M5s. Libero Quotidiano il 26 ottobre 2021. Anche a Quarta repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4, si parla del famigerato reddito di cittadinanza, il sussidio grillino che, ora, è finito nel mirino anche di Mario Draghi e che dalla manovra, ancora da chiudere, potrebbe uscire fortemente ridimensionato e rivisto. E nella puntata di Quarta Repubblica di lunedì 25 ottobre si parte da alcune cifre. Ci si chiede, in premessa: in quanti hanno trovato lavoro con il reddito di cittadinanza? Le cifre sono eloquenti: in Italia a percepire l'assegno ai fannulloni ci sono 3,5 milioni di persone, 1,3 milioni delle quali "occupabili", ossia in grado di lavorare o di poter trovare un lavoro. Ma quanti sono gli ex-percettori del reddito che oggi hanno un lavoro? Bene, sono la miseria di 192.851, ossia il 14% degli occupabili. Cifre che offrono una rappresentazione plastica dello scempio grillino, dello spreco, del disastro che è il reddito di cittadinanza. Ma non è tutto. A Quarta Repubblica si parla anche dei cosiddetti "navigator", ossia i dipendenti dei centri per l'impiego che dovrebbero aiutare i percettori del reddito a trovare un nuovo lavoro. Inutile stare a rimarcare come anche il loro sia un flop colossale, tanto che - le cifre sono uscite soltanto poche ore fa - in molti si sono licenziati per... percepire il reddito di cittadinanza. Oppure, semplicemente si sono licenziati per trovare un lavoro vero: si pensi che in Liguria il 60% dei navigatore è attualmente occupato altrove. Bene, e a Quarta Repubblica è stato interpellato proprio un navigator. Gli si chiedeva conferma: ma è vero che lasciate il lavoro per incassare l'assegno grillino? E il navigator, sotto anonimato, confermava: "Si dice anche aiutati che Dio ti aiuta". Insomma, sin troppo chiaro: l'ennesimo disastro M5s è drammaticamente servito. 

Reddito M5s, un flop senza fine: pure i navigator cercano lavoro. Alessandro Ferro il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dal reddito di cittadinanza fuggono anche le figure che fanno da collante tra Centri per l'impiego ed i beneficiari della riforma a 5 Stelle: percentuale altissima di licenziamenti. Tutto ciò che ruota attorno al reddito di cittadinanza è un flop continuo. Adesso chi dovrebbe assistere gli operatori dei Centri per l'Impiego nella realizzazione di un percorso che coinvolga i beneficiari della riforma grillina, si licenzia ed è in cerca di un altro lavoro.

Chi sono i navigator e perché si licenziano

Sono i cosiddetti navigator a fare da collante con i CpI aiutando i cittadini dalla prima convocazione fino all'accettazione di un'offerta di lavoro consona alle propie capacità ed attitudini. Insomma, una specie di tutor con competenze specifiche. Adesso, però, hanno detto basta anche loro: l'Anpal ha certificato che su tremila, oltre 600 di loro hanno lasciato i Centri per cercare un'altra occupazione. Se non ci sarà un'inversione di tendenza, a breve verrà a mancare il personale: il caso Liguria è quello più emblematico con il 60% dei navigator ormai occupati altrove. Il campanello d'allarme era scattato il 30 giugno: se gli italiani che percepivano il Reddito e avevano sottoscritto il patto per il lavoro erano poco più di un milione e centomila, soltanto il 34% di loro era stato preso in carico. Ma perché mollano? Semplice, insoddisfatti del lavoro o perché hanno ricevuto proposte migliori altrove. Tornando alla Regione Liguria, i navigator attuali sono soltanto 24, un numero esiguo ed insufficiente. Come riportato dal Messaggero, queste figure hanno uno stipendio lordo di 27mila euro l'anno (quindi 1.400 euro al mese con 300 euro di rimborso spese) ma il loro contratto è di semplice "collaborazione" e dura 20 mesi, dopodiché (probabilmente) addio. Un altro dei motivi, questo, per cercare impiegno con contratti più solidi. È stato un fedelissimo di Di Maio a volerli: Domenico Parisi, ex dirigente Anpal, più volte criticato per una gestione poco efficiente e trasparente dell'agenzia.

Un altro flop del Reddito

I numeri non mentono mai: dal settembre 2019 al mese di dicembre 2020, su scala nazionale, i navigator hanno effettuato mediamente meno di un colloquio al giorno con chi percepiva il reddito di cittadinanza (950mila persone), svolto soltanto 700mila verifiche e contattato non più di 450mila aziende, in pratica un mezzo disastro rispetto quanto prospettato. L'addio dei navigator, però, pone un problema enorme per i Centri per l'impiego, che si ritrovano ancora più abbandonati e senza questa figura specializzata. Chi aiuterà nel percorso lavorativo chi percepisce il RdC? Per correre immediatamente ai ripari, sarà necessario assumere nuovo personale specializzato altrimenti potrebbe crescere ancora il "bivacco" di chi percepisce il sussidio statale stando serenamente a casa sul divano. Un problema che l'Italia non può permettersi dal momento che, come ci siamo occupati sul Giornale.it, sono già stati spesi quasi 20 miliardi in tre anni, un salasso.

Il Di Maio "pentito"

Nel suo libro di prossima uscita dal titolo "Un amore chiamato politica", in cui traccia un bilancio della sua vita politica, il ministro degli Esteri Di Maio si dichiara pentito per l'esultanza sul balcone di Palazzo Chigi dopo aver avuto l'ok sull'approvazione della nota di aggiornamento al Def con i fondi per il trennio successivo inclusi quelli per il Reddito di cittadinanza. "Sbagliai a salire su quel balcone. E sbagliai a pronunciare quelle parole", riporta in anteprima il Corriere della Sera. In ogni caso, ormai, il danno è fatto: secondo gli ultimi dati del mese di agosto, i beneficiari del Reddito sono diventati ormai 1,22 milioni, i nuclei familiari sono invece a quota 135mila unità. In totale, le persone coinvolte sono oltre tre milioni con un importo medio erogato ad agosto di 576 euro.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato,

Reddito di cittadinanza, quanto ci costa a persona: le cifre fallimentari della bandiera M5s. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2021. Il Reddito di cittadinanza non finisce mai di stupire. In negativo, naturalmente. Ogni volta che se ne parla emerge un dettaglio nuovo che rafforza il fronte dei critici verso la misura destinata ad «abolire la povertà» (cit. Luigi Di Maio) e che invece rischia di alimentarla. «I numerici dicono che il reddito di cittadinanza non sta funzionando». Lo ha ribadito ieri il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. «Non sta funzionando - ha aggiunto Bonomi - né per la parte di contrasto alla povertà, che è giusto che ci sia, perché non sta intercettando gli incapienti del Nord e scoraggia fortemente le assunzioni al Sud. Ma non va bene per la parte delle politiche attive del lavoro: con i navigator ci sono stati 423 assunti, ma nel nel triennio 2019-2021 sono stati stanziati 516 milioni. Vuol dire che ognuno ci è costato 400mila euro all'anno». Il numero uno degli industriali, a margine del trentaseiesimo convegno dei giovani imprenditori di Viale dell'Astronomia, ha rilanciato il messaggio espresso in settimana sul Corriere. «Lo stanziamento di 516 milioni nel triennio per rioccupare i soggetti beneficiari del Reddito di cittadinanza ha creato in tutto 423 assunti. Per ognuno di loro lo Stato ha speso 1,2 milioni di euro, così ognuno ci è costato 406mila euro all'anno. In queste condizioni è inutile mettere altri soldi nel Reddito di cittadinanza se non lo riformiamo». Il tema è di grande attualità, visto che nella legge di Bilancio, rischia di arrivare un ulteriore miliardo per il sussidio grillino. Senza che si cambino le regole del gioco. Finora la misura è costata alle casse dello Stato 16,7 miliardi di euro: 3,9 nel 2019, 7,1 nel 2020 e 5,7 nel 2021. Un mare di soldi. Totalmente ininfluente, però, sul collocamento dei disoccupati.

I 5 MILIARDI DI ORLANDO - Non a caso il ministro del Lavoro Andrea Orlando lavora a un nuovo progetto, riassunto dall'acronimo Gol, Garanzia occupabilità lavoratori, per il quale, salvo sorprese, dovrebbero arrivare 5 miliardi nei prossimi tre anni. Occupabilità da raggiungere con le politiche attive per il collocamento dei disoccupati. Attività alla quale erano dedicati i 2.800 navigator ingaggiati dall'Anpal, l'Agenzia nazionale per le politiche attive, e mandati in missione presso i centri pubblici per l'impiego. Ora però accade che con la finanziaria 2022 le risorse dedicate al Reddito e alla Pensione di cittadinanza dovrebbero salire da 7 a 8 miliardi di euro. A cui si sommerà la parte di competenza per il 2022 dei 5 miliardi del programma Gol di Orlando, pari almeno a un miliardo e mezzo. «Il fatto che si pensi di mettere un ulteriore miliardo sul reddito di cittadinanza senza riformarlo prima», dice ancora Bonomi in proposito, vuol dire che «continuiamo a sprecare soldi pubblici». Fra l'altro resta aperta la partita con i navigator, ingaggiati tre anni or sono con un contratto a termine e messi a disposizione dell'Anpal, guidata all'epoca dal guru del Mississippi, Mimmo Parisi - celebre il suo proclama: «Ecco come userò i big data: adesso è il lavoro che cerca le persone» - dimissionato dopo il fallimento epocale del suo collocamento. I 2.800 "specialisti" selezionati con un concorsone a quiz, avrebbero dovuto interagire con tutte le banche dati possibili e immaginabili, per trovare un posto agli 800mila beneficiari del sussidio di cittadinanza in possesso dei requisiti minimi. Non lo hanno fatto, naturalmente, al punto che a trovare un'occupazione attraverso di loro sono stati appena in 423, come ha ribadito Bonomi. Ma nonostante il flop molti navigator si aspettano di essere confermati presso i centri pubblici per l'impiego nei quali erano stati mandati "in missione" da Parisi. 

VIA DUE SU TRE - C'è però una sorpresa positiva. Col passare degli anni, tre per la precisione, l'esercito dei navigator si sta riducendo di numero. Molti, resisi conto forse della loro clamorosa inutilità, hanno passato la mano. Com' è accaduto in Liguria, dove il 60% dei navigator si è licenziato, come ha raccontato l'assessore regionale al Lavoro Gianni Berrino. Alla Liguria erano stati assegnati inizialmente 63 navigator, a inizio 2021 ne restavano attivi una cinquantina, che ad oggi si sono dimezzati. «Dovevano trovare un lavoro a tempo indeterminato ai percettori del reddito di cittadinanza ma si sono trovati a essere loro stessi dei lavoratori precari», ha spiegato Berrino, «abbiamo interloquito con il governo e Anpal Servizi attraverso la commissione Lavoro affinché si trovasse una soluzione per i navigator precari, ma nessuna risposta è arrivata». Nel frattempo alcuni hanno trovato un'altra occupazione. Chissà se lo hanno fatto attraverso i mirabolanti "big data" di Parisi. 

Reddito di cittadinanza: cosa deve cambiare. Milena Gabanelli e Rita Querzè su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021. La civiltà di un paese si misura anche dalla sua capacità di non abbandonare i poveri a loro stessi. Per il reddito di cittadinanza spendiamo circa 7,2 miliardi l’anno per sostenere 1,36 milioni di famiglie su 2 milioni di famiglie povere totali. Questo strumento, però, è nato con molti limiti che vanno urgentemente corretti, cominciando col non darlo a chi non ne ha diritto. 

Quanti furbi sono stati scovati

Al 31 agosto scorso, su 3.027.851 persone che avevano ottenuto il reddito di cittadinanza, a 123.697 è stato revocato l’assegno a causa di dichiarazioni false. Le più frequenti riguardano la composizione del nucleo familiare, il reddito, la mancata dichiarazione dello stato detentivo o della presenza di condanne di particolare gravità, come l’associazione mafiosa. Certo è molto complicato controllare tutte le richieste di poveri veri e presunti, ma potenziare l’incrocio dei dati, a partire dall’anagrafe nazionale, consentirebbe di individuare a monte chi non ha diritto, prima di fare il versamento. Anche perché una volta scovati i furbi, quei soldi non li rivedrai mai più. 

Penalizzate le metropoli del nord

Il livello di povertà dipende dalle entrate mensili in rapporto al costo della vita del luogo in cui vivi. Per questo l’Istat stabilisce soglie diverse di reddito al di sotto delle quali si è poveri. Prendiamo due single. Giorgio abita a Milano e guadagna meno di 840 euro al mese. Antonio risiede a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, e non arriva a 570 euro al mese. Per l’Istat Giorgio e Antonio sono poveri alla stessa maniera perché a Nocera Inferiore i prezzi sono più bassi che a Milano, quindi la quantità di cose che possono permettersi è identica. La soglia di povertà fissata dal reddito di cittadinanza per i single è di 780 euro, vuol dire che Antonio prende l’assegno e Giorgio no. Non solo: se a Nocera Inferiore guadagni ogni mese 650 euro per l’Istat non sei povero in senso assoluto, ma il reddito di cittadinanza viene dato lo stesso perché sei sotto i 780 euro. Il risultato finale è che oggi il 36% di coloro che prendono il reddito, non se la passano bene, ma non sono poveri. Mentre c’è un 56% di poveri che oggi non riceve il reddito. Quelli tagliati fuori abitano al Nord e nelle metropoli. Da notare: il reddito di cittadinanza di un single è composto da 500 euro per vivere più 280 per l’affitto. E il contributo per l’affitto è lo stesso in tutta Italia. Ma un monolocale periferico a Milano non lo trovi a meno di 400 euro, a Nocera Inferiore te ne bastano 200. 

Penalizzate le famiglie con figli

Un single dunque può prendere 780 euro, una famiglia con un figlio minore, per il reddito di cittadinanza ce la può fare con 1.080 euro, con 3 tre figli sotto i 10 anni con 1280 euro. Una disparità enorme. E il contributo per l’affitto è sempre lo stesso (280 euro) per un sigle come per una famiglia di 5 persone. La scala che assegna le risorse va quindi riparametrata in funzione del costo della vita dei territori e del numero dei componenti, che oggi penalizza esageratamente le famiglie con figli. Anche perché aiutarle in modo giusto vuol dire creare le condizioni perché questi bambini ricevano un’istruzione adeguata e non siano i nuovi poveri di domani. 

Il Reddito di Cittadinanza oggi penalizza esageratamente le famiglie numerose

Prendiamo la famiglia con tre figli e 1.280 euro al mese di reddito di cittadinanza, e mettiamo che uno dei due adulti inizi a lavorare a tempo pieno. Se guadagna 1.280 euro al mese, il suo reddito di cittadinanza il primo anno viene tagliato dell’80% e al secondo automaticamente si azzera. In pratica lavorando in regola otto ore al giorno o non lavorando per nulla le entrate della famiglia non cambiano. Meglio lavorare in nero, così le entrate da lavoro si sommano al reddito. Il problema si è posto anche negli altri Paesi. In Francia, Regno Unito, Usa, ed è stato affrontato con realismo consentendo il cumulo di una parte del reddito di cittadinanza con il reddito da lavoro, in quota decrescente con il passare degli anni. 

Come aiutare a trovare un lavoro

Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive, certifica che il 25% dei beneficiari di reddito abili al lavoro ha avuto almeno un contratto. Il rapporto Caritas mostra che in realtà le «occasioni di lavoro» i percettori di reddito le avrebbero trovate anche cercandole da soli. In pratica, i beneficiari di RdC lavorano solo mezza giornata al mese in più rispetto a quello che facevano prima di ottenere il reddito, nonostante i servizi collegati ai centri per l’impiego. Vuol dire che l’apparato di misure che dovevano accompagnare i percettori di reddito vanno cambiate. L’assegno di ricollocazione, cioè i soldi da spendere in servizi di aiuto per trovare un nuovo lavoro, è stato dato solo allo 0,3% dei percettori di reddito abili al lavoro. Da notare: per darlo ai percettori di reddito era stato tolto ai beneficiari di Naspi. Il personale sta arrivando con il contagocce: dal 2019 dovevano essere assunte nei centri per l’impiego 11.600 persone da affiancare agli 8.000 già presenti, a oggi ne risultano assunti 949, l’8%. Inoltre, nella stragrande maggioranza dei centri per l’impiego finora hanno fatto solo pratiche burocratiche e non politiche attive. Per aiutare i poveri a rimettersi in pista e cercare lavoro servono forze adeguate, un metodo organizzativo condiviso fra le Regioni e l’applicazione delle regole. E se necessario commissariare le Regioni che non riescono ad assicurare livelli essenziali delle prestazioni, come è previsto dalle norme. 

Imporre il rispetto delle regole

La condizione per percepire il reddito è quella di firmare il patto per il lavoro, vuol dire che chi è abile al lavoro si impegna a mettersi a disposizione dei centri per l’impiego. Ebbene, questi patti, a oggi, sono stati stipulati solo con il 31% degli inviati ai centri per l’impiego. È vero che da aprile a luglio 2020 era stato sospeso l’obbligo di presentarsi ai centri a causa del lockdown, ma è passato più di un anno e nulla giustifica una percentuale così bassa. In nessuna regione è mai stata applicata la «condizionalità» scritta nella legge: se rifiuti il lavoro perdi il reddito. Oggi se rifiuti un’offerta di lavoro, il reddito non viene mai decurtato, tantomeno ti viene tolto. Per impedire che avvenga questo, occorre che a dare l’assegno e a controllare che il percettore di reddito si dia davvero da fare per trovare lavoro sia lo stesso ente, come avviene per esempio in Germania e in Francia. In Italia invece l’Inps dà l’assegno e i centri per l’impiego i servizi. In nessuna regione è mai stata applicata la «condizionalità» scritta nella legge: se rifiuti il lavoro perdi il reddito.

Chi può rifiutare un’offerta e chi no

La legge dice che un’offerta di lavoro è «congrua» – e quindi se la rifiuti il reddito viene tagliato o addirittura tolto – se il contratto è a tempo a indeterminato e garantisce almeno 858 euro al mese. Abbiamo visto che a nessuno è mai stato tolto il reddito perché la mano destra non sa quello che fa la sinistra. Invece il contratto a termine o a tempo determinato puoi rifiutarlo infinite volte e nessuno potrà mai far decadere il reddito, perché è la legge stessa a non considerali «congrui». Il 59% dei percettori del reddito non ha mai lavorato o non lavora da anni. Reinserire queste persone con un contratto indeterminato è ai limiti dell’impossibile. Sarebbe quindi ragionevole inserire anche questi tipi di contratti tra le offerte congrue. Il 59% dei percettori del reddito non ha mai lavorato o non lavora da anni. Reinserire queste persone (...) è ai limiti dell’impossibile.

Rivedere gli incentivi

Le aziende che assumono un percettore di reddito hanno diritto a detrazioni contributive. Ma questi incentivi hanno agevolato le assunzioni solo dello 0,1% dei percettori di reddito abili al lavoro. Non hanno funzionato per due motivi. Il primo: la trafila burocratica scoraggerebbe chiunque. Il secondo: ci sono altri incentivi più semplici e vantaggiosi, per esempio per chi assume giovani o residenti al Sud. Ma a monte c’è il fatto che un’azienda seria assume un lavoratore se è convinta che sappia fare bene il lavoro, non certo perché c’è uno sconto sui contribuiti. E qui si apre il grande buco nero: la formazione. Promessa, e mai messa in opera.

Reddito di cittadinanza, Corte dei conti: 352 mila percettori hanno trovato impiego. "Anpal inadeguata". Andrea Galliano su La Repubblica il 27 settembre 2021. Un beneficiario su dieci ha avuto un contratto, uno su quattro considerando solo le persone "attivabili", ma la maggior parte è a tempo determinato. I navigator hanno individuato 30 mila opportunità occupazionali. Bocciato il sistema dei centri per l'impiego: azione disomogenea, serve un coordinamento nazionale Tra coloro che ricevono il Reddito di cittadinanza un beneficiario su 10 ha trovato un'occupazione. Tra gli attivabili uno ogni quattro. Ad ottobre 2020, il numero complessivo dei percettori soggetti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro (i cosiddetti Work Ready o attivabili), comprensivo di alcune categorie (esclusi o esonerati, presi in carico e inseriti in una politica, rinviati a percorsi di inclusione sociali), era pari a 1.369.779. Invece coloro che hanno avuto almeno un rapporto di lavoro successivo alla domanda di Reddito di cittadinanza era di 352.068, di cui 192.851 ancora attivo. È quanto emerge da un'analisi della Corte dei conti sul "Funzionamento dei centri per l'impiego nell'ottica dello sviluppo del mercato del lavoro", condotta dalla Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato.

Dominano i contratti a tempo determinato

Il 65% di chi ha trovato un'occupazione ha firmato un contratto a tempo determinato, il 15,4% un indeterminato e il 4,1 % un apprendistato. Il 69,8% di quelli determinati ha una durata inferiore ai 6 mesi, mentre una quota del 9,3 % ha superato il termine annuale. I contratti di lavoro, nel complesso, hanno riguardato soprattutto professioni (non qualificate) nel commercio e nei servizi, seguiti da quelli nelle attività ricettive e della ristorazione: In minima parte hanno interessato il settore metalmeccanico-artigiano.

Il ruolo dei navigator. Le iniziative dei navigator nei confronti delle imprese, per la rilevazione dei fabbisogni produttivi, hanno comportato la realizzazione di 588.521 interventi. Sono state individuate 29.610 opportunità occupazionali corrispondenti a 56.846 posizioni professionali di cui il 68 per cento deriva da fabbisogni per un aumento del carico di lavoro, mentre il 22 per cento per turnover. Dai valori rilevati, che descrivono i livelli di istruzione e l'indice di profiling, è risultata evidente la quasi totale assenza di condizioni di occupabilità soprattutto nelle regioni meridionali.

L'inadeguatezza dell'Anpal. I magistrati hanno rilevato una inadeguata azione dell'Anpal nell'attività di monitoraggio, i cui rapporti annuali risalgono al 2017. L'Agenzia ha avviato un processo di trasformazione digitale per l'evoluzione dei sistemi informativi così da consentire, tra l'altro, l'interscambio di flussi documentali e l'integrazione tra i diversi sistemi in uso, anche in vista dello sviluppo della Piattaforma digitale per la gestione dei beneficiari di Reddito di Cittadinanza. In attesa di ciò, però, la messa a punto del Sistema unico avviene con notevoli difficoltà anche per una non adeguata dotazione informatica a livello territoriale e un collegamento in rete non adatto alle nuove funzioni dei Centri.

I Centri per l'impiego. La Corte dei conti osserva che l'emergenza sanitaria nazionale da Covid-19 non ha condizionato i Centri per l'impiego che hanno, comunque, garantito il regolare svolgimento delle attività istituzionali da remoto. Però, sottolineano i magistrati, "nel nostro Paese esistono eterogenei assetti organizzativi, con approcci, metodologie e sistemi informativi diversificati e sovente non dialoganti tra di loro". Per la Corte è, invece, "essenziale una definizione chiara di misure, interventi e regole che, pur consentendo il dovuto margine di flessibilità richiesto dalle specificità territoriali, analizzate nella relazione secondo i diversi profili di utenza, sia coordinata dal livello centrale, al fine di assicurare sia una maggiore rispondenza dell'operatività dei Centri per l'impiego alle esigenze regionali, che fornire servizi omogenei su tutto il territorio nazionale". Da ultimo il Pnrr ha previsto nella Missione 5 "Inclusione e coesione" diversi programmi per la partecipazione al mercato del lavoro, per la formazione e il rafforzamento delle politiche attive e dei Centri per l'impiego.

Reddito di cittadinanza, la notizia che fa felici milioni di italiani. Alessandro Artuso il 13/07/2021 su Notizie.it. I percettori del reddito di cittadinanza saranno certamente contenti di questa importante novità che durerà fino al termine del 2021: di cosa si tratta. Per tantissimi percettori del reddito di cittadinanza è prevista nel mese di luglio 2021 una bella notizia. Prevista infatti una integrazione, così come spiegato nel decreto legge datato 8 giugno 2021. L’aumento potrebbe arrivare il 27 luglio 2021, proprio in concomitanza con la ricarica ordinaria del reddito di cittadinanza. A tal proposito è bene specificare che l’assegno unico, seppur temporaneo, è comunque già partito da oltre dieci giorni con apposito decreto legge numero 79 pubblicato in Gazzetta ufficiale. La durata dell’assegno è di sei mesi a partire da luglio 2021. Intanto dal primo giorno di luglio 2021 si potrà richiedere questo beneficio temporaneo all’INPS: l’Istituto per la Previdenza Sociale lo potrà elargire fino al 31 dicembre 2021. Per chi usufruisce già del sussidio non ci sarà bisogno di fare domanda. Molti percettori hanno espresso più di qualche dubbio in merito alle novità. La prima riguarda il prelievo che dovrebbe essere di massimo 100 euro in contanti, così come avviene con il reddito di cittadinanza. Quasi sicuramente ci sarà il limite di spesa per il solo acquisto dei beni di prima necessità: ciò riguarda anche le ricariche dell’Rdc. Chi vorrà ricevere l’assegno temporaneo, non percependo il reddito di cittadinanza, dovrà presentare la domanda entro il 30 dicembre 2021. In caso di approvazione riceverà tutti e sei i mesi che vanno da luglio a dicembre 2021. Qualora la domanda dovesse essere inviata oltre il 30 settembre, invece, l’INPS non potrà più corrispondere gli arretrati bimestrali (luglio e agosto 2021). Il beneficio temporaneo sarà erogato a partire dalla data di presentazione della domanda per l’assegno. Nel frattempo Fratelli d’Italia, con in testa la leader Giorgia Meloni, ha chiesto intanto di abbandonare il reddito di cittadinanza. Il partito ha chiesto l’eliminazione definitiva del sussidio. Le ragioni del NO sono state spiegate dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida. “In queste ore in molti si accorgono del fallimento del Reddito di cittadinanza. Quelli che lo hanno votato, quelli che stanno continuando a finanziarlo e quelli che pur stando al governo fanno finta non sia un problema intollerabile che ogni giorno lo ricevano centinaia di migliaia di persone che non ne hanno alcun diritto”.

Giulia D'Aleo per lastampa.it il 13 settembre 2021. Almeno 52mila euro è il costo che lo Stato ha dovuto pagare per ciascun posto di lavoro ottenuto tramite il Reddito di cittadinanza. Una cifra esorbitante, oltre il doppio di quanto spende annualmente un imprenditore privato per un operaio a tempo indeterminato full time che, mediamente, gli costa attorno ai 25 mila euro. Dai risultati dell'analisi realizzata dall'Ufficio studi della Cgia di Mestre, si stima, infatti, che per tutti i titolari del Reddito di cittadinanza – quindi persone in difficoltà economica che avevano manifestato la disponibilità a recarsi in ufficio o in fabbrica – l'Inps abbia sostenuto una spesa complessiva di 7,9 miliardi di euro. Su oltre un milione di assistiti, sarebbero però solo 152 mila le persone che hanno trovato un posto di lavoro grazie ai «navigator». Se si calcola che la somma di sostegno economica è stata mediamente sostenuta per almeno un anno prima che gli assistiti entrassero nel mercato del lavoro – percependo, quindi, circa 7.000 euro a testa – la cifra arriva a più di 52mila euro per ogni singolo neoassunto. «Un costo - commenta l'ufficio studi - che appare eccessivo per un numero così limitato di persone entrate nel mercato del lavoro». Secondo la Cgia «chi è in difficoltà economica va assolutamente aiutato, ma per combattere la disoccupazione il RdC ha dimostrato di non essere uno strumento efficace». L'Agenzia, infatti, stima che le probabilità di rimanere disoccupati a distanza di 12 mesi sfiorano il 90%. Queste difficoltà sono anche motivate dal fatto che la maggior parte dei soggetti richiedenti non possiede un’esperienza lavorativa pregressa, in grado di garantirgli un posto di lavoro. Analizzando lo storico contributivo di queste persone, nella classe di età tra i 18 e i 64 anni, emerge infatti che solo un terzo di queste ha già avuto un'occupazione in passato. Ci si trova di fronte a soggetti ad alto rischio di esclusione sociale, in condizioni di povertà economica e di grave deprivazione materiale. Trovare un lavoro a queste persone, spiega la Cgia, «potrebbe addirittura costituire per loro un problema, a causa del precario equilibrio psico-fisico in cui versano». I dati a livello provinciale dicono che nelle province di Caserta (147.036) e di Napoli (555.646) si concentrano complessivamente quasi 703 mila beneficiari del RdC, il 20% dei percettori totali di questa misura. Altrettanto significativo è il numero di RdC erogati dall'Inps nelle grandi aree metropolitane: a Roma sono 240.065, a Palermo 212.544, a Catania 169.250, a Milano 122.873, a Torino 104.638 e a Bari 92.233.

L'Istat suona la sveglia per Regione e Comune. Il lavoro c’è, mancano i lavoratori: colpa di mancata formazione e reddito di cittadinanza. Rosario Patalano su Il Riformista il 15 Settembre 2021. Gli economisti chiamano skill mismatch la condizione di squilibrio tra la domanda e l’offerta, che si verifica sul mercato del lavoro:  più semplicemente il fenomeno per il quale le imprese non riescono a trovare lavoratori in grado di svolgere le mansioni richieste e i posti disponibili restano vacanti, nonostante il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato adatto e sia disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Gli ultimi dati pubblicati dall’Istat sull’andamento del mercato del lavoro nel secondo trimestre 2021 rivelano che il mismatch è in crescita: nonostante la disoccupazione elevata, crescono paradossalmente i posti che restano vacanti. Il tasso di posti vacanti (posizioni ricercate dalle imprese in rapporto a quelle complessive, occupate e non) è pari all’1,8% e registra un aumento dello 0,6 rispetto al trimestre precedente, un livello mai registrato dal 2016 e, in termini tendenziali, il tasso è in marcato rialzo verso un punto percentuale. Nell’industria e nei servizi si osservano tassi che si attestano all’1,6% e al 2% (nel trimestre precedente erano all’1,2% e all’1,1%). Disaggregando i dati si nota che la maggior parte dei posti vacanti si registra nelle costruzioni (2,4%), nei servizi di alloggio e ristorazione (2,3%), nei servizi di informazione e telecomunicazione (2,1%), nell’istruzione, sanità, assistenza sociale e attività artistica (1,6%) e nell’industria (1.8%). Come leggere questi dati? Sono in atto due dinamiche. La prima è strutturale e dipende dalla cronica inadeguatezza del sistema formativo a preparare figure professionali in grado di rispondere alle esigenze delle imprese: un dato che riguarda i settori più avanzati dell’industria, dei servizi e nelle telecomunicazioni. La seconda è una tendenza congiunturale dovuta alle scelte di politica sociale adottate dai precedenti governi, in particolare il reddito di cittadinanza che ha ridotto l’offerta di lavoro per alcuni settori: in pratica, non si trovano più lavoratori disposti a essere impiegati a bassi salari e a mansioni pericolose o particolarmente gravose. Di fronte a questi dati appare davvero necessario rafforzare il sistema di formazione professionale terziaria (Its) e l’istruzione Stem (science, technology, engineering and mathematics) che sono tra le priorità urgenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Secondo l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, l’offerta formativa complessiva (circa 80mila unità) è oggi in grado di soddisfare solo il 52% della domanda potenziale, con situazioni critiche per la meccanica, la logistica e l’edilizia. D’altra parte occorre rimodulare il reddito di cittadinanza e le altre misure di protezione sociale, inserendo specifici programmi di attivazione e di avviamento al lavoro, in modo che il sussidio sia solo una misura temporanea e non si trasformi in sostegno assistenziale permanente. In questo percorso il ruolo delle amministrazioni comunali e regionali è decisivo: sono questi enti a costituire il braccio esecutivo delle politiche del lavoro sul territorio. Nessun programma regionale in Campania è stato ancora implementato per riformare i centri per l’impiego e i navigator, istituiti (non senza polemiche) proprio per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, sono rimasti loro malgrado del tutto inattivi. E d’altra parte neppure l’amministrazione di Napoli ha mai elaborato piani per rafforzare i percorsi di formazione, caratterizzandosi per essere del tutto assente su questi temi, nascosta dietro l’abusata retorica dell’insufficienza di risorse. Questo alibi oggi non esiste di fronte alle ingenti risorse previste dal Recovery Plan: i candidati sindaci e il governatore sono “re nudi” di fronte al problema del lavoro. Rosario Patalano

Luca Cifoni per "Il Messaggero" il 14 settembre 2021. In parte è un dato fisiologico in una fase di forte ripresa dell'economia. Ma il record dei posti vacanti segnalato dall'Istat nel suo comunicato sull'andamento del mercato del lavoro (secondo trimestre 2021) evidenzia anche un fenomeno probabilmente più complesso e destinato a protrarsi nel tempo: un disallineamento tra domanda e offerta di lavoro che lo sconvolgimento portato dalla pandemia potrebbe aver ampliato. Le aziende hanno difficoltà a trovare i lavoratori che cercano, pur in presenza di una quota sempre rilevante di disoccupati e di inattivi sulla carta disponibili a lavorare. E mancano in particolare una serie di figure professionali, dagli operai specializzati agli informatici. Il numero evidenziato dall'istituto di statistica è quello relativo al tasso dei posti vacanti, ovvero il rapporto tra le posizioni per le quali le imprese hanno avviato ricerche e il totale delle posizioni esistenti, occupate o no. Nel complesso delle aziende, grandi e piccole, è balzato nel secondo trimestre di quest'anno all'1,8 per cento, con una crescita di 0,6 punti percentuali rispetto al periodo precedente. Si tratta di un livello mai registrato dal 2016, ovvero dall'anno di inizio di questa serie storica. L'Istat nota anche che in termini tendenziali, ovvero rispetto allo stesso periodo del 2020, si nota «una ripresa eccezionalmente marcata del tasso, pari a 1,0 punto percentuale». La tendenza è più forte nel settore dei servizi, dove si arriva al 2 per cento, e nelle costruzioni (2,4%) ma è evidente anche nell'industria (1,4%). Scendendo un po' più nel dettaglio, si nota l'alta incidenza del fenomeno nei servizi di alloggio e ristorazione, in quelli di comunicazione e di intrattenimento. Come anche nelle attività professionali, scientifiche e tecniche. Il caso di alberghi, bar e ristoranti richiama immediatamente le esternazioni estive di molti imprenditori che lamentavano di non trovare lavoratori stagionali: una difficoltà che sarebbe dovuta al timore dei potenziali candidati di perdere i sussidi percepiti, compreso il reddito di cittadinanza. Ma proprio i dati relativi a queste attività evidenziano che la situazione è più complessa: i posti vacanti nei servizi di alloggio e ristorazione infatti è stato in passato anche più alto, superando il 3 per cento nel 2019. Si tratta insomma con tutta probabilità di un andamento più generale, che rispecchia quanto emerge dalle indagini più dettagliate del sistema Excelsior di Unioncamere e Anpal: è difficile trovare operai specializzati, informatici, tecnici di varie tipologie. Tra le cause del fenomeno, accanto a quelle strutturali come i limiti del sistema di formazione, c'è senz'altro anche la difficoltà di mettere in contatto domanda e offerta di lavoro: un tema comunque emerso anche in relazione al reddito di cittadinanza. E se il livello delle retribuzioni è certo un altro fattore rilevante, non si può escludere che in una fase complessa come quella in corso una parte della forza lavoro stia rivedendo le proprie priorità. L'analisi dell'Istat riepiloga poi le tendenze del mercato del lavoro fino al mese di giugno (la rilevazione trimestrale è in parte superata da quella mensile, meno approfondita, relativa al mese di luglio). Dunque tra aprile e giugno di quest'anno la ripresa di molte attività in precedenza chiuse o comunque sottoposte a restrizioni ha portato ad un recupero di 523 mila occupati rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, quello investito in pieno dalla crisi pandemica. Siccome allora il picco negativo è stato pari a 1,2 milioni di occupati in meno (in confronto al 2019) le unità da recuperare per tornare ai livelli pre-pandemia sono ancora 678 mila. L'Istat nota che la ripresa occupazionale ha coinvolto in misura maggiore coloro che in precedenza erano stati più coinvolti dalla crisi, quindi giovani, donne e straniere. La ripartenza però è stata trainata soprattutto dai contratti a termine, il che evidenzia con tutta probabilità la prudenza delle imprese che - in alcuni settori - pur avendo necessità di lavoratori privilegiano contratti che possono essere eventualmente interrotti successivamente. In termini di ore lavorate, l'incremento del secondo trimestre rispetto al precedente è stato più intenso di quello del Pil: 3,9 per cento contro 2,7. Dunque per il momento la tendenza non è al recupero di produttività.

Francesco Bisozzi per "Il Messaggero" il 14 settembre 2021. C'è chi campa a colpi di sussidi, dal Reddito di cittadinanza all'Assegno unico per i figli, e chi se la cava con la paghetta di mamma e papà. Ci sono quelli che prima, per carità, lavoravano, anche sette giorni su sette, e poi hanno riscoperto il piacere delle pantofole, e quelli che invece hanno fatto del «no al lavoro» uno stile di vita fin da subito, autentici pionieri. È il popolo del divano, un agglomerato umano sfaccettato e diffuso, in continua espansione a giudicare dai dati dell'Istat sui posti vacanti. Tra quelli che il salotto è meglio dell'ufficio spunta l'insospettabile Giulia, il nome è di fantasia, 33 anni, receptionist di Palermo che la receptionist l'ha sempre fatta ma in Veneto, in quel di Bibbione, solo che causa Covid l'albergo in cui prestava servizio ha temporaneamente chiuso e quando a maggio ha riaperto e l'hanno richiamata, lei, cortesemente, ha detto: «No, grazie». Oggi, ci spiega, va avanti con l'aiuto dei genitori: «Ho cercato un lavoro da receptionist nella mia regione ma gli stipendi non sono gli stessi del Veneto e così alla fine ho lasciato stare. Di tornare al Nord non se ne parla: voglio stare vicina alla mia famiglia. Per adesso me la cavo bene così, non sopporto gli orari di lavoro». Da un divano all'altro, da una città all'altra. Napoli: Mirko, altro nome di fantasia, ha meno di 30 anni, è un percettore del reddito di cittadinanza noto agli operatori di un centro per l'impiego in zona Poggioreale, il classico beneficiario attivabile che non si attiva, cascasse il mondo. «Non è che non voglio lavorare, la questione è diversa, io lavorerei pure, ma senza per questo dover rinunciare ai soldi della card del reddito di cittadinanza, altrimenti mi faccio autogol da solo», spiega. Come se ne esce? La soluzione Mirko ce l'ha già, in tasca: «Mi ha chiamato a luglio un amico di un amico che gestisce un ristorante, mi ha proposto di andare da lui a servire ai tavoli, va benissimo gli ho detto, ma mi paghi al nero così posso sommare la tua entrata al mio reddito di cittadinanza e sto a posto. Lui, però, si è stranito». L'escamotage di Mirko è lo stesso che hanno provato a mettere in atto tanti altri percettori del sussidio che quest'estate, quando il lavoro stagionale c'era ma nessuno lo voleva, hanno visto l'opportunità di prendere due piccioni con una fava, il Reddito di cittadinanza e uno stipendio extra non dichiarato, e ci hanno provato. Solo che poi, e la storia di Mirko insegna, ci sono imprenditori che si straniscono. Saliamo ancora più su. Roma: Manuele, ci chiede di chiamarlo così, faceva il rider, o meglio lo ha fatto a giorni alterni per due settimane (al massimo). «Alla fine la paga non era nemmeno male ma si passa tutto il giorno sullo scooter o in bicicletta. Io usavo lo scooter. È stato massacrante: ho provato a imboccare questa strada che era ancora inverno. Pioveva e faceva freddo. Insomma, alla fine ho smesso». E ora? «Ora la mia compagna aspetta un figlio, i suoi ci danno una mano, ci hanno anche messo a disposizione una camera da loro. Chiederemo l'assegno per i figli e poi vedremo». Gli abbiamo fatto notare che se la moglie fosse stata incinta di due gemelli allora avrebbe avuto diritto con l'assegno unico per i figli al doppio della cifra e Manuele ha risposto con una smorfia divertita: «Lo terrò a mente per il futuro». In Toscana, Isola d'Elba. Enrico fa il bagnino tre mesi l'anno. «Rigorosamente in nero - spiega - e lo faccio da quando ho 26 anni». Ora ne ha quasi 47 e non intende certo cambiare registro o «pagare i contributi e le tasse». «D'inverno me la sono cavata prima con il sussidio di disoccupazione e adesso con il Reddito di cittadinanza». Di occupare posti regolari non ci pensa proprio, nonostante l'offerta dell'albergo in cui lavora e che ha deciso di non rinnovargli la collaborazione, temendo gli accertamenti dell'Inps. In fondo, dice, «avrò più tempo per me, per andare in palestra, per stare con gli amici, e comunque un sussidio di Stato lo troverò sempre».

Da “la Stampa” l'1 agosto 2021. Che il reddito di cittadinanza vada rivisto lo dicono in tanti. Matteo Renzi, invece, lo vuole proprio abolire e per questo progetta un referendum. Lo fa, spiega in un video diventato virale, perché vuole «riaffermare l'idea» che la gente debba «soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela. Se non ce la fa gli diamo una mano: ma bisogna sudarsela - sbraita al microfono -. I nostri nonni hanno fatto l'Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato!». Ecco: rischiare, provare, correre e giocarsela ci sta, ammesso che ci siano le condizioni per farlo. Soffrire anche no. Renzi non si rende proprio conto di quel che dice e poi si sorprende se gli haters lo attaccano: se vuole si accomodi lui. Gli italiani e le migliaia di giovani e donne che da mesi son senza lavoro han già sofferto abbastanza e gli cedono volentieri il posto.

Paolo Bracalini per “il Giornale” l'1 agosto 2021. Un pezzo importante della maggioranza, cioè Lega, Forza Italia e Italia Viva (più Fdi all'opposizione) vuole cancellare il deleterio reddito di cittadinanza M5s. Ma la battaglia si preannuncia difficile, non solo per la resistenza dei Cinque Stelle a difesa dell'ultimo baluardo identitario rimastogli in piedi. Alla contesa parlamentare si aggiunge la gogna mediatica per chi si permette di criticare il sussidio grillino, malgrado i numeri dimostrino in modo inequivocabile il fallimento del Rdc, uno strumento inutile per il reinserimento del lavoro, un disincentivo a lavorare (negli hotel mancano 70mila stagionali, nel commercio 150mila), per giunta percepito in una impressionante quantità di casi da persone che non ne avrebbero diritto, tra cui mafiosi e 'ndranghetisti. In compenso molti percettori del reddito (3 milioni di persone, un esercito), avendo tempo a disposizione, sono attivi sui social per difendere il loro assegno statale gentilmente offerto dallo Stato e attaccare chi lo contesta. L'ultima vittima del pestaggio è Matteo Renzi, per una frase contenuta in un video postato su Twitter da Italia Viva: «Il referendum sul reddito di cittadinanza è una grande operazione educativa e culturale. In un mondo che investe sulle nanotecnologie, sui Big Data, sull'intelligenza artificiale, ai ragazzi va detto studiate, provate, mettetevi in gioco, poi se fallite vi diamo una mano, ma rischiate. Se il messaggio è non vi preoccupate tanto lo Stato vi dà un sussidio, questo è diseducativo. Io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l'idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, giocarsela. Se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi! I nostri nonni hanno ricostruito l'Italia spaccandosi la schiena, non con i sussidi di Stato». Un ragionamento che scatena una pioggia di commenti, chi gli rinfaccia - a proposito di sudore - le vacanze sullo yacht, chi i rapporti con gli emiri, tutti al grido #RenziFaiSchifo. Il leader Iv non si scompone più di tanto: «Anche oggi sono attaccato dai soliti haters. Noi andiamo #ControCorrente e a noi fa schifo la propaganda, non le persone». Nei giorni scorsi il ministro leghista del Turismo, Massimo Garavaglia, ha annunciato che la Lega battaglierà per cambiare nella prossima legge di Bilancio il Rdc che «distorce il mercato del lavoro e frena la ripresa economica». Ieri Salvini ha annunciato che a settembre verrà rivisto «questo disincentivo al lavoro e inno al lavoro nero», e che quindi «anche Renzi qualche volta ha ragione». Forza Italia propone, al posto del Rdc, un'integrazione da parte dello Stato della differenza tra il salario mensile e mille euro. L'abolizione del reddito di cittadinanza troverebbe favorevole anche Fdi: «Il reddito di cittadinanza è come il metadone per i tossicodipendenti, io sono per abolirlo» ha detto Giorgia Meloni. Poi c'è appunto Italia Viva che ha proposto una raccolta firme per un referendum abrogativo del reddito. Ma c'è il muro dei Cinque Stelle che, capitolati su tutto - da ultimo anche sulla riforma della giustizia che cancella quella di Bonafede -, non vogliono mollare. Conte ha detto che il Rdc «va migliorato, non cancellato», Di Maio la difende, un pezzo del Pd anche, a partire dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. E il premier Draghi? Finora si è tenuto alla larga da questa grana che presto, con la manovra di fine anno, esploderà nella maggioranza.

Da ansa.it il 14 ottobre 2021. Intascavano il reddito di cittadinanza grazie a documenti falsi realizzati ad hoc di persone aventi titolo: oltre 50 persone sono così state denunciate dalla Polizia di Stato che ha individuato una banda che inviava stranieri agi uffici postali di Milano per intascare, sotto mentite spoglie, l'emolumento. Le persone avevano cittadinanza italiana ma non sapevano parlare l'italiano a tal punto da insospettire gli operatori degli sportelli. È così che la Polizia Postale di Milano ha dato avvio all'indagine che ha portato alla denuncia di una cinquantina di persone che percepivano indebitamente il reddito di cittadinanza. Gli stranieri, provenienti da Romania, Austria e Germania, si presentavano agli uffici postali inviati da una sorta di network che li assoldava.  L'indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Milano e dal Servizio di Polizia postale e delle comunicazioni di Roma, è iniziata nel settembre del 2020 e ha portato anche all'arresto di due soggetti trovati in possesso di documenti falsi, all'esecuzione di otto perquisizioni e al ritrovamento di carte prepagate, ricevute di presentazione dell'istanza del reddito di cittadinanza, nonché dei messaggi che gli interessati si scambiavano via chat per concordare viaggi e permanenza sul territorio. "Quando ho letto di 50 indagati e arrestati perché arrivavano dalla Romania o dalla Germania per prendere il reddito di cittadinanza... Anche di questo abbiamo parlato con Draghi perché il reddito di cittadinanza così com'è è un disincentivo al lavoro, un incentivo ai furbetti e agli evasori". Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, a Radio anch'io su Radio 1.

Da lastampa.it il 19 ottobre 2021. È di 202,9 miliardi di euro il valore dell'economia non osservata nel 2019, comprendente economia sommersa e attività illegali. Lo rivela uno studio dell’Istat sugli anni 2016-2019, che mostra come il tasso di irregolarità del lavoro sia tornato di nuovo ai livelli del 2013. Con 3 milioni e 586 mila lavoratori in nero nel 2019, il ricorso al lavoro non regolare sembra essere una caratteristica strutturale dell’economia italiana, che coinvolge sia le imprese che le famiglie. Le Unità di lavoro a tempo pieno in condizione di non regolarità – svolte, quindi, senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale e contributiva – sembrano essere, a primo impatto, una componente in calo: il 2019 vede 57mila unità in meno rispetto all’anno precedente, segnando un ridimensionamento della cifra per il secondo anno consecutivo. Tuttavia, «si tratta di un miglioramento sconfortante» secondo Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori. «Temiamo che le mille assunzione all'Ispettorato nazionale del lavoro previste nel Dl Fisco siano del tutto insufficienti sia a contrastare gli incidenti sul lavoro, una vergogna nazionale, sia la piaga sociale del lavoro nero». Il valore aggiunto dell’economia sommersa comprende le comunicazioni volutamente errate del fatturato e dei costi – quindi le sotto-dichiarazione del valore aggiunto – o il valore generato tramite il lavoro irregolare. Il primo include il valore dei profitti in nero, delle mance e una quota che emerge dalla riconciliazione fra le stime degli aggregati dell'offerta e della domanda. L'economia illegale include sia le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibite dalla legge, sia quelle che, pur essendo legali, sono svolte da operatori non autorizzati. Le attività illegali incluse nel Pil dei Paesi dell'Unione europea sono la produzione e il commercio di stupefacenti, i servizi di prostituzione e il contrabbando di sigarette. Anche il peso dell’economia sommersa nell’economia – attualmente pari all'11,3% del Pil – ha subito un calo, di circa 5 miliardi, rimanendo in linea con il trend cui si assiste dal 2014. Anche in questo caso, però, si tratta di «Dati demoralizzanti, non degni di un Paese civile. – continua Dona – I progressi ottenuti contro l'evasione sono a dir poco deludenti.» «Bisogna cambiare le regole, creando un contrasto di interessi tra datore di lavoro e lavoratore. Fino a che il dipendente che denuncia di aver lavorato in nero rischia di essere perseguito come evasore e di dover pagare le tasse arretrate, non si andrà da nessuna parte e la battaglia sarà persa», puntualizza Dona, per cui «anche i termini per contestare il licenziamento illegittimo, pari ad appena 60 giorni, sono assurdi per un lavoratore in nero che deve trovare le prove di essere stato un lavoratore di quell'azienda e di certo non facilitano l'emersione del fenomeno». Nel complesso, i settori dove è più alto il peso del sommerso economico sono gli Altri servizi alle persone (35,5% del valore aggiunto totale), Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (21,9%) e le Costruzioni (20,6%). Negli Altri servizi alle imprese (5,5%), nella Produzione di beni d'investimento (3,4%) e nella Produzione di beni intermedi (1,6%), si osservano invece le incidenze minori. Nel settore primario il sommerso, generato solo dalla componente di lavoro irregolare, rappresenta il 17,3% del totale prodotto dal settore.

Reddito di cittadinanza, 116 furbetti scoperti a Treviso. La Repubblica il 7 ottobre 2021. La Guardia di Finanza di Treviso ha denunciato 116 persone per aver percepito illecitamente il reddito di cittadinanza per un importo di 700 mila euro. L'indagine, svolta in collaborazione con l'Inps e con la Regione del Veneto, ha concentrato il controllo sulla veridicità dei dati contenuti nelle autodichiarazioni di coloro i quali hanno richiesto e ottenuto l'rdc nella Marca, scoprendo appunto 116 posizioni irregolari. Diverse, e in certi casi singolari, le violazioni accertate. Per 45 persone, in gran parte cittadini stranieri, la causa della illegittima fruizione del beneficio è dovuta alla mancanza del requisito della residenza, tenuto conto che la legge prevede che il richiedente il sussidio debba essere residente in Italia da almeno 10 anni e che lo sia stato continuativamente negli ultimi due anni. Tra i vari casi anche chi ha acquistato un suv Maserati e chi ha vinto oltre un milione al gioco. Tra i richiedenti sono stati individuati anche tre italiani iscritti all'Aire che hanno falsamente attestato di essere residenti in Italia, solo per avere il beneficio economico. Un coneglianese, emigrato nel 2011 in Venezuela, è rientrato in Italia nel 2019, presentando dopo solo due settimane l'istanza per accedere all'rdc. In 25 casi si è rilevato che i beneficiari hanno nascosto di aver avuto vincite al gioco online. In altri casi, invece, le stesse vincite sono state conseguite nel periodo in cui l'rdc veniva già percepito, ma non sono state comunicate all'Inps, perché questo avrebbe fatto perdere il diritto al beneficio. Alcuni beneficiari dell'rdc, infatti, sono risultati titolari di conti di gioco online, usati assiduamente per fare scommesse su eventi sportivi, partecipare a tornei di poker o altri giochi. Su tali conti di gioco sono state accreditate, in vari casi, somme di denaro per centinaia di migliaia di euro, incompatibili con uno stato di indigenza economica. Come il caso di due disoccupati: un 54enne di Treviso, che ha vinto 1,6 milioni di euro, e un 48enne di Conegliano che ha incassato 500 mila euro. In 17 occasioni, invece, l'irregolarità ha riguardato l'omissione, nella dichiarazione sostitutiva unica, di informazioni reddituali rilevanti (redditi percepiti, anche per attività di lavoro dipendente, e disponibilità immobiliari) che, se indicate, avrebbero messo i richiedenti al di fuori dei limiti previsti per l'ammissione al reddito di cittadinanza. Come una kosovara, residente a Treviso, che non aveva indicato nel proprio nucleo familiare la presenza di una persona, proprietario di immobili dati in affitto, e un senegalese, residente a Castelcucco, che non aveva indicato che altri sei componenti del proprio nucleo familiare percepivano redditi da lavoro dipendente. Diversi sono, ancora, i casi di mancata comunicazione, successivamente alla dichiarazione, della variazione delle condizioni che davano diritto all'rdc: in 12 hanno nascosto di aver iniziato a lavorare, mentre altre 5 hanno avuto variazioni nella composizione del proprio nucleo familiare, senza però informare l'Inps. In altri 3 casi, i beneficiari sono risultati proprietari di auto immatricolati la prima volta nei sei mesi antecedenti la richiesta dell'rdc, o di auto di cilindrata superiore a 1.600 cc o moto di cilindrata superiore a 250 cc, incompatibili con la percezione del beneficio economico. Una di queste persone, nel periodo che fruiva dell'rdc, ha acquistato un suv Maserati "Levante". Infine nove persone hanno omesso di comunicare la presenza, all'interno del proprio nucleo familiare, di persone che si trovano in carcere, circostanza quest'ultima che incide sui parametri normativi fissati per l'erogazione del reddito.

Da leggo.it il 7 ottobre 2021. A Treviso c'era chi girava su una Maserati e chi aveva fatto una maxi vincita da un milione di euro, ma nonostante questo avevano chiesto e percepivano il reddito di cittadinanza. È quello che ha scoperto la Guardia di finanza al termine di una complessa e meticolosa inchiesta. Sono 116 in tutto le persone denunciate con l'accusa di aver percepito illecitamente il reddito di cittadinanza per un importo complessivo di circa 700mila euro. L'indagine, svolta in collaborazione con la Regione e l'Inps, ha concentrato il controllo sulla veridicità dei dati contenuti nelle autodichiarazioni di coloro i quali hanno richiesto e ottenuto il sussidio. Per 45 persone, in gran parte stranieri, la causa dell'illegittimità sta nella mancanza del requisito della residenza. In Italia, infatti la legge prevede che il richiedente del sussidio debba essere residente nel Paese da almeno 10 anni e che lo sia stato continuativamente negli ultimi due anni. Poi, però, ci sono anche i furbetti. Quei casi limiti che beneficiavano del sussidio, ma risultati titolari di conti gioco online, usati assiduamente per fare scommesse, giocare a poker o altri giochi. Su tali conti di gioco sono state accreditate, in vari casi, somme di denaro per centinaia di migliaia di euro, incompatibili con uno stato di necessità economica. Come il caso di due disoccupati: un 54enne di Treviso, che ha vinto 1,6 milioni di euro, e un 48enne di Conegliano che ha incassato 500 mila euro. Ma anche chi ha deciso, mentre percepiva il reddito di cittadinanza, di comprarsi un suv della Maserati. Il modello «Levante» che in concessionaria parte dagli 81mila euro.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 10 settembre 2021. Chiamiamo furbetti quelli che incassano il reddito di cittadinanza lavorando in nero ma c'è qualcuno che li batte: sono migliaia quelli che ricevono un sussidio di 800 euro in Italia e un altro di 1300 in Belgio, in Germania o in Olanda. Dichiarano la residenza lì, ma evitano accuratamente di cancellare quella in Italia. Sono i superfurbetti: due redditi con un solo divano.

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 10 settembre 2021. E noi che ci lamentiamo di chi prende il reddito di cittadinanza perché non vuole lavorare... Principianti. Perché l'asticella si è già alzata parecchio e i professionisti della truffa sono andati oltre ogni umana decenza. Un sussidio mica basta, meglio farsene dare due. Sia mai che 800 euro per stare sul divano dalla mattina alla siano troppo pochi. E così c'è un esercito di mille siciliani sparsi tra Belgio, Germania e Olanda che ruba soldi sia all'Italia che al paese in cui vive. Seguono a ruota campani, pugliesi e sardi: tutti col vizio di incassare denaro che non gli spetta. Ne abbiamo viste di tutti i colori in questi due annidi mancia grillina per i fannulloni, dallo spacciatore di eroina all'ex brigatista, dal mafioso all'assassino, ma il doppio reddito di cittadinanza, francamente, ci mancava. Veniamo alla cronaca. A raccontarlo sono loro stessi, i protagonisti senza vergogna di questo autentico furto. Francesco, appena 24 anni, catanese, in Sicilia lavorava in nero come muratore, cameriere, magazziniere, insomma tutto ciò che capitava. E ovviamente beccava il sussidio. Il ragazzo tiene famiglia e deve arrivare a fine mese, la litania è sempre quella. Poi, la svolta. Il salto di qualità nell'imbroglio. All'edizione palermitana di Repubblica racconta: «Ho saputo da un mio cugino alla lontana che viveva a Liegi che in Belgio avrei potuto prendere un secondo reddito di cittadinanza. Mi bastava raggiungerlo lì. Quando a giugno del 2020 è tornata la possibilità di viaggiare è stata la prima cosa che ho fatto e già dopo alcuni mesi avevo il sussidio belga, e un lavoro a nero come lavapiatti in una brasserie italo-belga». Hai capito che colpo? Ma non è mica l'unico, anzi. «Ce ne sono migliaia di siciliani che fanno in questo modo, non sarò il primo né l'ultimo». Luigi, agrigentino, fa il pizzaiolo a Berlino: «Contratto regolare, 3.500 euro al mese. E il reddito di cittadinanza in Italia». Pure? E certo. Ma come funziona il raggiro? Premessa: il reddito di cittadinanza è legato alla residenza e a una condizione economica non delle migliori. Ovviamente, per legge, la residenza la si può avere in una sola città, proprio per evitare che gli aiuti statali siano concessi più volte alla stessa persona. E infatti l'inghippo sta qui. Perché chi si trasferisce all'estero è obbligato a iscrivere la propria residenza all'Aire, l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero, un adempimento che ovviamente comporta la cancellazione nel Comune italiano. L'iscrizione all'Aire, anche se obbligatoria, deve essere comunicata perché non è soggetta a controlli e non sono previste nemmeno multe. Per cui, i mille furbetti siciliani in questione si sono iscritti all'Aire ma non l'hanno detto a nessuno. Ergo: risultano ancora residenti in Italia e allo stesso tempo anche residenti in Belgio, senza che nessuno dei due paesi lo sappia. A Bruxelles e dintorni il reddito può arrivare anche a 1.300 euro, che sommati ai quasi 800 di casa nostra fanno un bel gruzzoletto. Se poi uno si arrangia anche con qualche lavoretto in nero... Intanto, giusto ieri e sempre in Sicilia, i Carabinieri di Messina e del Nucleo Ispettorato del Lavoro hanno denunciato 102 persone accusate di aver percepito indebitamente il reddito grillino per un totale di 642.000 euro. Mica bruscolini. Sono finiti sotto la lente d'ingrandimento della Procura di Messina 32 uomini e 30 donne, mentre 19 persone (14 uomini e 5 donne) sono state segnalate alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, diretta da Emanuele Crescenti, e in 21 (15 uomini e 6 donne) sono stati segnalati alla Procura della Repubblica di Patti, diretta da Angelo Vittorio Cavallo. E anche in questo caso c'è del marcio, perché in molti casi si tratta di balordi sottoposti a misure cautelari che guarda caso si erano dimenticati di informare l'Inps (che ha attivato le procedure di sospensione e revoca del sussidio) dei provvedimenti a loro carico. Altri ancora avevano avevano dichiarato il falso, dicendo di risiedere in Italia da almeno 10 anni anche se non era vero, oppure mentendo sul numero dei membri del loro nucleo familiare. Postilla doverosa: quei mille siciliani che truffano sia l'Italia che il Belgio, sporcando il nome del nostro Paese, sono la netta minoranza rispetto ai 100.000 connazionali che vivono lì. Gli altri 99.000, come le altre migliaia di italiani all'estero, sono persone perbene che hanno cercato, e trovato, fortuna altrove.

Maria Elena Gottarelli per "fanpage.it". Prato, 11 ottobre 2021. In via Galvani, di fronte all'azienda di pronto moda gestita da personale cinese Dreamland, dieci manifestanti pachistani sono stati pestati da uomini cinesi armati di bastoni e mazze da baseball, durante uno sciopero. Cinque lavoratori sono rimasti feriti e uno di loro è in gravi condizioni. Appoggiati dal sindacato SiCobas, gli operai protestavano contro le condizioni di sfruttamento all'interno della Dreamland. Durante l'estate l'Ispettorato del Lavoro, in seguito alla denuncia di uno dei lavoratori pestati, aveva effettuato dei controlli speciali all'interno della ditta e aveva rilevato gravi irregolarità quali lavoro in nero, turni di 12 e 14 ore e assenza di ferie e tutele. Gli operai stavano manifestando contro questa situazione quando alcune automobili sono giunte sul posto con a bordo uomini cinesi armati di mazze e bastoni, che hanno iniziato a pestare i lavoratori disarmati. Non è ancora chiaro se gli aggressori, tutti cinesi, fossero o meno legati alla Dreamland.  Sul posto erano presenti anche agenti della Digos che hanno ripreso l'intera scena. Il coordinatore del SiCobas di Prato Luca Toscano denuncia anche il non intervento delle forze dell'ordine. "Gli agenti della Digos, che erano circa quattro, si sono limitati a riprendere quello che stava succedendo senza intervenire nemmeno a parole. Non hanno letteralmente detto nulla". Secondo il racconto di Toscano nemmeno la polizia è intervenuta e, in seguito al pestaggio, gli aggressori se ne sono andati indisturbati a bordo delle loro auto. Il più grave dei ricoverati è Altaf, che nel video è l'uomo steso a terra. L'uomo avrebbe perso i sensi durante i pestaggi e, stando alla testimonianza di Toscano, al suo risveglio nella tarda serata dell'11 ottobre non ricordava nulla dell'accaduto. Era stato proprio Altaf l'operaio che, a giugno scorso, aveva fatto scattare i controlli dell'Ispettorato del Lavoro denunciando le condizioni all'interno della Dreamland. Insieme ad altre 64 aziende del circuito tessile pratese tutte soggette a controlli e perizie, la Dreamland ha subito delle sanzioni la scorsa estate, ma, secondo Luca Toscano, "le è bastato pagare la multa per tornare a pieno regime". "È questo il meccanismo che viene messo in atto regolarmente qui a Prato e che permette a questo circolo vizioso di continuare ad alimentarsi", denuncia Toscano.  "L'Ispettorato effettua i controlli, vengono rilevate gravi irregolarità, l'azienda subisce sanzioni ridicole, paga la multa grazie al suo mastodontico fatturato, e torna ad agire sfruttando i lavoratori come se niente fosse". Non è la prima volta che Prato si trasforma nel teatro di pestaggi e violenze contro operai stranieri. A giugno dei lavoratori della ditta di stamperia tessile Texprint s.r.l. erano stati picchiati con dei mattoni dai rappresentati dell'azienda a conduzione cinese. Come nel caso della Dreamland, i lavoratori protestavano contro turni massacranti, ferie, infortuni e malattia non pagati e assenza di qualsiasi diritto garantito dalla Costituzione italiana.

Dalla Romania in Italia per il reddito grillino. C’è l’ombra di un racket. Fabrizio Boschi il 28 Agosto 2021 su Il Giornale. Il sistema svelato dall’ultimo blitz: carte false e 95% di domande al Nord per ottenere i soldi. Viaggiavano su auto di lusso, non avevano la residenza in Italia da dieci anni o non avevano mai vissuto nella nostra nazione, eppure percepivano il reddito di cittadinanza voluto dai grillini. L’ennesima operazione che smaschera tutte le falle del sistema sussidi riaccende il fuoco (mai spento) della polemica contro questa misura di aiuti che però non ha creato lavoro e spesso è finita in mani sbagliate. Il caso di Ozzano Emilia (Bologna) ne mette in luce le gravi lacune e i mancati controlli. Il comandante dei carabinieri di San Lazzaro di Savena (Bologna), maggiore Giulio Presutti, spiega come i 115 cittadini romeni (e una brasiliana), facessero questi viaggi «d’affari» partendo dalla Romania per venire in Italia, in particolare a Milano, per poi rimanerci fino a quando l’Inps non approvava la loro domanda di ottenimento del reddito di cittadinanza. Nella pratica, chi chiede il reddito di cittadinanza va in un Caf e presenta un’autocertificazione. Dopo è l’Inps che, tramite gli enti preposti, deve verificarne l’attendibilità. Ad esempio, è l’Inps che chiede all’anagrafe se il richiedente risulta essere residente in Italia. Ed è lì che nasce il problema: a volte i comuni più grandi non rispondono tempestivamente, ricevendo moltissime richieste ogni giorno. E intanto l’Inps, per rispettare i tempi previsti dalla legge, è obbligata a concedere il beneficio. Il risultato è che, nel frattempo, chi dichiara il falso quei soldi li percepisce lo stesso. Questi romeni, dopo aver ritirato la carta alle Poste e, soprattutto, dopo aver riscosso l’assegno, ritornavano belli tranquilli in Romania. La maggior parte delle richieste sono state fatte al Nord, il 95% presso i Caf di Milano tramite autocertificazioni false e ciò lascia aperti molti spunti investigativi tant’è che non si esclude che dietro possa esserci anche una rete rom o una organizzazione criminale. Queste persone, tra i 18 e i 66 anni, sono state tutte denunciate a piede libero per false dichiarazioni per indebita percezione del reddito di cittadinanza. Il danno allo Stato è di 300mila euro. Il loro modus operandi era piuttosto semplice e collaudato: si fingevano poveri ma in realtà non lo erano. Non dichiaravano auto di cilindrata superiore ai 1.600 cc (alcuni di loro possedevano veicoli di grossa cilindrata), presentavano più domande per nucleo familiare (vietato dalla legge), dichiaravano di essere residenti in Italia da oltre dieci anni mentre alcuni di loro non ci avevano mai messo piede. I più venivano solo per attivare la procedura istruiti dai loro amici rom dei campi italiani. «Qui votiamo Pd e 5Stelle e prendiamo tutti il reddito di cittadinanza», disse tempo fa il capo dei rom del campo di Chiesa Rossa alle porte di Milano, insediamento legale solo sulla carta, ma invece teatro di criminalità, sparatorie e discariche a cielo aperto. Nel mese di giugno, nel comune di Pianoro (Bologna), i carabinieri avevano già denunciato 27 rumeni, accusati anch’essi di indebita percezione del reddito di cittadinanza per un totale di 47.900 euro. Anche loro avevano fatto richiesta del reddito di cittadinanza – pur non avendo i requisiti – tramite Caf di Milano, circostanza che avvalora ancora di più l’ipotesi che dietro potrebbe celarsi una vera e propria rete criminale che parte dai campi rom e organizza questi viaggetti d’affari in Italia. Offerti dai Cinquestelle. Fabrizio Boschi

Cristiana Lauro per Dagospia il 3 settembre 2021. Ma tu guarda come sta cambiando il mondo del lavoro! Fino a poco tempo fa i giovani in età scolastica volevano diventare tutti Carlo Cracco. Oggi, invece, c’è un’improvvisa fuga di massa del personale di sala e di cucina dai ristoranti, compresi i lavapiatti. Che succede? Cos’è cambiato? Sappiamo bene che il settore della ristorazione è fra quelli che hanno subito i danni maggiori di questa pandemia. E ora che sta cercando con fatica di risollevarsi (considerate il crollo del turismo dall’estero, gli albergatori ne sanno qualcosa) si ritrova un’altra rogna fra i piedi: il personale di sala e di cucina se n’è andato o sta per mollare il colpo. Cuochi, camerieri e lavapiatti. Una fuga di massa imprevista, e non si sa come rimpiazzarli. Non ci sono candidati, non arrivano i curriculum. Nella migliore delle ipotesi si presenta il signor nessuno che fa un mese di prova e se ne va. Attualmente ci sono fior di locali (compresi ottimi nomi dove poter crescere professionalmente) alla ricerca disperata di personale che non si trova. Ho parlato con diversi ristoratori e mi hanno riferito cose assurde. Un aspetto da considerare senza tanti giri di parole, poiché riguarda diversi casi, è il sussidio di disoccupazione (NASpI, art.1 Decreto Legislativo, 4 Marzo 2015). Si tratta di un’indennità mensile di disoccupazione che interessa chi, con rapporto di lavoro subordinato, ha perso involontariamente il lavoro. Garantisce il 75% dello stipendio medio mensile imponibile, per un numero di settimane pari alla metà di quelle contributive maturate negli ultimi 4 anni, ovviamente rivalutato ogni anno in base alle variazioni dell’indice ISTAT. Mica male una volta che tornato da mammà per un anno di chiusure, ti sei fatto due conti e hai capito che senza affitto, utenze e sveglia presto la mattina, è tutto più comodo. Hanno accesso alla disoccupazione i licenziati (qualche ristoratore mi ha raccontato casi paradossali di dipendenti che imploravano il licenziamento). Se invece il lavoratore si dimette può comunque chiedere i sussidi che devono essere approvati. Ma anche chi fa un periodo di prova e non lo supera può accedere ai sussidi. Ed è il caso più diffuso ultimamente. Infine, ci sono gli studi di alcuni commercialisti specializzati nell’indicare i mezzucci più sicuri per prendere sussidi senza fare un cazzo per un po’.

Da blitzquotidiano.it il 7 settembre 2021. Reddito di cittadinanza, la Lega attacca con Giorgetti: “Va trasformato in lavoro di cittadinanza”. E’ battaglia nella maggioranza sul reddito di cittadinanza ma a questo punto è scontato che almeno alcuni aggiustamenti ci saranno. A oltre due anni e mezzo dall’entrata in vigore della misura i nodi da sciogliere sono diversi: dall’impatto sulle famiglie numerose al fatto che il meccanismo per favorire la ricerca di lavoro non ha funzionato. 

Politiche attive e lavoro di cittadinanza. Il collegamento tra la percezione del reddito e la ricerca del lavoro è il grande flop della misura. Per questo il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti parla della necessità di trasformazione in Lavoro di Cittadinanza: al momento non si tratta di un progetto concreto ma dell’idea di porre il collegamento l’aiuto dello stato al fatto che molte aziende lamentano al Mise di non riuscire a trovare manodopera non specializzata. Un nodo legato anche al fatto che il reddito di cittadinanza diventa una sorta di concorrenza rispetto a lavori caratterizzati dal salario basso. Gli ultimi dati Anpal, aggiornati al 30 giugno, dicono che su oltre tre milioni di persone interessate sono 1.150.152 quelli che devono sottoscrivere il patto sul lavoro. Tra questi sono stati presi in carico oltre 392.000 persone (il 34,1%) ma non è chiaro quanti siano quelli che hanno trovato un lavoro dato che l’Anpal non fornisce più questo dato. Erano 92.000 in base all’ultimo dato degli occupati risalente a novembre 2020. Al momento – dopodomani è previsto un tavolo – il ministero del Lavoro punta al rafforzamento dei centri per l’impiego (mancano ancora molte delle assunzioni programmate) anche se da questi passa meno del 5% delle assunzioni. Per il resto le persone si affidano alle agenzie private ed ai canali infornali. Si punta per i centri per l’impiego a uno standard minimo su tutto il territorio e questa sarà la grande sfida del confronto sui servizi per il lavoro. 

Le famiglie numerose. Le famiglie numerose sono le più penalizzate dalla misura attuale soprattutto a causa del sistema di equivalenza che assegna valore uno al primo componente 0,4 ai maggiorenni della famiglia e solo 0,2 ai minorenni con il paradosso che una madre single con tre figli piccoli ha un valore di 1,6 sia per il reddito al di sotto del quale è considerata povera sia per il beneficio che può ottenere e due adulti e un figlio maggiorenne hanno valore 1,8. Si lavora a una modifica della scala dando più valore ai minorenni. 

Il territorio. La misura contro la povertà non tiene conto di tutti i criteri Istat secondo i quali si è considerati poveri. Uno di questi tiene conto della residenza e del tipo di comune nel quale si abita. In pratica a parità di componenti della famiglia e di reddito si è più poveri se si vive a Milano piuttosto che in un comune in provincia di Crotone. E’ possibile che si lavori su un legame con il territorio per quanto riguarda la parte del beneficio erogata per l’affitto.

La pausa nell’erogazione del reddito di cittadinanza. Al momento è prevista una pausa di tre mesi nell’erogazione del reddito dopo che lo si è percepito per 18 mesi. Si sta quantificando quanto potrebbe costare l’eliminazione della pausa per le famiglie con minori.

Controlli sul reddito di cittadinanza. Un altro tema sul quale si discute è quello dei controlli. A luglio hanno ricevuto il sussidio 1,37 milioni di famiglie per oltre tre milioni di persone coinvolte e 754 milioni di spesa nel mese. La maggior parte delle famiglie che lo riceve è composta da single (il 44% a fronte del 7,7% con almeno cinque componenti). Si studia un modo per far sì che questo flusso di denaro raggiunga le persone davvero in difficoltà. 

Cristiana Lauro per Dagospia il 7 settembre 2021. I ristoranti e gli alberghi sono nelle pesti, alla ricerca disperata di personale che non si trova. Ne abbiamo parlato pochi giorni fa. Uno dei temi centrali, indicato dagli operatori di settore, si chiama NASpI, la discussa indennità mensile di disoccupazione. Ma il comparto vitivinicolo, se possibile, è messo ancora peggio. Le ragioni sono sovrapponibili, solo che siamo prossimi alla vendemmia e se non si trova la manodopera necessaria, corriamo il rischio di grosse perdite, da parte di chi vuole fare le cose in regola, ossia la maggior parte dei produttori di vino italiani. Perché, sia chiaro: pagando la manodopera stagionale in nero si fa presto a raggirare l’ostacolo, ma si sceglie di essere dei fuorilegge. In un paese come il nostro, dove si percepisce il peso di un senso diffuso dell’impunità, purtroppo non mi meraviglio. Ricordo, nel frattempo, ai più sbadati e menefreghisti che l’Italia è fra i più importanti produttori di vino al mondo per quantità, qualità e reputazione. Quindi non sto parlando di un problema da poco, ma di un guaio serio! Nessuno vuole andare a vendemmiare per non interrompere l’usufrutto (ok, diritto, lo dice la legge, ci sto!) del reddito di cittadinanza. Ovvio: non conviene! Molti produttori di vino sono alla ricerca disperata di manodopera stagionale, regolarmente iscritta, con le varie coperture INAIL, INPS e a tariffa sindacale (mica sottopagati), ma non se li caga nessuno! O meglio: qualcuno si propone, a patto di essere retribuito in nero per non perdere il reddito di cittadinanza, che sarebbe meglio chiamare sussidio di cittadinanza. Fra il significato delle parole “reddito” e “sussidio” corre una differenza, non sono sinonimi. Ma c’’è qualcuno che ha tirato su una paranza di voti su ‘sta roba… Vabbè, ma io non mi occupo di politica, quindi andiamo al dunque! La situazione, attualmente fuori controllo, rischia di posticipare i tempi di coglitura, con possibili danni sulla qualità del vino. Il momento giusto per iniziare la raccolta delle uve è variabile e dipende da diversi fattori, ma gioca un ruolo fondamentale sulla qualità del vino. Non si può spostare o programmare in base al fatto che si sia trovata la manodopera necessaria. Non è un evento programmabile, stabilito sul calendario come il Capodanno! Tanto per aggiungere un ulteriore grattacapo ai produttori di vino in un’annata che, anche dal punto di vista climatico, ha fatto vedere i sorci verdi attraverso un andamento disomogeneo, da nord a sud, da est a ovest. Grandinate da una parte, caldo torrido dall’altra, gelate ad aprile che in alcuni casi hanno bloccato le gemme…Ma questo è il racconto della natura e, forse, delle sue reazioni alle ripetute cazzate che ha fatto l’uomo. Un’altra storia! Penso che i produttori di vino onesti abbiano il sacrosanto diritto di occuparsi della qualità del vino in questo momento. Non può essere condizionata, o compromessa da altri fattori che non siano soltanto quelli naturali. 

Andrea Ducci per il “Corriere della Sera” il 7 settembre 2021. All'interno della maggioranza è un susseguirsi di botta e risposta sul reddito di cittadinanza. A intervenire sulla misura voluta dal M5S, del resto, è anche l'Ocse in un passaggio del Rapporto 2021 sull'Italia. La valutazione dell'Organizzazione per lo sviluppo economico con sede a Parigi è esplicita. Al reddito di cittadinanza viene riconosciuto di avere «contribuito a ridurre il livello di povertà delle fasce più indigenti della popolazione», mitigando gli effetti della pandemia sui redditi, ma l'Ocse constata che «il numero di beneficiari che hanno poi trovato impiego è scarso». L'invito all'Italia, dunque, è di «ridurre e assottigliare il reddito di cittadinanza per incoraggiare i beneficiari a cercare lavoro». Il suggerimento di mettere mano alla misura bandiera del primo governo Conte viene subito colto dal leader della Lega Matteo Salvini. «L'impegno è presentare, in sede di Bilancio, un emendamento a mia firma, in cui chiederemo di rivedere o cancellare il reddito di cittadinanza. Non è un attacco a qualcuno: è che sono 10 miliardi che hanno creato solo lavoro nero. Non funziona. Esiste - annuncia Salvini - in Parlamento una maggioranza ampia per reinvestire quei soldi in lavoro». Suggerendo l'esistenza di un fronte politico pronto a utilizzare le risorse, destinate all'attuale misura di contrasto alla povertà, Salvini precisa: «Penso a ammettere questa misura solo per quelli che non possono lavorare, ma per il resto dobbiamo cancellarlo». Nella Lega anche Giorgetti incalza: «dobbiamo ragionare di lavoro di cittadinanza», l'intento del ministro dello Sviluppo Economico è il varo di una misura alternativa che stimoli direttamente il mercato del lavoro. Uno scenario che il M5S rigetta seccamente. «Difenderemo il reddito di cittadinanza perché è stata una misura importantissima per le persone in difficoltà». A dirlo è il presidente della Camera, Roberto Fico, ma a rimarcarlo è il capo del M5S, Giuseppe Conte, prefigurando, in caso di cancellazione, effetti sulla tenuta dell'esecutivo. «Sarebbe la rottura di un patto di lealtà e di una logica di sostegno e collaborazione: ma il M5s sosterrà il governo, dal momento che Draghi ha confermato che condivide la misura». Poi l'ex premier attacca: «Trovo vigliacco che esponenti politici che hanno un buon stipendio pretendano di abrogare una misura di civiltà». Ma la tensione tra le forze di governo è destinata a salire anche in materia pensionistica. A rammentarlo è ancora l'Ocse invitando l'Italia a «contenere la spesa pensionistica lasciando scadere il regime di pensionamento anticipato (quota 100, ndr) e la cosiddetta Opzione Donna». Un punto che non sfugge al ministro dell'Economia, Daniele Franco. «Avremo un forte cambiamento nei requisiti di pensionamento, e quota 100 scadrà. Siamo consapevoli - dice il ministro - che alcuni settori economici affrontano difficoltà». Franco delinea come possibile soluzione un'uscita graduale da quota 100 (scadrà a dicembre dopo essere stata voluta nel 2018 dalla Lega) per scongiurare uno scalone. «Dobbiamo discuterne nel Governo. Sono fiducioso che l'esecutivo troverà una soluzione equilibrata nella prossima legge di bilancio». La prossima manovra, intanto, verrà predisposta in un contesto di crescita superiore alle attese. L'Ocse per il 2021 ha alzato le stime sull'economia italiana, portandole dal 4,5% al 5,9%. «Numeri che «fanno molto piacere» osserva Franco, l'obiettivo è «un tasso di crescita più alto rispetto alla media precedente al Covid».

Reddito di cittadinanza, Meloni: "È il metadone dello Stato". Replica Orlando: "Non sa cos'è la povertà". La leader di Fratelli d'Italia da Cernobbio contro il sostegno del M5S: "Non è mantenendo le persone nella loro condizione di difficoltà che si risolve il loro problema". Conte: "Espressione volgare, va rivisto ma è necessario". Letta e il ministro del Lavoro d'accordo a migliorarlo. La Repubblica il 5 settembre 2021. "Non sono d'accordo con Conte secondo cui il reddito di cittadinanza è una buona misura. Per me è metadone di Stato". Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, dal forum Ambrosetti a Cernobbio definisce così il reddito di cittadinanza, uno dei pilastri del M5S e dell'ex premier. "È esattamente lo stesso principio del mantenimento a metadone di un tossicodipendente - spiega nel suo intervento - ti mantengo nella tua condizione, non voglio migliorarla, voglio mantenerla. Non penso che questo sia un provvedimento di sviluppo, in particolare non per il Mezzogiorno. Non è mantenendo le persone nella loro condizione di difficoltà che si risolve il loro problema, ma costruendo intorno a loro una possibilità in cui possano migliorare". Parole che hanno scatenato la polemica. Il primo a intervenire è stato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando: "Non rispondo perché chi usa queste metafore probabilmente non si rende conto di che cosa è la povertà". Replica anche il capo del M5S, Giuseppe Conte: "Meloni a Cernobbio ha parlato di metadone. Immagino che non volesse offendere i beneficiari, ma è una espressione volgare, forte. Dobbiamo riconoscere la dignità sociale" alle persone, ha osservato l'ex presidente del Consiglio. Che ritiene la discussione una "polemica sterile" perché si tratta di una "misura di necessità. Ragioniamo per migliorarne ancora l'efficacia". Dura anche la reazione del segretario della Cgil, Maurizio Landini, che vede "odio contro i poveri e verso chi lavora e magari è povero ma paga comunque le tasse anche per chi non le paga". La replica della leader di Fratelli non si è fatta attendere: "Creare lavoro è un modo di liberare la gente dalla povertà, non mantenerla con la paghetta di Stato come vogliono fare i 5 Stelle chiaramente per un fatto di consenso. Proprio perché so cos'è la povertà la voglio combattere davvero e non la voglio mantenere tale quale - ha detto a margine della sua visita al Salone del Mobile di Milano - Io ho detto una cosa molto precisa, che la mentalità con cui lo Stato approccia il problema della povertà con il reddito di cittadinanza è la stessa mentalità con la quale lo Stato approccia il problema della tossicodipendenza, cioè con il mantenimento a metadone. È una cosa semplice da capire, lo spiego ad Orlando, Conte e Di Maio: vuol dire tenere le persone nella condizione in cui si trovano. Io credo che combattere la povertà non sia mantenere le persone con la paghetta di Stato nella loro condizione di povertà". E ancora. "Credo - ha aggiunto Meloni - che esattamente come si può risolvere il problema della tossicodipendenza così si debba fare con la povertà. Come? Creando lavoro e questo il reddito di cittadinanza non lo ha fatto, si possono raccontare tutte le cose che si vogliono ma il reddito di cittadinanza è stato un grandissimo disincentivo al lavoro. È stato uno strumento diseducativo e io mi rifiuto di pensare che, per esempio, come fu detto al tempo del governo giallo-verde, per il Mezzogiorno d'Italia quella potesse essere una soluzione". A rafforzare le considerazioni di Giorgia Meloni c'è Matteo Salvini. Il leader della Lega, che era nella maggioranza di Governo quando il reddito di cittadinanza fu approvato, ritiene che "si è rivelato sbagliato. Lo abbiamo votato ma riconoscere un errore è segno di saggezza. Proporrò un emendamento alla manovra per destinare alle imprese questi soldi". La posizione del Pd sul reddito di cittadinanza "è quella del presidente Draghi. Siamo a favore che si modifichi o si migliori", ha affermato il segretario dem, Enrico Letta. D'accordo con la necessità di un 'tagliando' al sostegno anche il ministro Orlando che ha poi osservato: "Nel nostro Paese non vorrei che si aprisse, in vista delle elezioni, una campagna di odio contro i poveri. Ci sono delle cose che vanno riviste ma non facciamo passare degli stereotipi secondo i quali la povertà è frutto del carattere e della pigrizia". Per Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) la frase di Meloni è "offensiva".

L’attacco legalitario al reddito di cittadinanza è una boiata pazzesca. Certo, il reddito di cittadinanza non serve a molto se si limita, come accade oggi, a tamponare un’emergenza. Ma un conto è criticare le inefficienze del provvedimento e un conto chiederne l’abolizione, scandalizzandosi a ogni episodio di cronaca se un vero o presunto criminale oltre a delinquere percepisce pure il sussidio. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 3 settembre 2021. Mettere nel mirino il reddito di cittadinanza per far dispetto al Movimento 5 Stelle è l’ultima moda di questa fine estate. Il primo ad avere l’intuizione è stato Matteo Renzi, tanto da annunciare una raccolta firme per un referendum abrogativo. Ma visto che l’idea era così brillante anche Matteo Salvini ha pensato bene di lanciarsi a testa bassa nel tiro a bersaglio per il gusto di vedere la faccia irritata di Giuseppe Conte, di nuovo alleato, causa forza maggiore, sia della Lega e che di Italia viva. Non è chiaro se la proposta di Renzi sia figlia di un vecchio istinto rottamatore o di una visione del mondo profondamente ostile all’idea di un sussidio. Ma è probabile che le due motivazioni coesistano. Di certo, si rischia che a farne le spese sia quel milione e rotti di nuclei familiari (dati Osservatorio statistico dell’Inps) che beneficiano del reddito, per un importo medio di 557 euro. Ma sono soprattutto le argomentazioni con cui il leader di Italia viva bombarda la misura varata dall’odiato governo Conte uno a lasciare perplessi. «Fino a due mesi fa tutti dicevano che il “reddito” non si doveva toccare. Dai grillini allo stesso Pd», è la premessa del ragionamento che Renzi consegna alla Stampa. «Poi, appena io faccio uscire sul mio libro l’idea di un referendum, partono due diverse reazioni: la prima di chi dice, “tutto sommato abbiamo fatto un errore”, ovvero Salvini. Il quale fa un mea culpa incredibile, una straordinaria conversione. La seconda reazione è di Pd e 5stelle, che all’unisono hanno cominciato a dire che la legge si può migliorare». Sorvolando sull’aspetto autopromozionale del discorso, è la parte successiva del Renzi pensiero a lasciare spiazzati: «Ora, è evidente che c’è una parte di italiani che prende quel reddito e farà una battaglia in suo favore. L’assegno in parte va a povera gente davvero. Ma è una misura che incrocia anche un pezzo di criminalità, manovalanza che ha incassi illegali, a cui somma il “Rdc”», spiega Renzi. Ed è proprio a questo punto che il viso si contrae in un’espressione incredula e le domande sorgono spontanee: e chi vuoi che chieda di accedere a un sussidio se non la parte del Paese in maggiore difficoltà economica? E c’è da stupirsi che in mezzo a questa platea ci sia anche qualcuno non proprio in regola con la dichiarazione dei redditi? Magari costretto ad accettare più di un lavoro in nero pur di arrivare a fine mese? Perché il reddito di cittadinanza serve proprio a questo: a mettere una toppa sul disagio economico e spesso sociale. Anzi, se lo Stato riuscisse in tal modo a sottrarre anche una sola persona da un destino di manovalanza criminale avrebbe vinto. Certo, il reddito di cittadinanza non serve a molto se si limita, come accade oggi, a tamponare un’emergenza senza un sostegno reale all’inserimento lavorativo dell’interessato. Ma un conto è criticare le inefficienze del provvedimento (e cercare soluzioni per migliorarlo) e un conto chiederne l’abolizione, scandalizzandosi a ogni episodio di cronaca se un vero o presunto criminale oltre a delinquere percepisce pure il sussidio. Uno sport, quest’ultimo, praticato spesso e volentieri anche dai grillini, pronti a rispolverare tutto il vocabolario dell’intransigenza legalitaria per pulirsi il vestito, invocando punizioni esemplari e l’immediata sospensione del “beneficio”. Come se il “reato” cancellasse la “fame”, come se la punizione fosse più importante del disagio. Senza contare che le stesse argomentazioni adoperate da Renzi potrebbero essere utilizzate per smontare un altro provvedimento sacrosanto di welfare fortemente voluto dal suo governo: il Reddito di inclusione. O si presume che gli aiuti concepiti dal senatore di Rignano sull’Arno entrino esclusivamente nelle tasche di donne e uomini dalla fedina penale immacolata e senza alcun impiego irregolare? Quando per paura dei “furbetti” lo Stato rinuncia alla sua funzione vuol dire che ha smesso di essere Stato.

C'è un 10% di abusivi? Scoviamoli! Il reddito di cittadinanza è una misura concepita coi piedi, ma non si possono affamare i poveri. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Agosto 2021. Ci fu una grande levata di scudi quando Enrico Letta propose una tassa una tantum da far pagare alle persone molto ricche. Giornali, politici, economisti, intellettuali spiegarono a Letta che la crisi mordeva, bisognava rilanciare lo sviluppo, non si poteva togliere ai ricchi dei soldi, cioè non si potevano togliere soldi ai cittadini, bisognava, casomai, dargli dei soldi. Anche Draghi disse così. Adesso, evidentemente, molti hanno cambiato idea. La crisi morde – pensano – è il momento di togliere soldi ai cittadini. A chi, ai più ricchi? Macché: follia. Togliamo soldi ai poveri secondo la nobile e celebre ricetta di Jonathan Swift, scrittore inglese – dallo spirito sarcastico – che indicò l’unico modo per risolvere il problema sociale: fare in modo che i bambini ricchi potessero mangiare i bambini poveri. La pandemia ha prodotto molti guai nella struttura della nostra economia e della nostra società. E nuove emergenze sociali. I poveri sono aumentati di un milione di unità in un solo anno, cioè del 25 per cento. Possibile che forze politiche ragionevoli, e persino di centrosinistra, non trovino di meglio che proporre di ridurre alla fame qualche milione di persone, soprattutto giovani, a reddito zero? Voi direte (giustamente): ma il reddito di cittadinanza è una misura concepita coi pedi. Il welfare andrebbe del tutto ridisegnato, con strumenti diversi e più efficaci e più saggi a sostegno delle fasce più povere della popolazione. Il reddito di cittadinanza non aiuta lo sviluppo, la via maestra è creare lavoro. Penso che abbiate ragione, ma cosa c’entrano queste sagge considerazioni con una misura che così, dall’oggi al domani, getterebbe alla fame un settore non piccolo della nostra popolazione? Non c’entra nulla. Vogliamo abolire il reddito di cittadinanza? Benissimo, rimodelliamo il welfare, tagliamo almeno del 60 o del 70 per cento la povertà, e poi possiamo anche abolire il reddito cittadinanza (cioè: sostituirlo). Altrimenti è follia. Per fortuna che c’è Draghi a riportare i partiti politici alla ragione. I partiti, se fosse per loro, disegnerebbero le loro scelte strategiche con l’uso smodato dei sondaggi. Chiedono al sondaggista: dove tolgo i soldi senza perdere voti? Quello risponde: ai pescatori. E li tolgono ai pescatori. Oppure: ai tassisti, e li tolgono ai tassisti. Oppure – come in questo caso – ai poveri. E via il reddito di cittadinanza. E il pensiero politico? L’abbiamo finito, passate un’altra volta. Già, proprio così: Meno male che Draghi c’è.

P.S. Voi dite che c’è un 10 per cento di abusivi che si becca il reddito senza averne diritto? Può darsi: scoviamoli. Ma il modo giusto per scovarli non è togliere il reddito ai poveri. Quello si chiama metodo napalm, lo usavano gli americani in Vietnam. Fecero 2 milioni di morti e persero la guerra.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Alessandro Borghese: «Non trovo personale, pochi vogliono ancora fare lo chef». Alessandra Dal Monte su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. Lo chef in cerca di collaboratori per il suo locale di Milano: «Con la pandemia ho perso figure che stavano con me da oltre dieci anni. I giovani ora vogliono garanzie: io sono d’accordo, dobbiamo dare prospettive a chi si affaccia a questo mestiere, prima era sottopagato». La Fipe: a ottobre mancano all’appello 40 mila professionisti. «Sono alla perenne ricerca di collaboratori: vorrei tenere aperto un giorno in più, il martedì, e aggiungere il pranzo anche in settimana. Ma fatico a trovare nuovi profili, sia per la cucina che per la sala». Alessandro Borghese, quasi 45 anni, cuoco e personaggio televisivo, ha lo stesso problema di tanti suoi colleghi anche meno noti: la fuga del personale dai ristoranti. Quei 120 mila lavoratori a tempo indeterminato che durante la pandemia hanno deciso di cambiare mestiere, stanchi degli orari logoranti e degli stipendi bassi, non sono ancora stati rimpiazzati (dati Fipe). E se l’estate è stata affrontata con gli stagionali, ora il problema si ripropone: la Federazione italiana pubblici esercizi parla di 40 mila professionisti che mancano all’appello nel mese di ottobre, divisi tra camerieri di sala, cuochi e aiuto cuochi, pizzaioli, baristi. 

Borghese, fare lo chef non va più di moda?

«Non credo che la figura del cuoco sia in crisi, ma ci si è accorti che non è un lavoro tutto televisione e luccichii. Si è capito che è faticoso e logorante. E mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi, oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano». 

È la pandemia ad aver segnato un prima e un dopo?

«Certo: con le chiusure tante persone hanno avuto la possibilità di stare in famiglia. E hanno cambiato mestiere per avere più tempo. Il tempo, oggi, è la vera moneta. La mia stessa brigata si è rivoluzionata radicalmente: sono andate via figure che stavano con me da più di dieci anni, sono tornate nelle loro regioni d’origine, dove hanno scelto un lavoro che richiedesse meno fatica psicologica, mentale e fisica».

Bisogna ripensare la professione?

«Sicuramente bisogna lavorare in modo diverso. Sta già succedendo: io ero aperto sette giorni su sette pre-pandemia, adesso cinque. Vorrei tornare a sei, ma comunque terrò chiuso un giorno. Il riposo e i turni sono fondamentali e noi chef, che siamo brand ambassador della cucina italiana, dobbiamo ascoltare le richieste dei ragazzi e delle ragazze che rendono possibile il nostro lavoro». 

Quanto incide la carenza di personale sulla ripresa?

«Molto, perché non si riesce a lavorare come potremmo: finalmente c’è profumo di ripartenza, tornano le liste d’attesa nelle prenotazioni, questo ci fa ben sperare e ci inorgoglisce. Ma bisogna rinunciare a delle opportunità perché mancano le risorse. Prima del Covid c’era la fila di ragazzi fuori dai ristoranti, oggi non si vuole più fare questo lavoro. Io ho un ritmo di due-tre colloqui al giorno, ma poi non riesco ad assumere, perché tanti non stanno davvero cercando, si vede che non sono interessati. Altri approfittano della situazione: sanno che c’è tanta domanda perciò fanno richieste eccessive. Io cerco la misura: persone che magari non sanno cucinare benissimo, ma che siano educate e desiderose di imparare. La mia azienda saprà ricompensarle: noi ai dipendenti offriamo anche corsi di inglese e di sommelier, ma deve instaurarsi un rapporto di fiducia reciproco». 

Come rendere di nuovo attrattivo il settore?

«Bisogna essere datori di lavoro seri, dare prospettive. Se vogliamo che questo settore sia centrale per l’Italia è l’unica strada. Senza personale qualificato non andiamo da nessuna parte, se si trovano male i clienti non tornano». 

"Lo Stato è un cattivo papà. Così io non trovo impiegati". Fabrizio Boschi il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. L'ad di Falcon: "Se si versano soldi per non far nulla, nessuno è più disposto a imparare un mestiere". Il reddito di cittadinanza per molti imprenditori è un vero cortocircuito della nostra economia, capace solo di formare una generazione di fannulloni. O come dice Daniele Pescara, 32 anni, ceo di Falcon Advice, società con sede a Padova e Dubai, che dal 2016 si occupa di aiutare le aziende italiane ad espandersi ed investire nel Golfo Persico, «la ricetta perfetta per un futuro basato sul nulla». La Falcon, partita da zero 4 anni fa, oggi fattura quasi un milione di euro all'anno e conta su 20 professionisti. Come molti altri imprenditori anche Pescara si è scontrato con questo fenomeno.

Pescara, è capitato anche a lei?

«Molte volte. Cercavamo delle figure da inquadrare. Il minimo requisito era liceo classico o scientifico e un po' di esperienza».

Sarebbero stati subito assunti?

«Certo, dopo 30 giorni di prova retribuiti, con uno stipendio base di 800 euro al mese. Eppure niente».

Forse perché è la stessa cifra del reddito di cittadinanza?

«Sarà per quello visto che molti hanno preferito starsene a casa piuttosto che imparare un mestiere. Perché devo lavorare per la Falcon a 800 euro al mese quando posso avere gli stessi soldi senza fare niente?»

Piuttosto avvilente.

«Molto peggio. Io sono scandalizzato da tutto questo. Ci sono potenziali professionisti privi di una scala valoriale. Giovani laureati senza passione, con l'unico scopo di arrivare a fine mese, oppure ragazzi il cui unico obiettivo è fare l'influencer. Non hanno voglia di mettersi in gioco perché, a loro dire, non gli conviene».

E lo Stato?

«Lo Stato disincentiva non tanto il lavoro ma, peggio, l'amore per il lavoro. Perché per arrivare a costruire una carriera devi innamorati del processo».

Come giudica il reddito?

«L'Italia è come un cattivo papà, autoritario quando non serve, vedi il green pass, che poi impartisce lezioni sbagliate ai suoi figli. E comunque lo Stato non ha interesse a toglierlo».

Come?

«Vedo queste scene: entrano al tabacchio, con 200 euro del reddito pagano le bollette, con il resto comprano sigarette e gratta e vinci. Rientra tutto. È la formula del discount».

Cioè?

«Negli anni Novanta davanti ai discount ti davano un buono da 10mila lire per la spesa se votavi per quel partito. Poi però tutta la società è diventata un discount». Fabrizio Boschi 

"Io pronta a lavorare. Ma nessuno mi chiama". Antonella Aldrighetti il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. Tamara, 40enne romana: "Mai contattata dai centri per l'impiego. Nemmeno per il cv". «La frustrazione di ricorrere a una misura che ho fin da subito considerato sciocca e improduttiva è forte ora come allora. All'inizio, dopo il licenziamento non avrei voluto chiedere alcun aiuto, avrei voluto trovare un altro lavoro. Purtroppo, ho dovuto piegarmi a chiedere il reddito di cittadinanza per la mia sopravvivenza. E per integrare qualche ora di babysitting. Parole di imbarazzo quelle di Tamara M. - 40 anni, romana, ex dipendente di una cooperativa di servizi con mansioni di segretaria - che esprime l'amarezza per un percorso che valutava inconsistente e che tale si è rivelato perché non mette in contatto domanda e offerta. Tantomeno ha garantito chiamate da parte dei comuni per impegnare i percettori nei lavori socialmente utili come era stabilito nel dettato legislativo.

Vale a dire che la situazione di disagio non era, e non è, solo economica?

«Assolutamente. Ho sempre cercato e continuo a cercare un lavoro, non voglio l'obolo di stato e non sto certo sul divano ad aspettare che la card gialla si ricarichi ogni 27 del mese. Faccio la baby sitter, di meglio non ho trovato, ma con 300 euro al mese nette in busta, non riesco a sopravvivere».

Hai ricevuto qualche offerta o almeno hai fatto i colloqui preliminari?

«Nessuno mi ha mai chiamato, nemmeno per stilare il curriculum. E questo è gravissimo: ho competenze in diversi settori, una cultura discreta e tanta voglia di lavorare. Piuttosto sono io a chiamare il Centro per l'impiego, e fino a oggi senza successo. Ci sono anche andata di persona tre o quattro volte ma ho sempre avuto contatti esclusivamente con le guardie giurate sul posto. Gli operatori - mi è stato detto - sono in smartworking».

Da quanto tempo percepisce il sussidio? Dura solo 18 mesi, sarà necessario rifare la domanda.

«A novembre scadrà. Sono preoccupata perché senza possibilità di colloqui o proposte lavorative rimane un'unica alternativa: aspettare un mese e poi riproporre la domanda al Caf e attendere due mesi per ottenere di nuovo l'aiuto. Insomma frustrazione capitolo due: mi sento una completa inconcludente. Confido che il governo si renda conto che così non può funzionare. Si è parlato anche di nuova formazione: nulla di fatto. E non per via del Covid, i corsi di aggiornamento si possono fare anche on line. Basta volerlo». Antonella Aldrighetti 

Da “la Stampa” il 18 agosto 2021. Blitz dell'Ispettorato del lavoro e del Nucleo Tutela del lavoro dei Carabinieri: si sono mossi anche nei giorni di Ferragosto contro il lavoro nero e insicuro. In tutta Italia sono state ispezionate 211 aziende, soprattutto nel settore dei pubblici esercizi, della ristorazione della ricettività turistica. È emerso che 149 aziende, cioè il 71 percento, sono risultate irregolari; e fra queste, 58 sono state chiuse immediatamente, con provvedimento di sospensione dell'attività. Commenta Bruno Giordano, magistrato e direttore dell'Ispettorato: «Se tra le aziende ispezionate attive a Ferragosto 7 su 10 operano con lavoratori in nero, con violazioni in materia di busta paga e di tracciabilità dei pagamenti, e con persone che percepiscono indebitamente il reddito di cittadinanza, vuol dire che in questo Paese dobbiamo contrastare un quadro di illegalità diffusa nel lavoro. E vuol dire che controlli e controllori sono sempre più necessari per la tutela della legalità del lavoro». Gli accertamenti proseguono e hanno evidenziato irregolarità in merito alla sicurezza, a forme spurie di cooperative, agli orari di lavoro, all'illecita somministrazione di manodopera e ai trattamenti contrattuali applicati ai lavoratori. I lavoratori irregolari rintracciati sono stati 312; tra questi spiccano 11 minori irregolari, costretti a lavorare in nero o a trattenersi oltre le ore 22.

Peter Gomez per “il Fatto Quotidiano” il 13 agosto 2021. Il concetto lo espresse benissimo molti anni fa Henry Ford: "Non è l'azienda che paga i salari. L'azienda semplicemente maneggia denaro. È il cliente che paga i salari". Se le cose stanno così viene allora da chiedersi perché sempre più spesso i nostri politici sostengano che gli imprenditori del turismo non trovano lavoratori stagionali a causa del Reddito di cittadinanza. Nelle località di mare si registra il tutto esaurito. Secondo il Codacons oggi per fare dieci giorni di vacanza si spende in media l'11 per cento più che lo scorso anno. I danni economici causati dalle restrizioni dovute alla pandemia sono stati fortissimi nelle città dove bar e ristoranti hanno subito cali verticali di fatturato, ma sono stati quasi inesistenti per chi lavora davvero solo nella bella stagione.

INSOMMA SE DAVVERO, come affermano Matteo Renzi e Matteo Salvini, la carenza di stagionali esiste, ed è causata dai 550 euro al mese erogati in media alle famiglie povere, per risolverla almeno nelle località di mare basterebbe aumentare gli stipendi. Come del resto suggerito poche settimane fa agli imprenditori americani non da un pericoloso bolscevico, ma da un uomo affezionato al capitalismo come il presidente Usa, Joe Biden. Proposte del genere però nel nostro Paese non trovano spazio. E invece impera la demagogia. Ai primi di giugno, per basarsi sui fatti e non sulle opinioni, alcuni colleghi de Ilfattoquotidiano.it si sono armati di microfoni e telecamere nascoste e sono andati a verificare sul campo la realtà degli stagionali. Tre giornalisti hanno sostenuto un centinaio di colloqui di lavoro da Nord a Sud. L'esperienza è documentata sul sito e francamente fa cadere le braccia. In nessun caso sono stati loro offerti contratti in regola. In Emilia-Romagna l'assunzione è sempre una sorta di part-time. Al massimo sei ore e 40 al giorno quando invece se ne lavorano 12 o 13. Il giorno di riposo, previsto dal "finto" contratto, non esiste. Il compenso solo raramente arriva a 1.500 euro al mese, pari a 4 euro l'ora, in parte in assegno in parte in contanti. Più comuni sono invece le offerte da 1.000 euro. Peggio ancora va nel Sud. Negli stabilimenti balneari siciliani visitati dai cronisti, si lavora sette giorni su sette per 14 ore al giorno per 900 euro. A volte, ma è raro, viene offerto un contratto di poche ore per aggirare i controlli in caso di visita degli ispettori del lavoro. Meglio vanno le cose in Versilia. Qui già a giugno era difficile trovare un posto da stagionale. Su settantacinque stabilimenti contattati solo 19 cercavano ancora lavoratori, ma quindici di essi offrivano contratti metà in nero e metà in chiaro tra i 700 e i 1.000 euro al mese per 12 ore di lavoro al giorno. L'inchiesta sul campo de Ilfattoquotidiano.it ha insomma documentato che il Reddito di cittadinanza e l'asserita carenza di stagionali hanno ben poco in comune. È vero però che questo tipo di lavoratori, se disoccupati, si sono visti erogare negli ultimi 12 mesi come bonus Covid 8.600 euro in varie tranche. Tra di loro dunque c'è certamente chi si è fatto due conti: meglio stare a casa e percepire i bonus piuttosto che spezzarsi la schiena per tre-quattro mesi per 4 euro l'ora. Ma il politico accorto, che opera per il bene dei cittadini, dovrebbe capire che la questione non sono i bonus o i sussidi, ma gli stipendi da fame. E, visto che ce lo ha suggerito pure l'Europa, dovrebbe battersi per il salario orario minimo garantito, già presente in 21 stati su 27. Lo faranno Mario Draghi e la maggioranza in Parlamento? Noi ci speriamo. Ma ne dubitiamo.

Da "Libero Quotidiano" il 12 agosto 2021. L'ultima "visione" di Beppe Grillo si chiama "reddito universale". Proprio mentre sul reddito di cittadinanza, ultima bandiera del M5S, si annidano nubi sempre più minacciose, con la Lega che chiede la sua cancellazione e il premier Mario Draghi che, a sorpresa, lo difende, il fondatore e garante del Movimento rilancia e alza addirittura il tiro. «Il reddito di base universale può creare una società migliore e una vita migliore per tutti, l'unica sfida è il finanziamento. Ecco una delle possibili soluzioni. Apriamo il dibattito». Grillo lo ha scritto su Twitter, lanciando un articolo sul suo blog firmato Shigheito Sasaki. Nel testo si legge: «Ora che è stato dimostrato che il reddito di base universale può creare una società migliore e una vita migliore, l'unica sfida è il finanziamento. Se la Banca Centrale, che crea denaro dal nulla, emettesse denaro per far vivere le persone, non ci sarà bisogno di un enorme aumento delle tasse». Nel pezzo si sostiene che all'inizio dovremmo assicurarci che «il denaro venga creato dal nulla», riaffermando che sono le persone «a creare la domanda nell'economia e che il solo fatto di essere vivi è prezioso». La sfida a questo punto, si legge sul blog di Grillo, è incentrata tutto sul finanziamento: se la Banca Centrale facesse la sua parte, il più sarebbe fatto e in tal modo «tutte le persone saranno libere dalla schiavitù del denaro e la povertà sarà sradicata dal nostro mondo». Scrive Grillo: «Come sarà il mondo dopo il Covid-19? E cosa dovremmo fare? Il sogno di Martin Luther King era il reddito di base (...) Sono passati più di 50 anni dalla morte di Martin Luther King e le cose stanno peggiorando. È ovvio a tutti che la povertà è la più grande sfida nella società umana. È l'elemento prevalente nel nostro pianeta. Se fossimo degli alieni, constateremo che sulla Terra la maggior parte dei popoli vive in uno stato di precarietà allarmante, mentre una esigua schiera di individui governano nella totale ricchezza». Quindi la visione finale sulle orme dello stesso Martin Luther King: quella di una nuova «marcia, non violenta», che rappresenta «forse l'opportunità che cerchiamo. Una grande e imponente marcia. Come sarebbe meraviglioso se accadesse contemporaneamente in tutte le banche centrali del mondo. Abbiamo tutti la stessa sfida».

Estratto da un articolo di Flavio Bini per repubblica.it. Soldi per tutti, all'infinito. L'ultima proposta lanciata da Beppe Grillo sul proprio sito va persino oltre il sogno del reddito universale accarezzato per anni dal fondatore del Movimento 5 Stelle. Progetto poi - con l'avvento al governo dei pentastellati - trasformato in un più ragionevole reddito di cittadinanza, un sussidio destinato alle fasce più deboli della popolazione. Questa volta la proposta è doppia: non solo un contributo universale, quindi concesso indifferentemente a ricchi e poveri, ma finanziato non con la fiscalità generale, le tasse, ma direttamente per via monetaria. Quello che più semplicisticamente viene definito "stampare moneta". 

Il mito dell'helicopter money. Così come concepita da Beppe Grillo, la proposta non ha eguali nella storia. Sicuramente non in Europa, dove le emissioni di moneta sono regolate dalla Banca Centrale Europea, che per statuto non può finanziare direttamente gli stati. Più come provocazione che come ipotesi concreta, negli anni passati, tra le armi che la Bce avrebbe potuto mettere in campo per dare una scossa all'asfittica economia europea si era parlato di Helicopter money, cioè la possibilità di creare moneta distribuendola ai cittadini, direttamente o indirettamente attraverso gli stati. Niente che sia mai stato realizzato da nessuna grande banca centrale del mondo e soprattutto niente che sia previsto dalle regole istitutive della Bce.

Il flop dell'esperimento finlandese. Anche l'idea di un reddito per tutti, senza distinzioni tra ricchi e poveri, ha però per ora trovato pochissime applicazioni. Il test più recente si è svolto in Finlandia nel 2017. Il governo di Helsinki ha pagato 560 euro per due anni a duemila persone senza lavoro scelte a caso tra gli oltre 200 mila disoccupati del Paese. E ha continuato a farlo nel corso del tempo anche se nel corso del biennio avessero o meno trovato lavoro. L'obiettivo della sperimentazione era chiaro: osservare il comportamento dei percettori del sussidio di fronte a potenziali offerte di lavoro. Il rischio dei sussidi contro la povertà è che disincentivino le persone nella ricerca di un impiego, un reddito concesso in maniera indistinta avrebbe quindi superato questo ostacolo, contribuendo potenzialmente alla crescita dell'occupazione. Al termine dei due anni i risultati si sono rivelati poco incoraggianti: il contributo ha reso i percettori più felici, migliorandone il benessere e la salute mentale, ma non li ha aiutati nella ricerca del lavoro.

Il test tedesco: 1200 euro per tre anni. Un altro esperimento, su scala molto più contenuta, è stato avviato in Germania lo scorso anno con un test su 1500 persone. A 122 di questi per tre anni è stato concesso un sussidio da 1200 euro al mese, senza vincoli di reddito o di spesa, ad altri 1378 no studiando nel corso del triennio il comportamento dei percettori del reddito rispetto al gruppo di controllo, cioè di chi non incasserà i soldi. Anche in questo caso lo studio è volto a verificare come beneficiare di un reddito stabile e fisso indipendentemente dal proprio lavoro possa cambiare le proprie abitudini di vita o professionali.

Enrico Marro per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2021. Se da un giorno all'altro si abolisse il Reddito di cittadinanza (Rdc), l'Italia tornerebbe ad essere l'unico Paese europeo a non avere uno strumento di lotta universale alla povertà. Strumento che la commissione Ue sollecitava all'Italia già ben prima che i 5 stelle ne facessero un cavallo di battaglia. Forse anche per questo il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto che lui «il concetto alla base del Reddito di cittadinanza» lo condivide. Del resto, la pandemia ha reso evidente che almeno una parte di vecchi e nuovi poveri si è tenuta a galla anche grazie a questa misura. Che, dice l'Istat, ha concorso, insieme con il Reddito di emergenza (Rem), la cig in deroga e altri strumenti, a ridurre - di poco, per la verità - «il valore dell'intensità della povertà assoluta», cioè quanto la spesa media mensile delle famiglie povere è al di sotto della linea di povertà, insomma «quanto poveri sono i poveri». Valore sceso dal 20,3% del 2019 al 18,7% del 2020, 1,6 punti in meno. Ma questo non significa che il Rdc funzioni bene. Anzi. I dati dicono che, nonostante il Reddito e la Pensione di cittadinanza interessino 1,3 milioni di famiglie per complessivi tre milioni di persone, nel 2020 le famiglie in condizioni di povertà assoluta, cioè non in grado di acquistare un paniere di beni e servizi sufficiente a «uno standard di vita minimamente accettabile» (definizione Istat), sono aumentate da un milione 674 mila a due milioni, il che equivale a un milione di poveri in più: da 4,6 a 5,6 milioni. Certo, c'è stata la pandemia, ma siamo ben lontani dall'«abbiamo abolito la povertà» urlato dall'allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi il 27 settembre 2018. Normale, quindi, che l'attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) abbia costituito un Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, presieduto da Chiara Saraceno, che a ottobre consegnerà le sue proposte. Ma che cosa non ha funzionato? Tantissime cose. Oggi l'assegno, in media 551 euro al mese, arriva appunto a 3 milioni di persone, con una spesa per il bilancio pubblico di circa 8 miliardi l'anno. Grazie al Rdc, si legge nel recente Rapporto della Caritas, il 57% dei percettori ha superato la soglia di povertà assoluta, in particolare tra i single. Ma la misura non è ben mirata rispetto al bersaglio. Intanto, dice il Rapporto, solo il 44% delle famiglie povere riceve il Rdc, ma c'è anche un 36% di famiglie che prende il sussidio pur non essendo in povertà assoluta secondo la definizione Istat. Non che non ne abbia diritto, ma i criteri per concedere il Rdc non sono quelli dell'Istat. Questo 36%, spiega Cristiano Gori, docente di Politica sociale a Trento e membro del Comitato voluto da Orlando, «non è fatto di truffatori», ma prende il Rdc per via di come è disegnata la misura. Che concentra le risorse sulle famiglie con uno o due componenti, a scapito delle famiglie numerose. In sostanza, con gli 8 miliardi annui a disposizione, aver stabilito che il singolo senza altri redditi potesse avere 780 euro al mese ha costretto a limitare il beneficio per i nuclei con tre o più figli che sono quelli coi più alti tassi di povertà, ma che al massimo ricevono un assegno doppio rispetto a un single. Inoltre, il requisito della residenza in Italia da almeno 10 anni ha escluso gran parte delle famiglie di immigrati, spesso le più povere. E non aver introdotto importi differenziati sul territorio (al contrario di quanto fa l'Istat nel calcolare il paniere della povertà assoluta) ha concorso al fatto che il Rdc si concentri al Sud, con Campania, Calabria e Sicilia che da sole raccolgono la metà dei beneficiari, cioè 1,5 milioni, mentre al Nord sono solo 578 mila. Ma non c'è solo questo. I controlli non funzionano. Le banche dati non vengono incrociate, per verificare col Pra il possesso dei veicoli, con l'anagrafe tributaria e col catasto i conti correnti e le case, col casellario giudiziario i carichi penali, con le regioni e i comuni eventuali altri sussidi erogati. I controlli vengono fatti dopo, a campione. Nel 2020 la Guardia di finanza ha denunciato 5.868 truffatori, tra i quali mafiosi e possessori di ville e auto di lusso. Infine, non si è avverata la promessa che i percettori del Rdc sarebbero stati avviati al lavoro. Non solo perché c'è stata la pandemia, ma fondamentalmente per due motivi: 1) solo un milione di beneficiari del Rdc sono indirizzabili al lavoro (gli altri sono minori, disabili o con problemi di inclusione) ma il 72% ha al massimo la licenza media; 2) molti percettori del Rdc che lavorano in nero preferiscono continuare così e cumulare. Che fare? «Bisogna migliorare la capacità del Rdc di raggiungere chi ha veramente bisogno, intercettando il resto con altri strumenti, dall'assegno unico ai nuovi ammortizzatori - dice Gori -. Inoltre, vanno rafforzati, grazie alle assunzioni di personale, i percorsi di inclusione sociale e lavorativa. In sostanza, bisogna correggere la misura, ma considerare che è come se si partisse adesso, perché la pandemia ha finora condizionato tutto». Più drastico, invece, Natale Forlani, che ha curato per Itinerari previdenziali uno studio sul Rdc: «Se dopo aver speso solo per il Rdc 8 miliardi si è ottenuta una riduzione di appena 1,6 punti dell'intensità di povertà e abbiamo un 36% di beneficiari che non sono poveri e i controlli non funzionano, e le politiche attive fanno ridere, o si cambiano le cose o si rischia una deriva parassitaria. Guardiamo agli altri Paesi, dove si punta meno sul sussidio e più sui servizi legati a una forte condizionalità».

Ecco la verità sul reddito di cittadinanza: chi lo incassa (davvero). Federico Garau l'11 Agosto 2021 su Il Giornale. Nessuna intenzione di abolire il sussidio, che in piena crisi ha aiutato molte famiglie. Il ministro Orlando al lavoro per elaborare una proposta di modifica. Nessuna intenzione di abolire il reddito di cittadinanza, come proposto dal leader di Italia viva Matteo Renzi: il governo pensa piuttosto ad una rielaborazione del sussidio grillino, così da garantire all'Italia uno strumento di tutela e di lotta alla povertà, come raccomandato anche dalla commissione europea. In merito alla questione, il premier Mario Draghi è stato chiaro: "Quello che vorrei dire è che il concetto alla base del reddito di cittadinanza io lo condivido in pieno". Ed anche il segretario del Carroccio Matteo Salvini si è adeguato: "Il reddito di cittadinanza va sicuramente rivisto, perché così come è non crea lavoro ma allontana".

Reddito di cittadinanza nel mirino: cosa può cambiare. In previsione, dunque, ci sono dei cambiamenti. Il reddito di cittadinanza, dati Istat alla mano, ha contribuito a sostenere una fascia di popolazione gravemente colpita dalla crisi economica innescata dalla dichiarata emergenza sanitaria, insieme alla cig e ad altri sussidi. Eppure, malgrado circa 3 milioni di persone stia beneficiando del reddito grillino e della pensione di cittadinanza, nell'anno 2020 sono aumentate le famiglie in condizioni di povertà assoluta. Stiamo parlando di cittadini che non sono attualmente in grado di permettersi una serie di beni e servizi sufficienti a garantire uno standard di vita minimamente accettabile. Siamo passati da 4,6 a 5,6 milioni di poveri. Evidentemente, putroppo, i pentastellati non sono riusciti a sconfiggere la povertà, come aveva sbandierato ai quattro venti Luigi Di Maio.

Qualcosa non funziona. Uno dei primi problemi era stata l'introduzione dei navigator: pensati per essere una figura di orientamento per i cittadini in cerca di tutela ed aiuto nella ricerca di lavoro, si sono trovati a gestire un sistema ricco di carenze. La crisi provocata dall'emergenza sanitaria ha complicato ulteriormente la situazione.

Più grave la questione dei cosiddetti furbetti del reddito: soggetti riusciti ad ottenere il sussidio pur non avendone diritto. Fra gli illeciti beneficiari, anche stranieri non in regola, evasori, criminali, e soggetti appartenenti ad associazioni di stampo mafioso. Dal momento che l'erogazione del reddito (circa 551 euro al mese) costituisce una spesa pubblica che si aggira intorno agli 8 miliardi l’anno, è fondamentale prendere dei provvedimenti affinché l'aiuto raggiunga coloro che ne hanno realmente necessità. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha quindi istituito un Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza.

I dati. Stando a quanto riferito da un recente rapporto della Caritas, grazie al reddito di cittadinanza il 57% dei percettori ha superato la soglia di povertà assoluta. Ma non basta. Soltanto il 44% delle famiglie indigenti, infatti, percepisce il sussidio. A queste si aggiunge un 36% di beneficiari che riceve l'aiuto pur non trovandosi in una condizione di povertà assoluta. Non si tratta di truffatori, come sottolinea Cristiano Gori, docente di Politica sociale e membro del Comitato per il reddito. Queste persone hanno ottenuto il sussidio perché lo prevede il provvedimento. A risentirne, però, sarebbero le famiglie più numerose. C'è poi un'altra questione, evidentemente rilevante per il comitato: il requisito della residenza in Italia da almeno 10 anni ha escluso molte famiglie di stranieri. Importante, inoltre, introdurre importi differenziati sul territorio: attualmente la maggior parte del reddito viene percepito in Campania, Calabria e Sicilia. Su questi punti lavorerà il ministro Orlando per elaborare la sua proposta di modifica. Un grande lavoro dovrà essere effettuato anche per quanto riguarda i controlli, ancora insufficienti. Ci vuole una comunicazione fra banche dati, così da risalire ad eventuali veicoli posseduti, conti correnti e case. Serve dunque una collaborazione fra Pra, catasto, anagrafe tributaria e casellario giudiziario. Solo nell'anno 2020, la guardia di finanza ha denunciato ben 5.868 soggetti. E per quanto riguarda la questione lavoro, la maggior parte dei beneficiari non è stato aiutato a trovare un'occupazione, come inizialmente auspicato dai grillini.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).

"Chiaro che avrebbe fatto flop. Le politiche attive sono altre". Gian Maria De Francesco il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. Cazzola: "Intervenire su scolarizzazione e inclusione sociale invece di promettere tre offerte di lavoro". Giuliano Cazzola, esperto di diritto del lavoro e di previdenza, ritiene che il reddito di cittadinanza debba sussistere come sussidio di inclusione. Le politiche attive del lavoro non dovrebbero riguardarlo e ogni riforma del sostegno introdotto dai Cinque stelle dovrebbe partire da questo assunto.

Dottor Cazzola, cosa non ha funzionato nel reddito?

«Non ha funzionato quello che si sapeva fin dall'inizio non avrebbe funzionato: tenere insieme uno strumento di sostegno contro la povertà con le politiche attive. È come mettere assieme un treno ad alta velocità con una carriola. È quello che tutti riconoscono come grande fallimento, a partire dai navigator a cui non è stato fatto fare niente. È sbagliata l'idea che un lavoratore disoccupato che vive in condizione di povertà sia in grado di fare un corso ed essere assunto a tempo indeterminato. Infatti, si è scoperto che più di un milione di percettori non sono occupabili perché bisogna avere un livello di istruzione sufficiente ed esperienze pregresse. Questo è il punto vero».

Come si potrebbe riformare?

«Si potrebbe fare un'operazione che non ha la pretesa di offrire tre posti di lavoro in 18 mesi, ma che interviene sul versante della povertà e dell'inclusione sociale, della scolarizzazione».

Dunque, le politiche attive andrebbero escluse?

«Non vedo come si possano recuperare politiche attive con gli attuali centri per l'impiego. Si devono creare gli strumenti, allargare l'iniziativa ai centri privati. I centri per l'impiego sono eredi degli uffici di collocamento e svolgono compiti burocratici e non di promozione delle politiche attive. Ecco perché le due questioni vanno distinte. Il reddito per l'inclusione sociale. Le politiche attive con assegni di ricollocazione e centri professionali per l'impiego».

Cosa pensa della riforma degli ammortizzatori del ministro Orlando?

«Penso che voglia rendere permanente e strutturale una politica che si è fatta in un periodo di emergenza dove si è data la cassa integrazione a tutti, ma non si può fare diventare strutturale una situazione di emergenza dando gratis per alcuni anni la cigs alle aziende con un dipendente. La mia preoccupazione è che il governo allarghi le politiche in continuità di rapporti lavoro rispetto a quelle per la disoccupazione, allontanando i licenziamenti e rendendo la cigs un percorso quasi obbligatorio incoraggiato, mentre il Jobs Act aveva distinto tra Cigs, Naspi e Dis-Coll. Nelle recenti vertenze aperte i sindacati rivendicano le 13 settimane di cassa, che è tirare a campare». 

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop.

Reddito di cittadinanza, una misura buona studiata male. Giuseppe Gaetano il 13/07/2021 su Notizie.it. Vogliamo rinunciare a raddrizzare tutto ciò che oggi ha reso irrinunciabile questo assegno o lasciare che chi vi ricorre continui a sopravvivere, tirando innanzi sotto la soglia di povertà? C’è stato un momento, dopo il voltafaccia al governo sul ddl Zan, che per qualche settimana era sparito: un’enormità per l’ipertrofico esibizionismo di Matteo Renzi, da far sospettare che stesse male. Chi sperava che si guardasse in santa pace gli Europei, è rimasto puntualmente deluso: il leader d’Italia Viva covava l’ennesimo coniglio da estrarre dal cilindro, per scuotere l’afosa estate italiana e tornare a dire “a me gli occhi please”. Nella dissociazione mentale delle sue posizioni politiche, gli va però dato atto d’impersonare coerentemente il ruolo di serpe in seno a prescindere dalla maggioranza del momento. E ha pescato bene, il Renzi: quest’anno, tra gli argomenti trend delle vacanze, c’è sicuramente il reddito di cittadinanza. L’occhio strizzato per due volte in un mese alla destra non è un tic: ha capito che l’unica maniera per far parlare di sé è male. Tuttavia, essere contrari al reddito di cittadinanza non significa necessariamente essere malvagi o malati. L’rdc ha cucito le toppe di un sistema che ha progressivamente acuito le differenze economiche e sociali tra gli italiani, separati da svariati zeri nei redditi. Quello d’emergenza ha sopperito all’abbattimento di tutele e diritti dei lavoratori e a stipendi da fame. Al Sud, in particolare: Campania e Sicilia coprono da sole la metà degli assegni staccati in tutta Italia. La domanda è: vogliamo rinunciare a raddrizzare tutto ciò che oggi ha reso irrinunciabile questo assegno o lasciare che chi vi ricorre continui a sopravvivere, tirando innanzi sotto la soglia di povertà? L’esecutivo Draghi ha un piano alternativo all’elemosina per recuperare tanti cittadini, reimmetterli nel mercato del lavoro, gratificandoli con la dignità di un’occupazione? Ne avremmo tante di domande da rivolgere al premier sul tema, senza bisogno di Renzi. Che fine hanno fatto i navigator? Si stanno riqualificando le competenze delle persone o le manterremo all’infinito con una paghetta? Confindustria è altrettanto schizofrenica: da mesi preme per togliere il blocco dei licenziamenti; adesso denuncia il corto circuito creato dal reddito, in cui sussidio batte impiego. Nel Mezzogiorno molti hotel, resort, ristoranti e strutture ricettive hanno lamentato in effetti difficoltà inedite a mettere insieme l’organico per la stagione turistica: “le faremo sapere” ora lo dicono i candidati. No grazie, in nero o niente. La questione è semplice: perché fare “volontariato” sotto il sole cocente, per poche centinaia di euro di differenza rispetto a quanto già preso per starsene al mare? L’importo medio è poco più di 600 euro, ma per alcune coppie si superano pure i 900: meglio poco, subito e sicuro rispetto a tante ditte e negozi sull’orlo del fallimento. Se per tanti oggi il reddito di cittadinanza equivale quasi a uno stipendio, anziché prolungare il sussidio dovremmo fare in modo che i salari reali aumentino e non ci siano più contrattini occasionali, part-time, a ore, senza ferie, malattie, permessi, contributi, 13esima, protezione assicurativa. Il problema in questo periodo dell’anno è acuito dalle offerte: assunzioni brevi, stagionali, a tempo determinatissimo. Ma ristoratori, esercenti e albergatori – altrettanto provati da un anno e mezzo di Covid – dal canto loro: quanto dovrebbero pagare per convincere un giovane a fare il cameriere, il cuoco, il facchino, il bagnino, il commesso quando lo Stato fa concorrenza al privato, favorendo il nero per arrotondare il mensile? A inizio luglio, ad Agrigento, uno è stato addirittura aggredito dall’impiegato che voleva mettere in regola. Una soluzione all’impasse sarebbe intanto quella di restringere la rosa di beneficiari a chi è davvero ormai fuori dal giro per età, disabilità o gravi situazioni personali. Quindi ridurre o sospendere l’rdc momentaneamente, come la Naspi, quando si trova un lavoro. E riprenderne l’erogazione se l’assunzione non si tramuta in tempo indeterminato senza rifare i calcoli, compilare la domanda e attendere chissà quanto. Rischiando pure di vedersela rigettare, perché magari nel frattempo sono cambiate le condizioni. Infine, se lo Stato non riesce a reinseire nel ciclo produttivo chi è rimasto indietro, almeno guardasse bene a chi sta dando la mancetta visto che – anche in questo ambito – ogni settimana spunta da qualche parte un gruppo di “furbetti”.

(ANSA il 15 luglio 2021) - Oltre la metà delle persone che si rivolge a Caritas percepisce il Reddito di Cittadinanza: il 55,2% di persone sostenute dalla Caritas ha beneficiato della misura fra il 2019 e il 2020; inoltre il 56% di chi lo riceve presenta contemporaneamente tre o più forme di vulnerabilità. "Se da un lato i gruppi più marginalizzati risultano essere in parte tutelati dal RdC, non altrettanto si può dire per i nuovi profili della povertà, che pure hanno risentito in misura maggiore della pandemia, ossia quei nuclei caratterizzati da un'età giovane, la presenza di figli minori, la presenza di un reddito, seppur minimo", sottolinea Caritas.

Reddito di cittadinanza, la metà dei poveri non lo ha (1 su 3 che lo riceve non è povero). di Enrico Marro e Paola Pica il 17/7/2021 su Il Corriere della Sera. Il rapporto della Caritas: il 56% dei poveri in Italia non riceve il sostegno, Reddito di cittadinanza da modificare. E l’Inapp avverte: troppi precari nel mondo del lavoro (36,8% tra gli under 35), sistema del collocamento da cambiare. Per cogliere l’opportunità di modernizzare e rilanciare il Paese dopo la pandemia, l’Italia ha bisogno di profonde riforme, per potenziare formazione e collocamento, innovare il sistema produttivo e il mercato del lavoro, correggere il Reddito di cittadinanza che, se ha aiutato molte persone durante la pandemia, continua per a sfavorire le famiglie povere del Nord e gli stranieri. Lo spiegano da un lato il Rapporto Inapp e dall’altro quello della Caritas, entrambi presentati ieri. Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, presentando il Rapporto alla Camera, ha spiegato che ci sono troppi precari: Negli ultimi dieci anni i contratti a tempo determinato sono aumentati di oltre 880 mila unità (+36%), a fronte di una variazione dell’occupazione complessiva pari appena all’1,4%. L’incidenza del lavoro a termine sul totale degli occupati cos salita dal 13,2% del 2008 al 16,9% del 2019, il 36,8% tra gli under 35.

Precari, i primi a perdere il posto. I precari, in particolare giovani e donne, sono stati i primi a perdere il lavoro nella pandemia. E ora i segnali di ripresa avvengono su questo stesso fronte: Nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188 mila mentre gli stabili sono diminuiti di 70 mila. Ma quella che osserviamo, aggiunge Fadda, una flessibilit spuria, che nuoce alla accumulazione del capitale umano e spiega la bassa produttività cronica del lavoro in Italia. Che dipende anche dal fatto che ci sono troppe piccole imprese e poco innovative. A sua volta la produttività bassa causa il basso livello delle retribuzioni. Ma, ammonisce il presidente dell’Inapp, la competitività guadagnata in tal modo soltanto illusoria, perchè superato il breve periodo si alimenta una spirale negativa e i bassi salari diventano concausa di scarsi investimenti in innovazione. Un circolo vizioso che deriva, secondo il Rapporto, anche dalla insufficiente qualità manageriale: nel 2018 solo il 23,7% delle imprese private era gestito da un imprenditore laureato mentre il 53,8% da un diplomato e il 22,4% da una persona con la licenza media o elementare. Il basso livello medio di istruzione della classe imprenditoriale italiana si accompagna a un’et media elevata: 54 anni. E la situazione non migliore nella pubblica amministrazione: abbiamo meno dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione di Francia, Regno Unito, Spagna e Germania, e con un’et media superiore. Tanto che nei prossimi 5 anni, dovrebbero andare in pensione ben 25 mila medici e 42 mila infermieri mentre nella scuola ci sono 140 mila docenti con pi di 60 anni.

Reddito di cittadinanza da cambiare. La transizione verde e digitale richiede un potenziamento dei centri per l’impiego. Il confronto con gli altri Paesi europei impietoso: in Italia gli operatori pubblici sono 7.934, contro 115 mila in Germania, 49 mila in Francia e 77 mila nel Regno Unito. Sono necessarie assunzioni, ha detto Fadda, ma anche una forte interlocuzione con il sistema produttivo locale sulla quale basare l’attività di orientamento e una interazione con il sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Contro la precarietà il presidente ha suggerito che il salario minimo legale potrebbe essere utile per combattere il fenomeno dello sfruttamento (working poors). Necessaria, infine, anche una messa a punto del Reddito di cittadinanza (Rdc), come dimostra il Rapporto Caritas: il 56% dei poveri in Italia non fruisce del Rdc mentre un terzo dei beneficiari non povero. Le famiglie escluse risiedono in prevalenza al Nord e sono concentrate tra i nuclei stranieri, dove 4 su 10 non possono richiedere il sussidio per via dei criteri stringenti. Le storture devono essere aggiustate, ma con il fine di rafforzare la misura, ha detto il ministro del Lavoro Andrea Orlando, dopo aver sottolineato che il Rdc stato uno strumento utile per gestire la pandemia, garantendo la coesione sociale. 

C'è pure il "reddito di immigrazione".  Antonella Aldrighetti il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Viminale stanzia 44 milioni: ogni arrivo ci costerà 26mila euro per sei mesi. Negli ultimi giorni sono sbarcati in Sicilia, tra Augusta e Porto Empedocle, oltre 600 migranti e malgrado ci possano essere rischi evidenti di contagio e nuovi focolai virali le operazioni di ripartizione degli stranieri negativi al tampone anticovid sono iniziate. Nessun impedimento per l'accoglienza, anzi. Già nella prima settimana di luglio, considerando l'incremento degli sbarchi autonomi e i movimenti delle Ong, il Viminale ha dato prova di non perdersi d'animo provvedendo velocemente a concedere ai comuni un sostanziale incremento di posti. E si è prodigato a mettere in campo contratti di audit per i colloqui da tenere con i richiedenti asilo e impegni di spesa per i nuovi servizi di supporto. Per l'attivazione di questi programmi, messi a punto in quest'ultima settimana, sono stati spesi in totale 44 milioni di euro. Somma la cui cifra più sconcertante è di 22,5 milioni per aumentare di 857 posti i servizi di accoglienza integrata Sai. Vale a dire che conti alla mano l'impegno finanziario per ogni immigrato accolto è di poco più di 26 mila euro (26.288 per l'esattezza) per circa 6 mesi di progetti. Tanto varrebbe trovare a costui un lavoro e retribuirlo per quel che produce, sostenendolo con uno stipendio: una sorta di reddito di immigrazione. Qesti soldi vengono impegnati anche per quegli immigrati che dopo il colloquio - e i dati annoverati negli anni lo danno per certo - diventeranno clandestini perché senza requisiti per ottenere il permesso di soggiorno. Non bisogna dimenticare infatti che a questa entità appartengono circa il 60 per cento dei proponenti domanda di asilo e protezione internazionale. Invece i programmi in questione hanno un unico scopo: «Il rafforzamento della capacità di accoglienza, inclusione sociale e accompagnamento». Chi arriva viene ripartito di diritto, dopo il periodo di quarantena e la successiva disposizione nei centri Cas, nel sistema Sai, quello dell'accoglienza e integrazione. Che siano richiedenti asilo o titolari di protezione temporanea. Il Sai è costituito dalla rete degli enti locali che incassano le risorse direttamente dal Viminale. A oggi saranno 51 i comuni cui andranno dai 350 mila ai 750 mila euro ciascuno, ubicati per lo più nelle regioni del Sud: Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia ma anche Emilia Romagna. Ecco cosa prevedono i progetti: tirocini formativi con la possibilità di riconoscimento di una indennità per la frequenza ai partecipanti, supporto all'inserimento lavorativo, riconoscimento di titoli di studio e qualifiche acquisite nei paesi di origine, assistenza legale e orientamento amministrativo e promozione dell'accesso ai servizi per l'impiego. Altrettanto la pubblica amministrazione del comune, con i fondi intascati, potrà provvedere anche a «supporto alle attività formative ed eventualmente lavorative, ticket restaurant, tutoring, spese di viaggio, conseguimento di eventuali patentini e abilitazioni specifiche». Benefit di cui nessuno studente italiano impegnato in corsi di formazione ha mai certamente usufruito, ma non è certo finita qui: se un immigrato desidera prendere la patente di guida, ecco pronto il benefit per scuola, esame e documento. Ma oltre ai 22,5 milioni il pamphlet comprende anche un altro milione e 300 mila euro dedicati agli audit per la richiesta di soggiorno, ulteriori 9 milioni e 998 mila euro per fronteggiare situazioni emergenziali e ancora altri 10 milioni tondi da elargire ai progetti già in itinere dei migranti in seconda accoglienza ovvero riguardanti percorsi di inclusione. Antonella Aldrighetti

1.500 immigrati col reddito 5s: la maxi-truffa. Federico Garau il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Gli uomini della Guardia di finanza sono risaliti a ben 1.532 domande illecite presentate da cittadini stranieri residenti per la maggior parte nei carruggi del centro storico. Maxi operazione delle Fiamme gialle che, grazie alla collaborazione dell'Inps, sono riusciti a risalire a ben 1.532 illecite domande di reddito di cittadinanza presentate da cittadini stranieri. La scoperta è stata effettuata dagli uomini del Nucleo Operativo Metropolitano del I Gruppo di Genova, impegnati in un'operazione di controllo finalizzato a tutelare la spesa pubblica.

I risultati dell'operazione. Le indagini hanno portato alla scoperta di un consistente numero di cosiddetti furbetti del reddito, quasi tutti extracomunitari, che avevano inoltrato la richiesta per ricevere il sussidio grillino durante lo scorso 2020. Nelle domande, però, non erano presenti quelli che restano i requisiti necessari per ricevere l'assegno, ossia la residenza ed il soggiorno sul territorio nazionale per dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi. I dati a disposizione della Guardia di finanza sono stati incrociati con quelli della Questura locale, ed il risultato è stato proprio quello di incastrare gli stranieri, la maggior parte dei quali residenti nei carruggi del centro storico. Secondo quanto riferito dalle autorità, gli extracomunitari si erano rivolti ad un Caf della zona, fornendo tuttavia informazioni false. La lunga lista di illeciti percettori del reddito è stata dunque tempestivamente inoltrata e segnalata agli uffici dell'Inps, che ha subito provveduto ad interrompere l'erogazione dell'assegno ed a revocare il sussidio. Tanto il denaro sottratto allo Stato ed alle persone che ne avevano effettivamente bisogno: stando alle ultime informazioni, si parla di ben 3.458.736,04 euro. Oltre a ciò, la Guardia di finanza ha scoperto che con gli assegni intascati molti degli stranieri non provvedevano ad acquistare cibo o beni di prima necessità. L'importo accreditato sulla carta emessa dalle Poste veniva monetizzato con la complicità di alcuni commercianti del centro storico genovese.

Le lacune del reddito grillino. Non si tratta, purtroppo, del primo caso di appropriazione indebita del reddito di cittadinanza da parte di extracomunitari. Di recente la Guardia di finanza di Catanzaro ha denunciato ben 469 cittadini stranieri che, fornendo informazioni false, erano riusciti ad intascare il sussidio.

Si fa pertanto impellente la necessità di apportare delle modifiche alla misura varata dai 5 Stelle, intensificando anche i controlli. Mentre il leader di Italia Viva Matteo Renzi pensa a porre la parola fine al reddito di cittadinanza, mediante referendum abrogativo, al governo si lavora per cambiarlo. Lo stesso ministro del Lavoro Andrea Orlando ha parlato della sua intenzione di effettuare alcune correzioni.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occu…

Un flop da 700 milioni di euro al mese. Lodovica Bulian l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. In Campania più assegni che nel Nord. Solo il 15% ha trovato lavoro. Il Movimento cinque stelle preme per rafforzarlo e rifinanziarlo, pur ammettendone i limiti, la Lega ne chiede una profonda revisione. È il reddito di cittadinanza, il provvedimento con cui due anni fa i grillini avevano annunciato di aver «abolito la povertà», e per il quale ora rivendicano la funzione di «cintura di sicurezza» nella crisi economica esplosa durante la pandemia» con 5,6 milioni di persone scivolate nella povertà assoluta secondo l'Istat. La misura bandiera del M5S ed è stata già rifinanziata con 4 miliardi aggiuntivi da qui al 2029 dall'ultima legge di bilancio. Costa ogni mese circa 700 milioni di euro, con un conto salato per le casse dello Stato: tra aprile 2019 e maggio 2021 sono stati spesi oltre 14 miliardi per erogare il reddito o la pensione di cittadinanza. La stima della spesa da qui al 2029 potrebbe portare l'ammontare a sfiorare i 40 miliardi. Secondo gli ultimi dati aggiornati a giugno i nuclei percettori di reddito o pensione di cittadinanza sono 1,6 milioni per oltre 3,6 milioni di persone coinvolte - a maggio i nuclei erano 1,1 milioni per 2,8 milioni di persone - con un importo medio di 548 euro. Ma con il sussidio sono cresciuti anche coloro che hanno trovato un lavoro? Stando ai dati di febbraio, gli ultimi disponibili, su 1,5 milioni di beneficiari del reddito e che dovevano sottoscrivere il Patto per il Lavoro, quello che impegna i percettori del sussidio a rispondere alle offerte proposte dai centri per l'impiego, ne sono stati presi in carico solo 330mila. Di questi, hanno trovato un lavoro in 152.673, solo il 15,19% degli «occupabili». Criticità anche nella distribuzione geografica del sussidio: in Campania ci sono più persone che percepiscono il reddito che in tutto il Nord. Il dato emerge dalle tabelle dell'Osservatorio dell'Inps aggiornate a fine maggio: nel 2021 sono stati 331mila i nuclei beneficiari di reddito e pensione di cittadinanza per oltre 864mila persone coinvolte. Il numero è superiore ai 755mila che lo percepiscono nel Nord Italia. Un trend in linea con i mesi scorsi: a pesare di più per coperture finanziarie è Napoli, dove a marzo 157mila famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza pari a quelle in tutto il Nord. Per una spesa di 102,2 milioni di euro a marzo per il solo capoluogo campano. Ma il sussidio è andato anche a chi non ne aveva diritto. Nei casi più gravi, anche a boss mafiosi. Gli ultimi 76 beneficiari illegittimi collegati alle cosche sono stati scoperti dai carabinieri di Catania: 25 erano stati condannati per mafia, gli altri 51, comprese 46 donne, avevano ottenuto il sussidio omettendo di comunicare che nel proprio nucleo familiare c'era anche un congiunto condannato definitivamente per associazione mafiosa. E in tutto sono 64mila i nuclei familiari a cui negli ultimi due anni è stato tolto il sussidio perché non ne avevano diritto.

Un flop totale targato Grillo. Nicola Porro l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. Il reddito di cittadinanza, come era prevedibile, è stato un clamoroso flop. Da tutti i punti di vista. Il reddito di cittadinanza, come era prevedibile, è stato un clamoroso flop. Da tutti i punti di vista. Tra poco vedremo i motivi. Ma subito occorre sgomberare il campo da un equivoco. Una società liberale non ha il dovere, ma qualcosa di più, ha la convenienza a tutelare i più poveri. Ma nel farlo deve essere molto attenta a non compromettere gli incentivi al lavoro e non può redistribuire risorse che non ha. Vediamo qualche numero. Quest'anno spenderemo per il reddito poco più di sette miliardi di euro. Circa 2,3 milioni di famiglie lo percepiscono, per un assegno medio di 564 euro. Due terzi degli assegni vanno al Sud e la sola Campania percepisce più assegni di tutto il Nord (peraltro con un importo di circa cento euro in più). La legge prevedeva che questa montagna di persone potesse svolgere lavori socialmente utili: praticamente nessun Comune è riuscito a mettere in piedi un progetto decente. Sul fronte della formazione di nuove professionalità, occorre dire chiaramente, che il dato (opaco) di lavori ottenuti dal sistema reddito-agenzia per il lavoro è pari a zero. Qualcuno si ricorda ancora la polemica sulla fantasiosa previsione di togliere l'assegno se si fossero rifiutate tre offerte di lavoro? Fantascienza. Le offerte non ci sono state, e i rifiuti, in mancanza di offerte, tanto meno. Il reddito, per i suoi numerosi affezionati, sta funzionando perché in questo momento aiuta i più deboli. Falso. Aiuta alcuni deboli, e per di più secondo criteri arbitrari. E logiche perverse. È così necessario oggi aiutare un venticinquenne senza casa e reddito, posta la limitatezza delle risorse, e non un padre di famiglia cinquantenne che ha perso il lavoro e che - possedendo una casetta e forse un'auto - non è finanziabile? Con il paradossale effetto che il primo è dissuaso nell'inventarsi un lavoro, e il secondo è disperato e pronto a fare di tutto. Il reddito di cittadinanza è figlio di una follia partorita da Grillo in persona: redistribuire un reddito che non c'è in modo universale. Grillo e i suoi non si pongono il problema dei disincentivi al lavoro, semplicemente perché nella loro società il lavoro non esiste più. È un'utopia post marxiana, in cui si redistribuisce una sorta di dividendo delle rendite che poche grandi società realizzerebbero, per via dell'intervento statale. Se continuiamo così costruiremo una generazione di disadattati al lavoro (rischio educativo) e una redistribuzione di solo debito (rischio finanziario). Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la protezione dei più deboli.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, con…

Non è l'arena, Massimo Giletti al navigator in studio: "Non potete? Allora andate a casa". Processo politico a Di Maio. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. "Ma cos'avete fatto in questi mesi?". Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7 ospita Antonio Lenzi, giovane navigator, e processa il sistema del reddito di cittadinanza messo in piedi dall'ex ministro del Welfare Luigi Di Maio come misura bandiera del Movimento 5 Stelle per (testuale) "abolire la povertà" e trovare un impiego ai precari. Reddito, navigator e Anpal, tre pilastri sgretolatisi alla prova dei fatti. "Partiamo dal presupposto che il lavoro non c'è - esordisce Giletti con il suo ospite -: il lavoro c'è o venderlo è complicatissimo. Questo è un periodo drammatico, quelli che ci hanno guadagnato siete stati voi che avete avuto un lavoro. Vi hanno messo in condizione di lavorare?". "Ci sono state difficoltà e conflitti tra Anpal e Regioni". "Questi centri per l'impiego sono stati un disastro. Sono connessi con le regioni? Io sono veneto e voglio assumere un ragazzo siciliano, è possibile?", incalza Giletti. "I centri per l'impiego sono sotto-finanziati e non è possibile comunicare tra regioni diverse", è la risposta laconica di Lenzi. "Non è possibile? Allora posso anche prendere centinaia di navigator ma se non ho un sistema informatizzato che mi incrocia le domande vado a casa - allarga le braccia sconcertato Giletti -. Lei cosa fa, scrive a mano? Siamo ancora a mano?". "Assolutamente no, ma il nostro compito è riattivare una platea di ultraquarantenni con basso livello di scolarizzazione", è la replica imbarazzata del navigator. "Ma se un siciliano vuole andare a fare vendemmia al Nord, lo può sapere o no?". "Ognuno può controllare solo il proprio bacino di riferimento". "Ma è un fallimento totale", chiude il caso il padrone id casa. Come dargli torto.

Non è l'arena, Guido Crosetto e la "follia totale" sui navigator: reddito di cittadinanza, Di Maio demolito. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. "Una follia totale". Guido Crosetto, ospite in studio di Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, evidenzia in poche battute la "contraddizione in termini" del reddito di cittadinanza e del sistema dei navigator orchestrato da Luigi Di Maio, come fiore all'occhiello della campagna grillina sull'occupazione. Un cattedrale costruita sulla sabbia. "Nessuno con un anno di mezzo di contratto dedica la vita a cercare il lavoro agli altri, lo cerca per se stesso, perché è il primo precario", sottolinea il fondatore di Fratelli d'Italia. Una constatazione lapalissiana, sollevata peraltro già a suo tempo ma etichettata dal Movimento 5 Stelle e dall'ex ministro del Welfare, oggi agli Esteri, come pura propaganda per lotta politica. "Innestati in un sistema così - sottolinea Crosetto - i navigator non servono a nulla. Magari servono a dare lavoro a 3.000 persone, brave come lui (spiega riferendosi a un navigator, anche lui in studio da Giletti, ndr), per un anno e mezzo. In altri Paesi sono 50.000 e con un vero sistema di formazione, così non servono a niente". La fotografia di questo fallimento, conclude ancora il meloniano, "è il centro per l'impiego con la serranda abbassata. Loro il lavoro ce l'hanno, e della difficoltà di trovarlo dei giovani o dei 40 e 50enni non gliene può fregare di meno. Questa è la realtà drammatica, Qualcuno ha avuto un anno e mezzo di lavoro e l'ha sfangata, e in più lavora in un posto in una regione come quella siciliana, con indici di disoccupazione bestiale. Pensate a un giovane laureato che va e trova chiuso: non è che non trova lavoro, trova chiuso! E questo è il simbolo del fallimento dello Stato".

Estratto da “Il Giornale di Vicenza” ripreso da “La Verità” il 16 maggio 2021. Ha lavorato due settimane in sei anni un professore assegnato a scuole della provincia di Vicenza. Ogni anno si riproponeva sempre lo stesso copione: il docente, oggi 48 anni, originario della provincia di Caserta, si presentava a scuola con un contratto da supplente e dopo qualche giorno restava a casa in malattia senza farsi più vedere. È accaduto per sei anni fra Vicenza, Arzignano e Bassano del Grappa: in tutto, una quindicina di giorni di lezione prima di lasciare il posto vacante. Nel 2014 l'uomo ha addirittura ottenuto l'immissione in ruolo, prima a Vicenza, poi vicino a Benevento, infine a Napoli, dove i problemi di salute si sono ripresentati. L'Ufficio scolastico regionale ha avviato un procedimento per non avere superato il periodo di prova, ma il docente ha presentato un ricorso al Tar dal quale è stata ricostruita tutta la vicenda.  

Assenteista seriale: 15 anni di stipendio senza presentarsi mai a lavoro? Le Iene News il 18 maggio 2021. “Nessuno sapeva chi fosse perché non aveva timbrato neppure una volta. Veniva pagato solo sul fatto di essere dipendente”, ci ha spiegato il nuovo commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera di Catanzaro a proposito di Salvatore Scumace che, secondo le indagini della Guardia di Finanza, si sarebbe intascato 15 anni di stipendio senza lavorare un solo giorno. Siamo riusciti a incontrare un personaggio che è stato tra i più ricercati dai media di mezza Europa. Stiamo parlando di Salvatore Scumace che, secondo le indagini della Guardia di Finanza, si sarebbe intascato 15 anni di stipendio senza lavorare un solo giorno, senza presentarsi mai a lavoro. La vicenda ha luogo in un ospedale di Catanzaro, in Calabria, dove c’erano dipendenti che arrivavano, timbravano e invece di andare a lavoro facevano altro: chi se la spassava alle macchinette di videopoker, chi andava a farsi due passi. E poi c’erano anche gli altruisti che timbravano e timbravano e timbravano… per altri colleghi che non si presentavano a lavoro. Ma è roba da pivelli se paragonata all’impresa di Scumace. Antonino Monteleone incontra l’avvocato Francesco Procopio, il nuovo commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera di Catanzaro, con cui cerchiamo di ricostruire la storia di Scumace che sulla carta faceva parte id un ufficio con una funzione molto importante. “Un gruppo di persone che sta in ospedale e si occupa della prevenzione degli incendi”, spiega l’avvocato. È il 2005: “Scumace non ci va mai, tanto è vero che non risulta inserito nei turni di servizio”, continua l’avvocato. Ma come fa a sfuggire a quei turni? “Nessuno sapeva chi fosse perché non aveva timbrato neppure una volta, il sistema non l’ha mai agganciato. Veniva pagato solo sul fatto di essere dipendente”. Così Scumace comincia a portarsi a casa ogni mese uno stipendio. I mesi passano e diventano anni. Ma quella strana matricola invisibile a un certo punto desta dei sospetti. “Ci sono state segnalazioni da parte del responsabile”, racconta l’avvocato. Ma, secondo quanto emerge dalle indagini, sarebbe accaduta una cosa gravissima. Dopo aver fatto le segnalazioni, la responsabile dell’ufficio di Scumace “viene avvicinata da un soggetto diverso che gli dice di lasciar perdere, che potrebbero esserci dei problemi”, racconta l’avvocato. Dopo questo evento, Scumace torna nell’oblio. E in 15 anni di stipendio il bottino, secondo le indagini, avrebbe superato i 500mila euro. Poi però arriva il peccato di gola, quando l’azienda ospedaliera stava distribuendo i premi di produzione per alcuni dipendenti. “Lui si presenta in azienda a protestare perché non ha ricevuto il premio di produttività”, racconta l’avvocato. L’ospedale fa un incrocio dei dati e scopre l’inghippo. Ma come è possibile che i vari dirigenti per tanti anni non si siano accorti di nulla? Monteleone va a parlare con chi, secondo le indagini, avrebbe delle responsabilità. E siamo andati anche da Scumace per chiedergli come abbia fatto. Qualche giorno fa Scumace ha presentato una memoria difensiva alla Procura dove ci sarebbe del materiale in grado di offrire una nuova chiave di lettura dei fatti. Così la Iena prova a parlare con i suoi avvocati. 

La storia. Un bimbo morto e una ladra di spicci: due storie figlie di un’Italia dal cuore spento. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Un bambino morto in una casa popolare senza i soldi per il funerale e una donna denunciata per aver rubato le offerte in chiesa, due storie tristi, italiane, di mancanza. La mancanza che rende faticosa la vita, la vita che a volte diventa dolorosa, insopportabile. La povertà è la polvere che si mangia il muro della dignità. La povertà peggiore è quella che si infligge, più di quella che si subisce. È povera una società che lascia morire i propri figli, più povera dei figli che muoiono. È povera la società che stringe le madri nel bisogno, più povera delle madri bisognose. Non serve viaggiare lontanissimo per trovare la povertà, per scoprire quanto sia povera la nostra società: basta scendere al Sud, entrare in un alloggio popolare della periferia di Reggio Calabria. Due stanze ricoperte di muffa, l’odore intenso delle mancanze, il respiro affannoso di un bambino, un rantolo stanco che si spegne con la speranza di riaccendersi forte, ma altrove, lontano da noi. C’era un bambino malato, sopravviveva in un minuscolo alloggio popolare, la madre e altri cinque fratelli, insieme in un disagio umido. Era malato, è morto. Magari sarebbe morto uguale, pure in una casa profumata, calda. Ma è morto lì, nella tristezza asfissiante. È morto nel giorno in cui l’Italia festeggiava la liberazione, Reggio effigiava due palazzi con i murales di due eroi calabresi. È morto senza lasciare beni materiali, senza che la madre ne avesse. Mancanze. Colmate con la carità dei reggini. La madre ha lanciato un appello perché si raccogliessero i soldi, fare un funerale in cui non mancasse una bara, anche un po’ di fiori. E il popolo, naturalmente ha risposto. Poche ore e le offerte hanno colmato la mancanza economica, buona a portare al camposanto un bambino nato fragile. E, a un centinaio di chilometri di distanza, sempre Calabria, sempre reggino: nella Locride una donna ha rubato in chiesa, dalla cassetta delle offerte, le forze dell’ordine ne hanno fatto brillante indagine, e tutte le testate informative locali ne hanno dato puntuale resoconto, «Donna delle pulizie ripuliva la cassetta delle offerte in chiesa -incastrata dai carabinieri», è uno degli strilli, tantissimi, con cui è stata riportata la notizia della denuncia di una donna delle pulizie che, in una chiesa della Locride, portava via i soldi offerti dai fedeli. E uno se lo immagina il prete che, accortosi degli ammanchi, corre in caserma. E uno se le immagina le mobilitazioni delle forze investigative. Che, magari, il prete, visto che venivano usate le chiavi, avrebbe potuto cambiare la chiavatura, o avrebbe potuto parlare con la donna, capirne i bisogni, le motivazioni. Che, magari, pure i carabinieri, avrebbero potuto mettere il codice da parte, parlare col prete, pure con la donna. Che magari stiamo andando verso una deriva legalista. Che magari certe notizie potrebbero pure non essere pubblicate. E che, magari, ci sia una vasta materia umana che abbia bisogno di cuore, di parole, che tutto non debba per forza finire in caserma. Perché, forse, l’Italia ha la sindrome del faro, la luce la getta lontano da sé, per sentirsi migliore, e proprio non ce la fa a illuminarsi i piedi, a guardarsi per come è: povera, non per la povertà materiale. Perché continua a stare a occhi chiusi, a cuore spento, mancanze che non verranno ricomprese nel recovery plan.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

ATTACCO CONCENTRICO AL SUD E AL REDDITO DI CITTADINANZA: INSULTI VELATI E FALSE NOTIZIE DA TG E GIORNALI. Raffaele Vescera il 20.05.2021 su Il Movimento24agosto.it. Il tormentone è partito l’altra sera sui Tg nazionali: “In Campania più assegni di Reddito di cittadinanza che in tutto il Nord. Quattro volte più della Lombardia!" Scioccamente ripreso dal Fatto Quotidiano.it di ieri che rincara la dose: “Reddito di cittadinanza, in aprile 2,8 milioni di percettori. A Napoli più che in Lombardia e Piemonte”. Il tutto senza il minimo accenno alle cause di tale differenza, da parte di un giornale che, pur nelle sue giuste battaglia contro le mille ingiustizie italiane, non perde occasione per diffondere gratuiti pregiudizi contro i meridionali, lombrosianamente considerati men che delinquenti e fannulloni, sulla scia del mantra leghista che, in vero, unisce il cosiddetto Partito unico del Nord nel razzismo antimeridionale. Dipende forse dall’essere piemontese del suo direttore, Gomez? È forse il solo modo che hanno per mondarsi la coscienza? Veniamo a noi. La disoccupazione al Sud è oltre il 18%, tripla rispetto al Nord dove è intorno all’6%, e quella dei giovani meridionali è al 65% anche qui tripla rispetto al Nord, mentre la punta delle disuguaglianze italiane spetta alle donne meridionali con un tasso di disoccupazione che va oltre l’80%. In quanto al reddito pro-capite, quello del Sud a 16,500 Euro è meno della metà del nordico 34.000. Ebbene, con questi dati, noti a tutti, qualunque serio commentatore dedurrebbe che dove vi è maggiore disoccupazione e povertà, per esempio al Sud, vi è maggior ricorso al reddito di cittadinanza. L’articolo del Fatto Quotidiano si spinge oltre, arrivando a sostenere che il Rdc sarebbe punitivo nei confronti del Nord, dove la vita costerebbe di più. Altro falso, considerato che tutti i servizi pubblici, tassi bancari, assicurazioni e altro sono molto più cari al Sud, così come lo è la produzione industriale del Nord, di cui i Sud è fortissimo consumatore, per precisa volontà coloniale italiana, che riserva al Nord il ruolo di produttore con conseguente ricchezza, e al Sud quello di mero consumatore con conseguente povertà ed emigrazione: 100.000 giovani meridionali l’anno lasciano la propria terra per fare vita grama di lavoro al Nord. In verità, oltre il solito mantra antimeridionale, questo attacco è diretto contro lo stesso reddito di cittadinanza che Confindustria e Partito unico del Nord non vedono di buon occhio, in quanto sottrarrebbe i cittadini alla vergogna di un lavoro schiavizzato e sottopagato, i meridionali per la finanza del Nord sono solo cervelli e braccia da lavoro da sfruttare. Non che il reddito di cittadinanza sia la soluzione ai problemi di disoccupazione e povertà del Mezzogiorno, ci vogliono infrastrutture, investimenti e lavoro che lo Stato nega da sempre al Sud, ma vivaddio almeno solleva i meridionali, e anche gli indigenti del Nord, dal vivere nella disperazione e di rovistare nella spazzatura per cibarsi. Come si dice da noi al Sud, il sazio non crede al digiuno. Per una volta andrebbero invertiti i ruoli, come in un certo film americano con Willy Smith, chissà cosa proverebbero i loro ricchissimi figli di papà a vivere disoccupati con 557 Euro al mese con fitto, bollette e spesa per mangiare.

Dagospia il 3 giugno 2021. Riassunto dei giornali di oggi: vi offrono 800 euro al mese in una città dove un buco in affitto ne costa mille? Se rifiutate siete stronzi choosy bamboccioni e soprattutto ostacolate la ripresa.

Giulio Cavalli per tpi.it il 3 giugno 2021. A volte basta annusare l’aria che tira per rendersi conto della narrazione che stanno costruendo. Il tema delle prossime settimane, vedrete, saranno ancora una volta “questi giovani sfaticati che non hanno voglia di lavorare”, qualcuno ci butterà dentro anche il reddito di cittadinanza e ci si lamenterà di un’Italia che potrebbe soffiare forte sulla ripresa e invece fatica per colpa degli indolenti. Gli indizi ci sono già tutti e basta metterli in fila per rendersene conto: di base c’è il solito refrain del reddito di cittadinanza che spingerebbe la gente a non lavorare, come se non fosse umiliante, illegale e indegno proporre un posto di lavoro che non riesce nemmeno a mettere insieme gli stessi soldi di un sussidio. Poi, qualche tempo fa, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca (uno abile a solleticare certi istinti) ha creato il collegamento perfetto mettendo in relazione l’estate che arriva con l’impellente bisogno di incassare dopo la pandemia e i lavoratori che non si trovano e che rovineranno ciò che non ha rovinato il virus. In successione è arrivato il ministro al Turismo Massimo Garavaglia, che durante la sua visita in Veneto ci ha detto che “il turismo c’è tutto” ma “un tema è che si fa fatica a trovare i lavoratori, bisogna intervenire”. I giornali e i telegiornali stanno facendo il resto: al Tg regionale della Lombardia c’è l’accorata intervista a un ristoratore che si indigna e strepita perché, dice, “trovare lavoratori è molto difficile” poiché, sempre a suo dire, “ti chiedono quante ore devono lavorare e quanti soldi gli dai”. L’idea che la carenza di lavoratori sia dovuta non alle loro domande ma alle sue riposte non lo sfiora nemmeno: come si permettono gli schiavi di non volere essere schiavi? Su Facebook, nel gruppo “Quelli che lavorano in hotel”, l’imprenditore di Marina di Pietrasanta Alessio Maggi scrive: “Se a qualcuno, questa estate, nel caso mai riaprissimo, verrà in mente di venirla a menare con domande alla carlona tipo ‘quanto si lavora? Quanto mi dai? Qual è il giorno libero?’ vi dico con il massimo garbo possibile: non vi presentate. Siamo in emergenza e come tale deve essere gestita e elaborata. Se pensate di avere o pretendere come se non fosse successo nulla, datevi all’ippica”. Chiaro? Quindi quest’estate tutti a Pietrasanta dal signor Maggi e, quando sarà il momento di pagare, gli diremo di accontentarsi di quello che decidiamo noi clienti in nome dell’emergenza che, come tale, deve essere gestita. E poi qualcuno ancora si chiede a cosa dovrebbe servire il salario minimo. Ancora.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2021. Scrive un albergatore di Pietrasanta in cerca di personale: «Se a qualcuno quest' estate viene in mente di venirla a menare con domande alla carlona del tipo: quanto si lavora? quanto mi dai? qual è il giorno libero? gli suggerisco di non presentarsi neanche. Siamo in emergenza, se pensate di avere e pretendere come se non fosse successo nulla, datevi all'ippica». Monto sul cavallo a dondolo: caro signore, se questa è la logica dell'emergenza, perché non dovrebbero applicarla anche i suoi clienti, autoriducendosi il conto? Escono da un periodo duro, proprio come lei. Prima che, assieme all'agognata ripartenza, riparta la litania sui giovani che non hanno voglia di faticare e preferiscono il reddito di cittadinanza al posto di lavoro, bisognerebbe domandarsi: se gli stipendi sono più bassi del già non altissimo sussidio statale, sarà colpa del sussidio o degli stipendi? Girano cifre ridicole, con le quali non ci si paga neanche l'affitto di una stamberga. L'albergatore giustificherà la sua parsimonia retributiva con le spese, le tasse (ha ragione, quelle sul lavoro andrebbero ridotte), i fornitori che pretendono pagamenti anticipati. Ma in questa lunga catena di fragilità, in cui tutti si rivalgono sull'anello più debole, l'ultimo è sempre il lavoratore, i cui diritti retrocedono a capricci.  A lamentarsene dovrebbero essere anzitutto i capitalisti: mettere in tasca al maggior numero di persone una busta paga dignitosa non è forse la prima condizione per rilanciare i consumi?

Estratto dell’intervista di lastampa.it l'11 giugno 2021.[…] Guido Barilla, presidente dell'omonimo gruppo, durante il colloquio con il direttore de La Stampa, Massimo Giannini […] 

[…] E’ preoccupato sotto il profilo dell'equilibrio sociale dallo sblocco dei licenziamenti?

«Ci saranno dei momenti di elevata tensione perché ci sono filiere industriali in grande difficoltà. L’alimentare ha avuto una vita molto difficile ma positiva, non è così in altri settori. Quando ci sarà maggiore liberalizzazione è possibile che ci sia una crisi profonda. Ma credo ci potrà essere una controtendenza trainata dalla necessità, in altri comparti, di una forza lavoro importante che possa bilanciare le difficoltà».

Sembra un paradosso, c’è fame di lavoro ma molte aziende lamentano la difficoltà nel reperire personale qualificato. Cosa sta succedendo?

«Molte persone scoprono che stare a casa con il sussidio è più comodo rispetto a mettersi in gioco cercando lavori probabilmente anche poco remunerati. C'è un atteggiamento di rilassamento da parte di alcuni che io spero termini perché invece serve l’energia di tutti. Rivolgo un appello ai ragazzi: non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco. Entrate nel mercato del lavoro, c’è bisogno di tutti e specialmente di voi». […]

Furbetti del reddito di cittadinanza a Roma: 108 denunciati ai Parioli. Le Iene News il 26 luglio 2021. Le stazioni della compagnia carabinieri Parioli hanno denunciato in stato di libertà 108 persone a seguito di segnalazioni dell'Inps: avrebbero ricevuto indebitamente 450mila euro. Un nuovo caso di “furbetti” del reddito di cittadinanza. Più di cento persone, nel cuore della “Roma bene”, denunciate perché avrebbero percepito il reddito di cittadinanza indebitamente. Le stazioni della compagnia carabinieri Parioli hanno denunciato in stato di libertà 108 persone a seguito di segnalazioni dell'Inps. Secondo quanto riportato dall’Ansa si tratterebbe di persone che, in seguito agli accertamenti degli uffici dell'Inps, avrebbero ottenuto indebitamente il beneficio per circa 450mila euro. Gli accertamenti dei carabinieri, coordinati dalla procura di Roma, avrebbero accertato che per ottenere il reddito di cittadinanza nella richiesta avrebbero omesso o falsificato informazioni dovute, come quelle riguardo la permanenza in Italia: secondo quanto riporta Roma Today, il 90% delle persone denunciate sarebbero straniere. A carico dei 108 sarà immediatamente sospeso il beneficio percepito fino ad oggi. Seguirà poi una richiesta di risarcimento del danno eventuale causato alle casse dello Stato.  Sembra insomma che si tratti di un nuovo caso, a dire il vero l’ennesimo, di “furbetti” del reddito di cittadinanza. Noi de Le Iene ve ne abbiamo parlato tempo fa con Ismaele La Vardera che, nel servizio che vedete qui sopra, ha “pizzicato” due di questi che avrebbero avuto un lavoro al nero. E la cronaca negli ultimi due anni è stata ricca di simili notizie: a Messina due “furbetti” avrebbero fatto i parcheggiatori abusivi di notte, mentre a Rimini è spuntato un imprenditore 70enne, proprietario di un albergo non dichiarato e a Modena una furbetta 39enne che vendeva alcolici senza avere nemmeno la licenza. L’elenco continua con altri 237 “furbetti” scoperti in Calabria, per un danno economico allo Stato di 870mila euro, tra cui figurano intere famiglie sotto processo per ‘ndrangheta. Ci sono poi un altro spacciatore con tanto di Porsche, una donna che lavorava in nero in un centro estetico e un uomo che a Civitavecchia avrebbe avviato alla prostituzione una ragazza. E perfino sei spacciatori di droga che sono stati arrestati a Napoli. 

(ANSA il 26 luglio 2021) - Ci sono l'amministratore delegato e il direttore dell'area tecnica di Grafica Veneta Spa, azienda leader nella stampa di libri e pubblicazioni, Giorgio Bertan, 43 anni, e Giampaolo Pinton, 60, tra gli 11 arrestati dai carabinieri di Cittadella (Padova) nell'operazione che ha sgominato un'organizzazione di pakistani che sfruttava lavoratori connazionali. I due dirigenti, secondo la Procura di Padova, erano a conoscenza della situazione di illegalità e dei metodi violenti usati dall'organizzazione per soggiogare e intimidire i lavoratori. Grafica Veneta Spa stampa anche i libri di Harry Potter. Secondo gli inquirenti, infatti, anche parte della dirigenza di Grafica Veneta era a conoscenza dello sfruttamento dei lavoratori stranieri, sia per quanto riguarda gli incessanti turni di lavoro, che per la sorveglianza a vista a cui erano sottoposti. Erano, inoltre, consapevoli delle degradanti condizioni di lavoro, della mancata fornitura dei Dpi (scarpe antinfortunistiche, protezioni da rumori). Tale situazione ha comportato un tentativo di elusione dei controlli, edulcorando o eliminando dai server informatici gran parte dell'archivio gestionale che registra gli ingressi e le uscite dei lavoratori. Sulla base delle risultanze investigative e la magistratura padovana ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di 9 pakistani per lesioni, rapina, sequestro di persona, estorsione e sfruttamento del lavoro, e un'ordinanza agli arresti domiciliari per i due dirigenti, per sfruttamento del lavoro. L'indagine era partita il 25 maggio 2020, dopo che erano stati trovati un pakistano con le mani legate dietro la schiena e altri suoi connazionali picchiati violentemente. Altri cinque si erano presentati all'ospedale di Padova, riferendo una analoga situazione. Le vittime, in quel periodo lavoravano alla Grafica Veneta ed erano tutte dipendenti della "B.M. Services" di Lavis (Trento), attiva nel campo del confezionamento e finissaggio di prodotti per l'editoria, di proprietà di padre e figlio, pakistani con cittadinanza italiana. L'Arma ha accertato che i due titolari assumevano connazionali per brevi periodi, stipulando regolari contratti di lavoro (part-time e full-time). In realtà, però, gli operai lavoravano anche fino a 12 ore al giorno, senza alcuna pausa, senza ferie, né altra tutela. E versavano gran parte dello stipendio ai due titolari o a loro "fedelissimi". I lavoratori erano anche costretti a pagarsi l'affitto per un posto letto nelle case messe a disposizione dall'organizzazione, dove vivevano anche in più di 20. Le vittime, nel tempo, avevano capito di essere sfruttate e si erano rivolte ad un sindacato di categoria, ma sono state scoperte e fatte oggetto di un'azione punitiva: al ritorno nelle loro abitazioni gli operai hanno trovato ad attenderli le squadre di picchiatori che li hanno aggrediti, e dopo averli legati mani e piedi, percossi per derubarli dei soldi, dei documenti e di ogni altro avere, compresi i telefoni cellulari per impedire loro di chiedere aiuto. Infine li hanno costretti a salire a bordo di tre veicoli, per poi abbandonarli per strada.

GRAFICA VENETA CERCA 25 OPERAI DA 3 MESI MA NON NE TROVA: «I GIOVANI NON VOGLIONO FARE I TURNI». Pierfrancesco Carcassi per corrieredelveneto.corriere.it - 17 aprile 2018. Le sue rotative non si fermano mai. Marciano instancabili al ritmo medio di circa 150 milioni di copie di libri l’anno, divise tra casi editoriali del calibro di Wikileaks e Harry Potter. A «inceppare» il ritmo di lavoro della stamperia Grafica Veneta è stato invece il processo delle assunzioni: a fronte di 25 posizioni aperte, negli ultimi tre mesi sono stati assunti solo 5 operai. All’origine non ci sono tagli o revisioni di bilancio, ma la scarsità di domande di assunzione. «Abbiamo ricevuto tre o quattro candidature in tutto – sottolinea il patron dell’azienda, Fabio Franceschi – il resto dei colloqui li abbiamo fatti con una ventina di persone che abbiamo contattato noi, ma alla fine si sono tirati indietro». Una situazione inedita anche per Grafica Veneta, a vent’anni di distanza da quando J.K. Rowling sceglieva i tipi di Trebaseleghe per imprimere su carta la saga di Harry Potter, consacrandoli nell’olimpo delle stamperie. Nel Veneto della caccia alla forza lavoro e dei tirocini di «Garanzia Giovani» semideserti qualche freno al calo della disoccupazione giovanile (18,7% è il dato relativo al 2016) ancora c’è. Il punto è capire quale sia. Il numero uno di Grafica Veneta, relativamente alla propria situazione, lo legge nella mancanza di intraprendenza dei lavoratori o aspiranti tali: «Tutte le persone che abbiamo valutato per le posizioni aperte avevano già un lavoro tutto sommato decoroso – ricorda Franceschi – Siamo un territorio che sinceramente sta bene, anche se ci lamentiamo. Chi cambia lavoro lo fa per migliorare, non per fare turni di notte o cose simili, altrimenti si tiene quello che ha». E i posti vacanti a Grafica Veneta sono proprio su turni, compresi sabati e domeniche a volte: «La situazione è particolarmente critica nella fascia d’età dei ragazzi giovani: qualche ragazzotto che dà la disponibilità c’è ma poco dopo rinunciano per via dei turni. “Troppo pesante con i turni”, dicono. Su cinque assunti uno solo è un ventenne, gli altri sono trenta-quarantenni». Tutti in forze all’azienda a tempi indeterminato, con paga base di 1.300 euro: «E’ lavoro non un gioco – commenta il patron -. Non offriamo tirocinio o apprendistato. Il ruolo riguarda la gestione delle nuove macchine di stampa digitali e la paga cresce a seconda del livello». E se alla radice della penuria di lavoratori volenterosi ci fosse la mancanza di competenze in tipografia? «Se chiedessimo competenze specifiche potrei capire – sottolinea Franceschi – ma noi prendiamo tutto, va bene anche un muratore: facciamo formazione in azienda; andiamo anche a cercarci i lavoratori a casa ultimamente». Di fronte alla mole di lavoro dell’azienda Franceschi non è preoccupato e conclude: «Ora che i giornali si sono occupati della questione riempiremo le posizioni in una settimana. Il problema però è comune a molte altre aziende».

Fra. Bis. per "Il Messaggero" il 30 luglio 2021. Ai centri per l'impiego mancano 10 mila operatori. Risultato, circa 750 mila percettori del reddito di cittadinanza ritenuti attivabili, cioè in grado di svolgere una attività, non hanno ancora sottoscritto i patti per il lavoro e iniziato a cercare un impiego. Intanto a giugno il sussidio dei Cinquestelle ha raggiunto 1,2 milioni di nuclei, che salgono a oltre 1,3 milioni se si tiene conto anche delle famiglie che ricevono la pensione di cittadinanza, per un totale di 3 milioni di persone coinvolte.

LA PLATEA. La misura è già costata quest'anno 4,2 miliardi di euro e ne eroderà di questo passo quasi 9 a fine 2021. Un record: lo scorso anno per il sussidio sono stati spesi poco più di 7 miliardi. Il reddito di cittadinanza costa sempre di più per l'effetto combinato dei nuovi ingressi nella platea dei beneficiari determinati dalla crisi economica e dei mancati inserimenti nel mondo del lavoro dei percettori occupabili. Così l'Anpal nell'ultima nota dedicata al reddito di cittadinanza, diffusa all'inizio di questa settimana: «Al 30 giugno i percettori dell'aiuto tenuti alla sottoscrizione del patto per il lavoro erano 1.150.152, il 34,1% è stato preso in carico in quanto ha sottoscritto con il centro per l'impiego un patto per il lavoro o dispone di un patto di servizio in corso di validità, una quota pari a 392.292 persone».

LE CRITICITÀ. Nel mirino sono finiti così i centri per l'impiego che essendo a corto di personale non riescono a prendere in carico tutti gli attivabili nei tempi stabiliti. La legge che ha calato a terra il reddito di cittadinanza prevedeva l'assunzione entro il 2021 di 11.535 operatori nei centri per l'impiego tramite i bandi delle Regioni, ma finora ne sono stati presi solo 950 circa. I numeri sono stati forniti in commissione Lavoro alla Camera dalla sottosegretaria Tiziana Nisini in risposta a un'interrogazione della deputata M5S Valentina Barzotti. La mappa delle assunzioni effettuate finora, aggiornata alla fine del primo trimestre di quest'anno dal momento che le Regioni hanno tempo fino al 31 luglio per comunicare i dati relativi al periodo aprile-giugno, evidenzia che il Veneto ha ingaggiato 215 operatori, un terzo di quelli previsti in entrata nei centri per l'impiego della regione, la Sardegna 147 (su 357), la Toscana 142 (su 643), l'Emilia-Romagna 118 (su 655), la Liguria 100 (su 258), il Friuli Venezia Giulia 99 (su 165), le Marche 61 (su 194) e il Lazio solo 44 (su 1130). Attese in Lombardia 1.378 assunzioni nei centri per l'impiego, ma al 31 marzo del 2021 ancora non risultava pervenuto alcun rinforzo. A quota zero assunzioni anche Campania e Sicilia, le due regioni con più beneficiari del reddito e della pensione di cittadinanza, con nel complesso oltre 500 mila nuclei raggiunti dalla misura. Sono rimasti senza rinforzi pure i centri per l'impiego di Abruzzo, Molise, Piemonte, Basilicata, Calabria, Puglia e Umbria. Il ministero del Lavoro ha più volte sollecitato le Regioni affinché pubblicassero i bandi in tempi brevi così da coprire i vuoti di organico. Ma a giudicare dai numeri portati in commissione dalla sottosegretaria al Lavoro Tiziana Nisini il piano straordinario di potenziamento dei centri per l'impiego non è ancora decollato. Sempre stando alla nota dell'Anpal, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro ora sotto la guida del commissario straordinario Raffaele Tangorra, i beneficiari del reddito di cittadinanza presi in carico dai centri per l'impiego sono 55mila nelle regioni del Nord-Ovest (il 38% del totale degli attivabili in quell'area), 26mila in quelle del Nord-Est (54%), 54mila in quelle del Centro (37%), 165mila al Sud (31,6%), 90mila nelle isole (31,7%). La maggiore presenza di percettori si rileva nel Sud e nelle isole, dove risiede il 70,5% del totale delle persone soggette al patto per il lavoro. La classe di età degli under 29 a livello nazionale costituisce il 38,6% di tutti i beneficiari.

Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 17 ottobre 2021. Fabio Franceschi lo dice senza giri di parole: «Pachistani, nella mia azienda, non li voglio più». Meglio gli «autoctoni». È il presidente di «Grafica Veneta», colosso della stampa di libri con sede a Trebaseleghe (Padova), in estate scosso dal terremoto del caporalato.

Cos' è successo?

«Il nostro è un gruppo internazionale con più di 800 dipendenti. Alcuni pachistani, dipendenti della ditta Bm Service, che aveva rapporti con noi, hanno litigato, si sono bastonati e ci hanno accusato di un mucchio di falsità». 

Tipo?

«Dicevano di lavorare 12 ore al giorno 365 giorni all'anno, cosa risultata falsa. Alcuni, con noi da pochi mesi, sostenevano di non venire pagati da tre anni. Siamo stati additati come schiavisti. Il pm è stato gentile e veloce. Ha capito l'imbarazzo di una realtà come la nostra. Così tutto si è concluso velocemente e ora ne siamo usciti». 

Perché l'ad e il direttore dell'area tecnica hanno patteggiato per il reato di sfruttamento del lavoro.

«Perché in Italia un processo dura 7 anni, se tutto va bene. La nostra è un'azienda in grande crescita, che non può permettersi di perdere due risorse così importanti per anni, o di restare concentrata su un problema risolvibile con una sanzione amministrativa. Pinton e Bertan hanno patteggiato, anche su consiglio degli avvocati, e ora sono di nuovo operativi». 

Quindi non sapevano delle vessazioni?

«Se lo avessero saputo, allora avrebbero dovuto saperlo anche sindacati, Rsu e capi reparto. La nostra azienda è lunga un chilometro, i pachistani erano all'ultimo miglio. Quasi non sapevo di avere dei pachistani. Bertan ha in mano un gruppo che gestisce come fosse una famiglia». 

Le vessazioni, però, ci sono state.

«Sicuramente qualcosa ci sarà, perché quella è gente molto violenta. Però la mano sul fuoco non la metterei. Parliamo di prognosi di tre giorni al Pronto soccorso. Abbiamo indicato a un nostro dipendente di andarci a sua volta, dicendo di avere male a un dente. Sa quanti giorni gli hanno dato? Tre. Come per un pestaggio?». 

Sono stati abbandonati in strada, imbavagliati e con le mani legate

«Ma li ha visti? Avevano la mascherina in faccia, per calunniarci, e le braccia aperte dietro. Uno era vestito come uno zingaro. Comunque non entro nel merito dei pestaggi. Ma, visto come si sono comportati, è difficile fidarsi sul resto. All'inizio ci avevo creduto e ho donato loro 220 mila euro, adesso taccio». 

Vivevano ammassati

«Ma loro sono un po' così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro cultura. Comunque vivevano in 8 in una casa grande, 2 in una stanza. Neanche male». 

Ha detto che d'ora in poi vorrà solo lavoratori veneti...

«Ci sono stranieri che, negli anni scorsi, hanno affittato case, ma ora non pagano le spese condominiali ed è impossibile mandarli via. Il nostro territorio è un po' traumatizzato da questa presenza particolare. Non ce la sentiamo di assumere gente che non vive qui, perché la nostra è come fosse una famiglia, ci daremmo subito da fare per trovare una sistemazione e garantire per la casa. Allora puntiamo sul territorio. Ma la nostra azienda lavora in tutto il mondo, non possiamo avere solo veneti». 

Se venisse un romano, lo respingerebbe?

«Con gli italiani non ci sono problemi. Ma gli direi che è un casino con la residenza, perché nel nostro territorio l'edilizia è ferma da anni e catapecchie vengono affittate a centinaia di euro. Quando una persona lavora deve avere anche una vita privata». 

E se venisse un pachistano?

«Non ne vogliamo più. In 5 anni non hanno imparato una parola di italiano. Non sono come i rumeni e i filippini, che hanno una cultura vicina alla nostra. I veneti sono abituati a vivere bene: sotto un certo punto di vista, con loro soffriremo un po' di più. Ma non sarebbero mai arrivati a dire certe falsità».

Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 17 ottobre 2021.  Nella primavera 2020, Grafica Veneta regalava 2 milioni di mascherine alla Regione Veneto. È passato un anno e mezzo. Il teatro si è trasferito dalla Protezione civile di Mestre, sede delle conferenze stampa di Luca Zaia, al Tribunale di Padova. Qui quattro giorni fa Giorgio Bertan e Giampaolo Pinton, ad e direttore dell'area tecnica dell'azienda, hanno patteggiato per il reato di sfruttamento del lavoro. Sei mesi di carcere, commutati in una sanzione pecuniaria di 45 mila euro ciascuno. Grafica Veneta è un colosso di stampa e rilegatura (Harry Potter, la biografia di Obama). Tutto è nato nel 2020, quando i carabinieri hanno trovato alcuni pakistani abbandonati in strada, imbavagliati, con le mani legate. L'indagine ha scoperchiato un meccanismo di vessazioni e ricatti. Parte lesa nel processo penale sono 11 pakistani, dipendenti di Bm Services, ditta con sede in Trentino, in subappalto a Grafica Veneta. Turni massacranti, stipendi decurtati con sistematici prelievi dal bancomat e, al tentativo di ribellione, giù le botte. Secondo il pm, Bertan e Pinton erano a conoscenza del sistema di violenze, per questo il 26 luglio sono scattati gli arresti domiciliari. Loro hanno sempre negato tutto e alla fine hanno patteggiato, cavandosela con una sanzione pecuniaria. Ben poco rispetto a quanto si immaginava all'inizio. Restano in piedi le accuse verso 9 pakistani, compresi i titolari di Bm Services. Il caso aveva provocato diverse reazioni. Il deputato Alessandro Zan aveva deciso di ritardare l'uscita del suo libro perché non fosse stampato da Grafica Veneta. Era anche intervenuto Papa Francesco, rispondendo a una lettera di Maurizio Maggiani sul Secolo XIX: «Abbiamo bisogno di una denuncia che porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell'essere umano».

Chiara Baldi per “la Stampa” il 17 ottobre 2021. Italiani, stranieri, under35, precari, donne con figli: se il 2020 è stato l'anno della pandemia, il 2021 è quello in cui l'Italia fa i conti con la povertà che essa ha lasciato, senza risparmiare nessuno. Quasi due milioni le persone che nei dodici mesi scorsi si sono rivolte ai 6.780 servizi della Caritas Italiana e dislocati nelle 193 diocesi sparse in tutta Italia: il 44 per cento di queste è considerato un «nuovo povero», cioè una persona che prima della pandemia non aveva problemi a pagare le bollette e metteva in tavola tre pasti al giorno. Il Covid ha stravolto le vite di tutti, ma le loro di più, e a tutte le latitudini. Regioni come la Valle d'Aosta e il Trentino Alto Adige hanno registrato i dati peggiori tra i nuovi poveri. Che sono soprattutto italiani (46,6 per cento), in quattro casi su dieci disoccupati ma c'è anche una quota consistente di lavoratori (25,8) e di pensionati (18,5). La maggior parte vive in affitto (41 per cento) e solo uno su dieci ha una casa di proprietà. E ancora: l'81 per cento è andato alla Caritas perché con la pandemia si è riscoperto in «fragilità economica», che nel 65,4 per cento dei casi si traduce in «reddito insufficiente» e, in più di un caso su cinque, in «assenza di reddito». Ma a essere colpite di più sono state le donne. Come Elisa, mamma di due bambini, originaria di Pozzuoli che riusciva a barcamenarsi finché non ha deciso di separarsi dal marito violento. «Le donne sono il 51 per cento dei nuovi poveri. Di queste il 75 per cento ha almeno un figlio e oltre un terzo è disoccupata», spiega la sociologa Federica De Lauso, curatrice con Walter Nanni del rapporto «Oltre l'ostacolo». Proprio la genitorialità, che riguarda 91 mila persone delle oltre 211 mila del campione, è uno dei fattori che contribuisce all'impoverimento: «Avere figli può essere un elemento di criticità, soprattutto se si è in una condizione di mono-genitorialità o non si è dotati di un'adeguata rete familiare di sostegno», chiarisce De Lauso. E sottolinea non solo il rischio che «i figli non riescano ad avere adeguate educazione e formazione» ma anche che «la povertà si tramandi poi dai genitori ai figli». Un nuovo povero su cinque, poi, percepisce il reddito di cittadinanza. «È stata una fortuna che questa misura ci fosse», commenta monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente della Caritas Italiana. «Tuttavia - spiega - si è rivelata non sufficiente. Innanzitutto perché i fruitori cui si rivolge sono ancora pochi, basti pensare che serve la cittadinanza da dieci anni e quindi una larga fetta di stranieri ne è tagliata fuori». Tanto che la percentuale di beneficiari andati alla Caritas è, tra gli stranieri, del 9,9 mentre tra gli italiani supera il 30. «Riteniamo che la platea debba essere allargata e che il reddito di cittadinanza venga riformulato come reddito di sussistenza, misura che esiste in tutti i Paesi europei, così da migliorare il criterio di proporzionalità, che oggi crea degli squilibri tra chi ha figli e chi no», chiarisce Redaelli. Drammatica anche la situazione dei giovani dai 18 ai 34 anni: se il valore medio dei nuovi poveri è del 44 per cento, in questa fascia di età si raggiunge il 57,7. Ragazzi e ragazze in cerca della prima occupazione (48,3 per cento) o, se occupati (23,3), che si sono ritrovati a affrontare un lavoro precario svanito con la pandemia. E il 2021? «Nei primi 8 mesi ci sono stati segnali incoraggianti ma c'è ancora un 37 per cento di nuovi poveri. E sale la quota dei "cronici", cioè coloro che da tempo usufruiscono dei servizi Caritas», conclude Redaelli.

Il silenzio della stampa. In Italia ci sono quasi sei milioni di poveri, ma per nessuno sono un’emergenza. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Li avete letti i dati sulla povertà diffusi dall’Istat? Ieri, su questo giornale, ne ha parlato ampiamente monsignor Paglia. Ricordando gli insegnamenti di Primo Mazzolari, un prete del novecento che teorizzava la Chiesa dei poveri già ai tempi di Pio XII, camminando controvento e precorrendo Roncalli e Bergoglio. Le cifre sono da paura: il numero dei poveri è aumentato per la prima volta dal 2005, ed è aumentato in misura spaventosa: un milione di poveri in più. In un solo anno. Nel 2019 erano quattro milioni e seicentomila, ora sono cinque milioni e seicentomila. Quasi un decimo dell’intera popolazione italiana. Mi ha colpito il fatto che la notizia non sia stata considerata da prima pagina da molti dei grandi giornali. Il Corriere, Il Fatto, la Stampa, il Messaggero. Tra quelli che Travaglio chiama sempre i “giornaloni” (compreso il suo). l’unico che le ha dato risalto è stato il Giornale. Che è un quotidiano di destra poco avvezzo a occuparsi di argomenti classicamente di sinistra. Probabilmente lo ha fatto per la semplice ragione che il giornale è pieno di giornalisti, a partire dal nuovo direttore, e che quindi quando vedono una notizia tendono a pubblicarla. Magari a valorizzarla. Poi ognuno può interpretarla come vuole, ma questa è un’altra questione. Ora, lasciando stare il disinteresse di gran parte del nostro sistema informativo per le notizie (basta ripensare a come ha del tutto ignorato “magistratopoli”, forse lo scandalo politico più clamoroso del dopoguerra), parliamo un attimo della politica. So bene che ha tante emergenze delle quali occuparsi. Non le sottovaluto. Negli ultimi anni, col passaggio al governo dei verdi, dei gialli e anche dei rosa, abbiamo scoperto che c’era un’emergenza spaventosa: il traffico di influenze. E poi un’altra emergenza: il respingimento in mare dei naufraghi. E poi un’altra ancora: il diritto da assicurare ai cittadini di sparare ai ladri e ucciderli senza commettere reato. Poi c’è l’urgenza di impedire ai carcerati di uscire dal carcere se sono malati, magari a pochi mesi dall’estinzione della pena. L’urgenza di arginare l’offensiva stragista mafiosa, anche se i dati ci dicono che gli omicidi di mafia sono circa 10 volte meno delle ’uccisioni di donne da parte dei partner, e infine c’è l’urgenza delle urgenze: quella di processare Berlusconi. Benissimo. E un milione di poveri in più? E comunque un numero di poveri che supera la misura dell’intera popolazione di Roma, Milano e Torino mese insieme, ed è superiore anche all’intera popolazione della Croazia? Pare che questa non sia un’emergenza. Ci dicono gli esperti che l’aumento della povertà è solo una conseguenza della pandemia e della crisi economica prodotta dalla pandemia. Già: ci ero arrivato da solo. In gran parte è frutto del lavoro nero che è sparito in tantissime aziende ed esercizi commerciali, senza lasciare tracce visibili, né casse integrazione, né assegni di disoccupazione: solo fantasmi. Ma fantasmi precipitati sotto la linea della povertà, cioè della dignità umana. È o non è questo, prima di tutti gli altri problemi, il problema essenziale del dopo-pandemia? Nel Recovery Plan ce ne siamo occupati? I partiti politici hanno presente questa circostanza della storia? Intendono occuparsene, preparare delle contromisure? Oppure ci limiteremo a star tranquilli, a dar retta a Di Maio che pensa di avere risolto il problema con una legge sul reddito di cittadinanza che è la più scombiccherata di tutte le leggi scombiccherate di riforma dello Stato sociale? Lyndon Johnson, che magari molti di voi non ricordano più, ma che è stato un importante presidente americano, nel 1964 preparò un piano sociale, molto serio, per sradicare la povertà. Voleva davvero abolirla. La cosa non gli riuscì perché si impantanò nella demenziale guerra del Vietnam. Però il piano era una cosa molto seria. Prevedeva un reddito universale, che è una cosa molto più saggia e concreta, meno propagandistica e illusoria del reddito di cittadinanza. Perché non si basa sul clientelismo ma sui diritti universali. Costa? Certo, non lo puoi fare con la flat tax. Ma dal 1964 sono passati quasi sessant’anni, la guerra del Vietnam è finita da 50: vogliamo rimetterci mano a quel progetto?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fabio Pavesi per ilfattoquotidiano.it il 16 giugno 2021. È spesso comodo se non del tutto retorico, pontificare sui giovani fannulloni che anziché darsi da fare per trovare un lavoro anche se mal pagato, preferiscono vivere di sussidi. Diventa stucchevole e irritante quando quell’appello lo fa chi non ha mai dovuto mandare un curriculum in vita sua. È il caso dell’ultima esternazione di Guido Barilla che esortava i giovani a trovarsi un lavoro anche mal retribuito. Lui figlio d’arte un posto di lavoro non ha mai dovuto pietirlo. Ce l’aveva lì pronto (e che impiego) nell’azienda di famiglia. Un ruolo da presidente del gigante alimentare italiano che comporta certo grandi responsabilità, ma anche grandi remunerazioni senza doverle costruirle da zero. Il posto da grande capo di Barilla gli era predestinato fin da ragazzo. Ebbene Guido Barilla, quel posto l’ha di fatto ereditato, senza concorrere e senza competere. In più con un fior di stipendio. Scorrendo il bilancio del colosso della pasta made in Italy si scopre che gli amministratori e i sindaci del gruppo, tra cui ovviamente il presidente Guido Barilla, hanno incassato solo nel 2020 la bellezza di 5,25 milioni di euro di remunerazione, come risulta dall’ultimo bilancio del gruppo. E il bello è che sono tutti pressoché in famiglia. Gli amministratori di Barilla Holding sono infatti il presidente Guido e i fratelli Luca, Paolo ed Emanuela che nei fatti si spartiscono, esclusi i sindaci, quegli oltre 5 milioni di euro l’anno di stipendio fisso. Tanti, pochi. Saranno anche commisurati al valore che Barilla produce ma è un fatto che da solo i vertici del gigante agro-alimentare italiano valgono poco meno dell’1% di tutto il costo del lavoro del gruppo a livello mondiale. Gli oltre 8.500 dipendenti costano ogni anno all’azienda di Parma poco più di 550 milioni. Ogni dipendente contribuisce a creare fatturato dell’azienda per 459mila euro l’anno a fronte di un costo per l’azienda di soli 64mila euro. Il costo del lavoro globale pesa infatti sui ricavi del gruppo, che a fine 2020 sono saliti a sfiorare i 3,9 miliardi di euro, appena per il 14%. Certo poi Barilla paga le materie prime, i costi di produzione, le spese di marketing e tutti gli altri costi operativi compreso gli stipendi. Alla fine il colosso della pasta gode comunque di ottima salute. Il margine operativo – che è la differenza tra ricavi e tutti i costi – vale 372 milioni su 3,9 miliardi di fatturato. E spesate le poste finanziarie e le tasse ecco che Barilla l’anno scorso ha prodotto utili netti per la bellezza di 351 milioni, quasi il 10% del fatturato globale. Difficile trovare un’industria alimentare nel mondo con una redditività netta così elevata. E per un’azienda familiare quegli utili finiranno in parte reinvestiti in parte in dividendi alla famiglia. Basti pensare che a furia di fare utili anno su anno il patrimonio netto nel 2020 è arrivato a quota 1,4 miliardi. Su questo tesoro capitalizzato nel tempo siede quindi la famiglia Barilla. Lo stipendio fisso milionario annuale è quindi solo un piccolo di cui dell’immensa ricchezza creata dall’azienda di famiglia. Di fatto una delle eccellenze imprenditoriali italiane. Utili copiosi, niente debiti e un patrimonio cumulato miliardario. Guido Barilla dall’alto di cotanta ricchezza, in parte ereditata in parte costruita, andrà sicuramente fiero di tanta capacità imprenditoriale. Si ricordi però di ringraziare non solo simbolicamente, come ha fatto lodando pubblicamente di recente i suoi dipendenti per la dedizione in era Covid, ma nei fatti. E grazie anche ai suoi 8.500 dipendenti, che creano valore aggiunto pari a 7 volte quanto guadagnano, se l’impresa Barilla è quel che è. E lasci le prediche moralistiche a chi è più titolato di lui a farle. Si goda fino in fondo i suoi successi e quell’investitura ereditaria e lasci stare i cosiddetti fannulloni che quell’opportunità non l’avranno mai.

DAGONOTA il 17 giugno 2021. Salvatore Aranzulla, "l'oracolo del web", offre 5 euro ad articolo ad aspiranti collaboratori freelance. E a chi su Twitter gli fa notare la paga un po' striminzita, risponde peggiorando le cose...  

Da balarm.it il 17 giugno 2021. Non ha bisogno di presentazioni Salvatore Aranzulla. Del resto, è il blogger e divulgatore informatico più letto in Italia. Nato a Caltagirone, in provincia di Catania, nel 1990, ha creato un sito web che vale milioni di euro e che ciascuno di noi ha consultato per quesiti tech almeno una volta nella vita. Adesso ha aperto due posizioni di lavoro freelance. La prima è per un posto da redattore freelance per schede prodotto di tecnologia. Il collaboratore esterno deve lavorare da casa in ritenuta d’acconto o partita IVA. Non è prevista, infatti, in questa fase alcuna assunzione. Il compito è produrre le schede tecniche da pubblicare su Aranzulla.it. Aranzulla specifica che il collaboratore agisce in qualità di suo ghost writer e che quindi le schede sono pubblicate senza firma. Le tracce delle schede sono già definite e quindi non è richiesta inventiva e vanno scritte e inserite direttamente su WordPress che è la piattaforma di pubblicazione utilizzata da Aranzulla.it.

Come candidarsi. Per candidarsi a questa posizione è richiesta la scrittura di una scheda fra i seguenti prodotti: Huawei Mediapad T3 Tablet, Samsung Galaxy A50 o Nespresso Inissia Macchina per caffé espresso. Prima di procedere alla stesura si consiglia la lettura di alcuni articoli indicati da Aranzulla stesso per cogliere lo stile editoriale richiesto. I contenuti - che in questa fase servono esclusivamente alla scelta del candidato - vanno inviati in formato DOC e PDF via e-mail, insieme al curriculum e, se disponibili, articoli pubblicati in passato per testate editoriali di informatica. È richiesta una pregressa esperienza di redattore Web (preferibilmente in ambito informatico) e va indicato il numero di schede prodotto che si pensa di poter scrivere ogni mese. La seconda posizione aperta è per un redattore freelance per articoli e guide. Anche in questo caso il collaboratore esterno dovrà lavorare da casa in ritenuta d’acconto o partita IVA. Gli articoli devono rispettare elevati requisiti editoriali. Devono essere lunghi almeno 10.000 caratteri spazi inclusi, essere arricchiti da screenshot per facilitare la comprensione del contenuto e anche in questo caso pubblicati senza firma, sempre in qualità di ghost writer. Gli articoli inoltre devono essere prodotti in ottica SEO e tenendo conto che l’utente di riferimento è un utente con conoscenze di informatica medio-basse. E, di nuovo anche in questo caso, vanno inseriti direttamente su WordPress.

Come candidarsi. Per candidarsi a questa posizione è richiesta la scrittura di un articolo fra i seguenti titoli: "Come convertire MP3 Come testare ADSL", "Come scaricare musica gratis", "Come modificare foto", "Musica gratis da scaricare", "Come convertire MP4". Tutte le indicazioni per la stesura sono specificate sul sito di Aranzulla. Gli articoli inviati non verranno pubblicati ma usati solo per la scelta del candidato. Gli articoli vanno inviati in formato DOC e PDF alla mail, insieme al curriculum e, se disponibili, articoli pubblicati in passato per testate editoriali di informatica, la lista dei dispositivi e delle piattaforme che si hanno a disposizione per la produzione degli articoli, il numero di articoli che si pensa di poter scrivere ogni mese. A parità di requisiti verranno preferite le persone che possano scrivere almeno 2 articoli al giorno. È richiesta una pregressa esperienza di redattore Web (preferibilmente in ambito informatico).

CartaBianca, la denuncia di Flavio Briatore: "Offro 1.700 euro al mese ma nessuno vuole lavorare", gli effetti del reddito di cittadinanza. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. "Il reddito di cittadinanza va benissimo per gli over 60 che non riescono a reinserirsi, ma per i giovani è deleterio. I giovani non possono vivere di reddito di cittadinanza, devono mettersi in gioco e non accontentarsi di 600 euro." Così Flavio Briatore, ospite nell'ultima puntata di questa stagione di CartaBianca in onda su Rai 3 e condotto da Bianca Berlinguer, demolisce la legge voluta dall'M5s.  “Pago 1.700 euro al mese, ma non trovo personale”, rivela poi l’imprenditore piemontese per suffragare la sua tesi. Flavio Briatore ha poi detto di essere favorevole alla proroga del blocco dei licenziamenti, ma Briatore è poi tornato sulla carenza di persone che non hanno voglia di lavorare, soprattutto nel periodo estivo. “Se la colpa è dei salari o del reddito di cittadinanza? Di entrambi. Quando il governo comunicò il lockdown fino al 30 luglio i ragazzi migliori hanno accettato posizioni all’estero. Tra quelli rimasti non c’è più la voglia di prima, non c’è ambizione. Da noi uno stipendio medio è una forchetta tra i 1500 e i 2000 euro più le mance ai dipendenti che possono arrivare a mille euro eppure ci dicono che vogliono lavorare in nero per non perdere il reddito di cittadinanza. I ragazzi non hanno più voglia di fare, sono disinteressati al lavoro”, ha affermato. Sul blocco dei licenziamenti, invece, ha avuto il plauso di Maurizio Landini, segretario della Cgil, il quale lo ha lodato. “Siamo di fronte – ha detto – a un imprenditore di buon senso”. Briatore, poi, ha invitato il sindacalista, anche lui ospite del programma, al Billionaire per toccare con mano il problema stagionale.

Da rollingstone.it l'11 giugno 2021. Solo l’anno scorso Matteo Salvini si era paragonato a Berlinguer, dicendo che la Lega aveva ereditato “le battaglie del PCI” ed era diventata il partito di riferimento della classe lavoratrice. Dev’essere un ben strano Berlinguer e un ben strano PCI se un anno dopo ritroviamo lo stesso Matteo Salvini in tv a parlare di lavoro e lo sentiamo attaccare il reddito di cittadinanza e, soprattutto, giustificare i datori di lavoro che offrono stipendi da fame. “Dopo un anno e mezzo di Covid va fatta una riflessione sul significato e l’efficacia del reddito di cittadinanza”, ha detto Salvini ieri in diretto su RaiNews. E già qui si potrebbe obiettare: riflettiamoci pure ma senza dimenticarci che il reddito di cittadinanza è stato approvato dal famoso “governo del cambiamento” di cui Salvini era il ministro dell’Interno. Ma – per una volta – non è la coerenza di Salvini il punto della questione. “Molti imprenditori,” ha proseguito infatti Salvini, “da Nord a Sud, lamentano il fatto che si sentono dire troppi no da coloro ai quali propongono un posto di lavoro perché la risposta è ‘mi conviene tenermi i 500 euro per restare a casa a vedere gli Europei di calcio’”. A una domanda diretta della conduttrice, Salvini ha poi ribadito il concetto peggiorando ulteriormente la situazione: “No, ci sono dei contratti. Non ci sono gli imprenditori sfruttatori. Molto semplicemente: se tu prendi 600 euro per stare a casa a guardare la televisione e ti offrono 600 euro per andare a fare il cameriere, la soluzione la lascio intuire”. Il problema dunque per Salvini è che il reddito di cittadinanza è troppo alto – non che uno stipendio da 600 euro è troppo basso per vivere. E soprattutto non si capisce perché tra la prospettiva di prendere 600 euro per non fare niente e prendere la stessa cifra per lavorare 8 ore al giorno una persona sana di mente dovrebbe scegliere la seconda opzione. È la stessa versione che ritroviamo spesso nelle lamentele di tanti imprenditori a cui viene dato spazio sui quotidiani: il lavoro c’è, sono i lavoratori che mancano perché la gente non ha voglia di lavorare e preferisce stare sul divano a prendere il reddito di cittadinanza. Pazienza se poi – come accaduto nei giorni scorsi a Sammontana – quando un’azienda offre lavoro pagato come si deve, viene sommersa da una valanga di candidature.

Giuseppe Bottero per "La Stampa" il 17 giugno 2021. Cercano un social manager, un designer grafico e un pubblicitario. «Giovani, anche alla prima esperienza, ma con tanta voglia di mettersi in gioco». Non male. Peccato che «l'attività», alle dipendenze di un sito specializzato, «dovrà svolgersi a titolo gratuito». Nell'Italia che riparte, quella in cui le imprese fanno fatica a tenere il ritmo perché mancano tecnici e specializzati e un concorsone mastodontico non trova abbastanza candidati, capita di imbattersi in offerte del genere. Proposte che somigliano a sberleffi, e rimbalzano tra un profilo Twitter e l'altro come a dire, visto? Mettersi in gioco, a queste condizioni, è impossibile. Non è esattamente così. Unioncamere ha calcolato che nei prossimi tre mesi potrebbero servire 1,3 milioni di lavoratori, ben più di quanti fossero richiesti nello stesso periodo del 2019, quando il Coronavirus e il lockdown erano solo uno scenario degno di qualche romanzo apocalittico. Ieri i dati Eurostat hanno certificato che, nel primo trimestre del 2021, il tasso di posti di lavoro vacanti nell' Eurozona è stato del 2,1%, rispetto all'1,9% del trimestre precedente e all' 1,8% del primo trimestre del 2020. Il sistema che riaccende i motori ha fame di forze fresche, e paiono difficili da intercettare. A volte, le paghe sono troppo basse; altre, si punta a profili iper-specializzati. C'è un dato di Veneto Lavoro, riferito a maggio e riportato da Linkiesta: su 21.250 nuovi posti, la quasi totalità (21.008) erano a termine per la ripresa del turismo. È un impiego che un laureato dovrebbe accettare? Secondo Silvia Merler, capo della ricerca dell'Algebris Policy & Research Forum, i «camerieri pluri-laureati a 600 euro al mese ci sono, il problema è che sono solo la punta dell'iceberg». In Italia, dice, c'è un sistema che funziona a fatica. «Nel nostro Paese i salari sono tra i più bassi d'Europa, e sono stagnanti da più di vent'anni» conferma Andrea Garnero Economista Ocse, attualmente in distacco presso il Joint Research Center della Commissione europea. La situazione pare essersi incancrenita con la pandemia. Per quale motivo un educatore dovrebbe dire sì ai 600 euro al mese proposti da un centro sociale di Massa Carrara? Ancora: a che serve uno stage per 700 euro in un negozio di calzature? Basta scorrere i siti di offerte per scoprire che, tra tantissimi altri, pagano 600 euro anche un'azienda di formazione informatica a Napoli e uno studio di grafica a Bellizzi, in provincia di Salerno. Ieri, sui social, è comparsa una proposta di lavoro nell'hinterland torinese. Chiedono laurea magistrale a pieni voti e disponibilità a trasferte in Italia e all'estero, in cambio di un contratto semestrale da 600 euro al mese. C'è un problema. «Non solo una piccola bottega, ma anche multinazionali della consulenza qui pagano meno rispetto alla Gran Bretagna. Le ragioni sono dibattute» sottolinea Garnero. «Salvo alcuni casi, i contratti collettivi nazionali non permettono salari da 5-600 euro al mese a tempo pieno. C'è qualcosa che non va: sono esplosi i contratti pirata, che stanno sul margine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, fatti con l'obiettivo esplicito di sottopagare il lavoratore». E poi c'è una zona grigia di «part-time che non lo sono, lavoro nero e un'abitudine generale: si chiede poco e si dà poco. Investendo di più potremmo garantire servizi migliori». Già. Secondo l'ultima fotografia Istat i contratti temporanei, tra i 25-34-enni, sono oltre 30%. E per tre lavoratori a tempo determinato su quattro non si tratta di una scelta ma dell'unica possibilità. Secondo Merler «studiare, letteralmente, non paga». I sussidi, che il dibattito cita spesso, contano solo fino a un certo punto nel frenare i nuovi ingressi. «Non c'è uno spiazzamento di mercato o un effetto disincentivante, non mi sembra proprio» dice il presidente dell'Inps Pasquale Tridico. «Fino ai 25 anni non si ha diritto al reddito di cittadinanza, se si hanno carriere e discontinue non c'è neanche l'assegno di disoccupazione - spiega Garnero -. Di sicuro, la pandemia ha fatto aumentare i Neet. Nel 2020 per molti non è stato possibile neanche seguire corsi, specializzazioni, percorsi all'estero». La formazione, un punto debole, potrebbe flettere ancora. E innescare un circolo rischioso. Le stime di Federmeccanica dicono che il 56% delle aziende sono in difficoltà con il reperimento dei candidati. «Si deve attivare un circuito virtuoso con investimenti ben mirati nell'istruzione e politiche attive efficaci - osserva il direttore generale Stefano Franchi - Bisogna fare presto e fare bene». Per qualcuno, potrebbe essere già tardi. Secondo la Corte dei Conti, in Italia, nell'ultimo decennio, la quota dei giovani con una laurea è aumentata costantemente ma resta comunque inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse. Il fenomeno, scrivono i magistrati contabili in una relazione spietata, è «riconducibile sia alle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro sia al fatto che la laurea non offre, come in area Ocse, possibilità d'impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore». È complesso anche formare gli specialisti così richiesti. La rinuncia a proseguire i cicli scolastici, spiega la Corte, «oltre che a fattori culturali e sociali» è dovuta «al fatto che la spesa per gli studi terziari, caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate rispetto a molti altri Paesi europei, grava quasi per intero sulle famiglie, vista la carenza delle forme di esonero dalle tasse o di prestiti o, comunque, di aiuto economico per gli studenti meritevoli meno abbienti». Spesso, ragiona Merler, chi lascia il Paese lo fa per «assumere mansioni ad alta qualificazione». Il risultato è paradossale. C'è un allarme per i posti «di base», ma «rispetto all'occupazione che svolgono, siamo lo Stato con una delle più alte percentuali di lavoratori sotto-qualificati».

Lettera di Matteo Salvini a Dagospia l'11 giugno 2021. Caro Dago, a proposito di stipendi e sfruttamento, quando sono intervenuto a RaiNews24 ho fatto riferimento a un caso tipico da part-time (4 ore al giorno per 5 giorni lavorativi), 600 euro è la busta paga normale prevista dal Ccnl per un cameriere. Significa 7,50 euro netti in busta più ferie, permessi, tredicesima e quattordicesima. Matteo Salvini

Dagotraduzione dal DailyMail l'11 giugno 2021. Jack sta guardando Ann. Ann sta guardando George. Jack è sposato, ma George no. Una persona sposata sta guardando una persona non sposata? Se, come tutti quelli che ascoltano questa dommanda, hai risposto: «Dipende da cosa è Ann, se sposata oppure no», allora devi leggere questo libro. Soprattutto se stai per andare a un colloquio di lavoro. Molte aziende utilizzano questi enigmi nei loro colloqui di lavoro. William Poundstone ha raccolto alcuni degli esempi più comuni proprio con l’obiettivo di aiutare gli aspiranti dipendenti a far funzionare il cervello nel modo giusto. Nel suo libro “How do you fight a horse-size duck?” ha anche inserito del materiale sulla «storia del colloquio di lavoro». Thomas Edison, per esempio, aveva scritto un elenco di 146 domande «estremamente semplici» che gli servivano a giudicare i suoi aspiranti assistenti. Tra queste c'era: «Qual è la velocità del suono?». Un giornale provò a testare Albert Einstein sul quesito. Lo scienziato rispose che «non aveva quest’informazione nella sua mente, ma era prontamente disponibile nei libri di testo». Elon Musk si è sempre detto scettico sulle qualifiche accademiche. «Non è affatto necessario avere una laurea o il diploma» ha sempre sostenuto, per un lavoro presso le sue aziende Tesla e SpaceX. Invece Musk è interessato alla capacità dei candidati di pensare e ragionare. La domanda preferita, che è solito fare a tutti i dipendenti (anche ai bidelli), è: «Sei in piedi sulla superficie della Terra. Cammini un miglio a sud, un miglio a ovest e un miglio a nord. Finisci esattamente dove hai iniziato. Dove sei?». Se un intervistato avesse risposto «il Polo Nord», Musk avrebbe detto che aveva ragione, ma poi avrebbe chiesto «Dove altro potrebbe essere?». Come mostra il libro, ci sono un numero infinito di punti, tutti a poco più di un miglio a nord del Polo Sud. Cammini a sud, poi a ovest «per tutto il mondo» in un cerchio di un miglio centrato sul Polo, poi a nord fino al punto di partenza. (Questo è difficile da spiegare: le illustrazioni del libro aiutano.) Alcune aziende moderne setacciano i candidati facendogli completare i test online, dove parte del punteggio è assegnato ai tempi di reazione. È tutto molto lontano dal 1941, quando Bletchley Park reclutò i decodificatori contattando segretamente i vincitori del concorso di cruciverba del Daily Telegraph. Per rispondere ad alcune domande bisogna lanciarsi in stime. Per esempio: «Quanto pesa l'Empire State Building?». In questo caso si tratta di indovinare le sue dimensioni, i materiali e stabilire quale può essere il peso. Si viene valutati sulla capacità di ragionamento, oltre che sulla precisione. Per quel che vale, gli attuali proprietari dell'edificio dicono che pesa 365.000 tonnellate. Poi ci sono le domande di matematica di base, che spesso possono essere ingannevoli: «Se guidi il primo giro di una pista a una media di 60 miglia orarie, quanto velocemente devi andare al secondo giro per raggiungere una media di 120 miglia orarie complessive?». La risposta è che è impossibile. Anche se guidassi a un milione di miglia orarie, non potresti mai portare la tua media a 120. Questo perché hai preso tutto il tempo assegnato al primo giro. Un modo più semplice per immaginare lo stesso principio è «Se mi è permesso fare una media di una ciambella al giorno per una settimana e mangio sette ciambelle il primo giorno, quante me ne sono permesse da allora in poi?». La probabilità è molto importante, e ancora una volta può farti inciampare. «Tutti i giorni vai alla stazione della metropolitana e prendi il primo treno che arriva. I treni dei quartieri alti e quelli del centro sono ugualmente frequenti, ma il 90% delle volte finisci per prendere un treno dei quartieri alti. Perché succede?». La chiave qui non è solo la frequenza dei treni, ma gli orari in cui arrivano. Diciamo che i treni dei quartieri alti arrivano alle 5.10, 5.20, 5.30 e così via, mentre i treni del centro sono alle 5.11, 5.21, 5.31... C'è una probabilità del 90% che arrivi, per esempio, tra le 5.11 e le 5.20, e quindi prendi il treno 5,20, ma solo una probabilità del 10% di arrivare tra le 5:20 e le 5:21, prendendo il treno 5:21 per il centro. Poundstone affronta anche le domande «strane», come «Sei un nuovo pastello nella scatola - di che colore saresti?». Non c'è una risposta corretta, ma secondo me c'è, ed è "p*** off». Nel complesso, comunque, il libro è molto istruttivo e divertente. E quella domanda «sposato/celibe»? La risposta è che qualunque sia lo stato di Ann, una persona sposata sta guardando una non sposata. Se Ann è sposata, è lei che guarda George. Se non lo è, è Jack che la guarda.

Quell’odio classista dietro il reddito di cittadinanza. Luca Bottura su L'Espresso il 3 maggio 2021. La misura si è prestata a ogni ironia ma chi gioisce alla scoperta dei furbetti che intascano i soldi lo fa principalmente perché è una cosa per poveri, e non solo perché è stata mal concepita, peggio disegnata, malamente gestita. Il reddito di cittadinanza c’era già. Si chiamava reddito di inclusione. Una rara misura afferente alla Costituzione in tema di protezione dei deboli. Era meno a casaccio di quello giallo-verde prima, giallo-qualcosa dopo, giallo-tuttimenomeloni ora. Ma di quello si trattava. Cambiò nome quando Di Maio decise di abolire la povertà, salì su un balcone per proclamarne la fine (della povertà, non del reddito) e ricevette gli applausi entusiastici di quattro gatti probabilmente richiamati su una chat scolastica, forse quella della classe elementare di Toninelli. Sembrava una manifestazione in epoca Covid-19, che manco c’era. Ma erano tutti entusiasti. Questo per dire che la misura si presta a ogni ironia. Io stesso ci ho campato per anni, quasi fosse il mio personalissimo reddito di cittadinanza. Non solo perché l’assegno in sé, per la sua attribuzione sgangherata, quanto soprattutto perché doveva fare da cappello a una riforma del mercato del lavoro basata sulla trasformazione radicale dei centri d’impiego e sull’assunzione dei cosiddetti navigator, destinati nella speranza a trovar lavoro ad altri tizi ma purtroppo molto poco efficaci, perché, quando si mette una parola inglese a cazzo in un disegno di legge, tipo jobasct, c’è sempre una fregatura. Non è successo nulla. I navigator oggi cercano lavoro solo per loro stessi. A fatica. Perché l’esperienza svolta non depone a favore di talenti illimitati, diciamo. E soprattutto esserlo stati, navigator, non fa ‘sto curriculum. Tra l’altro Di Maio, a differenza di molti suoi colleghi, qualche lavoro l’aveva persino svolto. E il fatto che fosse umile, lungi dall’essere un freno, portava con sé una grande opportunità. Conosceva gli ultimi, prima di diventare un ragazzo immagine da barca di lusso. Quindi poteva cogliere l’opportunità che invece ha clamorosamente fallito. Però chi gioisce a ogni pie’ sospinto dei cosiddetti furbetti del reddito è in malafede. Mi spiego: fossimo in Svezia, sarebbe indicatore del fallimento di un qualunque provvedimento il fatto che ne usufruisca chi non deve. Configurerebbe una falla del sistema. Un evento. Un sintomo inatteso da affrontare con toni drammatici. Il reddito Siccome invece ci situiamo ben oltre la linea delle palme, non ci si dovrebbe stupire che i denari destinati ai poveri siano finite nelle tasche dei più, chiedo venia, stronzi. Dei mafiosi, anche. Degli evasori fiscali, che spesso coincidono. Di chi il lavoro l’aveva già. Di chi il lavoro lo pagava in nero e faceva versare allo Stato una differenza. Cosa c’è di diverso dalla Sanità, che paghiamo a chi evade? Cosa c’è di diverso dalle strade, che facciamo percorrere a chi le ha costruite tenendosi il pizzo? Cosa c’è di diverso dalla scuola, che regaliamo, pubblica o privata che sia, a chi si permette quella privata perché si tiene in tasca i soldi della collettività? Nulla. Ma siccome il problema è endemico, ci indigna di meno o per nulla. Morale: il reddito ci fa schifo, o fa schifo a lorsignori, principalmente perché è una cosa per poveri, e non solo perché è stata mal concepita, peggio disegnata, malamente gestita. Per questo, qui e ora mi ricredo: non era mica male, come idea. Poi, come al solito, l’abbiamo gestita noi.

(ANSA il 22 maggio 2021) - SAN FERDINANDO, 22 MAG - I carabinieri della compagnia di Gioia Tauro hanno denunciato 177 migranti per illecita percezione del reddito di cittadinanza. L'operazione "Tentazione" ha riguardato i percettori del contributo statale nel comune di San Ferdinando. In particolare, i carabinieri della stazione e il Nucleo ispettorato del lavoro di Reggio Calabria hanno verificato i requisiti di 200 beneficiari, gran parte dei quali domiciliati nella tendopoli che si trova nella zona industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. Dagli accertamenti sono emerse numerose irregolarità. Dalle verifiche, effettuate anche attraverso un esame incrociato dei dati acquisiti con le informazioni presenti nelle banche dati in uso alle forze di polizia e con riscontri sul territorio, i migranti non erano in possesso del requisito della residenza in Italia da almeno 10 anni di cui due in maniera continuativa. L'indagine ha avuto inizio dalla lite, avvenuta in un Caf di San Ferdinando, in cui era stato coinvolto uno straniero. I carabinieri si erano resi conto che il soggetto si lamentava per la mancata percezione del sussidio. Da qui il sospetto dei militari che vi potessero essere molti più stranieri in situazione di irregolarità. Secondo gli accertamenti, circa la metà dei migranti domiciliati nella tendopoli ha presentato la domanda per il contributo. Su 250 richieste, l'Inps ne aveva respinto una cinquantina per cui 200 migranti sono risultati percettori. Di questi l'88%, cioè 177 persone, non avevano i requisiti. Il danno arrecato alle casse dello Stato, secondo i carabinieri, è di oltre 140 mila euro. Nei prossimi mesi, inoltre, i percettori avrebbero incassato altri 571.238 euro. I 177 migranti sono stati denunciati alla Procura di Palmi per aver violato le norme a tutela del reddito di cittadinanza. Le irregolarità sono state comunicate all'Inps che dovrebbe sospendere il sussidio. L'operazione "Tentazione" segue le inchieste "Jobless" e "Jobless 2" in seguito alle quali i carabinieri hanno denunciato 87 persone per illecita percezione del reddito di cittadinanza. Quella volta, però, gli indagati erano per lo più italiani e alcuni ritenuti collegati a esponenti di 'ndrangheta. (ANSA).

Da tgcom24.mediaset.it il 31 maggio 2021. La guardia di finanza di Napoli ha denunciato 298 persone che, tra settembre 2020 e maggio 2021, hanno percepito il reddito di cittadinanza nonostante non ne avessero i requisiti. Tra i casi scoperti, quelli di 8 richiedenti evasi dagli arresti domiciliari per andare a presentare domanda, e di una persona che ha presentato domanda mentre era in carcere a Santa Maria Capua Vetere. Il danno quantificato dall'Inps è di circa 2,5 milioni di euro. Centinaia le domande irregolari - A realizzare l'attività investigativa, con il coordinamento della Procura della Repubblica di Napoli nord e in collaborazione con l'Inps, sono stati i finanzieri del gruppo di Frattamaggiore, i quali hanno individuato centinaia di domande irregolari presentate da residenti nell'area nord della provincia del capoluogo. Denunciati per truffa allo Stato - Per gli evasi e i carcerati che hanno ottenuto il sussidio è scattata subito la revoca del beneficio, con denuncia per truffa ai danni dello Stato. A Frattamaggiore il caso di un'istanza presentata da una persona che, nel momento in cui faceva domanda, risultava detenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta).

Lodovica Bulian per "il Giornale" il 18 giugno 2021. In Campania ci sono più famiglie che percepiscono il reddito di cittadinanza che in tutto il Nord. Il dato di maggio emerge dalle tabelle dell'Osservatorio dell'Inps: nel mese scorso sono stati 255.245 i nuclei beneficiari. Con un aumento rispetto a marzo, quando stando ai dati Inps parlavano di 235.427. Il numero supera quello delle 244.113 famiglie che lo percepiscono nel Nord Italia. Complessivamente le persone che lo percepiscono in Campania sono 716mila, l'importo per famiglia medio è di 623 euro. Al Nord invece le persone coinvolte sono 557mila e l'importo medio per ogni nucleo è di 479 euro. Un trend in linea con i mesi scorsi: a pesare di più per coperture finanziarie è Napoli, dove a marzo 157mila famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza pari a quelle in tutto il Nord. Per una spesa di 102,2 milioni di euro a marzo per il solo capoluogo campano, a fronte di 109 per il Nord. La seconda regione per numero di famiglie che possono contare sulla misura è la Sicilia con 222.902 nuclei percettori. Dati di fronte ai quali il Movimento Cinque Stelle rivendica la «cintura di protezione sociale che ha garantito stabilità al Paese in un momento difficilissimo», dice la deputata Tiziana Ciprini. Ma è lo stesso sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, capoluogo della regione dove vive gran parte dei beneficiari, a essere critico: «Il reddito di cittadinanza ha avuto, ha e può ancora avere una sua funzione ma ha perso molto della sua potenzialità progressiva. Non si può pensare di utilizzarlo a vita perché altrimenti creiamo assistenzialismo e mettiamo in difficoltà anche la ripresa del lavoro e dell'economia del Paese». Il riferimento è alle difficoltà crescenti denunciate dalle attività economiche nel reperire lavoratori stagionali proprio nel momento della ripresa: «Ritengo non sia stato fino ad ora utilizzato al meglio ma esclusivamente come situazione di mantenimento e che sta facendo registrare a Napoli e nel Paese anche difficoltà notevoli in diversi comparti che si stanno scontrando con una scarsa disponibilità di profili lavorativi perché alcuni ritengono più conveniente percepire il reddito. Attenzione - attacca il sindaco uscente - perché significa miliardi di euro che va bene investire se servono a sostenere le povertà e a provare a immettere persone nel mondo del lavoro, ma è un problema se diventa assistenzialismo a vita che conviene o è convenuto a qualcuno per fare politica e voti». In tutta Italia invece a maggio i nuclei percettori di reddito o pensione di cittadinanza sono stati 1,3 milioni per oltre 2,92 milioni di persone coinvolte, per un importo medio di 551 euro e 717 milioni di spesa. Nei primi cinque mesi del 2021 le famiglie che hanno ottenuto almeno una mensilità del beneficio sono state 1,6 milioni per quasi 3,6 milioni di persone. Rispetto al 2019 c' è stato un incremento e del 16% di nuclei beneficiari e una crescita dell'importo erogato del 2%. In tutto il Sud e nelle Isole, le famiglie titolari a maggio sono 818.603 per 1,9 milioni di persone coinvolte. Tra reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza e reddito di emergenza, (Rem) - che con il decreto Sostegni-bis è stato prorogato fino a settembre - i nuclei raggiunti da aiuti per il contrasto della povertà sono oltre 1,7 milioni, pari a circa 4 milioni di persone. Ieri intanto è proseguito l’esame del dl Semplificazioni davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali. In audizione Confindustria ha chiesto che «anche i prossimi provvedimenti abbiano la medesima ambizione riformatrice, in modo da produrre effetti permanenti sulle nostre amministrazioni, anche al fine di rafforzarne le capacità gestionali e favorire, così, la realizzazione di investimenti innovativi in partnership pubblico-privato». E soprattutto per «realizzare gli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza». Dopo l'approvazione da parte della commissione Ue dei piani di ripresa di Portogallo, Spagna e Grecia, la presidente Ursula von der Leyen ha annunciato che sarà in Italia martedì 22 giugno per l'approvazione ufficiale del Pnrr italiano.

Oltre 275mila famiglie coinvolte in Campania. Reddito di cittadinanza, in Campania i percettori di tutto il Nord Italia: gli importi sono più alti. Redazione su Il Riformista il 17 Giugno 2021. In Campania le famiglie che a maggio hanno percepito il reddito o la pensione di cittadinanza sono state oltre 275mila, un numero che sfiora quello dell’intero Nord (281.786). Il dato emerge dalle tabelle pubblicate dall’Inps sul reddito di cittadinanza: stando alle stime, le persone coinvolte in Campania dal beneficio sono 716mila mentre l’importo per famiglia medio è di 623 euro. Al Nord le persone sono 557.500 e l’importo medio per ogni nucleo è di 479 euro. Nel Sud e nelle Isole le famiglie titolari a maggio della misura di contrasto alla povertà sono 818.603 per 1.960.220 persone coinvolte. Secondo l’Inps le famiglie che – ad oggi – hanno avuto almeno un pagamento per il Reddito di emergenza previsto dal dl Sostegni sono 483mila, con un importo medio mensile pari a 548 euro. L’anno, scorso l’insieme dei provvedimenti sul Rem aveva coinvolto meno nuclei familiari, 425mila, per un importo mensile medio leggermente più alto, di 550 euro. Attualmente i le famiglie raggiunte da una forma di sostegno economico contro la povertà – scrive l’Inps – sono oltre 1,7 milioni, pari a circa 4 milioni di persone, il dato più alto registrato di coloro che sono raggiunti da almeno una delle misure nello stesso mese. Nel mese di maggio i nuclei percettori di Reddito di Cittadinanza sono stati 1,18 milioni con importo medio di 583 euro, mentre i percettori di Pensione di Cittadinanza (PdC) sono stati 125mila con importo medio di 263 euro, per un totale di 1,3 milioni di nuclei e 552 euro di importo medio mensile. Sul totale dei nuclei familiari, il numero di persone coinvolte, ovvero la platea che è raggiunta dalla misura, è di 2,9 milioni.

Da Corriere.it il 28 aprile 2021. La spesa per il reddito di cittadinanza a marzo a Napoli si avvicina a quella dell’intero Nord Italia. È quanto emerge dalle tabelle dell’Inps relative all’Osservatorio sul Rdc, dove si scopre che a Napoli, nel mese di marzo, sono state 157 mila le famiglie che percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza, ovvero 459 mila persone coinvolte negli aiuti. Nello stesso periodo, nell’intero Nord Italia sono state 224.872 le famiglie che hanno percepito il reddito o la pensione di cittadinanza, equivalenti a poco più di 452 mila persone coinvolte: nel mese di marzo sono stati spesi per il sussidio 109,7 milioni nell’intero Nord e 102,2 milioni solo nella provincia di Napoli.

Una persona beneficiaria su sei è a Napoli. A livello di nuclei familiari, con le sue 157 mila famiglie beneficiarie della misura di contrasto alla povertà, la provincia di Napoli risulta averne oltre il doppio di quelli di Roma e oltre quattro volte quelli di Milano (35.517) con un importo medio a nucleo di 650 euro. In pratica in provincia di Napoli c’è una persona coinvolta dal sussidio su sei in Italia con 438.971 persone nelle famiglie beneficiarie, quasi quante: come detto — quelle dell’intero Nord (452.044).

Il record di gennaio 2021. In totale, le risorse spese dalla Stato per erogare il reddito o la pensione di cittadinanza, tra aprile 2019 (quando è stata introdotto il sostegno) e marzo 2021, si aggirano intorno ai 13 miliardi di euro. Il mese nel quale lo Stato ha erogato di più è stato gennaio 2021, con quasi 700 milioni (692.878.066 euro). A marzo 2021 sono stati spesi oltre 633 milioni per portare il reddito o la pensione di cittadinanza a 1,1 milioni di nuclei pari a 2,6 milioni di persone (di cui 662 mila minorenni). A livello di trimestre, il picco è stato registrato tra gennaio e marzo del 2019 «che - si legge nell’Osservatorio - coincide con l’attivazione della prestazione e un picco nell’ultimo trimestre dell’anno 2020, principalmente imputabile al fenomeno dei rinnovi delle prestazioni giunte a termine del primo ciclo». Nel primo trimestre dell’anno 2021 i nuclei richiedenti registrano una nuova crescita attestandosi su valori pari al 74% di quelli registrati nel mese di marzo 2019.

Picco per le indennità di disoccupazione. Reddito di cittadinanza, 2 milioni di percettori in Campania: “Quanto il Nord, il Centro e mezzo Sud”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il dato da solo supera tutto il Nord, il Centro, e arriva a valere quasi la metà dell’intero Sud Italia: poco più di 2 milioni di percettori di reddito di cittadinanza in Campania, di cui 500 mila soltanto a Napoli. La pandemia riversa tutta la sua crudeltà sull’economia, fotografata nell’ultimo rendiconto sociale stilato dal comitato regionale Inps. Secondo il rapporto, molti di questi hanno perso il lavoro per via delle restrizioni per il contenimento del Coronavirus, e non hanno trovato nessuna alternativa al sussidio. L’economia regionale è in ginocchio e a testimoniarlo c’è anche il dato sull’incremento dei sussidi di disoccupazione. “Dal 2009 al 2020 c’è stato un incremento del 320%”, spiega Maria Giovanna De Vivo, direttore regionale Inps. “Quest’anno – aggiunge – abbiamo visto meno occupati, meno giovani, meno donne, meno sostenibilità”. Aumenta anche l’indennità di disoccupazione, con 200mila richieste tra Avellino, Salerno, Benevento, Caserta. Insieme le quattro province fanno il fato raggiunto a Napoli e provincia: ben 182 mila, per un totale di 523 milioni. Il “reddito di emergenza” è stato invece erogato a 146mila persone. C’è anche la cassa integrazione, in aumento del 720% nel solo 2020. Numeri considerevoli per Guglielmo Loy, presidente del consiglio di indirizzo e vigilanza Inps: “Il crescere continuo di domande del reddito di cittadinanza è il segnale che c’è un grande disagio. Quando è crollato tutto nella vita di tanti lavoratori, è rimasto sul campo l’unico sostentamento, il reddito. È un dato che colpisce molto, quello campano. L’Inps è il primo termometro dell’economia regionale”.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Il Reddito M5s e lo statalismo straccione. Secondo i dati dell'Inps, a febbraio oltre un milione di famiglie italiane hanno ricevuto il reddito di cittadinanza. Carlo Lottieri - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. Secondo i dati dell'Inps, a febbraio oltre un milione di famiglie italiane hanno ricevuto il reddito di cittadinanza. Il risultato è che circa 2,3 milioni di persone vedono le loro entrate provenire da questa misura assistenzialistica, che in media assegna 564 euro a ogni nucleo familiare. Se con questo strumento i Cinquestelle si riproponevano di abrogare la povertà, dobbiamo ormai prendere atto che quello che sta avvenendo è il cronicizzarsi del disagio, dal momento che si assiste a un vero mutamento antropologico, in ragione del quale l'idea di vivere del sussidio altrui (invece che del proprio lavoro) è sempre più accettata. Mentre un tempo soprattutto i più poveri avrebbero rifiutato questa elemosina di Stato, in nome della propria dignità, le cose stanno cambiando velocemente. La prospettiva di stare su un divano tutto il giorno e vivere modestamente è divenuta allettante agli occhi di molti. Questa politica irresponsabile riguarda soprattutto il Mezzogiorno, dato che lì vivono due terzi dei sussidiati. Continua a trionfare quel clientelismo con radici antichissime che da decenni distrugge ogni possibilità di sviluppo del Sud: un finto soccorso che si traduce, nei fatti, in una costante riaffermazione della tesi secondo cui in quella parte d'Italia non esisterebbe la possibilità di creare imprese e lavoro. Il risultato è che, con 229mila famiglie assegnatarie, la sola Campania supera l'intero Nord, dove sono soltanto 192mila. Immaginare che questo possa giovare all'economia meridionale significa ignorare del tutto le cause profonde delle difficoltà economiche e sociali di quelle regioni. C'è da sperare che qualcosa stia cambiando? Assolutamente no. Nell'audizione alla Commissione Bilancio del Senato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha dichiarato di voler confermare questa misura. Naturalmente s'immagina qualche modifica, ma dalle dichiarazioni rilasciate è evidente che si continua a ritenere che questo provvedimento non avrebbe ben funzionato solo a causa di qualche abuso o distorsione: come il fatto che hanno intascato soldi anche famiglie tutt'altro che povere, prive del titolo a ottenere l'aiuto pubblico. Né potrà servire a molto l'aver creato l'ennesimo comitato scientifico, stavolta presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno. Bisogna cambiare paradigma. C'è la necessità di comprendere che per avere un Paese civile si devono rispettare taluni principi basilari, violati di continuo da questo statalismo straccione. È insommare come queste siano messe definitivamente da parte.

 (Adnkronos l'8 marzo 2021) –  Un invito a "non toccare il Reddito di cittadinanza", altrimenti Draghi "fa la fine che ha fatto Falcone". Questa, apprende l'Adnkronos, la minaccia giunta via telefono al "Movimento Draghi Presidente" e rivolta al Presidente del Consiglio. A denunciarlo gli stessi attivisti del Movimento. Alle 12:27 di oggi, la portavoce del Movimento DraghiPresidente.org, Daria Cascarano, ha ricevuto "una telefonata dal contenuto altamente minaccioso nei confronti del Presidente Draghi" in cui uno sconosciuto, con "evidente inflessione siciliana", ha detto: "Il governatore Draghi?". E il Portavoce del Movimento: "No, no, no, questo non è il numero del governatore Draghi". Sconosciuto: "Noi veniamo a Roma, e non tocchi il reddito di cittadinanza, perché siamo un migliaio di persone, che non lo tocca...". Portavoce movimento: "Ma lei chi è?" Sconosciuto: "Lui fa la fine che ha fatto Falcone, non lo tocca". "Preso atto della gravità dei contenuti minatori, in particolare riferimento al dott Falcone ed alla sua tragica fine", i responsabili del Movimento "si sono recati al Commissariato Trevi di Roma per presentare circostanziata denuncia depositando audio e trascrizione della minaccia ricevuta". Il Movimento DraghiPresidente.org, nato lo scorso mese di luglio "al fine di raccogliere la volontà dei cittadini che si appellavano al Capo dello Stato perché si desse vita ad un governo di Unità Nazionale a guida del Presidente Draghi, riceve migliaia e migliaia di contatti e comunicazioni e istanze da parte di cittadini che vogliono dare il proprio contributo di idee e progetti ma anche esprimenti situazioni di difficoltà e disagio. Fra queste -spiegano i promotori- anche alcune contrarietà anche colorite o sgrammaticate, il Movimento è quindi anche visto come una sorta di 'sfogatoio' e raccoglie i pensieri più differenti e disparati". “Oggi però si è superato il limite, la telefonata ricevuta ci ha fortemente impressionato e si è doverosamente deciso di trasferirne contenuto e testo alle autorità competenti affinché accertino l'origine, la pericolosità eventuale nonché l'identità del mittente”, dichiara la portavoce del Movimento. "Abbiamo pertanto presentato denuncia alla Questura di Roma”.

Quell'esercito di scrocconi mantenuto da pochi onesti. Il libro di Vecchi svela lo scandalo: "Un terzo del Paese si dice nullatenente: qualcosa non torna". Stefano Zurlo - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Da un anno all'altro. Da non credere: è bastato un toc toc dello Stato italiano per far lievitare i redditi di oltre tre milioni e mezzo di famiglie italiane. Fino al 2014 l'80 per cento di quelle che presentavano il modello Isee aggiungevano di essere a terra. Ma così giù da non avere nemmeno un euro nel salvadanaio. Zero su tutta la linea. Poi, nel 2015 Roma ha fatto sapere che avrebbe cominciato a controllare, superando finalmente l'incredibile e fino ad allora insuperabile barriera della privacy. È bastata quella semplice dichiarazione, non dei redditi ma d'intenti, per far passare di colpo il 74 per cento dei nuclei in una fascia più alta. Vicino alla quota di 20mila euro. Francesco Vecchi racconta questo scandalo con empatia e un filo di sacrosanta indignazione nel suo ultimo libro: Gli scrocconi, appena uscito da Piemme (pagine 144, euro 17,59). Vecchi è, con Federica Panicucci, il conduttore della striscia quotidiana Mattino 5 e nel suo studio si affollano storie e paradossi che documentano quel che nessuno, o quasi, ha il coraggio di dire in modo esplicito: gli italiani sono più ricchi, o se volete meno poveri, di quello che tutti pensano. Certo, la politica un giorno sì e l'altro pure scaglia anatemi di cartapesta contro le legioni dei furbetti e furbastri che popolano il nostro Paese, anche ai tempi non semplici della pandemia. Ma è uno strepitare che non cambia nulla. VENTITRE MILIONI DI NULLATENENTI Quando si dice che il sistema fiscale, sempre sul punto di essere riformato, strangola i lavoratori si dice ovviamente una verità, ma si dimentica un pezzo della storia: i ventitre milioni di italiani che sostengono di avere il portafoglio desolatamente vuoto o di disporre solo degli evangelici spiccioli. «I 23 milioni di contribuenti che dichiarano di guadagnare fino a 20mila euro - riassume Vecchi - versano complessivamente allo Stato 18 miliardi: circa 780 euro a testa». Possibile? Più di un terzo degli abitanti della penisola sono nullatenenti o quasi, conteggiando anche neonati, vegliardi e malati. Qualcosa non torna, anzi stride. «Per l'Agenzia delle Entrate - sospira l'autore - trovare qualcuno che guadagni più di me è difficilissimo». Addirittura? «Guardo dalle finestre di casa mia e ci sono 30 macchine parcheggiate, 20 delle quali non me le posso permettere». E allora?

CINQUE MILIONI DI CONTRIBUENTI SPREMUTI. Accendiamo i riflettori su quei 5 milioni di contribuenti che galleggiano sopra quota 35mila: «Un esclusivissimo circolo dei nababbi», lo battezza nel sarcasmo il giornalista. Sono in cima alle statistiche, ma nella realtà sono scavalcati da una folla sconosciuta che si siede ristoranti più gettonati, va in vacanza negli hotel di lusso, guida le auto più potenti e via elencando gli altri parametri con cui afferrare il tenore di vita.

DICHIARAZIONI DA FAME. I più «fortunati» sono i ristoratori che arrivano a 18.400 euro l'anno. A scendere, nei gironi della miseria pre Covid, ecco i baristi, bloccati a 17.400 euro l'anno e i parrucchieri che portano a casa 1.091 euro al mese. Sul versante dei titolari di negozi di abbigliamento siamo all'indigenza pura: 617 euro al mese. Di nuovo, si resta sconcertati. E l'elenco dei misteri italiani non finisce certo qui.

UN PENSIONATO SU DUE ASSISTITO DALLO STATO. Scrive Vecchi: «Lo Stato... paga sull'unghia senza dire nulla le pensioni a 8 milioni di italiani che all'improvviso dichiarano di non aver mai lavorato (o di aver lavorato molto poco) nel corso della loro vita. Che sia veritiero oppure no, il dato resta questo: un pensionato su due è assistito dallo Stato». La narrazione, ancora una volta, pare troppo ingombrante: va bene essere pessimisti, ma le cifre raccontano un'Italia disastrata che non esiste.

GLI SCANSAFATICHE. C'è poi un altro girone da esplorare: quello, comodo comodo, degli scansafatiche. Il loro identikit è presto fatto: «Non sono - risponde lo scrittore - quelli che cercano un lavoro e non lo trovano, cioè i disoccupati». No, qui parliamo di un'altra razza: «I non occupati, quelli che il lavoro manco se lo cercano». Sono tanti. Troppi e pure in aumento: 4 milioni. Quattro milioni di imboscati. Domandina semplice semplice: ma chi li mantiene? Ma le statistiche come sono fatte? La povertà ai tempi del Covid è in aumento. Non c'è il minimo dubbio. Ma le cifre disegnano una realtà ancora una volta eccessiva, con circa 12 milioni di connazionali precipitati nella miseria fra le spire della crisi economica. Gli indici con cui si misura la disuguaglianza, contraddittori anche per gli studiosi, sono la spia di una bugia troppo grande per essere nascosta. Forse, il termometro non funziona. Sorpresa: l'Istat fa le sue statistiche al telefono e difficilmente con la cornetta in mano l'intervistato confiderà la ludopatia, la dipendenza dalla droga o, peggio ancora, un vincolo criminale.

Antonio Ruzzo per ilgiornale.it il 5 marzo 2021. Il ciclismo è muscoli e sudore. Ma anche voce. E quella di Salvo Aiello, 53 anni, telecronista e speaker sportivo, gli appassionati la conoscono e la riconoscono. Un racconto e una passione inconfondibili che cominciano nell'84 quando, vedendo pedalare Francesco Moser alla Sei Giorni di Milano prima che la neve abbattesse il Palazzetto, scocca la scintilla. Che negli anni diventa lavoro come voce ufficiale del Giro e d'Italia e come telecronista di Eurosport con Riccardo Magrini. Giro, Vuelta, Tour sembra tutto perfetto, per sempre anche perchè la sua voce e l'ironia del «Magro», raccontano il ciclismo inventandosi una narrazione tutta nuova che piace e fa ascolti. Ogni anno di più. Ma, pochi giorni fa, la scena è un'altra. La foto sui social non è più di quelle in postazione con cuffia e microfono a raccontare una fuga o una volata ma quella di Salvo Aiello con la tuta dell'Amsa, l'azienda municipale dei servizi ambientali di Milano, che raccoglie rifiuti su un camion nella periferia della città. È tutta un'altra storia. La ascolti e la voce è la stessa, affascinante, cadenzata, sembra di nuovo in telecronaca spiega ciò che gli sta capitando: una strada lastricata di pietre anche se questa volta non c'è la Roubaix da commentare: «Cosa mi mi succede? Succede che tre anni fa perdo il lavoro. Di punto in bianco. Scopro leggendo un post su Facebook che non sono più un telecronista di Eurosport. Capita, mi dico. Così condivido il messaggio e mi metto il cuore in pace...». Ma è come quando uno si ritrova ai piedi del Mont Ventoux, il gruppo allunga, e lo vede andare via. Ci provi con tutte le forze a prendere la ruota ma poi resti lì solo, con le tue gambe e i tuoi pensieri. E per uno che è nato il 14 novembre, lo stesso giorno di Vittorio Adorni, Bernard Hinault e Vincenzo Nibali quei pensieri continuano ad essere il ciclismo. «Si all'inizio è stato così- racconta - anche se non riuscivo a spiegarmi il perchè: era cambiata la proprietà, c'erano stati avvicendamenti, ma sembravano tutti contenti del nostro lavoro e così sono tornate le grandi corse a tappe e io e il Magro siamo tornati raccontarle a nostro modo: una tappa, una classica o una salita erano anche la scusa per parlare di altre cose». Pensieri che rischiano però di diventare un tarlo quando si hanno moglie e figlia e quando i mesi passano senza che nulla succeda. «Diciamo che all'inizio mi sono arrangiato - racconta - Ho trovato qualche collaborazione occasionale come speaker di partite dei pallavolo e di beach volley che sono l'altra mia passione ma è ovvio che per vivere non bastavano. E intorno non vedevo più nessuno. Un silenzio assordante: in poco tempo erano spariti contatti e conoscenze, nonostante a molti continuassi a ripetere che io non stavo cercando un bel lavoro, ma solo un lavoro. A parte qualche ciclista del gruppo e Gianni Bugno che è stato mio compagno di liceo a Monza, l'unico a telefonarmi per farmi coraggio è stato Francesco Guidolin che, fra l'altro, neppure conoscevo...». Così la chiamata di una nuova piattaforma internazionale che cerca la sua «voce» per affidargli la pallavolo nazionale sembra uno spiralio di luce che però si spegne all'istante: «Si spegne di fronte al no dell'Ordine dei giornalisti che mi nega il tesserino da pubblicista perchè negli ultimi sei mesi non avevo lavorato, nonostante 12 anni di regolari collaborazioni fatturate». Tant'è. I pensieri continuano a girare intorno al ciclismo e alla pallavolo ma il piatto piange e Aiello così ci mette una pietra sopra e inizia a mandare il suo curriculum alle agenzie che offrono lavoro. Qualsiasi lavoro. «Non sapevo davvero più che fare - spiega -. E a quale punto è chiaro che non sei più tu che scegli...». Nell'ottobre scorso arriva la lettera dell'Amsa, lo cercano per un posto di operatore ecologico e gli fissano le date delle visite mediche. E lui ovviamente va. Da una settimana lavora nella zona del San Raffaele su un camion compattatore: «Dove mi vedo tra due anni? Qui, sempre all'Amsa, magari in una posizione meno basica ma non mi faccio più illusioni...» E il ciclismo? «Il ciclismo non lo guardo più- confessa - Mi sento un po' come Roberto Visentini in maglia rosa tradito dal suo compagno di squadra Stephen Roche. Faccio fatica a guardarlo. E se per caso in tv mi capita di incrociare una corsa abbasso il volume...».

Da ilgazzettino.it il 5 marzo 2021. La guardia di Finanza di Rovigo ha denunciato 239 persone per aver percepito illegalmente il reddito di cittadinanza. Le indagini, svolte con il supporto dell'Inps, sono iniziate a dicembre, quando i finanzieri di Occhiobello hanno bloccato un tentativo fraudolento di riscuotere il Reddito di Cittadinanza da parte di 23 persone tutte provenienti dalla Romania. Queste, infatti, avevano presentato le domande per ottenerlo, a seguito delle quali, ricevuto il Pin, si erano recate presso l'ufficio postale per ricevere ed attivare le card elettroniche prepagate e, quindi, poter incassare le somme accreditate. Tutte le persone individuate non avevano titolo a ricevere il beneficio richiesto in quanto risultate prive del requisito di residenza, Visto il metodo utilizzato, è sorto il sospetto che il fenomeno non fosse isolato ma che, invece, potesse rappresentare un sistema diffuso visto che tutta la procedura di richiesta poggiava su un autocertificazioni e su pochi elementi certi. I finanzieri hanno così scoperto che il comportamento illecito era stato replicato numerose volte i tutta Italia. È stato appurato, infatti, che una vasta platea di persone, tutte straniere, aveva presentato domanda ed aveva potuto accedere illecitamente al Reddito di Cittadinanza. È stato possibile scoprire che delle 673 persone controllate, ben 239 non possedevano il requisito della effettiva residenza in Italia e, per tali ragioni, sono state tutte denunciate alle Procure della Repubblica di Milano, Napoli, Roma, Cosenza, Lodi, Bari, Torino, Pavia, Massa, Agrigento, Foggia, Genova, Vercelli, Pisa, Latina, Imperia e Rovigo.

Disastro del reddito 5S. Bar e ristoranti rovinati: nessuno vuole lavorare. Antonella Aldrighetti il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La denuncia del settore: "I giovani adesso preferiscono il sussidio o lavorare in nero". La cacciata di Domenico Parisi dall'Anpal, sottoscritta a piè pari da una proposta del ministro del Lavoro Andrea Orlando che ha in progetto di commissariare l'agenzia per le politiche attive del lavoro, smaschera definitivamente l'evidente stortura del reddito di cittadinanza e del ruolo inconcludente dei tremila navigator. Nel decreto ristori bis si prevede una norma per ricentralizzare la gestione del Fondo sociale europeo per l'occupazione e snellire le procedure per l'incontro tra domanda e offerta lavorativa. Già, perché i risultati prodotti in due anni da Parisi sono tutt'altro che incoraggianti sia per chi il lavoro lo cerca ma anche per chi lo offre. Una testimonianza eloquente del problema generato con il reddito di cittadinanza arriva dal settore dell'ospitalità in tavola (il cosiddetto Horeca): «C'è un problema nel problema di cui nessuno ha ancora parlato e mi riferisco al personale di sala e di cucina difficilissimo da trovare ora che ristoranti, bar, pizzerie e cocktail bar si apprestano a riaprire a pieno regime. Il reddito di cittadinanza, come il sussidio di vario tipo funge da deterrente occupazionale per i giovani e meno giovani, che preferiscono continuare a percepirlo e, quando si presentano ai colloqui, chiedono di lavorare in nero. In ogni caso ci pensano due volte prima di entrare o rientrare nel mondo del lavoro. Non solo. Le eventuali esperienze occupazionali degli studenti diventano irrealizzabili, perché questi ultimi chiedono di lavorare saltuariamente, senza impegno, e quindi non possono essere inquadrati. Troppo assistenzialismo in questo senso fa male, incentiva la disoccupazione e soprattutto la richiesta di lavoro in nero, mettendo in difficoltà i piccoli imprenditori» è la chiosa di Paolo Bianchini presidente di Mio Italia, Movimento imprese ospitalità. I dati reali racconterebbero di giovani percettori dei 780 euro canonici che si rifiutano di fare i camerieri per 1.500 euro mensili, oppure i cuochi per 2.500. Altrettanto però agognerebbero un lavoro saltuario, magari nei fine settimana e in nero per arrotondare. Il tipo generico di cui si accenna è tra i 30 e i 35 anni, diplomato e che da almeno tre anni non è stato occupato se non in maniera irregolare. Costui ha oramai acquisito la patente per appartenere alla schiera dei fannulloni a vita. Tra i nodi da sciogliere ereditati dalla gestione Parisi anche quello dell'eventuale corsia preferenziale per essere assunti a tempo indeterminato nei centri per l'impiego regionali a pieno titolo. Ovvio però che la modalità di supporto per i nuovi portali lavoro dovrà essere palesemente rinnovata. A oggi dagli stessi dati Anpal viene fuori una situazione decisamente penosa: l'esercito di 2.980 navigator, che ha pesato sull'erario oltre 6 milioni di euro al mese, ha generato l'assunzione di 423 persone che a oggi sono state ricollocate in seguito ai colloqui avvenuti. Rimangono al palo 1 milione e 650 mila percettori di reddito di cittadinanza che non hanno fatto nemmeno il colloquio preliminare al telefono o ricevuto una mail per un primo contatto. Considerando peraltro che in questo anno e mezzo neppure sono state potenziate le strutture digitali dei centri per l'impiego tanto meno attivata la tanto promessa App. Risultati devastanti che inducono a pensare a un doveroso repulisti: c'è anche chi sussurra che dopo la cacciata di Parisi sarà la volta del professore Pasquale Tridico dall'Inps. Tanto per ridimensionare la rosa dei Cinquestelle.

Carenza stagionali, De Luca contro il reddito di cittadinanza: “Se mi dai 700 euro non mi alzo all’alba per lavorare”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 14 Maggio 2021. I lavoratori stagionali scarseggiano e il governatore della Campania Vincenzo De Luca punta il dito contro il reddito di cittadinanza. “Se tu mi dai 700 euro al mese e io mi vado a fare qualche doppio lavoro non ho interesse ad alzarmi la mattina alle 6 per andare a lavorare in un’industria di trasformazione agricola” chiosa lo “Sceriffo” nel corso della consueta diretta Facebook del venerdì. “Mi è stato confermato che alcune attività commerciali non apriranno, anche quando sarà consentito, perché – spiega – per le attività stagionali non si trova più personale, non si trovano più camerieri. Già lo scorso anno nell’industria conserviera non si trovavano stagionali. È uno dei risultati paradossali dell’introduzione del reddito di cittadinanza”. De Luca ricorda i numerosi episodi di furbetti, o pseudo tali, che percepivano il sussidio introdotto dal Movimento 5 Stelle (“aboliremo la povertà” annunciò qualche anno fa Luigi Di Maio) mentre svolgevano contemporaneamente altri lavori (anche illegali, come l’attività di spaccio). “A volte – sottolinea – c’è gente che prende il reddito di cittadinanza e va a lavorare a nero. Si sono create delle anomalie, degli imbrogli, come sempre accade in Italia, che finiscono per danneggiare l’economia del nostro Paese. Noi – dice il governatore – abbiamo il dovere di garantire il reddito alla povera gente e a chi non ce la fa, ma dobbiamo garantire il reddito familiare evitando il paradosso di arrivare al punto di non avere più lavoratori stagionali”. Sulla gestione finale del concorsone della Regione Campania De Luca attacca il Governo e nello specifico Renato Brunetta, ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione della Repubblica Italiana. Da una parte la richiesta del governatore e dei sindacati di assumere i circa 1800 tirocinanti che hanno sostenuto le due prove scritte del corso-concorsone per poi effettuare 10 mesi di formazione professionale presso i comuni (formazione gestita dal Formez). Dall’altra la decisione di Brunetta di far sostenere una nuova prova scritta a giugno perché per la commissione ministeriale si tratterebbe dell’unica prova scritta di tutto il concorso, come prevede l’articolo 97 della Costituzione, perché le due precedenti davano accesso alla formazione professionale di 10 mesi retribuita. “Sul concorso varato dalla Regione Campania sono state dette delle autentiche idiozie, anche da qualche notabile che si ritiene esonerato dal dovere di parlare di quelle cose che conosce, non delle cose che non conosce” commenta De Luca.  “La Campania ha varato 3 anni fa un concorso per mettere a lavorare i giovani in centinaia di Comuni e nella pubblica amministrazione della nostra regione. La cosa incredibile è che, mentre il Governo dice che dobbiamo accelerare le procedure e immettere i giovani nella pubblica amministrazione con una sola prova scritta, poi continuiamo a perdere tempo sui quasi 2mila giovani che in Campania hanno fatto due prove scritte e poi hanno fatto 10 mesi di formazione professionale presso i Comuni gestita dal Formez”. De Luca ha spiegato che “hanno presentato questo concorso della Regione Campania come una delle vecchie cose del Sud. Questo è l’unico concorso serio, rigoroso, con due prove scritte che si sia fatto in Italia in questi anni. Quindi, quando chiediamo di mandare a lavorare subito questi giovani, lo facciamo perché diventa paradossale che il Governo per un verso dica mandiamo a lavorare chi fa una sola prova scritta, poi chi fa due prove scritte debbano perdere ancora tempo. Mi auguro ovviamente che questo paradosso sia risolto dal Governo e che su questo intervenga e dica qualcosa anche il Ministero del Lavoro, oltre al Ministero della Funzione pubblica”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2021. Domenico Parisi non è un personaggio di fantasia: è realmente esistito, anzi esiste, risponde al telefono. Figura emblematica, tragica, di efferata simpatia. Amico caro di Luigi Di Maio. «Con Giggino ci sentiamo sempre... e però no, non mi ha detto niente: che succede?» (seguirà strepitosa seconda telefonata). La notizia è questa: Mario Draghi e il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) stanno per farlo fuori, lo sollevano dall' incarico di presidente e si apprestano a commissariare l' Anpal, l' Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (avrebbe avuto il compito di realizzare la parte finale del visionario progetto pentastellato: trovare un' occupazione a chi percepisce il reddito di cittadinanza utilizzando i mitologici tremila navigator - tipi assunti con il bacio della fortuna a 1.600 euro netti al mese, più i 600 di bonus previsti dalla crisi Covid). Flashback. Palazzo Chigi, 27 settembre 2018, notte. Sotto, nella piazza, i parlamentari grillini in sit-in: eccitazione diffusa, grida di evviva e bandiere, Vito «Orsacchiotto» Crimi addirittura con il figlio in carrozzina. Sopra, affacciati al balcone, a quel balcone, i ministri 5 Stelle in festa scomposta: Danilo Toninelli con le dita della mano a V come Winston Churchill, e accanto Barbara Lezzi che saltella scatenata (sì, anche lei è stata ministro), e l' allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, già noto come dj Fofò, che incita a fare pure più baldoria, e poi al centro, per una volta meno perfettino del solito, addirittura scravattato, Luigi Di Maio, che urla la celebre sconcertante frase: «Abbiamo abolito la povertà!». Rientrando in Consiglio dei ministri, Toninelli - tornato in sé - chiede a Di Maio: «Scusa, mi sfugge un dettaglio: ma poi chi troverà un posto di lavoro ai milioni di italiani che percepiranno il reddito di cittadinanza appena annunciato?». Di Maio aveva già la soluzione: ecco allora entrare in scena un suo amico che, per una volta, non sarebbe arrivato con il solito charter proveniente da Pomigliano d' Arco, ma avrebbe viaggiato in business class (a spese nostre) dalla Mississipi State University. Eccolo Domenico Parisi detto «Mimmo» o anche «CowBoy», di anni 55 anni, guru italoamericano del reinserimento nel mondo del lavoro. Consueto giro di interviste piene di promesse, titoli, passaggi nei tigì. Ma dopo tre mesi - tre mesi, eh - il presidente Parisi si accorge che le sue creature mitologiche, i cosiddetti navigator, sono ferme ai Bastioni di Orione, perché la app che dovrebbero usare non c' è, non esiste, sebbene valga 25 milioni di soldi pubblici. In un Paese appena normale, la storia si sarebbe conclusa qui. Dimissioni in serie, e una Procura che magari avrebbe potuto decidere di capirci qualcosa. Invece Parisi, tutto tranquillo, aggiunge: «Tra l' altro a me risulta che sui sistemi informativi di milioni ne sono stati impegnati 80, e mi chiedo: che fine hanno fatto?». Una domanda simile, pochi giorni dopo, la pongono però pure a lui: tre lettere (due firmate da altrettanti dirigenti dell' Anpal e un' altra dalla commissione Lavoro della Conferenza delle Regioni) lo accusano di «mancata rendicontazione delle spese personali» - oltre 160 mila euro. Reggetevi. Qui la storia diventa notevole. Mimmo il Cow-Boy non avrebbe giustificato un conto così: 71 mila euro per viaggi Roma-Mississipi in business class; 55 mila per noleggio auto con autista; 32 mila per l' affitto di un appartamento ai Parioli; 5 mila per spostamenti in Italia; 3 mila per pasti. È il 13 giugno scorso: Parisi inciampa in qualche congiuntivo nel suo italiano incerto, ma ha una meravigliosa faccia tosta. «Certo che vado avanti e indietro con il Mississipi. Mia moglie vive lì, Di Maio lo sapeva, mica posso separarmi». «In un' audizione, alla Camera, ho detto che volo in business per colpa del mal di schiena. Sono stato sciocco, volevo giustificarmi. Invece è un mio diritto». «Dissi a Di Maio: Giggino, amico mio, lascio una cattedra universitaria prestigiosa, non posso rimetterci. Me li dai 240 mila euro? Lui rispose: tranquillo, Mimmo, non c' è problema. Alla fine sono purtroppo rimasto fermo a 160, ma mi accontento». Un personaggione. Anche in queste ore. Allora: prima non sapeva niente, Di Maio non gli aveva detto ancora niente, «Sorry, ora m' informo». Poi, due ore dopo, sempre al telefono, sentite che roba. «Ho saputo, ci ho pensato: fanno bene».  A far cosa? «A commissariare l' Anpal». Ma come? È l' agenzia che dirige... «Sì, però ho capito che il ministro Orlando vuol fare tutto come si deve. Lo capisco, sono d' accordo con lui». Ammette di aver fallito?«Io proprio no. È l' Anpal che non funziona». E lei, adesso? Tornerà in Mississipi? «Io aspetto». Ha riparlato con Di Maio? «Giggino è sensibile, lui sa come stanno le cose» (e però, Santo Cielo, questi guru italoamericani come sono allusivi, no?).

La parabola del fedelissimo di Luigi Di Maio. Mimmo Parisi "fatto fuori" dall’Anpal: il “padre” di Reddito di cittadinanza e navigator verso il commissariamento. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Mimmo Parisi dovrà lasciare la poltrona di direttore dell’Anpal, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando sta lavorando infatti ad un provvedimento che porterà il Governo Draghi a commissariare l’Ente guidato dal febbraio 2019 da Parisi, italo-americano piazzato dall’allora leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. Il provvedimento sarà inserito all’interno del decreto Sostegni bis e l’obiettivo del commissariamento è quello di allineare la sua governance a quella delle agenzie fiscali, con a capo un direttore e non più un presidente, ma soprattutto senza CdA e direttore generale. A Parisi, come noto, era stata affidata la ‘macchina’ del Reddito di cittadinanza e dei navigator che avrebbe dovuto trovare lavoro a chi percepiva il Rdc, due ‘simboli’ per i pentastellati che però alla prova dei fatti hanno funzionato poco o niente: in particolare Parisi, professore del Mississippi, sconta il fallimento dell’operazione navigator e dell’incapacità dei 3mila “fortunati” di avere un ruolo nelle politiche attive del lavoro. Un siluramento di cui si ‘chiacchiera’ da tempo e che pare ormai ad un passo. Ma Parisi, contattato da Repubblica, sembra cadere dalle nuvole. “Sono all’oscuro di tutto, nessuno mi ha avvertito”, spiega il prof italo-americano, che avverte: “Se però fosse vero, si tratta di una decisione politica grave”. E a dispetto dei numeri che ad oggi parlano di un flop, Parisi rilancia: “Tra una settimana usciranno numeri favolosi sul Reddito di cittadinanza e sulle ricollocazioni”. In realtà nelle scorse settimane la nota periodica sul Reddito di cittadinanza pubblicata dall’Anpal mostrava numeri di ben altro tenore. L’Agenzia metteva nero su bianco come su una platea di un milione e 650 mila percettori di Reddito di cittadinanza, risultano solo 969 assegni di ricollocazione (pari allo 0,058%) di cui meno della metà attivati, 423 (lo 0,025%). Ma l’uomo di Luigi Di Maio, che rivendica anche oggi di avere col ministro degli Esteri “un rapporto bellissimo, ci sentiamo regolarmente”, paga anche per l’inchiesta della Corte dei Conti sulle cosiddette “spese pazze”. I giudici stanno infatti indagando sulle nomine interne all’Agenzia, sugli aumenti di stipendio e quattro dirigenti di primo livello e sui 70mila euro spesi nel 2019 per voli in business class (“perché soffro di mal di schiena”, si era giustificato Parisi, ndr), per fare avanti e indietro tra Italia e Stati Uniti.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

Giusy Franzese per "il Messaggero" il 10 febbraio 2021. Hanno protestato dandosi appuntamento nelle piazze di tutte le più grandi città italiane, da Torino a Napoli, da Roma a Milano, da Bari a Palermo. Raccogliendo la solidarietà dei principali sindacati. A fine aprile il loro contratto scadrà, la ministra dimissionaria del Lavoro Nunzia Catalfo, aveva promesso una proroga almeno fino al termine dell'anno: una soluzione che - diciamocelo - non risolveva proprio nulla se non quello di far spendere alle casse dello Stato 38 milioni di euro in aggiunta alle svariate centinaia già spese tra periodo di formazione e buste paga. Risultati ottenuti: quasi zero. Stiamo parlando dei navigator, mitiche figure che secondo i Cinquestelle avrebbero trovato lavoro a milioni di disoccupati beneficiari del Reddito di cittadinanza. Non è andata così. Anche se ora i 2.700 navigator (erano tremila, ma 300, fiutata l' aria, hanno preso al volo altre occasioni di lavoro) tentano disperatamente di dire il contrario sperando che qualcuno ci creda e arrivi l'agognato rinnovo del contratto da 1.700 euro al mese (1.400 di stipendio e 300 di rimborso spese). I dati parlano chiaro: su un milione e 25.000 beneficiari del Reddito di cittadinanza occupabili, i navigator sono riusciti a fare le presa in carico con la sottoscrizione del Patto per il lavoro soltanto del 39,2% del totale. Ovvero poco meno di 402.000 persone. Lo si evince dalle tabelle dell' Anpal (l' agenzia nazionale per le politiche attive guidata dal professor Mimmo Parisi che ha assunto i navigator dislocandoli poi nei vari centri per l'impiego) relative a ottobre 2020. Le ultime pubblicate. Nei mesi successivi la situazione dovrebbe essere migliorata: i dati ufficiali non ci sono ancora ma alla stessa Anpal dicono che al 31 dicembre 2020 le persone chiamate per uno o più colloqui dai navigator sono state 710.000 su una platea di beneficiari del sussidio occupabili che nel frattempo ha superato quota 1.300.000. Se i dati saranno confermati significa che la metà delle persone con i requisiti per l' occupabilità a fronte di un sussidio percepito regolarmente tutti i mesi non solo non ha trovato alcun lavoro, ma non ha nemmeno sostenuto il colloquio iniziale con i navigator.

I CONTRATTINI. Soltanto il 33% di coloro che ha sottoscritto il Patto poi ha trovato un lavoro. Il 33% di 710.000 presi in carico vuol dire 234.000 persone. Parisi in audizione della Camera a novembre scorso ha parlato di oltre 352.000 contratti cumulati nel tempo; attivi 192.851 al 31 ottobre. Tradotto: la maggior parte dei pochi contratti trovati era a termine e di questi il 70% era inferiore ai 6 mesi. Magari anche solo di un mese o due. Solo una quota pari al 9,3% supera la soglia dell' anno. Ecco, questo è il resoconto del contributo dei navigator. Loro in piazza lo hanno definito eccellente, ma a conti fatti non sembra proprio. C' è da dire una cosa però che va a discolpa di questi ragazzi (tutti laureati con ottimi voti): hanno iniziato a essere operativi a dicembre 2019, ma il Covid li ha costretti a lavorare in smartworking e a sospendere i colloqui da marzo 2020 fino al 17 luglio compreso.

LE DIFFICOLTÀ. C'è poi un altro motivo che li scagiona del tutto: è il grado di istruzione delle persone alle quali dovrebbero trovare un lavoro, che è bassissimo. Secondo le tabelle Anpal, il 70,9% ha al massimo la terza media, il 26,4% ha un diploma delle superiori, il 2,6% la laurea. Con una platea così, in un momento in cui l' economia è bloccata causa pandemia, occorre riconoscere ai navigator che gli è stata affidata una sorta di mission impossible. A maggior ragione se poi - atavico problema dei centri per l'impiego italiani - spesso non c'è dialogo e scambio dati nemmeno tra i centri di province confinanti. Tutto questo giustifica un rinnovo/proroga del contratto? Deciderà Draghi. Qualche spiraglio potrebbe aprirsi se si dovesse andare avanti con il progetto di assumere 11.600 persone nei centri per l'impiego. In questo momento non sembra siano previsti punteggi in più per i navigator. E questo forse, d' accordo con le Regioni, potrebbe essere corretto.

PAOLO BARONI per la Stampa il 12 settembre 2021. L'ultima parola «ufficiale» sui destini di Quota 100 l'ha spesa giusto lunedì scorso il ministro dell'Economia. Commentando la richiesta dell'Ocse di cancellare sia l'anticipo pensionistico che «Opzione donna», per ridurre l'onere della nostra spesa pensionistica, Daniele Franco ha confermato che a fine anno l'anticipo pensionistico (uscita a 62 anni con 38 anni di contributi) varato nel 2019 dal governo Conte1 «verrà lasciato scadere». Ma è un dato di fatto che Quota 100, che sta alla Lega come il reddito di cittadinanza sta ai 5 stelle, non abbia prodotto i risultati attesi. Lo conferma uno studio super partes pubblicato ieri dall'Osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli. «Il numero complessivo di beneficiari attesi - scrivono Edoardo Bella e Luca Brugnara autori della ricerca - è stato stimato attorno 290 mila unità nel 2019, per poi raggiungere le 356 mila unità nel 2021 e infine decrescere sino a 155 mila nel 2028», «tuttavia, le domande di pensionamento accolte nel biennio 2019-2020 sono state inferiori al previsto: l'accesso a Quota 100 è stato riconosciuto a poco più di 193 mila lavoratori nel 2019 (-33,4% rispetto a quelli attesi) per poi raggiungere le 266 mila unità nel 2020 (-18,7%). In termini di nuove adesioni, nel 2020 si sono però avuti più pensionamenti di quelli previsti (73 mila, invece di 37 mila), forse perché alcuni lavoratori - notano Bella e Brugnara - che potevano andare in pensione nel 2019 hanno usufruito del beneficio solo nel 2020». Stando agli ultimi dati raccolti dall'Inps che la Stampa è in grado di anticipare, a tutto luglio le domande accolte nel complesso sono salite a quota 334.757 (162.413 lavoratori del settore privato, 106.037 dipendenti pubblici e 66.307 autonomi). Le adesioni, insomma, sono migliorate un po' ma restano sempre molto lontane dagli obiettivi indicati nel 2019 dal governo giallo-verde che sfioravano il milione in tre anni. Anche il target dei beneficiari, come ha spiegato anche il presidente dell'Inps Pasquale Tridico in occasione della relazione annuale, non è stato esattamente centrato: la misura è infatti stata utilizzata prevalentemente da uomini, con redditi medio-alti e con una incidenza percentuale maggiore nel settore pubblico. Mentre nel settore privato ne ha approfittato soprattutto chi aveva problemi di salute. Dettaglia lo studio del Cpi: «Le donne hanno utilizzato meno quota 100: il 28,8% di tutte le domande accolte al 2020 provengono da lavoratrici, mentre il lavoro femminile rappresenta il 42,5% del totale degli occupati». I lavoratori pubblici «hanno utilizzato Quota 100 più di quelli privati: il 30,9% delle domande proviene da dipendenti pubblici, più del doppio rispetto alla loro quota sul totale degli occupati (14%)». Altro flop, quello del turn-over. «In media per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti solo 40: il tasso di sostituzione è stimato essere stato dello 0,4 in ognuno dei tre anni di applicazione di Quota 100» certifica l'Osservatorio della Cattolica. Al momento del lancio dell'anticipo pensionistico sia Di Maio che Salvini erano invece arrivati ad azzardare un ricambio uno a uno, se non di più. «Col superamento della Fornero ci saranno decine di migliaia di posti di lavoro» aveva proclamato il segretario della Lega. È vero che nel frattempo è esploso il Covid, ma anche in questo caso non si arriva alla metà dell'obiettivo che avevano indicato i due vicepremier del Conte 1. Volendo rigirare la frittata ci si può consolare con l'andamento dei conti: il costo cumulato della proposta iniziale fino a 2028 era pari a 46,3 miliardi (3,7 miliardi nel 2019, per poi raggiungere un picco di 8,3 miliardi nel 2021 e quindi decrescere fino a 1,5 miliardi nel 2028), ma le minori adesioni lo hanno ridotto di un buon terzo (-33,8% nelle stime del Cpi) fermando i conteggi a quota 30 miliardi. Che comunque rappresenta un onere di tutto rispetto. Tant' è che l'Ocse ci ha suggerito di «lasciar scadere Quota 100 per contenere la spesa pensionistica».

Paolo Baroni per “la Stampa” il 5 febbraio 2021. Sono passati poco più di quattro mesi da quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha messo la parola fine a Quota 100. «È un progetto triennale di riforma che veniva a supplire a un disagio sociale. Non è all'ordine del giorno il suo rinnovo» aveva annunciato il premier a fine settembre, troncando un tira e molla che durava da settimane. Le ragioni di questa scelta le aveva spiegate pochi giorni prima il ministro dell' Economia Roberto Gualtieri parlando di «utilizzo non saggio delle risorse, perché concentrato su una platea ristretta quando esistono tanti problemi. Finisce tra poco e, fortunatamente, ha avuto un costo minore del previsto - aveva poi aggiunto - perché non ha funzionato nemmeno tanto bene». Una misura bandiera Quota 100 sta alla Lega come il Reddito di cittadinanza sta ai 5 Stelle. È normale che Salvini continui a difendere la sua creatura, un meccanismo introdotto nel 2019 e che sino a tutto il 2021 consente di andare in pensione sommando 38 anni di contributi ai 62 anni di età, anziché i 67 previsti oggi dalla legge Fornero. Ed ora che si discute su come comporre la nuova maggioranza che sosterrà il governo Draghi, il leader della Lega sul tavolo della trattativa, oltre alla famigerata «flat tax», mette ovviamente anche Quota 100. «A Draghi chiederei se vuole tornare a legge Fornero o Quota 100» continua a ripetere Salvini, che ora ne fa «una questione di libertà economica», un modo per «sbloccare le imprese». Non la pensa però allo stesso modo però Confindustria: per il presidente Carlo Bonomi Quota 100 è infatti «una misura che serve solo ad appesantire il debito pubblico» e «che aggrava l' ingiustizia verso i più giovani». Di fatto un spreco, come ha sempre sostenuto ad esempio anche Matteo Renzi. Di certo, visto che al 2030 ci costerà la bellezza di 40 miliardi di euro, non piace nemmeno ai «guardiani dei conti», tema che trova certamente molto attento Draghi e categoria alla quale oltre a Gualtieri vanno iscritte anche la Banca d'Italia (il governatore Visco da subito ha espresso «riserve» su questa misura) e la Commissione europea. Che ancora di recente, lamentando l' assenza di riforme all' interno del Recovery plan, ci ha chiesto «di attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica». Ma Quota 100 ha funzionato o no? Se guardiamo ai numeri, non ha funzionato granché perché, complici le penalizzazione che al momento del lancio erano state taciute, rispetto al milione di beneficiari previsti nel triennio si arriverà a circa un terzo. Secondo le elaborazioni di «Itinerari previdenziali» a poco più di metà del triennio (settembre 2020) all' Inps sono arrivate in tutto circa 313 mila domande (92.200 da parte di donne e 221 mila di uomini) e ne sono state concesse 242 mila (69.600 donne, 172.600 uomini). E poi non ha nemmeno prodotto l'assunzione di quei 300 mila giovani all' anno che si aspettava il governo giallo-verde, perché semmai i giovani - come notava giusto ieri il presidente della Fondazione Adapt Francesco - 300 mila posti in questi ultimi due anni li hanno persi. «Non è vero che Quota 100 non ha funzionato - spiega il segretario confederale della Uil Domenico Proietti -. Ha funzionato, ma non poteva che avere una portata limitata perché per accedervi occorre centrare un ambo secco, 62 anni di età e 38 di contributi». Parere articolato anche quello di un altro grande esperto del settore come il presidente di Itinerari previdenziali Alberto Brambilla. Che spiega: «Quota 100 è una risposta incompleta all'eccessiva rigidità della legge Monti-Fornero che consentiva di andare in pensione solamente con 67 anni di età e con 42-43 anni di contributi. I numeri ci dicono che non ha riscosso un grandissimo successo, anche perché ci sono anche altre possibilità per lasciare il lavoro in anticipo: c'è l' Opzione donna, gli sconti per i lavori gravosi e ci sono state ben 9 salvaguardie per gli esodati». Le modifiche in cantiere Il superamento di Quota 100, prima che scoppiasse la crisi, era uno dei capisaldi della riforma a cui il governo giallo-rosso stava lavorando. Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo aveva insediato una serie di tavoli tecnici, compreso quello sulla separazione tra previdenza e assistenza, che sarebbe servito a dimostrare una volta per tutte all'Europa che il costo delle nostre pensioni è ben più basso di quel che si pensa. Per Proietti si stava ragionando su «una flessibilità più diffusa, a partire dalla soglia dei 63 anni (che è poi la media europea), differenziando da lavoro a lavoro e tenendo in considerazione mansioni gravose ed usuranti, fissando poi a 41 anni di contributi il requisito per lasciare comunque il lavoro a prescindere dall' età». «Se c' è la buona volontà il nuovo governo potrebbe fare tutto in un mese - spiega a sua volta Brambilla -. Perché è tutto scritto. La legge Fornero va modificata in tre punti: occorre bloccare a 41/42 anni l' anzianità contributiva, bisogna uniformare le regole assicurando anche ai giovani assunti dopo il 1996 lo stesso trattamento di tutti gli altri. E poi da Quota 100 si potrebbe passare a Quota 102. E sono convinto che anche Salvini darebbe l' ok».

Luca Monticelli per “la Stampa” il 5 febbraio 2021. In una calda serata di settembre, due anni e mezzo fa, Luigi Di Maio e tutti i ministri pentastellati del Conte 1 salirono sul balcone di Palazzo Chigi festeggiando come se l' Italia avesse vinto il mondiale. Sotto di loro un gruppo di parlamentari con le bandiere del Movimento annunciavano «la fine della povertà». Era appena terminata una riunione dell' esecutivo gialloverde che dava il via libera in legge di bilancio al reddito di cittadinanza e a quota 100. Sappiamo cosa è successo dopo. C' è stato il Papeete, il Conte 2, la crisi aperta da Renzi e ora Mario Draghi e forse un governo di salvezza nazionale. Proprio il reddito di cittadinanza è uno dei temi sul tavolo del presidente incaricato. Costa allo Stato circa 8 miliardi l' anno ed è stato uno dei nodi impossibili da sciogliere che hanno contribuito a far saltare il Conte ter. Per Renzi, il provvedimento bandiera dei 5 stelle, così come l' Anpal, l'Agenzia delle politiche attive per il lavoro guidata da Domenico Parisi, andavano ridimensionati. Adesso è il leader di Confindustria Carlo Bonomi che, intervistato da questo giornale, chiede di superare la misura simbolo voluta da Beppe Grillo. Cosa ne pensa Draghi? Al meeting di Rimini disse che un reddito di base serve come «una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire». Ai giovani però occorre dare di più. Che il reddito di cittadinanza abbia bisogno di una riforma (per aiutare le persone a entrare nel mondo del lavoro) ormai lo pensano pure i 5 stelle. Pasquale Tridico, presidente dell' Inps, uno dei padri del sussidio, spiega a La Stampa: «Il reddito di cittadinanza ha un ruolo fondamentale per il contrasto alla povertà, e soprattutto nella fase Covid ha agito come sostegno al reddito per milioni di persone. Tuttavia le politiche dovrebbero in questo momento concentrarsi anche sulla domanda di lavoro, perché in questa fase è fortemente contratta, e quindi sugli investimenti, accompagnati da politiche attive». Come funziona il Rdc Introdotto con un decreto il 29 gennaio del 2019 è rivolto ai nuclei familiari con un Isee inferiore ai 9.360 euro, un patrimonio immobiliare sotto i 30 mila euro (esclusa la prima casa) e che non risultino intestatari di auto o moto di grande cilindrata. Chi ha più di 67 anni può richiedere la pensione di cittadinanza. Per ricevere l' assegno bisogna essere italiani, cittadini dell' Unione europea o in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo. Nella domanda, tra i requisiti economici c' è un tetto sul patrimonio mobiliare che va dai 6 mila ai 10 mila euro, viene ampliato in presenza di figli o disabili a carico. Il reddito di cittadinanza è erogato dall' Inps su una carta di pagamento elettronica ed è concesso per 18 mesi, trascorsi i quali può essere rinnovato dopo la sospensione di un mese. L' importo annuale che può percepire un single non va oltre i 9.360 euro, ossia 780 euro mensili. L' assegno è costituito da due componenti: una di integrazione al reddito (variabile in base al numero delle persone a carico) e l'altra (fissa) come contributo per pagare l'affitto di casa e arriva a 280 euro al mese. Questo secondo aiuto non viene versato a chi è proprietario di un' abitazione. Per calcolare la parte variabile del sussidio c'è una "scala di equivalenza" che può portare a un massimale di 13.200 euro annui se il nucleo familiare è composto da 4 adulti (o tre adulti e due minori, tra cui un disabile grave). Nel 2020 il sostegno economico ha raggiunto oltre 1,5 milioni di famiglie, ossia 3,1 milioni di persone. L'ultimo dato pubblicato dall' Inps si riferisce a dicembre scorso e attualmente registra 1,25 milioni di nuclei familiari beneficiari di reddito o pensione di cittadinanza, con 2,9 milioni di persone coinvolte. L'importo medio erogato è di 528 euro (573 euro il reddito e 253 la pensione). Il 61% delle famiglie con il 65% delle persone coinvolte (1,8 milioni di cittadini) risiede al Sud e nelle isole. Nel 34% dei nuclei è presente almeno un minore, con un importo medio mensile di 647 euro, mentre nel 17% c' è un disabile e si arriva a 518 euro. Solo il 15% intasca 800 euro. Per ricevere il reddito di cittadinanza bisogna firmare "un patto per il lavoro e l' inclusione sociale" e rendersi disponibili per attività di servizio alla comunità, per la riqualificazione professionale e l' inserimento nel mondo del lavoro. L' Anpal ha assunto tremila "navigator" che avrebbero dovuto supportare i Centri per l' impiego regionali nella ricerca di una occupazione, ma i risultati aggiornati a novembre sono deludenti: solo 193 mila persone hanno trovato un posto. Ogni beneficiario ha l' obbligo di accettare una delle tre offerte di lavoro proposte (con dei parametri in base alla distanza dal domicilio e a secondo delle competenze), ma la gran parte delle persone non ne ha ricevuta nessuna. La crisi innescata dal covid ovviamente non ha fatto che peggiorare questa situazione. Infine il capitolo dei controlli, altro motivo di polemiche. Finora l' Inps e la Guardia di finanza hanno scoperto 48 mila furbetti che incassavano i soldi senza avere i requisiti.

Gli "imbroglioni" del Reddito di cittadinanza, in 146 scoperti a Napoli: dovranno restituire tutto. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2021. Su 307 persone sottoposte a misure precautelari, 146 hanno beneficiato illecitamente del reddito di cittadinanza per una percentuale pari quasi al 50 per cento. È il risultato del monitoraggio, condotto solo per il mese di febbraio, messo a punto dai carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro di Napoli per controllare i percettori della misura fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle durante il primo governo Conte. Dal comando provinciale dei carabinieri di Napoli fanno sapere però che anche dagli accertamenti in corso al mese di marzo il trend “sembra essere simile”. I carabinieri hanno segnalato all’Autorità giudiziaria i casi analizzati per richiedere l’interruzione del beneficio. Il maggior numero di segnalazioni è localizzato nell’area che comprende la città di Torre Annunziata e comuni limitrofi (Ottaviano, Pompei, Boscoreale, San Giuseppe vesuviano, Terzigno) con 54 segnalazioni. Segue l’area che comprende i quartieri di Vomero, Arenella, Capodimonte, Marianella con 44 segnalazioni e al terzo posto i quartieri napoletani di Scampia e Secondigliano con 22 segnalazioni. Le disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza prevedono infatti la sospensione del reddito, con un provvedimento del giudice, nei confronti del beneficiario o del richiedente cui è applicata una misura cautelare. Questo avviene anche dopo la convalida dell’arresto o del fermo. La legge prevede anche dei meccanismi di rideterminazione degli importi del reddito di cittadinanza a carico del beneficiario qualora, all’interno del suo nucleo familiare, ci sia una persona sottoposta a misura cautelare. Per questo motivo, il comando provinciale dell’Arma di Napoli ha disposto a tutti i comandi e reparti dell’intera provincia partenopea di effettuare accertamenti economici sul conto delle persone sottoposte a misure precautelari (gli arrestati e i fermati).

Reddito di cittadinanza ai migranti del centro di accoglienza: la scoperta dei carabinieri di Potenza. Luisa Perri domenica 24 Gennaio su Il Secolo d'Italia. Ricordate la balla dei 5 Stelle e del Pd sugli immigrati che non potevano ottenere il reddito di cittadinanza? Ogni giorno la cronaca li sconfessa, ma si guardano bene dal commentare. Anzi, su questi percettori indebiti, cala una cappa di silenzio omertoso. Anche stamattina, arriva una nuova ondata di denunce. Stavolta dalla Basilicata. I carabinieri del comando provinciale di Potenza hanno scoperto 5 immigrati extracomunitari che hanno percepito il reddito di cittadinanza senza avere i requisiti previsti dalla legge. Gli uomini dell’Arma hanno infatti effettuato delle verifiche incrociate. A quel punto, hanno scoperto le violazioni in cinque casi. In particolare, due immigrati vivevano a San Fele e tre abitavano a Ruoti. A San Fele un migrante di 40 anni e una di 53 anni hanno presentato false attestazioni. In particolare, la migrante ha falsificato il periodo relativo alla sua permanenza sul territorio nazionale. Formalmente, infatti, bisogna risiedere in Italia da un certo numero di anni prima di poter chiedere il reddito di cittadinanza. La donna ha dichiarato il falso, anticipando il suo periodo di permanenza in Italia. In questa maniera, è riuscita così a percepire indebitamente 2.500 euro. A Ruoti, hanno fatto la stessa cosa tre migranti di età compresa fra i 23 e i 29 anni.  Due donne di 23 e 26 anni, ed un ragazzo 29enne. I tre, che alloggiano in un centro di accoglienza della zona, hanno dichiarato il falso con lo stesso trucchetto. Non hanno infatti comunicato all’Inps di essere residenti in Italia da meno di dieci anni. Hanno intascato così, senza averne alcun diritto, la somma complessiva di 16.500 euro circa. Nel dettaglio, ciascuna delle giovani ha ricevuto poco più di 6.390 euro, dal mese di febbraio 2020 ad oggi, mentre l’uomo ha percepito 3.730 euro circa, dal luglio 2020 alla data odierna.

(ANSA il 27 gennaio 2021) La guardia di finanza del comando provinciale di Catania ha denunciato 78 persone che avrebbero percepito, senza averne titolo, il Reddito di cittadinanza, per un danno alle casse dello Stato da 1,2 milioni di euro. Tra loro un giocatore amante delle scommesse online illegali che ha vinto oltre mezzo milione di euro, il destinatario di un'eredità da 400 mila euro, il proprietario di quattro appartamenti, un magazzino e di un'autorimessa, pregiudicati per reati mafiosi e lavoratori "in nero". Tra quest'ultimi anche persone che si sono licenziate per potere percepire illecitamente il sussidio. Le truffe sono state scoperte da accertamenti avviati da militari della compagnia della guardia di finanza di Catania in stretta collaborazione con l'Inps. Ai 78 “furbetti” del Reddito di cittadinanza, indagati anche per falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, è stata sospesa l'erogazione del beneficio. Seguirà l'iter per il recupero delle somme illecitamente percepite. La loro posizione è al vaglio della Procura distrettuale etnea.

MAFIOSI CON IL REDDITO DI CITTADINANZA. Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 29 gennaio 2021. In garage hanno la Ferrari, ma nel portafoglio custodiscono la card del reddito di cittadinanza. Sono circa 48 mila i furbetti del sussidio intercettati finora da Inps e Guardia di Finanza: dal varo della misura si contano 41.500 revoche a sussidio già erogato per dichiarazioni mendaci sul patrimonio e sugli altri requisiti necessari all' ottenimento dell' aiuto rese in fase di presentazione della domanda, a cui si sommano altri seimila stop ai pagamenti per quei percettori che si sono dimenticati di avvisare l' Inps di aver raggiunto un reddito superiore alla soglia consentita o di essere stati condannati per un grave reato mentre incassavano il beneficio. Ma questa è solo la punta dell' iceberg. I controlli nelle ultime settimane si stanno intensificando: solo ieri a Napoli sono stati scoperti 120 percettori del sussidio condannati nell' ultimo decennio per associazione di tipo mafiosa che avevano falsamente autocertificato i requisiti per ottenere il reddito di cittadinanza e che complessivamente hanno incassato con il sussidio più di un milione di euro negli ultimi due anni. Oggi ammontano a 307 (su quasi tre milioni di percettori totali) le revoche del reddito di cittadinanza per condanne di mafia emerse dopo che la domanda era stata accettata. Nel 2019, anno in cui il reddito di cittadinanza ha preso il largo, le Fiamme Gialle hanno individuato 709 furbetti. A gennaio di quest' anno, invece, ne sono stati incastrati già un migliaio. Inoltre, grazie ai nuovi controlli incrociati che a partire da quest' anno l' Inps potrà eseguire sfruttando le banche dati dell' Aci, dell' Agenzia delle Entrate, del ministero della Giustizia (per i reati penali e le condanne) e delle Regioni, il numero dei furbetti del reddito di cittadinanza è destinato nei prossimi mesi a salire. L' Inps nelle ultime settimane avrebbe già iniziato a sbirciare nei garage dei beneficiari del reddito di cittadinanza per accertarsi che non vi siano supercar. Proprio nei giorni scorsi, a Brescia, le Fiamme Gialle hanno scoperto un consulente fiscale proprietario di una Ferrari 458 cabriolet che tra il 2019 e il 2020 ha percepito 14 mila euro di reddito di cittadinanza. In Sardegna, a Nuoro, sono stati appena scoperti 23 furbetti e tra questi c' era persino chi aveva omesso di dichiarare la proprietà di 60 appartamenti. A Locri, in Calabria, la settimana scorsa i controlli sulle dichiarazioni sostitutive uniche con dati falsificati hanno permesso d' individuare 237 soggetti, alcuni dei quali proprietari di ville e autovetture di lusso, che per anni hanno ricevuto il reddito di cittadinanza senza averne diritto. In questo caso il danno per le casse dello Stato ammonta a 870 mila euro. Oggi il sussidio dei Cinquestelle, che raggiunge 1,3 milioni di nuclei, costa poco meno di 700 milioni dal mese: ha prosciugato 11 miliardi di euro in quasi due anni e si prevede che nel 2021 possa impegnarne altri nove. Finché non sarà a regime l' interoperabilità delle banche dati i controlli verranno condotti in ordine sparso da lnps, Comuni e Guardia di Finanza. Solo nel 2019 l' Inps ha chiesto alle Fiamme Gialle di indagare su 600 mila percettori. A ogni beneficiario la Guardia di Finanza assegna un indice di rischio, dopodiché stabilisce la cronologia degli interventi da condurre per scovare le irregolarità. Ma la Guardia di Finanza non si limita a controllare solo i percettori segnalati dall' Inps: a questi si aggiungono altri beneficiari individuati nel corso di indagini che inizialmente non riguardano il reddito di cittadinanza. I controlli delle Fiamme Gialle tuttavia avvengono a valle, ovvero a erogazioni già avvenute, quando il danno ormai è fatto.

Da ansa.it il 26 gennaio 2021. La Procura di Brescia ha iscritto 23 persone nel registro degli indagati con l'accusa di aver indebitamente ottenuto il Reddito di cittadinanza. Nell'ambito dell'inchiesta, svolta dalla Guardia di Finanza, è emerso che i 23 coinvolti hanno percepito, senza averne titolo, erogazioni per oltre 180.000 euro. Un caso emblematico è quello scoperto dai militari della Compagnia della Guardia di Finanza di Brescia che, tra i beneficiari della misura di sostegno economico, hanno individuato un consulente fiscale che svolge la propria attività professionale tra la Svizzera e l'Italia. Il professionista, quarantaseienne bresciano, che promuove nei confronti di una clientela abbiente la propria attività professionale sui social network, ha richiesto il reddito di cittadinanza all'Inps, allegando all'istanza una Dichiarazione Sostitutiva Unica incompleta che, di conseguenza, ha prodotto un valore Isee falso. In questo modo il consulente è riuscito a percepire il sussidio mensile da maggio 2019 a novembre 2020, per un totale di oltre 14.000 euro. Dagli approfondimenti il professionista è risultato essere stato fermato alla frontiera con la Svizzera alla guida di una Ferrari 458 cabriolet presa a noleggio. Inoltre, proprio nel periodo in cui percepiva il reddito di cittadinanza ha conseguito vincite alle scommesse sportive 23 mila euro.

Girava in Ferrari con il reddito di cittadinanza: un nuovo campione dell'”abolizione della povertà”. Vito Califano su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. Girava con una Ferrari e percepiva il reddito di cittadinanza. Un altro caso emblematico di quell’“abbiamo abolito la povertà” che l’attuale ministro degli Esteri ed ex vice Primo ministro e ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio aveva ventilato dal Balcone di Palazzo Chigi. Ormai sono passati più di due anni, da quell’accordo sul Def e da quell’esultanza emblematica. Era il settembre 2018. E il reddito di cittadinanza, che doveva fornire sussidi e incentivare l’occupazione – riuscendo in parte nel primo punto e fallendo totalmente nel secondo -, continua a sfornare i suoi fenomeni. La notizia è riportata dall’Ansa. Ed emerge dall’attività della Procura di Brescia che ha iscritto 23 persone nel registro degli indagati con l’accusa di aver indebitamente ottenuto il reddito di cittadinanza. I benefici per i 23 indagati ammontano in totale a 180mila euro di erogazioni. “Un caso emblematico – scrive l’ansa.it – è quello scoperto dai militari della Compagnia della Guardia di Finanza di Brescia che, tra i beneficiari della misura di sostegno economico, hanno individuato un consulente fiscale che svolge la propria attività professionale tra la Svizzera e l’Italia”. Il professionista in questione ha 46 anni, di Brescia, che promuove nei confronti di una clientela abbiente la propria consulenza sui social network- Ha richiesto il reddito di cittadinanza all’Inps, allegando una Dichiarazione Sostitutiva Unica incompleta che ha prodotto un valore Isee falso. In questo modo il consulente ha percepito da maggio 2019 a novembre 2020 un sussidio mensile per totali 14mila euro. Il particolare della Ferrari è quello più accattivante: il professionista è stato fermato alla frontiera con la Svizzera alla guida di una Ferrari 458 cabriolet presa a noleggio. E nel frattempo, proprio mentre percepiva mensilmente il reddito, ha vinto alle scommesse sportive circa 23mila euro. Il reddito di cittadinanza è stato bocciato dal Presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Al 30 settembre 2020 su 1.369.779 percettori del reddito tenuti a firmare il patto per il lavoro, 352.068 avevano trovato un posto, il 27%. A fine ottobre erano diventati 192.851, perché l’85% aveva firmato contratti a scadenza, come ha analizzato il Corriere della Sera. A questo si aggiunge il pasticcio di oltre 2.600 navigator, che dovevano aiutare lavoro ai percettori, e i cui contratti scadono il 30 aprile.

Navigator per il reddito di cittadinanza: un fallimento da 180 milioni. DATAROOM. di Milena Gabanelli e Rita Querzé  su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2021. All’Auditorium di Roma la cerimonia era stata organizzata in pompa magna: 2.978 navigator erano appena stati assunti dall’Anpal dopo aver superato un concorso organizzato in fretta e furia dal governo Lega-5 Stelle, a cui avevano partecipato in 19.600. Era il 31 luglio 2019 e l’evento era il frutto di un incontro, quello fra Luigi Di Maio, allora Ministro per lo Sviluppo, e Domenico Parisi, professore di Demografia e Statistica all’università del Mississippi. «Un incontro voluto da Dio» dichiarava Parisi, da poco nominato presidente dell’Anpal. I navigator dovevano trovare lavoro a chi incassa il reddito di cittadinanza.

Adesso invece sono loro a perdere il posto: i contratti scadono il prossimo 30 aprile. Chi li aiuterà a ricollocarsi?

Il problema viene rimandato

Il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha promesso il prolungamento dell’ingaggio per altri otto mesi, fino a fine anno. Un modo come un altro per rimandare il problema. La domanda è: i navigator (copyright Luigi Di Maio a Porta a porta il 5 dicembre 2018) servono al Paese e ai contribuenti che pagano il loro stipendio? Tre miliardi del Recovery Fund stanno per essere investiti a supporto di disoccupati a caccia di lavoro: quindi sì, le competenze dei navigator potrebbero servire. In pratica l’affiancamento che oggi forniscono a 1,3 milioni di persone (i percettori di reddito di cittadinanza) dovrà essere allargato a chi incassa l’assegno di disoccupazione (Naspi e Discoll), che sono altri 1,4 milioni. Ma anche a chi è in cassa integrazione straordinaria, oltre ad alcune fasce di disoccupati di lungo periodo. Con la fine del blocco dei licenziamenti e la riforma delle politiche attive del lavoro, la platea potenziale di coloro che avranno bisogno di essere accompagnati nella ricerca di un’occupazione potrebbe arrivare attorno ai 3 milioni.

Il lavoro svolto fin qui

Agli inizi di ottobre 2020, su 1.369.779 percettori di reddito di cittadinanza tenuti a firmare il patto per il lavoro, 352.068, pari al 25,7%, aveva trovato un posto. Ma a fine ottobre, dopo un mese, si erano già ridotti a 192.851, perché l’85% aveva firmato contratti a scadenza, molti inferiori a 6 mesi. Colpa anche della pandemia che ha complicato moltissimo la situazione sul mercato del lavoro, dove in media su tre nuovi contratti di lavoro due sono a termine.

Ma per chi ha trovato un lavoro, quale è stato concretamente il contributo dei navigator?

Impossibile valutare la loro attività, visto che il sistema di politiche attive del lavoro legato al reddito di cittadinanza, a due anni dall’entrata in vigore, non è ancora operativo. La situazione era largamente prevedibile (e infatti l’avevamo prevista).

Cosa non ha funzionato

I nodi mai sciolti sono diversi. Il primo: invece di essere assunti dalle Regioni, che gestiscono il servizio, per accelerare i tempi i navigator sono stati ingaggiati con contratto di collaborazione da Anpal Servizi, società dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, controllata dal ministero del Lavoro. Le Regioni quindi hanno subìto il loro arrivo nei centri per l’impiego e la collaborazione spesso non ha funzionato. Secondo problema: come dice il nome, i navigator avrebbero dovuto navigare negli oceani del web a caccia di opportunità di lavoro attraverso uno specifico software che il presidente dell’Anpal, Mimmo Parisi, aveva già utilizzato nello Stato del Mississipi. Invece questo non è mai accaduto. Ad oggi non esiste nemmeno una banca dati nazionale, e quindi i navigator aiutano i disoccupati cercando le opportunità di lavoro nelle banche dati regionali, ma non tutte le Regioni le hanno, oppure, quindi se dotati di buona volontà, consultano i motori di ricerca privati.

Alla fine lo scorso maggio le ministre del Lavoro e dell’Innovazione tecnologica hanno condiviso un protocollo che concede due anni di tempo per lo sviluppo di una banca dati integrata. Terzo ostacolo. La normativa del reddito di cittadinanza prevedeva diversi decreti attuativi: sette non sono mai arrivati. Il navigator, per esempio, avrebbe dovuto far decadere dal reddito di cittadinanza chi non accetta un’offerta di lavoro congrua. Ma visto che non è mai stato definito cosa è un’offerta congrua, chi rifiuta un posto non perde l’assegno. Inoltre il reddito doveva permettere la trasformazione dell’assegno in un incentivo cumulativo per mettersi in proprio, ma senza il decreto attuativo i navigator non hanno potuto fare nulla. Anche gli incentivi per le imprese che assumono i percettori di reddito non sono mai stati definiti. Di fatto il navigator non può offrire consulenza a chi vuol mettere in piedi una attività propria, e tantomeno fare decadere dal beneficio chi rifiuta eventuali offerte.

Tirando le somme

Sono stati ingaggiati a fine luglio 2019, con un contratto di collaborazione di 20 mesi per 27 mila euro lordi l’anno (1.400 euro al mese più 300 di rimborso spese), ed entrati in servizio a settembre. Poi hanno seguito corsi di formazione in presenza e a distanza. A dicembre sono finalmente diventati operativi, ma a marzo hanno cominciato a lavorare da casa causa pandemia. Di recente è stato affidato loro un nuovo compito: implementare la piattaforma Moo, che sta per Mappa delle opportunità occupazionali. In pratica gli viene dato un elenco di imprese, e loro devono verificare presso le Camere di commercio e l’Agenzia delle Entrate se queste aziende sono ancora in vita. In caso positivo devono contattarle per avere il consenso all’inserimento nella banca dati. Non è chiaro quale sia l’utilità pratica di questa attività, che peraltro si sovrappone in parte con un’attività che sta già facendo Unioncamere.

Il conflitto Anpal-Regioni

E quindi che si fa di questi 2.700 laureati (nel frattempo circa 300 si sono dimessi), che fra formazione e stipendi sono costati fino a oggi 180 milioni? Finché non si risolve il rapporto fra Anpal (di cui sono dipendenti), e le Regioni (per cui lavorano), difficilmente troveranno una collocazione. Tant’è che nei bandi che stanno facendo le Regioni per assumere personale da mettere nei centri per l’impiego, non viene riconosciuto un punteggio in più a chi ha già lavorato come navigator. Oggi l’Anpal è un’agenzia dove la maggioranza in cda è espressione del ministero del Lavoro, le Regioni non hanno praticamente voce in capitolo, e quindi la vivono come un intruso. Se Regioni e ministero fossero almeno alla pari, l’Agenzia potrebbe essere un luogo dove concordare le politiche tra centro e periferia, e le sue decisioni non sarebbero subìte dai territori. Di conseguenza sarebbe anche più facile la collocazione dei navigator.

Se si decide di prorogare i loro contratti, vanno anche messi in grado di lavorare

Vuol dire attuare subito le clausole che condizionano l’assegno all’accettazione delle proposte di lavoro. Vale anche per l’assegno di disoccupazione (la Naspi), che dovrebbe ridursi per chi non accetta un’offerta di lavoro, ma la norma non è applicata.

Chi resta con il cerino in mano

In generale, la mano destra (l’Inps che eroga i sussidi) non sa cosa sta facendo la sinistra (l’Anpal che deve aiutare a trovare lavoro), mentre il governo delle politiche attive e passive può funzionare solo se c’è uno stretto coordinamento. Cosa dovranno fare i 11.600 addetti che entreranno tramite concorso nei centri per l’impiego delle Regioni? Fermarsi a certificare lo stato di disoccupazione come fanno oggi? A cosa serviranno i 3 miliardi del Recovery plan per le politiche attive, dove il governo parla di un sistema Gol (Garanzia di occupabilità per i lavoratori)? Non è chiaro, se si tratta di una procedura burocratica di «presa in carico», o di un supporto pratico nella ricerca di un lavoro. Ciò che è chiaro è che dentro a un sistema inefficiente puoi infilare tutte le assunzioni e risorse che vuoi, ma non produrrà mai risultati. La sceneggiata dei navigator è solo l’ultimo esempio: tanto fumo, qualche settimana di consenso, e alla fine con il cerino in mano sono rimasti loro, i navigator.

Gabriele De Stefani per “La Stampa” il 22 gennaio 2021. «Io insegnavo alla Bocconi, ma sapete quant'è difficile la carriera tra i baroni. Ho vinto il concorso da navigator e sono passato dal mondo dorato dell'università privata a occuparmi degli ultimi della nostra società, gente che a 35 anni ha la licenza elementare o non ha la patente, e ti chiama alle 7 del mattino implorandoti di aiutarla, perché non ha altri a cui rivolgersi». Nicola Pisciavino, 36 anni, del centro per l'impiego di Treviglio, nel Bergamasco, è uno dei 2.680 navigator che da un anno e mezzo si muovono in un clima di ostilità e diffidenza, simboli involontari di una misura bandiera dei grillini e osteggiata da tutti gli altri come emblema del clientelismo e dello spreco. «Ma nemmeno i 5 Stelle hanno davvero capito quanto servano figure come noi. Fra tre mesi ci scade il contratto e non abbiamo certezze», dice. E racconta tutte le difficoltà: gli enti che si ostacolano, le lentezze burocratiche, gli impedimenti della pandemia per un servizio che vive di contatto umano, di vicinanza a persone che nemmeno sanno accendere un pc, figurarsi scrivere un curriculum o cercare annunci online. I navigator hanno un'età media di 35 anni, sono tutti laureati, hanno vinto un concorso con Anpal e seguito corsi di formazione e poi sono stati mandati più o meno allo sbaraglio ad occuparsi di centinaia di migliaia di italiani finiti ai margini della società. A 1.400 euro al mese, alla scoperta di «un mondo sommerso fatto di persone dimenticate dalle istituzioni», dice ancora Pisciavino. Al netto dei tanti furbetti smascherati.

Il bilancio contestato. La povertà, con tutta evidenza, non è stata abolita, come pure aveva garantito Luigi Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi. E pochissimi beneficiari del reddito di cittadinanza, meno del 15%, sono riusciti a trovare un lavoro. Insomma, il bilancio a un anno e mezzo dal decollo è quanto meno rivedibile. «Ma valutare la nostra attività sulla base di quanti beneficiari del reddito hanno trovato un lavoro è miope - ragiona Antonio Lenzi, fondatore dell'Associazione dei navigator -. Prima di tutto perché dopo cinque mesi dall'inizio è arrivata la pandemia. E poi perché bisogna conoscere il contesto in cui operiamo. Il nostro utente medio è un ultra quarantenne con bassa scolarizzazione, professionalità vicina allo zero e ridottissima occupabilità: è chiaro che serve tempo. Ci sono centinaia di casi di persone che abbiamo convinto a prendere almeno la licenza media: non è forse un successo? E spesso ci troviamo ad avere a che fare con casi che possono solo essere destinati ai servizi sociali».

I progetti che mancano. Per i navigator lo Stato ha speso 270 milioni in un anno e mezzo. Trecento di loro hanno già salutato e si sono dimessi. Che fare dal 30 aprile, quando scadranno i contratti? La ministra Nunzia Catalfo ha garantito che non saranno dimenticati, ma loro aspettano conferme: proroga per tutti? O l'esperienza acquisita servirà solo a maturare punteggio per altri concorsi? «È un trattamento assurdo - protesta ancora Lenzi -. Lo Stato ha tra le mani 2.680 giovani specializzati nelle politiche attive del lavoro e li vuole lasciare a casa proprio ora che ce n'è così bisogno e che la pubblica amministrazione è chiamata a rinnovarsi con il Recovery Plan?». I soldi per il rinnovo ci sono, secondo Nidil-Cgil, ma il tema è più ampio: «Le risorse per il reddito di cittadinanza sono nella manovra e si può pescare da lì per dare continuità al lavoro dei navigator - dice la segretaria Silvia Simoncini -. Ma non basta mettere delle toppe, serve una visione sulle politiche attive del lavoro per mettere a frutto l'investimento fatto sui navigator e per rilanciare il tema dell'occupabilità che questo Paese deve porsi come una priorità».

·        Le Disuguaglianze.

Disuguaglianze, è ora di cambiare rotta: ecco dieci soluzioni possibili. Lavoro precario. Oneri di cura che gravano sulle donne. Inaccessibilità delle conoscenze. L’anno che si chiude sarà ricordato per il divario che si è allargato. Dieci esperti di diversa provenienza culturale scattano le istantanee della disparità. E indicano come si potrebbe uscirne. Fabrizio Barca e Gloria Riva su l'Espresso il 27 dicembre 2021. La pandemia ha inflitto e sta infliggendo sofferenza a noi tutti. Ma in questa sofferenza, grandi sono le disuguaglianze: nell’accedere a cure e vaccini; nelle conseguenze economiche, da chi ha perso tutto fino a chi in realtà si è arricchito; negli effetti sociali e psicologici, a seconda del contesto famigliare e comunitario e del proprio genere, razza o classe; nella capacità di adattarsi a improvvisi cambiamenti. Queste disuguaglianze si sono manifestate lungo faglie esistenti, cresciute nell’ultimo quarantennio, da noi come in tutto l’Occidente: forte diffusione del lavoro precario e irregolare; oneri di accudimento primariamente gravanti sulle donne; disuguaglianze territoriali nella qualità di scuole, sanità, servizi sociali, copertura digitale, mobilità, salubrità dell’aria; inaccessibilità e concentrazione della conoscenza; mancato ascolto di voce e aspirazioni di larghe fasce di popolo. Ecco un lungo l’itinerario che L’Espresso e il Forum Disuguaglianze Diversità, ForumDD, hanno scelto di percorrere assieme, dieci figure del nostro tempo raccontano queste disuguaglianze e quanto deludente sia finora la capacità di contrastarle.

Nicoletta Dentico, responsabile del programma di salute globale della Society International Development, ci dice che il 2021 non sarà di ricordato come l’anno in cui è stato debellato il Covid-19, ma come quello in cui i paesi ricchi si sono accaparrati la maggior parte dei vaccini, lasciando alla deriva il Sud del mondo, in quella che definisce «l’arrogante insipienza dei governi». 

L’anno che si sta per chiudere, nelle parole dell’attivista e scrittore Ben Phillips, non verrà ricordato neppure per la vittoria dei diritti umani, schiacciati da una deriva autoritaria, figlia delle disuguaglianze. 

Sul fronte italiano, c’è uno Stato che tratta gli anziani più vulnerabili come un problema, scaricandone il peso sulle famiglie, come racconta il sociologo Cristiano Gori. 

È lo stesso Stato che alle aspirazioni dei giovani sa offrire solo promesse e belle parole: il demografo Alessandro Rosina descrive quel terzo di persone sotto i 35 anni che non studia, non lavora e vive male. 

mentre il maestro elementare Franco Lorenzoni scrive che anche sui più piccoli si sta abbattendo una «spietata sottrazione di futuro», con un balzo negli atti di autolesionismo.

La sociologa Chiara Saraceno lancia l’allarme dei lavoratori poveri, che pur avendo un impiego, non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. E anche qui l’intervento del governo langue, perché neppure sul Reddito di cittadinanza si è saputo intervenire per migliorarne efficacia e giustizia. 

Parla di donne e tecnologia l’economista Francesca Bria, avvertendo che «se metà del mondo non va avanti, allora l’intera umanità si ferma», riferendosi al divario di genere, grave in tutte le sue forme, ed esponenzialmente preoccupante nell’ambito tecnologico. 

L’urgenza di porre un freno al dilagare della disuguaglianza viene da culture e pensieri assai diversi, abbracciando il senatore Mario Monti con la ricercatrice Marta Fana e il poeta Franco Arminio.

Marta Fana racconta che «l’Italia quest’anno aggancia una ripresa del 6 per cento, ma non un centesimo finisce nelle tasche di chi, quell’extra ricchezza, l’ha prodotta. Perché testa e braccia di questo miglioramento sono per il 70 per cento lavoratori a termine o in affitto». 

Mario Monti parla di «due distorsioni ottiche che paralizzano il sistema politico italiano quando si tratta di intervenire concretamente per ridurre le disuguaglianze»: la tassazione vista come «un abuso, se non un furto», che porta un premier a rigettare «un lieve aumento delle tasse di successione ai più ricchi che finanzi una dotazione significativa per i giovani»; e la tutela della concorrenza, sottovalutata nel suo potere di erosione delle rendite. 

Una distorsione ottica universale è messa in luce da Franco Arminio: essa affligge il sistema politico mondiale, incapace di riconoscere e rispondere con radicalità all’ansia di tutti gli abitanti della terra per gli effetti del tempo impazzito, di capire che «l’ecologia non è un partito, è una necessità»: sta qui la «muta desolazione» con cui assieme a tanti altri egli ha accolto gli esiti del vertice sul clima di Glasgow. 

Le dieci istantanee delle disuguaglianze 2021 non sono una lista di lamentele, ma una chiara indicazione dei punti chiave su cui intervenire. Emerge allora una forte corrispondenza con le proposte di tante organizzazioni, movimenti sociali e del ForumDD, riassunte a chiosa di ogni contributo. Non si dica dunque che non sappiamo che fare. Si tratta piuttosto di volontà politica: cessare di nascondersi dietro tecnica e tecnici, scegliere priorità, aprirsi a un confronto acceso e informato, costruire accordi. La pandemia, scriveva già nell’aprile 2020 Arundhati Roy, «è un portale tra un mondo e un altro. Possiamo attraversarlo con le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso; e lottare per averlo». Rischiamo di restare inchiodati nella prima strada, usando i soldi del Piano di Ripresa e Resilienza per fare spesa, sgocciolando i fondi nei vecchi canali. Ma esiste nel paese un formicolio sociale e operoso pronto a osare la seconda strada. Che chiede di cambiare rotta. Questa è la partita del 2022.  

2021, un anno senza diritti. Rimosso il dibattito sullo Ius soli, affossata la legge contro l’omotransfobia, ignorata quella di iniziativa popolare sul fine vita. Nonostante piazze piene, proteste e raccolta firme. Che hanno solo evidenziato la distanza tra l’Italia e chi la governa. Simone Alliva su l'Espresso il 28 dicembre 2021. Non è successo niente. Un anno di mobilitazioni; piazze e banchetti, discussioni e proteste hanno soltanto avuto il pregio di illuminare la distanza tra l’Italia e chi la governa. Il Parlamento italiano saluta il 2021 senza nessuna legge approvata sul fronte dei diritti. Nessuna per la comunità Lgbt, mentre le piazze di tutta Italia si mobilitavano. Nessuna su eutanasia e cannabis mentre dai banchetti si raccoglievano milioni di firme. Nessuna per gli italiani senza cittadinanza, lo Ius Soli ridotto a un colpo di sole di fine agosto, evocato per qualche ora sulle prime pagine e subito rimosso.

«Il Parlamento non è arrivato a nulla» dice Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni. «Sul fine vita come sulla cannabis, le leggi di iniziativa popolare sono state ignorate. Sul fine vita c’era il richiamo della Corte Costituzionale a prendere delle decisioni ma hanno preferito approvare in Commissione un testo che restringe le possibilità previste dalla Corte».

Non è tranquillizzato dalle parole del relatore della legge Alfredo Bazoli (PD): «Abbiamo scelto di seguire le orme tracciate dalla Consulta perché è l’unica via che può portare all’approvazione». Anzi, l’ex radicale le raccoglie e le smonta pezzo per pezzo: ««Alla patologia irreversibile è stata aggiunta una nuova cognizione di prognosi infausta, vuol dire che Dj Fabo, Welby, per fare qualche esempio, non erano allo stato terminale». Le norme in discussione non migliorerebbero il testo ma: «escludono chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di tumore, e non fissano tempi certi. Anzi, fanno dei passi indietro su obiezione di coscienza, sofferenza psichica e cure palliative».

Ma allora cos’è questa legge discussa nell’Aula semivuota della Camera? «Uno spauracchio. Un modo per mandare un messaggio politico alla Corte Costituzionale e dire: il Parlamento sta cercando di fare qualcosa, se non abbiamo il referendum di mezzo è meglio». L’iter della legge sul fine vita racconta di una politica che va in direzione contraria e ostinata rispetto al mondo fuori e che trema di fronte a quella data cerchiata in rosso nel calendario 2022: 15 febbraio. Giorno dell’udienza della Corte costituzione chiamata a esprimersi sull’ammissibilità del referendum che conta un milione e duecentomila firme. «Noi siamo pronti, pancia a terra porteremo 25 milioni di italiani al voto». Il voto, che potrebbe tenersi a fine giugno, servirà all’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale: la reclusione da sei a quindici anni chi procura la morte di una persona con il suo consenso.

«Anche sulla cannabis questo è un parlamento totalmente distante dai cittadini». A dire che tutto è immobile è la deputata del PD, Enza Bruno Bossio, tra le fondatrici dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis: «In Commissione Giustizia si parla sostanzialmente di autoconsumo. Ho proposto degli emendamenti che andassero nella direzione del referendum, cioè della legalizzazione ma non credo che saranno approvati. Per fortuna il referendum va avanti. Mentre noi parlamentari restiamo indietro». Il suo partito non ha ancora espresso una posizione ufficiale: «La maggioranza è su questa linea. I nostri elettori sono d’accordo. Il problema è quella parte del Pd che confonde legalizzazione con liberalizzazione. E non capisce che legalizzare la cannabis equivale a un colpo importante alle mafie». Basta scorrere i dati dell’ultima relazione annuale del governo al Parlamento (dati Istat 2020) per capirlo: le sostanze psicoattive illegali sono stimate intorno ai 16,2 miliardi di euro, di cui il 39% (quindi circa 6,3 miliardi) attribuibile al consumo dei derivati della cannabis. Stime, perché gran parte del mercato resta nascosta alle forze dell'ordine. Ma la questione resta sulla graticola delle aule parlamentari e delle segreterie di partito, fino a bruciare, mentre fuori il referendum sulla legalizzazione supera le 600 mila firme.

La questione Ius Soli invece somiglia alla trama di un giallo. Perché la legge per gli italiani senza cittadinanza non riparte? Per mano di chi? Pochi ricordano che si trova ancora in Commissione Affari costituzionali dove le numerose audizioni si sono concluse nel marzo del 2020. Sulle cronache di quest’anno è riapparsa in maniera dirompente durante un agosto afoso, inserendosi tra l’incandescente dibattito sul ddl Zan e le medaglie conquistate dall’Italia multietnica alle Olimpiadi. Era stato il segretario Enrico Letta a tirarla a lucido: «Dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche ad aprire una discussione in Parlamento e a trovare una soluzione sullo ius soli». Addirittura, il deputato PD Enrico Borghi aveva azzardato: «Sarà legge entro l’anno». Alla Camera la prima proposta porta la firma della ex presidente Laura Boldrini nasce da una richiesta portata avanti da una trentina di sindacati, associazioni e Ong: «L’Italia sono anche io». C’è poi quella di Renata Polverini, ex deputata di Forza Italia che ha lasciato il gruppo proprio per le differenze di vedute sul tema e si basa sullo Ius Culturae. Infine il disegno di legge a firma del dem Matteo Orfini, un mix tra ius culturae e ius soli «temperato». «La mia legge - dice Orfini – sostanzialmente riprende quella che approvammo già alla Camera la scorsa legislatura. Frutto di una mediazione molto avanzata». La legge saltò definitivamente al Senato poco prima di Natale 2017. Un epilogo prevedibile ma che ancora scotta per Orfini, all’epoca reggente del Pd: «Chiesi sia privatamente che pubblicamente a Gentiloni di mettere la fiducia, eravamo a fine legislatura. Lui disse che non serviva e che l’avremmo approvata». Adesso si potrebbe ripartire. O forse no. La discussione intorno a questa legge riporta a una serie di enigmi e un’assenza, quella del presidente della Commissione Affari Costituzionali, il cinquestelle Giuseppe Brescia: «Si era fatto avanti come relatore. Aveva detto: lavorerò su un testo che possa diventare una sintesi di quelli presentati. Sono passati due anni. Siamo in attesa che Brescia lo tiri fuori dal cassetto». Il pentastellato Brescia però contattato da L’Espresso ha così risposto: «Quando qualcuno chiederà la calendarizzazione ce ne occuperemo senz'altro. Se il dibattito diventa concreto noi siamo pronti su ius scholae». Una posizione che lascia «stupito» Orfini: «Difficile chiedere la calendarizzazione di un testo che non esiste» e annuncia: «Il nostro capogruppo in Commissione Affari Costituzionali Stefano, Ceccanti chiederà la calendarizzazione al primo ufficio di presidenza. Sperando che Brescia abbia il testo».

Insistere e non mollare, giacché l’ordine di scuderia di Enrico Letta è andare avanti sui diritti e pazienza per gli umori degli alleati di governo; su una legge contro l’omotransfobia si affida nuovamente al testo Zan, morto in Senato nel mese di novembre. «Bisogna provarci fino all’ultimo», è sicuro il deputato Pd Alessandro Zan. «Si può ripartire da aprile dal mio testo, mettiamo che passi al Senato con piccole modifiche ma senza togliere l’identità di genere e le scuole. La Camera può approvarlo così com’è». Tempi? «Prima dell’estate al Senato e in autunno alla Camera». Anche Alessandra Maiorino, senatrice del M5s ha annunciato di voler «presentare ad aprile un nuovo testo che oltre ai reati di odio fondato sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, preveda percorsi educativi nelle scuole». Qualcosa si muove. È una questione di tempistica e prospettive: «Se ci sarà ancora questa legislatura», ironizza un senatore di Fdi.

Ma non è forse tutto da buttare questo 2021. La tampon tax, ad esempio. Quest’anno l’aliquota sarà ridotta dal 22% al 10. «Una vittoria per i diritti delle donne», dice la dem Lia Quartapelle firmataria insieme ad altre deputate dell'emendamento che riduce l’iva sugli assorbenti: «La portiamo avanti dal 2018. Nel 2019 è stata data l’esenzione solo a quelli compostabili. Nel 2020 non siamo riusciti ad ottenere nulla. Quest’anno possiamo parlare di una vittoria». Ma non la pensa così Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, fu lei a porre la questione nell’ormai lontano 2016: «La direzione è giusta. Ma proprio sono beni prima necessità bisogna chiedere l’aliquota giusta cioè il 5%. Non codici sconto».

Alla debolezza della politica si aggiunge la debolezza del Parlamento. Lo evidenzia Openpolis con un dato: il governo Draghi è riuscito a far approvare 38 disegni di legge in circa 7 mesi. Nello stesso periodo le leggi di iniziativa parlamentare approvate sono state 6. Vuol dire che senza la spinta del Presidente del Consiglio il processo legislativo non va a buon fine. Recuperare la centralità del Parlamento per approvare diritti di libertà e colmare la differenza antropologica con il paese. Cancellare la distanza che separa i cittadini senza diritti, dalle risa sguaiate di chi esulta solo quando una legge muore. È una lunga strada e porta inevitabilmente alla prossima legislatura.

·        Martiri del Lavoro.

(ANSA il 28 dicembre 2021) - Tragedia sul lavoro al centro di Roma. Secondo quanto si apprende, un operaio è morto dopo essere caduto da un'impalcatura in via Merulana. Inutili i soccorsi per l'uomo. Sul posto vigili del fuoco e poliziotti del commissariato Esquilino. Sono in corso verifiche sul ponteggio per accertare l'esatta dinamica dell'accaduto. (ANSA).

La mattanza degli operai. La politica si è dimenticata di combattere le morti sul lavoro. Mario Lavia su Linkiesta il 30 Dicembre 2021. Nei primi 10 mesi del 2021, l’Inail ha registrato 1017 incidenti mortali. Sono circa 3 al giorno. Perché il Partito democratico non si fa carico di questa battaglia sociale proponendo regole più rigide e dure sanzioni per chi non le rispetta?

In questo periodo Roma – e tutto il Paese – è piena di lavori di rifacimento degli edifici grazie al superbonus. Stanno ristrutturando il palazzo di fronte, e scrivo questo articolo guardando le impalcature che sono dinanzi, spesso molto alte, con i tubi saldati in una ragnatela di ferro e passerelle di legno che a dire la verità sembrano sempre traballare sotto i passi degli operai. A separarli dal vuoto loro hanno fissato delle reti verdastre o bianche abbastanza rovinate, piene di lacerazioni, attaccate ai tubi con cordicelle o lembi rossastri o arancioni.

Gli operai infagottati com giubbotti macchiati di calce e vernice arrivano di mattino presto, il tempo per un caffè caldo – il bar all’angolo è aperto per loro – e dopo iniziano ad andare e venire, si arrampicano sui ponteggi, scalpellano silenziosi per tirar via lo sporco di decenni per restituire colore al palazzo, vanno giù col trapano (avranno i tappi per le orecchie?), e ogni tanto si chiamano tra loro, si sente pure qualche risata forte, tipica di chi lavora, anche per rinfrancarsi l’un l’altro: la gabbia di tubi, orrenda a vedersi, non è certo accogliente né deve essere comoda per chi deve farsi largo con i secchi di vernice.

Quando fa più caldo, in questo inverno che sembra già primavera, qualcuno resta in maglietta, a sudare, senza fermarsi mai. Già, prima si finisce meglio è.

Io non vedo mai questi operai con particolari cinghie o imbracature e nemmeno sempre con il casco. Sono più attrezzati altri operai, quelli che lavorano a fianco del palazzo dove abito (sono circondato) dove da anni si sta lavorando a una clamorosa ristrutturazione di quello che era il Poligrafico dello Stato, fino a qualche decennio fa qui si stampavano le banconote, un enorme edificio ottocentesco in marmo che può piacere o no ma che è comunque un pezzo dell’architettura moderna di Roma che cede il suo bel passato a un futuro chissà come.

È una ristrutturazione che prevede tra l’altro una specie di super-cupola, al momento orribile, non so a cosa servirà, presumo un roof garden. Ci lavorano decine e decine di operai. Li vedo muoversi ad altezze impressionanti. Non sono esperto del ramo, ma anche in questo caso, sebbene migliore del primo, non so dire se le misure di sicurezza siano state tutte adottate e soprattutto se siano sufficienti a garantire l’incolumità degli operai. Vedo questi lavoratori, molti dei quali stranieri, con il freddo e la pioggia di questi giorni montare sulla passerella facendo attenzione a non sbattere la testa, alcuni sono giovani ma ci sono anche ultracinquantenni che alla loro età dovrebbero fare tutt’altro mestiere. Quando si fa sera se ne vanno, un altro giorno è andato.

Martedì mattina a qualche chilometro di distanza altri operai lavoravano alla facciata di un edificio, in via Merulana, quella del Pasticciaccio di Gadda. Nel pieno centro di Roma, è la lunga strada alberata che congiunge le due Basiliche di Santa Maria Maggiore e San Giovanni. Un operaio a un tratto, non si sa bene come, è precipitato per metri e metri ed è morto sul colpo. Veniva a Roma da Scandriglia, nella verde Sabina, si chiamava Pietro Perruzza, 52 anni. Mentre costruiva un ponteggio più o meno come un trapezista del circo, è caduto nel cortile di un istituto di suore, ho capito qual è perché in uno di quegli stabili che gli fanno da corona andavo da bambino da un’anziana zia.

Perché Pietro Perruzza è volato giù in quel cortile di pace? È la solita domanda che si ripete ogni volta che accade una disgrazia simile, ormai con cadenza quasi quotidiana: nell’edilizia sono 1017 gli incidenti mortali registrati dall’Inail nei primi 10 mesi del 2021. Forse 2018, con l’operaio Perruzza, morto non lontano da due Basiliche. È aperta un’inchiesta, ovviamente. Qualcuno pagherà o si è trattato della solita fatale disgrazia?

Pochi giorni fa Torino ha pianto gli operai che hanno perso la vita per il crollo di una gru, e in tutta Italia non c’è regione dove la mattanza operaia non continui. E qui non ci sono vaccini. Servono regole più rigide, e soprattutto sanzioni molto più dure per chi non le rispetta. Invece di chiacchierare, bisognerebbe agire. Il sindacato non basta. Ci vuole l’intervento del Parlamento, del Governo. Ci vorrebbe la sinistra, e subito. Perché, con tutto il rispetto, la legge Zan viene dopo.

Da leggo.it il 23 dicembre 2021. Dopo 12 ore in sala operatoria torna a casa e muore per un infarto. Raffaele Sebastiani, chirurgo del policlinico di Bari di 61 anni è stato stroncato dal malore dopo essere tornato a casa da un turno di 12 ore. L'uomo aveva avuto due interventi con pazienti malati di Covid, quindi ancora più stressanti a causa delle vestizioni usate contro il contagio. Lo scorso martedì aveva fatto un suo turno alle 8 alle 14, aveva staccato ed era tornato reperibile di notte. È infatti dovuto tornare in ospedale e per 12 ore è stato impegnato in sala operatoria per urgenze su pazienti che, come spiega Repubblica, erano risultati positivi al Covid. Tornato a casa, molto stanco, l'uomo si è sentito male, ma purtroppo per lui non è stato possibile fare nulla. L'uomo potrebbe essere deceduto a causa del forte stress, motivo per cui  Antonio Mazzarella della Cgil Medici, ha voluto denunciare, ancora una volta le difficili condizioni in cui si trovano a lavorare molti medici e operatori sanitari ormai da due anni ad oggi.  

Pier Francesco Caracciolo, Irene Famà e Massimiliano Peggio per lastampa.it il 18 dicembre 2021. Tragedia del lavoro stamane a Torino in via Genova dove si è schiantata a terra una gru utilizzata in un cantiere edile. Nel crollo, la gru da cantiere è finita contro un palazzo di 6 piani. Nella sciagura sono coinvolti 3 operai, rimasti incastrati sotto una parte dell’intelaiatura: 2 sono morti, un terzo è stato accompagnato in gravissime condizioni al Cto ed è morto poco dopo: aveva 20 anni e lo ha ucciso un grave trauma cranico. E’ successo all’altezza del numero 107. Una delle vittime è un montatore di una ditta di Milano che lavorava sulla gru. Sono al lavoro sul posto 4 squadre dei vigili del fuoco con i soccorritori del 118, i tecnici dello Spresal e le forze dell’ordine. Quando all'improvviso, si è verificato il cedimento, era in corso l'assemblaggio di una gru da cantiere con l'impiego di un'altra gru della ditta Calabrese. Le due gru sono collassate una sull'altra causando la morte del manovratore. Un altro è stato accompagnato in codice rosso all'ospedale. Crolla gru in un cantiere edile a Torino, 2 morti. Una testimone: "E' caduta in parte sul mio palazzo, ero in pena quando l'hanno montata" Nel crollo sono stati coinvolti alcuni passanti, rimasti feriti e trasportati in ospedale dal 118. Era in corso l'allestimento di un cantiere della ditta Fiammengo, uno dei tanti lavori favoriti dalle agevolazioni per il rifacimento delle facciate e degli stabili per l'efficientamento energetico. I lavori erano iniziati pochi giorni fa. Sul posto sono arrivati gli assessori Gianna Pentenero e Francesco Tresso, poco dopo anche il sindaco Stefano Lo Russo. Tra le prime reazioni quella della Filca-Cisl: «Siamo sconvolti e colpiti per il gravissimo incidente, – spiega Mario De Lellis – ci appelliamo a tutte le istituzioni: non si perda altro tempo e si mettano subito in pratica gli interventi previsti per la sicurezza nei cantieri, non è più accettabile assistere alle stragi quotidiane in edilizia e in tutti i luoghi di lavoro». «Chiediamo la messa in pratica di tutti i provvedimenti annunciati dal Governo: la costituzione di una banca dati centrale per gli infortuni, con l’obiettivo di arrivare alla Patente a punti, un cavallo di battaglia della Cisl. Il rafforzamento del potere di sospensione delle attività nelle aziende che non rispettano la normativa, per dare la possibilità all’azienda di mettersi a norma. L’assunzione di nuovi ispettori del lavoro. Misure ad hoc per il pensionamento degli edili. Non possiamo assistere inermi a questa lunga scia di sangue nei cantieri, è inaccettabile. Ci stringiamo al dolore dei familiari e dei colleghi degli operai coinvolti»

Irene Famà per lastampa.it il 18 dicembre 2021. «Ho sentito un forte boato e sono corso fuori dal bar. C'era una signora a terra, colpita da un calcinaccio, e l'ho soccorsa. La gru è crollata. L'ho vista come spezzata a metà». Alberto lavora da anni come barista in via Genova. Stamattina è stato tra i primi a chiamare i soccorsi quando, all'altezza dei civici 122 e 107 sono crollate due gru. Era in corso l'assemblaggio di una gru da cantiere con l'impiego di un'altra gru della ditta Calabrese quando all'improvviso si è verificato un cedimento e le due gru sono collassate una sull'altra. Due i manovratori morti sul colpo. Un terzo, 20 anni, trasportato dai medici del 118 al Cto, è morto all'ospedale. Nel crollo sono rimasti feriti altri passanti. Che raccontano choccati lo schianto e i momenti di orrore che hanno vissuto. Davide si definisce un «miracolato. Sono passato sotto la gru poco prima dell'incidente. Avrei dovuto andare all’ufficio postale». Due uomini cercano la loro auto: «È distrutta. Eppure siamo fortunati, non eravamo dentro. Il pensiero va alle vittime. Li avevamo anche visti uscire questa mattina dal bar dopo colazione». E Raffaella, la ragazza che ha servito loro il caffè, non trova «le parole. Erano felici, dicevano che oggi avrebbero finito di lavorare presto». Sul posto il sindaco Stefano Lo Russo e gli assessori Gianna Pentenero e Francesco Tresso, insieme a 4 squadre dei vigili del fuoco, soccorritori, vigili urbani e forze dell’ordine. 

Gru di un cantiere cade sulla strada a Torino: morti tre operai, passanti feriti. Carlotta Rocci su La Repubblica il 18 Dicembre 2021. L'incidente in via Genova, gli addetti sono rimasti schiacciati dall'intelaiatura del mezzo. Tra loro anche un ventenne. L'ira dei sindacati: "Strage senza fine". La gru di un cantiere è crollata questa mattina in strada, in via Genova, a Torino, travolgendo gli operai che erano al lavoro sulla piattaforma della stessa macchina. Due dei lavoratori sono rimasti uccisi sul colpo, un terzo è stato portato all'ospedale in codice rosso ed è morto poco dopo: aveva 20 anni. Trasferiti in ospedale anche un altro operaio e due passanti, che sono stati colpiti nel crollo. Stando alle prime informazioni raccolte dai vigili del fuoco, a causare l'incidente sarebbe stato un cedimento strutturale alla base della gru. I vigili del fuoco sono intervenuti sono intervenuti per estrarre le persone coinvolte. L'incidente si è verificato all'altezza del civico 107, nel quartiere Nizza Millefonti, non distante dall'area del Lingotto. Il cantiere riguardava il rifacimento del tetto dell'immobile. La gru, per motivi ancora da accertare, ha ceduto durante l'allestimento del cantiere ed è collassata su un palazzo di sei piani. "La gru era già montata, non si riesce a capire che cosa sia accaduto", dice un vigile del fuoco presente sul posto. Gli operai sono rimasti schiacciati sotto l'intelaiatura del mezzo: erano sulla piattaforma per montare il braccio della gru.

Gru caduta a Torino, il capo dei vigili del fuoco: "Cedimento strutturale alla base"

Dei tre passanti, invece, uno era all'interno della sua automobile colpita dal crollo. La strada è stata chiusa dalla polizia municipale.

La gru è della ditta Locagru, sulla quale stava lavorando una squadra di una ditta lombarda, mentre l'autogru in azione sul posto è della Calabrese. Il cantiere era invece della Fiammengo, che aveva l'appalto per i lavori sul tetto dell'edificio.

Il sindaco di Torino: "Ferita per la città"

Sul posto, oltre ai Vigili del fuoco, polizia, 118 e lo Spresal dell'Asl di Torino. Anche il sindaco, Stefano Lo Russo, ha compiuto un sopralluogo: "Un grande dolore e sconcerto per questo nuovo drammatico incidente sul lavoro. Esprimo il cordoglio alle famiglie. La Città è profondamente scossa per quanto accaduto". E Stefano Lo Russo che aggiunge: "i luoghi di lavoro dovrebbero essere posti da cui tornare e dove essere sicuri. La morte di questi tre lavoratori è una grave ferita per la città".  "Le dinamiche saranno chiarite dalle autorità competenti, l'amministrazione comunale è mobilitata da subito con il pronto intervento, la protezione civile e la Polizia municipale per le operazioni necessarie. Come sindaco e a nome di tutta l'amministrazione comunale - conclude - seguiamo costante la situazione e lunedì riferiremo in Consiglio comunale sull'accaduto".

Le prime testimonianze

"Stavo tornando al bar, dovevo attraversare la strada e ho visto la gru che si inclinava. C'erano tre uomini sopra che si arrampicavano, cercavano di restare aggrappati. Urlavano". A parlare è Alberto, il titolare del bar all'angolo tra via Genova e via Millefonti. Era per strada quando stamattina la gru è precipitata sul palazzo si fronte. "Sono scioccato, li ho visti precipitare con la gru. Non ho potuto fare nulla". Il barista ha soccorso una donna ferita da un calcinaccio. "Una macchina è rimasta schiacciata, è volata via perfino la portiera". Chi abita nei palazzi racconta di aver sentito un boato, come prima di un terremoto. "La gru oscillava come se ci fosse stata una folata di vento, ma non poteva essere solo vento, poi si è staccata", dice un'altra persona. Sotto shock la barista all'altro angolo dell'isolato. Gli operai erano arrivati ieri per aprire il cantiere di via Genova, e avevano scelto proprio il suo bar per fare una pausa ogni tanto. "Tre ragazzi giovanissimi. Hanno fatto colazione qui stamattina", ricorda. Scosso chi abita in zona. "L'uomo che era su quella macchina è miracolato". La gru di un cantiere è crollata questa mattina in strada, in via Genova, a Torino, travolgendo gli operai che erano al lavoro sulla piattaforma della stessa macchina. Due dei lavoratori sono rimasti uccisi, un terzo è stato portato all'ospedale in codice rosso, assieme a tre passanti, che sono stati colpiti nel crollo (foto Jessica Pasqualon/Ansa)

Il dramma degli incidenti sul lavoro

Con l'incidente di oggi salgono a 40 gli incidenti mortali sul lavoro in Piemonte nel 2021. Il rapporto Inail relativo ai primi otto mesi dell'anno riporta 25.268 denunce complessive di infortuni. "E' un bollettino di guerra. Una strage infinita, di fronte alla quale - a parte il doveroso cordoglio verso le famiglie delle vittime - le parole ormai sembrano inadeguate. Occorrono fatti concreti a partire da più controlli e più formazione, soprattutto in edilizia, tanto più in questa fase di forte ripresa del lavoro, dove la fretta spesso prevale su tutto. La sicurezza è un diritto e non un costo", attaccano la Camera del lavoro e la Fillea-Cgil di Torino.

"Siamo sconvolti e colpiti. Ci appelliamo a tutte le istituzioni: non si perda altro tempo e si mettano subito in pratica gli interventi previsti per la sicurezza nei cantieri, non è più accettabile assistere alle stragi quotidiane in edilizia e in tutti i luoghi di lavoro", accusa Mario De Lellis, della Filca Cisl di Torino. E aggiunge: "Non possiamo assistere inermi a questa lunga scia di sangue nei cantieri, è inaccettabile. Ci stringiamo al dolore dei familiari e dei colleghi degli operai coinvolti", ha concluso De Lellis.

 Landini. "I cantieri non posso essere un  far west"

Premesso che sarà la magistratura a  ricostruire nel dettaglio" quanto accadutto a Torino "non vorremmo ritrovarci ancora una volta di fronte all'ennesima strage nei cantieri legata a tempi e modalità di lavoro. Dove la fretta e la velocità eccessiva aumentano i rischi, dove la ripresa fa sempre più rima con incidenti e lavoro nero a fronte di una domanda di lavori superiore alla capacità delle stesse imprese". Lo affermano il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini e il segretario della Fillea Cgil, Alessandro Genovesi, che avvertono: "La logica di fare sempre di più e più presto, con orari di lavoro massacranti e ricorso a squadre di cottimisti in sub appalto, che rischia di mettere la sicurezza di lavoratori dei cittadini in secondo piano deve essere contrastata. I cantieri non possono diventare il far west".  "In questi mesi - ricordano Landini e Genovesi - abbiamo conquistato strumenti importanti per contrastare lo sfruttamento e le illegalità nei cantieri, dal Durc di Congruità alle nuove norme contenute nel decreto per la salute e sicurezza, inasprendo sanzioni e non solo, ma senza una azione straordinaria, senza una nuova cultura di impresa che metta la vita delle persone e la qualità del lavoro prima della bramosia dei profitti, rischiamo che ogni incentivo, ogni crescita del comparto, produca anche più infortuni e irregolarità". 

Dolore, lacrime, rabbia: i nomi delle tre vittime. Crollo gru Torino, il video straziante girato dopo la strage: “Quanti morti sono… cosa avete combinato”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Dicembre 2021. “Non si può morire così, esisterà un Dio…”. Dolore, lacrime, rabbia. Sullo sfondo le sirene dei soccorritori in arrivo in via Genova a Torino, dove il crollo di una gru avvenuto intorno alle 10 di sabato 18 dicembre ha provocato la morte di tre operai, tra cui un 20enne, e il ferimento di un altro operaio e alcuni passanti. Immagini strazianti quelle riprese in un video girato da un passante subito dopo il crollo. A terra, schiacciati dalla gru, ci sono i corpi senza vita di due lavoratori. Intorno alcuni colleghi e residenti della zona, sconvolti da quanto accaduto. “E’ una cosa brutta” dice una donna che poi conta gli operai schiacciati dalla gru: “Ce ne sta un altro di là, ma quanti sono?“. Un collega probabilmente dei tre operai deceduti (il 20enne è spirato poco dopo l’arrivo al Cto di Torino in seguito al grave trauma cranico riportato) non si dà pace: “Non si piò morire così, esisterà un Dio…”. Un passante aggiunge: “Cosa avete combinato“. L’operaio è al telefono e si rivolge probabilmente a un collega dicendo: “Sono morti tutti, vieni giù, che stai a fare su in ufficio. Sono morti i tre gruisti, i tre montatori, vieni giù”. In sottofondo si sentono delle grida, una donna dice che un operaio “respira ancora”: è il 20enne morto poi dopo l’arrivo in ospedale.

I nomi delle tre vittime

Le vittime – così come riportato dall’Ansa – sono Roberto Peretto, di Cassano d’Adda (Milano), 52 anni, Marco Pozzetti, 54 anni, di Carugate (Milano), Filippo Falotico, 20 anni, di Coazze (Torino). Feriti un altro gruista, Mirzad Svrka, 39 anni, bosniaco e residente a Chivasso (Torino), e due passanti, un uomo di 33 anni e una donna di 61, ora ricoverati, in codice giallo, al Cto.

Le indagini sono coordinate dalla Procura di Torino a lavoro per accertare le responsabilità del crollo. Il pubblico ministero Giorgio Nicola ha ascoltato l’operaio rimasto ferito nel crollo di una Gru. L’incontro, durato circa un’ora e avvenuto in ospedale, era finalizzato ad acquisire le prime informazioni sull’accaduto.

Secondo una prima ricostruzione sono due gli impianti coinvolti nel crollo, impegnati per la ristrutturazione della facciata di un condomino di sette piani. Il primo è la Gru fornita per i lavori dalla ditta Loca-Gru. Il secondo è il mezzo dell’azienda calabrese  incaricata dei lavori che serviva per l’assemblaggio. A collassare, e a piombare sull’altro, potrebbe essere stato il secondo ma la risposta potrà arrivare soltanto dagli accertamenti tecnici.

Gli operai farebbero parte di una terza azienda, con sede in provincia di Milano. Secondo una prima ricostruzione, erano sulla Gru e sono precipitati da decine di metri di altezza. Uno di loro e’ finito sotto il contrappeso in cemento. Il braccio dell’automezzo della Calabrese si è spezzato in due, restando comunque agganciato alla base, ed e’ piombato sulla palazzina di fronte. La Gru si e’ rotta in quattro parti. Il cantiere per la ristrutturazione è della società torinese Fiammengo.

“Un grande dolore e sconcerto per questo nuovo drammatico incidente sul lavoro. Una grave ferita per la città, profondamente scossa. Esprimo il cordoglio alle famiglie”. A dirlo il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, arrivato in mattinata sul luogo della tragedia. “I luoghi di lavoro – sottolinea – dovrebbero essere posti da cui tornare e dove essere sicuri. La morte di questi tre lavoratori e’ una grave ferita per la citta’. Le dinamiche saranno chiarite dalle autorità competenti”. L’amministrazione comunale – prosegue Lo Russo – è mobilitata con il pronto intervento, la protezione civile e la Polizia municipale per le operazioni necessarie. Come sindaco e a nome di tutta l’amministrazione comunale seguiamo costantemente la situazione e lunedì  riferiremo in Consiglio sull’accaduto”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

(ANSA il 17 Dicembre 2021) - Vittorio Tommasone stava lavorando stamattina alla ristrutturazione di un edificio privato. È caduto giù da una impalcatura ed è morto, a 59 anni. Lavorava a Ischia, senza un regolare contratto di lavoro, e lascia la moglie e tre figli.

Luigi Aprile di anni ne aveva 51. Stava spostando una gru da un camion, quando il macchinario si è inclinato facendogli perdere l'equilibrio. È precipitato da un'altezza di 10 metri ed è morto sul colpo, a Massafra (Taranto). Non si ferma la mattanza delle morti sul lavoro. E oggi, solo oggi, le vittime sono quattro. In questa tragica lista anche la morte di un operaio di 55 anni, Pierino Oronzo, ustionato nel Salernitano mentre stava effettuando lavori di posa di una guaina su un immobile. La vittima si è accasciata sul bitume rimanendo ustionata.

È morto invece poche ore dopo il suo arrivo all'ospedale Brotzu di Cagliari, Adriano Balloi, 60 anni di Tortolì, rimasto incastrato sotto un escavatore ieri sera mentre lavorava in un terreno privato a Monte Attu a Tortolì. E due degli operai morti oggi lavoravano in nero. Tommasone era originario di Napoli ma residente nell'isola da molto tempo. Era stato a lungo dipendente di un parco termale e da qualche anno, nel periodo invernale, lavorava nel settore edile. Stamattina era a Forio, in un cantiere. Era irregolare in quel cantiere, nessun contratto, hanno accertato i carabinieri. È caduto da un montacarichi dal secondo piano della casa in ristrutturazione nella zona di Cava dell'Isola. Tommasone, dopo l'impatto, è stato portato dai colleghi di lavoro con un furgone all'ospedale Rizzoli ma le ferite erano gravissime e i medici non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. I militari hanno sequestrato il cantiere e la salma e in queste ore stanno interrogando gli altri operai della ditta, i testimoni. Vogliono capire la dinamica, le cause. Quello che è certo, al momento, è che lavorava in nero. E che è morto.

Un po' più a Sud, in Puglia, e la storia non cambia. Luigi Aprile, di Massafra (Taranto), era un gruista dipendente della ditta Massucco che si occupa di logistica, movimento terra e noleggio macchine operatrici. È morto nella sede dell'azienda, sulla statale Appia. Stava spostando una gru da un camion, ma il macchinario si è inclinato e lui è precipitato giù, per 10 metri. Ha sbattuto la testa, è morto all'istante. Sul luogo dell'incidente sono intervenuti gli operatori del 118, i carabinieri e lo Spesal (Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro dell'Asl).

Sono stati avviati gli accertamenti per ricostruire l'esatta dinamica dell'incidente e stabilire le responsabilità. Ma, intanto, si allunga, sempre di più l'elenco degli incidenti, mortali, sui luoghi di lavoro. 

Anche in Sardegna, a Monte Attu a Tortolì, in Ogliastra, un operaio di 60 anni è rimasto incastrato per diverse ore sotto un mezzo meccanico di movimentazione terra. Stava lavorando per la costruzione di una casa in un lotto privato. Ha subito un trauma all'addome che è stato fatale.

(ANSA il 17 Dicembre 2021) - Un operaio è morto stamani al Porto vecchio di Trieste. Il lavoratore, secondo quanto si apprende, è rimasto schiacciato sotto una gru. L'incidente è avvenuto poco dopo le 10 nella zona del molo III del Porto Vecchio dove l'uomo, di circa 60 anni, stava lavorando sotto il braccio meccanico di una gru. All'improvviso questo si è piegato in due, schiacciandolo. La vittima sarebbe di origini venete. L'incidente è avvenuto nei pressi del molo 3/o del vecchio scalo e la vittima è un operaio di una ditta esterna, non portuale, che si occupa di smontaggio delle gru, come si apprende da fonti sindacali. L'incidente sarebbe avvenuto al di fuori del terminal, in un'area adiacente. Questa è stata ovviamente chiusa per consentire le operazioni di rito delle forze dell'ordine che dovranno accertare con esattezza la dinamica dei fatti. Le organizzazioni sindacali tutte USB, CGIL CISL e UIL hanno deciso di proclamare uno sciopero generale del porto di Trieste a partire dalle ore 12.00 di oggi, per tutta la giornata. "Riteniamo che tale fatto sia assolutamente grave. L'ennesimo omicidio di un lavoratore in nome del profitto", riporta una nota dei sindacati. 

Gru cade su palazzo: le vittime tra i 20 e i 54 anni. (ANSA il 18 dicembre 2021) - Le vittime nel crollo della gru a Torino sono Roberto Peretto, di Cassano d'Adda (Milano), 52 anni, Marco Pozzetti, 54 anni, di Carugate (Milano), Filippo Falotico, 20 anni, di Coazze (Torino). I primi due sono morti sul colpo, il terzo poche ore dopo in ospedale, al Cto di Torino,. Feriti un altro gruista, Mirzad Svrka, 39 anni, bosniaco e residente a Chivasso (Torino), e due passanti, un uomo di 33 anni e una donna di 61, ora ricoverati, in codice giallo, al Cto. La procura di Torino intende affidare una consulenza a Giorgio Chiandussi, docente del Politecnico, per fare luce sul crollo di una gru che stamani ha provocato 3 morti e 3 feriti. Lo si è appreso in ambienti vicini all'indagine. Chiandussi opera nel dipartimento di ingegneria meccanica. "Se l'amicizia avesse un nome quello sarebbe il tuo, e se avesse un volto avrebbe i tuoi occhi e il tuo sorriso. La vita ti ha portato via senza che potessimo prevederlo. Buon viaggio Filippo, mancherai". È il messaggio che un'amica di Filippo Falotico, l'operaio di 20 anni morto questa mattina a Torino nel crollo di una gru dedica all'amico sulle pagine di Facebook. Filippo, residente a Coazze (Torino), in Val Sangone, era il più giovane dei tre operai deceduti. Roberto Peretto aveva 52 anni e Marco Pozzetti 54 anni. Sul profilo della giovane vittima sono molte le foto della sua grande passione: auto e moto vintage. In particolare 'vecchi' motorini e quelli da cross. Insieme alle Cinquecento anni '90. "Con grossa rabbia e tanta incredulità sull'accaduto - scrivono dal gruppo Cinquecento Volte Passione di cui era socio - comunichiamo la perdita del nostro amico Cinquecentista Filippo Falotico. Un ragazzo semplice e educato, disponibile e davvero appassionato. Il nostro club si unisce al dolore della famiglia e amici rivolgendo le più sentite condoglianze. Ciao Filippo". "Sono distrutto da questa notizia - scrive in un altro post un amico di Filippo - la vitalità che avevi, la forza, la voglia di fare e di vivere che trasmettevi era smisurata... sono cose che non riesci a credere e non ci sono parole per descriverle.. riposa in pace ragazzo, eri un pazzo e una brava persona per davvero.." 

Crollo gru: residente, subito prima era passato un bus.  (ANSA il 19 dicembre 2021) - "Pochi secondi prima del crollo della gru era passato un autobus. L'auto colpita gli era subito dietro". È quanto afferma un commerciante di via Genova, a Torino, in merito all'incidente che ieri è costato la vita a tre operai. Nella vettura viaggiava un uomo che ha riportato lievi ferite. "Il conducente del pullman - aggiunge un altro residente - deve avere sentito il botto dietro di sé. Dopo un attimo di esitazione ha accelerato ed è andato via". "Bastava un semaforo rosso e un po' di coda - osserva un terzo - e la strage sarebbe stata ancora peggiore". È stato messo sotto sequestro a Torino il tratto di via Genova dove ieri il crollo di una gru ha provocato la morte di 3 operai e il ferimento di altre tre persone. L'area è transennata e presidiata da vigili del fuoco e polizia municipale. Ai residenti, secondo quanto spiegano tecnici dal Comune, è consentito l'accesso da varchi alternativi. All'interno dell'area sono al lavoro alcuni vigili del fuoco. Rispetto a ieri lo stato dei luoghi è sostanzialmente immutato. Sull'asfalto ci sono ancora i teli dorati che ieri erano stati utilizzati per coprire i corpi di due operai rimasti senza vita ( il terzo è deceduto dopo il trasporto in ospedale). Sulla zona stamani gravava una fitta nebbia. 

(ANSA il 22 dicembre 2021) - Un cedimento nell'asfalto è stato notato oggi nel corso del sopralluogo dei consulenti tecnici nel tratto di via Genova, a Torino, dove sabato scorso il crollo di una gru è costato la morte di tre operai. Non si ha però la conferma che questa sia la causa dell'incidente. La leggera flessione è stata notata in corrispondenza di uno dei 'piedi' di appoggio dell'autogru: per gli esperti, comunque, non si può tracciare un collegamento diretto, anche perché è probabile che si sia verificata durante la caduta della struttura. Altre deformazioni dell'asfalto ("buchi da caduta") risultano visibili nei punti in cui si sono abbattuti grandi blocchi di cemento o altro materiale. La gru risultava perfettamente in asse. Prima del crollo la torre era montata in tutta la sua altezza, così come la parte chiamata in gergo "controfreccia". Era in corso l'assemblaggio del braccio più lungo, e, durante questa operazione, il 'braccio' snodato dell'autogru e la struttura reticolare della gru erano agganciate. Sempre a un primo esame sommario, i due mezzi erano in piena efficienza. 

La gru crollata a Torino, le testimonianze: «Ho sentito dolore alla testa, mi sono ritrovata piena di sangue». Massimo Massenzio e Nicolò Fagone La Zita su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. La donna colpita da un calcinaccio: «Non ricordo nulla». Il barista: «Fosse successo durante un giorno feriale avremmo contato decine di vittime. Questa strada è sempre trafficata. Ho visto gli operai che cercavano disperatamente di non cadere nel vuoto». «Non so cosa sia successo, ho sentito un dolore alla testa e mi sono ritrovata piena di sangue. Non mi ricordo nulla». Al telefono con una vicina di casa Carolina Suraci, 61 anni, che abita a poche centinaia di metri di distanza dal luogo del crollo della gru, ricostruisce i tragici momenti vissuti ieri in via Genova. È una dei «sopravvissuti», colpita da un calcinaccio, o forse da un pezzo di traliccio. La donna è crollata a terra e il primo a soccorrerla è stato Alberto, titolare del bar all’angolo con via Millefonti, che in quel momento stava attraversando la strada: «Aveva un taglio profondo – racconta –. L’abbiamo fatta accomodare qui nei tavolini sotto i portici, era sconvolta».

Non è l’unica «miracolata» di quella che poteva essere una strage: «Fosse successo durante un giorno feriale avremmo contato decine di vittime — continua Alberto —. Questa strada è sempre trafficata e invece in quel momento passava solo quell’Alfa Romeo grigia. La portiera è volata via, esplosa, ma la torre ha colpito solo la parte destra dell’abitacolo. Il conducente è uscito sulle sue gambe e io purtroppo ho visto tutto. Sentivo urlare dall’alto, ho alzato gli occhi e la gru ondeggiava, come se ci fosse una tempesta, ma non tirava un alito di vento. C’erano due persone che cercavano disperatamente di non cadere nel vuoto, ma non ce l’hanno fatta e sono precipitati giù. È stato terribile». Sull’asfalto sono rimasti i corpi di Roberto Peretto e Marco Pozzetti, titolari di piccole imprese individuali, con oltre venti anni di esperienza alle spalle. Filippo Falotico, invece, la passione per il «lavoro in alta quota» l’aveva ereditata dal padre Domenico, imprenditore sempre nel settore edile. Lui adorava le moto e le auto d’epoca, con una predilezione per la Cinquecento.

Sui social sono tantissimi i post di affetto e vicinanza degli amici delle vittime, ma altrettanto toccanti sono le testimonianze dei residenti che si sono precipitati in strada per portare i primi soccorsi, assieme a medici e infermieri del 118: «Ho sentito un boato e ho pensato a un terremoto — racconta Giacomo Anfuso, 56 anni —. La scrivania si è messa a tremare, sono corso giù per le scale e ho visto la gru collassata su un palazzo e i corpi degli uomini a terra. Mio figlio lavora nell’edilizia e, da padre, dico che non è accettabile che accadano ancora incidenti del genere».

Accanto a lui Luca La Rosa, 30 anni, che parla con la voce rotta dalla commozione: «Mi sono avvicinato a un operaio. Era sdraiato, pensavo fosse ancora vivo e volevo soccorrerlo. Gli ho chiesto come stava e solo dopo ho capito che non mi avrebbe mai risposto. Non lo conoscevo, ma non dimenticherò mai il suo volto». La titolare del bar di via Genova aveva invece servito la colazione alle vittime, appena poche ore prima: «Venerdì avevano mangiato da me e oggi (ieri, ndr) scherzavano felici. Erano contenti perché il turno di lavoro sarebbe finito presto e invece adesso non ci sono più. È orribile».

Torino, gru cade in via Genova. L’azienda: «Abbiamo visto i filmati, era in asse. Non ce lo spieghiamo». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2021. La ditta operava anche sul palazzo andato a fuoco. Aperta un’inchiesta. «Non sappiamo come sia potuto succedere, abbiamo visto i filmati girati pochi istanti prima del crollo e la gru era perfettamente in asse. È una tragedia che al momento resta inspiegabile. Lavorare così, però, è difficile, viene voglia di dire basta». Gian Luca Vigna, uno dei titolari della Fiammengo Federico srl, una delle più importanti società torinesi specializzate in ristrutturazioni è stato fra i primi ad arrivare in via Genova dopo il crollo della gru costato la vita a tre operai specializzati. Alla Fiammengo — impegnata anche nel restauro del palazzo di piazza Carlo Felice, andato a fuoco all’inizio di settembre — era stato assegnata la parte più grossa del cantiere per il rifacimento del tetto del condominio di strada Genova. Per il rogo di piazza Carlo Felice è stato indagato un artigiano che stava montando una cassaforte in un alloggio. E anche in questa occasione la società torinese aveva subappaltato a ditte esterne l’assemblaggio della gigantesca gru di fronte alla palazzina alle spalle del Lingotto. La Calabrese Autogru, colosso piemontese del settore, ha fornito l’autogru gialla che ha accompagnato le fasi di montaggio. La Loca Gru Srl, sede legale in strada Villaretto, ha noleggiato invece la torre blu, finita di montare martedì mattina. «Lo ripeto — continua Vigna — Noi non ci occupiamo di montaggi di gru, ma quello che è successo è difficile da spiegare. Ci siamo rivolti ai principali esperti del settore, tutti i certificati sono in regola e quei poveri montatori avevano tutti anni di esperienza alle spalle. E poi la gru era montata, il lavoro era finito, restavano da fissare gli ultimi tiranti e l’autogru si sarebbe potuta sganciare». Filippo Falotico, ventenne di Coazze, Roberto Peretto, 52 anni, di casa a Cassano d’Adda e Marco Pozzetti, 54, di Carugate erano in cima alla cuspide a 40 metri di altezza quando la gru ha iniziato a ondeggiare spaventosamente. Erano ancorati e in sicurezza, ma sono precipitati al suolo assieme alla struttura da un’altezza di 40 metri. Il cantiere si era aperto giovedì e ieri era stata issata la torre: «Si comincia dal basamento — spiega Vigna — e poi si assemblano tutti gli elementi della torre, sempre in sicurezza. Erano arrivati agli ultimi serraggi, bisognava solo sganciare l’autogru. Dentro il braccio si lavora legati con la cintura, sul camminamento. Quei tre poveri operai non sono caduti dalla gru, ma purtroppo sono precipitati assieme alla gru». Secondo il comandante provinciale dei vigili del fuoco Agatino Carrolo, i primi sopralluoghi farebbero supporre «un cedimento strutturale alla base». Non è escluso che a sprofondare, anche di pochi centimetri, possa essere stato l’asfalto, sotto il peso della struttura: «Ovviamente non sono un tecnico, ma mi sembra un’ipotesi verosimile in base a i racconti che abbiamo ascoltato — precisa l’avvocato Paolo Pacciani, legale della Fiammengo —. Il cedimento dell’asfalto potrebbe aver provocato l’oscillazione del braccio e poi il crollo. Ma aspettiamo le valutazioni dell’autorità giudiziaria». Cautela anche da parte dell’avvocato Saverio Rodi, che assiste la Calabrese: «Non ci risulta nessun cedimento dell’asfalto sotto l’autogru dei nostri assistiti, ma lasciamo che le indagini facciano il loro corso. I miei clienti sono sconvolti e vogliamo esprimere la nostra vicinanza alle famiglie delle vittime». Tantissimi i post sui social in ricordo di Filippo Falotico, grande appassionato di moto e auto: «Con grossa rabbia e tanta incredulità sull’accaduto — scrivono dal gruppo Cinquecento Volte Passione, di cui era socio —. Filippo era n ragazzo semplice e educato, disponibile e davvero appassionato. Ciao Filippo». La procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo.

La tragedia di Torino. Crollo gru Torino, il racconto del sopravvissuto Pier Luigi: “Miracolato per pochi centimetri, sembrava una scena di guerra”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Dicembre 2021. “Io non credo ai miracoli, però ci sono state troppe coincidenze tutte insieme. Non so cosa sia successo, ma è strano”. Parla così Pier Luigi Erre, 33enne di Alghero ma residente in Liguria, dopo essere scampato alla tragedia di via Genova a Torino, dove sabato 18 dicembre una gru si è schiantata al suolo provocando la morte di tre operai. Pier Luigi era nel capoluogo piemontese per lavoro, si stava recando infatti all’Otto Gallery transitando proprio in via Genova quando, per cause ancora da accertare, la gru è crollata abbattendosi sulla sua auto, una Alfa Romeo Mito. Il 33enne tecnologo alimentare dalla vettura è uscito incredibilmente illeso. Al Corriere della Sera Pier Luigi racconta i momenti precedenti allo schianto: “Avevo appena superato il cantiere, c’era una deviazione che obbligava le auto a spostarsi sulla destra. Ho sentito un rumore, un boato. Non capivo cosa fosse, ma l’istinto mi ha spinto ad accelerare”. Qualcosa quindi colpisce il tetto della Mito “proprio sul lato del guidatore. La portiera è volata via, sono esplosi gli airbag e io sono stato spinto all’indietro contro il sedile. In un secondo mi è passata tutta la vita davanti e ho pensato che non ce l’avrei fatta, anche se non avevo idea di cosa stesse succedendo. Poi mi sono reso conto che potevo muovermi e sono sceso dall’abitacolo con le mie gambe, faccio ancora fatica a crederci”. A soccorrere Pier Luigi sono state le due titolari di un market sotto i portici di via Genova, “due donne splendide che non finirò mai di ringraziare”, racconta il sopravvissuto. “Si sono precipitate verso di me, mi hanno aiutato a camminare e poi mi hanno assistito fino a quando non è arrivato il personale del 118. Anche loro sono stati eccezionali, così come i vigili e la polizia”, continua il 33enne. Quindi il dramma dell’incidente: “Ho visto uno di quei poveri operai, immobile sull’asfalto. È un’immagine che continuo ad avere davanti agli occhi. Io mi sono salvato, loro no e mi dispiace”. Una volta uscito dalla sua auto, Pier Luigi è stato trasportato in ospedale e da lì “ho trovato la forza di chiamare i miei familiari”. Lì, al triage del pronto soccorso, aggiunge Erre, “ho incontrato anche l’altra donna ferita. Lei era ancora più scossa di me e, quando ha capito che io ero alla guida della macchina grigia rimasta sotto il braccio della gru, mi ha detto: “Lei è un miracolato”. Lo ripeto, io non credo ai miracoli, però ci sono state troppe coincidenze tutte insieme. Non so cosa sia successo, ma è strano”. Un ‘miracolo’ spiegato dai soccorritori, che hanno rivelato a Pier Luigi come “sarebbero bastati pochi centimetri e l’impatto sarebbe potuto essere fatale”. Forse, è l’ipotesi fatta dal sopravvissuto all’incidente, “è stato proprio l’ultima accelerata, quella spinta a scappare quando ho sentito il boato. In ogni caso sono stato salvato dalla resistenza e dalle protezioni della mia auto. Altrimenti sarei stato comunque schiacciato”. Via Genova che, ricorda oggi Pier Luigi, “sembrava una scena di guerra, non ho mai assistito a niente del genere”. “Rivedo quel corpo a terra e nelle orecchie ho ancora quelle urla che non capivo da dove venissero – racconta il 33enne sardo -. Quando sono arrivato a casa ho fatto l’errore di accendere la televisione e ho visto la mia auto schiacciata. Non sono riuscito a dormire e mi viene la pelle d’oca ancora adesso”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Disastro della gru a Torino, la pista del suolo fragile: “Potrebbe aver ceduto la strada". Federica Cravero La Repubblica il 19 Dicembre 2021. Inchiesta per omicidio colposo: i pm vogliono capire cosa abbia innescato il crollo che ha ucciso i tre operai. Da due giorni la strada era stata ristretta per far posto al cantiere di via Genova, davanti al civico 116, dove ieri mattina sono morti tre operai per il crollo della gru. Giovedì hanno transennato, venerdì è arrivata la gru e hanno iniziato a tirarla su e sabato a mezzogiorno avrebbe dovuto essere completato il montaggio.

Massimiliano Peggio per “La Stampa” il 22 dicembre 2021. «Una sollecitazione anomala in quota non gestibile». Potrebbe essere racchiusa in questa formula tecnica la causa del disastro delle due gru crollate a Torino sabato scorso, provocando la morte di tre operai: Roberto Peretto, 52 anni, Marco Pozzetti, 54, e Filippo Falotico, 20. Professionisti, «montatori» specializzati nell'assemblaggio e nella manutenzione di gru edili a torre, le strutture che in genere svettano sui cantieri dei palazzi in costruzione. Sono precipitati da un'altezza di circa 40 metri, trascinati giù dalla struttura che stavano completando. Da un primo studio dei rottami: il fissaggio finale del braccio della gru edile, a sezione triangolare, non era stato ancora ultimato. Dei tre perni richiesti, due erano stati inseriti e avvitati. Mancava il terzo. Perché gli operai non sono riusciti a fissare il terzo? Che cosa è successo in quegli instanti fatali che ha innescato il crollo? Sono i quesiti chiave cui cercherà di dare una risposta il consulente della procura, Giorgio Chiandussi, docente del Politecnico, già incaricato di decifrare la tragedia del Mottarone. La zona del crollo è ancora sotto sequestro. Oggi è previsto un sopralluogo tecnico allargato, cui partecipano anche i consulenti delle aziende coinvolte nell'incidente. La ditta Calabrese, proprietaria dell'autogru impiegata per assemblare la gru a torre: il manovratore del mezzo ha collaborato con i tre operai sollevando e portando in «quota» i vari pezzi da incastrare, fino alla massima altezza di 40 metri. La ditta Locagru, proprietaria della gru edile, che ha ingaggiato i tre montatori. Infine l'impresa Fiammengo responsabile del cantiere allestito di fronte al complesso condominiale di via Genova 116, alle porte della città. L'impresa Fiammengo, per realizzare il rifacimento del tetto di un palazzo di 7 piani, ha noleggiato la gru. Nelle attività edili questa frammentazione di appalti è molto comune. Secondo gli esperti, però, è un fattore che crea spesso criticità di «comunicazione» tra operai. «La rotazione di incarichi non aiuta la coesione informativa». Ciò comporta a volte difficoltà di dialogo nelle operazioni complesse, talvolta aggravate da barriere linguistiche per la presenza di lavoratori stranieri. Aspetto vagliato dagli inquirenti, poiché il manovratore dell'autogru, Mirzad Svraka, 39 anni, è di origine bosniaca ma parla correttamente l'italiano. Stando alle indagini, coordinate dal pm Giorno Nicola, affidate a un pool di investigatori, il manovratore riceveva le indicazioni di manovra dai tre operai tramite il telefonino. Tutti i cellulari sono stati sequestrati per l'analisi dei contatti telefonici. L'incidente avviene nella fase finale dell'assemblaggio. L'autogrù solleva il braccio della gru edile, lungo una cinquantina di metri, in cima alla torre, cioè fino alla massima quota. Il carico è agganciato con le catene all'asta estensibile dell'autogru. All'ancoraggio del braccio alla sua torre avrebbero lavorato Peretto e Pozzetti, mentre il più giovane, imbracato, si trovava sul camminamento a forma triangolare, pronto forse a gestire lo sganciamento. Fissati i due perni alla «ralla», il dispositivo che fa roteare la gru edile, il braccio andava stabilizzato e fissato con il terzo perno alla cuspide, parte terminale della torre. Dalla prima analisi dei rottami, gli operai non sarebbero riusciti a inserire l'ultimo perno. In genere l'ancoraggio segue una sequenza prestabilita, prima la ralla, per sfruttare l'inclinazione di sollevamento, infine la cuspide. Se in questa fase si verifica un'anomalia, al massimo della quota di lavoro e con le «due macchine» ancora «vincolate l'una all'altra con le catene», in caso di errore il braccio meccanico dell'autogru ha «ristrette possibilità di correzione». Soprattutto quando si creano sollecitazioni laterali. Superata la soglia di resistenza, il braccio meccanico subisce uno «svergolamento». Una deformazione strutturale che sarebbe compatibile con quella che appare nella parte alta del braccio meccanico ancora adagiato alla facciata del palazzo

Niccolò Carratelli per "La Stampa" il 20 giugno 2021. Su dieci aziende dell'edilizia controllate, nove non erano in regola. All'indomani del crollo della gru di Torino fanno rumore le parole di Bruno Giordano, da agosto alla guida dell'Ispettorato nazionale del lavoro. «Questo è il risultato della nostra vigilanza straordinaria, effettuata dal 30 agosto a metà dicembre - spiega a La Stampa - parliamo di centinaia di aziende ispezionate ogni mese, in tutto alcune migliaia». E, nel 90% dei casi, sono state trovate irregolarità di vario tipo: «Illeciti formali, lavoro nero, sfruttamento dei lavoratori, caporalato - racconta Giordano - poi violazioni delle misure di sicurezza e prevenzione o delle norme sui contratti di subappalto». Ecco quello che, per il capo degli ispettori, è «il vero buco nero della sicurezza nell'edilizia: i subappalti, nell'ambito dei quali viene assunta manodopera irregolare e senza formazione adeguata». Quello che mette davvero a rischio gli operai, assicura, è la «non consapevolezza dei rischi che corrono, a causa della mancata formazione. Quest'ultima dovrebbe essere garantita agli operai, mentre spesso viene ritenuto un costo sui cui risparmiare. C'è proprio un «mercato della falsa formazione, con finti attestati, per far risultare in regola lavoratori senza nessuna preparazione», spiega Giordano, una carriera da magistrato, in passato gip a Milano e pretore a Torino. Troppo spesso, quando si tratta di sicurezza, le grandi aziende scaricano il rispetto delle norme sulle piccole (a cui danno il subappalto), che «pur di lavorare sono disposte a tutto: non a caso la maggior parte degli incidenti avviene nei cantieri gestiti in subappalto», precisa il direttore dell'Ispettorato. Che si appresta ad accogliere 2.480 nuovi ispettori nei primi sei mesi del 2022: «Sono stati assunti con i concorsi appena conclusi, i primi 1.300 prenderanno servizio a gennaio». Ma, aggiunge Giordano, non è tanto un problema di uomini o di risorse, il vero nodo da sciogliere è quello del coordinamento degli organi di vigilanza, «che è un obbligo per tutti e funziona in modo eterogeneo a seconda dei territori: con alcune Asl va bene, con altre meno». L'attività è stata resa ancora più intensa dai bonus edilizi decisi dal governo, che hanno fatto ripartire il settore e che «non vanno demonizzati - dice Giordano - ma le nostre verifiche servono a evitare che la ripresa sia fatta sulla pelle dei lavoratori».

Jena per “La Stampa” il 19 dicembre 2021. Perché tanti morti sul lavoro? Chiedetelo alle imprese.

Ispettorato Lavoro: "Il 90% delle imprese edili non è in regola". Redazione Tgcom24 il 19 dicembre 2021. "Abbiamo iniziato una vigilanza da qualche mese da cui risulta che oltre 9 imprese edili su 10 non sono regolari". lo sottolinea il direttore dell'Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, parlando della sicurezza nei cantieri e le morti sul lavoro. "Le risorse sono sufficienti ma occorre - afferma - il coordinamento degli organi di vigilanza per intervenire nella prevenzione e nella repressione delle violazioni".

Edilizia, gli ispettori del lavoro: "Nove imprese su dieci non sono in regola". La Repubblica il 19 Dicembre 2021. Il direttore dell'Ispettorato nazionale del lavoro Bruno Giordano: "Le risorse ci sono ma serve il coordinamento degli organi vigilanza". Il 90% delle imprese edilizie monitorate dall'Ispettorato nazionale del lavoro non è in regola. È quanto mette in evidenza al Tg3 il direttore dell'Ispetto rato Bruno Giordano, all'indomani della tragedia di Torino in cui hanno perso la vita tre operai. "Abbiamo iniziato una vigilanza da qualche mese da cui risulta che oltre 9 imprese edili su 10 non sono regolari", ha detto Giordano. "Le risorse sono sufficientI ma occorre - afferma - il coordinamento degli organi di vigilanza per intervenire nella prevenzione e nella repressione delle violazioni in materia di sicurezza". "Gli incidenti e le morti sul lavoro restano l'emergenza più grande: continuiamo ad assistere ad una strage indegna di un Paese civile. È inaccettabile perdere la vita per la mancata applicazione delle misure di sicurezza e dei contratti". È quanto sottolinea oggi in un'intervista a La Stampa il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra sul crollo della gru di ieri in cui sono morti tre operai a Torino. "Per fermare questa lunga scia di sangue bisogna rafforzare le misure di contrasto, già deliberate dal Governo, servono misure repressive, più controlli, più medici del lavoro. E le imprese non possono considerare la sicurezza soltanto un costo", aggiunge. Per Sbarra, "è evidente che c'è un problema di controlli e di ispezioni che non sono oggi sufficienti a garantire la sicurezza nei cantieri, tanto più in una situazione di forte ripresa del settore dell'edilizia. Molte imprese utilizzano in maniera discutibile, a volte selvaggia, il sub appalto e spesso chi subentra applica la logica del massimo ribasso a discapito della sicurezza, della prevenzione, del rispetto dei contratti. È un sistema che va cambiato profondamente. Anche per questo chiediamo la patente a punti e un'azione di prevenzione concreta a cominciare dai luoghi di lavoro più a rischio".

Sbarra prosegue: "Noi abbiamo giudicato solo un primo passo i provvedimenti adottati del Governo che ora dovranno essere applicati. Occorre assumere più ispettori e medici del lavoro per rafforzare le verifiche, la piena applicazione della normativa sulla sicurezza. Poi è necessario un forte investimento sulla formazione, a cominciare dalle scuole e più prevenzione, per far crescere la cultura della sicurezza che è anche cultura della legalità. Scontiamo su questo un abissale ritardo.

Irene Famà e Massimiliano Peggio per “La Stampa” il 19 dicembre 2021. «Voglio morire, lasciatemi morire». Mirzad Svrka, 39 anni, manovratore di autogru, lo ha ripetuto più volte in ospedale, al personale del pronto soccorso di Torino. Quando tutto è crollato davanti ai suoi occhi era seduto al posto di manovra sul mastodontico camion giallo: azionando le leve e comandi pilotava il braccio d'acciaio telescopico, a cui era agganciato un altro braccio d'acciaio, lungo una cinquantina di metri, quello della gru edile, di colore blu, assemblata pezzo dopo pezzo in meno di due giorni di lavoro. Era la fase finale, ma la più delicata. Lassù, sopra di lui, a 40 metri d'altezza, c'erano tre «montatori». Così si chiamano gli operai specializzati che s' inerpicano sui tralicci sottili a stringere bulloni, guardando nel vuoto. I tre erano in collegamento telefonico con Mirzad. «Sposta, alza, ferma» gli dicevano, perché la sua visuale non era ottimale. Forse uno sbilanciamento, forse una manovra non ben calibrata ha provocato il collasso delle strutture. Il braccio dell'autogrù si è piegato come burro. Il braccio della gru e tutta la torre sono venuti giù di schianto sulla strada, trascinandosi appresso i tre operai. Roberto Peretto, 52 anni, Marco Pozzetti, 54 anni, sono morti sul colpo. Filippo Falotico, 20 anni, è spirato poco dopo il ricovero in ospedale. Un automobilista, Pierluigi Erre, 33 anni, si è salvato per un soffio. «Ho visto la gru che si inclinava e tre uomini che ceravano di restare aggrappati. Li ho visti precipitare insieme alla gru che si è come piegata a metà. E non ho potuto fare nulla», racconta Alberto, titolare di un bar lì accanto. Prendendo il caffè, in un altro locale vicino al cantiere, i tre colleghi lo hanno detto ad alta voce: «Oggi ci sbrighiamo e andiamo a casa». Alle 10, in un breve tratto di via Genova, trafficatissima strada nella periferia Sud di Torino, un boato ha scosso il quartiere. Le due gru si sono accartocciate su se stesse. Si sono abbattute sulle auto, sui palazzi, sul porticato dei pedoni. Hanno sollevato l'asfalto, proiettato detriti in tutte le direzioni. Tre morti e tre feriti. Nel bilancio dei sopravvissuti c'è anche una donna di 60 anni che stava facendo la spesa. È stata colpita dai calcinacci. Anche lei è finita in ospedale ma con ferite lievi. «La gru mi ha distrutto il balcone, fortuna che non mi trovavo in casa», dice sconvolta Germana Nano, facendosi largo tra la folla di soccorritori. Il braccio dell'autogrù si è adagiato sulla facciata del palazzo, danneggiando il suo alloggio. E lì e rimasto, in bilico sopra l'ingresso dell'ufficio postale di zona. L'insegna è andata in frantumi. «Stranamente non c'era nessuno in coda quando è venuto giù tutto», dice un inquilino. Il braccio della gru edile, invece, ancora assicurata ai cavi di sollevamento, si è schiantato ai piedi del palazzo, esattamente in corrispondenza del marciapiede e della corsia riservata ai bus. «Insolitamente era quasi deserta la via. Quasi un miracolo che non ci fossero altre persone lì sotto», commenta un vigile del fuoco, guardando la scena. Pierluigi Erre, che era alla guida di una Mito grigia ha raccontato ai soccorritori di aver sentito un forte scossone, e di non essersi accorto di nulla. «Stavo guidando e mi sono ritrovato circondato dai tralicci della gru». Ha riportato lesioni guaribili in 60 giorni. Nella sua auto sono esplosi tutti gli airbag. Ha varie fratture, ma se l'è cavata. Tutta la scena degli istanti successivi al crollo è stata filmata da un passante e finita poi in rete. Si vedono i corpi, le grida della gente, i pianti dei colleghi. Sono arrivate le ambulanze del 118, le squadre dei vigili del fuoco. I tre operai che stavano lavorando a quaranta metri d'altezza, trascinati giù da quella trappola di metallo. Stavano lavorando alle ultime fasi dell'assemblaggio della gru, noleggiata dall'impresa Fiammengo di Torino per avviare i lavori di ristrutturazione di un tetto condominiale di sette piani. Il cantiere era stato appena aperto ed era in fase di allestimento. Un contesto con qualche criticità: i lavori riguardano un palazzo interno di un ampio caseggiato, lontano una trentina di metri dal margine della strada. L'impresa Fiammengo è una grande azienda di ristrutturazioni e bonifica amianto. Le attività propedeutiche sono state appaltate ai partner specializzati. La gru edile è di proprietà della ditta torinese Locagru, un colosso del settore. In questa fase di cantieri, favorita dalla corsa ai superbonus del 110 per cento, hanno commesse in ogni angolo d'Italia. Per le operazioni di assemblaggio la ditta Locagru ha chiesto la collaborazione dell'impresa Calabrese, altro colosso nel settore autogrù, dei mezzi speciali. I tre operai erano tutti artigiani, operai altamente specializzati, che di solito vengono ingaggiati all'occorrenza. Si spostano di cantiere in cantiere, e il loro lavoro non si improvvisa. Non solo non bisogna soffrire di vertigini, ma occorrono doti atletiche e un patentino professionale. «Stavano ultimando i lavori di ancoraggio dei tiranti del braccio di manovra: pochi minuti e avrebbero finito, c'erano già anche i blocchi di contrappeso - spiega Gian Luca Vigna, responsabile della ditta Fiammengo - La gru era a posto, era in perfetta efficienza e la ditta Logagru è un nostro partner affidabile, con cui collaboriamo da tempo. È un incidente che ci lascia sgomenti». Alberto, titolare del bar all'angolo tra via Genova e via Millefonti, ha vissuto ogni istante della tragedia. «Una macchina è rimasta schiacciata, è volata via anche la portiera. In mezzo alla strada c'era una donna distesa a terra. L'ho soccorsa, l'ho aiutata ad alzarsi e ho tolto i calcinacci». Anna, un'inquilina del palazzo, era alla finestra l'altro ieri, a osservare l'inizio dell'assemblaggio. «Ho osservato quella gru per l'intero pomeriggio. Mi chiedevo che coraggio avessero per stare lassù. Li ho anche fotografati. Erano così felici, spensierati. E ora sono morti. Non riesco a pensarci». Raffaella, barista, ha incrociato i tre operai, nei giorni scorsi. «Sono venuti a pranzo venerdì. Ridevano, scherzavano». Roberto Peretto e Marco Pozzetti abitavano in Lombardia, il primo a Cassano D'Adda, il secondo a Carugate. Marco Pozzetti viveva a Torino. L'altra sera, quando hanno ultimato l'ancoraggio della torre, si sono scattati un selfie catturando il tramonto di Torino. Alle loro spalle la collina e il Po. La procura di Torino ha aperto un'inchiesta. Indagini articolate dirette dal pm Giorgio Nicola, affidate alla polizia, agli ispettore dello Spresal dell'Asl, al nucleo investigativo dei vigili del fuoco, all'ispettorato del lavoro. Ognuno per il proprio settore di competenza. Il pm ha affidato una consulenza tecnica a Giorgio Chiandussi, docente del Politecnico. «Tutta la zona coinvolta nell'incidente resterà per il momento sotto sequestro giudiziario e interdetta. Nelle prossime ore valuteremo il da farsi per rimuovere in sicurezza le due gru. Saranno operazioni molto complicate» spiega il comandante dei vigili del fuoco di Torino Agatino Carrolo.

"Quella gru senza un perno". L'ipotesi dell'errore umano. Nadia Muratore il 23 Dicembre 2021 su Il Giornale. È una delle strade seguite dai pm per capire l'origine della "scossa" che ha fatto crollare il braccio d'acciaio. È tra le lamiere contorte e i rottami della gru precipitata a terra, che gli inquirenti cercato gli indizi utili per ricostruire la dinamica dell'incidente che è costato la vita a tre operai che stavamo montando il mezzo meccanico per dare il via ai lavori di ristrutturazione del tetto di uno stabile in via Genova a Torino.

Esperti, periti e tecnici hanno il compito di osservare e registrare ogni centimetro dell'area dove si è verificata la tragedia e catalogare i pezzi dei mezzi meccanici per accertamenti irripetibili, ai quali hanno partecipato gli esperti della Procura e quelli delle aziende private che, tra appalti e subappalti, erano impegnati sul cantiere. I rottami al più presto saranno spostati e conservati in un magazzino dove, se sarà il caso, potranno nuovamente essere visionati. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo plurimo: nelle prossime ore si attendono le prime iscrizioni nel registro degli indagati. Gli inquirenti hanno già fatto alcune mosse verso questa direzione, ascoltando come persona informata sui fatti l'unico operaio sopravvissuto che manovrava il mezzo che pilotava il braccio d'acciaio telescopico, a cui era agganciato un altro braccio d'acciaio, ossia quello della gru dove si trovavano gli operai precipitati a terra. Inoltre, oltre agli aspetti tecnici, lo Spresal dell'Asl di Torino, ha iniziato ad acquisire materiale utile a ricostruire anche la catena di autorizzazioni e appalti relativi al cantiere per verificare il rispetto delle procedure, nonché il piano operativo di sicurezza. I magistrati intendono anche verificare come mai il Comune di Torino non ha disposto la chiusura totale dell'area interessata dal cantiere e se questa decisione ha potuto in qualche modo incidere sulla dinamica del sinistro. È ancora presto per determinare la causa del crollo della gru, che potrebbe essere racchiusa nella formula tecnica evidenziata dai periti di «una sollecitazione anomala in quota non gestibile».

Bisognerà però capire che cosa ha causato quella sollecitazione che i tre operai esperti e in sicurezza, non hanno saputo gestire, precipitando da oltre quaranta metri di altezza. Da un primo studio dei rottami il fissaggio finale del braccio della gru, a sezione triangolare, non era ancora stato ultimato quando si è verificato l'incidente. Dei tre perni necessari, due erano stati inseriti, ne mancava uno: per quale motivo gli operai non erano riusciti a fissarlo? Che cosa è accaduto in quella manciata di secondi che si sono rivelati fatali per il crollo? I periti, all'inizio, hanno parlato di un cedimento strutturale del terreno o della stessa gru ma ora si fa sempre più concreta, l'ipotesi dell'errore umano. «È prematuro fare ipotesi - ha detto il perito esterno Alberto Giulietto - servono elementi probatori: la posizione oggettiva della gru e l'estensione del braccio. Nel momento in cui è venuto giù il montaggio era praticamente finito, per questo si deve appurare quanto era inclinato il braccio. Sono elementi non noti e che dobbiamo verificare. Nel punto di incastro ci saranno delle tracce e si vedrà se il tutto può derivare da una spinta o se c'è stato un errore umano. Purtroppo l'esperienza mi dice che alla base degli incidenti la maggior parte delle volte c'è un errore umano». Oggi si svolgeranno i funerali dei tre operai morti: Filippo Falotico di 20 anni che dopo la cerimonia a Torino, verrà seppellito in provincia di Potenza. Ultimo saluto nel Milanese, anche per Roberto Peretto, 52 anni e per Marco Pozzetti, 54 anni.

Gru crollata a Torino, testimonianze: “Avevo dolore alla testa, ero piena di sangue. Non ricordo nulla”. Ilaria Minucci il 19/12/2021 su Notizie.it. I sopravvissuti all’incidente avvenuto a Torino a causa del crollo improvviso di una gru hanno rilasciato alcune testimonianze sull’evento.

In relazione all’incidente avvenuto a Torino legato al crollo improvviso di una gru in via Genova, alcuni testimoni rimasti coinvolti nell’evento hanno raccontato la drammatica esperienza vissuta.

Gru crollata a Torino, testimonianze: “Avevo dolore alla testa, ero piena di sangue. Non ricordo nulla”

In seguito all’improvviso crollo di una gru a Torino, alcuni cittadini rimasti coinvolti del drammatico incidente hanno deciso di fornire alcune testimonianze, ripercorrendo i momenti vissuti.

A questo proposito, ad esempio, Carolina Suraci, 61 anni, ha spiegato di vivere a pochi metri di distanza dal sito in corrispondenza del quale la gru è crollata. La donna, che è uno dei sopravvissuti all’incidente, è stata colpita da un calcinaccio o da un pezzo di traliccio e si è accasciata di colpo a terra.

In merito all’incidente, Carolina Suraci ha ammesso: “Non so cosa sia successo, ho sentito un dolore alla testa e mi sono ritrovata piena di sangue. Non mi ricordo nulla”.

Il primo a intervenire per soccorrere la 61enne è stato il titolare di un bar che si trova all’angolo tra via Millefonti e via Genova, Alberto, che ha visto la donna mentre stava attraversando la strada.

Ripercorrendo il momento, il titolare del bar ha riferito: “Aveva un taglio profondo.

L’abbiamo fatta accomodare qui nei tavolini sotto i portici, era sconvolta”.

Il signor Alberto, poi, ha proseguito affermando: “Fosse successo durante un giorno feriale, avremmo contato decine di vittime. Questa strada è sempre trafficata e invece in quel momento passava solo quell’Alfa Romeo grigia. La portiera è volata mia, esplosa, ma la torre ha colpito solo la parte destra dell’abitacolo.

Il conducente è uscito sulle sue gambe e io purtroppo ho visto tutto. Sentivo urlare dall’alto, ho alzato gli occhi e l’agro ondeggiava, come se ci fosse una tempesta, ma non tirava un alito di vento. C’erano due persone che cercavano disperatamente di non cadere nel vuoto, ma non ce l’hanno fatta e sono precipitati giù. È stato terribile”.

Tra le vittime della tragedia, c’erano Roberto Peretto e Marco Pozzetti, titolari di piccole imprese individuali e un’esperienza di circa due decenni. I loro corpi erano riversi sull’asfalto dopo il crollo.

Con Peretto e Pozzetti, è deceduto anche Filippo Falotico, imprenditore del settore edile.

L’incidente avvenuto a Torino ha spinto tanti utenti a condividere sui social post di vicinanza e affetto rivolti ai parenti e agli amici delle vittime. Tra i tanti messaggi, tuttavia, figurano anche alcune testimonianze di residenti che si sono riversati in strada per prestare soccorso ai feriti e supportare l’intervento dei paramedici del 118.

In questo contesto, tra le testimoniante postate sui social, Giacomo Anfuso, 56 anni, ha scritto: “Ho sentito un boato e ho pensato a un terremoto. La scrivania si è messa a tremare, sono corso giù per le scale e ho visto la gru collassata su un palazzo e i corpi degli uomini a terra. Mio figlio lavora nell’edilizia e, da padre, dico che non è accettabile che accadano ancora incidenti del genere”. Luca La Rosa, 30 anni, invece, ha dichiarato con dolore e commozione: “Mi sono avvicinato a un operaio. Era sdraiato, pensavo fosse ancora vivo e volevo soccorrerlo. Gli ho chiesto come stava e solo dopo ho capito che non mi avrebbe mai risposto. Non lo conoscevo, ma non dimenticherò mai il suo volto”. La titolare del bar di via Genova, infine, ha raccontato: “Venerdì avevano mangiato da me e sabato scherzavano felici. Erano contenti perché il turno di lavoro sarebbe finito presto e invece adesso non ci sono più. È orribile”.

Da repubblica.it il 14 dicembre 2021. Si aggrava il bilancio delle vittime sul lavoro in Italia. Un operaio di 51 anni è morto nel pomeriggio a Bodio Lomnago (Varese) nel cantiere di una casa in costruzione, secondo il 118 schiacciato da un mezzo pesante che si è ribaltato. L'uomo è morto all'istante mentre un suo collega di 55 anni è rimasto ferito nel tentativo di soccorrerlo. Sul posto sono stati inviati un'automedica, un'ambulanza, vigili del fuoco, carabinieri e personale dell'ATS. Un'operaia invece in Trentino è rimasta per mezz'ora col braccio incastrato in un macchinario per la lavorazione del pellame. È successo in una conceria di Vallarsa. L'operaia, 22 anni, è stata immediatamente soccorsa dai colleghi che hanno allertato vigili del fuoco, Trentino emergenza e carabinieri che ora stanno verificando le misure di sicurezza adottate dall'azienda. La giovane è stata trasferita in ospedale per gravi fratture. Un altro incidente sul lavoro si è verificato al cimitero di Milanere ad Almese (Torino), dove ieri, mentre durante un funerale era intento a chiudere un loculo, un 47enne, dipendente una ditta di onoranze funebri, è precipitato dall'altezza di oltre quattro metri. Una caduta, secondo una prima ricostruzione, avvenuta per un guasto a un montacarichi. L'uomo è stato trasportato in elisoccorso all'ospedale Cto di Torino, dov'è ricoverato, ma non è in pericolo di vita. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e gli ispettori dello Spresal dell'Asl To3.

Tre incidenti nell'arco di 24 ore. Dramma lavoro: operaia con braccio incastrato nel macchinario, 51enne muore schiacciato e uomo precipita nel cimitero. Redazione su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Si aggrava il bilancio degli incidenti e delle morti sul lavoro in Italia. Un operaio di 51 anni, di origine romena, è morto nel pomeriggio a Bodio Lomnago, in provincia di Varese, mentre lavorava nel cantiere edile per la costruzione del centro sportivo polifunzionale comunale. Secondo gli operatori del 118, giunti sul luogo dell’incidente, il 51enne è stato schiacciato da una betoniera. A quanto emerso dai primi rilievi, a far scivolare e ribaltare il mezzo pesante sarebbe stato un cedimento del calcestruzzo a cui gli operai stavano lavorando.

L’uomo è morto all’istante mentre un suo collega di 55 anni è rimasto ferito nel tentativo di soccorrerlo. L’uomo è stato ricoverato in codice giallo all’ospedale di Cittiglio. La dinamica dell’incidente è ancora al vaglio delle forze dell’ordine.

Sul posto sono intervenuti anche i vigili del fuoco, di Varese che con una gru hanno sollevato la betoniera, i carabinieri e personale dell’Ats che stanno cercando di ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente all’imponente mezzo pesante che serve per la mescolazione, il trasporto e la distribuzione del calcestruzzo.

In Trentino, invece, un altro incidente ha ferito gravemente una giovane operaia di 22anni. Per quasi 30 minuti il braccio le è rimasto incastrato in un macchinario per la lavorazione del pellame in un’industria conciaria di Vallarsa, in Trentino. L’operaia è stata immediatamente soccorsa dai colleghi che hanno allertato i vigili del fuoco, Trentino emergenza. La giovane è stata trasporta di urgenza in ospedale per le gravi fratture riportate. Gli inquirenti stanno verificando le misure di sicurezza adottate dall’azienda.

Un altro incidente sul lavoro si è verificato ieri al cimitero di Milanere ad Almese, in provincia di Torino. Un dipendente 47enne di una ditta di onoranze funebri, intento a chiudere un loculo durante un funerale, è precipitato dall’altezza di oltre quattro metri. Secondo una prima ricostruzione, la caduta si è verificata per un guasto a un montacarichi. Il 47enne è stato trasportato in elisoccorso all’ospedale Cto di Torino, dov’è ricoverato, ma non è in pericolo di vita. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e gli ispettori dello Spresal dell’Asl To3.

Incidente sul lavoro a Capodrise, operaio caduto da un’impalcatura: morto a 59 anni. Debora Faravelli il 14/12/2021 su Notizie.it. Un muratore di 59 anni è morto in un incidente sul lavoro a Capodrise: ha perso l'equilibrio cadendo da un'impalcatura alta 4 metri. Tragedia a Capodrise, comune in provincia di Caserta, dove nel pomeriggio di lunedì 13 dicembre 2021 si è verificato un incidente sul lavoro costato la vita ad un operaio di 59 anni. Caduto da un’impalcatura posta ad un’altezza di circa 4 metri, per lui non c’è stato nulla da fare. I fatti hanno avuto luogo in via Retella dove l’uomo, un muratore di Santa Maria Capua Vetere, stava svolgendo alcuni lavori di ristrutturazione in una casa privata. Secondo quanto ricostruito si trovava sulla passerella di legno di un’impalcatura quando, per cause ancora da accertare, ha perso l’equilibrio ed è precipitato al suolo compiendo un volo di circa 4 metri. Immediata la chiamata ai sanitari del 118 che, giunti sul posto, hanno tentato di rianimare l’operaio senza però riuscirci. Le ferite e i traumi riportati si sono infatti rivelati così gravi da rendere vana ogni manovra degli operatori che hanno potuto soltanto constatare il suo decesso. Presenti sul luogo del’incidente anche i Carabinieri che hanno effettuato tutti i rilievi del caso volti a ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto. I militari dell’Arma hanno avviato anche le indagini per verificare se all’interno del cantiere fossero rispettate tutte le norme in materia di sicurezza sul lavoro. L’Autorità Giudiziaria ha inoltre disposto il sequestro della salma dell’operaio e l’autopsia per chiarire la causa del decesso.

I morti sul lavoro nel 2021 segnano un nuovo picco: sono mille. Ecco i volti della strage. Marco Patucchi su La Repubblica il 30 novembre 2021. I casi di decesso tra gennaio e ottobre confermano l'emergenza: una media di oltre 3 al giorno. Il direttore dell'Ispettorato nazionale, Bruno Giordano: "Un infortunio non è solo un danno alla persona, ma anche allo Stato. Abbiamo spese legali, previdenziali, sanitarie, giudiziarie. Tutto questo rappresenta almeno il 3% del Pil". La resistenza delle burocrazie all'applicazione delle norme. Mille. Anzi, oltre mille. Il bollettino del “crimine di pace” dei caduti del lavoro segna un altro tassello che dovrebbe pesare sulla coscienza dell’intera società italiana. Politica, istituzioni, imprese, sindacati. Mimetizzato da quasi due anni di emergenza Covid, il metronomo degli incidenti ha continuato con il suo ritmo inesorabile: tra gennaio e ottobre le denunce all’Inail di decessi sul lavoro hanno superato appunto la soglia dei mille casi.

Rodano, morto sul lavoro: operaio sepolto sotto due metri e mezzo di terra. Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2021. La tragedia martedì in un cantiere nel Comune nell’hinterland est di Milano. L’uomo stava lavorando a uno scavo per un intervento sulla rete fognaria. Stavano lavorando a uno scavo per un intervento sulla rete fognaria, quando la parete di terra è crollata su un operaio impegnato due metri e mezzo sotto il livello strada, schiacciandolo. L’uomo è deceduto, sepolto sotto il cumulo di terra. È successo martedì, intorno alle 13.30, in via Papa Giovanni XXIII 41, a Rodano, nell’hinterland est di Milano. Sul posto sono intervenuti i sanitari, anche con l’eliambulanza rivelatasi purtroppo inutile, e i vigili del fuoco con uomini del nucleo speleo-alpino-fluviale, per liberare il corpo dello sfortunato operaio. Continua la serie nera di incidenti sul lavoro in Lombardia, dopo i due morti di giovedì scorso.

Incidenti sul lavoro, due morti in Lombardia: camionista schiacciato dal carico, muratore caduto dal ponteggio. Federico Berni e Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2021. Due incidenti sul lavoro quasi in contemporanea in Lombardia. A Cesano Maderno un autista 50enne ucciso da tre quintali di materiale, in piazzale Massari a Milano un muratore di 63 anni precipitato da un ponteggio 

Il carico del camion rovesciato a Cesano Maderno

Tragedia sul lavoro, giovedì mattina, a Cesano Maderno, in provincia di Monza e della Brianza. L’incidente è avvenuto intorno alle 8.30 nel cortile della ditta Eurofed, in via Po 23. Un camionista è rimasto schiacciato dal carico del suo mezzo ed è morto. Il carico, composto da materiale non noto, aveva un peso stimato di circa 300 chili. La dinamica dell’incidente è al vaglio delle forze dell’ordine: sul posto la polizia locale di Cesano Maderno. Il 50enne è stato rinvenuto in arresto cardiocircolatorio: inutili purtroppo i soccorsi. 

Piazzale Massari, muratore cade da ponteggio

Quasi in contemporanea, un altro grave incidente sul lavoro si è verificato nelle adiacenze di piazzale Giuseppe Massari a Milano: poco prima delle 9, un muratore di 63 anni originario di Bergamo, che stava lavorando su un ponteggio a circa cinque metri d’altezza, è precipitato al suolo. L’operaio, dipendente di una ditta della Bergamasca, stava svolgendo dei lavori di ristrutturazione in una villetta di via Ghislanzoni: all’improvviso la corda di una trave ha ceduto e per il contraccolpo l’uomo è precipitato. È stato soccorso dai colleghi che hanno chiamato il 118, intervenuto con automedica e ambulanza. Ha riportato un forte trauma toracico e un trauma cranico e all’arrivo dei soccorsi era in arresto cardiaco. Il 63enne è stato trasportato al Niguarda in condizioni gravissime, mentre gli venivano praticate le manovre di rianimazione, ed è spirato poco dopo in ospedale. Le indagini sono affidate alla polizia locale e al nucleo che si occupa di incidenti sul lavoro dell’Ats.

La tragedia sul lavoro. Prova a far ripartire il macchinario inceppato, 22enne muore schiacciato nell’azienda alimentare. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Novembre 2021. Stava azionando un macchinario nell’azienda dove lavorava quando è rimasto schiacciato. È morto, a 22 anni, un giovane lavoratore in una fabbrica di Lesignano de’ Bagni, in provincia di Parma. Un’altra morte bianca dopo che ieri erano stati due i morti sul lavoro: uno in provincia di Firenze e un altro in provincia di Salerno. Solo nei primi otto mesi del 2021, e quindi fino ad agosto, le morti bianche sono state 772 secondo l’Inail. Sul posto, a Lesignano, sono intervenuti i carabinieri e gli operatori della medicina del lavoro dell’Azienda Usl di Parma. Il 22enne sarebbe deceduto durante i tentativi di rianimazione, intorno alle 11:30 di stamattina. Non gli hanno lasciato scampo le ferite riportate nell’incidente. È un’azienda alimentare quella per cui lavorava: si occupa di produzione di salumi. La vittima era un ragazzo originario dello Sri Lanka. Aveva regolare contratto di lavoro. Secondo Parma Today il giovane stava cercando di far ripartire un macchinario che si era inceppato. Ancora comunque da chiarire le dinamiche della tragedia. Come ricostruisce Il Resto del Carlino, si tratta dell’ennesimo incidente fatale sul lavoro in zona negli ultimi mesi. Solo lo scorso 4 settembre Massimo Amici, autotrasportate 47enne, originario di Macerata, moriva nella stessa provincia di Parma a causa di un incidente sul lavoro: è morto asfissiato dopo essere precipitato in una cisterna. Il 15 settembre un operaio forestale, 55 anni, veniva invece travolto da un albero mentre era impegnato in un’operazione di taglio di alcuni alberi in un bosco sull’Appennino nel Parmense, nella zona di Lagoni di Corniglio. Sempre a metà settembre un’altra vittima in un incidente tra tir e autocarro: morto un dipendente di Autostrade per l’Italia. Per tornare agli incidenti mortali di ieri: Salvatore Mezzacapa aveva 51 anni, è morto precipitando con lo schiacciasassi da un ponticino, in mezzo ai campi di Stabbia, a Cerreto Guidi. La ringhiera che avrebbe dovuto proteggere il suo passaggio è stata sfondata e lui è precipitato nell’acqua dove lo hanno ritrovato i colleghi di Acque Spa che in quella zona stava realizzando il collettore fognario. Giovanni Colangelo invece stava lavorando a una tettoia: stava controllando la canna fumaria di una stufa quando è precipitato. È morto sul colpo, a Bellizzi, in provincia di Salerno. Secondo l’Inail ai 772 dei primi otto mesi vanno aggiunti i 37 lavoratori morti a settembre e i 10 che hanno perso la vita nel tragitto tra casa e lavoro.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Incidenti sul lavoro nel Pavese, operaio muore schiacciato da una lastra di cemento in un cantiere stradale. Aveva 53 anni, si chiamava Dante Berto. Sembra che un tirante della gru che reggeva la lastra si sia sganciato, colpendolo. La Repubblica il 10 Dicembre 2021. Un operaio di 53 anni Dante Berto, residente a Zinasco, nel Pavese è morto nel pomeriggio in un infortunio sul lavoro a Torre d'Isola, sempre in provincia di Pavia. Secondo la ricostruzione dei carabinieri di Pavia, sarebbe stato colpito da una lastra di cemento manovrata da una gru, probabilmente a causa dì un tirante che si è sganciato. La vittima, spiegano i militari, lavorava per una ditta del Comune in un cantiere per la manutenzione e il rifacimento del manto stradale. L'uomo aveva riportato un importante trauma toracico ed era stato rianimato mentre gli operatori del 118 lo stavano portando all'ospedale San Matteo di Pavia. 

Inutile l'intervento del 118 con l'eliambulanza. Morti sul lavoro, cade dal lucernario per 15 metri: operaio 25enne perde la vita. Redazione su Il Riformista il 11 Dicembre 2021. Incidente mortale sul lavoro venerdì 10 alle 14 in un capannone industriale in via Leonardo Da Vinci, a Monterotondo, vicino Roma dove è morto un giovane operaio. La tragedia mentre il lavoratore era impegnato in alcuni lavori sulla grondaia. Precipitato dopo aver messo piede su un lucernario per Adrian Dragomir non c’è stato nulla da fare, il 25enne è morto sul colpo a causa delle gravi ferite riportate nella caduta. L’intervento dei soccorritori intorno alle 14:00 del 10 dicembre in via Leonardo Da Vinci, nella zona industriale del comune della provincia nord della Capitale. Adrian Dragomir, residente a Monterotondo, stava riparando le grondaie di un capannone insieme ad i colleghi di una ditta incaricata per svolgere i lavori di manutenzione. Mentre era sul tetto, il 25enne avrebbe messo un piede su un lucernario per cause ancora in via di accertamento. La struttura ha però ceduto facendolo precipitare da un’altezza di circa 15 metri. Nonostante l’intervento del 118 con l’eliambulanza i soccorritori intervenuti sul posto nulla hanno potuto per salvare la vita ad Adrian Dragomir, morto praticamente sul colpo. Sul posto per accertare l’accaduto sono quindi arrivati i carabinieri della stazione di Monterotondo e gli ispettori del lavoro della Asl territoriale di competenza. Traslata la salma all’istituto di medicina legale de La Sapienza, il corpo dell’uomo è stato messo a disposizione dell’autorità giudiziaria. Informata la procura di Tivoli. Accertamenti in corso da parte dei militari dell’arma della compagnia di Monterotondo.

Inail, incidenti sul lavoro in Lombardia: nei primi nove mesi dell'anno 125 morti e 72mila feriti. Lucia Landoni su La Repubblica il 29 Ottobre 2021. Il report dell’Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro: all'interno del macro settore "industria-servizi" i singoli distretti maggiormente a rischio infortuni. Nei primi nove mesi del 2021 in Lombardia quasi 62mila persone sono rimaste ferite e 86 sono morte sul posto di lavoro: è la situazione fotografata dai dati dell’Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail). Se si considerano anche gli infortuni “in itinere” (cioè avvenuti andando o tornando a casa dal lavoro), che sono stati 10.430 fino al 30 settembre, i feriti salgono a 72.234 (oltre ottomila al mese). E i morti a 125. In media, 13 infortuni mortali al mese, quattro alla settimana.  

Secondo le statistiche dell’Inail, le denunce d’infortunio in Lombardia nel periodo che va da gennaio a settembre del 2021 sono state 61.804. Di queste, 60.236 sono riferite a incidenti avvenuti senza mezzo di trasporto e 1568 con mezzi di trasporto. Se si considerano invece gli infortuni verificatisi durante il tragitto casa-lavoro e viceversa, i numeri parlano di 4367 incidenti senza mezzi di trasporto e 6063 con mezzi di trasporto.

Disaggregando questi dati per settore (senza considerare quelli in itinere) la voce grossa la fa l’Industria, dove avviene durante le lavorazioni la maggior parte degli infortuni segnalati: 53.522. In Agricoltura 1684, e nel settore pubblico (“Per conto dello Stato”) 6598.

Il settore Industria si divide poi in altri sottocapitoli: 16.691 infortuni nell'industria vera e propria, 4712 nel mondo dell'Artigianato, 14.916 nel Terziario e la restante parte in Altre attività.

Se si vuole scendere ancor più nello specifico, i dati Inail individuano all'interno del macro settore "industria-servizi" i singoli distretti maggiormente a rischio infortuni. E i dati di queste tabelle smentiscono che sia l'Edilizia il settore con il più alto numero di incidenti. In vetta a questa drammatica classifica degli infortuni svetta infatti il distretto "Sanità e assistenza sociale", con 4031 infortuni denunciati nel periodo gennaio-settembre di quest’anno.

A seguire quasi ex aequo i due settori "Commercio all'ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli" e "Trasporto e magazzinaggio" (rispettivamente con 3937 e 3778 segnalazioni), quindi "Costruzioni", con 3336 denunce. Poi "Fabbricazione di prodotti in metallo" con 2695 (esclusi macchinari e attrezzature), “Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese” (2002), "Fabbricazione di macchinari e apparecchiature nca" (1550), "Industria alimentare" (1383) e ancora "Metallurgia" (1151), "Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche" (767), "Industria tessile" (392), "Fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche" (397), "Industria del legno" (322).

Per quanto riguarda i cosiddetti "Luoghi di accadimento" degli infortuni, è a Milano che se ne verificano di più (23.531). Seguono Brescia (10.014), Bergamo (8.269), Varese (6051), Monza e Brianza (5047), Como (3646), Mantova (3422), Pavia (3393), Cremona (3341), Lecco (2439), Lodi (1687) e Sondrio (1394).

Degli oltre 72mila infortunati da gennaio a settembre 2021 in Lombardia, 55.711 sono italiani, 2512 fano parte dell'Ue (esclusi gli italiani), e 14.010 provengono da Paesi extra Unione europea. Venticinquemila 635 sono donne, 46.699 uomini.

La fascia di età più esposta agli infortuni mortali è quella compresa tra i 45 e i 59 anni, con 75 decessi sui 125 totali.

Fra le curiosità (si fa per dire) della statistica Inail, si scopre che anche gli incidenti avvenuti a scuola vengono classificati come "denunce di infortunio": tra studenti fino ai 14 anni se ne sono verificati 4533 nei primi nove mesi dell'anno.

Incidenti lavoro: operaio 41enne muore schiacciato dal forno di una pizzeria

Inail: "Nei primi 9 mesi in Lombardia 45mila contagiati sul posto di lavoro, 193 sono morti"

36 morti nella Capitale solo nel 2021. Morti sul lavoro, strage senza fine: cade da capannone, operaio perde la vita a Roma. Redazione su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Un altro giorno e una nuova tragedia sul lavoro. A Roma un operaio romano che stava montando un capannone è caduto da un trabattello alto tre metri sbattendo la testa. È accaduto in un circolo sportivo in via Cantelmo, in zona Gianicolense. Sul posto i carabinieri del nucleo investigativo e della stazione Bravetta che indagano sull’accaduto. Operato d’urgenza alla testa, il 41enne è deceduto. Si tratta del secondo morto sul lavoro in due giorni. A due giorni dalla morte di Catalin Dragos Purda, operaio rumeno di 41 anni che aveva quasi finito di montare il ponteggio su un palazzo che affaccia tra piazza Gregorio VII e via di Porta Cavalleggeri, quando per motivi ancora in corso di accertamento ha perso l’equilibrio ed è scivolato dall’impalcatura cadendo dal secondo piano del palazzo: Catalin Dragos Purda è morto sul colpo. Solamente nel 2021 sono 36 morti bianche, e la conta non accenna a fermarsi. L’assessore al Lavoro di Roma Capitale Claudia Pratelli: “Non è accettabile morire per lavorare. Stiamo parlando di persone e non di numeri, di troppe persone che perdono la vita ogni giorno e dietro alle quali c’è una famiglia devastata dalla perdita. Però i numeri contano e sono inquietanti. Una realtà intollerabile che nel settore dell’edilizia assume proporzioni anche più preoccupanti”.

Incidente sul lavoro a Genova, si rompe la cinghia della gru: operaio schiacciato dai tubi. Giampiero Casoni il 10/11/2021 su Notizie.it. Incidente sul lavoro a San Quirico in Val Polcevera, vicino Genova, dove si rompe la cinghia della gru ed un operaio viene schiacciato dai tubi. Incidente sul lavoro a Genova dove nell’area di un magazzino di stoccaggio si rompe la cinghia di una gru ed un operaio di 48 anni rimane schiacciato dai tubi precipitati al suolo: l’ennesima morte bianca su cui farà luce la magistratura è avvenuta nella mattinata di oggi, 10 novembre, in un’azienda di lavorazione degli oli minerali di San Quirico in Val Polcevera. Secondo una prima ricostruzione dei fatti la vittima era in transito proprio sotto la gru quando la cinghia ha ceduto e i tubi si sono staccati. Il personale medico del 118 allertato dagli inorriditi colleghi del 48enne è arrivato a razzo ma i soccorsi sono stati inutili. Pare che al momento del distacco la gru fosse in azione per movimentare i tubi da un punto all’altro dello stabilimento. La dinamica dell’accaduto è diventata appannaggio dei carabinieri e dei tecnici dell’ispettorato del lavoro dell’Asl di riferimento. L’area è stata dapprima messa in sicurezza da una squadra dei Vigili del Fuoco parimenti allertata, poi messa sotto sequestro. Da questo punto di vista il magistrato di turno deve effettuare accertamenti tecnici immediati ed irripetibili per fissare lo scenario dal quale eventualmente far discendere l’esercizio dell’azione penale nei confronti di soggetti terzi. Il conduttore della gru è stato intanto assunto a sommarie informazioni testimoniali. 

Un operaio è morto nella Reggia di Caserta colpito da un ramo. Giampiero Casoni il 29/10/2021 su Notizie.it. Un operaio è morto nella Reggia di Caserta colpito da un ramo che non gli ha dato scampo: sul posto 118 e Carabinieri che hanno avviato i rilievi. Tragedia in Campania, dove nell’ennesimo incidente sul lavoro in Italia è morto un operaio nella Reggia di Caserta: l’uomo, un 49enne di origini marocchine, sarebbe stato colpito da un grosso ramo mentre effettuava la potatura degli alberi nel parco dell’edificio storico. Purtroppo quel grosso ramo non gli ha lasciato scampo e l’uomo è morto malgrado l’arrivo tempestivo dei soccorsi. Sul posto sono giunti anche i Carabinieri del comando compagnia di Caserta che hanno avviato i primi rilievi e le indagini per risalire a cause e dinamiche del sinistro mortale sul lavoro. La vittima lavorava per una ditta esterna ed era regolarmente assunto. Dopo la tragedia la direttrice della Reggia, Tiziana Maffei, ha voluto esprimere “cordoglio e vicinanza ai familiari e ai colleghi” della vittima. La Cgil invece ha parlato di “ennesima morte sul lavoro che registriamo a Caserta negli ultimi mesi, ed è una strage infinita”. Il sindacato lo ha fatto per bocca del suo segretario confederale Matteo Coppola. Il sindacalista ha poi aggiunto: “Da mesi chiediamo un intervento deciso delle istituzioni, locali e nazionali. Il terrificante dato registrato dalla provincia di Caserta per morti sul lavoro, una delle maggiori incidenze in Italia come certificato anche dall’Inail, non fa che peggiorare”. Poi la chiosa amara: “Non si può più attendere che venga rilanciato il tavolo tavolo interistituzionale, con Prefettura, enti coinvolti e parti sociali, sulla sicurezza sul lavoro. È necessario che si assumano immediatamente ispettori e medici negli ispettorati sul lavoro”.

Antonello morto per una caduta nell'azienda di Monferrato: un operaio tra gli operai. Marco Patucchi su La Repubblica il 28 ottobre 2021. Lupo, 54 anni, è precipitato mentre puliva una canalina per il trasporto del legname nella ditta di Coniolo. Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

Scorrendo sul suo profilo social e andando indietro di qualche anno, spunta la condivisione di un appello dei 900 operai della De Tomaso di Grugliasco alle prese con la crisi. Un appello di lavoratori condiviso da un lavoratore, perchè di fronte alle difficoltà siamo tutti dalla stessa parte. Antonello Lupo era un vercellese di 54 anni morto in una ditta di Caniolo (Casale Monferrato), dopo essere caduto da tre metri di altezza mentre faceva manutenzione ad una canalina per il trasporto di legname. "La vita riserva gioia e tristezza - scrive sui social Silvana, fornaia 'di fiducia' di Antonello -. Non pensavo di apprendere ora che sei volato via. Buon viaggio Antonello, terrò sempre da parte il tuo pane preferito".

Una Spoon River per non dimenticare. Morire di lavoro: le storie di Bruno, Hassan, Andrea e i troppi altri. Per non trasformare le loro vite in esistenze invisibili e dimenticate. Marco Patucchi su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Antonello lascia la compagna Hristya, i parenti e gli amici con i quali divideva la sua grande passione per la Juventus. E c'è Fabio, che sui social chiede di pregare per lui che gli è stato vicino nel percorso riabilitativo dopo un incidente motociclistico. Generosità. "La direzione unitamente alle maestranze - ha scritto la ditta - colpiti dal tragico incidente nello stabilimento di Coniolo, esprimono il loro profondo cordoglio ai famigliari di Antonello Lupo, persona di valore e stimato collaboratore". Ma al presidio davanti alla fabbrica organizzato dai sindacati dopo la morte di Antonello c'era poca gente: "Hanno paura delle conseguenze che potrebbero avere con l'azienda - racconta un sindacalista -. Ci dispiace e ci preoccupa. Questo spiega anche i due incidenti mortali degli ultimi anni e vede minati i diritti e la libertà dei lavoratori". Ecco perchè le morti sul lavoro le chiamiamo 'crimine di pace'.

Le vittime del lavoro nel 2021

Dati regione per regione, aggiornati mensilmente, delle denunce totali all’Inail per infortuni sul lavoro e di quelle per morti sul lavoro

772 è il numero totale delle vittime

349.449 il totale delle denunce per infortunio sul lavoro

Valle d'Aosta

Morti sul lavoro : 3

Denunce d'infortunio: 789

Piemonte

Morti sul lavoro : 69

Denunce d'infortunio: 25.268

Lombardia

Morti sul lavoro : 106

Denunce d'infortunio: 63.551

Trentino-Alto Adige/Bolzano

Morti sul lavoro : 12

Denunce d'infortunio: 8.817

Veneto

Morti sul lavoro : 63

Denunce d'infortunio: 43.811

Friuli Venezia Giulia

Morti sul lavoro : 16

Denunce d'infortunio: 10.094

Emilia Romagna

Morti sul lavoro : 68

Denunce d'infortunio: 46.820

Toscana

Morti sul lavoro : 37

Denunce d'infortunio: 27.445

Umbria

Morti sul lavoro : 17

Denunce d'infortunio: 5.681

Marche

Morti sul lavoro : 22

Denunce d'infortunio: 10.598

Sardegna

Morti sul lavoro : 12

Denunce d'infortunio: 7.402

Lazio

Morti sul lavoro : 74

Denunce d'infortunio: 23.212

Abruzzo

Morti sul lavoro : 29

Denunce d'infortunio: 7.402

Molise

Morti sul lavoro : 14

Denunce d'infortunio: 1.099

Campania

Morti sul lavoro : 81

Denunce d'infortunio: 12.343

Puglia

Morti sul lavoro : 65

Denunce d'infortunio: 15.612

Basilicata

Morti sul lavoro : 10

Denunce d'infortunio: 2.625

Calabria

Morti sul lavoro : 12

Denunce d'infortunio: 4.930

Sicilia

Morti sul lavoro : 38

Denunce d'infortunio: 15.165

Fonte: Inail - Agosto 2021 a cura di Paola Cipriani 

Nazif travolto da una lastra di metallo nel Trevigiano: "Un uomo buono e onesto, vogliamo giustizia".  Marco Patucchi su La Repubblica il 27 ottobre 2021. Ajdarovski, 48 anni, era macedone e viveva in Italia da 14 anni. Lascia la moglie e tre ragazzi.  Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace".

"Mashallah", come dio ha voluto. Il profilo social di Ajadarovski Nazif è tappezzato di fotografie della moglie Rukije e dei figli. Quasi tutti i commenti dei parenti e degli amici sono esclamazioni di ammirazione: "mashallah". I tre ragazzi hanno 19, 17 e 10 anni e hanno perso il padre, perchè Nazif, 48 anni, è morto schiacciato da un pannello di metallo nel cantiere edile di Caerano San Marco, Trevigiano. Nato in Macedonia, viveva e lavorava da quattordici anni in Italia, a Paderno del Grappa. "Era giovane, forte e sapeva fare molto bene il suo lavoro", racconta ai cronisti locali il fratello Sazo, operaio anche lui a Trento. La comunità macedone di Paderno si sente orfana come i tre ragazzi di Nazif: "Un uomo buono e onesto. Era giovane e forte, mai uno sbaglio, mai una disattenzione sul lavoro".

Una Spoon River per non dimenticare. Morire di lavoro: le storie di Bruno, Hassan, Andrea e i troppi altri. Per non trasformare le loro vite in esistenze invisibili e dimenticate. Marco Patucchi su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Gli Ajadarovski sono dieci fratelli, sei maschi e quattro femmine: "Saremo noi adesso - dice ancora Sazo - la nuova famiglia per Rukije e i figli di Nazif. Non dovranno avere paura di nulla e non patiranno alcun problema economico". Dolore e rabbia per una vita spezzata: "E' successa qualcosa che non doveva succedere e noi vogliamo sapere perchè. Vogliamo capire chi ha sbagliato, chiederemo un risarcimento perchè, anche se i soldi non ci potranno mai restituire Nazif, consentiranno almeno un futuro ai suoi ragazzi".

Salvatore, morto nel cantiere del viadotto a Messina: aveva resistito a 4 anni di disoccupazione.  Marco Patucchi su La Repubblica il 26 ottobre 2021. Ada, 55 anni, è stato schiacciato da una barriera 'new Jersey'. Era anche sindacalista. Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace". Il lavoro come dignità, il lavoro come linfa vitale per ogni famiglia. In fondo è questo per tutti. Poi ci sono passione, dovere, responsabilità...ma ogni mattina andiamo a lavorare per dignità e per sostenere i nostri cari. Era ovviamente così anche per Salvatore, morto schiacciato da una barriera 'new Jersey' in un cantiere del viasotto Ritiro, Messina. Con qualcosa in più a voler ribadire quei due concetti, perchè Salvatore Ada, 55 anni, era anche un sindacalista. "Era un mio amico - racconta Pasquale De Vardo, segretario degli edili Uil di Messina e Palermo - . Un grande lavoratore, un grande padre di famiglia. Ha avuto le sue difficoltà per un periodo, come tutti gli edili di fronte alla crisi del settore, ma dopo quattro anni di disoccupazione aveva trovato lavoro in questo cantiere".

Una Spoon River per non dimenticare. Morire di lavoro: le storie di Bruno, Hassan, Andrea e i troppi altri. Per non trasformare le loro vite in esistenze invisibili e dimenticate. Marco Patucchi su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Salvatore in realtà aveva iniziato tanti anni fa come meccanico. Nel suo profilo social infatti non si contano le foto di auto e moto e anche, in bella mostra, il 'Certificato di frequenza del corso istruzione tecnica' nella scuola degli stabilimenti PIaggio di Pontedera. Era il 1983 e Ada aveva meno di vent'anni. L'intera vita davanti. Fino a reinventarsi operaio edile specializzato. "Non ci sono parole per descrivere il dolore - scrive sui social un altro Salvatore - sei stato un secondo papà per me. Una persona umile, meravigliosa come pochi. Rimarrai sempre nei nostri cuori. Ti vogghiu beni custadeddra. Veglia su di noi da lassu". Una radio locale siciliana ha raccolto i saluti dei colleghi di Salvatore. Voci rotte dall'emozione: "Eri l'unico che portava la luce nel lavoro, abbiamo perso un amico non un collega";"Una brava persona che resterà nei nostri cuori"; Ti voglio bene Salvatore, ciao";  "Era una persona fantastica, pronta ad aiutare tutti. Amava il lavoro e lo faceva con grande dignità". Dignità prima di tutto. Il lavoro come dignità.

Jagdeep morto asfissiato nel Milanese: la fine a un passo dalla tranquillità. Marco Patucchi su La Repubblica il 7 ottobre 2021. Singh, 42 anni e due figli piccoli, vittima insieme ad un collega della fuoriuscita di azoto liquido nel campus universitario di Pieve Emanuele. Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Una Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non fa ritorno a casa e "Morire di lavoro" vuole essere un memento ininterrotto rivolto a istituzioni e politica fino a quando avrà termine questo "crimine di pace". Immaginate di partire dal vostro Paese e raggiungerne un altro dall'altra parte del mondo per il sogno di una vita migliore. Sedici anni di lavoro da muratore e quel sogno diventa piano piano realtà. Allora nasce anche il coraggio di mettere su famiglia, di comprare casa in un'altra cittadina, di cambiare lavoro. In poco tempo la patente per camion e rimorchi. La vita che sembra mettere radici sempre più profonde. La tranquillità a un passo. Ma succede che il mattino di uno dei primi giorni del nuovo lavoro segna la fine di tutto. Jagdeep Singh, 42 anni origini indiane, è morto insieme ad un collega durante le operazioni di ricarica di azoto liquido nel serbatoio di un campus universitario a Pieve Emanuele (Milano).

Una Spoon River per non dimenticare. Morire di lavoro: le storie di Bruno, Hassan, Andrea e i troppi altri. Per non trasformare le loro vite in esistenze invisibili e dimenticate. Marco Patucchi su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Da pochissimo tempo “Jaga”, così lo chiamavano tutti, viveva con la moglie e i figli di 11 e 4 anni a Piamborno in Val Camonica, nell'appartamento appena acquistato. Giusto una settimana prima era passato nella casa di Malonno, una manciata di chilometri di distanza, dove abitava prima, per prendere le ultime cose. "Ogni tanto andavamo da loro a prendere un tè indiano, o venivano loro da noi" racconta commosso il vicino. "Un nuovo camion per il viaggio inaugurale di Singh", aveva scritto la moglie sui social postando la foto dell'autocisterna. Un viaggio senza ritorno. "Lui era Jagdeep, l' “allievo” che stava con Emanuele. Aveva appena intrapreso questo lavoro. R.i.p.", il saluto sul profilo della ditta, accompagnato da una foto di Jaga sorridente. A un passo dalla tranquillità.

Da “il Giornale” il 14 ottobre 2021. Non si ferma l'escalation di morti sul lavoro. Ieri altre quattro vittime. «Una strage», attacca il leader Cgil, Maurizio Landini, chiedendo al governo atti concreti. La lista degli incidenti mortali si allunga a ritmi esponenziali: da gennaio a ottobre già superato il numero totale dei morti del 2020 con un media di tre decessi al giorno. Da Firenze, Treviso, Alessandria e Messina le ultime quattro tragedie. Tiziana Bruschi era una dipendente di una ditta di Scandicci che produce materie plastiche. Lo scorso 2 settembre in un magazzino era stata travolta da un pancale carico di merce, venuto giù da un'altezza di circa tre metri. Per oltre un mese ha lottato in un letto d'ospedale, ma le lesioni subite erano troppo gravi e si è dovuta arrendere. Ora il titolare dell'azienda è indagato per omicidio colposo. «Uno stillicidio non più sopportabile, che ci fa fare un salto indietro di anni», lamenta il presidente della Regione, Eugenio Giani. Altro lutto a Coniolo Monferrato, nell'alessandrino, dove ieri mattina un operaio originario del vercellese ha perso l'equilibrio ed è caduto dall'alto in un'azienda che produce compensati e pannelli di legno mentre puliva una canalina. L'impatto della testa con una struttura di metallo gli è stato fatale. Nonostante l'immediatezza dei soccorsi, ogni tentativo di rianimazione è stato inutile. A Caerano San Marco, in provincia di Treviso, invece, la terza vittima è un uomo di 45 anni morto a causa di un trauma cranico letale riportato cadendo all'indietro in un cantiere. Ennesima tragedia a Messina. Qui a perdere la vita, schiacciato mentre venivano caricati alcuni jersey di cemento su un autoarticolato, è stato un operaio che lavorava al cantiere autostradale di un viadotto, sulla tangenziale della città. «Stiamo assistendo ad una strage quotidiana indegna di un paese civile e quello che ci indigna di più è che oggi si muore con le stesse modalità di 50 anni fa, come dimostrano le dinamiche degli incidenti: cadute dall'alto, schiacciamento da materiali, a seguito di folgorazioni, per esalazioni venefiche o per il ribaltamento di trattori. E la causa è sempre legata alla mancata osservanza delle norme sulla prevenzione, per la rimozione di dispositivi di sicurezza o il mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale», denuncia il presidente nazionale Anmil, Zoello Forni. Il governo sta lavorando ad un decreto e oggi il premier Mario Draghi ha convocato a Palazzo Chigi i tre segretari generali di Cgil Cisl e Ui per confrontarsi, tra l'altro, sulle tematiche relative alla sicurezza dei luoghi di lavoro. «Sta per arrivare un provvedimento che dà una prima risposta, frutto anche di una interlocuzione con le organizzazioni sindacali», assicura il ministro del Lavoro, Andrea Orlando.

Impennata di infortuni: sul lavoro 772 vittime. Più sanzioni e controlli. Cristina Bassi l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. In calo del 6,2 per cento gli incidenti letali. Il presidente Mattarella: "Una ferita sociale". Nei primi otto mesi del 2021 sono morte sul lavoro in Italia 772 persone, secondo le denunce riportate da Anmil (Associazione nazionale lavoratori mutilati e invalidi del lavoro) su dati Inail. Nello stesso periodo dello scorso anno gli infortuni letali sono stati 823: il calo è del 6,2 per cento. Sono aumentati invece, sempre tra gennaio e agosto, gli infortuni, 349.449 denunce di quest'anno rispetto alle 322.132 del 2020, con un incremento dell'8,5 per cento. I dati sono stati forniti ieri in occasione della 71esima Giornata Anmil per le vittime degli incidenti sul lavoro. Anche per quanto riguarda le malattie professionali si registra una crescita nei primi otto mesi dell'anno sul 2020: 36.496 contro 27.761, pari a un più 31,5 per cento. Uno dei motivi è che, sottolinea l'Anmil, i lavoratori stanno presentando le denunce rimandate per la pandemia. «La crisi economica e la ripartenza delle attività produttive - spiega il presidente nazionale Anmil, Zoello Forni - rappresentano un terreno insidioso per la sicurezza dei lavoratori e lo dimostra la nuova impennata di incidenti a cui stiamo assistendo. Il bilancio infortunistico di questo 2021 è addirittura peggiore rispetto agli anni pre-pandemia. Come dieci anni fa, ancora oggi ogni giorno mediamente tre lavoratori rimangono vittime di infortuni mortali». Mentre le denunce di infortunio mortale sono tornate a decrescere perché «non esiste quasi più la componente delle morti causate da infezione da Covid-19 che nel 2020 avevano rappresentato un terzo del totale delle morti sul lavoro». Da parte sua Uil sottolinea come le morti sul lavoro (al primo posto c'è il settore industria, poi viene l'agricoltura) stiano lentamente tornando ai numeri del 2019. Il sindacato lancia la campagna di sicurezza «Zero morti sul lavoro». E propone formazione mirata e aggiornata per i lavoratori, educazione nelle scuole, controlli all'interno delle aziende, vigilanza e più ispettori, più sanzioni ed esclusione dagli appalti pubblici delle aziende che non rispettano gli standard di sicurezza. «La Uil - dice il segretario generale Pierpaolo Bombardieri - ha obiettivi precisi e ritiene necessarie azioni che vedano coinvolti tutti i protagonisti del mondo del lavoro. Sarà necessario un patto tra associazioni sindacali dei datori di lavoro, dei lavoratori, governo e Inail». Ieri è intervenuto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Gli incidenti sul lavoro sono una ferita sociale che non trova soluzione, ma purtroppo è sempre in aumento e diventa lacerante ogni volta che si apprendono, come in queste ultime settimane, quotidiani e drammatici aggiornamenti di incidenti». Il capo dello Stato ha scritto al presidente Anmil, Forni. «La Costituzione - continua Mattarella - nell'articolo 4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Affinché questo diritto sia effettivamente garantito, uno Stato democratico deve consentire a ognuno di svolgere la propria attività lavorativa, tutelandone la salute e assicurandone lo svolgimento nella più totale sicurezza. Le tragedie a cui stiamo assistendo senza tregua sono intollerabili e devono trovare una fine, rafforzando la cultura della legalità e della prevenzione. Le leggi ci sono e vanno applicate con inflessibilità». Infine: «Le vittime degli incidenti sul lavoro sono persone che escono di casa con progetti per il futuro e attività dirette ai loro cari. Il luogo di lavoro deve essere il posto da cui si torna. Sempre». E il ministro del Lavoro, Andrea Orlando: «Nei prossimi giorni vedrà la luce un provvedimento ad hoc, che sarà basato sulla maggiore efficacia e tempestività delle sanzioni e un potenziamento delle strutture di controllo sia a livello centrale dell'ispettorato nazionale che con le Asl». È previsto un «potente investimento sulla formazione e sull'informazione e poi finalmente la costituzione di una banca dati che consenta di raccogliere le sanzioni e valutazioni che vengono fatte con i controlli, per iniziare un percorso di qualificazione delle imprese. Da molto tempo la legge prevedeva questo strumento che però non è mai effettivamente partito». Sui numeri delle vittime: «Si dovrebbe smettere di chiamarle morti bianche perché ci sono sempre responsabilità dietro ogni incidente. La svalutazione del lavoro ha portato alla precarizzazione e a una crescita dell'insicurezza. Il lavoro va rimesso al centro dell'azione politica e della democrazia». Cristina Bassi

La strage che non indigna nessuno. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Quanta fantasia hanno gli operai nel morire. Ne inventano ogni giorno dei modi nuovi. All’ospedale Humanitas, fiore all’occhiello della sanità privata lombarda, nella periferia sud di Milano, fra Rozzano e Pieve Emanuele, in due si sono fatti ammazzare dall’azoto liquido, un elemento chimico mantenuto fra i -200 e i -195 gradi per essere utilizzato in ambito ospedaliero. Una fuoriuscita li ha investiti mentre rifornivano il deposito di azoto della clinica, e ora si fanno gli accertamenti per capire se siano rimasti congelati o asfissiati. Lì, a due passi da uno dei migliori ospedali senza che si sia potuto far nulla perché il lutto non ci fosse.

Per evitare l’emorragia di vite che il lavoro si porta via ogni giorno: fra le due e le tre esistenze al dì, giusto un punto sopra la loro somma. Un sacrificio quotidiano che la classe operaia paga, senza quasi più strepiti ormai, senza che nessuno provi a fare qualcosa, per azzerarlo, diminuire le morti. Vanno in paradiso così gli operai, nei modi più strani, impensati, quasi ci sia fra di loro una gara alla morte più stravagante: alle cadute, le presse, gli orditoi, i seppellimenti, il fuoco, gli avvelenamenti; si aggiunge l’azoto, che per beffa quello vuol dire, senza vita. Tanta, tanta fantasia, persino giochi di parole, quasi, gli operai, siano addirittura in gara con Gianni Rodari per raccontare la morte di un lavoratore, siano insieme a redigere la Grammatica della Fantasia: «L’ultima immagine che conservo di mio padre è quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno. È fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto isolato tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di broncopolmonite. A quei tempi non c’era la penicillina. So di essere stato accompagnato a vederlo più tardi, morto, sul suo letto, con le mani in croce. Ricordo le mani ma non il volto. E anche dell’uomo che si scalda contro le mattonelle tiepide non ricordo il volto, ma le braccia: si abbruciacchiava i peli con un giornale acceso, perché non finissero nella pasta del pane». Chissà se i due operai della Sol che riempivano d’azoto il deposito dell’Humanitas ce lo abbiano avuto il tempo, almeno, di pensarlo un muro caldo su cui appoggiare le spalle mentre un gelo inimmaginabile gli bloccava le membra e si ripetevano un’altra delle fantasie di Rodari, per dare dignità al proprio sacrificio: «Non è più ieri, non è più lo stesso, ho visto e so tante cose, adesso. So che si muore una mattina sui cancelli dell’officina, e sulla macchina di chi muore gli operai stendono il tricolore».

P.s. E ieri pomeriggio ne sono morti altri due.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Da lastampa.it il 19 luglio 2021. Le aziende ispezionate dall'Inail nel 2020 sono state 7.486, e l'86,57% sono risultate irregolari. Lo rileva la reazione annuale dell'Istituto. I lavoratori regolarizzati sono stati 41.477 (-16,76% rispetto al 2019), di cui 39.354 irregolari e 2.123 in nero. Sono state accertate retribuzioni imponibili evase per circa un miliardo e mezzo di euro e richiesti premi per oltre 38 milioni di euro. I casi mortali denunciati nel 2020 sono stati 1.538, con un incremento del 27,6% rispetto ai 1.205 del 2019 che deriva soprattutto dai decessi causati dal Covid-19, che rappresentano oltre un terzo del totale delle morti segnalate all'Istituto. Gli infortuni mortali per cui è stata accertata la causa lavorativa sono invece 799 (+13,3% rispetto ai 705 del 2019), di cui 261, circa un terzo del totale, occorsi «fuori dell'azienda» (i casi ancora in istruttoria sono 93). Gli incidenti plurimi, che hanno comportato la morte di almeno due lavoratori contemporaneamente, sono stati 14, per un totale di 29 decessi. «Il Covid 19 – commenta a questo proposito il ministro del Lavoro, Andrea Orlando – è diventato un fattore di rischio professionale sul lavoro. C'è una significativa e preoccupante recrudescenza dei morti sul lavoro che è sotto gli occhi di tutti. Una crescita che appare conseguenza del calo delle ispezioni, dei controlli, delle risorse dedicate alla sicurezza sul lavoro». Certamente, aggiunge Orlando, «ci sono state condizioni eccezionali, ma non sono ora tollerabili ulteriori sviste e cali di attenzione: perché, la sicurezza va garantita sempre, anche e soprattutto in condizioni sanitarie critiche», ha aggiunto. La nostra Costituzione – rileva soprattutto – «garantisce protezione a tutti i lavoratori e a tutte le attività lavorative mentre l'assicurazione contro gli infortuni è ancora riservata a soggetti determinati». Il ministro ricorda fra l’altro che ci sono vistosi buchi nelle tutele per i lavoratori dipendenti, ma anche per lavoratori autonomi che operano on line o per le piattaforme ma che non esplicano attività di consegna come i rider. «E' tempo - conclude - per una profonda revisione verso la completa socializzazione del rischio e verso l'universalità della copertura assicurativa. Una riforma è urgente, deve essere attuabile e sostenibile sul fronte dei costi previdenziali». Anche il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, a margine della presentazione del Rapporto Inail dice che la sicurezza delle infrastrutture va di pari passo con quella di chi lavora per la loro realizzazione e manutenzione. «Per questo, appena insediatomi al ministero, ho dato mandato ai Commissari scelti per l'accelerazione delle opere di aprire tavoli con i sindacati per definire specifiche misure di sicurezza per i cantieri operanti h24». «In avvio degli interventi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – precisa – stiamo evidenziando il tema della sicurezza del lavoro nelle linee guida sulla progettazione, perché per affidare l'esecuzione di un intervento le stazioni appaltanti e le aziende pongano la massima attenzione e impieghino ogni risorsa necessaria: la celerità dei lavori sia bilanciata con le massime misure di prevenzione e protezione. Questo sia per quanto riguarda i rischi tradizionali del settore delle costruzioni e dei trasporti sia per le nuove tipologie di rischio collegate alla pandemia».

Da leggo.it il 30 settembre 2021. Deceduto un operaio edile di 56 anni per le gravi lesioni riportate in seguito ad una caduta da circa 10 metri d'altezza mentre era intento ad effettuare lavori di manutenzione ordinaria sul tetto. L'infortunio mortale si è verificato intorno alle 14 in uno stabile della frazione Borzano di Albinea (Reggio Emilia).

Secondo una prima ricostruzione, l'operaio reggiano, dipendente di un'azienda, si trovava sull'impalcatura allestita nell'abitazione quando, per cause ancora in corso di accertamento sarebbe precipitato. Le indagini sono state avviate dal Servizio Prevenzione e sicurezza della Medicina del Lavoro di Reggio Emilia, intervenuto insieme ai Carabinieri di Albinea.  L'operaio è stato soccorso dai sanitari inviati dal 118 che nonostante i tentativi di rianimarlo ne constatavano il decesso per le gravi lesioni riportate a seguito della caduta.

Messina, incidente sul lavoro: muore operaio schiacciato da barriera di cemento. Fabrizio Bertè su La Repubblica il 12 ottobre 2021. L'uomo, Salvatore Ada di 55 anni, è stato travolto da una barriera nei pressi del cantiere sulla tangenziale dell'autostrada A20 Palermo-Messina. Sindacati proclamano sciopero di 8 ore. Incidente mortale sul lavoro, questo pomeriggio, intorno alle 19 a Messina. A perdere la vita, un operaio, Salvatore Ada, 55 anni, impiegato della "Toto Costruzioni", che sta eseguendo i lavori al cantiere autostradale del Viadotto Ritiro. Ada, storico militante della Feneal-Uil di Messina, era impegnato in un'attività non strettamente connessa alle lavorazioni del viadotto, ma in un'area di stoccaggio esterna al cantiere: "Pur di arrotondare lo stipendio - afferma la Uil - per sostenere la famiglia, Salvatore svolgeva anche del lavoro straordinario". I sindacati hanno annunciato uno sciopero di 8 ore in cantiere per l'ennesima morte sul lavoro in Sicilia. L'incidente è avvenuto in un’area adiacente al cantiere di costruzione del viadotto Ritiro, sulla tangenziale messinese dell’autostrada A20 - Messina-Palermo. Quando sono arrivati i sanitari, purtroppo, non c'è stato nulla da fare, perché Salvatore Ada era già morto. Sul posto, la polizia, i carabinieri e due ambulanze del 118. Dalle prime ricostruzioni, sembrerebbe che l'uomo sia rimasto schiacciato nel corso di alcune operazioni di carico di jersey di cemento su un autoarticolato. I lavori, però, non avevano niente a che fare con la costruzione del viadotto. In merito all'accaduto, è arrivata anche una nota della "governance" di Autostrade Siciliane. "Alla notizia della tragedia, ci siamo precipitati sul posto. Al momento le dinamiche del sinistro sono in fase di accertamento e rimaniamo in stretto contatto con la "Toto Costruzioni", società che si è  messa immediatamente a disposizione delle autorità competenti. A nome nostro, e di tutto il personale delle Autostrade Siciliane, esprimiamo il più sentito cordoglio ai familiari e a tutti i cari della vittima del terribile incidente". Ad esprimersi in merito all'accaduto è stata anche la direzione dell'azienda: "La società Toto Costruzioni Generali, insieme a tutto il personale dipendente, esprime il profondo cordoglio per l’incidente mortale avvenuto oggi presso il cantiere di Messina del Viadotto Ritiro in cui ha perso la vita un proprio operaio durante lo svolgimento del lavoro - si legge in una nota - Le dinamiche dell'incidente sono in fase di accertamento e la società si è già messa a completa disposizione delle autorità competenti per le indagini. La Toto Costruzioni Generali fornirà alla famiglia tutto il sostegno possibile in questo drammatico momento".

Beppe Facchini per il "Corriere della Sera" il 22 ottobre 2021. Si allunga l'elenco dei morti sul lavoro in Italia (772 nei primi nove mesi dell'anno), con altri due decessi in un solo giorno. Uno è quello di una donna, Luisa Scapin, 62 anni, operaia tessile, morta in ospedale dopo tre giorni di agonia: era rimasta incastrata lunedì mattina con il suo camice in un macchinario della Filtessil di San Giorgio in Bosco, nell'Alta Padovana. L'altro, invece, è quello di un altro giovanissimo operaio: Yaya Yafa, 22enne originario della Guinea Bissau e residente a Ferrara, trovato in fin di vita dai suoi colleghi, in una pozza di sangue, all'interno di un magazzino dell'interporto di Bentivoglio, a pochi chilometri da Bologna, che è uno dei più importanti snodi logistici del nostro Paese. Yafa aveva trovato lavoro appena tre giorni fa, tramite un'agenzia interinale. Il giovane è rimasto schiacciato tra un tir e una ribalta, all'interno del magazzino di Sda (uno dei colossi delle spedizioni, di proprietà del Gruppo Poste Italiane). Yafa, in possesso di regolare permesso di soggiorno, era addetto alla movimentazione interna delle merci: sognava di costruire il proprio futuro in Italia, magari con un contratto di lavoro non più nel segno del precariato assoluto, dopo le prime esperienze nel settore dell'agricoltura. E invece, proprio quando la nuova occupazione gli aveva dato finalmente una prospettiva, la sua vita si è spezzata. Sul posto, subito dopo l'incidente, sono intervenuti i soccorritori del 118, oltre al personale della medicina del lavoro e ai carabinieri della Compagnia di Molinella, ai quali sono affidate le indagini per ricostruire esattamente quanto accaduto. L'hub della logistica è rimasto chiuso per tutta la giornata, per permettere gli accertamenti del caso; la Procura di Bologna, invece, ha aperto un fascicolo ipotizzando il reato di omicidio colposo. L'inchiesta è stata affidata al pm Augusto Borghini. Sotto sequestro è stato posto lo stesso bilico a ridosso del quale era parcheggiato il camion che ha schiacciato il giovane operaio. Ma la dinamica resta da chiarire: stando alle prime ricostruzioni, a causare la tragedia non sarebbe stato direttamente uno spostamento in retromarcia del mezzo pesante, bensì la stessa piattaforma, che si sarebbe mossa per ragioni ancora da capire. Alcuni colleghi di Yaya Yafa puntano però il dito contro i blocchi meccanici per tenere fermi i camion durante le operazioni di carico e scarico, denunciandone un funzionamento non a norma. Altri ancora, invece, riferiscono di alcune possibili negligenze nelle operazioni, commesse sia dalla vittima, forse ancora non adeguatamente formato, sia dal camionista. Si indaga per omicidio colposo anche a Padova, per la morte di Luisa Scapin. L'operaia, originaria di Villa del Conte, era rimasta incastrata con il camice in una macchina avvolgicavo, finendo per essere soffocata. Il primo a soccorrerla era stato un collega che le aveva praticato il massaggio cardiaco. La stessa cosa avevano fatto i carabinieri della Stazione di Tombolo. Il fascicolo è affidato alla procuratrice aggiunta Valeria Sanzari. «È una strage inaccettabile», hanno dichiarato all'unisono ieri i sindacati. L'ennesima dichiarazione di un anno nero.

L'incidente fatale a Benevento. Si ribalta la gru, due operai cadono da oltre 6 metri: 27enne muore dopo ore di agonia. Vito Califano su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Non ce l’ha fatta uno dei due operai rimasti gravemente feriti ieri a Benevento. Aveva 27 anni ed era di Facchio, provincia del capoluogo campano. Si chiamava Alessandro. L’incidente ieri, quando i due sono caduti da una piattaforma in un cantiere a viale degli Atlantici. Il giovane era stato ricoverato all’ospedale San Pio con fratture multiple e gravi lesioni agli organi interni. Stamattina la tragica notizia: il 27enne è morto dopo ore di lotta. La Procura di Benevento ha aperto un’inchiesta sull’incidente di via degli Atlantici, l’ennesimo in queste settimane di morti bianche che hanno visto rimettere al centro del dibattito politico il tema. Ancora in gravi condizioni il 37enne di San Lorenzello che stava lavorando con la vittima. I due, secondo le prime ricostruzioni, stavano lavorando su un cestello sospeso in aria per il rifacimento di un balcone al terzo piano di un fabbricato. All’improvviso il mezzo si è capovolto e i due uomini sono precipitati. Una caduta da oltre sei metri. “Non ce l’ha fatta Alessandro – ha scritto il sindaco uscente Clemente Mastella – lunedì prossimo avrebbe compiuto 28 anni. Sono cristianamente vicino alla famiglia e ai suoi cari così duramente messi alla prova da questa ennesima sciagura sul lavoro”. Le indagini per chiarire le cause dell’incidente sono in mano ai carabinieri, coordinati dal pm della Procura Giulio Barbato, a fare luce sull’ennesima morte bianca in Campania. Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di agosto sono state 772, 51 in meno rispetto alle 823 registrate nei primi otto mesi del 2020 (-6,2%). Dati comunque provvisori e influenzati dalla pandemia da covid-19. “La questione delle morti sul lavoro assume sempre più i contorni di una strage che funesta l’ambiente economico e psicologico del Paese”, aveva detto la settimana scorsa, in giorni da bollettino rosso per le morti bianche, il Presidente del Consiglio Mario Draghi nella conferenza stampa sulla Nadef. E aveva suggerito “pene più severe e immediate e collaborazione all’interno dell’azienda per individuare precocemente le debolezze in tema di sicurezza lavoro”. Il segretario della CGIL Maurizio Landini aveva ribadito in un’intervista a La Stampa come sul dossier sicurezza con il Presidente del Consiglio Draghi si stessero facendo “progressi veri” ma “la serie degli incidenti dimostra l’urgenza di agire. Qualità del lavoro, salute e sicurezza devono diventare una priorità nazionali”. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva assicurato che il Piano Sicurezza sui posti di lavoro sarà pronto nelle prossime settimane e sarà preceduto da interventi anticipatori del piano stesso. Il piano prevede il potenziamento del sistema di formazione di dipendenti e imprenditori, con la revisione e il rafforzamento delle norme sanzionatorie per le violazioni, e la creazione di un’unica banca dati centrale per raccogliere violazioni e statistiche.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Lutto cittadino a Torre Annunziata. Precipita da 6 metri in fabbrica, la tragedia di Mario Papa: morto sul lavoro a 23 anni. Vito Califano su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. È morto sul lavoro, a soli 23 anni, Mario Papa. Operaio. La sua è l’ennesima morte bianca – a fine agosto, per Inail, erano 772, più di tre persone al giorno. La tragedia si è verificata a Torre Annunziata, in provincia di Napoli. Il giovane sarebbe precipitato da circa sei metri, caduto nel vuoto, mentre stava lavorando. Quindi i soccorsi sul posto e la corsa d’urgenza in Ospedale, dove Mario Papa è morto ieri sera a causa delle ferite riportate. Ferite troppo gravi. A quanto ricostruito fino a questo momento da Lo Strillone, Papa stava lavorando su un muletto nel capannone di un’azienda che produce materiale sportivo. E sarebbe caduto mentre era intento a salire su un piano soppalcato in un capannone. Ancora da chiarire e conofermare comunque tutta la dinamica dell’incidente. Le condizioni del 23enne sarebbero però parse immediatamente molto gravi. L’operaio è stato trasportato d’urgenza all’Ospedale del Mare di Napoli. Il magistrato di turno ha immediatamente disposto il sequestro dell’intero capannone di via Sant’Alfonso de’ Liguori dove si è verificata la tragedia. Sul posto sono intervenute le volanti della Polizia Municipale, coordinate dal comandante Vincenzo Pagano, e i soccorsi. Il sindaco di Torre Annunziata Vincenzo Ascione ha annunciato il “lutto cittadino” in occasione dei funerali. “Purtroppo Mario non ce l’ha fatta, è una tragedia immane – la nota del sindaco Ascione diffusa anche tramite i social – La notizia della sua morte ci ha sconvolti e lasciati sgomenti. Il primo pensiero è rivolto ai familiari, ai quali esprimiamo il nostro cordoglio abbracciandoli idealmente in questi momenti tanto drammatici quanto dolorosi, consapevoli del fatto che nessun gesto o parola potrà in alcun modo lenire la loro sofferenza”. Mario Papa era un grande appassionato di calcio e un grande tifoso del Napoli. Un ragazzo solare e socievole. In queste ore numerosi anche sui social i messaggi di cordoglio e solidarietà alla famiglia colpita all’improvviso dalla tragedia: “Che dispiacere Mario, un ragazzo sempre con il sorriso sulle labbra. Che destino crudele“.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Altra morte sul lavoro ad Andria. Cade nella vasca di mosto, operaio di 30 anni muore sul lavoro: lascia moglie e due figli. Antonio Lamorte su Il Riformista l’ 8 Ottobre 2021. È caduto in una vasca piena di mosto e non per lui non c’è stato niente da fare. È morto così, ieri sera, un operaio di 30 anni. L’ennesima morte sul lavoro, questa voglia ad Andria, in Puglia, tra Barletta e Trani. Il giovane uomo si chiamava Nunzio Cognetti. È stato subito soccorso dai colleghi e poco dopo dai sanitari del 118 che non hanno potuto fare altro che constatare il decesso. La Procura di Trani ha aperto un fascicolo a carico di ignoti per omicidio colposo con la violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Ancora da accertare la dinamica dell’incidente, cosa abbia potuto causare la caduta fatale. Il macchinario e il luogo della tragedia intanto sono stati posti sotto sequestro. Cognetti era impegnato, scrive Andria Viva, in operazioni di vinificazione all’interno di un’azienda agricola a circa sette chilometri dal centro della città, direzione Castel del Monte. Inutili i tentativi di rianimarlo, andati avanti per circa mezz’ora. Cognetti era sposato e aveva due figli. Sul posto anche gli uomini dello Spesal e i poliziotti che hanno effettuato rilievi e avviato le indagini. La tragedia a meno di una settimana dalla “strage del mosto” a Paola, in provincia di Cosenza, dove quattro uomini, tutti parenti, erano morti a causa delle esalazioni tossiche sprigionate durante la vinificazione.  Una donna che era con le vittime era rimasta gravemente intossicata.

La strage che non indigna nessuno. “La questione delle morti sul lavoro assume sempre più i contorni di una strage che funesta l’ambiente economico e psicologico del Paese”, aveva detto la settimana scorsi, in giorni da bollettino rosso per le morti bianche, il Presidente del Consiglio Mario Draghi nella conferenza stampa sulla Nadef. E aveva suggerito “pene più severe e immediate e collaborazione all’interno dell’azienda per individuare precocemente le debolezze in tema di sicurezza lavoro”. Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail entro il mese di agosto sono state 772, 51 in meno rispetto alle 823 registrate nei primi otto mesi del 2020 (-6,2%). Dati comunque provvisori e influenzati dalla pandemia da covid-19. Il segretario della CGIL Landini aveva ribadito in un’intervista a La Stampa come sul dossier sicurezza con il Presidente del Consiglio Draghi si stessero facendo “progressi veri” ma “la serie degli incidenti dimostra l’urgenza di agire. Qualità del lavoro, salute e sicurezza devono diventare una priorità nazionali”. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva assicurato che il Piano Sicurezza sui posti di lavoro sarà pronto nelle prossime settimane e sarà preceduto da interventi anticipatori del piano stesso. Il piano prevede il potenziamento del sistema di formazione di dipendenti e imprenditori, con la revisione e il rafforzamento delle norme sanzionatorie per le violazioni, e la creazione di un’unica banca dati centrale per raccogliere violazioni e statistiche.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da leggo.it il 2 ottobre 2021. Quattro persone sono morte a Paola in Calabria a causa delle esalazioni emanate da una vasca dove era contenuto mosto d'uva. Una quinta persona è rimasta ferita gravemente ed è stata trasferita in ospedale. L'incidente è avvenuto nel comune di Paola (Cosenza) in contrada Carusi. Sul posto presenti del Vigili del fuoco in attesa anche di una squadra Nbcr per capire il tipo di sostante tossiche sprigionate dalla vasca. Le vittime, secondo quanto emerge dalle prime indagini sul posto delle forze dell'ordine, sono componenti di due nuclei familiari: due fratelli e un padre con il figlio. Uno dei fratelli avrebbe avuto un malore per le esalazioni nella vasca, mentre gli altri tre avrebbero cercato, “a catena”, di soccorrerlo rimanendo però storditi anche loro dalle esalazioni, risultate per tutti letali. Sul posto è arrivato anche il sindaco di Paola, Roberto Perrotta, per sincerarsi di quanto accaduto. 

Paola, 4 morti per le esalazioni di mosto d’uva: «Morti uno dopo l’altro per aiutare Santino».  Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. La famiglia Carnevale e quella degli Scofano non erano solo parenti tra loro, ma da circa vent’anni si davano una mano in tutte le attività agricole. Soprattutto in occasione della vendemmia. Tutti nella zona li conoscevano e tutti sapevano che proprio in questo periodo i due nuclei familiari erano occupati nella lavorazione del mosto. D’altra parte le due famiglie non conducevano una vita particolarmente agiata e cercavano, insieme, di mettere a frutto le loro esperienze in ogni attività nei campi. Il loro unico sostentamento erano le pensioni di vecchiaia di qualche familiare e lavori saltuari come muratori.

In Germania. Santino, dopo aver lavorato per decenni in Germania e Austria, un paio di anni fa si era definitivamente trasferito nella sua città, Paola, e si era dedicato all’agricoltura. Giacomo, l’altra vittima settantenne, aveva fatto per una vita l’infermiere alla clinica Trivulzio di Belvedere Spinello, una cittadina poco distante da Paola. Giacomo aveva tre figli femmine: Luisa, Roberta e Anna. Santino, oltre a Massimo pensionato anche lui dopo una grave malattia, lascia un altro figlio più piccolo, Giovanni. Tra le vittime c’è anche Valerio Scofano. E lui non doveva essere in quel locale dove fermentava il mosto. L’uomo, padre di una bambina e separato, si trovava infatti agli arresti domiciliari per stalking. La sua compagna di nazionalità tedesca, che aveva conosciuto quando lavorava in Germania come muratore, l’aveva denunciato e i carabinieri nei mesi scorsi gli avevano notificato il provvedimento del giudice. Ieri si è sottratto all’obbligo e ha trovato la morte assieme a Giacomo, suo fratello, disoccupato e padre di Gennaro, 23 anni.

Fortuna all’estero. Tutte persone semplici, lavoratori, ex emigranti che negli anni 60 avevano lasciato le loro terre per tentare di costruirsi un futuro in Germania, Austria e Paesi Bassi. Non hanno fatto fortuna, però, come tanti altri loro compaesani. E per questo, dopo tanti anni, tre di loro avevano deciso di rientrare nei paesi di origine. Si dedicavano all’agricoltura perché conoscevano quel lavoro e per avere una fonte di sostentamento. Lavoravano assieme, i pensionati e i più giovani. Tutti qui si conoscono. Nel bar della frazione dove è avvenuta la tragedia tra i gruppetti di anziani non si parla d’altro, con un misto di dolore e rassegnazione. «Le sventure colpiscono sempre chi non ne ha di bisogno». E ancora: «Facevano da anni, sempre in questo periodo, il mosto. Qualche volta ci sono andato pure io ad aiutarli» dice Antonio, un passato da arbitro dilettante. «Sono morti uno dopo l’altro per cercare di salvare Santino — aggiunge Antonio—. Una tragedia, una fatalità che nessuno avrebbe mai immaginato . Loro il vino lo sapevano fare, avevano molta esperienza».

Il pianto. Le abitazioni dei due nuclei famigliari distano alcuni chilometri dal centro abitato, anche se la zona non si può dire sia di periferia. Percorrendo la statale che porta al Santuario di Paola, s’incontrano case moderne e altre in pessime condizioni o addirittura diroccate. Tutto intorno il silenzio la fa da padrone. Ma dalle case delle vittime, illuminate a giorno, si sentono grida e lamenti. Sono madri, mogli, figli: chi resta piange i suoi cari scomparsi forse soltanto per un momento di distrazione. Ieri era l’ultimo giorno di fatica a conclusione del ciclo della vendemmia. E come sempre tutto si sarebbe concluso con una abbondante tavolata per festeggiare quella che si annunciava come un’ottima annata. Mancava ormai poco. Le operazioni di riempimento delle botti si stavano per concludere. Ma l’urlo di felicità è rimasto strozzato in gola.

Tragedia del mosto a Paola, ecco quello che è successo nella cantina. Guido Scarpino su Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2021. È in corso da un’ora il trasferimento delle salme dal garage dell’abitazione privata della famiglia Scofano, in località Carusi del rione San Miceli – dove nella mattinata odierna sono decedute quattro persone a causa delle esalazioni di mosto – presso l’obitorio di Cetraro, dove nei giorni a venire si terranno gli esami tecnici irripetibili, che saranno disposti dal sostituto procuratore della Repubblica di Paola, Antonio Lepre, in sintonia con il procuratore capo Pierpaolo Bruni. Le vittime del gravissimo incidente sono Giacomo e Valerio Scofano, rispettivamente di 70 e 50 anni, di Paola, e Santino e Massimo Carnevale, padre e figlio di 70 e 40 anni, di Fuscaldo. I quattro erano legati tra loro da rapporti di parentela. Un’altra persona, una donna, è rimasta intossicata, mentre una sesta persona, un giovane, nipote degli Scofano, è sotto osservazione. Valerio Scofano era agli arresti domiciliari ed è corso sul posto, udite le urla, per prestare soccorso. La famiglia Scofano ed i Carnevale erano intenti alla lavorazione delle uve per la preparazione del vino per uso familiare. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, la prima vittima scesa nel locale che ospitava la vasca dove era contenuto il mosto avrebbe avuto un malore e gli altri tre si sarebbero calati a loro volta nella vasca, uno dietro l’altro per prestare soccorso, perdendo anche loro la vita. Tre delle vittime sono state trovate all’interno della vasca mentre una quarta era posizionata quasi all’esterno del locale forse nel tentativo estremo di uscire. Le due comunità di Paola e Fuscaldo sono in lutto. I sindaci dei rispettivi territori, Roberto Perrotta e Gianfranco Ramundo, stanno lavorando per proclamare il lutto cittadino. 

Tragedia del mosto a Paola, parla l'esperto: perché si può morire di vino. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2021. DI vino si può anche morire. Lo dimostra la tragedia avvenuta a Paola dove hanno perso la vita quattro persone e una quinta è stata ricoverata in ospedale. Il mosto in un locale privo della necessaria aerazione, avrebbe prodotto una notevole quantità di anidride carbonica e determinato prima lo stordimento e poi la morte di chi si trovava in prossimità della grande vasca contenente l’uva in fermentazione. “Queste persone – spiega Demetrio Stancati, medico, presidente del Consorzio Dop Calabria e produttore di vini – sicuramente facevano il vino in maniera molto artigianale dimenticando qualche regola fondamentale. Una volta, nella cantina dove c’era il mosto in fermentazione, si lasciava sempre una candela accesa perché se la fiamma continuava ad ardere, significava che in quel locale c’era ancora ossigeno. Se, diversamente, la candela si spegneva, indicava chiaramente al piccolo produttore che nell’aria c’era una forte componente di CO2″. “Evidentemente – continua Stancati – la cantina dove è avvenuta la tragedia era un locale chiuso, privo di finestre, ed è palese che all’interno ci fosse un livello di anidride carbonica abbastanza alto. Noi che produciamo un grosso quantitativo di vino, durante il periodo della fermentazione del mosto, lasciamo sempre le finestre aperte. La produzione artigianale del vino in Calabria è una pratica molto diffusa ma mi viene da pensare che oggi, rispetto a molti anni fa, le cose si facciano in maniera avventata, senza le necessarie e minime precauzioni”. Oltre all’anidride carbonica, durante le fasi della fermentazione “si produce anche l’anidride solforosa perché per proteggere il vino vengono usati dei solfiti che altro non sono che molecole composte da ossigeno e zolfo. È evidente che in un locale chiuso con l’uva in fermentazione, sicuramente rossa considerato il periodo, siano state presenti varie sostanze che hanno potuto determinare, come nel caso di Paola, delle reazioni avverse”. “La provincia di Cosenza negli ultimi cento, duecento anni – prosegue l’esperto – si è sempre caratterizzata per la produzione artigianale del vino. Ognuno aveva la sua piccola vigna e produceva il vino perché non dimentichiamo che oltre ad essere una bevanda gustosa, il vino è un vero e proprio alimento. Il contadino che zappava la terra e iniziava il lavoro all’alba, per trovare le energie necessarie che gli servivano, mangiava qualcosa e beveva del vino, e quale migliore aiuto era un bicchiere di vino che erano zuccheri ed energia pronta per vincere la fatica”. “Anche i vigneti di allora venivano pensati in un’ottica diversa da quella attuale. Spesso erano composti da vitigni multipli perché così si evitava l’attacco delle malattie più comuni e la preziosa produzione del vino che serviva per poter lavorare, era assicurata. In una realtà contadina come la nostra – conclude Stancati – il vino ha sempre rappresentato una fonte di energia preziosa e insostituibile anche se questo tragico fatto di cronaca ci mostra quanto la disattenzione e la superficialità possano essere fatali”. 

Morti sul lavoro, nel Padovano e nel Torinese due operai cadono dalle impalcature. Nel Pisano contadino decapitato da una trebbiatrice. Redazione Tgcom24 il 28 settembre 2021. Il lavoro miete altre sei vittime in Italia. Due nel Milanese, una nell'hinterland di Torino, una nel Palermitano, una nel Padovano e un'altra ancora nel Pisano. Un operaio della ditta Lavor Metal di Loreggia, nel Padovano, è morto dopo essere caduto da un'impalcatura alta cinque metri. A Nichelino (Torino), cadendo da una scala alta due metri, ha perso la vita il titolare di un'officina. L'incidente nel Padovano - L'uomo, un 52enne del posto, dipendente dell'azienda dell'Alta Padovana specializzata nella lavorazione dei metalli e dell'acciaio inox, avrebbe perso l'equilibrio mentre si trovava sull'impalcatura e l'impatto al suolo non gli ha lasciato scampo. L'area in cui è avvenuto l'incidente è stata recintata per verificare eventuali violazioni in tema di sicurezza sul lavoro.

L'incidente nel Torinese - Era il titolare dell'officina meccanica l'uomo morto in mattinata in un incidente sul lavoro a Nichelino, nel Torinese. Leonardo Perna, 72 anni, è deceduto dopo essere caduto da una scala a due metri d'altezza. Secondo una prima ricostruzione di quanto accaduto, al momento dell'incidente era solo. A chiamare i soccorsi sono stati i dipendenti di una ditta vicina all'officina di via XXV Aprile, che hanno sentito dei rumori.

L'incidente nel Palermitano Altro incidente mortale a Capaci (Palermo). Aveva finito le operazioni di carico e scarico della merce Giuseppe Costantino, 52 anni. E' andato nella parte posteriore del Tir per alcune verifiche, ma il mezzo si è messo in movimento e lo ha travolto uccidendolo.

L'incidente nel Pisano Un contadino di 54 anni è morto decapitato sotto una trebbiatrice. L'incidente è avvenuto a Pontasserchio, nel Pisano. L'uomo stava lavorando sul mezzo agricolo in un campo di granoturco quando il macchinario si sarebbe bloccato. Nel tentativo di risolvere il problema, il 54enne sarebbe stato risucchiato nella stessa trebbiatrice.

Cesare Giuzzi per "" il 28 settembre 2021. Due operai sono deceduti in un deposito di azoto della sede dell’ospedale Humanitas di Rozzano, nel Milanese. I due sono lavoratori di una ditta esterna. Non sono al momento note le loro generalità. L’azoto liquido è un fluido criogenico: viene mantenuto nel campo di temperature tra circa -210 °C e -195 °C, e questa temperatura bassissima lo rende pericoloso. Le cause del decesso dei due lavoratori sono in via di accertamento, si ipotizzano ustioni da congelamento ma non è escluso che — come indicano le prime informazione dell’Agenzia regionale emergenza urgenza (Areu) — si tratti di una intossicazione.

L’azoto non è tossico e non ha odore, ma in caso di perdita crea una riduzione della concentrazione di ossigeno nell’aria; con concentrazioni inferiori al 6% la persona cade in coma e muore. I due operai sono stati trovati privi di conoscenza nel deposito di azoto liquido dell’ospedale. La chiamata al numero di emergenza 112 è scattata alle 11.26. Sul posto in codice rosso sono intervenuti l’elisoccorso, due ambulanze, i Vigili del Fuoco e i carabinieri.

Incidente all’Humanitas di Rozzano, gli operai morti sono soffocati mentre cercavano di aiutarsi. Incidente sul retro dell’Humanitas, a Milano: morti Emanuele Zanin e Jagdeep Singh, operai al lavoro nel silos dove si trova l’azoto liquido usato per conservare i campioni di laboratorio. Una telecamera li ha filmati: aperta un’inchiesta per omicidio colposo. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2021. Sono morti dentro a una scatola di cemento armato aperta verso il cielo. Emanuele Zanin, bresciano di 46 anni e Jagdeep Singh, di 42, origini indiane e casa in val Camonica, sono morti soffocati nel tentativo di aiutarsi l’un l’altro. Come spesso si muore quando si maneggiano gas infidi come l’azoto, killer senza odore, senza colore, che toglie il fiato quasi all’istante. Aria che uccide per asfissia, che si sostituisce all’ossigeno e il corpo cade nel tentativo di mettersi in salvo.

I soccorsi. Li ha trovati così il manutentore dell’impianto che alle otto di mattina aveva iniziato il turno «di guardia» all’ospedale. È lui, in caso di guasti, di necessità particolari nei reparti, ad intervenire. Ma non arriva perché suonano strani allarmi sul suo tablet. Lo fa perché è convinto che i due tecnici arrivati quasi un’ora prima abbiano finito di caricare la cisterna da 6 mila litri di azoto liquido che serve per conservare i campioni dei laboratori dell’Humanitas e stiano per andare via. «Sono sceso per chiudere il cancelletto e li ho trovati lì. Immobili», confida a un collega. Capisce subito che non c’è niente da fare. Dà l’allarme alla vigilanza dell’ospedale mentre un collega scende con il respiratore e vede il viso cianotico dei due operai sotto la visiera.

Asfissia. Morte per asfissia certifica il primo referto del medico del 118. La stessa dicitura riempie i primi verbali dei tecnici dell’Ats Milano est che insieme alla polizia locale di Pieve Emanuele, alla polizia giudiziaria della procura e ai carabinieri del Nucleo tutela lavoro, indagano sul duplice incidente. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Paolo Filippini hanno aperto un fascicolo per omicidio colposo. Inchiesta che sul piano della causa del decesso dovrà dire poco, ma che moltissimo avrà il compito di ricostruire su cosa è accaduto ieri mattina sul retro dell’Humanitas tra Rozzano e Pieve.

Il lavoro. L’incidente è avvenuto sotto l’occhio di una telecamera e si aspetta l’analisi dei filmati per ricostruire con certezza le mosse dei due operai. Lavoravano entrambi per la Autotrasporti Pe di Costa Volpino, azienda che si occupa del trasporto di azoto liquido per conto del Gruppo Sol, colosso del settore, che ha in appalto la fornitura di gas per l’ospedale. Vivevano nel Bresciano ed erano, tragicamente, entrambi padri di due bambini piccoli. Zanin lavorava da diversi anni per la Pe, mentre Singh, ex muratore, era in prova, assunto soltanto da pochi giorni. Un periodo che è al vaglio degli investigatori che vogliono capire se la formazione indispensabile per manovrare l’azoto liquido a -198 gradi sia stata svolta regolarmente.

I silos. L’operazione di caricamento è considerata di routine. Avviene più volte a settimana quando il sistema rileva la necessità di integrare le scorte. I silos dove l’azoto viene conservato a 12-13 bar di pressione si trovano sul retro dell’Humanitas university. Il camion cisterna si affianca al livello della strada, lì c’è un quadro dove viene agganciato, con un doppio gancio di sicurezza stretto con un dado, il tubo d’acciaio che permette ri rifornire le cisterne a 20 bar per spingere dentro il gas.

Le ustioni. Sotto c’è una sorta di cavedio di cemento armato, aperto sull’alto, che dà accesso alle cisterne. Bisogna scendere con una scala di metallo due metri sotto il livello della strada. Questo è il posto considerato più pericoloso. Perché l’azoto è più pesante dell’aria e si deposita sul fondo. Per questo è previsto un sistema di allarme con analisi continua dell’ossigenazione che si attiva in automatico in caso di perdite. Eventi considerati rari. Per riempire le cisterne però non serve scendere, anzi, spesso l’operazione viene svolta da una sola persona. Ecco perché gli inquirenti vogliono capire per quale motivo i due tecnici non si trovassero al piano strada ma dentro alla «buca». Lì si va solo in caso di guasti che però non risulterebbero essere stati segnalati. Per la procura le vittime sarebbero state prima colpite da un getto di gas uscito da uno sfiato che li avrebbe «congelati» procurandogli ustioni sul corpo. Il resto, in modo rapidissimo, lo avrebbe fatto il gas che sostituendosi all’ossigeno ha reso l’aria tossica. Un po’ come accaduto per i quattro operai morti alla Lamina nel 2018.

L’aiuto reciproco. Gli inquirenti si muovono su tre fronti. Il primo è la verifica delle autorizzazioni e della formazione dei lavoratori. Il secondo riguarda l’eventualità di un errore umano o di una imprudenza nel comportamento: la dinamica fa pensare che i due operai siano morti nel tentativo di prestarsi soccorso l’un l’altro, anche se in questi casi chi scende a soccorrere deve usare un respiratore (che si trova sul camion). La terza è quella, seppure remota, di un incidente. Un guasto improvviso a una valvola, la rottura accidentale di uno sfiato, che statisticamente si verifica molto raramente ma che potrebbe essere avvenuta casualmente nel momento in cui i due tecnici si trovavano vicini all’impianto. 

Gli infortuni sul lavoro il nodo centrale: che fine hanno fatto i delegati alla sicurezza? Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 28 settembre 2021. IL PRIMO ‘’vertice’’ della ripresa si è svolto sul tema della sicurezza del lavoro. Mario Draghi aveva inserito questo tema nei primi punti all’ordine del giorno nel corso del saluto informale con i giornalisti prima della pausa estiva.   «Poi ci sono tutti i problemi – aveva affermato il presidente – che riguardano il lavoro, in merito oggi c’è stata una riunione col ministro del Lavoro. Ma ce n’è uno in particolare che sta a cuore a tutti noi, a me certamente forse sta a cuore più di ogni altra cosa: è cercare di far qualcosa per migliorare quella che è una situazione inaccettabile sul piano della sicurezza del lavoro. In questa circostanza –  ha ribadito Draghi – volevo anche rivolgere un pensiero commosso e affettuoso a tutti coloro che volevano bene a Laila El Harim, due mesi fa ricordo Luana D’Orazio e così via ogni giorno. È stato fatto molto su questo piano, ma occorre fare molto di più evidentemente». Ieri le parti sociali si sono presentate “preparate’’: sia la Confindustria che i sindacati hanno predisposto ed illustrato dei documenti contenenti le loro proposte. Secondo l’associazione di viale dell’Astronomia la questione riguarda essenzialmente gli aspetti comportamentali e quello manutentivo delle attrezzature. Il primo sollecita interventi formativi ed organizzativi (uso dei dispositivi personali di protezione, condotte in caso di situazioni rischiose, conoscenza delle conseguenze del mancato uso dei dispositivi di sicurezza o dell’uso errato delle attrezzature, rispetto delle indicazioni procedurali), il secondo richiede di porre attenzione al tema del rapporto uomo/macchina su più versanti (manutenzione adeguata, adozione corretta e non modificabilità dei requisiti di sicurezza, segregazione del macchinario rispetto al possibile contatto uomo/macchina). Secondo la Confindustria nessun infortunio è frutto di casualità (ma esito di una o più situazioni di rischio preventivabili e quindi prevenibili) e che – salvo rarissime eccezioni – nessun infortunio è inevitabile (il che interpella il tema della chiarezza e semplicità delle regole comportamentali e tecniche). Più concrete le proposte dei sindacati che hanno segnalato l’esigenza di un miglioramento della governance attraverso un maggior coordinamento dei diversi organi competenti nel territorio. Sempre nel quadro della governance è stato proposta l’attivazione del Sinp (Sistema informativo nazionale sulla prevenzione), mentre sulla falsa riga del DURC (documento unico di regolarità contributiva) è stata rilanciata un’idea più volte illustrata da Maurizio Landini anche nei confronti pubblici: l’istituzione dei DUS (documento unico di sicurezza) che costituisca la “scatola nera’’ delle iniziative di formazione e prevenzione attuate a livello aziendale. Viene poi avanzata la proposta di estendere l’intervento dell’Inail a settori non protetti (come i riders). Senza dubbio sia sul piano culturale che pratico si tratta di proposte interessanti. Ma anche chi volesse bendarsi e tapparsi le orecchie per non vedere e sentire non riuscirebbe a non notare un’assenza clamorosa: che fine hanno fatto i delegati alla sicurezza che dovrebbero rappresentare la prima linea nell’individuare e denunciare i pericoli e i rischi per la salute dei lavoratori? Le norme in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (dlgs n.81/2008 e successive modifiche) assegnano delle funzioni essenziali ai rappresentanti dei lavoratori in azienda o a livello del territorio.

Vi è un’intera Sezione (la VII) dove sono previste forme di consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori eleggibili in tutte le aziende anche se piccole. Per farla breve non si tratta di fare tappezzeria. I poteri di questi lavoratori sono effettivi; possono disporre senza perdere la retribuzione del tempo necessario per svolgere i loro compiti e soprattutto il rappresentante «può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro». Soprattutto chi è chiamato dagli altri lavoratori a svolgere tale funzione «non   può   subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali». La prevenzione degli infortuni è necessariamente un impegno collettivo in qualunque organizzazione del lavoro. L’attenzione del compagno vicino – meglio se è stato eletto per svolgere questo compito – è un presidio più sicuro della ispezione periodica di un funzionario del Lavoro (anche se è corretto programmare nuove assunzioni di ispettori del lavoro). Poi sarebbe ora di rivedere un’impostazione sostanzialmente ideologica che risale all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale del 1978: la tutela unitaria della salute (prevenzione, cura e riabilitazione) che ha assegnato anche la problematica infortunistica alle ASL (per fortuna un referendum ha sottratto alle ASL le competenze in materia di ecologia). In precedenza l’Inail aveva una competenza esclusiva ed era dotato persino di proprie strutture ospedaliere (i c.d. traumatologici). È abbastanza comprensibile che nel personale delle ASL oberate dai problemi della sanità siano carenti le figure professionali in grado di intervenire sulla sicurezza dei macchinari e sull’organizzazione del lavoro. Ma che l’ideologia faccia schermo alla realtà emerge dalla linea di condotta complessiva di cui sono protagonisti i sindacati. Prendiamo la guerra del ‘’green pass’’ combattuta sul fronte delle mense aziendali. Alla fine il governo è andato avanti per la sua strada e nessuno ha detto beo, salvo chiedere un prezzo calmierato per i tamponi, che sembrano essere divenuti l’ultimo residuo di libertà rimasto. Poi c’è questa ossessione per i licenziamenti. Che fiducia si può avere in organizzazioni sindacali che non hanno il polso effettivo di quanto accade nei posti di lavoro? Il 30 giugno il governo ha sbloccato i licenziamenti nell’industria (tranne il tessile) e nelle costruzioni e non è successo niente: non sono aumentati i licenziamenti né le domande di disoccupazione NASPI. È anche vero però che contemporaneamente è stata garantita la cassa integrazione gratuita (senza il pagamento del contributo di funzionamento che va dal 9 al 15% del monte salari) fino al 31 dicembre, per cui le aziende invece di licenziare ed andare incontro a lunghe vertenze hanno messo i lavoratori in cassa integrazione. La cassa integrazione gratuita ha funzionato per evitare i licenziamenti tuttavia non si può sapere facilmente quanti la hanno usata per non licenziare e quanti ne hanno abusato invece per ridurre il costo del lavoro. A giugno (ultimo mese disponibile, ora probabilmente va meglio vista la ripresa economica) c’erano ancora 1 milione di lavoratori in cassa integrazione: un numero importante e ben superiore a quello del 2009. Di questi circa un terzo erano in cassa integrazione per un numero elevato di ore mensili e quindi si può pensare che altrimenti sarebbero stati licenziati, gli altri due terzi però potrebbero essere in cassa integrazione per altri motivi. Il 31 ottobre è previsto lo sblocco dei licenziamenti nei servizi e contemporaneamente però è garantita la cassa integrazione gratuita sino a fine anno. I sindacati chiedono al governo di riesaminare il problema e di allineare il blocco con la scadenza della cig gratuita. Nessuno si pone il problema di tante aziende che, anziché licenziare, lamentano di non trovare manodopera. E non solo quella particolarmente qualificata, uscita dagli ITS (che non ci sono a sufficienza) ma neppure quella generica. Quando si fa notare questo intoppo i sindacati rispondono che i lavoratori sono pagati troppo poco. A parte che i contratti sono stipulati da loro, ma come campano coloro che si rifiutano di lavorare con remunerazioni da loro ritenute inadeguate? Oltre ai no vax, ci sono anche i no lav?

Incidenti sul lavoro: a Genova operaio precipita da un ponteggio e muore. Ha ceduto una tavola di legno. I sindacati: "Ora basta, domani sciopero degli edili di 8 ore". Stefano Origone e Massimiliano Salvo su La Repubblica il 15 settembre 2021. Durante lavori di ristrutturazione di un palazzo in via Cecchi alla Foce, durante un controllo ferita alla testa anche un'ispettrice dell'Asl, portata in ospedale per accertamenti. Un operaio di 54 anni è morto cadendo dalle impalcature, a Genova, nel quartiere della Foce. L’uomo si trovava in un cantiere in via Cecchi per dei lavori di ristrutturazione, quando all’improvviso ha perso l’equilibro ed è precipitato in strada per diversi metri. Sul posto sono intervenuti i militi del 118 e i carabinieri, che stanno cercando di ricostruire quanto accaduto.

Dramma morti sul lavoro. Morti bianche, ogni giorno per tre operai è l’ultimo giorno…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Instancabile, Elio Petri, continua a costruire paradisi, e senza tregua Ennio Morricone e Chico Buarque fabbricano colonne sonore e canzoni per accompagnamenti in musica. Sarà per non deluderli che gli operai s’immolano. In mille e più modi fantastici: volano da sopra i tetti, si fanno stritolare dagli orditoi o dalle presse, si lasciano sotterrare dai detriti, schiacciare dalle lastre di marmo, schiaffeggiare dai cavi d’acciaio. Crollano a testa in giù dagli alberi o affrontano treni in corsa, sfidano le fiamme. Potrebbero lasciarsi sopraffare dallo sforzo, semplicemente, ma sarebbe poco coreografico. Si alzano a orari improbabili del giorno e della notte e celebrano un rito per ogni atto: l’amore, la colazione, il bacio ai figli, le carezze ai gatti, il sorriso agli sconosciuti sulla metro, lo struscio nei bus. Tutto come fosse un ultimo, irripetibile atto. Tutto come fosse l’alba definitiva, il tramonto in agonia, la notte in estinzione. Sono figli di una epifania tragica gli operai, una manifestazione divina senza ricorrenza né festa. Ogni giorno è il loro giorno, almeno per tre di loro, in Italia.

Ieri non ha fatto eccezione: un operaio filippino di 55 anni ha chiuso per sempre il suo martedì nel porto di Livorno, atterrato da un cavo d’acciaio, e ha passato la staffetta a un dì altrettanto buio: un mercoledì che ha colpito a Pietrasanta, a Castiglione Fiorentino, a Napoli. 44 anni, 73 anni, 59 anni. Una lastra di marmo, un albero, una caduta. Ogni giorno ne conta tre, tre operai che passano al riposo eterno, tre famiglie che invano aspetteranno un ritorno padri illegittimi di un Pascoli che non trova più le parole, figli perduti dei Carducci che nemmeno alberi piantano nell’orto. Una pandemia di cui nessuno cerca più la cura, una malattia a cui non ci stanno scienziati da dedicare. Eppure il vaccino sarebbe facile da trovare, è sembrato essere a portata di mano negli anni passati delle lotte operaie. Poi il male ha vinto, l’economia ha sopraffatto lo spirito. L’umanità ha guardato altrove. E Chico Buarque continua a spezzare il cuore.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

L'operaio deceduto nel cantiere della metro di Napoli: lascia moglie e due figli. Lavoro killer, tre morti al giorno. Il dramma di Luigi Manfuso: “Stamattina non ti ho visto passare…” Ciro Cuozzo su Il Riformista l'8 Settembre 2021. E’ stato trovato in fin di vita in una intercapedine adibita al trasporto di materiale edile all’interno del cantiere della metro Tribunale (Linea 1) di Napoli, in via Aulisio nel quartiere Poggioreale. Soccorso dai colleghi prima e poi da sanitari del 118, è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli dove è deceduto poco dopo in seguito alle gravi ferite riportate. Luigi Manfuso, operaio di 59 anni originario del comune partenopeo di Gragnano e dipendente di una ditta che si stava occupando dei lavori, è l’ennesima morte bianca. L’ennesimo lavoratore che non torna a casa dai propri cari. Lascia la moglie e due figli. L’incidente, sul quale sono in corso le indagini della polizia, coordinate dalla Procura di Napoli, è avvenuto nel primo pomeriggio di martedì 7 settembre. La notizia del decesso di Manfuso è stata diffusa solo nella mattinata di oggi, mercoledì 8 settembre, dai sindacati di categoria. Ancora da chiarire la dinamica dell’incidente costato la vita al 59enne operaio. Potrebbe essere deceduto in seguito alle gravi ferite riportate dopo essere caduto nell’intercapedine: questa l’ipotesi principale battuta dagli investigatori. Sarà ora l’autopsia, disposta dal pm di turno, a chiarire le cause del decesso. Una parte del cantiere dove è avvenuta la tragedia è stata posta sotto sequestro per espletare gli accertamenti. “Un nuovo incidente mortale è avvenuto nel cantiere della linea 1 della Metropolitana, nel tratto compreso tra il Centro Direzionale e Capodichino. A morire di lavoro, Luigi Manfuso, 59 anni, di Gragnano e residente a Casola, dipendente della società Icm per conto di Metropolitana di Napoli. Luigi lascia due figli e la moglie” commenta il segretario generale della Fillea Cgil di Napoli, Giovanni Passaro, che aggiunge: “Non possiamo chiamarle disgrazie, è urgente rimettere mano alla legislazione nazionale sul lavoro, introducendo il reato di ‘omicidio colposo e riaprire una stagione contrattuale che recuperi un maggiore potere di controllo e contrattazione sull’organizzazione nei luoghi di lavoro”. Grande tifoso del Gragnano, Manfuso viene ricordato in queste ore da numerosissimi messaggi sui social di amici, colleghi e conoscenti. “Stamattina non ti ho visto passare e poi ho avuto questa triste notizia” commenta sui social un amico del 59enne che ricorda anche la sua fede bialloblu. L’Amministrazione comunale di Napoli partecipa “commossa al dolore della famiglia, degli amici e dei colleghi di lavoro di Luigi Manfuso, morto mentre era sul posto di lavoro in un cantiere della Metropolitana”. “Manfuso, operaio di Gragnano che lascia moglie e due figli, è l’ennesima vittima di una morte ingiusta ed assurda, in una giornata che – si legge in una nota – registra un altro tragico incidente sul lavoro in Toscana, e che ripropone l’assoluta urgenza di una legislazione sul lavoro sempre più incentrata sulla tutela e sulla sicurezza dei luoghi di lavoro”. Solo oggi, 8 settembre, in Italia sono tre le persone che hanno perso la vita sul lavoro. Oltre a Manfuso, si registrano due vittime in Toscana. In Versilia questa mattina un uomo di 54 anni, Andrea Bascherini, è morto all’interno di una azienda lapidea di Pietrasanta (Lucca), dopo essere rimasto schiacciato fra due lastre di marmo. L’incidente è avvenuto nella ditta 2P Trading, sulla via Aurelia, dove sono dislocate molte aziende del distretto lapideo di Pietrasanta, una delle capitali della lavorazione del marmo del distretto apuo-versiliese. Sul posto, oltre ai mezzi di soccorso e alle forze dell’ordine, sono intervenuti gli operatori della Prevenzione Igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro dell’Asl. La seconda vittima, in provincia di Arezzo in un’azienda agricola di Castiglion Fiorentino. Giuseppe Zizzo, 73 anni, è caduto da un albero da un’altezza di circa sei metri. Sul posto sono arrivati i soccorsi con un’auto medica ed un’ambulanza. I sanitari hanno effettuato tutte le operazioni per rianimare l’uomo, che al loro arrivo era incosciente probabilmente in arresto cardiocircolatorio. L’uomo non ha risposto alle manovre dei sanitari ed è deceduto. Sul posto i carabinieri e la polizia municipale che in considerazione della dinamica e del luogo dell’incidente hanno richiesto l’intervento del PISL, ipotizzando che l’accaduto si configuri come incidente sul lavoro.

Dal 1 gennaio ad oggi sono 43 i morti sul lavoro in Campania. A tenere il drammatico conteggio è la Fillea Cgil Campania. A Napoli, dall’inizio dell’anno, sono state 14 le vittime sul lavoro, segue Caserta (11), Salerno (10), Avellino (7) e Benevento (1). Tra i settori più colpiti l’edilizia con 14 decessi, seguito dall’agricoltura (14).

Il bilancio nazionale: 538 vittime, 3 al giorno

Nei primi sei mesi di quest’anno l’Inail ha registrato 538 vittime, 3 al giorno, e poco conta che siano 32 in meno rispetto al 2020, anno anomalo condizionato dal Covid, in cui alla fine si sono contate 1.538 vittime.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Sindacalista investito e ucciso da un camion durante una manifestazione: aveva 37 anni. Debora Faravelli il 18/06/2021 su Notizie.it. Un sindacalista di 37 anni è morto nel novarese dopo essere stato investito nel corso di una manifestazione: lascia due figli. Tragedia a Biandrate, comune in provincia di Novara, dove un sindacalista è stato investito e ucciso da un camion durante una manifestazione: il conducente del mezzo pesante è fuggito dopo l’incidente ma è già stato rintracciato dai Carabinieri. I fatti hanno avuto luogo nella mattinata di venerdì 18 giugno 2021 davanti all’ingresso del deposito territoriale della Lidl in via Guido il Grande. Belakhdim Adil, questo il nome della vittima, stava manifestando in rappresentanza dei Cobas insieme ai colleghi della logistica quando un camion ha forzato il blocco della manifestazione e lo ha urtato. L’uomo, 37 anni, è stato trascinato dalla motrice per una decina di metri per poi esserne travolto ed essere lasciato esanime in corrispondenza dall’attraversamento pedonale. Il camionista non ha infatti prestato soccorso e si è subito dato alla fuga, incastrato però dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza che l’hanno inchiodato alle sue responsabilità. Una fuga durata poco, dato che i Carabinieri lo hanno bloccato all’Autogrill dell’A4 tra i caselli di Novara Est e Novara Ovest. Presenti sul posto i sanitari del 118, che hanno tentato invano di rianimare l’uomo e non hanno potuto far altro che constatarne il decesso, i militari della stazione di Biandrate e gli agenti della questura di Novara. A scatenare l’incidente sarebbe stato un diverbio tra il conducente del camion e i manifestanti, una ventina in tutto, che si trovavano davanti al cancello del deposito della Lidl. Il segretario generale della Cgil di Novara Attilio Fasulo ha spiegato che “i lavoratori presenti mi hanno parlato di una discussione a seguito della volontà del camionista di forzare il presidio”. Sempre secondo le testimonianze raccolte, il sindacalista sarebbe stato travolto e trascinato per una decina di metri: nei primi minuti si era immaginato che stesse attraversando la strada, ma i filmati mostrerebbero chiaramente che sia stato sbalzato dopo l’impatto con il mezzo pesante. Le forze dell’ordine presenti sul luogo dell’accaduto hanno effettuato tutti i rilievi necessari a ricostruire la dinamica che ha portato all’investimento di Belakhdim, coordinatore interregionale dei SiCobas NovaraAdil e padre di due figli. L’uomo viveva a Vizzolo Pedrabissi, nell’area metropolitana di Milano. Da qualche anno svolgeva attività sindacale.

La tragedia di Biandrate. Chi era Adil Belakhdim, il sindacalista Cobas investito e morto a Briandate durante un presidio. Vito Califano su Il Riformista il 18 Giugno 2021. È tesa la situazione a Biandrate, a pochi chilometri da Novara, dove stamattina un sindacalista è morto, investito da un camion durante un presidio. Si chiamava Adil Belakhdim. L’incidente fatale durante una manifestazione nei pressi di una sede della Lidl. Secondo le prime ricostruzioni dei giornali l’uomo, con un gruppo di una ventina di lavoratori, stava effettuando un presidio. Stavano cercando di ostacolare l’ingresso e l’uscita dei mezzi dall’azienda. Tra i manifestanti e un autista sarebbe scoppiato un diverbio. Quando il camionista ha forzato il blocco, cercando di varcare i cancelli del magazzino, avrebbe investito il rappresentante dei Cobas e alcuni altri lavoratori. Due sono stati portati in ospedale. Non sarebbero in gravi condizioni. La Stampa scrive che Belakhdim è stato trascinato per una decina di metri dalla motrice e che quindi è caduto esanime in corrispondenza di un attraversamento pedonale. Adil Belakhdim era rappresentante dei Si Cobas, coordinatore provinciale del sindacato a Novara. L’attivista aveva origini marocchine ed era padre di due figli, di 4 e 6 anni. Era residente con la famiglia a Vizzolo Predabissi, nell’area metropolitana di Milano. Niente da fare per i soccorsi del 118 intervenuti sul posto che non hanno potuto fare altro che constatare il decesso. Secondo quanto riferito da Attilio Fasulo, segretario generale della Cgil di Novara, che si trova sul luogo della morte del sindacalista, “i lavoratori presenti mi hanno parlato di una discussione a seguito della volontà del camionista di forzare il presidio”. Il camionista è quindi fuggito. È stato bloccato in autostrada, grazie al supporto delle telecamere di videosorveglianza, in una stazione di servizio, dai carabinieri. È stato trasportato in caserma dove sarà ascoltato dai carabinieri del Comando provinciale di Novara. Si Cobas afferma che “contrariamente a quanto affermato su alcuni organi di stampa padronali, Adil è stato ammazzato da un camion che ha forzato il presidio dei lavoratori”. Indetta una conferenza stampa all’esterno dei cancelli della Lidl. La tragedia di Briandate si inquadra in un clima di tensioni che da settimane attraversano il settore della logistica. La giornata di sciopero nazionale organizzata per oggi era stata indetta da Si Cobas dopo l’episodio della scorsa settimana a Tavazzano, in provincia di Lodi, dove alcuni lavoratori aderenti allo stesso sindacato erano stati aggrediti e feriti durante un presidio all’esterno di un’azienda di logistica.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Sindacalista investito e trascinato. “E’ successo un casino”, la telefonata del camionista all’amico poliziotto dopo l’omicidio di Adil Belakhdim. Giovanni Pisano su Il Riformista il 19 Giugno 2021. “E’ successo un casino, cosa devo fare?”. Sono le parole pronunciate al telefono da Alessio Spaziano, 26 anni, subito dopo aver travolto, trascinato per una decina di metri e ucciso il sindacalista Adil Belakhdim, 37 anni, all’esterno del centro distribuzione Lidl di Biandrate, in provincia di Novara, fuggendo poi via a velocità sostenuta. Il giovane camionista originario Dragoni e residente a Baia e Latina, comuni dell’Alto Casertano, si è rivolto al padrino di cresima, un sovrintendente della polizia di stato in servizio in Campania. Gli ha raccontato quanto accaduto e subito il poliziotto gli ha detto di “tornare indietro, perché altrimenti passerai guai peggiori”. Il 26enne si è poi costituito ai carabinieri e la sua prima versione è stata quella di “non essermi reso conto di nulla” e di “non aver visto nessuno vicino al camion”. Sposato e padre di due figli piccoli, Spaziano lavora per un’azienda di Castellammare di Stabia (Napoli) che si occupa di cibi surgelati. Ogni settimana effettuava consegne al Nord per poi tornare a casa nel weekend. Adesso si torva nel carcere di Novara dove lunedì 21 giugno è in programma l’udienza di convalida dell’arresto. Le accuse sono di omicidio stradale (che contempla anche l’omissione di soccorso) e resistenza a pubblico ufficiale. La procura della Repubblica di Novara sta valutando soprattutto due aspetti della vicenda: quanto l’autista fosse consapevole del rischio della manovra compiuta e le motivazioni dell’allontanamento dal luogo dell’incidente. “Sindacalisti uccisi, squadre armate ingaggiate dalle aziende per pestare chi sciopera. Sembrano gli anni ’20 di un altro secolo ma è l’Italia di oggi”. Lo dice, in una nota, Lorenzo Lang, segretario del Fgc, Fronte della Gioventu’ comunista, una delle due sigle, insieme al sindacato SI Cobas, che hanno promosso il sit-in di oggi a piazza della Repubblica, in sostegno dei lavoratori della logistica e in protesta dopo la morte di Adil Belakhdim. “Tutto questo – aggiunge Lang – non sta succedendo per caso. A due settimane dallo sblocco di migliaia di licenziamenti stanno mandando un messaggio chiaro a chi oserà alzare la testa. Il governo e la Confindustria portano la responsabilità politica del clima instaurato nei luoghi di lavoro. Vogliono una ripresa sulla pelle dei lavoratori e degli strati popolari, ma non li lasceremo agire indisturbati. Dai lavoratori, da questa piazza parta la riscossa, ora serve un grande sciopero generale. L’opposizione a questo governo non è Giorgia Meloni, sono i lavoratori”. “In attesa delle indagini del Pm incaricato che chiariranno come si sono svolti i fatti, il comitato ‘Noi, 9 Ottobre‘ esprime la sua contrarietà che sia stato immediatamente classificato come omicidio stradale l’investimento mortale del sindacalista della SiCobas, Adil Belakhdim, durante il presidio all’esterno del magazzino della Lidl di Biandrate, (NO), affinché venissero rispettate le norme di sicurezza”. Lo si legge in una nota del comitato ‘Noi, 9 Ottobre’.“Secondo le prime testimonianze, Alessio Spaziano, alla guida del camion in uscita dal magazzino, era stato invitato da un pubblico ufficiale a fermarsi, proprio in considerazione della presenza dei manifestati. Nonostante ciò, dopo un diverbio con alcuni dei lavoratori, aveva deciso deliberatamente di forzare il blocco investendone un paio (ricoverati in ospedale, non in gravi condizioni) e il sindacalista che veniva trascinato per oltre una decina di metri. Spaziano – si trova ancora scritto – aveva poi imboccato l’autostrada poco distante e in seguito fermato dai carabinieri in un autogril nei pressi di Novara, a circa una ventina di chilometri dalla Lidl”.”In base a questa ricostruzione sostenuta dalle testimonianze dei presenti, a nostro avviso – fa sapere il comitato "Noi, 9 Ottobre" – si palesa il reato di omicidio doloso e pertanto ci aspettiamo che le indagini non escludano a priori questa ipotesi”. “Chiediamo anche che venga chiarita la posizione contrattuale tra Spaziano e la catena Gdo Lidl, che ha dichiarato non essere un loro dipendente. È questo l’ultimo di una serie di episodi che manifesta una crescente intolleranza nei riguardi dei lavoratori che rivendicano i loro diritti e il rispetto delle norme di sicurezza. Esprimiamo la nostra solidarietà alla famiglia di Adil Belakhdim e ai suoi compagni che hanno assistito sgomenti all’omicidio”, conclude la nota.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Carlo D' Elia per “il Giorno” il 20 giugno 2021. «Nella logistica hai sempre paura di perdere il posto di lavoro: chiediamo più tutele». Youness Faouzi, 39 anni, originario del Marocco, ha una moglie e due figli. Dal 2003 lavora come carrellista nella Ceva di Somaglia (Lodi). Turni lunghi e condizioni che a suo dire sono pesanti da sopportare. Faouzi, delegato Usb nella logistica di Somaglia, nel Basso Lodigiano, ieri ha partecipato alla protesta a Bologna dopo la tragedia di Biandrate (Novara) costata la vita a un sindacalista Si Cobas. Ancora oggi dopo quasi 20 anni di attività continua, guadagna 1.400 euro al mese, con turni spesso lunghi e condizioni complicate. Ma tra i contratti che trovano maggiore applicazione nel settore figura quello con stipendio medio di 700 euro mensili per 5 ore lavorative al giorno, quasi un contratto a chiamata, senza che gli straordinari siano riconosciuti.

Faouzi, com' è la situazione nelle logistiche?

«La situazione nelle logistiche è esplosiva perché le condizioni di lavoro non sono più accettabili. Solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a lottare per i nostri diritti. E qualcosa forse si sta muovendo. Ma la strada è ancora lunga e i diritti da far rispettare ancora molti». 

Quali sono i problemi?

«Noi praticamente non abbiamo la malattia, per cominciare. O meglio non copre al 100%. La malattia viene pagata solo dal terzo giorno e al 65%. Capisce che è inaccettabile».

Le paghe come sono?

«Faccio il mio esempio: come carrellista guadagno 1.400 euro al mese, ma con vent' anni di lavoro sulle spalle. Un altro problema riguarda il livello del contratto. Per lavorare come carrellista è necessario per legge almeno un livello 4 del contratto. 

A oggi però ci sono ancora degli addetti che hanno livello 6 e 5. E non è finita qui. Negli ultimi mesi stiamo lottando per avere un buono pasto idoneo. Chiediamo almeno un buono da 5,29 euro, mentre è di 3 euro». 

E i turni?

«Servono più tutele per far rispettare il lavoro delle persone. Non è possibile gestire il personale in base alle necessità di lavoro. Bisogna far rispettare i contratti». 

Con la lotta degli ultimi anni le condizioni sono migliorate?

«Con la lotta sindacale qualcosa si sta muovendo. Ma abbiamo tanti anni di arretrati, in cui non si è combattuto nella maniera giusta. Ma resta la paura. Perché uno straniero che protesta rischia la denuncia.

E le aziende spesso cercano un pretesto per presentarla. Sono dei ricatti psicologici perché poi quando si va in Questura per rinnovare il permesso di soggiorno una denuncia diventa un problema enorme. Quindi in tanti si sentono ricattati e stanno in silenzio. Le aziende non vogliono la gente che si ribella». 

Qual è il problema principale del settore?

«Appalti e subappalti. Tanti miei colleghi lavorano 12 o 13 ore al giorno. Poi arriva la busta paga e vedono che hanno guadagnato 1.200 o 1.300 euro. È frustante e pesante, ma alla fine si accetta tutto perché si sa che basta poco per essere sostituiti.

C' è sempre qualcuno messo peggio di te». 

Gli scontri degli ultimi giorni saranno utili alla battaglia per i vostri diritti?

«Io mi auguro di sì. Ma serve aprire un dialogo tra padroni, sindacati e Governo. In 20 anni non è cambiato nulla a livello contrattuale. Siamo fermi all' inizio degli anni 2000. Non è possibile accettarlo in un settore che invece è cambiato totalmente». 

Floriana Rullo per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2021. Nove chilometri. Dieci minuti di strada dividono il casello di Biandrate da quello di Novara Ovest. È in questo lasso di tempo che Alessio Spaziano, il camionista 25enne di Baia e Latina, nell' Alto-Casertano, si è reso conto che davanti ai cancelli del centro di distribuzione della Lidl di via Guido il Grande di Biandrate, nel Novarese, era successo qualcosa di estremamente grave. E, in preda al panico, ha chiamato il suo padrino di cresima, un sovrintendente della polizia che vive a Dragoni, in provincia di Caserta, per chiedere aiuto. «È successo un casino» ha urlato agitato al telefono. E gli ha spiegato di essere scappato disobbedendo anche all' alt che gli agenti gli avevano intimato a pochi metri dal corpo senza vita di Adil Belakhdim, sindacalista di 37 anni, investito dal suo tir durante un picchetto. «Non passare altri guai peggiori. Torna indietro» si è sentito dire a quel punto dal conoscente come unica soluzione. Così non ha potuto far altro che accostare con il tir, fermarsi vicino al casello di Novara Ovest, prendere in mano il cellulare e comporre il 112 con l'intenzione di costituirsi. «Sono l'autista di Biandrate. È successo un macello. Vi aspetto qui», ha ripetuto in modo confuso all' operatore. Non c' è stato però bisogno di spiegare altro. I carabinieri sono arrivati subito. Lo hanno arrestato per omicidio stradale, omissione di soccorso e resistenza a pubblico ufficiale e portato in carcere da dove si trova da venerdì sera e dove attende l'interrogatorio di convalida dell'arresto che si terrà domani mattina. Padre di due bambine di due anni e mezzo e un anno, descritto come un gran lavoratore, Spaziano ogni settimana effettuava consegne al Nord per poi tornare a casa nel weekend. Ora la Procura di Novara sta valutando se il giovane fosse consapevole del rischio della manovra compiuta davanti ai cancelli, e quali siano state le motivazioni dell'allontanamento dal luogo dell'incidente, mentre ha già ascoltato i testimoni e verificato l'indisponibilità di immagini della tragedia vista l'assenza di telecamere nella zona. Gli inquirenti stanno anche analizzando il tachimetro del mezzo per capire quanti chilometri avesse percorso prima di arrivare a Biandrate per scaricare quattro bancali di frutta e verdura, ripartire per un'altra consegna e infine tornare a casa. Era però spazientito da quel picchetto che, di fatto, impediva ai tir di uscire. Così il 25enne ha deciso di forzare il presidio. Prima ha avuto un alterco con i manifestanti: si erano fermati davanti al veicolo e non volevano spostarsi. Poi la tragedia. Adil che viene trascinato, per una decina di metri e muore sul colpo. Spaziano che scappa lasciandolo a terra e continua la sua corsa verso l'autostrada. Una tragedia che per i sindacati «non deve cadere nel vuoto». Per questo dalle sei di ieri mattina i lavoratori non si sono allontanati dal loro presidio allestito davanti ai cancelli del centro logistico. Per tutta la giornata, ma sarà così anche oggi, si sono dati il cambio nel gazebo, hanno appeso striscioni e fotografie e avviato una raccolta fondi per aiutare la famiglia del loro fratello sindacalista che, mercoledì dopo l'autopsia, sarà portato in Marocco. «Chi lo conosceva non è andato alla manifestazione di Roma, ha scelto di fermarsi qui - racconta Pape Ndiaye dei Si Cobas -. Quello che è successo non è una fatalità. Adil ha sempre fatto sindacato pensando non solo alla fratellanza, ma ad un mondo migliore dove un lavoratore può avere diritti e dignità».

Investì e uccise il sindacalista, il camionista Alessio torna in libertà: “Non aveva visto Adil, una disgrazia”. Rossella Grasso su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Dopo circa un mese e mezzo sono stati revocati i domiciliari per Alessio Spaziano, il camionista 25enne di Dragoni, in provincia di Caserta che lo scorso giugno ha investito e ucciso il sindacalista del Si Cobas Adil Belakhdim, impegnato in un presidio davanti ai cancelli del magazzino Lidl di Biandrate (Novara). Il tribunale del Riesame di Torino ha accolto la richiesta di scarcerazione del suo legale, l’avvocato Gabriele De Juliis. Nei confronti del giovane camionista, i giudici hanno però disposto la misura cautelare dell’obbligo di dimora in Campania. Era il 18 giugno quando Adil perse la vita mentre stava protestando. Il 25enne ha sempre affermato che si era trattato di un incidente e che non aveva visto il sindacalista durante una manovra con il suo autoarticolato. Ma Alessio dopo aver investito l’uomo che era in strada scappò a bordo del suo camion. Impaurito telefonò al suo padrino di cresima, un sovrintendente della Polizia di Stato, dicendo: “È successo un casino”. Il poliziotto gli disse quindi di tornare indietro per evitare “guai peggiori”. Il giovane si costituì ai carabinieri, fermandosi dopo alcuni chilometri al casello di Novara Ovest dell’autostrada Torino-Milano.

Durante gli interrogatori l’autotrasportatore si è detto più volte dispiaciuto e ha precisato che non aveva intenzione di investire nessuno. L’avvocato De Juliis da subito ha riferito al Corriere che il suo assistito “non si è accorto di aver ucciso il sindacalista. È scappato solo per paura di essere linciato. Ha detto di non essersi nemmeno accorto di avere una persona dietro l’autoarticolato. Con molta probabilità ha fatto una manovra azzardata, ma del tutto inconsapevole. E soprattutto senza volontà di compierla. Poi è fuggito per paura. Sapeva che scegliendo di forzare il posto di blocco avrebbe rischiato di essere picchiato dai manifestanti”. Alessio Spaziano “non è un assassino, è stato un drammatico incidente”. Con queste parole lo ha sempre difeso Denise Angelone, la compagna del camionista. La donna, madre di due figlie (Aurora, 4 anni, e Sole, un anno a settembre), ha sempre parlato di una doppia tragedia. Denise si è trasferita momentaneamente a casa della madre a Baia e Latina, sempre nel Casertano. In paese l’unico argomento di discussione è proprio Alessio, “un giovane volenteroso che si spacca la schiena sul camion per sfamare la famiglia”, dice chi lo conosce a La Stampa. Al quotidiano di Torino Denise sottolinea che “io e i miei genitori non facciamo che pensare a lui (al sindacalista Adil, ndr) e alla sua famiglia. È un’angoscia che non conosce pace”. Per la giovane madre “è come fosse morto un mio parente tanto è il dolore, tanta è la disperazione per quello che è successo”. Quanto al compagno, la donna non ha mai creduto nell’intenzionalità del gesto di Alessio: “Mai avrebbe voluto uccidere quell’uomo. Si è trattato di una disgrazia, di una sciagura che si è abbattuta su due famiglie, la nostra e quella di quel poveretto”. Denise ha difeso il compagno ricordandolo come un “grande lavoratore, ha fatto tanti lavori. Anche lavori umili, perché quello che gli interessava era solo guadagnare onestamente lo stipendio. Una vita di sacrifici per guadagnarsi il pane e mantenere le nostre due bambine”. Spaziano era uscito dal carcere e trasferito ai domiciliari con la decisione del gip al dell’udienza di convalida che si era tenuta nel carcere di Novara. “Nel dare la sua piena disponibilità, ha ricostruito i contorni di una vicenda drammatica, che ha colpito diverse persone: si tratta di una vicenda triste ma è stato un incidente”, aveva spiegato l’avvocato Gabriele De Juliis, legale di Spaziano. Le accuse nei confronti del 26enne della provincia di Caserta, originario di Dragoni ma residente a Baia e Latina, sono omicidio stradale, omissione di soccorso e resistenza a pubblico ufficiale. Quest’ultima accusa si riferisce in particolare al tentato messo in atto da un agente della Digos della Questura di Novara di fermare il camionista, appoggiando il proprio distintivo sul parabrezza del camion e intimando l’alt.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Segue gli episodi di Tavazzano e di Prato. Adil Belakhdim ucciso perché sindacalista: non è stato un incidente, c’è lo squadrismo. Giulio Cavalli su Il Riformista il 19 Giugno 2021. Com’era prevedibile è già cominciata la rincorsa a ridurre tutto a un incidente. La narrazione di un Paese pronto a correre sulla coda dell’epidemia e ad affrontare un nuovo “miracolo economico” è un’occasione di smacchiamento troppo golosa per farti rovinare la festa dalla morte di Adil Belakhdim, italiano di 37 anni che a Biandrate, nel novarese, è stato ucciso da un camion che ha forzato il blocco del sindacato Si Cobas che stava manifestando all’ingresso del deposito territoriale della Lidl in via Guido il Grande. Belakhdim è stato trascinato per una decina di metri e lasciato a terra esanime all’altezza di un attraversamento pedonale mentre altri due dipendenti dell’azienda sono rimasti feriti e curati all’ospedale di Novara. Ex lavoratore alla Tnt di Peschiera Borromeo in questi giorni Adil Belakhdim insieme ai compagni del sindacato stava provando a dare copertura allo scoperto nazionale della logistica. Aveva 2 figli che in questi giorni sono in Marocco e che avrebbe dovuto raggiungere tra poco. Oramai non più. I testimoni sul posto hanno raccontato di un diverbio che ci sarebbe stato tra i manifestanti e il camionista nel momento in cui avrebbe manifestato l’intenzione di forzare il blocco, sono volate accuse, quello ha ingranato la marcia e li ha stesi come birilli. Di certo c’è che il mezzo si è allontanato senza prestare nessun soccorso e solo grazie alle immagini della videosorveglianza le forze dell’ordine l’hanno potuto rintracciare in autostrada: ora si trova in arresto con l’accusa di omicidio stradale e resistenza. Ma il sangue di Biandrate non è un episodio, solo un miope potrebbe pensarlo, dietro il corpo di Adil Belakhdim si sentono nemmeno troppo lontani i rumori dei bastoni sulle ossa a Tavazzano, in provincia di Lodi, anche questa volta di fronte ai magazzini di una logistica, la Zampieri, dove il presidio organizzato per protestare contro i licenziamenti da parte di una ditta che lavora per Fedex sono stati attaccati da un gruppo di operai e di bodyguard dell’azienda a colpi di bastoni, pezzi di bancali e di sassi. Per circa 10 minuti, come mostrano anche le immagini rese pubbliche da Si Cobas, i picchiatori hanno potuto agire indisturbati mentre le forze dell’ordine rimanevano inermi a godersi lo spettacolo. Quella volta non ci era scappato il morto ma Abdelhamid Elazab, lavoratore Si Cobas della FedEx di Piacenza, era rimasto ferito alla testa colpito da un pezzo di bancale, in una pozza di sangue, arrivano all’ospedale San Matteo di Pavia privo di conoscenza. Oltre a lui altre otto persone erano rimaste ferite dagli scontri. L’aspetto inquietante, come denunciato da alcuni testimoni, è che alcune guardie private si sarebbero travestite da lavoratori per confondersi tra la folla. Pochi giorni fa un episodio simile era avvenuto a San Giuliano Milanese. Anche a Lodi la Procura ha aperto un’inchiesta mentre il Prefetto ha convocato un tavolo per chiarire la questione ma la direzione della Zampieri non si è presentata, delegando la ditta che in subappalto gestisce il sito lodigiano e scontentando non poco tutte le autorità presenti. Ancora: qualche giorno fa a Prato alcuni operai della Textprint che sono in agitazione da mesi (come molti altri dipendenti di aziende del settore) si sono presi dei pugni in faccia e dei mattoni in testa dai vertici dell’azienda. Nel video si vede addirittura l’amministratore della Textprint colpire uno degli operai in presidio con un mattone mentre i suoi scherani pestavano gli altri. Tre feriti. No, la morte di ieri di Adil Belakhdim non può essere derubricata a un “incidente”, non si può fare finta di non sentire le assonanze cupe con i periodi nella storia in cui gli sfruttati venivano messi all’indice e aizzati l’uno contro l’altro, non si può fingere di non vedere la tensione e la violenza delle parole che sta sfociando nella violenza degli atti. Se ne deve essere accorto perfino il presidente del Consiglio Mario Draghi se ieri si è sentito in dovere di intervenire a margine della consegna del “Premio alla costruzione europea” a Barcellona dicendosi «molto addolorato per la morte di Adil Belakhdim» e augurandosi «che si faccia subito luce sull’accaduto». Il ministro del Lavoro Andrea Orlando dal canto suo definisce «gravissimo quello che è accaduto» e ricorda che «nel settore della logistica stiamo assistendo ad una escalation intollerabile di episodi di conflittualità sociale che richiedono risposte urgenti». Il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni commenta: «In una settimana il pestaggio a Tavazzano, l’aggressione squadrista alla Texprint di Prato e ora una vittima in Piemonte. Ma è normale che nel 2021 si finisca in ospedale o all’obitorio per difendere i propri diritti sul posto di lavoro?». Per Mauro Rotelli, deputato di Fdi e componente della commissione Trasporti della Camera, «la morte del sindacalista dei Cobas travolto da un tir, questa mattina, durante una manifestazione a Biandrate (Novara) è solo la punta dell’iceberg di quanto accaduto nelle ultime settimane. Una escalation di episodi di tensione che vedono coinvolti lavoratori impegnati in proteste per vedere loro riconosciuto il diritto al lavoro. Ci chiediamo se, come annunciato dal ministro del Lavoro dopo i recenti fatti di Lodi, sia in via di definizione una task force volta a risolvere i fenomeni di conflittualità che stanno interessando il settore della logistica». Ma lo scontro sociale e lo sdoganamento della violenza non si fermeranno con le dichiarazioni e nemmeno con le promesse di un futuro migliore per tutti. Interi settori nel mondo del lavoro italiano sono schiacciati da crisi profonde che hanno sdoganato lo squadrismo per tenere a bada il dissenso da parte delle aziende e con l’appoggio dei crumiri. Basta scriverlo per rendersi conto che il pericolo di cadere in epoche infauste è dietro l’angolo. Non è solo una questione di “lavoro”: è il tessuto sociale che si ritrova ad essere messo a dura prova. E in questo caso le classi dirigenti, tutte, sono chiamate a uno sforzo che richiede lucidità, etica e tempismo. Si sta giocando con il fuoco e il fuoco forse è già qui.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Marco Imarisio per corriere.it il 19 giugno 2021. «Adesso te lo dico io per cosa è morto Adil. È morto perché pensava che non si può vivere così per 850 euro al mese, senza tutele, senza vita privata, perché i turni vengono sempre spostati all’ultimo momento, le ferie non le decidi tu ma il capoarea, se chiedi un permesso per andare a prendere tuo figlio a scuola ti lasciano a casa per una settimana in punizione, e il lavoro dura sempre 13 ore invece che otto, con gli straordinari sempre dimezzati e anche di notte ti arrivano sul telefono i messaggi con l’ordine di essere in magazzino all’alba. È morto perché credeva che fosse giusto stare davanti a quei cancelli».

Il cadavere. A mezzogiorno il corpo di Adil Belakhdim è ancora steso sul selciato, coperto da due teli viola dai quali spunta il piede sinistro. La scarpa ha una fibbia di metallo che brilla nella luce accecante di questo enorme piazzale chiamato Area produttiva di Biandrate, cresciuto negli anni intorno al casello dell’autostrada. Qualcuno finge di ignorare quel luccichio e quella scarpa in posizione innaturale. Ma è un dettaglio che attira lo sguardo, che disturba, sembra un’atroce dimenticanza. «E copritelo per Dio» urla M mentre davanti ai cronisti rende omaggio all’amico e spiega i motivi che lo avevano portato qui alle sei del mattino. Usiamo una maiuscola di fantasia, perché si tratta di uno dei facchini che mesi fa avevano contattato Adil e il Sindacato Intercategoriale dei Cobas, la sigla più a sinistra dei sindacati di base. Nessuno sembra ascoltare il suo grido. Polizia e Carabinieri vagano per quest’area immensa, preoccupati di intercettare una rabbia che invece è già impregnata di rassegnazione. All’inizio non si capisce neppure cosa stia dando fastidio a quest’uomo sudato fradicio che piange e intanto parla, piange e si sforza di dire delle cose. Come se capisse che ora o mai più, a chi vuoi che interessi davvero questa morte assurda, avvenuta in un posto che è persino difficile da descrivere, asfalto e inferriate, asfalto e capannoni, il fondale del nostro benessere quotidiano. Adil Belakhdim era stato uno di loro.

Il sindacato. Con l’obiettivo di pagarsi gli studi, era entrato nella filiera nostrana della logistica, una specie di giungla dove non esiste legalità e tanto meno tutela. Era dipendente di una società cooperativa che lavorava per la TNT di Peschiera Borromeo. Per risparmiare, le aziende si affidano a miriadi di sub appalti, che pescano in un neo-proletariato composto quasi per intero da lavoratori extracomunitari. «Nel 2014 si era fatto eleggere delegato sindacale». A quei tempi, Pape Ndyaie ricopriva lo stesso incarico alla DHL di Settala. Viene dal Senegal, dove studiava matematica e fisica all’università. In Italia avrebbe voluto proseguire gli studi, ma era clandestino. «Lui aveva un contratto di formazione, senza obbligo di reintegro. Lo cacciarono. Ci siamo conosciuti così, aiutandoci tra noi». Adil aveva intanto conosciuto Lucia, una ragazza di Molfetta, che poi si era convertita all’Islam. Erano nati due figli. Dopo il licenziamento, aveva fatto due anni di volontariato sindacale nella zona sud dell’hinterland milanese. «Quello fu il periodo più difficile, perché faceva fatica a mantenere la famiglia» ricorda Mauro Tagliabue, l’avvocato che per lungo tempo ha seguito le sue vertenze. «Era un uomo duro, un compagno fedele alle sue idee e alla sua ideologia. Sognava di unire i lavoratori di ogni nazionalità nelle sue lotte. Credo che gli piacerebbe essere ricordato così». Quando lo SI Cobas decide di aprire un ufficio a Novara proprio per la costante crescita dei poli logistici nella zona, diventa coordinatore d’area, con la supervisione di Pape Ndyaie. Le regole interne del sindacato prevedono una retribuzione pari al salario di un operaio di quinto livello della logistica. Prendeva 1.540 euro al mese, senza indennità. «Gli bastavano. Non lo faceva per soldi, ma per sete di giustizia». Nel febbraio del 2018 organizza un picchetto davanti alla DSV, colosso danese della logistica con quartier generale nell’area industriale di San Piero Mosezzo, appena quattro chilometri di distanza dai cancelli della Lidl. Era in corso una vertenza contro il pagamento in nero. Adil raccontò che i manifestanti furono caricati mentre stavano sciogliendo il presidio, mentre la Polizia accusò Adil di resistenza a pubblico ufficiale. Comunque sia andata, finì al Pronto soccorso, con lesioni alla testa, alle costole e al collo. L’ultima volta che si sono visti è stato giovedì notte, negli uffici milanesi del Cobas, in via Celentano. C’era da organizzare la trasferta di sabato a Roma, per lo sciopero nazionale dei lavoratori della logistica. Racconta Ndaye che ogni tentativo di contatto con Lidl si era trasformato in una porta chiusa. «Non rispondono neanche alle mail, non vogliono fare alcuna trattativa» diceva Adil.

La scelta. Per quello aveva deciso quasi all’ultimo momento di convocare via WhatsApp una ventina di lavoratori. «Non si trattava di un blocco. Volevamo solo essere ricevuti. Nel giro di un’ora sarebbe finito tutto». Finirà presto comunque, anche dopo questa tragedia. I suoi compagni ripetono che non bisogna parlare di guerra tra poveri, facchini contro camionisti, quella è la vulgata dei padroni. «Vivono tutti sotto ricatto» afferma Ndaye. «Da una parte quello di non essere richiamati e restare a casa, dall’altra quello degli orari e della tempistica che prevede anche 50-60 consegne nell’arco di un solo giorno. Ma sono cose che riguardano quasi esclusivamente gli immigrati, a chi vuoi che interessino i loro diritti». Con il passare delle ore, con il caldo, la rabbia si stempera, diventa dibattito, mozione, chiamata dal prefetto, trasferta a Roma. Ormai tutto è accaduto, ormai sono parole vane. Il dipendente della Lidl ha fatto da solo. M ha chiesto permesso agli agenti e si è chinato su Adil, coprendo la scarpa con un panno verde. Alle 15 i necrofori portano via la salma. I suoi compagni hanno avvertito la moglie, che all’inizio dell’ultimo lockdown si era trasferita in Marocco con i figli. L’Area produttiva di Biandrate si svuota, per un solo giorno. Sulla A4 rombano i Tir carichi di merci. 

Floriana Rullo per il "Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. Come è stato investito Adil Belakhdim, il sindacalista di 37 anni travolto e ucciso da un camion venerdì mattina davanti al centro di distribuzione della Lidl di Biandrate, nel Novarese? L'autista alla guida del tir, Alessio Spaziano, 25enne di Baia e Latina (Caserta), ora ai domiciliari con l'accusa di omicidio stradale, è fuggito sapendo di aver travolto un uomo o se ne è accorto solo dopo? Sono soltanto alcuni degli interrogativi a cui gli inquirenti stanno cercando di rispondere. Avranno bisogno dei risultati delle perizie tecniche che verranno affidate nei prossimi giorni dalla Procura di Novara. E anche l'autopsia sul cadavere del sindacalista, in programma questa mattina, potrebbe fornire elementi utili. Nessuna risposta invece arriverà dalle immagini delle videocamere. Quelle presenti non hanno ripreso interamente la scena perché avevano la visuale coperta dai camion in sosta; e gli unici frame che la Procura sta già visionando non sembrano poter essere d' aiuto. Sono le sette del mattino quando a Biandrate, in provincia di Novara, dove da qualche anno si sono insediati i centri di distribuzione delle più grandi marche della Gdo tra cui Lidl, i lavoratori decidono di aderire allo sciopero nazionale della logistica. Adil Belakhdim, 37 anni, coordinatore dei SiCobas, arriva da Vizzolo Predabissi (Milano) per supportare i manifestanti del suo sindacato. Sono circa una trentina e posizionano il picchetto sulla rampa di uscita dello stabilimento. In meno di quindici minuti il centro si congestiona. I camionisti che hanno appena scaricato la merce cercano di uscire ma vengono bloccati. Tra loro anche Alessio Spaziano. Ha appena scaricato quattro bancali di frutta e si accoda ad altri tir in attesa di uscire. Alessio aspetta cinque minuti. Poi, secondo la ricostruzione degli inquirenti, perde la pazienza. «Dovevo fare un'altra consegna e raggiungere casa» spiegherà al Gip. Decide di forzare il blocco usando la corsia d' entrata. Contromano. I manifestanti cercano di impedirglielo. Ne nasce un alterco. Ma qui le versioni divergono. «Prima mi hanno aperto la portiera, volevano trascinarmi giù dall' abitacolo. Mi hanno aggredito. Ho avuto paura di essere linciato» ha raccontato il camionista. «Lite? Ma quale lite - replica Eugenio Losco, l'avvocato che assiste la moglie di Adil -. Le ricostruzioni che circolano per screditare Adil e i lavoratori sono fantasiose e non possono essere accettate». Spaziano accelera più volte. E riesce a partire. Ma porta con sé Adil Belakhdim, trascinandolo per una decina di metri e lasciandolo senza vita poco distante dall' attraversamento pedonale. «Non l'ho visto. Non mi sono accorto che era dietro al camion» spiega Spaziano. Diversa la ricostruzione dei testimoni che hanno raccontato di aver «urlato e battuto più volte sulla cabina del tir nel tentativo di farlo fermare». Solo la perizia sul mezzo potrà chiarire dove si trovasse la vittima e se quindi potesse essere vista dal camionista. Non è poi chiaro se il corpo di Adil, che presenta numerosi segni di schiacciamento, abbia sbattuto sulla parte anteriore o posteriore del tir. Una risposta importante che potrebbe definire se si sia trattato di «un incidente, non c'era volontà di uccidere» come afferma il legale di Speziano, Gabriele De Juliis, oppure di «omicidio volontario» come sostiene l'avvocato della famiglia della vittima. Spaziano decide di non fermarsi nemmeno all' alt della polizia. «Per paura» racconta lui. Guida per nove chilometri, dieci minuti di strada, finché non decide di chiamare l'amico e padrino di cresima Michele, un poliziotto di Caserta, per raccontargli «del casino» accaduto poco prima. Qualcuno lo ha avvisato, magari con un messaggio o una chiamata? O ha sentito della tragedia in radio? Oppure, semplicemente, si è pentito di ciò che sapeva aver fatto? «Non passare altri guai peggiori. Torna indietro» gli dice l'amico che gli suggerisce di costituirsi. Così accosta il tir vicino al casello di Novara Ovest e telefona al 112. «Sono l'autista di Biandrate. È successo un macello. Vi aspetto qui», dice ai carabinieri.

In Italia più di una persona al giorno muore sul lavoro. E buon Primo Maggio. Luca Sebastiani su L'Espresso il 30 aprile 2021. La strage silenziosa non accenna a fermarsi. In questi primi quattro mesi 2021 le vittime sono state 120. «Rispetto allo scorso anno c’è stato un aumento del 170 per cento. Un trend in crescita, che esula dalla pandemia»

L’ultimo giorno funesto è stato il 29 aprile. Nel nuovo deposito di smistamento di Amazon ad Alessandria una trave ha ceduto, le campate sono venute giù. E sei persone che ci stavano lavorando sono precipitate a terra. Un volo di sei metri che non ha lasciato scampo a Flamur, operaio di 50 anni, e ne ha feriti altri cinque di cui uno in condizioni critiche. Nelle stesse ore ci sono state altre due vittime: Natalino, gruista di 49 anni, è morto nel porto di Taranto dove stava lavorando in operazioni di carico su una nave di pale eoliche. Non si sanno ancora con certezza le cause, ma è precipitato sulla banchina morendo sul colpo. E poi ancora, il 23enne Mattia, operaio edile a Montebelluna in provincia di Treviso, è stato travolto da una pesante impalcatura che non gli ha lasciato scampo. Ma la lista è lunga, fatta di storie magari diverse, ma accomunate dallo stesso triste epilogo. Molti sono operai travolti dalle macchine che stavano utilizzando, come Antonio di 58 anni che stava lavorando in un cantiere stradale a Potenza quando è stato schiacciato dall’escavatore che manovrava, o agricoltori uccisi dai loro stessi mezzi che si ribaltano, come nel caso di Vittorio di 63 anni in provincia di Ragusa, o da cadute dall’alto come quella di Giovanni, operaio di 51 anni impegnato a compiere dei lavori sul tetto del carcere di Secondigliano a Napoli e precipitato da un’altezza di cinque metri, o quella di Giorgia, una giovane madre di 27 anni caduta dalla scala da dove stava facendo delle pulizie e morta dopo aver sbattuto la testa. Dal 1° gennaio al 1° maggio in Italia è morta sul lavoro più di una persona al giorno. Una strage spesso silenziosa che nel 2021, fino a oggi, per l’Anmil, Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro, ha visto scomparire 120 persone mentre svolgevano il proprio lavoro o nel tragitto per andarci. L’associazione raccoglie i tragici episodi che ogni giorno coinvolgono lavoratori da nord a sud della Penisola, per cercare di restituire dignità di memoria alle vittime di questa piaga. Ma la situazione, se possibile, è anche peggiore, visto quanto emerge dalle parole di Franco Bettoni, presidente dell’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (Inail), a cui sono arrivate nei primi tre mesi del 2021 ben 185 denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale, che precisa «sono 19 in più rispetto a quelle registrate nel primo trimestre 2020. Ma sono dati ancora provvisori e per quantificare il fenomeno è necessario attendere il consolidamento dei dati dell’intero 2021». Da inizio pandemia, l’Inail conteggia anche le denunce dei casi di chi è morto dopo aver contratto il virus a lavoro, che da marzo 2020 a marzo 2021 sono state 551, di cui l’82,8% uomini. Se i dati dell’Inail sono inevitabilmente influenzati dal conteggio delle infezioni del virus, quelli che ci vengono forniti da Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil, sindacato di riferimento per il settore dell’edilizia, sono indicativi per notare la tendenza in crescita: «nel periodo tra gennaio e febbraio del 2020 e lo stesso lasso di tempo del 2021 c’è stato un aumento delle morti sul lavoro del 170%. Un trend in crescita, che esula dalla pandemia visto che il periodo di riferimento sono i primi mesi dello scorso anno, con l’Italia ancora “aperta”». La stragrande maggioranza è composta da individui di sesso maschile, il 43% è tra i 40 e i 60 anni e la percentuale relativa agli over 60 è la stessa. Una media molto alta, dettata dal fatto che nell’ultimo decennio non c’è stato un vero ricambio generazionale tra i lavoratori del settore, anche a causa della crisi economica. Proprio il mondo dell’edilizia «è il più colpito da questo fenomeno, insieme a quello dell’agricoltura. Le principali cause di morte sono le cadute dall’alto, lo schiacciamento o il crollo di muri, il ribaltamento di mezzi e la fulminazione», sostiene Genovesi. Il problema principale è il lavoro nero, molto presente in Italia, in prevalenza nelle piccole e medie imprese che, per risparmiare e tagliare sui costi, non garantiscono neanche le minime condizioni di sicurezza fisica alle persone. Dati, numeri, statistiche che troppo spesso risultano fredde e vuote ma dietro le quali sono presenti tante storie, speranze e desideri di uomini e donne le cui vite sono state spezzate precocemente. Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza in provincia di Firenze, si è impegnato personalmente nel riunire le notizie di queste morti che «tanti, troppi continuano a chiamare “bianche”, un insulto ai familiari e alle vittime. Le chiamano così per alludere all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’accaduto, invece la mano c’è sempre, a volte più di una». Bazzoni nel 2011 e nel 2014 aveva fatto aprire due procedure di infrazione dalla Commissione europea ai danni dell’Italia, proprio per le inadempienze in materia di sicurezza sul lavoro, e da anni lotta affinché «il tema venga trattato come quello che è: un bollettino di guerra, una vera e propria emergenza di cui è importante parlare». E nel prossimo periodo la situazione potrebbe peggiorare. Secondo Genovesi, con il Piano Nazionale della Ripresa e Resilienza, per esempio, «ci potrà essere una crescita del 5-6-7% nel settore edile, ma se non si attuano alcune riforme ci sarà un aumento uguale nel numero di morti e degli incidenti». La Fillea Cgil propone a gran voce, e da tempo, di puntare sul “Durc di congruità”, che già in passato è stato utilizzato con successo in particolari occasioni di ricostruzione, e che permette di legare il costo complessivo di un’opera all’incidenza del costo della manodopera che ci lavora, in modo da dare garanzie in più, in primis ai lavoratori. L’altra mozione sindacale è il sistema di una “patente a punti”, sulla falsariga di quella automobilistica, che punisce e premia negli anni le aziende non colpevoli o colpevoli di incidenti per i loro dipendenti. Sempre per Genovesi, bisognerebbe poi istituire l’aggravante dell’omicidio sul lavoro, come fatto per quello stradale: «Per me investire sotto effetto di alcol o droga una persona è tanto disdicevole e grave quanto sapere che un operaio sta a nero, non gli è stato dato un caschetto ed è stato mandato a lavorare sul tetto al quinto piano di un palazzo». L’Inail in questi mesi ha stanziato circa 14 milioni di euro per il finanziamento di interventi formativi rivolti ai Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza, ai Responsabili dei Servizi di Prevenzione e protezione e ai lavoratori. Perché ciò che manca è un’adeguata prevenzione, sacrificata spesso sull’altare di guadagni più veloci e facili. Per Bettoni «va rafforzata attraverso una più intensa attività di informazione, formazione, ricerca e interventi di sostegno alle imprese» e va incentivata la consapevolezza dei rischi, affinché non vengano sottovalutati. Uno sforzo comune, che necessita «la volontà e la collaborazione di tutti i soggetti che, ciascuno per il proprio ruolo, hanno la responsabilità della tutela della salute dei lavoratori». E fino a che questo impegno non sarà una priorità per tutti, la strage continuerà indisturbata.

Marco Gasperetti per corriere.it il 4 maggio 2021. Non aveva ancora compiuto 23 anni Luana D’Orazio, amava la vita, aveva sogni straordinari, il sorriso sempre sulle labbra e non si stancava mai di lavorare. E da poco era diventata mamma di un bellissimo bambino. «Il mio amore, il mio futuro, il mio specchio», diceva alle amiche. Luana è morta poco prima delle 10 inghiottita da una macchina tessile. Una fine orribile, davanti ai colleghi di lavoro, un’ennesima martire del lavoro due giorni dopo la Festa dei Lavoratori e il grande concerto del Primo Maggio.

L’azienda. È accaduto a Montemurlo, provincia di Prato, in un’azienda tessile. Luana, come ogni mattina, stava lavorando a un orditoio, una macchina che ordina i fili, tesse e cuce. I compagni di lavoro dicono di aver visto la ragazza risucchiata dal rullo della macchina dove era rimasta impigliata. Non hanno avuto il tempo di far niente e quando il macchinario è stato fermato Luana era già stata straziata. È arrivata l’ambulanza, sono arrivati tecnici, imprenditori, amici e parenti. Tutti hanno cercato di strapparla dalla morte, tutti hanno pregato. Non c’è stato niente da fare.

Lo shock. Sotto choc il sindaco di Montemurlo, Simone Calamai: «È una tragedia che colpisce tutta la comunità e mi stringo in segno di cordoglio, anche a nome di tutta l’amministrazione comunale, alla famiglia della giovane. Aveva avuto un figlio da poco, era felice. Siamo vicini al piccolo e a tutta la famiglia». Sgomento il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri. «A 22 anni si ha una vita davanti, a 50 si ha una famiglia alle spalle, in tutte le età si hanno progetti e sogni da realizzare — dice —. Morire ancora sul lavoro non è accettabile. Quasi ogni giorno, una lavoratrice, un lavoratore si reca al lavoro e non fa più ritorno a casa. Certo poi ci sono le verifiche, le inchieste, le multe, i risarcimenti, ma la vita non si può risarcire o monetizzare. Dobbiamo riportare centrale il tema della sicurezza sul lavoro nelle aziende». Addolorati il presidente della Regione, Eugenio Giani, e una schiera di politici, amministratori, sindacalisti. Ma intanto in Toscana si continua a morire di lavoro.

Le indagini. Operaia morta sul lavoro, due indagati per il decesso di Luana: nel mirino i dispositivi di sicurezza. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Due persone sono state iscritte nel registro degli indagati dalla procura di Prato per la morte di Luana D’Orazio, 22enne morta mentre lavorava in un’azienda tessile a Montemurlo (Prato) lunedì mattina. Le iscrizioni al momento sono ritenute dalla procura “un atto dovuto” e sono legate in particolare agli accertamenti tecnici in corso per valutare il funzionamento dei dispositivi di sicurezza del macchinario, un orditoio, in cui è rimasta incastrata e stritolata la 22enne pistoiese, mamma di un bambino di 5 anni. Il procuratore capo di Prato Giuseppe Nicolosi, riguardo l’inchiesta sulla morte della 22enne, ha precisato di essere al lavoro “per capire se e cosa non abbia funzionato nel macchinario, compresa la fotocellula di sicurezza. Abbiamo ricevuto i rilievi e nelle prossime ore nomineremo dei periti per gli accertamenti tecnici sui documenti raccolti dalla polizia giudiziaria”. Resta infatti da capire se esistessero nell’azienda, con 18 dipendenti, dei meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare il macchinario, ma anche quali sono i piani di sicurezza previsti dall’azienda e le circostanze sulle presenze dei colleghi al momento dell’incidente. I due orditoi, quello che ha generato l’incidente mortale ed uno identico, poco distante, che sarà utilizzato per compiere dei confronti tecnici, sono stati sequestrati. Nei prossimi giorni dovrebbe essere effettuata l’autopsia sul corpo della giovane, “per cui abbiamo già dato mandato”, ha aggiunto Nicolosi. L’incidente era avvenuto in mattinata poco dopo le 11.30. Luana stava lavorando a un orditoio quando era rimasta agganciata nel rullo e poi inghiottita dal macchinario. Nello stabilimento, a un’altra macchina, stava lavorando un altro operaio che però era girato di spalle e non ha visto il momento dell’incidente. È stato lui il primo a dare l’allarme ma era già troppo tardi, Luana era già stata straziata tra i rulli.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Jacopo Storni per corriere.it il 4 maggio 2021. Sua madre la ricorda nel film di Leonardo Pieraccioni dal titolo Se son rose. C’è una foto che la ritrae sorridente insieme al regista fiorentino. «Era il 2018, mia figlia era felicissima di far parte del cast, il cinema era il suo sogno, le sarebbe piaciuto diventare famosa, ma non certo in questo modo». Luana D’Orazio è diventata tragicamente nota per l’incidente sul lavoro che, a soli 22 anni, le ha spezzato la vita. È successo lunedì mattina, nella fabbrica in cui lavorava a Montemurlo in provincia di Prato, è rimasta impigliata in un orditoio, un rullo tessile che l’ha risucchiata. È morta sul colpo, per ragioni che sono ancora al vaglio degli inquirenti. La Procura di Prato ha aperto un fascicolo.

Le verifiche dei pm. «Siamo al lavoro per capire se e cosa non abbia funzionato nel macchinario, compresa la fotocellula di sicurezza. Abbiamo ricevuto i rilievi e nelle prossime ore nomineremo dei periti per gli accertamenti tecnici sui documenti raccolti dalla polizia giudiziaria». Così il procuratore capo di Prato Giuseppe Nicolosi riguardo all’inchiesta sulla morte di Luana. «Speriamo di poter eseguire presto anche l’autopsia sul corpo della giovane - ha aggiunto Nicolosi - per cui abbiamo già dato mandato».

Le parole della mamma. La casa di Luana, nella zona di Agliana in provincia di Pistoia, martedì mattina è piena di amici e parenti. La madre Emma Marrazzo è sconvolta. Esce dall’abitazione in lacrime, un fazzoletto in mano: «Mia figlia era bella, buona, era contenta del lavoro che svolgeva, anche se a volte tutti i lavori possono pesare, però le piaceva lavorare, voleva costruirsi un futuro». Luana lascia un bambino di 5 anni, avuto con un compagno con cui non vive più. Adesso saranno i nonni a prendersi cura del piccolo: «Amava il suo bimbo splendido. Ancora non è stato informato della morte della sua mamma. Per ora ha visto il brutto choc di quei poverini che hanno avuto l’obbligo di venirmi a dire che mia figlia non c’era più, ovvero i carabinieri di Pistoia, non sapevano nemmeno loro come fare a dirmelo. A nostro nipote diremo che sua mamma è andata a completare il giardino delle belle stelle brillanti».

Il fidanzato: «Due anni bellissimi». Nella casa in provincia di Pistoia anche il fidanzato della ragazza: «Avrebbe dato il mondo per me, ci frequentavamo da due anni, sono stati due anni bellissimi nonostante questo periodo di quarantene, siamo stati sempre insieme. Quanto al suo lavoro, mi parlava del posto di lavoro, era contenta, ma c’erano tante cose che non le andavano bene, ma siamo giovani, però era contenta perché riusciva a dare un contributo in casa».

Il dramma sul posto di lavoro. L’orditura Luana, l’azienda in cui ha perso la vita, il giorno dopo l’incidente è vuota. Macchine ferme, operai a casa. In azienda soltanto alcuni dipendenti, che intorno alle 10.30 hanno aperto il cancello ai tecnici del dipartimento di prevenzione della Asl. Il vescovo di Pistoia, Monsignor Franco Tardelli, ha commentato duramente: «Nel 2021 non si può morire così sul posto di lavoro. È un dramma che ci deve inquietare. Non voglio fare processi a nessuno ma qualcuno dovrà prendersi la responsabilità di questa tragedia».

Il ricordo di Pieraccioni. E sulla vicenda è intervenuto anche Pieraccioni, che ha ricordato Luana al Corriere della Sera: «L’ho avuta come comparsa in un mio film, Se son rose, nella scena di una festa. Il ricordo di quella scena di una festa spensierata di ventenni aggiunge ancora più dolore. Perché la vita a vent’anni dovrebbe essere e continuare così, come una festa. È una notizia terribile, vista la sua età e la modalità dell’incidente. Lascia un bambino di cinque anni, non ci sono parole. Per quanto possa servire, mando un abbraccio fortissimo alla sua famiglia».

Il caso. Luana D’Orazio non ha finito il suo turno di lavoro, succede…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Maggio 2021. I telai erano navi meravigliose, da ferme solcavano oceani infiniti, ancorate in stanze profumate in cui le donne svelavano segreti inauditi. Un regno delle favole in cui l’odore della fatica era attenuato dai racconti delle fiabe che rilasciavano nell’aria parole più veloci delle spolette che volavano da una sponda all’altra per unire la trama all’ordito e disegnare tele meravigliose: tappeti, coperte, lenzuola. Un mondo colorato, vivo solo nelle memorie più longeve. Luana non lo ha mai conosciuto quel mondo, il suo orditoio era una macchina che i fili li divorava insaziabile, immersa in un clangore infernale: una dittatrice dalle regole ferree, che non ammette errori, distrazioni. Lei lavorava da un anno nell’azienda tessile, D’Orazio Luana, in provincia di Prato, a Oste di Montemurlo. È finita nell’ingranaggio dell’orditoio, la macchina che permette di preparare la struttura verticale della tela che costituisce la trama del tessuto. Aveva 22 anni, da 5 anni era madre di un bambino, e da 5 anni non lo aveva più un mondo delle favole, il suo mondo era diventato quello del lavoro, da un anno il suo mondo era la fabbrica tessile, senza che ci ascoltasse dentro racconti fiabeschi. Il rumore non ce la faceva a nascondere l’odore della fatica. Dicono che sarebbe rimasta impigliata nel rullo del macchinario a cui stava lavorando, che sia stata trascinata dentro, inghiottita quasi. E quasi, nessuno se ne è accorto, se non quando era troppo tardi, se non quando tutto era finito, la sua vita irrimediabilmente persa. Accade, accade spesso agli operai di non finirlo il turno di lavoro, di restarci nel posto di lavoro, e comunque accada è sempre terribile, e comunque accada non è mai per caso, non è mai il fato. Quasi sempre è la mancata cura di una vita affaticata, il mancato rispetto delle norme di sicurezza, il ritmo disumano della produzione. Le distrazioni di una società miope che insegue da un lato i diritti civili e non vede l’assenza dei diritti sociali: gli operai volano giù dai tetti, e non le hanno le ali; si lasciano sotterrare dai crolli senza avere spalle a petto per sorreggere i tetti. Si lasciano mangiare dalle macchine senza curarsi degli orfani che lasciano, senza pensare che abbandonano figli a cui nessuno racconterà fiabe. Luana era diventata grande in fretta, a 17 anni era già una madre bambina. A 20 era un’operaia bambina, troppo piccola per affrontare una macchina che le sarebbe diventata spietata alla più lieve distrazione. Lei era di un filato speciale, delicato, come sono di seta tutti gli operai. Tessuti di cui si ha sempre meno cura.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Luana D'Orazio risucchiata dall'orditoio. Il sospetto: niente saracinesca di protezione, due indagati. Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Sulla tragica morte di Luana D'Orazio , la giovane operaia risucchiata dal rullo di una macchina tessile nella fabbrica di Oste di Montemurlo, in provincia di Prato, stanno cercando di fare chiarezza i carabinieri e gli ispettori del Dipartimento di prevenzione della Asl che sono rimasti chiusi all'interno del capannone dove si è consumato l'incidente per effettuare i rilievi. Una prima relazione è già stata depositata sui tavoli della Procura che ha aperto un'inchiesta, rivela La Stampa. Cosa non ha funzionato? C'erano i dispositivi di sicurezza? Su questo bisognerà attendere i risultati dei rilievi. Intanto sono due gli indagati: Luana Coppini, titolare dell'azienda tessile, e Mario Cusimano, addetto alla manutenzione del macchinario. Nei loro confronti si ipotizza l'omicidio colposo: avrebbero "rimosso dall'orditoio la saracinesca protettiva, un meccanismo destinato a prevenire infortuni sul lavoro", si legge nell'avviso di accertamento tecnico della procura. La dinamica dell'incidente deve essere ancora ricostruita e per fare chiarezza sono stati sentiti tutti i colleghi che erano di turno e che hanno assistito impotenti a questa scena straziante, al corpo esile di Luana intrappolato negli ingranaggi. Gli inquirenti si concentrato sulla saracinesca, una specie di barriera che dovrebbe separare in modo netto il lavoratore dalla macchina. "Siamo al lavoro per capire se e che cosa non abbia funzionato - spiega il procuratore capo di Prato, Giuseppe Nicolosi - compresa la fotocellula di sicurezza". Non solo. Gli investigatori, coordinati dal pm Vincenzo Nitti, hanno anche sequestrato un macchinario identico a quello in cui si è verificato l'incidente per vedere se dalla comparazione emergono elementi utili ad accertare che cosa sia accaduto. Altri elementi potrebbero emergere dall'autopsia. Luana Coppini, la titolare, quando ha saputo della tragedia ha avuto un malore. "Proprio nei giorni scorsi - ha raccontato Emma Marrazzo, la madre della ragazza - in ditta avevano assunto un altro ragazzo perché dare una mano a mia figlia. Ho sentito la titolare, poverina, ed era distrutta, non si capacita di come sia potuto accadere". La donna ora chiede giustizia: "A Luana piaceva lavorare. Ma non si può morire di lavoro né a venti, né a trenta, né a settanta. Sono tutte vite umane. Ora chiedo giustizia".  

Gra.Lon. per "la Stampa" il 6 maggio 2021. Si aggrava la posizione dei due indagati per la morte di Luana D'Orazio, la mamma di 22 anni di Pistoia, rimasta uccisa lunedì mattina mentre era al lavoro nell' azienda tessile per la quale lavorava a Montemurlo, nel pratese. Oltre all' omicidio colposo, la Procura di Prato, guidata da Giuseppe Nicolosi, contesta infatti anche l'ipotesi di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Le indagini si concentrano su una fotocellula e in particolare su una griglia di protezione del macchinario che ha causato la morte di Luana. Gli accusati sono Luana Coppini, titolare della Orditura Luana, e l'addetto alla manutenzione del macchinario Mario Cusimano. Le indagini devono, in sostanza, far luce sul sospetto che Luana D' Orazio sia stata schiacciata dall' orditoio perché, in precedenza, sarebbe stata rimossa una griglia di protezione destinata proprio a prevenire incidenti. I carabinieri di Prato e il dipartimento di prevenzione e sicurezza sul lavoro dell'Asl Toscana Centro stanno continuando a lavorare senza sosta. Durante il primo sopralluogo, gli investigatori hanno notato che la griglia di sicurezza che doveva proteggere il lavoratore era stata rimossa. E poi c' è la questione della fotocellula di sicurezza del macchinario, che sarebbe dovuta entrare in azione nel momento dell'aggancio di Luana, bloccando il movimento dei rulli che invece l'hanno stritolata in pochi secondi. Nella fabbrica sono stati sequestrati due orditoi: quello dell'incidente e un secondo modello identico per fare confronti tecnici. Ma ieri i sedici operai sono tornati al lavoro, perché la fabbrica non è sotto sequestro. Mentre Laura Coppini, sostenuta dall' avvocato Barbara Mercuri, difende la sua posizione e annuncia aiuti al bimbo di Luana: «Anche io, mio figlio e mio marito lavoriamo con questi macchinari: è morta una compagna di lavoro. Intendo esprimere il mio dolore attraverso l'impegno per la famiglia di Luana e il suo piccolo. Impegno che voglio tradurre in atti concreti da subito in ogni contesto e sede». E conclude: «Non mi sottrarrò ai miei doveri né al confronto nelle sedi appropriate anche per capire come possa essere avvenuto questo dramma». Intanto, i genitori di Luana, assistiti dall' avvocato Daniela Fontaneto e il consulente legale Andrea Rubini, restano in attesa di giustizia. Sabato verrà effettuata l'autopsia, mentre i funerali sono previsti per lunedì pomeriggio. E il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi proclama già il lutto cittadino.

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 6 maggio 2021.

Da quanto tempo stavate insieme?

«Un anno e mezzo. Ci eravamo conosciuti tramite due nostri amici, Simone e Giulia, quelli che ha visto arrivare con me: i miei non vogliono che guidi la macchina in questi giorni... C'è stata subito un po' di attrazione. Il 31 agosto l'ho invitata al Jova Beach Party di Viareggio, e tra noi c'era già più di qualcosa».

Avevate una data per l'anniversario?

«Sì, il 29 settembre 2019. Eravamo a ballare a Montecatini e io d' un tratto le chiesi: "Ma io e te che siamo?". E lei tirò su le spalle: boh. Allora insistetti: "Insomma, sì o no?". E lei disse sì». Alberto Orlandi ha 27 anni, barbetta bionda e occhi azzurri che si bagnano spesso e che asciuga con un fazzoletto di stoffa. Lavora in un materassificio a Quarrata, nel Pistoiese, dove è caporeparto. È il fidanzato di Luana D' Orazio, la mamma 22enne inghiottita da un orditoio a Montemurlo per mille euro al mese. Ha la fragile dolcezza di chi si sta misurando per la prima volta con un finale senza ritorno. Luana aveva dormito da lui, a casa dei genitori, la notte prima dell'incidente. «Io, invece, venivo a stare dai suoi il mercoledì e dormivamo qui, Luana da questa parte, io al centro e Alessio lì, vicino a me. Gli avevo comprato io il letto, perché ormai stava diventando grande: siamo nati lo stesso giorno, il 31 dicembre».

Sul cellulare sfoglia immagini e ricordi: il weekend all' isola di Capraia, con le foto sott' acqua e una stella marina tra le mani; il San Valentino a Verona, un soffio prima del lockdown, sotto il balcone di Giulietta e Romeo; il video del compleanno di lei, quando le aveva regalato un iPhone 11 e aveva dovuto scartare una serie di pacchi a matrioska con le forbicine che si portava sempre dietro. Piange, si ricompone, il suo dolore non tracima mai, contenuto nel recinto del pudore.

Cosa ricorda di lunedì?

«La sveglia ha suonato alle 5 e lei l'ha spenta subito, per non svegliarmi. È andata in bagno, poi a fare colazione, ed è ritornata per darmi un bacino. "Mandami un messaggio quando arrivi". Mi è arrivato alle 5.50. Le ho risposto: "Perfetto amore"».

Dell'incidente chi l'ha avvisata?

«I carabinieri. Emma, la madre di Luana, mi aveva scritto che doveva dirmi qualcosa di importante, di richiamarla. Quando ho telefonato piangeva, ho capito subito».

È andato anche lei in fabbrica, dopo?

«Sì, con Francesco, il babbo, per riprendere gli effetti personali. Mi hanno chiesto se volevo entrare per vedere dove era avvenuto l'incidente, ma c' era ancora il sangue, non me la sono sentita...».

Quali progetti avevate?

«A marzo del prossimo anno mi sarebbero scadute le rate della finanziaria per l'auto. Quello sarebbe stato il momento buono per prendere in affitto una casa e cominciare a convivere sul serio».

Lo avevate già sperimentato?

«Beh, un po' la scorsa estate, quando i suoi erano andati al mare e noi eravamo rimasti soli per un mese. È stato bellissimo».

La preoccupava che avesse già un figlio?

«Deve preoccupare la morte, non la vita. Forse all'inizio ero un po' in ansia all' idea di dirlo ai miei genitori, ma dopo che l'hanno conosciuta si sono innamorati. A lei bastava poco per essere felice. Era una di famiglia, ormai: in casa aiutava mia madre nelle faccende come le mie sorelle».

Litigavate?

«Ma sì, bischerate. Mi dava noia quando veniva a controllare il mio cellulare. Non c' erano mica segreti, ma non mi piaceva».

Le cose belle?

«Tantissime, piccole, semplici. Guardare in tv Amici e sentirla cantare la canzone Lady di Sangiovanni, farle il solletico ai fianchi e vederla ridere come una bambina, guardare come le si illuminavano gli occhi per un regalo, i fiori a San Valentino anche se mi ero scordato, la collanina con i due cuori per l'anniversario, i nostri abbracci, i baci. L'altro ieri ho cercato il suo odore nel pigiama».

L'ha sognata queste notti?

«L'ho proprio vista, seduta sul divano. E sento ancora la sua voce, stamattina mi ha svegliato lei».

Se potesse tornare indietro?

«Se lo avessi saputo, lunedì mattina me la sarei tenuta stretta stretta a letto, non l'avrei lasciata andare».

Grazia Longo per “La Stampa” il 5 maggio 2021. Occhi da cerbiatto, capelli lunghi da fata, fisico perfetto, Luana era bella come un'attrice - aspirazione lontanamente realizzata, come comparsa - ma per guadagnarsi da vivere faceva l'operaia in un'azienda tessile dove ha perso la vita come in una precaria filanda ottocentesca. Non aveva neppure 23 anni e le sue foto su Instagram e Facebook raccontano la vita di una bella ragazza, in posa per un selfie, con le amiche o con il fidanzato. Ma Luana era molto più matura e, dietro quel sorriso aperto e solare, celava una tempra d'acciaio. Rafforzata attraverso le esperienze del mestiere più difficile al mondo, quello di mamma. Luana lo era diventata ad appena 17 anni e con una tenacia sorprendente per una ragazzina di quell'età aveva allevato il suo piccolo Alessio grazie all'aiuto di genitori straordinari, Emma e Francesco. Il papà ieri era troppo sconvolto per dire anche solo una parola, mentre Emma, 53 anni proprio il giorno in cui è morta la figlia, accoglie con gentilezza i cronisti per descrivere quanto fosse meravigliosa la sua Luana. «Il cinema era il suo sogno - rammenta - anche se stava molto con i piedi per terra. "Mamma sarebbe bello se diventassi famosa" mi diceva a volte, ma sempre con ironia. E certo mai avrebbe immaginato di diventare famosa morendo sul posto di lavoro». Luana innamorata della danza, della musica, del cinema. Sempre pronta ad andare a ballare al River Pub di Quarrata, vicino Pistoia o a guardare l'emozionante La casa di carta. Luana orgogliosa di fare la comparsa nel film Se son rose di Pieraccioni e in alcuni video per YouTube. Ma anche pronta al sacrificio di alzarsi tutte le mattine alle cinque, salire sulla sua utilitaria e guidare fino a Prato per compiere il suo dovere in fabbrica. Precisa, puntuale, generosa. «Il lavoro le piaceva, ci andava volentieri - ricorda sua madre -. Aveva dovuto interrompere l'istituto professionale Einaudi perché aspettava il bambino. Poi ha iniziato a lavorare come cameriera da Arnold's, un fast-food stile Anni Cinquanta dove serviva ai tavoli sui pattini a rotelle. Da due anni lavorava all'azienda tessile.  Le avevano fatto un contratto di apprendistato di cinque anni». Ma nelle sue mille vite della sua giovane esistenza, Luana è stata anche una dolcissima mamma. Una mamma-bambina, che guardava i cartoni animati con il suo cucciolo, che lo portava in bicicletta e lo faceva giocare a pallone e con le bolle di sapone di cui restano ancora tracce nel piccolo giardinetto della villetta a schiera dove abitava con i genitori e il fratello trentenne, disabile, Luca. Una mamma-bambina anche nell'organizzazione domestica. Luana dormiva nel lettone insieme alla madre, accanto c'era il lettino di Alessio. Quante battaglie per questo bimbo. A partire dal nome. Il padre, conosciuto durante una vacanza in Calabria, regione di origine di Emma, era presente al momento del parto a Pistoia e lo ha denunciato all'anagrafe come Donatello. Che è il nome di suo padre, noto per i legami con la 'ndrangheta. Poi se n'è tornato in Calabria senza mai occuparsi del figlio, senza mai versargli gli alimenti. Tanto che il tribunale ha deciso per l'affido esclusivo a Luana, considerando che anche il padre del bimbo ha qualche guaio con la giustizia. Luana era una ragazzina ingenua quando lo ha conosciuto, ma ne ha prese le distanze non appena è nato il bambino. Che lei ha voluto battezzare come Alessio. «Per tutti, anche a scuola, si chiama Alessio - conferma nonna Emma -. Mia figlia aveva deciso così e ora combatteremo per averlo con noi. Luana era a tutti gli effetti una ragazza-madre e Alessio è cresciuto grazie a noi. Ero io che me occupavo quando lei era a lavorare. Lo accompagnavo alla scuola materna e poi aspettavamo che Luana rientrasse a casa alle 14». L'orario è un dettaglio non da poco in questo ricordo, perché quando lunedì alle 13.40 Emma Marrazzo si è trovata davanti i carabinieri, che bussavano alla sua porta per darle la notizia che un genitore non vorrebbe mai sentire, lei non aveva capito cos' era successo. «È accaduto tutto in una manciata di secondi: li ho visti e ho pensato a un incidente stradale, perché ho pensato che Luana sarebbe dovuta rincasare a momenti. Quando mi hanno riferito dell'infortunio sul lavoro al mattino mi sono sentita mancare». Lo ripete anche il fidanzato, Alberto Orlandi, 27 anni, operaio. La gentilezza è la cifra di questa storia di morte, assurdità e dolore. Anche Alberto risponde cortese a tutte le domande dei cronisti: «Mi ha donato due anni meravigliosi. Non appena sarebbe finita la pandemia saremmo andati al concerto di Tiziano Ferro, le avevo regalato i biglietti l'anno scorso, poi era saltato tutto. Avevamo anche in progetto di andare a Parigi. L'amava per il suo romanticismo. Ma ci accontentavamo anche di poco, del tempo che ci ha concesso il lockdown. Ed era bello stare anche con suo figlio, lei lo guardava adorante». Da ieri mattina il bimbo è a casa di Greta, la migliore amica di Luana, per tenerlo lontano dall'attenzione mediatica. Su consiglio del pediatra gli hanno detto la verità. Che la mamma non c'è più. Ma che il suo amore non finirà mai. Come non finirà la solidarietà nei suoi confronti. Il sindaco di Pistoia, Alessandro Tomasi, ha annunciato una raccolta di fondi per aiutare Alessio e i suoi nonni. Nonna Emma ringrazia e sorride. Ma mai sorriso è stato più straziante.

Di Laura Natoli per  lanazione.it il 7 maggio 2021.  Prato, 6 maggio 2021 - Aveva un contratto di apprendista, Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni stritolata dall’orditoio a cui era addetta. Un particolare che dovrà essere vagliato dagli inquirenti per capire se la povera Luana poteva restare da sola a manovrare quella macchina pericolosa. Aveva un contratto quinquennale e guadagnava fra i 900 e i 1100 euro al mese. Soldi con cui avrebbe voluto costruire la sua indipendenza, dare un futuro al suo bambino prima che la sua vita venisse interrotta bruscamente. E’ uno dei particolari che emerge dopo la morte tragica dell’operaia, mamma di un bambino di 5 anni, avvenuta lunedì mattina all’interno della fabbrica "Luana" (un’omonimia per un crudele scherzo del destino) nella zona industriale di Montemurlo, Prato. La procura ha indagato la titolare dell’orditura, Luana Coppini, e il tecnico manutentore esterno all’azienda, Mario Cusimano. Le ipotesi di reato sono omicidio colposo e rimozione e omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. E’ proprio da questa seconda ipotesi che partirà il lavoro dei periti (della procura, della difesa e della famiglia). Sì perché la protezione al macchinario era stata alzata, non c’era. Luana è stata inghiottita dai rulli senza che nessuno si accorgesse di nulla. E’ probabile che la ragazza si sia avvicinata per sistemare i fili nel momento iniziale della lavorazione degli orditi (la base da cui viene realizzata la tela). Ma qualcosa deve essere andato storto. Il macchinario ha una cellula di sicurezza che dovrebbe bloccarlo quando qualcosa resta impigliato. Cellula che, a quanto pare, non avrebbe fatto il suo dovere nel momento in cui il gracile corpo di Luana è stato agganciato finendo dentro il rullo. Mancava la protezione e la cellula non ha funzionato. Saranno questi i due aspetti da cui partire per ricostruire la dinamica dell’incidente. Chi ha tolto la protezione e perché? E’ stata Luana? E poi, essendo apprendista, poteva restare da sola a manovrare quel macchinario così complesso? Domande a cui solo le indagini potranno dare risposte. Luana lavorava nell’orditura da un paio di anni e sembra che conoscesse l’apparecchio, un Karl Mayer di fattura tedesca. Anche se già in passato aveva avuto qualche problema, come racconta la madre, Emma Marrazzo. "Mi aveva detto di aver sentito tirare la maglia e di essersela infilata subito nei pantaloni – ha raccontato – ’Non ti preoccupare mamma, sto attenta’, mi aveva rassicurato". Eppure è successo di nuovo ma questa volta Luana non ha avuto la stessa prontezza di riflessi. Intanto sabato sarà svolta l’autopsia che potrà dare le prime risposte.

L'esame all'Ospedale di Pistoia. “Luana è stata risucchiata alle spalle dall’orditoio”, l’autopsia sulla 22enne morta sul lavoro. Vito Califano su Il Riformista l'8 Maggio 2021. Luana D’Orazio è morta per schiacciamento del torace. Politrauma fratturativo toraco-polmonare secondo l’autopsia condotta sul corpo dell’operaia di 22 anni morta il 3 maggio a Montemurlo in provincia di Prato. Una tragedia che ha acceso i riflettori sulla strage delle morti bianche. L’esame è stato eseguito dal medico legale Luciana Sonnellini all’Ospedale di Pistoia e affidato dalla Procura di Prato. Si è svolto oggi. I funerali di Luana D’Orazio si terranno lunedì prossimo, 10 maggio, alla Chiesa del Cristo Risorto Spedalino Agnelli. La 22enne sarà sepolta al cimitero di Agliana, in provincia di Pistoia. “Sono in corso i preparativi per la cerimonia a cui attendiamo la partecipazione di molte persone, il funerale sarà celebrato dal vescovo di Pistoia Fausto Tardelli”, spiega all’Ansa.it don Anthony Menem, che guida la parrocchia in cui Luana ha ricevuto la Comunione e la Cresima. Ai funerali sarà presente anche l’attrice Monica Guerritore, in rappresentanza del mondo dello spettacolo, in quanto Luana sognava di fare l’attrice. Presenti all’esame i consulenti degli indagati dell’inchiesta per omicidio colposo. Si tratta di due indagati, la proprietaria dell’azienda tessile nel pratese e del manutentore. Gli accertamenti procedono sullo stato dei sistemi di sicurezza del macchinario e sulla saracinesca di protezione rimasta inspiegabilmente alzata e sulle cellule fotoelettriche che non anno funzionato. “Non è esclusa l’ipotesi di una modifica strutturale — ha detto Andrea Rubini, del Gesi Group, consulente legale della famiglia D’Orazio — se la saracinesca non fosse stata rimossa o sollevata Luana sarebbe ancora viva”. A quanto riportato dal Corriere della Sera la giovane sarebbe stata agganciata dai macchinari mentre si trovava di spalla e trascinata sotto l’orditoio. Mercoledì, per stabilire la posizione della ragazza, sarà visionato anche il video che ha ripreso i Vigili del Fuoco recuperare il corpo incastrato.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Giorgio Bernardini per corrierefiorentino.corriere.it il 9 maggio 2021. Il piccolo Alessio, figlio dell’operaia morta lunedì in fabbrica a Montemurlo, muove la solidarietà del Paese e spinge oltre i 120 mila euro in soli tre giorni la principale raccolta fondi coordinata dal Comitato Montemurlo Solidale. L’associazione nata nel 2017 per il terremoto nel centro Italia ha convogliato decine di iniziative di raccolta istituzionali nate spontaneamente nelle ore seguite alla fine tragica di Luana D’Orazio, 22 anni. «Devo ammettere che sta andando ben oltre le nostre aspettative», conferma il presidente del comitato, il commercialista Antonio Schillaci. Nella raccolta del comitato sono confluite quelle dei Comuni limitrofi — Prato e Pistoia, dove la ragazza abitava — oltre che diverse nate in Rete, due le iniziative rimaste autonome. «Questa tragedia — continua Schillaci — ha colpito molto le persone. Abbiamo centinaia di pagine di versamenti, diverse anche da duemila euro l’una, la banca presso cui abbiamo il conto ci ha chiamato per segnalarci una movimentazione straordinaria». La raccolta resterà attiva ancora per alcuni giorni e una volta ultimata «sarà coinvolto il giudice minorile» per poter assegnare la somma definitiva alla famiglia. Ieri mattina è stata eseguita l’autopsia sul corpo di Luana, che secondo le prime indicazioni sarebbe morta sul colpo per schiacciamento del torace dopo essere stata risucchiata di spalle dall’orditoio a cui lavorava. «Politrauma fratturativo toracico-polmonare» è il primo responso del medico legale Luciana Sonnellini, l’esame è durato 4 ore. La perizia, affidata al medico dalla Procura di Prato, è stata svolta alla presenza dei consulenti nominati dai due indagati per omicidio colposo, la proprietaria dell’azienda e il manutentore dei macchinari. L’inchiesta si muove attorno alla manomissione dei sistemi di sicurezza dell’orditoio, che con la saracinesca rimossa non avrebbe dovuto funzionare. Ora che la salma è stata liberata dalla magistratura si potranno svolgere i funerali di Luana, fissati per domani alle 15 nella chiesa del Cristo risorto Spedalino Agnelli, ad Agliana. «Il rito sarà celebrato dal vescovo di Pistoia Fausto Tardelli», spiega Anthony Menem, sacerdote della parrocchia in cui Luana ha ricevuto la comunione e la cresima. «La ricordo bene, solare e timida», spiega il parroco. C’è una certa preoccupazione per l’afflusso di persone atteso nella piccola chiesa, che può contenere al massimo 100 persone per le norme anti covid. Tra gli altri alla cerimonia parteciperanno il governatore Eugenio Giani, che ha proclamato un giorno di lutto regionale, e Monica Guerritore, in rappresentanza del mondo dello spettacolo. Luana aveva fatto la comparsa nel film «Se son rose» di Leonardo Pieraccioni. Guerritore ha scritto un messaggio di solidarietà alla mamma di Luana, Emma Marrazzo, reso noto da La Nazione: «Come in una macchina del tempo mi rivedo ragazzina piena di sogni anche io. Aspettative e, come tutti i giovani, custodi di un dono, un piccolo “seme” che speri possa fiorire».

Da corriere.it il 10 maggio 2021. Lacrime, abbracci e commozione. La Toscana è in lutto per l'ultimo saluto a Luana D'Orazio, la giovane operaia stritolata da un macchinario tessile in un'azienda a Montemurlo una settimana fa (la Regione ha disposto bandiere a mezz'asta, saracinesche abbassate e un minuto di silenzio). Il funerale — iniziato verso le 15 — è terminato un’ora e mezza dopo nella chiesa del Cristo Risorto Spedalino Asnelli di Agliana, nel Pistoiese, dove Luana viveva con la sua famiglia e il figlio di 5 anni. Una cerimonia «blindata» — che non è stata mandata in onda dalle televisioni, così come chiesto dalla Diocesi di Pistoia — che ha visto la partecipazione del presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani («Ho voluto il lutto regionale: spero che tutti i toscani dedichino a lei il loro pensiero», ha detto), del sindaco di Prato, Matteo Biffoni e del primo cittadino di Montemurlo, Simone Calamai. A celebrarla il vescovo di Pistoia, Fausto Tardelli. La salma — dopo il lancio di palloncini bianchi in cielo — è stata tumulata nel cimitero del paese, a poche centinaia di metri dalla casa della giovane. Distrutta dal dolore, ha fatto il suo ingresso in chiesa, accompagnata dal marito, anche Luana Coppini, la titolare della ditta dove è avvenuto l'incidente. Con lei i colleghi di lavoro di Luana, che non sono voluti mancare. Tante le persone della zona, ovviamente non soltanto gli amici e i conoscenti della 22enne ma anche tante persone dal resto della Regione, che sono rimaste sconvolte dalla tragedia della ragazza.

L’omaggio di Monica Guerritore. Tra i presenti, come aveva lei stessa anticipato, si riconosce anche l’attrice Monica Guerritore: la sua presenza è un omaggio al Luana che, per offrire sicurezza e stabilità al figlio, aveva accantonato il suo grande sogno, proprio quello di fare l'attrice. «Ho parlato con la madre di Luana — ha detto durante l'omelia— e mi ha detto che il suo sogno era quello di diventare attrice. E aveva anche talento, ho visto dei piccoli filmati che aveva fatto. Luana questo sogno non ha potuto realizzarlo, il mondo che lei avrebbe voluto frequentare le rende ora omaggio. Per questo motivo partecipo all’ultimo saluto che le verrà tributato oggi. La madre mi ha detto che, così, Luana si metterà a ballare dalla gioia. Penso che lei sarà molto contenta di sapere che il mondo dello spettacolo ci sarà».

La maestra. Ma come detto sono in tanti a piangere Luana. C’è anche la sua ex maestra delle elementari, Barbara Davini: «Me la ricordo, era una scricciolina, minuta, esile. L’ho avuta come alunna fino al 2008. Dei bambini che sono stati con noi sappiamo sempre tutto, questa è una piccola comunità. Anche di Luana sapevo molto, e quando un bambino che è stato nostro alunno muore, anche da adulto, è un evento che ci coinvolge. Con noi passano molto tempo e condividiamo tanti momenti, diventano come nostri figli». La scuola di Luana, la «Don Milani», è proprio davanti alla chiesa del Cristo Risorto dove si tengono i funerali e l’asilo accanto è frequentato dal figlio di Luana, 5 anni e mezzo.

Da tgcom24.mediaset.it il 13 maggio 2021. Il macchinario "gemello" di quello che uccise Luana D'Orazio aveva i sistemi di sicurezza manipolati. E' quanto si apprende da fonti della Procura di Prato dopo un accertamento del suo consulente tecnico su un orditoio presente nella ditta identico a quello che uccise la 22enne. Dopo l'incidente, gli inquirenti sequestrarono due orditoi nella ditta, quello in cui la giovane fu trascinata prima di morire e quello di fronte. Intanto, secondo il contratto al vaglio dei pm è emerso che la 22enne sarebbe stata assunta con "funzioni di catalogazione". Quindi non avrebbe dovuto usare i macchinari. Come scrive Repubblica, alla luce delle nuove evidenze i legali dei familiari e la Procura vogliono capire se Luana avesse ricevuto la giusta formazione, come in un primo momento era stato detto. Mentre gli accertamenti proseguono, le autorità mantengono il massimo riserbo.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 14 maggio 2021. Luana D' Orazio non doveva lavorare all' orditoio, con un contratto di «apprendistato professionalizzato» non era la sua mansione, e quella macchina non era in condizioni di sicurezza. Peggio, sarebbe stata manomessa per produrre di più. La morte dell' operaia di ventidue anni, mamma di un bimbo di cinque anni e mezzo, schiacciata dai rulli il 3 maggio in un' azienda tessile di Montemurlo in provincia di Prato, sembra essere la somma di regole non rispettate, illegalità e rischi sottovalutati. «Spero emerga la verità», dice combattiva Emma Marrazzo, che lunedì ha seppellito la figlia. E un pezzetto alla volta, le indagini della Procura stanno ricostruendo ciò che è successo quella mattina attorno alle dieci. Che sarebbe tutto tranne una fatalità. I magistrati hanno sequestrato i due orditoi della fabbrica e dalla perizia è emerso che il macchinario gemello a quello su cui stava lavorando Luana aveva i sistemi di sicurezza manomessi. Secondo i primi rilievi tecnici sarebbe stata rimossa la saracinesca di protezione, una sbarra che avrebbe impedito a Luana di avvicinarsi troppo e di finire risucchiata dai rulli. È un meccanismo indispensabile per prevenire gli infortuni sul lavoro, ma a volte viene eliminato per velocizzare le operazioni: in caso di necessità, gli addetti possono sistemare i fili senza interrompere la produzione. Ma a rischio della loro vita. Da chiarire anche il motivo per cui non è entrata in funzione la fotocellula che blocca l' orditoio, se per un guasto o perché disattivata. Un precedente riferito da Emma Marrazzo spalanca uno scenario inquietante sulle condizioni di sicurezza all' Orditura Luana, ditta a conduzione familiare nella quale anche i proprietari e i figli lavorano alle macchine. «Già in passato Luana ha avuto qualche problema. Mi ha raccontato di aver sentito tirare la maglia e di essersela infilata subito nei pantaloni. Non ti preoccupare mamma, sto attenta, mi ha rassicurato». Ma non è bastato e questa volta la giovane non ha avuto la stessa prontezza di riflessi. E forse nemmeno la preparazione adatta per quel compito. Stando a ciò che emerge dalle indagini, la giovane è stata assunta il 4 marzo 2019 con un contratto di «apprendistato professionalizzato» con mansioni di «catalogazione», niente quindi che prevedesse turni all' orditoio. La Procura sta approfondendo anche questo aspetto, i pm vogliono verificare se Luana potesse svolgere quel ruolo ricevendo la formazione necessaria per un lavoro pericoloso. Come spiegano gli imprenditori del settore, i giovani impiegano anni per imparare il mestiere: ogni apprendista viene assegnato a un tutor e si comincia dai primi gesti, i più semplici, passando poi alle lavorazioni complicate. Luana è stata affidata a un operaio esperto? Da quanto è emerso sarebbe avvenuto il contrario: pochi giorni prima che morisse la giovane è stata affiancata da un ragazzo che l' aiutava. La titolare della ditta Luana Coppini e il tecnico manutentore Mario Cusimano sono indagati nell' inchiesta per omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele anti infortunistiche. Presto saranno riascoltati dai magistrati, che chiederanno loro di illustrare le condizioni in cui lavoravano gli operai. L' analisi sull' orditoio infatti potrebbe non essere decisiva, poiché accusa e difesa fissano l' incidente mortale in due fasi diverse. Per la Procura la ventiduenne è rimasta incastrata nel momento finale di lavorazione della macchina, quando l' ordito viene scaricato sul subbio, il grande cilindro rotante che avvolge il filo. Mentre la difesa ritiene che sia stata agganciata mentre caricava la macchina, quando i movimenti del subbio vengono guidati mediate dei pedali. Emma Marrazzo non ha mai pronunciato parole di accusa, ma vuole che la morte di Luana non resti senza responsabili. «Chiedo giustizia non solo per mia figlia, ma per tutti i lavoratori che come lei hanno perso la vita. Non si può continuare a morire in questo modo».

Valentina Marotta e Antonella Mollica per "corriere.it" il 15 maggio 2021. C’è una fotografia agli atti dell’inchiesta sulla morte di Luana D’Orazio, la ragazza di 21 anni risucchiata il 3 maggio scorso da un orditoio mentre era al lavoro, che potrebbe rivelarsi determinante per ricostruire la dinamica dell’incidente. Si tratta dell’immagine di una grossa ragnatela ritrovata su una colonna laterale del macchinario dove scorre la barriera di protezione, quella che avrebbe dovuto impedire a Luana di avvicinarsi quando la macchina era in funzione. La presenza di quella fitta tela tessuta con pazienza da un ragno indicherebbe che la persiana di sicurezza era sollevata da molto tempo e, quindi, aveva smesso di fare il suo lavoro, quello di sollevarsi quando la macchina era ferma e abbassarsi quando era in movimento per proteggere gli operai. Il sospetto della Procura è che quel meccanismo sia stato manomesso per semplificare le procedure. Sarà adesso la consulenza che la Procura ha affidato nei giorni scorsi a stabilire se le cose siano andate esattamente così ed eventualmente da quanto tempo i dispositivi di protezione fossero stati disattivati. Sotto sequestro, subito dopo l’incidente che ha portato via Luana, madre di un bambino di soli 5 anni, è finito anche un secondo macchinario dell’azienda che, ironia del destino, si chiama come lei: «Orditura Luana». Si tratta di un macchinario gemello a pochi metri di distanza da quello che ha intrappolato Luana, anche quello ritrovato con la saracinesca di sicurezza sollevata. Bisognerà adesso capire se nell’azienda fosse una pratica abituale lavorare senza dispositivi di protezione. La Procura guidata da Giuseppe Nicolosi all’indomani della tragedia ha iscritto sul registro degli indagati la titolare dell’azienda Luana Coppini e il responsabile della manutenzione Mario Cusimano (non è un dipendente della ditta) non solo con l’accusa di omicidio colposo ma anche per il reato di rimozione dolosa di dispositivi di protezione contro gli infortuni. Gli inquirenti hanno sequestrato i due orditoi per poter compiere un confronto tra macchinari e accertare se fossero stati entrambi manomessi per funzionare senza protezione. Il primo ad essere analizzato dal consulente della Procura è stato l’«orditoio gemello» e sarebbe emersa un’«alterazione» già a un primo esame. In altre parole, il macchinario avrebbe funzionato anche con la gabbia di sicurezza alzata. Ipotesi avanzata anche per il dispositivo che risucchiò la giovane operaia, ma a cui potrà dare conferma solo il consulente della Procura. E non sarà impresa agevole: per funzionare, l’orditoio dovrà essere nuovamente assemblato, dato che i vigili del fuoco lo avevano smontato per estrarre il corpo della donna. Non è escluso che all’esame partecipino anche i tecnici dell’azienda costruttrice, la tedesca Karl Mayer. Ma per ottenere le prime risposte occorrerà attendere sessanta giorni. Gli accertamenti saranno preziosi anche per ricostruire la dinamica precisa dell’incidente. Procura e difesa collocano l’infortunio di Luana in due fasi diverse della lavorazione. Gli inquirenti ritengono che l’operaia sia rimasta incastrata nella fase finale della lavorazione della macchina, i legali invece reputano che Luana sia stata inghiottita dall’orditoio nel momento in cui con l’aiuto dei pedali ha avviato il subbio, il grande cilindro che avvolge il filo. Solo ipotesi al momento, che ancora attendono conferma.

Luana D’Orazio, nuova perizia sulla scatola nera dell’orditoio: spunta anche un audio al fidanzato. Debora Faravelli il 28/05/2021 su Notizie.it. I tecnici hanno eseguito una nuova perizia sull'orditoio da cui Luana D'Orazio è stata inghiottita: attesa a metà luglio la relazione. Spuntano nuovi elementi sul caso di Luana D’Orazio, l’operaia di 23 anni morta il 3 maggio in una fabbrica a Montemurlo: l’ingegnere Carlo Gini, consulente della Procura di Prato guidata da Giuseppe Nicolosi, ha eseguito una seconda perizia sulla cosiddetta “scatola nera” dell’orditoio, il macchinario ai cui rulli la giovane rimase intrappolata. I magistrati sono convinti che, al momento dell’incidente, attorno all’orditoio mancassero le cautele anti-infortunistiche previste dalla legge, in particolare la saracinesca protettiva. Un’ulteriore ipotesi riguarda poi la possibilità che i vestiti indossati quel giorno da Luana abbiano contribuito a farla trascinare all’interno. L’ingegnere, accompagnato dagli esperti delle difese e delle parti civili, si è così recato sul posto per completare le verifiche sulla scatola nera dell’apparecchio insieme ai tecnici della ditta tedesca che lo produce. Per comprendere in quale fase della lavorazione sia avvenuto il decesso, è infatti necessario poter stimare la velocità a cui stava girando il cilindro rotante che avvolge il filo. La relazione tecnica dell’ingegnere è prevista entro metà luglio. Le persone indagate con l’accusa di omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro sono la titolare dell’azienda Luana Coppini e l’addetto alla manutenzione dell’orditoio Mario Cusimano. Gli inquirenti stanno anche cercando di capire se la ragazza avesse ricevuto la formazione necessaria per un mestiere potenzialmente pericoloso: ne contratto sarebbero infatti state indicate per lei solo funzioni di catalogazione e non operative. Nell’attesa di interrogare gli indagati, gli investigatori hanno inoltre ascoltato alcuni dipendenti della ditta che “hanno confermato alcune delle circostanze già emerse nel corso dell’indagine”. Intanto è spuntato un audio Whatsapp che Luana ha inviato al fidanzato e che, nonostante non ancora inserito tra le carte dell’indagine, potrebbe aggiungere nuovi elementi alla ricostruzione. Pubblicato da Repubblica, recita così: “Scusa amore, ho finito solo adesso. Anche oggi ho dovuto correre come una dannata. Mi hanno lasciata da sola con un sacco di lavoro…”. Il messaggio è stato inviato il 30 aprile, quattro giorni prima del decesso. Secondo i familiari si tratta di una testimonianza delle difficili condizioni lavorative in cui la ragazza sarebbe stata costretta in quel periodo. Persone a lei vicine la descrivono infatti come travolta da turni e carichi troppo serrati per il suo contratto, che prevedeva, tra l’altro, la presenza di un tutor in affiancamento che il giorno dell’incidente non c’era.

Da "ilfattoquotidiano.it" il 28 maggio 2021. Nuovi accertamenti giudiziari sul caso di Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 23 anni morta il 3 maggio scorso in una fabbrica a Montemurlo, in provincia di Prato. La convinzione dei magistrati è che, al momento dell’incidente, attorno all’orditoio – il macchinario a rulli girevoli a cui Luana era addetta e in cui rimase intrappolata – mancassero le cautele anti-infortunistiche previste dalla legge, in particolare la saracinesca protettiva. Un’ulteriore ipotesi emersa di recente è che i vestiti indossati quel giorno dalla giovane abbiano contribuito a farla trascinare all’interno. Mercoledì l’ingegner Carlo Gini, consulente della Procura di Prato guidata da Giuseppe Nicolosi, è tornato nella ditta per la seconda perizia, accompagnato dagli esperti delle difese e delle parti civili: i periti stanno completando le verifiche sulla “scatola nera” dell’apparecchio avvalendosi di tecnici della ditta tedesca che lo produce. Per comprendere in quale fase della lavorazione sia avvenuto il decesso è necessario poter stimare la velocità a cui stava girando il subbio, il cilindro rotante che avvolge il filo. La relazione tecnica dell’ingegnere è prevista entro metà luglio. Gli indagati – per omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro – sono la titolare dell’azienda Luana Coppini e l’addetto alla manutenzione dell’orditoio, Mario Cusimano. Quest’ultimo, secondo l’accusa, era l’unico ad avere le competenze necessarie per disattivare la saracinesca. Si lavora, tra le altre cose, anche per chiarire se la ragazza avesse ricevuto la formazione necessaria per un mestiere potenzialmente pericoloso: pare infatti che nel contratto fossero indicate soltanto funzioni di catalogazione, non direttamente operative. Nei giorni scorsi gli investigatori hanno ascoltato alcuni dipendenti della ditta, che si sono dimostrati “collaborativi” e hanno “confermato alcune delle circostanze già emerse nel corso dell’indagine”. Nei prossimi giorni è in programma l’interrogatorio dei due indagati, a partire proprio da Cusimano. Nel frattempo un audio Whatsapp pubblicato da Repubblica – ma non ancora acquisito agli atti dell’indagine – aggiunge nuovi elementi alla ricostruzione. “Scusa amore, ho finito solo adesso. Anche oggi ho dovuto correre come una dannata. Mi hanno lasciata da sola con un sacco di lavoro…”, diceva Luana al fidanzato lo scorso 30 aprile, quattro giorni prima del decesso. Secondo i familiari, il messaggio testimonia le difficili condizioni lavorative in cui la ragazza – madre di un bimbo di cinque anni – sarebbe stata costretta in quel periodo. Persone a lei vicine la descrivono travolta da turni e carichi troppo serrati per il suo contratto, che prevedeva, peraltro, la presenza di un tutor in affiancamento. La procura ha invece già accertato che, il giorno dell’incidente, insieme a lei non c’era nessuno.

Quell’audio di Luana: “Il macchinario è mezzo rotto”. Raffaello Binelli su L'Arno-Il Giornale il 28 maggio 2021. Mentre prosegue la perizia dei tecnici sull’orditoio che si è “inghiottito” Luana D’Orazio, la ragazza che ha perso la vita alcune settimane fa in un’azienda tessile di Prato, da un messaggio vocale che la giovane registrò sul proprio telefono, inviandolo a una persona a lei cara tre giorni prima dell’incidente, emerge un particolare interessante. Luana parla del macchinario su cui lavora dicendo che “si ferma e ci mette più di tutti gli altri perché è mezzo tronco (rotto, ndr)”. Questa difficoltà nel funzionamento potrebbe essere una delle concause dell’incidente? Saranno i periti a doverlo accertare. Luana parla anche di un uomo con cui avrebbe litigato, dicendo che “se ne lava le mani” e lascia soli a lavorare i dipendenti dopo aver dato loro gli ordini. Quel messaggio non è stato acquisito dai magistrati che indagano. Vedremo se lo sarà più avanti. Di certo evidenzia che l’ambiente di lavoro non era tutto rosa e fiori. Nulla di penalmente rilevante, ovviamente. Tensioni, incomprensioni e stress possono verificarsi in ogni luogo di lavoro, altra cosa sono le incurie e il mancato rispetto delle regole, in primis quelle sulla sicurezza, tutte da dimostrare. Al momento gli indagati sono due: la titolare della ditta, Luana Coppini, e il responsabile della manutenzione dei macchinari, Mario Cusimano. Dai primi rilievi, in attesa dei risultati delle perizie, i magistrati ritengono plausibile che siano state rimosse le “cautele antinfortunistiche dall’orditoio”. Per capire quando ciò sia avvenuto (in quale preciso momento della lavorazione) è indispensabile decifrare il contenuto della “scatola nera” del macchinario, prelevata mercoledì, giorno in cui l’orditoio è stato riassemblato. Dopo alcune iniziali difficoltà nel rimetterlo in funzione, i periti hanno potuto vedere il macchinario in azione. Una prova importante, questa, che avrebbe prodotto alcune conferme alle ipotesi della Procura sulla rimozione delle cautele antinfortunistiche. Gli inquirenti stanno svolgendo accertamenti anche sul vestiario della vittima nel giorno della tragedia. Pare che Luana indossasse una tuta casual (non abiti da lavoro) e scarpe antinfortunistiche. Ciò che indossava Luana può aver favorito il trascinamento della ragazza all’interno della macchina, oppure è stato ininfluente? L’esame approfondito degli strappi di quegli abiti potrebbe far emergere dettagli interessanti anche sulla velocità a cui stavano viaggiando i rulli dell’orditoio. Sull’audio di cui parlavamo all’inizio Emma Marrazzo, madre di Luana, dice di non sapere niente: “Non mi risulta l’esistenza di questo audio Whatsapp”. E prosegue: “Mia figlia a casa non si era mai lamentata per i carichi eccessivi di lavoro”.

DA lastampa.it il 17 giugno 2021. Il quadro elettrico dell'orditoio al quale stava lavorando Luana D'Orazio sarebbe stato manomesso. E' quanto trapela dagli inquirenti che stanno indagando sulla morte della 22enne operaia dell'orditura di Oste di Montemurlo avvenuta lo scorso 3 maggio. A confermarlo sarebbe la perizia effettuata alcuni giorni fa sul macchinario. Secondo quanto emerso durante il sopralluogo dei periti, sarebbe stata appunto accertata la manomissione del quadro elettrico per permettere il funzionamento della macchina che ha stritolato Luana anche senza che vi fosse la saracinesca di sicurezza abbassata. La relazione del perito potrebbe essere consegnata alla Procura della Repubblica di Prato già nei prossimi giorni. Intanto negli uffici della Procura sono stati interrogati i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, convocati dal sostituto procuratore Vincenzo Nitti perché rispettivamente titolare e gestore di fatto dell'orditura. Entrambi sono indagati per omicidio colposo e omissione di tutele antinfortunistiche. Secondo quanto si apprende, Luana Coppini ha risposto alle domande del pm, mentre Daniele Faggi si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Grazia Longo per "la Stampa" il 18 giugno 2021. «Io voglio giustizia e non vendetta, ma certo la notizia del quadro elettrico manomesso, emersa dalla perizia della Procura di Prato, suona come un pugno nello stomaco. Se il macchinario fosse stato in regola mia figlia oggi sarebbe ancora viva. La mia vita non è più quella di prima e ora mi dà il tormento sapere che se il sistema di sicurezza avesse funzionato la mia Luana sarebbe ancora qui tra noi». Non riesce a darsi pace Emma Marrazzo, mamma di Luana D' Orazio, che il 3 maggio scorso è stata risucchiata dall' orditoio presso il quale stava lavorando a Montemurlo. Il sospetto era sorto lo stesso giorno del drammatico infortunio sul lavoro e ora la perizia della Procura lo conferma. Ogni morte è crudele, ma quando si scopre che forse poteva essere evitata se fossero state rispettate le norme di sicurezza assume un contorno ancora più brutale, spietato. Come in questo caso. La saracinesca a protezione dell'orditoio era alzata perché il quadro elettrico era stato manomesso, probabilmente per accelerare la produzione. Secondo quanto emerso durante il sopralluogo dei periti, sarebbe stata appunto accertata la manomissione del quadro elettrico per permettere il funzionamento della macchina che ha stritolato Luana anche senza che vi fosse la saracinesca di sicurezza abbassata. La relazione del perito potrebbe essere consegnata alla Procura della Repubblica di Prato già nei prossimi giorni. L' ipotesi che i sistemi di sicurezza dei macchinari della ditta di Montemurlo in cui è morta Luana D' Orazio fossero stati manomessi per funzionare anche con i cancelli di protezione alzati era stata avanzata dalle prime fasi delle indagini. Si indaga, oltre che per omicidio colposo, anche per il reato di «rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro». La perizia rivela inoltre una modifica che avrebbe consentito il funzionamento in automatico: in particolare il pulsante di avvio, che a saracinesca alzata dovrebbe essere inattivo, avrebbe funzionato lo stesso. «Più sento queste cose e più sto male - prosegue Emma Marrazzo, sostenuta dall' assistente legale Andrea Rubini -. Luana non ha lasciato solo un vuoto incolmabile ma anche un figlio di 5 anni che cerca la sua mamma». Non solo. Luana ha lasciato anche un fidanzato, Alberto Orlandi, che oscilla tra la disperazione e la rabbia all' idea che in quella fabbrica della morte ci sia stata una manomissione. «È una cosa enorme, troppo grossa. È un colpo al cuore che fa male. Tanto male. Non riesco a credere che davvero sia stato fatto qualcosa che pur di far produrre di più ha messo in pericolo la vita degli operai. Ma stiamo scherzando? La mia Luana ha pagato con la vita la mancanza di scrupoli di qualcuno. Noi abbiamo fiducia nella giustizia, ma spero che continuino a indagare in fretta per stabilire la verità». Alberto insiste sulla necessità che la giustizia proceda celermente «perché noi dobbiamo sapere presto quello che è accaduto per potercene fare una ragione. E scoprire che per il dio denaro si è sacrificata la vita di una ragazza, peraltro già mamma, è un dolore immenso. Che non si può descrivere». Il ricordo di Luana è immutato nel tempo: «È il mio primo pensiero quando mi sveglio al mattino e l'ultimo quando vado a dormire. Giustizia deve essere fatta perché non è possibile che quel giorno lei mi abbia salutato alle 5,30 del mattino e poi sia sparita per sempre». Alberto ricorda, inoltre, che la fidanzata pur essendo solo un'apprendista, lavorava spesso da sola e senza tutor davanti al macchinario. «Infatti una sera mi ha mandato il seguente messaggio vocale: "Scusa amore, ho finito solo adesso. Anche oggi ho dovuto correre come una dannata. Mi hanno lasciata da sola con un sacco di lavoro"». Sul fronte giudiziario, sono stati interrogati i coniugi Luana Coppini e Daniele Faggi, convocati dal sostituto procuratore Vincenzo Nitti perché rispettivamente titolare e gestore di fatto dell'orditura. Entrambi sono indagati per omicidio colposo e omissione di tutele antinfortunistiche. Luana Coppini ha risposto alle domande del pm, mentre Daniele Faggi si è avvalso della facoltà di non rispondere. Alberto Orlandi, intanto, sta organizzando un'iniziativa per il 30 giugno, giorno in cui Luana avrebbe compiuto 23 anni: «Stiamo studiando qualcosa attraverso Instagram, per non dimenticare il suo splendido sorriso, ma anche perché si faccia luce sulla sua morte assurda».

L'inchiesta sull'operaia morta "Qualcuno era vicino a Luana e ha fermato l’orditoio". Ernesto Ferrara su La Repubblica il 25 giugno 2021. Secondo il consulente della famiglia lo stop è scattato dopo soli 4 secondi dal momento in cui la ragazza è stata risucchiata. La mamma: “Basta omertà, dai suoi colleghi mi aspetto la verità”. Quattro secondi, appena quattro secondi. Il tempo di essere risucchiata dal macchinario e di restare schiacciata in maniera letale. Poi qualcuno deve essersi accorto della tragedia, pigiando il pulsante di arresto. Qualcuno che evidentemente era lì vicino, vicino a Luana. E che finora non ha raccontato nulla, almeno nulla ad Emma, cioè alla mamma dell’operaia morta lo scorso 3 maggio in una fabbrica tessile di Montemurlo.

Luana D'Orazio, l'orditoio fermato 4 secondi dopo: il peggiore dei sospetti. "Basta omertà", lo sfogo della madre. Libero Quotidiano il 25 giugno 2021. Qualcuno, 4 secondi dopo l'incidente dell'orditoio che ha risucchiato e ucciso Luana D'Orazio, ha arrestato manualmente la macchina. Qualcuno che era vicinissimo a lei ma che non ha raccontato nulla a Emma Marrazzo, la mamma dell'operaia di 22 anni morta straziata da un orditoio in fabbrica a Montemurlo il 3 maggio scorso. "Mi aspetto la verità anche dai suoi colleghi, basta con questa omertà", dice a La Repubblica. In Procura a Prato sono arrivati dalla Germania i codici decifrati dalla Karl Meyer, la casa costruttrice dell'orditoio che ha stritolato e ucciso la ragazza, mamma di un bambino di 5 anni. Si tratta di una sorta di scatola nera che contiene la memoria interna della macchina. E' stata prelevata dai tecnici del dipartimento di prevenzione dell'Asl durante la perizia disposta dalla procura di Prato per chiarire le circostanze in cui la giovane è morta. Proprio quei codici, secondo Andrea Rubini, il consulente della famiglia D'Orazio, aprirebbero un nuovo scenario: "Il macchinario girava non in funzione manuale ma in automatico in quel momento. E da quanto abbiamo appreso, i codici sugli ultimi movimenti del macchinario raccontano che dal momento in cui si è registrata l'anomalia, un rallentamento dei giri, quindi l'incidente di Luana, sono passati 4 secondi prima dell'arresto manuale. Quindi qualcuno era lì vicino. C'era forse un operaio o un'operaia e noi vorremmo saperlo. Sono passati quasi tre mesi". Una versione che non trova conferme ufficiali per il momento. Quello che i primi riscontri del tecnico incaricato dal pm hanno già evidenziato è che ci fu una doppia manomissione all'orditoio della giovane: la realizzazione di un bypass elettrico che permetteva alla macchina di girare ad alta velocità con il cancello di protezione alzato e al pulsante di avvio che permetteva di mettere in moto l'orditoio anche in assenza del dispositivo di sicurezza abbassato. Come Luana sia stata risucchiata e straziata è ancora da chiarire.

Morte Luana D'Orazio, decodificata scatola nera orditoio. Da adnkronos.com il 24 giugno 2021. Sono arrivati a Prato dalla Germania i codici decifrati dalla Karl Meyer, la casa costruttrice del macchinario: relazione a metà luglio. Sono arrivati a Prato dalla Germania i codici decifrati dalla Karl Meyer, la casa costruttrice dell'orditoio killer che ha stritolato e ucciso Luana D'Orazio, operaia di 22 anni e mamma di un bambino di 5, morta il 3 maggio scorso nella ditta tessile "Orditura Luana" di Oste di Montemurlo (Prato). Si tratta dei codici della memoria interna della macchina (una sorta di scatola nera) che sono stati prelevati dai tecnici del dipartimento di prevenzione dell'Asl durante la perizia disposta dalla procura di Prato per chiarire le circostanze in cui la giovane operaia è morta. Lo scrive oggi "La Nazione". La dinamica, a quasi due mesi dall'incidente, resta avvolta nel mistero in attesa che il consulente della procura, l'ingegner Carlo Gini, depositi la sua relazione entro la metà di luglio. I codici dovranno essere messi in relazione con le prove tecniche che i periti, non solo della procura ma anche delle difese e della parte civile, hanno eseguito all’interno dell'azienda di via Garigliano a Montemurlo. In particolare devono dire due cose fondamentali: a che punto della lavorazione era arrivata Luana prima di finire stritolata dentro gli ingranaggi e a che velocità stava girando il macchinario. Due informazioni utili a stabilire se la morte della ragazza poteva essere evitata. Il consulente della procura ha evidenziato - attraverso le prove tecniche - una doppia manomissione all’orditoio della giovane: la realizzazione di un bypass elettrico che permetteva alla macchina di girare ad alta velocità con il cancello di protezione alzato e al pulsante di avvio che permetteva di mettere in moto l'orditoio anche in assenza del dispositivo di sicurezza (la saracinesca) abbassato. Possibile che Luana si sia avvicinata troppo alla macchina mentre questa girava? Oppure la ragazza si è avvicinata per sistemare qualcosa e l’orditoio è partito all’improvviso? Ma come ha fatto a mettersi in moto se il pulsante di avvio si trova vicino al cancello di protezione, troppo lontano perché l’operaia lo abbia premuto per sbaglio? Interrogativi che solo la perizia potrà sciogliere in modo plausibile. Quello che appare dai primi riscontri è che il macchinario viaggiava ad alta velocità. Quando i periti hanno riavviato la macchina per la prima volta dopo l’incidente mortale facendogli finire il ciclo interrotto, l'orditoio ha girato subito ad alta velocità come se si trovasse in fase avanzata di lavorazione. Se così fosse, la manomissione della saracinesca avrà un ruolo fondamentale nell’ipotesi accusatoria. I tre indagati, la titolare Luana Coppini e il marito Daniele Faggi (ritenuto gestore di fatto della ditta) e il tecnico manutentore Mario Cusimano, sono accusati di omicidio colposo e omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. Cusimano, nel frattempo, ha cambiato avvocato affidando la difesa a Melissa Stefanacci.

"La saracinesca alzata, la staffa irregolare, in quella ditta le manomissioni erano consuetudine di lavoro: per questo è morta Luana D'Orazio". Luca Serranò su La Repubblica il 19 settembre 2021. Le 69 pagine della perizia del pm sulla morte della giovane operaia, in maggio a Montemurlo, fa scoppiare in lacrime la mamma. E non solo perchè contengono le immagini della figlia straziata dalla macchina. "Non ci sono parole, come si può morire così nel 2021. Se l'azienda avesse preso tutte le precauzioni mia figlia sarebbe ancora qui, devono prendere coscienza". Piange Emma Marrazzo, la madre di Luana, mentre scorre le 69 pagine della relazione depositata la settimana scorsa dall'ingegner Carlo Gini, incaricato dalla Procura di esaminare il macchinario in cui la giovane operaia trovò la morte.

Estratto dell’articolo di Luca Serranò per “la Repubblica” il 19 settembre 2021. «Non ci sono parole, come si può morire così nel 2021. Se l'azienda avesse preso tutte le precauzioni mia figlia sarebbe ancora qui, devono prendere coscienza». Piange Emma Marrazzo, la madre di Luana, mentre scorre le 69 pagine della relazione depositata la settimana scorsa dall'ingegner Carlo Gini, incaricato dalla Procura di esaminare il macchinario in cui la giovane operaia trovò la morte. […] L'apparecchio, uno tra quelli presenti all'orditura Luana a Oste di Montemurlo, sarebbe stato manomesso. E montato in modo non conforme, per la presenza di una staffa sporgente (e non protetta) che avrebbe di fatto trascinato la ragazza in una morsa. […] Luana "è in prossimità al gruppo brida-menabrida (i due pezzi che compongono il comando del subbio, il sostegno per l'avvolgimento del filato, ndr ) e la brida entra in contatto con i suoi vestiti trascinando la donna attraverso la trazione sia sui fuseaux, sia sulla maglietta, sia sulla felpa e viene portata nella zona di comando del moto del subbio. La trazione su tre elementi dell'abbigliamento cattura il corpo in una sorta di abbraccio mortale".

[…] Le cause. "La macchina presentava una evidente manomissione con un altrettanto evidente nesso causale con l'infortunio", scrive l'ingegner Gini. La manomissione sarebbe stata eseguita tramite un "ponticello elettrico", con tutta probabilità per abbattere i tempi di produzione. […]

Una tragedia annunciata. Secondo la relazione la manomissione dei macchinari era una "consuetudine di lavoro", tanto che "la saracinesca non veniva abbassata da tempo". A provarlo, "varie ragnatele che si erano andate a formare tra le parti fisse e quelle mobili" […]

La staffa. Sempre in base alle valutazioni del consulente, l'azienda utilizzava l'orditoio in maniera non conforme. […] […]La procura di Prato prosegue gli accertamenti. Da chiarire anche le mansioni della ragazza: «Era un'apprendista e per contratto avrebbe dovuto essere guidata da un tutor», dice ancora Rubini. Al momento sono 3 le persone indagate, la titolare dell'azienda tessile Luana Coppini, il marito Daniele Faggi (per la procura "amministratore di fatto" della ditta) e l'addetto alla manutenzione Mario Cusimano, accusati di omicidio colposo e rimozione delle tutele antinfortunistiche. 

Luana D'Orazio, chiuse le indagini per la morte sul lavoro della 22enne: tre indagati. Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. L'operaia 22enne stritolata dall’orditoio in un’azienda di Montemurlo (Prato), dove era dipendente. Le accuse sono omicidio colposo e manomissione della sicurezza. La procura di Prato ha chiuso le indagini sulla morte di Luana D'Orazio, l'operaia ventiduenne madre di un bambino, trascinata in un orditoio nella ditta tessile di Montemurlo (Prato) di cui era dipendente, dove morì il 3 maggio. L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato in queste ore. Gli indagati restano i tre i cui nomi erano già noti cioè Luana Coppini titolare dell'azienda, il marito Daniele Faggi ritenuto dagli inquirenti amministratore di fatto dell'impresa e il tecnico manutentore Mario Cusimano. I reati ipotizzati sono omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche. In base a quanto emerge dall'avviso di conclusione delle indagini, non ci sarebbero variazioni rispetto a quanto conosciuto finora rispetto alle persone indagate (le stesse tre) e alle accuse individuate nell'inchiesta. Inoltre, sempre secondo le ricostruzioni, l'incidente sarebbe avvenuto mentre lo stesso macchinario viaggiava ad alta velocità, una fase in cui le saracinesche di protezione devono rimanere abbassate per motivi di sicurezza e, invece, non lo sarebbero state.

Da “QN - La Nazione” il 6 ottobre 2021. La mamma di Luana non grida vendetta, no. Chiede «soltanto» la verità per la sua «bimba». Emma Marrazzo crede nella giustizia, da sempre e adesso la «pretende». «Io non mi permetto di giudicare - dice con determinazione -, mi affido a chi ha il potere di decidere. Da quando mia figlia è morta noi abbiamo smesso di vivere, sopravviviamo soltanto. Il dolore aumenta giorno dopo giorno. Voglio giustizia per lei, per noi e per tutte le vittime sul lavoro. Non è giusto che un operaio inizi il turno con la paura di non tornare vivo a casa propria... Le cose devono cambiare, altrimenti ci saranno altre Luana!».

Laura Natoli per “QN - La Nazione” il 6 ottobre 2021. Luana D'Orazio, l'operaia di 22 anni, mamma di un bimbo di 5, stritolata dall'orditoio, è morta per pochi spiccioli. E' l'amara conclusione cui è arrivata la guardia di Finanza di Prato incaricata dalla procura di eseguire una stima sul possibile profitto che avrebbe ottenuto l'azienda dalla manomissione del macchinario. Una verifica sulla produttività e sulla redditività derivante dalla manomissione. Secondo quanto accertato dalle fiamme gialle, il blocco del cancello di sicurezza all'orditoio di Luana avrebbe fruttato solo l'8% di produzione in più rispetto a un macchinario che, fra l'altro, era usato solo per la campionatura. «Non siamo in grado di stabilire se a questa manomissione si accompagni un profitto economico» che in qualsiasi caso sarebbe infimo, concludono i finanzieri. Dopo aver ricevuto la relazione della Finanza, la procura ha chiuso le indagini sulla morte della ragazza, avvenuta il 3 maggio nell'«Orditura srl» di via Garigliano a Montemurlo (Prato), dove Luana lavorava come apprendista da circa due anni. In queste ore partiranno le notifiche ai tre indagati, individuati dopo l'incidente mortale. Sono la titolare dell'azienda, Luana Coppini, il marito Daniele Faggi, considerato dagli inquirenti il gestore di fatto dell'orditura anche se sulla carta risultava un dipendente e il tecnico manutentore che avrebbe eseguito la manomissione, Mario Cusimano. Per tutti le accuse sono di omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antinfortunistiche. Una volta ricevuta la notifica di chiusura indagini, avranno 20 giorni per chiedere di essere interrogati, se lo vorranno, o per presentare una memoria difensiva. E' stato soprattutto il secondo reato contestato quello su cui la procura di Prato ha disposto più accertamenti. Lunga e complessa la perizia sul macchinario. La relazione del consulente tecnico - che ha chiesto il rinvio dei termini per ben due volte - ha stabilito che l'operaia è morta a causa della manomissione. Luana ha avviato il macchinario in modalità automatica (chiamata «lepre») alle 9.45. Alle 9.46 la ragazza si è spostata vicino al subbio (il rullo su cui si avvolge il filo prima di fare l'ordito) dove resta agganciata a una sbarra che sporge più del dovuto e che la risucchia dentro al motore tirandola per la maglia, la felpa e i leggins. Il corpo della giovane ha girato per due volte «in un abbraccio mortale» come ha scritto il perito, insieme all'albero del subbio. Dopo 7 secondi un collega è intervenuto spegnendo il macchinario con il pulsante di stop. Troppo tardi: Luana è morta sul colpo per lo «schiacciamento del torace» come ha dimostrato l'autopsia. Se il cancello di protezione fosse stato abbassato come dovuto, la giovane non si sarebbe trovata in quella posizione pericolosa. La serie di manomissioni sul macchinario, secondo il perito, hanno creato il nesso causale con la morte della ragazza.

Luana e l’orditoio manomesso. Quanto vale la vita di chi lavora? Paolo Ferrario su Avvenire il 7 ottobre 2021. Un espediente che, notano gli inquirenti, «non avrebbe però generato alcun guadagno per l’azienda», perché il macchinario cui era addetta la giovane operaia era “da campionatura”, la cui quantità di produzione non influisce sul fatturato aziendale. Un particolare che, in ogni caso, non sposta di un millimetro la questione: nessun incremento di produzione e fatturato - piccolo o grande che sia - giustifica il sacrificio di una vita umana. Mai. In nessun caso, in nessuna azienda, in nessun territorio. Eppure, confermano le indagini, è proprio ciò che è successo a Luana (e alla sua famiglia), una tragedia per cui, ora, ci sono tre rinviati a giudizio: Luana Coppini, titolare dell’impresa e il marito Daniele Faggi, ritenuto dalla procura amministratore di fatto dell’azienda e Mario Cusimano, il tecnico manutentore dell’impianto. Che, quando Luana è morta, viaggiava ad alta velocità con le saracinesche di sicurezza alzate, anziché abbassate come di prassi, proprio per motivi di sicurezza. Se così fosse stato, è la conclusione di chi indaga, Luana non sarebbe rimasta intrappolata nell’orditoio e non sarebbe morta. Per questo motivo, ai tre indagati è contestato non soltanto l’omicidio colposo ma anche la rimozione dolosa delle cautele anti-infortunistiche. La storia di Luana, diventata suo malgrado il “volto” dei morti sul lavoro, è simile a quella di tante altre vittime, uccise dalla “fretta incosciente” che sta caratterizzando questa ripresa post-pandemia. Naturalmente, non si può e non si deve generalizzare, ma il problema esiste se, per esempio, l’86% delle aziende ispezionate risulta irregolare. O, ancora, se, la settimana scorsa, in appena tre giorni si sono contati 15 morti sul lavoro, 772 nei primi otto mesi del 2021, più di tre al giorno. Uomini e donne sacrificati sull’altare della ripresa. Un orizzonte cui tende l’intero Paese ma non un traguardo da tagliare a tutti i costi, o, peggio, costi quel che costi. Non può tingersi di “rosso sangue” la ripartenza dopo il Covid, eppure è ciò che, sotto traccia, sta avvenendo e che ha fatto suonare l’allarme anche nei palazzi della politica. Che ora annuncia «sanzioni più severe» per chi non rispetta le regole e vuole dotare il sistema di repressione dei reati di una Procura nazionale del lavoro, come prevede il disegno di legge, targato Movimento 5 stelle, depositato ieri nelle commissioni Lavoro e Giustizia del Senato. Una soluzione fortemente caldeggiata dal nuovo direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, magistrato con anni di impegno proprio nella dura trincea degli infortuni sul lavoro, per dotare il sistema di nuove figure di inquirenti specializzati in questo tipo di reati. E velocizzare i processi, che troppo spesso finiscono con la prescrizione. Negando alle famiglie dei morti sul lavoro anche quel minimo di giustizia cui hanno diritto.

Giacomo Susca per "il Giornale" il 6 maggio 2021. È una questione di civiltà, di dignità, di diritti fondamentali. Di coraggio e di orgoglio, anche. L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, certo, quando ce l'hai e ti consente di vivere oppure, semplicemente, non ti uccide. La morte di Luana D'Orazio, stritolata a 22 anni da un orditoio nella fabbrica in cui prestava servizio con contratto di apprendistato a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato, dovrebbe farci interrogare su tutto quanto sfiori i valori scritti sulla Carta e nelle leggi. E invece per qualcuno, di nuovo, il problema è il corpo delle donne. Anzi, della ragazza: quelle foto in tv e sui giornali usate per documentare la tragedia più inaccettabile. Una giovane mamma che perde la vita per un lavoro, un bambino di cinque anni che perde la sua «stella», come ripetono i nonni straziati dal dolore. In ogni realtà esiste un punto di rottura e molto spesso coincide con la sua rappresentazione. Se guardi in faccia una vittima, smette di essere un numero, una statistica nei rapporti ufficiali. Gli stessi che contano le morti bianche, 1.270 in un anno, vuol dire tre al giorno. Stragi silenziose, le chiamano. Ma le foto di Luana urlano giustizia. Sono un pugno sulle coscienze. Troppo bella nel fulgore dei vent'anni, sogni e giovinezza inghiottiti da una macchina. Come nell'Ottocento, solo che allora non c'era Instagram. La classe operaia continua ad andare in paradiso, e siamo nel 2021. Le neo femministe da tastiera che si scandalizzano guardano il dito e non la luna: «I quotidiani e i tg ci marciano da giorni solo perché era bella». Come se fosse una colpa a prescindere, la bellezza. Conosciamo fin troppo bene i cortocircuiti dell'informazione per non ammettere che, in ogni caso, della sicurezza sul lavoro bisogna parlarne. Tutti i giorni, anche quando la profondità di uno sguardo può urtare la sensibilità. Eppure il tema è scomparso dai palchi del Primo Maggio, sbianchettato dalla lista delle priorità da leader politici e sindacalisti, per inseguire altri hashtag di tendenza e acchiappa-consensi. Forse il problema sta altrove, e non nei selfie in posa di una ragazza come tante nostre figlie e sorelle. A Luana dobbiamo l'accertamento delle responsabilità sulla sua morte e il ricordo del suo esempio di lavoratrice e di madre. Perfino grazie a un'immagine sorridente sui social, se necessario. Finché quel viso ci disturberà, avremo un motivo per cui impegnarci.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 20 settembre 2021. La macchina lo ha inghiottito e l'operaio non ha avuto scampo. Stritolato dagli ingranaggi senza che nessuno in fabbrica si accorgesse di niente. «Quella macchina è molto rumorosa e se Giuseppe ha gridato aiuto nessuno ha potuto sentirlo purtroppo», raccontano i compagni di lavoro. L'ennesima vittima del lavoro, la 25esima in Toscana dall'inizio dell'anno, si chiama Giuseppe Siino, 48 anni, aveva una moglie e una figlia di 13 anni che lo avevano da poco salutato quando venerdì sera era uscito di casa per il turno serale. «Ci vediamo domani mattina», le ultime sue parole. È accaduto a Campi Bisenzio, comune della città metropolitana di Firenze, nella fabbrica di produzione dell'Alma spa, industria specializzata nella produzione di moquette di cui consigliere delegato è Alessio Ranaldo, ex presidente di Confindustria Toscana. E come per la tragedia di Luana D'Orazio, la giovane mamma morta straziata da una macchina tessile vicino a Prato, l'operaio è stato agganciato ed è finito nei grandi rulli della lavorazione del tessuto utilizzato per la moquette. Stavolta però pare che nessun sistema di sicurezza sia stato manomesso per aumentare o semplificare la produzione (come accertato dalle perizie per la morte di Luana) anche se sarà la procura di Firenze, che ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo (pm Ornella Galeotti), a stabilire le eventuali responsabilità. Secondo le prime testimonianze, dopo aver trascinato negli ingranaggi l'operaio, il macchinario, lungo più di 5 metri e largo più di 2, si sarebbe fermato facendo scattare l’allarme. «Giuseppe era incastrato e probabilmente è morto sul colpo», hanno raccontato i compagni di lavoro che sono riusciti a tirar fuori dai rulli il corpo. Il medico del 118 ha tentato di rianimarlo: massaggio cardiaco, respirazione assistita per quasi un'ora, ma non c'è stato niente da fare. Poco più tardi i carabinieri hanno suonato a casa della moglie e della figlia di Siino. La proprietà dell'azienda, in una nota, ha espresso profondo dolore per la morta dell'operaio che lavorava in fabbrica da vent'anni e ha assicurato il necessario sostegno economico alla famiglia, anche in futuro. «Da sempre la società ha rivolto la massima attenzione ed ogni opportuno investimento per la tutela e la sicurezza dei propri lavoratori», si legge ancora nella nota. I sindacati hanno chiesto ispezioni nell'azienda ma anche di iniziare una campagna sulla sicurezza nelle aziende. Di origini siciliane, ma da molti anni in Toscana, Giuseppe Siino era il portiere di una squadra dilettantistica.

Lavoratrice morta a Modena lascia una bimba di 4 anni. (ANSA il 3 agosto 2021) Si chiamava Laila El Harim la 40enne deceduta questa mattina in un incidente sul lavoro avvenuto all'interno dell'azienda Bombonette di Camposanto, nel Modenese. In Italia da diversi anni, era originaria del Marocco. Residente nella Bassa Modenese, lascia una figlia di quattro anni e il compagno. 

Da corriere.it il 3 agosto 2021. Una donna di 41 è morta questa mattina intorno alle 8.30 in un incidente sul lavoro avvenuto in un’azienda che si occupa di packaging e lavorazione della carta che si trova in via Panaria a Camposanto, in provincia di Modena. La vittima, Laila El Harim, sarebbe rimasta incastrata in una fustellatrice, macchinario utilizzato per eseguire tagli e pieghe. Sul posto sono immediatamente intervenuti i vigili del fuoco e i sanitari del 118, ma per la lavoratrice, di origini marocchine e residente nel modenese, non c’era più nulla da fare. I carabinieri si stanno ora occupando della ricostruzione dell’accaduto. La vicenda ricorda l’incidente di Luana D’Orazio, la ragazza morta a 22 anni risucchiata in un rullo dopo essere rimasta impigliata in un orditoio — una macchina che ordina i fili — di un’azienda tessile in provincia di Prato.

 Morte sul lavoro, nel cellulare di Laila le foto del macchinario che si bloccava. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 6 agosto 2021. La dipendente di 40 anni, stritolata dalla fustellatrice a cui lavorava, lo aveva segnalato. Indaga la Procura di Modena. Quella macchina non funzionava bene e in azienda lo sapevano. Laila El Harim, la dipendente di 40 anni rimasta stritolata martedì mattina dalla fustellatrice a cui lavorava, lo aveva segnalato. Ogni volta che si verificava un blocco, la donna faceva le foto col cellulare. Immagini che usava per spiegare il problema ai tecnici che intervenivano e ai suoi capi.

Laila, ecco come è morta in fabbrica: la macchina che l'ha schiacciata non aveva il blocco automatico.  Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 4 agosto 2021. Nessun blocco di sicurezza automatico. E più precisamente, la macchina a cui lavorava Laila El Harim "aveva un doppio blocco, ma non automatico e azionabile solo manualmente dalla lavoratrice".  Lo dice una relazione del direttore dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, Bruno Giordano, inviata al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che ieri aveva chiesto di essere aggiornato sugli accertamenti effettuati dopo l'incidente alla "Bombonette", la fabbrica di contenitori di cartone per dolciumi di Camposanto, nel Modenese.

Procura di Modena, morte sul lavoro di Laila El Harim: primo indagato iscritto nel registro. Ilaria Minucci il 05/08/2021 su Notizie.it. Per la morte sul lavoro di Laila El Harim, la Procura di Modena ha dichiarato di aver iscritto nel registro degli indagati il titolare dell’azienda. Gli inquirenti hanno individuato un indagato per quanto riguarda la drammatica morte della 40enne Laila El Harim, deceduta mentre stava svolgendo il proprio lavoro nell’azienda di packaging “Bombonette”, situata a Camposanto, in provincia di Modena. Laila El Harim, 40 anni, ha tragicamente perso la vita nella mattinata di martedì 3 agosto: la donna è stata inghiottita da uno dei macchinari aziendali utilizzati dagli impiegati dell’impresa di packaging “Bombonette”, presso la quale era stata assunta. Sulla base delle ultime informazioni trapelate, pare che la Procura di Modena abbia inserito una prima voce nel registro degli indagati, indicando il legale rappresentante dell’azienda. Al momento, l’iscrizione nel registro degli indagati del titolare della Bombonette di Camposanto rappresenta un atto dovuto e volto a chiarire tutti gli aspetti che hanno provocato la prematura scomparsa della quarantenne. La Procura di Modena, inoltre, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Intanto, la Procura di Modena ha disposto l’autopsia sul corpo di Laila El Harim che verrà effettuata nei prossimi giorni e aiuterà le autorità a comprendere in modo più accurato e preciso la dinamica degli eventi. Il macchinario nel quale la 40enne sarebbe rimasta fatalmente incastrata, invece, è stato posto sotto sequestro. In merito alla vicenda, l’Ispettorato nazionale del Lavoro ha redatto una prima relazione che è stata poi spedita al ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando. Secondo quanto riportato nella relazione, il macchinario era corredato di un doppio blocco di funzionamento meccanico “purtroppo azionabile, da parte dell’operatrice, soltanto manualmente e non automaticamente: ciò ha consentito un’operazione non sicura che ha cagionato la morte per schiacciamento”. Per rendere omaggio alla memoria di Laila El Harim, migliaia di lavoratori nel Modenese hanno deciso di scioperare, varando svariate iniziative che si protrarranno nel corso dei prossimi giorni. A questo proposito, è intervenuta anche la Cgil provinciale che ha ribadito come una simile mobilitazione voglia chiedere “con grande forza una sola cosa: basta parole, senza sicurezza non si lavora”. Il caso di Laila El Harim, inoltre, ricorda in modo impressionante la drammatica vicenda della 22enne Luana D’Orazio, prematuramente scomparsa a maggio 2021 dopo essere rimasta intrappolata in un orditoio.

Lodovico Poletto per "la Stampa" il 5 agosto 2021. Le lacrime del compagno di Laila e carte della procura. Piange Manuele Altiero, per se stesso e per Rania, la sua bimba rientrata l'altra notte dalle vacanze con i nonni. Racconta - Manuele - che lui e Laila, la mamma di Rania, volevano sposarsi. «Glielo avevo chiesto appena 15 giorni fa. Quindici. Sembrava tutto bello, tutto perfetto, tutto facile». Sembrava la vita che finalmente prende il verso giusto, che tutto diventa reale. Facile, appunto. Laila El Harim, 41 anni il 21 agosto, è morta l'altra mattina nell'azienda dove lavorava da un paio di mesi. E adesso devono parlare le carte. Che vanno oltre il dolore. Devono pronunciarsi i periti, i tecnici della procura e dell'Ispettorato del lavoro, i medici legali. Deve essere messo nero su bianco perché Laila è stata inghiottita e schiacciata dalla macchina fustellatrice. La procura ha acceso un faro. Ieri sono state sentite le prime persone: tra loro c'è il responsabile della produzione della «Bombonette» l'azienda della tragedia (80 operai nell'impianto di Camposanto, in provincia di Modena) fondata da Fiano Setti, oggi ultra ottantenne, diversi decenni fa. Fiano Setti non parla. E non parla nemmeno il figlio, Daniele. «Non abbiamo nulla da dire», ripetono le segretarie. Intanto, però, la magistratura ha aperto un fascicolo: articolo 589, omicidio colposo. E c'è un indagato. È il legale rappresentante della Bombonette. «Atto dovuto» dicono. Serve per compiere gli accertamenti irripetibili sul macchinario. Ecco, adesso bisogna ragionare proprio sulla macchina fustellatrice che ha rubato la vita a Laila. I tecnici dicono che disponeva soltanto di un blocco manuale. Che è costruita così. Ma questi sono soltanto gli esisti dei primi accertamenti. Dei controlli dell'altra mattina. Le verifiche vere vanno fatte con calma. E risolvere alcune questioni destinate a diventare il cardine dell'indagine. E sono tutte legate alla sicurezza. La prima delle quali è perché quella «pressa» che dà la forma ai cartoni grezzi, non dispone dispositivi automatici. Possibile? Oppure Laila stava lavorando ad un macchinario datato? La questione è così calda che interessa anche ai sindacati, perché il settore della lavorazione della carta e del cartone, da queste parti ha un peso economico importante. Ma neppure i pochi addetti della «Bombonette» iscritti al sindacato, per ora si sbilanciano. Restano i commenti delle operaie, l'altro pomeriggio: «Qui da noi non c'è una rappresentanza interna, perché nessuno si vuole esporre, nessuno ha intenzione di mettersi in gioco». Che cosa intende dire? «Nulla, ma qui da noi funziona così». Incidenti in quei capannoni? Mai. Tensioni con gli operai? Ancora meno. Agli atti non c'è un solo elemento che faccia pensare a un qualche problema in quella fabbrica. Non c'è una sola segnalazione che sia una per irregolarità di un qualunque tipo, arrivata negli uffici della Cgil di Modena. E allora per quale ragione Laila è stata «risucchiata» dal macchinario che poi l'ha stritolata? Dalla sua casa di Bastiglia, Manuele Altiero piange e insiste su una sola parola: «Verità! Chiedo soltanto quello: la verità qualunque essa sia. Io voglio capire che cosa è capitato alla donna della mia vita. Non accuso nessuno, ma pretendo delle risposte». Le prime arriveranno tra qualche giorno con le verifiche dell'autopsia. A che cosa serve? Ad esclude che l'operaia, che aveva appena iniziato il turno di lavoro, abbia avuto un malore mentre stava sistemando i cartoni per la piegatura. E capire la meccanica della sciagura. Il resto, poi, sarà chiarito dai controlli sulle specifiche tecniche della fustellatrice. E mentre la procura indaga nelle fabbriche del territorio si apre la porta della protesta. «Vogliamo più sicurezza sul lavoro», insistono le Rsa di decine di imprese che ieri hanno inviato ieri alla Camera del lavoro di Modena decine di risoluzioni e ordini del giorno sul tema. E oggi si sciopera. Gli operai incroceranno le braccia l'ultima ora di ogni turno. In prima fila ci sono gli addetti della ex Coop - che a Modena ha oltre mille addetti - e ci sono gli operai della Goldoni, l'azienda che produce trattori. Ma tutto il settore alimentare e cartotecnico è mobilitato. I sindacati della Panini hanno annunciato che si asterranno venerdì. Manuela Gozzi non ha dubbi: «Questa è una marea che monta e non si ferma. È il segnale che le persone sono stanche di vedere la sicurezza messa in secondo piano. Cosa li guida? La rabbia e la paura».

Tragedia a Modena: muore incastrata nel macchinario. Alessandro Imperiali il 3 Agosto 2021 su Il Giornale. Laila El Harim, donna di quarant'anni con origini marocchine, è morta nell'impresa Bombonette, in provincia di Modena. Secondo la prima ricostruzione la causa dovrebbe essere stata un macchinario. Muore ad appena quarant'anni a causa di un incidente sul lavoro, avvenuto in un'azienda in provincia di Modena, una donna di origine marocchine. Nonostante il tempestivo intervento dei vigili del fuoco e dei sanitari del 118 per la vittima non c'è stato nulla da fare. Laila El Harim, così si chiama la donna, questa mattina intorno alle 8:30, secondo la prima ricostruzione, sarebbe rimasta incastrata in una fustellatrice. Lavorava in un'impresa di nome Bombonette, in via Panaria a Camposanto. Si tratta di una ditta specializzata nella lavorazione della carta e packaging per pasticceria. Ad occuparsi del caso sono i carabinieri e la medicina del lavoro che dovranno dare una spiegazione alla figlia di quattro anni e al suo compagno. I carabinieri della compagnia di Carpi, convogliati nello scatolificio, dovranno appurare per prima cosa se siano state rispettate o meno tutte le normative in tema di sicurezza sul lavoro e in particolare se ci fossero tutte le protezioni previste. Non è esclusa la possibilità che la causa sia trattato un errore umano o un'anomalia del macchinario. Immediata è stata la nota di cordoglio della Cisl la quale, pur lasciando alle autorità il compito di scoprire le cause di quanto accaduto, si dice preoccupata per i numerosi incidenti che vedono coinvolte le operaie: "Sarà compito degli organi competenti accertare le cause e responsabilità dell'evento. Intanto non possiamo che sottolineare con preoccupazione il coinvolgimento sempre più frequente negli infortuni di lavoratrici alle prese con macchinari industriali che hanno ingranaggi in movimento", è quanto si legge nella comunicazione scritta da Domenico Chiatto, componente della segreteria Cisl Emilia Centrale con delega alla salute e sicurezza sul lavoro. Oltre poi al cordoglio ai familiari della vittima e ai suoi colleghi, non manca nel comunicato la critica al numero troppo basso degli ispettori del lavoro sul territorio: "È indispensabile rafforzare formazione e cultura della sicurezza, ma anche l'azione di controllo e vigilanza. A Modena non solo manca almeno il 30% degli ispettori del lavoro: sono pochi anche gli ispettori di Inps, Inail e Ausl, se si considera che devono controllare circa 58 mila aziende modenesi con almeno un addetto".

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la Laz

Aperto un fascicolo per omicidio colposo, c'è un indagato. Laila morta in fabbrica, aveva segnalato i guasti: sul suo cellulare le foto del macchinario che si incastrava. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Agosto 2021. Ogni volta che c’era un guasto, un intoppo, Laila El Harim lo segnalava. Quel pesante macchinario a cui lavorava non funzionava bene da un po’ e questo in azienda lo sapevano anche prima che l’operaia fosse stritolata dalla fustellatrice martedì mattina. Laila ogni volta che succedeva faceva le foto con il cellulare per spiegare ai tecnici e ai sui capi cosa c’era che non andava. Quegli scatti sono stati trovati nel suo cellulare, come riportato da Repubblica, e ne aveva parlato anche con il suo compagno Manuele Altiero quando la sera tornava a casa stanca e frustrata. “Se ne lamentava spesso – racconta a Repubblica l’uomo col quale lei aveva una bambina e si doveva sposare – Diceva che la fustellatrice si bloccava, che non andava. E spesso dovevano intervenire gli elettricisti”. Saranno i magistrati attraverso le perizie dei tecnici a stabilire se la morte della 41enne fosse collegata con quei guasti. Laila era una dipendente attenta e rigorosa. Annotava in un suo diario personale le sue giornate e c’erano anche riferimenti a quanto accadeva sul lavoro. Niente di specifico ma solo frasi tipo “oggi è andata così così”. Certo è che faceva bene il suo lavoro da 15 anni in quella stessa azienda che fabbrica imballaggi per dolci. Ora di quei guasti ricorrenti si dovrà occupare anche la Procura di Modena che ha già aperto un fascicolo per omicidio colposo nel quale è indagato il legale rappresentante della fabbrica. Intanto continuano le indagini per capire perché il sistema di sicurezza fosse attivabile solo manualmente. Della storia di Laila ha parlato anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando intervenuto durante il question time. “Tutti i controlli del mondo” non servirebbero “se fosse vero quello che emerge dalle prime indagini”, ha detto. Quindi: “Se una macchina durante il controllo risulta idonea, ma poi viene disattivato il suo dispositivo di sicurezza, tutto gli sforzi vengono vanificati”. Una frase significativa che spiega cosa sarebbe accaduto. Laila, di origine marocchina era in Italia da ormai una ventina d’anni e qui aveva costruito la propria famiglia. Risiedeva a Bastiglia, nel Modenese. Lascia il compagno e una figlia di appena 4 anni.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

 Lodovico Poletto per “La Stampa” il 7 agosto 2021. Adesso la questione è la macchina fustellatrice. Quante volte aveva dato problemi la «fustellatrice» che ha ucciso Laila El Harim, la mamma quarantenne morta stritolata da un macchinario utilizzato per piegare il cartone, martedì mattina? Secondo alcuni «non poche». E sarebbero tutte - o quasi tutte - documentate da fotografie e video trovati nella memoria del telefonino della donna. Lei, che al mattino verificava il funzionamento delle apparecchiature per piegare il cartone e trasformarlo in vassoi per dolci, avrebbe - in diverse occasioni - fotografato e filmato quelli che a suo giudizio erano dei malfunzionamenti. «Con l'intento di segnalare queste situazioni di potenziale pericolo» annuncia l'avvocato della famiglia della vittima, Dario Eugeni. E insiste: «Adesso sul quel materiale che abbiamo consegnato agli inquirenti deve pronunciarsi la Procura». Inevitabile, quindi che i reperti digitali entrino a pieno titolo nell'inchiesta e che siano visionati dai periti che dovranno stilare una relazione sulla fustellatrice che ha inghiottito ed ucciso Laila. Rispondendo alla questione principe dell'indagine: a che cosa erano dovuti i «malfunzionamenti» documentati dall'operaia? E c'è da chiarire anche un'altra questione: chi era a conoscenza di quei problemi? Un aspetto sul quale la procura di Modena intende fare luce rapidamente. Tanto che, da ieri, nel registro degli indagati è finito pure il delegato alla sicurezza della «Bombonette», azienda di Camposanto dove si è consumata la tragedia. Era stato informato di quel guaio? E se sì, che cosa aveva fatto per risolverlo? E i Fiano - i proprietari della Bombonette - sapevano? Claudio Piccaglia, il legale degli imprenditori, parla della fustellatrice che ha ucciso Laila el Harim come di una macchina «gemella di un'altra presente in azienda da tanto tempo. E che in tutti questi anni non ha mai dato alcun problema». Sul tavolo c'è anche la questione legata ai blocchi di sicurezza. Secondi i tecnici dell'ispettorato del lavoro che hanno eseguito le prime verifiche, la fustellatrice sarebbe dotata solo di sistema di sicurezza azionabile manuale. E martedì non era inserito. Le specifiche tecniche dell'impianto chiariranno gli eventuali dubbia anche su questo tema. «Io voglio soltanto sapere perché Laila è morta. Non penso di chiedere molto. Voglio solamente conoscere la verità, per me e per la nostra bambina, Rania» aveva detto qualche giorno fa il compagno di Laila, Manuele Altiero. E aveva raccontato che sì, «lei era ultra felice di aver finalmente trovato un nuovo posto di lavoro. L'avevano assunta da pochi mesi e si era subito trovata benissimo». Problemi in azienda legati alla sicurezza? Di questo a Manuele non aveva parlato.

Indagato il legale rappresentante dell'azienda. “A nostra figlia ho detto che mamma è in cielo”, il dolore del compagno di Laila El Harim, 41enne morta in fabbrica. Vito Califano su Il Riformista il 5 Agosto 2021. Hanno avvisato Manuele Altiero della morte della compagna Laila El Harim, nella fabbrica dove lavorava a Composanto, in provincia di Modena – trascinata e schiacciata da una fustellatrice, macchinario per sagomare il materiale da imballaggio – pochi minuti dopo l’incidente mortale. “Mi ha avvertito alle 9 di mattina, con una telefonata, un mio ex datore di lavoro, socio dell’impresa dove circa un paio di mesi fa era stata assunta la mia compagna. Non è riuscito a dirmelo chiaramente: ‘Laila ha avuto un brutto infortunio, corri qui…’. Non ha aggiunto altro. Ma io ho capito tutto”, ha raccontato in un’intervista a Il Corriere della Sera il 39enne. La coppia aveva avuto una figlia, Rania, di cinque anni. “Consigliato da una psicologa del Comune di Bastiglia, dove vivo, le ho detto cosa fosse successo, senza girarci attorno: ‘Mamma purtroppo ha preso una botta forte, è andata in cielo’. Rania mi ha guardato e sì, certo, ha capito. Poi mi ha abbracciato stretto, a lungo”. La coppia si era conosciuta l’1 luglio 2001, sul posto di lavoro. Si erano fidanzati e pensavano di sposarsi il prossimo giugno, in Puglia. La vittima aveva origini marocchine ma era in Italia da circa vent’anni. Laila aveva cambiato ditta da poco, da circa due mesi, lavorava alla Bombette. I proprietari l’avevano voluta proprio per la sua professionalità con la fustellatrice. “Però le macchine devono funzionare come si deve: io capisco che si debba fare qualcosa in più… Ma la sicurezza viene prima – dice l’uomo – Ogni giorno attorno a quella fustellatrice c’era un elettricista, c’erano dei problemi. Laila, inoltre, doveva occuparsi dell’avviamento su tutte le apparecchiature, istruendo anche un apprendista. Che martedì purtroppo era assente perché è andato a vaccinarsi. Se ci fosse stato, chissà, forse non sarebbe successo…”. L’uomo pretende verità e chiarezza sulla morte della compagna. La Procura di Modena, a quanto scritto stamane da diversi media, avrebbe iscritto nel registro degli indagati il legale rappresentante dell’azienda. Un atto dovuto per chiarire la dinamica della tragedia. Sul corpo della 41enne sarà eseguita l’autopsia. Sotto sequestro il macchinario. Secondo le prime informazioni, la fustellatrice a cui lavorava Laila era provvista di un doppio blocco di funzionamento meccanico, ma purtroppo azionabile, da parte dell’operatrice, soltanto manualmente e non automaticamente. Nei primi sei mesi di quest’anno l’Inail ha registrato 538 morti bianche, 3 al giorno. Sono state 1.538 le vittime in tutto alla fine del 2020.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da tgcom24.mediaset.it il 10 agosto 2021. Laila El Harim, la 40enne morta il 3 agosto a causa di un incidente sul lavoro nell'azienda "Bombonette" di Camposanto (Modena), non era stata formata all'utilizzo del macchinario nel quale è rimasta incastrata e uccisa. E' questa una delle conclusioni cui sarebbe arrivata l'indagine della procura di Modena. Due gli iscritti nel registro degli indagati: il legale rappresentante e il responsabile alla sicurezza dell'azienda. A indicarlo sono alcune indiscrezioni che vengono riferite dall'agenzia Ansa sul tragico incidente avvenuto il 3 agosto. Il funerale dell'operaia si terrà nel pomeriggio a Massa Finalese. Lutto al Comune di Bastiglia - Ha proclamato il lutto cittadino il Comune di Bastiglia, in cui la donna viveva con il compagno e con la figlia di quattro anni. "Per l'intera giornata - scrive in una nota l'amministrazione - saranno esposte le bandiere a mezz'asta nella sede comunale e verranno sospese le manifestazioni pubbliche in segno di cordoglio per la prematura morte della concittadina e di vicinanza con i familiari". Il sindaco Francesco Silvestri aggiunge: "Intendiamo mandare un messaggio ai suoi cari, dire loro che non sono soli e metterci a disposizione per quanto ci sarà possibile per aiutarli a superare questo difficile momento".

Valeria D'autilia per "la Stampa" il 10 agosto 2021. Due morti sul lavoro in poche ore. Uno precipitato in un dirupo in Lombardia, l'altro schiacciato da una lastra di calcestruzzo di oltre 10 quintali in Puglia. «È insostenibile per un paese civile dover fare i conti ogni giorno con uomini e donne che escono di casa per andare a lavorare e garantirsi un reddito per vivere, e che trovano invece la morte» tuona la Cgil. L'ultima vittima, in ordine di tempo, è Alessandro Rosciano, operaio di 47 anni di Manfredonia, in provincia di Foggia. Con la ditta presso cui era regolarmente assunto, ieri stava lavorando in un cantiere nella vicina San Giovanni Rotondo, in località Le Matine, per conto di un consorzio di bonifica: era impegnato nella realizzazione di alcune strutture di canalizzazione e raccolta dell'acqua piovana. Ma è rimasto schiacciato dal pesante carico: pannelli alti tre metri e larghi due. Stando ad una prima ricostruzione, la lastra sarebbe caduta proprio mentre si stavano svolgendo le operazioni di scarico da un camion, travolgendo l'uomo. Con lui c'erano altri colleghi, ma qualsiasi tentativo di aiutarlo è stato inutile. È morto sul colpo. Sul posto i soccorritori del 118, lo Spesal - il servizio prevenzione infortuni sui luoghi di lavoro - e i carabinieri che hanno avviato le indagini. E ora si cerca di capire come mai una delle lastre si sia ribaltata. Gli investigatori, al momento, non escludono nessuna ipotesi. Fondamentale sarà il racconto dei testimoni, dal momento che la zona è sprovvista di telecamere di sicurezza. Da verificare, in particolare, se Rosciano indossasse i dispositivi di sicurezza. La procura di Foggia ha aperto un'inchiesta a carico di ignoti e disposto il sequestro dell'intera area. Dalla Cigl Puglia immediato il commento su quanto accaduto: «Solo qualche giorno fa - dicono il segretario regionale Pino Gesmundo e della camera del Lavoro di Foggia Maurizio Carmeno - lanciavamo l'allarme sulla sicurezza. Un'emergenza seria che si evinceva dai dati sugli infortuni nei primi sei mesi dell'anno: 41 morti e quarta regione in Italia per incidenza su numero occupati». Per il sindacato servono formazione e investimenti negli organismi ispettivi e un collegamento tra le banche dati di Inps e Inail. Un messaggio di cordoglio per la tragica fine dell'operaio è arrivato dai suoi amici e colleghi dell'associazione Ornicoltori di Capitanata Federico II. Era infatti un esperto negli allevamenti di uccellini, conosciuto tra gli addetti ai lavori in tutta Europa, vincitore di premi a mostre internazionali. «Il presidente, il consiglio direttivo, i revisori dei conti e tutti i soci, ancora increduli, si associano al dolore che ha colpito la famiglia Rosciano». Così si legge sulla pagina Facebook. Il 47enne non era sposato e non aveva figli. Aveva solo diciotto anni Dalla Puglia alla Lombardia dove, soltanto il giorno prima, era morta una giovanissima guardia venatoria. Anche per lui una grande passione per la natura. Simone Valli era della provincia di Sondrio e aveva 18 anni. Era stato assunto di recente. La sua vita si è interrotta in un precipizio in Valtellina a oltre duemila metri di quota mentre era in perlustrazione nella riserva naturalistica di Valbelviso. Probabilmente a causare il tragico epilogo è stato il terreno reso scivoloso dalla pioggia. Il guardacaccia aveva iniziato quel lavoro che tanto lo affascinava solo da poche settimane. Ma l'uscita nei boschi gli è stata fatale: troppo gravi le lesioni della caduta.

Edoardo Izzo per "la Stampa" il 10 agosto 2021. Domenica l'Italia si era addormentata con ancora nelle orecchie le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione del 65° anniversario della tragedia di Marcinelle e della Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo: «L'Europa ha appreso l'importante lezione di dover porre diritti e tutele al centro del processo di integrazione continentale». Ieri ci siamo svegliati scoprendo ancora una volta che in Italia di lavoro si continua tutti i giorni a morire. Ancora due nomi aggiunti alla lista infinita delle morti bianche nel nostro Paese: un operaio di 47 anni schiacciato da una lastra di calcestruzzo in un cantiere a San Giovanni Rotondo e un guardacaccia 18enne, che aveva coronato il suo sogno di lavorare a contatto con la natura, precipitato in un dirupo dopo essere stato assunto da pochi giorni all'oasi naturalistica di Valbelviso (Teglio, Sondrio). La conta delle vittime non si esaurisce neanche nel mezzo della pandemia, che di lavoro ne ha tolto tanto. L'ultima istantanea 2021 l'ha scattata l'Inail con gli open data su infortuni e malattie professionali pubblicati a fine luglio: le denunce di infortunio presentate tra gennaio e giugno sono state 266.804 (+8,9% rispetto allo stesso periodo del 2020), 538 delle quali con esito mortale (-5,6%). In particolare, le denunce di infortunio sul lavoro presentate all'Inail entro lo scorso mese di giugno sono state quasi 22 mila in più (+8,9%) rispetto alle 244.896 dei primi sei mesi del 2020. Le denunce di casi mortali presentate nello stesso periodo sono state 538, ovvero 32 in meno rispetto alle 570 registrate nei primi sei mesi del 2020 (-5,6%). In aumento del 41,9%, invece, le patologie di origine professionale denunciate. Dall'analisi territoriale emerge un aumento nel Sud (da 115 a 157), nel Nord-Est (da 107 a 118 casi mortali) e nel Centro (da 101 a 102). Il numero dei decessi, invece, è in calo nel Nord-Ovest (da 213 a 128) e nelle Isole (da 34 a 33). Il confronto tra il 2020 e il 2021 richiede però cautela, sottolinea l'Inail: «I dati delle denunce mortali sono provvisori e influenzati fortemente dalla pandemia da Covid-19, con il risultato di non conteggiare un rilevante numero di "tardive" denunce mortali da contagio, in particolare relative al mese di marzo 2020». Il calo - dicono ancora le statistiche - riguarda le denunce dei lavoratori italiani (da 485 a 463) e comunitari (da 32 a 18), mentre quelle dei lavoratori extracomunitari passano da 53 a 57. Dall'analisi per classi di età si segnalano incrementi per le classi 20-29 anni (sei decessi in più) e 40-54 anni (+28 casi), e decrementi in quelle 30-39 anni (-7 casi) e over 55 (-59 decessi, da 307 a 248 casi). In calo sia i decessi di lavoratori uomini (da 510 a 487 casi, -4,5%) che donne (da 60 a 51, -15,0%). Ad arricchire l'orribile censimento per il prossimo semestre i due decessi di ieri. Oggi ci saranno i funerali di Laila El Harim, l'operaia 40enne morta incastrata a Modena in un macchinario killer, come era capitato a Luana d'Orazio tre mesi fa.

Incidente a Empoli, operaio edile 34enne cade da una finestra al secondo piano: morto sul colpo. Ilaria Minucci il 12/08/2021 su Notizie.it. Incidente a Empoli, un operaio edile albanese di 34 anni è caduto da una finestra al secondo piano mentre stava svolgendo dei lavori ed è morto sul colpo. Nel pomeriggio di mercoledì 11 agosto, un operaio albanese di 34 anni è deceduto a causa di un fatale incidente avvenuto sul lavoro. L’uomo stava svolgendo alcuni lavori edili presso una struttura condominiale situata a Empoli, comune in provincia di Firenze, in Toscana, quando è improvvisamente caduto da una finestra posizionata al secondo piano della palazzina. In seguito al drammatico evento, i sanitari e le forze dell’ordine sono stati immediatamente allertati. Sul luogo del sinistro, infatti, si sono subito recati i paramedici del 118 che, tuttavia, non hanno potuto prestare soccorso al giovane uomo, morto sul colpo a causa del violento impatto con l’asfalto. Poco dopo aver decretato il decesso del lavoratore, le autorità competenti hanno decretato il trasferimento del corpo della vittima presso l’istituto di Medicina legale di Careggi, altro comune in provincia di Firenze. Il trasferimento è stato disposto al fine di consentire al medico legale di condurre l’autopsia sulle spoglie del 34enne e appurare, in questo modo, le cause della sua prematura scomparsa. Il corpo, dunque, è attualmente a disposizione della procura. Le forze dell’ordine, intanto, si stanno occupando di effettuare i rilievi necessari, raccogliere testimonianze e indagare sulla vicenda. In particolare, la polizia sta tentando di scoprire se fossero presenti altre persone insieme all’operaio al momento della tragedia. Inoltre, i militari stanno anche verificando se il lavoratore fosse stato assunto in modo regolare o meno.

Il luogo dell’incidente, infine, è stato raggiunto anche da alcuni ispettori dell’Asl di competenza, incaricati di svolgere controlli e sopralluoghi. In Italia, le persone che perdono quotidianamente la vita sul lavoro continuano a essere numerose. Sulla base dei dati forniti dall’Inail, tra il mese di gennaio e il mese di giugno 2021, sono morti 538 lavoratori mentre le denunce presentate sono state, in totale, 266.804. A questo proposito, è intervenuto il presidente dell’Inail, Franco Bettoni, che ha dichiarato: “È indecoroso quello che succede. Non si può continuare a morire sul lavoro”. Intanto, i sindacati criticano le violazioni costantemente attuate in spregio alla normativa sulla sicurezza da parte delle imprese e chiedono l’introduzione di una “patente a punti affinché le aziende dove ci sono troppi incidenti non continuino a partecipare alle gare”. Per il segretario generale della GCIL, Maurizio Landini, invece, è necessario “non considerare la salute e la sicurezza sul lavoro un costo ma un investimento e bisogna agire sulla prevenzione. Questo significa ridurre la precarietà, formare i lavoratori e anche a chi deve dirigere le imprese. È il momento di fare investimenti seri”. Per il sindacalista UIL Pierpaolo Bombardieri, urge l’istituzione di una “cabina di regia a Palazzo Chigi”. Infine, per Luigi Sbarra della CISL, occorrono “interventi urgenti per intensificare i controlli e sanzionare pesantemente le aziende che non rispettano le norme su sicurezza e tutela della vita”.

Agricoltore di 30 anni morto a Paternò: travolto dal trattore mentre cercava di spegnere l’incendio. Debora Faravelli il 12/08/2021 su Notizie.it. Un agricoltore di 30 anni che stava trasportando acqua sul suo trattore per domare un incendio è morto: il mezzo lo ha travolto all'altezza di Paternò. Tragedia a Paternò, dove un agricoltore di 30 anni è morto dopo essere stato travolto dal suo trattore. Il mezzo stava trasportando un voluminoso serbatoio d’acqua di mille litri, probabilmente per spegnere un incendio che stava interessando l’area. I fatti sono avvenuti intorno alle 15:30 nell’area di Ponte Barca. Secondo le prime ricostruzioni il giovane agricoltore stava trasportando una botte piena d’acqua sul suo trattore, forse per domare un incendio divampato nell’area che nelle ultime settimane sta facendo i conti con diversi roghi. All’improvviso, all’altezza di una curva lungo la Strata Provinciale 58, la tanica si sarebbe capovolta facendo ribaltare anche il trattore. Ignazio di Stefano, questo il nome della vittima, è dunque rimasto schiacciato sotto il pesante carico ed è morto sul colpo. I sanitari del 118, giunti subito sul posto, non hanno infatti potuto far altro che constatare il suo decesso: troppo gravi i traumi riportati durante l’impatto al suolo. Presenti sul luogo dell’incidente anche i Carabinieri della compagnia di Paternò competenti per territorio che hanno effettuato i rilievi utili a ricostruire la dinamica dell’accaduto. Il pm di turno non ha disposto l’autopsia e la salma è stata consegnata ai familiari.

Alessandro Di Matteo per "La Stampa" il 12 agosto 2021. Un altro morto sul lavoro, altri feriti, nonostante la riduzione delle attività dovuta alle vacanze estive. Anche ieri un operaio ha perso la vita, un lavoratore edile albanese precipitato da una finestra ad Empoli. I soccorritori del 118 hanno solo potuto constatare la morte dell'uomo. Una situazione allarmante, come spiega il nuovo capo dell'Ispettorato del nazionale lavoro Bruno Giordano, in un colloquio con l'agenzia Ansa: nelle decine di controlli degli ultimi giorni a Prato e Milano sono state riscontrate irregolarità addirittura nel 100% dei casi, spiega. E, sottolinea, le inadempienze e il lavoro nero sono particolarmente diffusi «nelle zone a più alta attività del centro e del nord e non nelle aree depresse del sud». In generale, il fenomeno è particolarmente diffuso nelle Pmi che sono quasi il 90% del tessuto produttivo italiano. Nel 2020, il 79,3% delle aziende controllate è risultato irregolare. Ovviamente bisogna poi distinguere da caso a caso, dall'Ispettorato viene sottolineato che nel milanese sono stati controllati 205 lavoratori del settore logistico, tra i quali 106 cittadini italiani, 16 cittadini comunitari e 83 provenienti da Paesi extra europei. In tutto, solo tre sono risultati in nero, anche se sono state trovate irregolarità in tutte le diciotto imprese passate sotto esame. Un'operazione, viene spiegato, condotta nell'ambito del progetto di vigilanza "Alt Caporalato", che ha interessato per due settimane il settore merceologico della logistica. «Al termine degli accertamenti - precisa l'Ispettorato - sarà possibile verificare l'emergere di ulteriori ipotesi di irregolarità, in particolare in materia di appalto illecito-somministrazione irregolare, di orario di lavoro oltre che di infedeli registrazioni sui prospetti di paga». Più grave la situazione nella zona di Prato. In questo caso i controlli sono andati avanti per sei settimane e hanno riguardato 64 aziende manifatturiere, «risultate tutte irregolari». In particolare, «nel corso degli accertamenti sono state controllate le posizioni lavorative di 570 lavoratori, di cui 394 provenienti da Paesi extra Ue» e «per 250 lavoratori, sono stati riscontrati illeciti per lavoro "in nero", violazioni in materia di orario di lavoro e di sicurezza nel luogo di lavoro». Inoltre, «per quattro imprenditori è scattato l'arresto in flagranza per l'impiego di lavoratori privi di permesso di soggiorno». Ma «oltre alle sanzioni irrogate, nell'immediatezza degli accessi sono stati emanati 32 provvedimenti di sospensione dell'attività di altrettante aziende per la presenza accertata di 161 lavoratori completamente "in nero", tra cui 40 operai provenienti da Paesi extra Ue privi di permesso di soggiorno per motivi di lavoro». Peraltro, viene sottolineato, «al termine degli accertamenti attualmente in corso, sarà possibile verificare l'emergere di ulteriori ipotesi di irregolarità, in particolare di possibili vittime di sfruttamento». L'elenco degli incidenti di ieri non si limita a quello mortale di Empoli. A Castellamonte, nel torinese, è rimasto ferito in modo grave il titolare di un'azienda di marmi e graniti, Giuseppe Tomaino, 67 anni. L'uomo è rimasto schiacciato da una colonna di granito caduta accidentalmente. I dipendenti hanno chiamato immediatamente i soccorsi e ora Tomaino è ricoverato al Cto di Torino in condizioni che vengono definite serie, anche se non è in pericolo di vita. Un altro episodio si è verificato ieri a Fiorano, nel modenese, dove il dipendente di una ditta di impianti è stato colpito da una scarica elettrica mentre lavorava in un'azienda di ceramica. Anche in questo caso ha riportato conseguenze serie ma per fortuna non fatali: l'uomo è ricoverato in prognosi riservata. Sul tema, scottante, si fa sentire la politica. Il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani dice che «il 2021 si sta rivelando un anno nero per le morti sul lavoro». Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana, parla di «strage senza fine». 

OSPEDALE SAN CATALDO TARANTO: LE BUGIE DEL SINDACATO HANNO LE GAMBE CORTE…Il Corriere del Giorno il 24 Giugno 2021. La verità è che il lavoratore ricoverato e intubato, e fortunatamente ormai fuori pericolo, ha accusato un malore fuori dal cantiere e non durante le sue ore di lavoro bensì quando è rientrato nella propria abitazione. Inoltre nel cantiere di costruzione del nuovo Ospedale San Cataldo di Taranto non ci sono stati quattro casi analoghi. Con un comunicato stampa la CISL a Taranto ieri, attraverso un comunicato stampa con foto accompagnatoria, (ricerca di visibilità?) di tal Silvio Gullì, segretario generale Filca Cisl Taranto-Brindisi, pur di dare segnali di vita ed attività sindacale, ha tratto in inganno i giornalisti pugliesi nel riempire le pagine dei siti internet dei vari organi d’informazione con informazioni non verificate, e di fatto contrarie al vero. “Un operaio in coma e altri tre collassati: è accaduto qualche giorno fa nel cantiere dell’ospedale San Cataldo a Taranto, dove il gran caldo e i ritmi di lavoro inaccettabili hanno rischiato di provocare una vera tragedia”. Peccato però che quanto rivelato dai sindacalisti in realtà è una vera e propria “fake news”. Secondo il sindacalista si tratta di una “situazione assurda e pericolosa provocata da un lato dalle temperature elevatissime e dall’altissimo grado di umidità, dall’altro dallo stress al quale sono sottoposti i lavoratori, visti i tempi di consegna brevissimi e la complessità dell’opera. Ma lavorare dalle 7 alle 16.30 in queste condizioni è davvero impossibile, ne va della incolumità dei lavoratori. E per giunta parliamo di un cantiere pubblico”. Peccato che sul cantiere lavorino quotidianamente oltre 150 operai, e nessuno si è mai lamentato con le imprese del consorzio guidato dalla Debar di Bari. Il consorzio con una nota diffusa nel tardo pomeriggio di ieri ha precisato che “nel cantiere di Taranto vengono rispettati i turni previsti dal contratto di lavoro e, in presenza di particolari condizioni climatiche, rimodulando le attività secondo le prescrizioni del medico competente e del responsabile della sicurezza”. La verità è che il lavoratore ricoverato e intubato, e fortunatamente ormai fuori pericolo, ha accusato un malore fuori dal cantiere e non durante le sue ore di lavoro bensì quando è rientrato nella propria abitazione. Inoltre nel cantiere di costruzione del nuovo Ospedale San Cataldo di Taranto non ci sono stati quattro casi analoghi. L’unico episodio di lieve malore in cantiere si è verificato nella giornata di ieri per un “colpo di calore” che è stato immediatamente trattato e prontamente risolto senza conseguenze. Il Raggruppamento temporaneo d’imprese, capeggiato dalla Debar Costruzioni, titolare dell’appalto per la realizzazione del nuovo ospedale, ha dichiarato che “continueremo a seguire tutti i nostri dipendenti sino alla completa guarigione, fornendo ogni assistenza utile, com’è nostro dovere, e adeguando le lavorazioni in corso alla primaria esigenza di tutela dell’integrità e della salute delle nostre maestranze”.

Troppe ore nei campi a 40 gradi: muore di caldo e fatica il bracciante Camara Fantamadi. Luca Sebastiani su L'Espresso il 25 giugno 2021. Di ritorno dopo una giornata di lavoro, per sei euro all’ora, l‘uomo si è accasciato a terra esanime nel Brindisino. Lo stesso giorno un 35enne si è sentito male ed è deceduto mentre volantinava sotto al sole. Vittime dell’afa e delle condizioni di lavoro. Era stato per ore a lavorare nei campi, sotto il sole cocente e con temperature che hanno raggiunto i 40° gradi. Accaldato, aveva chiesto che gli venisse buttata dell’acqua sulla faccia e sulla testa, ma nessuno si era preoccupato più di tanto. Poi, finito il turno, il 27enne Camara Fantamadi ha inforcato la bicicletta per tornare dal fratello, ma non ci è arrivato. Sulla provinciale tra il quartiere La Rosa di Brindisi e la frazione di Tuturano, a un certo punto si è accostato sul ciglio della strada, è sceso dalla bici e si è accasciato sull’asfalto, colto da un malore. Forse un infarto. L’allarme e la richiesta di aiuto al 118 è stata lanciata da un automobilista, che ha visto il giovane per terra. Purtroppo, però, non c’è stato nulla da fare per i sanitari né per la polizia municipale giunta sul luogo, se non constatarne il decesso. È successo il 24 giugno e non si sa ancora quale sia stata la causa del mancamento, ma si teme possa essere la conseguenza delle condizioni di lavoro proibitive. Il pubblico ministero Giovanni Marino ha disposto la restituzione della salma ai familiari, cioè al fratello, mentre è partita una colletta tra colleghi, amici e membri della comunità africana del posto per riportarlo nel suo paese d’origine, il Mali. Fantamadi era residente a Eboli e da pochi giorni era arrivato in Puglia, per stare con il fratello e per lavorare come bracciante nei campi, con una paga di sei euro all’ora. Sempre nella giornata di ieri, 24 giugno, un’altra tragedia è avvenuta in Puglia. Il 35enne Antonio Valente stava distribuendo dei volantini a Galatina, in provincia di Lecce, quando si è sentito male. I soccorsi e il trasporto in ospedale sono stati vani, per via, a quanto sembra, di una possibile emorragia cerebrale dovuta alla prolungata esposizione al sole. Solo pochi giorni fa, il 23 giugno, era avvenuto un altro incidente simile, questa volta a San Zenone, una frazione di Minerbe in provincia di Verona. Un bracciante 45enne si è sentito male nei campi per un colpo di calore. In quel caso, però, i soccorsi lo hanno trasportato in codice rosso all’ospedale di Legnago, dove si è ripreso. Proprio il 22 giugno, il sindaco di Nardò (provincia di Lecce) Pippi Mellone, ha firmato un’ordinanza che vieta il lavoro dei braccianti agricoli sul territorio del comune nelle ore più calde, dalle 12.30 alle 16, nei giorni “a rischio alto”. Una decisione nata dopo la morte di un immigrato nel 2015 e rinnovata anche quest’anno per tutelare la salute di coloro che si trovano a guadagnarsi da vivere in condizioni precarie. Intanto, però, in Italia provvedimenti nazionali simili non ce ne sono e l’estate è appena iniziata.

Caldo, a Brindisi 27enne maliano muore tornando a casa in bici: era stato molte ore nei campi. Si sta verificando se il malore possa essere la conseguenza della fatica e del forte caldo di oggi nel Brindisino dove le temperature hanno superato i 40 gradi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Giugno 2021. Un ragazzo di 27 anni originario del Mali, Camara Fantamadi, residente a Eboli, è morto in seguito a un malore questo pomeriggio intorno alle 18, mentre percorreva in bicicletta la strada provinciale che collega Tuturano a Brindisi. A quanto ricostruito il giovane aveva lavorato nei campi per molte ore. Si sta verificando se il malore possa essere la conseguenza della fatica e del forte caldo di oggi nel Brindisino dove le temperature hanno superato i 40 gradi. Sul posto sono intervenuti gli agenti della polizia locale che hanno avvertito il magistrato di turno presso la Procura di Brindisi, Giovanni Marino. Il pm ha disposto la restituzione della salma ai familiari. Da quanto accertato il 27enne si trovava in Puglia da tre giorni proprio per motivi di lavoro, proprio a Brindisi risiede un fratello che è stato subito avvertito. I soccorsi sono stati chiamati da un passante che ha visto il ragazzo accasciarsi a bordo strada. Taranto, malori tra gli edili nel cantiere dell'ospedale San Cataldo - L'azienda: «Un solo colpo di calore, situazione sotto controllo»

Valeria D'Autilia per la Stampa il 26 giugno 2021. «Mi stendo qui, voglio riposarmi prima di prendere la strada verso casa». La fatica di quelle ore sotto il sole è nelle ultime parole di Camara Fantamadi. Zappava la terra da tre giorni, al quarto non è mai arrivato. Le prime avvisaglie mentre era al lavoro, nei campi del brindisino. «Mi ha detto che aveva dei giramenti e di buttargli un po' d'acqua sulla testa» racconta chi era con lui. «Poi si è steso, ma io gli ho consigliato di rientrare perché il tragitto era lungo». Allora Camara ha preso la sua bicicletta e ha cominciato a pedalare. A 27 anni senti che puoi farcela. Soprattutto se non hai alternative. Stanco, ma felice di quei pochi euro racimolati. Del resto, era arrivato in Puglia proprio per lavorare come bracciante stagionale. E, tre anni prima, aveva raggiunto l'Italia su un barcone ricolmo di uomini e speranza. Ma la sua vita si è interrotta in un pomeriggio di giugno, in quei 10 chilometri che lo separavano da Tuturano. Tanti, se li attraversi in bicicletta nel giorno in cui il termometro schizza e supera i 40 gradi. Tanti, ancor più, se sei stremato dalla terra che doveva sfamarti. «Zappare è la cosa più pesante. L'ho fatto anch'io, ci vuole tanta forza. E lui non aveva neppure un contratto». Drissa Kone è il presidente della comunità africana di Brindisi e provincia che lui stesso ha fondato. Oggi sono in duemila. Conosce da tempo anche Abdullah, il fratello di Camara, anche lui bracciante. «Gli aveva detto di venire qui perché voleva tenerlo vicino». Camara era appena arrivato da Napoli. Da soli tre giorni si era ricongiunto con il fratello, sbarcato in Italia anni prima. «Adesso è sotto choc, non parla. Continua a ripetere che Camara non aveva problemi di salute». A ricostruire gli ultimi istanti, anche un altro connazionale che era lì. Scherzavano, ironizzando persino sulla loro etnia. Provavano ad alleviare il peso della fatica con un sorriso. Poi era arrivato il momento di tornare a casa. Si erano salutati. Loro su un motorino, Camara in bici. A metà strada è sceso, si è fermato vicino a un muretto e ha perso i sensi. Un automobilista si è accorto del giovane riverso a terra, ma ogni soccorso è stato inutile. Quel malore gli è stato fatale. E adesso è in corso un'indagine della magistratura. I testimoni parlano di poco più di 20 euro per 4 ore di lavoro. Per la Flai Cgil sono molte di più. «Nessuno va in campagna di pomeriggio per finire alle 17. Sicuramente avrà iniziato all' alba. Ancora una volta parliamo di 10-12 ore, nel caldo torrido, per una paga misera» dice Gabrio Toraldo che si chiede «perché non sia stata fatta un' autopsia». Poi il ricordo va a Paola Clemente, morta di fatica sotto un tendone di uva nel 2015 nei vigneti di Andria. «Per 2 euro l'ora». Storie che s'intrecciano nel sommerso di uno sfruttamento spesso con i connotati della legalità. «Molte volte sono costretti a restituire una parte del salario. Altrimenti non verranno richiamati». Il ricatto non è solo quello dei caporali, ma anche di aziende in apparenza in regola. Intanto con un'ordinanza il sindaco di Brindisi ha vietato il lavoro agricolo dalle 12 alle 16 sino a fine agosto, nei giorni indicati a rischio dall'Inail. Stesso provvedimento anche in altri comuni pugliesi. Nel brindisino, la maggior parte dei braccianti è italiana. «Mentre gli immigrati fanno i lavori più pesanti e meno specializzati» spiega Antonio Ligorio della Flai regionale. Negli elenchi anagrafici, ne risultano 26mila in totale. Si coltiva in base al periodo, in estate la manovalanza arriva anche da altre regioni per la raccolta di pomodori, angurie e olive. «Al contrario del foggiano, qui per il momento non ci sono ghetti». Molti invisibili dormono nei casolari e in sistemazioni di fortuna. Poi raggiungono i campi. Per molti la sensazione è che il Paese che li ha accolti sia fatto così, «che lo sfruttamento faccia parte della legge italiana» dice Drissa che ha creato uno sportello informativo di supporto. I controlli non bastano, non basta neppure avere un contratto. «Quando arrivano i carabinieri, queste persone risultano spesso ingaggiate, ma bisognerebbe verificare quante giornate ha effettivamente versato il loro titolare». Il gioco sta anche qui, sulla pelle di questa umanità «che soffre in silenzio e si sente impotente». Ma ora è il momento di accompagnare Abdullah all'agenzia funebre. Per il rimpatrio della salma in Mali servono 4mila euro. La comunità africana ha avviato una colletta. Camara deve tornare nel suo Paese, dai suoi genitori. 

Piacenza, incidente sul lavoro: a 26 anni impigliata nel macchinario agricolo, gravissima. Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Una ragazza di 26 anni è rimasta gravemente ferita in un'azienda agricola nel comune di Calendasco, in località Boscone Cusani, in provincia di Piacenza. Era al lavoro in un campo e pare stesse attingendo acqua da irrigazione da un pozzo attraverso una pompa quando, rimasta impigliata per i capelli nel meccanismo, ha battuto violentemente la testa. Soccorsa dal 118, è stata trasportata d'urgenza con l'eliambulanza all'ospedale di Parma. La prognosi è riservata. Per cause da accertare, intorno alle 8, la ragazza è rimasta impigliata per i capelli ad un cardano, strumento utilizzato per la trasmissione meccanica, in questo caso utilizzata per attivare le operazioni di irrigazione. Gli uomini del 118 di Castel San Giovanni hanno prestato le prime cure sul posto dove è giunta anche una squadra dei vigili del fuoco, dopodiché la giovane è stata trasportata in elicottero all’Ospedale Maggiore di Parma dove sarà ricoverata nel reparto di rianimazione. Le sue condizioni sono molto serie. Sul posto per gli accertamenti i carabinieri. Un altro incidente sul lavoro si è verificato sempre in mattinata, oggi lunedì 14 giugno, a Palermo: una architetto della Soprintendenza, durante un sopralluogo, è finita dentro una voragine di 10 metri nel cantiere dello Iacp dove si stanno realizzando 15 case popolari. La donna è stata soccorsa e recuperata dai pompieri, poi affidata alle cure del 118. Quindi trasportata in codice rosso al pronto soccorso dell'ospedale Civico. Nella caduta si sarebbe provocata diverse fratture ed escoriazioni. Qualche tempo fa a Prato fece clamore la morte dell'operaia Luana D'Orazio rimasta impigliata con i capelli anche lei in un macchinario di lavoro.

Floriana Rullo per torino.corriere.it il 4 giugno 2021. Due operai sono morti dopo essere caduti dentro una cisterna, profonda alcuni metri, nell’azienda vinicola Fratelli Martini di Cossano Belbo, in provincia di Cuneo. L’incidente sul lavoro nel pomeriggio di oggi, 4 giugno. I due addetti sono stati estratti incoscienti dai soccorritori, che hanno tentato di rianimarli per venti minuti, ma invano. Oltre all’elisoccorso sono intervenuti i vigili del fuoco di Alba e Santo Sefano Belbo, insieme ai carabinieri. Da gennaio a aprile del 2021 sono stati 306 i morti sul lavoro in Italia. Secondo le prime informazioni fornite dal 118, i due operai morti sono Gerardo Lovisi, 45 anni, e Gianni Messa, di 58. Sono in corso gli accertamenti delle forze dell’ordine, intervenute sul posto, per stabilire quando accaduto. L’incidente si è verificato nel cuore delle Langhe cuneesi, in una storica azienda vitivinicola, fondata nel 1947 e famosa nel mondo.

(ANSA il 4 giugno 2021) Un uomo è morto, questa mattina, in un cantiere a Leffe, in provincia di Bergamo. La vittima è un 59enne, B.B. che intorno alle 7.45 è stato travolto mentre lavorava alla 'Plastic Leffe', in via Pezzoli D'Albertoni. L'operaio ha riportato un gravissimo trauma da schiacciamento, e i soccorritori del 118 non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Sul posto anche i carabinieri per le indagini.

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 4 giugno 2021. Pomeriggio di sangue ieri a Fiorenzuola d' Arda, in uno dei tratti autostradali più trafficati d' Italia e più citati dalle informazioni sulla viabilità quotidiana. Un primo incidente senza conseguenze ne ha provocato un secondo molto più grave con cinque persone morte sul colpo. Cinque operai che tornavano dal lavoro. Sulla bretella di collegamento tra le autostrade A1 e A21, in provincia di Piacenza è stato registrato uno dei tamponamenti peggiori degli ultimi mesi con un furgone con cinque persone a bordo che si è schiantato contro un camion con rimorchio e si è distrutto. L' impatto ha ucciso tutte le persone che viaggiavano nel furgone. Tutto è incominciato intorno alle 17 quando sempre sul tratto che collega le due autostrade, all'altezza del comune di Polignano di San Pietro in Cerro c'era stato un incidente senza vittime ma che ha rallentato la circolazione creando degli incolonnamenti. Così anche un autotreno che viaggiava sulla corsia di destra si è messo in coda e ha rallentato. Dietro di lui però giungeva a una certa velocità, un furgone leggero che invece non ha rallentato e si è schiantato contro il mezzo pesante, capovolgendosi e finendo la sua corsa sullo spartitraffico. Una scena raccapricciante per gli automobilisti che hanno subito chiamato i soccorsi descrivendola come apocalittica tanto che oltre alle diverse autoambulanze e automediche del 118 che si sono mosse dalle provincie di Cremona e di Piacenza, è giunto sul posto anche l'elicottero dell'elisoccorso che ha base a Parma. Ma è stato tutto inutile perché quando sono arrivati sul posto i soccorritori non hanno potuto far altro che appurare la situazione, con la morte sul colpo di tutti e cinque gli occupanti del furgoncino. A quel punto sono intervenuti i Vigili del fuoco che hanno estratto i corpi e chiuso il tratto autostradale al traffico con le pattuglie che poi hanno deviato le auto verso percorsi alternativi su strade provinciali, mentre la polizia ha eseguito per ore gli accertamenti del caso. Secondo quando trapelato a sera, le vittime sarebbero tutti e cinque operai della provincia di Brescia in ritorno da una missione fuori regione. E di questi, tre erano di nazionalità italiana e due di origine straniera. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo che guidava, probabilmente stanco dopo essersi spostato fuori regione dalla mattina e una giornata di lavoro e forse anche per il sole al tramonto che in quel momento del pomeriggio si trova di fronte agli automobilisti abbagliandoli, non avrebbe visto il mezzo pesante che rallentava e ci è finito sopra senza neppure provare a schivarlo. Nell' impatto il furgoncino si sarebbe più volte capovolto e per i cinque a bordo non ci sarebbe stata nessuna possibilità di salvezza. Spesso si discute su come vadano catalogati tragedie di questo genere: incidente sul lavoro o semplice incidente stradale dovuto a una disgrazia, all' imprudenza o alla stanchezza? Certamente si potrà parlare di vittima sul lavoro per l'operaio che ha perso la vita in un altro incidente avvenuto sempre ieri a molte centinaia di chilometri di distanza, sul tratto calabrese dell'autostrada A2, la famosa Salerno-Reggio Calabria: all'altezza di Francavilla Angitola nei pressi di Pizzo Calabro, un addetto alla manutenzione è stato ucciso da un veicolo che stava viaggiando su un tratto interessato a lavori e dove c' è un restringimento, travolgendolo. Anche qui sono in corso gli accertamenti per stabilire l'esatta dinamica dei fatti.

Tiziana Paolocci per "il Giornale" l'1 giugno 2021. Un operaio di 54 anni è morto ieri in una fonderia a Torbole Casaglia, nel Bresciano, e la stessa sorte è toccata a un uomo di 60 anni, dipendente di una ditta che produce traversine ferroviarie, nel Torinese. I due incidenti si sono verificati a poche ore di distanza uno dall' altro e hanno riportato sotto i riflettori il tema della sicurezza sul lavoro e dell'importanza della prevenzione. Vasile Necoara, operaio di origini romene di una ditta esterna, secondo la ricostruzione dei carabinieri sarebbe caduto dal condotto di aerazione della Fonderia, in via Travagliato 18 a Torbole Casaglia, in provincia di Brescia, dove era entrato per pulirlo. Il volo sarebbe legato all' improvvisa apertura di una delle botole che compongono il condotto, dove era arrivato utilizzando un «merlo» della ditta. Uscito dal cestello, aveva ancora in mano gli attrezzi che servivano per poter fare le pulizie. I colleghi lo hanno visto cadere e hanno fatto scattare l'allarme, ma quando i carabinieri, l'ambulanza e un elicottero degli Spedali Civili di Brescia, sono giunti sul posto, l'operaio era già morto. E poco dopo ha perso la vita anche un uomo di 60 anni, Fiorenzo Canonico, di Montanaro, dipendente di un'azienda di armamenti ferroviari, il Gruppo Margaritelli di Rodallo, frazione di Caluso (Torino). L' uomo è volato giù da un'altezza di 5-6 metri mentre stava lavorando. Anche in questo caso i colleghi hanno chiamato i soccorsi, ma il personale sanitario del 118, intervenuto anche con l'elisoccorso, si è dovuto arrendere mentre provava a rianimarlo. I rilievi sul posto sono stati compiuti poco dopo dai carabinieri e dai tecnici dello Spresal dell' Asl To4. «Non si può continuare a morire sul posto di lavoro, prevenzione e formazione devono diventare una strategia con più risorse per mettere in sicurezza tutti i processi produttivi, con più controlli ed un coordinamento degli interventi - ha sottolineato l'assessore al lavoro Elena Chiorino - bisogna riportare l'attenzione nelle fabbriche, come in ogni luogo di lavoro, dalla sola sicurezza legata alla pandemia, alla prevenzione degli infortuni. Non possiamo permettere che la ripresa dei ritmi produttivi vada a discapito della sicurezza, sacrificando vite umane».

DA tgcom24.mediaset.it il 28 maggio 2021. Due operai sono morti in seguito alla rottura di una conduttura del vapore "contenente verosimilmente ammoniaca", nell'azienda in cui stavano lavorando a Villanterio, in provincia di Pavia. L'incidente si è verificato all'interno di una ditta che si occupa di raccolta e lavorazione dei sottoprodotti della macellazione. Sul posto diverse squadre dei vigili del fuoco. L'agenzia regionale emergenza urgenza specifica che uno dei due lavoratori è un maschio di 50 anni di cui sono note le generalità, l'altro, invece, risulta al momento "sconosciuto". L'incidente sarebbe avvenuto intorno alle 12:30 all'interno della Digima di Villanterio che si occupa di produzione di grassi e farine di origine animale.

La tragedia in provincia di Avellino. Dramma sul lavoro, operaio travolto e ucciso da macchinario in un panificio. Giovanni Pisano su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Sarebbe stato travolto da un pesante macchinario che stava installando l’operaio di 34 anni deceduto nella tarda mattinata di mercoledì 12 maggio in un panificio a Guardia Lombardi, comune in provincia di Avellino. La vittima sarebbe morta sul colpo rendendo inutili i soccorsi dei sanitari del 118. Si tratta di un uomo, le cui generalità non sono state rese note al momento, di origini romene e residente in Spagna che lavorava per una ditta esterna. Si trovava nell’esercizio commerciale presente nel piccolo comune irpino per montare un macchinario. Sull’incidente sono in corso gli accertamenti dei carabinieri della Compagnia di Sant’Angelo dei Lombardi. I militari stanno raccogliendo testimonianze ed effettuando i rilievi del caso per accertare eventuali responsabilità sull’ennesima morte bianca registrate nelle ultime settimane in Italia. Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta da parte della procura della Repubblica di Avellino che ha disposto il sequestro del macchinario e l’autopsia sulla vittima.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Chiara Baldi Luca Fiorucci per “La Stampa” il 9 maggio 2021. Samuel Cuffaro non aveva ancora compiuto 20 anni. È morto venerdì nello scoppio della palazzina di Gubbio in cui si trattava la cannabis light. È il morto più giovane della «settimana nera», l'ultima, per i morti sul lavoro: nove in sei giorni. Nei primi tre mesi del 2021 hanno perso la vita sul posto di lavoro 185 persone, due al giorno. Con lui, è deceduta anche Elisabetta D'Innocenti, 52 anni. Samuel lavorava con un contratto a chiamata, lavava le piante che, al piano superiore del laboratorio, venivano trattate prima di essere vendute come cannabis light. Lì sopra non doveva esserci, c'era finito per sistemare uno scaffale. Il boato lo ha travolto lì. Oggi avrebbe dovuto partecipare a una manifestazione culturale. Ma non ci sarà, il sindaco ha proclamato due giorni di lutto cittadino. A innescare gli scoppi, forse, le sostanze utilizzate per lavorare la cannabis, ma le cause sono in fase di accertamento. La Procura di Perugia ipotizza il disastro colposo. Elisabetta lascia marito e due figli. Altri tre operai sono rimasti feriti: uno è grave a Cesena, un altro si è salvato perché è uscito a telefonare. «Voleva guadagnare», dice la mamma di Samuel. «Ma i soldi, a che servono i soldi?», si chiede straziata dal dolore. Ieri mattina è morto cadendo da un ponteggio in un cantiere a Tradate, nel Varesotto, Marco Oldrati, 52 anni. È morto di sabato, perché la strage silenziosa che uccide i lavoratori non conosce week end, né festivi. Si muore tutti i giorni, o quasi, e l'ultima settimana lo dimostra. Lunedì è morta stritolata da un orditoio in fabbrica a Montemurlo, nel pratese, Luana D'Orazio, 22 anni: ieri l'autopsia ha confermato ciò che si sapeva già con orrore, e cioè che è morta per schiacciamento del torace. Stritolata, appunto. Il 5 maggio, a Busto Arsizio, sempre a Varese, è morto Christian Martinelli, 49 anni, lascia moglie e due figlie: è deceduto in ospedale poche ore dopo essersi infortunato con un tornio meccanico. Nello stesso giorno, a Tarsia, nel cosentino, Stefano Godino, 39 anni, è stato schiacciato dal trattore che stava guidando. Il 6 maggio a Pagazzano, nella Bergamasca, è deceduto lavorando Maurizio Gritti, 46 anni, moglie e due figli: cercava di posizionare la lastra di cemento che gli è caduta addosso. Il 7 maggio a Teodone, in Alto Adige, Sandro Casarotto, contadino di 64 anni è morto travolto da una balla di fieno. Lo stesso giorno è stato l'ultimo anche per Andrea Recchia, operaio di 37 anni, morto schiacciato da un contenitore di mangime per animali a Sorbolo, nel Parmense. Ancora il 7 maggio, il 55 enne Mario Tracinà, a Campomarino, in provincia di Campobasso, ha perso la vita precipitando da un'impalcatura di 30 metri. E sempre venerdì a Gubbio è esplosa la palazzina in cui si trattava cannabis light, uccidendo Samuel Cuffaro e Elisabetta D'Innocenti.

Cade da un ponteggio e si schianta a terra: muore un altro operaio. Tiziana Paolocci il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Quarta vittima sul lavoro in pochi giorni. Fontana: "Più controlli, convoco i prefetti". Aveva il casco, lo indossava sempre, ma il volo da quattro metri gli è stato fatale. Marco Oldrati, muratore di 52 anni originario di San Paolo D'Argon in provincia di Bergamo, è morto cadendo da un trabattello nel cantiere per l'ampliamento del centro commerciale le Fornaci a Tradate, in provincia di Varese. È la seconda vittima nel giro di pochi giorni nel Varesotto. L'operaio era uscito come ogni mattina per andare a lavorare per la sua ditta, la Demco di Seriate, impegnata nella realizzazione della struttura di copertura esterna di un capannone, che doveva essere ampliato. Un'opera che vede al lavoro diverse ditte contemporaneamente. Il 52enne si trovava sopra il ponteggio poco prima di precipitare di sotto. Aveva il casco e non è chiaro cosa sia accaduto, se l'uomo abbia avuto un malore o se accidentalmente abbia messo male un piede, scivolando di sotto. La dinamica è ancora al vaglio dei tecnici Ats e dei carabinieri, perché nessuno dei colleghi lo ha visto cadere. Quello che per primo ha notato il corpo a terra, ha dato immediatamente l'allarme. Quando i medici sono arrivati, a bordo dell'elisoccorso dell'ospedale Sant'Anna, era troppo tardi. È risultato vano ogni tentativo di rianimare Oldrati perché erano troppo gravi le ferite alla testa e al torace. Alle 13 il pubblico ministero Valeria Anna Zini ha dato l'autorizzazione al trasporto della salma e nelle prossime ore verrà eseguita l'autopsia. Resta da accettare se la ditta per la quale lavorasse il muratore avesse preso tutte le precauzioni previste dalla normativa per la sicurezza sul lavoro. L'uomo aveva due figli ed era iscritto alla Cgil Fillea di Bergamo. Aveva lavorato per anni come dipendente in un laboratorio che si occupava di lavorazione dei marmi e quando era fallito aveva iniziato a fare l'operaio edile. Quella del 52enne è la terza morte bianca in Lombardia registrata negli ultimi quattro giorni. Il 5 maggio, a Busto Arsizio, sempre in provincia di Varese, aveva perso la vita Christian Martinelli, di 49 anni, schiacciato da un'alesatrice nella fabbrica dove lavorava. Il 6 maggio in un cantiere a Pagazzano, in provincia di Bergamo, era deceduto Maurizio Gritti, travolto da una lastra di cemento. E solo qualche giorno fa Prato aveva pianto Luana D'Orazio, la mamma 22enne rimasta incastrata in un orditoio di una ditta tessile. Una catena di morti assurde che va spezzata, puntando sulla prevenzione e incrementando i controlli per la sicurezza. «Ancora un terribile incidente sul lavoro - ha sottolineato il presidente della Lombardia Attilio Fontana -. Una vittima in più che si aggiunge alla terribile e dolorosa lista di questi primi mesi del 2021. Il cordoglio e l'abbraccio della giunta lombarda e mio personale alla famiglia dell'uomo». «Ma dobbiamo fare di più - prosegue il governatore - dobbiamo aggiungere competenze e risorse nel sistema della prevenzione e dei controlli. Chiederò al Prefetto di Milano, anche in qualità di coordinatore dei prefetti lombardi, di convocare con urgenza un incontro per ampliare e intensificare tutti insieme - associazioni di impresa, rappresentanti sindacali e istituzioni - le azioni concrete e immediate per spezzare questa sequenza di incidenti e di troppe vittime».

Maddalena Berbenni e Pietro Tosca per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2021.  Faceva il muratore da quando aveva 14 anni, Maurizio Gritti. Stesso mestiere di suo padre Luigi, che ieri era passato in cantiere per salutarlo quando l'unico operaio presente si stava già disperando. Era appena successo. Comunque, non ci sarebbe stata speranza. L' ennesima morte sul lavoro tocca l'edilizia, due villette da costruire a Pagazzano, Bassa Bergamasca, che Gritti aveva avuto in subappalto con la sua M.C. Costruzioni. Era sposato, aveva due figli adolescenti e domani avrebbe compiuto 47 anni. È finito tutto sotto un blocco di calcestruzzo pesante 600 chili, che lo ha travolto e schiacciato. L'impresario lo aveva appena spostato usando la gru, assieme ad altri due prefabbricati dalla stessa forma a «c». Per sorreggere i manufatti Gritti li aveva bloccati con supporti in legno. Puntelli che, ipotizzano i tecnici dell'Ats, si sono spostati o hanno ceduto, innescando il crollo. Nessuno ha visto, ma il rumore ha allarmato il solo operaio presente. Ha tentato di soccorrere il titolare, aiutato da Luigi Gritti, arrivato proprio in quel momento. I due hanno chiamato il 112 e tentato di spostare il blocco. In un attimo, le ambulanze della Croce rossa di Treviglio hanno raggiunto Pagazzano, così come i carabinieri e le squadre dei vigili del fuoco, ma è quasi certo che il muratore sia morto sul colpo. È toccato al luogotenente Salvatore Carrozza comunicare, sul posto, la notizia alla moglie Alessandra Innocenti, che ha poi stretto in un abbraccio. Anche Giorgia e Andrea, 17 e 16 anni, hanno pianto a pochi metri dal cantiere. «Non ci sono parole per descrivere mio papà, era una persona buona», dice la ragazza. «Mio nipote faceva da sempre questo lavoro ed era coscienzioso», racconta uno zio, anche lui nel settore edile. La cognata Lorenza Feliciani descrive Maurizio come «un gran lavoratore. Se poteva aiutare, aiutava tutti. Era una persona di grande cuore. Ha sempre fatto il muratore, da quando aveva 14 anni. Da un paio d' anni aveva aperto la sua ditta, dopo che il padre era andato in pensione. Non riusciamo a darci pace per quello che gli è accaduto.Non è giusto». Gritti era nato e cresciuto a Calcinate ma a Malpaga, frazione di origine della moglie, era impegnato in varie associazioni. Luana D' Orazio, morta lunedì a 22 anni nella ditta dove faceva l'operaia a Prato. Cristian Martinelli, morto mercoledì a 49 anni in un'azienda di Busto Arsizio. Ora Gritti. A Bergamo, Fillea-Cgil, Filca-Cisl e Feneal-Uil annunciano due ore di sciopero mercoledì con un sit-in sotto la Prefettura. «È inaccettabile che si muoia in questo modo, ancora una volta il comparto dell'edilizia è il più rischioso» si legge in una nota congiunta dei sindacati. Il vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, propone al ministro del Lavoro Orlando «un tavolo per studiare ulteriori misure e risorse ad hoc per chi investe in prevenzione, in controlli e in sicurezza». Mentre il governatore della Lombardia Attilio Fontana assicura che l'impegno «e la nostra determinazione per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro sono costanti». Ma il consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella osserva che «la politica non può occuparsi delle morti sul lavoro limitandosi a commentarle solo quando accadono le tragedie».

Da “la Repubblica – Edizione Parma” il 7 maggio 2021. Incidente mortale sul lavoro a Parma. Un operaio di 37 anni ha perso la vita in una ditta di mangimi a Bogolese, frazione del comune di Sorbolo-Mezzani, in provincia di Parma. La tragedia è avvenuta giovedì sera. L’uomo, originario della Basilicata, è rimasto schiacciato da un contenitore pieno di mangime per animali del peso di diversi quintali. Immediata la chiamata ai soccorsi. Sono intervenuti i militi del 118 che non hanno potuto fare altro che accertare il decesso. L’area dell’incidente è stata sottoposta a sequestro dopo l’intervento dei carabinieri e degli operatori della Medicina del lavoro dell’Ausl di Parma. "Ennesima tragedia sul lavoro. Una giovane vita spezzata, ieri sera, in una attività alle porte di Sorbolo. Sono notizie che lasciano tanto sgomento. Siamo vicini ai famigliari in questa terribile tragedia" le parole del sindaco di Sorbolo-Mezzani Nicola Cesari. Un contenitore dal peso di diversi quintali pieno di mangime per animali lo avrebbe colpito in pieno, schiacciandolo ed uccidendolo all'istante.

Incidente sul lavoro a Parma: operaio 37enne morto schiacciato da un sacco di mangime. Veronica Ortolano il 07/05/2021 su Notizie.it. Andrea Recchia è morto schiacciato dalla sacca, mentre era impegnato in una ditta alle porte della città. É l’ennesima notizia che vede protagonista un operaio morto, mentre faceva il suo lavoro. Questa volta a perdere la vita è un uomo di 37 anni, Andrea Recchia. La disgrazia è avvenuta ieri sera, 6 aprile 2021, a Sorbolo, in provincia di Parma. Andrea Recchia era un operaio per un’azienda che produce mangimi ed era di origini lucane, precisamente di Montalbano Jonico, in provincia di Matera. É morto schiacciato da un sacco pieno di mangime del peso di diversi quintali. Subito dopo l’incidente sono stati chiamati i soccorsi per cercare di salvarlo, tuttavia i sanitari non hanno potuto fare niente: per lui era troppo tardi, per cui ne hanno solo accertato il decesso. L’area dell’incidente in aggiunta è stata messa sotto sequestro, dal momento dell’arrivo dei carabinieri assieme agli operatori della Medicina del lavoro dell’Ausl di Parma: quest’ultimi proprio saranno coloro che accerteranno se sul luogo di lavoro siano state rispettate le norme sulla sicurezza. L’obiettivo è pure quello di fare chiarezza e capire come questo pesantissimo sacco possa essere caduto sull’operaio, provocandone la morte. 

Sulla faccenda si è espresso anche Nicola Cesari, sindaco di Sorbolo-Mezzani: “Ennesima tragedia sul lavoro. Una giovane vita spezzata, ieri sera, in una attività alle porte di Sorbolo. Sono notizie che lasciano tanto sgomento. Siamo vicini ai famigliari in questa terribile tragedia”. Ennesima, dunque, morte sul lavoro. Ennesimo grido silenzioso di aiuto, affinchè i lavoratori possano essere tutaleti e possano lavorare con la serenità di non avere la propria vita a repentaglio. Infatti, purtroppo secondo l’Inail nel primo trimestre del 2021 le denunce di infortunio sul lavoro, che si sono concluse con il decesso, sono state 185. Stiamo parlando di 19 in più rispetto alle 166 registrate nel primo trimestre del 2020, in poche parole una crescita pari all’11,4%. Insomma, ben due persone ogni giorno muoiono mentre stanno semplicemente lavorando. Proprio il primo maggio, in occasione della Festa del Lavoro, i sindacalisti avevano detto che: “L’anno scorso oltre 2000 lavoratori e lavoratrici morti, 185 morti nei primi tre mesi 2021. Pretendiamo zero morti sul lavoro”. In particolare, per fare maggiore chiarezza, l’aumento riguarda tutte e tre le gestioni assicurative dell’Industria e servizi, dell’Agricoltura e del Conto Stato. Mentre a livello territoriale viene a galla che ci sono due casi mortali nel Nord-Ovest, quattro nel Nord-Est e di 11 casi sia al Centro che al Sud. 

Dicevano che gli operai non ci sono più...Luana e Christian, due operai morti in due giorni: non c’è più chi li difende. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 6 Maggio 2021. Lunedì Luana, ieri Christian, lunedì un orditoio, ieri una fresa. Lunedì abbiamo pianto per una ragazza, ieri per un uomo. È tutti i giorni così, anzi il doppio, a volte il triplo. Ogni giorno in Italia muoiono almeno due lavoratori, e all’anno sono poco meno di 1200 quelli che a casa rimandano solo un corpo esanime; caduti civili per cercare di garantire l’indispensabile, a loro stessi, ai loro cari. Christian Martinelli è finito dentro la fresa meccanica della ditta Bandera di Busto Arsizio. Sara, sua moglie, è andata in fabbrica per riprendersi i suoi oggetti personali, tutto quello che resta di lui nei suoi anni di lavoro: prende tempo, perché dovrà tornare a casa, spiegare ai loro due bambini che non ci sarà un ritorno, che papà ha raggiunto il suo posto di lavoro perenne, nell’affollato paradiso degli operai. Perché qualcuno, troppo fesso o troppo furbo, negli ultimi anni è corso in giro a gridare che operai e ideologie non ci fossero più, e tutti ci sono cascati dismettendo bandiere, di qualunque colore esse fossero state, e abbandonando i diritti che la classe operaia si era conquistata in oltre un secolo di lotta. E sarebbe bastato leggere le carte dell’Inail, per accertarsi che non era vero, che gli operai ci sono, eccome, che anzi la categoria si è allargata, mangiandosi pure i lavoratori che pensavano di stare un grado sopra. Certo gli operai hanno mutato pelle, tipologie di lavoro, mischiano lingue nuove, arrivate da poco, ma stanno sempre nello stesso percorso da equilibristi, in bilico sopra un cornicione, in balia di qualunque soffio, vittime di qualunque negligenza altrui, condannati a volare giù alla minima distrazione. Sono rimasti in pochi a difenderli, in pochi a sapersi difendere, stanno andando al margine dentro una società in cui il loro ruolo non riesce ad andare oltre a quello di strumenti del lavoro. Le loro schiere si sono disunite troppo, viaggiano a maglie allargate, viaggi singoli a sparuti gruppi. Troppo leggeri per avere un peso sociale che si imponga. E troppo muti, cadono in silenzio per non farsi sentire, perché in fondo fare lavori umili, lavori pericolosi, è diventata un po’ una cosa da fessi, da ricompensare con un tot di retorica nei discorsi dei lutti. A funerale fatto nessuno se la vuole intestare la causa del lavoro, perché sarebbe un carico serio, un fardello importante da portare. Di quelle bestie da soma non ne produce più la politica, quelle sì sparite, non le ideologie. Sono scomparsi gli uomini con le idee, con l’idea di costruire una società migliore che aumentasse i diritti dei lavoratori. Lunedì è stata Luana, ieri è stato Christian, statisticamente ce ne stanno altri due i cui nomi nemmeno conosciamo. L’elenco si ingrosserà domani, le macchine vincono facile contro la classe operaia.

Da ansa.it il 5 maggio 2021. È morto l'operaio di 49 anni rimasto schiacciato da un'enorme fresa industriale, all'interno di una fabbrica di Busto Arsizio (Varese), questa mattina intorno alle 9.40. Per l'uomo, trasportato d'urgenza in ospedale a Legnano in gravi condizioni, i medici non hanno potuto fare nulla. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, al momento a carico di ignoti, per far luce sulle cause dell'incidente sul lavoro che hanno portato al decesso. Il pm Susanna Molteni ha inoltre disposto il sequestro del macchinario sul quale la vittima stava lavorando e l'autopsia. "Si lamentava che fossero in pochi, sto aspettando che mi facciano entrare, per prendere le sue cose". Sono le parole ai cronisti di Sara, la moglie di Christian Martinelli, l'operaio morto. La donna, sotto shock e disperata, si è presentata davanti all'ingresso della fabbrica in compagnia della suocera, per chiedere gli effetti personali del marito, con cui ha avuto due bambine di sette e otto anni. "Siamo dall'inizio dell'anno in una situazione in cui una persona al giorno sta morendo sul lavoro. Questo è perché non ci sono abbastanza controlli, non c'è abbastanza attenzione e non si considera la sicurezza sul lavoro un vincolo, ma un costo". Lo afferma il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Uno Mattina annunciando che parlerà di sicurezza sul lavoro nell'incontro di questo pomeriggio a palazzo Chigi sul recovery plan. "Credo che sia assolutamente necessario che vengano fatte assunzioni nei servizi di medicina del lavoro per fare i controlli", dichiara Landini aggiungendo che "nel 2009 c'erano in Italia circa 5 mila addetti nei servizi ispettivi delle unità sanitarie locali, oggi sono 2 mila così come anche gli ispettorati del lavoro si sono ridotti". Parlando della morte dell'operaia tessile 22enne Luana D'Orazio, Landini aggiunge: "Se vogliamo evitare che succedano altre tragedie, abbiamo bisogno che si investa in questa direzione, di fare molta formazione e introdurre il diritto che in ogni luogo di lavoro ci sia un lavoratore che possa fare, come dice la legge, il rappresentante alla sicurezza". Landini ricorda anche la proposta dei sindacati di istituire "una patente a punti" per le imprese per la qualità e la sicurezza.

Puglia, oltre 60 infortuni al giorno: numeri drammatici. L'allarme della Cgil: «Servono maggiori controlli». La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2021. «Da gennaio a marzo in Puglia sono stati denunciati all’Inail 5.693 infortuni sul lavoro, 13 di questi mortali. Una media di 63 infortuni al giorno, che spesso significano menomazioni fisiche e traumi psicologici. Un bollettino di guerra che ci dice come la sicurezza del lavoro deve essere, nel Paese come nella nostra regione, una delle priorità delle politiche dal punto di vista legislativo sul versante della prevenzione e formazione». Sono le parole allarmate di Pino Gesmundo, segretario generale della Cgil Puglia, nel giorno dello sciopero generale indetto a Prato dai sindacati confederali per la morte della giovane operaia tessile. «Non è stato l’unico caso mortale nel Paese, un bollettino tragico che si compone giorno per giorno e reclama misure urgenti, non basta l’indignazione, la presa d’atto - denuncia Gesmundo - I numeri ci servono a inquadrare la dimensione drammatica del fenomeno, ma sempre pensando che sono lo specchio di vite umane distrutte, famiglie devastate e quasi sempre lasciate sole. E non si può nemmeno parlare di emergenza, perché è un trend storico che denuncia come non vi sia proprio culturalmente il rispetto delle persone e del lavoro. Non si può e non si deve morire o subire menomazioni per incuria, per sostenere profitti maggiori, stressando cicli produttivi e persone. Ma al primo punto è che dobbiamo finirla di considerare la sicurezza un costo: la salute di chi lavora non è un costo ma il primo dei diritti».

GLI INFORTUNI IN PUGLIA - «Se i dati del 2020 sono influenzati dall’emergenza sanitaria, basta andare al 2019 per rendersi conto che c’è un trend consolidato e inaccettabile. Le 26.727 denunce di infortunio sul lavoro significano 73 casi al giorno. Con gli infortuni in itinere si arriva a circa 31mila denunce. Gli infortuni mortali nel 2019 sono stati 58 sul lavoro e 16 in itinere. Un morto ogni cinque giorni, nemmeno la più sanguinosa delle guerre di mafia che hanno conosciuto alcuni territori in questo Paese ha mai avuto questi numeri. Perché dobbiamo accettare tutto questo, ogni anno?”, chiede il segretario della Cgil. Sempre nel 2019, gli infortuni accertati con menomazione sono stati 3.496, “quasi dieci al giorno. Numeri che parlano da soli, che denunciano quanto c’è da fare sul versante della sicurezza, che significa prevenzione, formazione, controllo delle istituzioni».

POCHE ISPEZIONI, PIAGA PRECARIATO - «Le percentuali di irregolarità altissime che si registrano, certificate anche per il 2020 dal report dell'Ispettorato nazionale del lavoro, a fronte dell'oggettivamente basso numero di imprese interessate dai controlli, spingono quasi all'impunità e alla violazione delle norme. È allora fondamentale, se non c’è un’azione delle rappresentanze datoriali a spingere su un approccio culturalmente diverso da parte delle imprese, il ruolo dei nostri delegati sindacali per la sicurezza. E anche dove non ci sono serve una presa di coscienza dei lavoratori, sapendo che c’è un limite: in una fase dove prevale il lavoro, spesso si svilupparsi dinamiche perverse, soprattutto in realtà più piccole, dove lo scambio reddito-sicurezza comporta spesso rischi maggiori e incidenti», aggiunge il segretario generale della Cgil Puglia. Nel 2020, dati INL, tra ispezioni e verifiche le aziende in Puglia interessate da controlli sono state 8.794 e quelle risultate non in regole sono state 5.127, il 66,65%. Oltre la media il settore dell’edilizia, con il 72% delle irregolarità. I lavoratori interessati dalle ispezioni sono stati 5.217, e ben 2.119 sono risultati in nero, con oltre mille nel solo terziario. Delle 1.650 violazioni relative alla sicurezza, 917 sono relative all’edilizia. “Quasi un incentivo a violare le norme. Possiamo solo immaginare in che modo siano state rispettate le normative sulla prevenzione del Covid-19 in questo scenario descritto dai numeri, in un territorio dove prevale la dimensione piccola delle attività”, commenta il segretario della Cgil Puglia. «Come Cgil siamo fortemente impegnati in ogni categoria con attività di formazione degli Rls, che devono conoscere le norme e l'organizzazione produttiva dei luoghi di lavoro, per individuare criticità e soluzioni possibili che mettano al riparo l'integrità di chi lavora. Prevenzione e formazione e partecipazione dei lavoratori sono le strade da seguire per fermare questa guerra. Di contro è evidente che vanno adeguati gli organici degli organismi ispettivi, dalle Asl all’Inps, ridotti all’osso per territori vasti e per il numero di imprese. Al punto che con questi dati un’azienda, a meno che non vi siano segnalazioni, ha la possibilità di ricevere un controllo ogni undici anni. Tutto questo è inaccettabile e se sarà necessario mettere in campo iniziative di sensibilizzazione e mobilitazione la Cgil è pronta».

·        La Pensione Anticipata.

Dagospia l'8 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, L’Inpgi pretendeva da me e dalla collega Manuela D’Alessandro con cui curo il blog giustiziami.it un risarcimento danni di 75 mila euro perché in un articolo avevamo criticato la mancata costituzione parte civile dell’istituto nel processo a carico dell’ex presidente Camporese. Il Tribunale civile di Roma ha sentenziato che il blog aveva esercitato il diritto di cronaca e di critica in modo pertinente. L’Inpgi è stata condannata a pagare 8.000 euro. Lo farà con i soldi degli iscritti già utilizzati per pagare gli avvocati che avevano intentato la causa. I signori al vertice dell’Inpgi sono giornalisti che procedono in modo intimidatorio contro colleghi che fanno il loro lavoro e basta. Il sindacato dei giornalisti brilla per il suo silenzio. Frank Cimini

Dagospia il 29 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Carissimo Dago, nessun giornale oggi pubblica la notizia se non minuscola e ben nascosta che Inpgi finirà nell’INPS a partire dal 22 luglio prossimo. E te credo! Perché bisognerebbe pure scrivere che Inpgi stava fallendo e stava fallendo perché depauperato da un quarto di secolo di stati di crisi con i quali gli editori dei giornali hanno risanato i loro conti. L’Inpgi non si è mai lamentato perché è sempre stato nelle mani e diretto da colleghi collusi con il potere e con i giochetti della politica. Uguale discorso vale per FNSI, il sindacato dei giornalisti responsabile anche di altre tragiche scelte quando ha consentito di fare questo mestiere con contratti diversi. Del resto e per non farla troppo lunga in un paese in cui fa cacare il sindacato dei metalmeccanici producendo un soggetto come Landini che cosa ci si può aspettare dal sindacato dei giornalisti? Frank Cimini

Così l’Inpgi è finita sull’orlo del crac. Frank Cimini su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Sarà anche un bel mestiere fare il gazzettiere, ma da adesso in poi bisognerà farlo senza l’Inpgi, l’istituto di previdenza privato dei giornalisti. L’Inpgi era sull’orlo del fallimento e finirà nell’Inps, la previdenza pubblica a partire dal primo luglio dell’anno prossimo. Ma in realtà ci è già finito perché si trova da subito sotto il controllo dell’Inps. Il consiglio di amministrazione dell’Inpgi non può prendere nessuna decisione autonomamente. A pagarne le conseguenze saranno i colleghi che hanno ancora un bel po’ di anni di lavoro da fare prima della pensione perché i meccanismi della quiescenza con l’Inps sono molto meno remunerativi rispetto all’Inpgi. Da questa storia non esce bene nessuno. E in prima fila c’è l’Inpgi che da un quarto di secolo si è fatto depauperare, subendo in silenzio, da una quantità infinita di stati di crisi richiesti dagli editori e concessi dai vari governi dopo che la stessa politica aveva stabilito la possibilità di accedere all’aiuto pubblico anche solo in previsione di un mero calo della pubblicità. Gli stati di crisi consentivano e consentono tuttora di prepensionare giornalisti con ottimi stipendi le cui posizioni vanno a pesare sulle casse dell’Inpgi, sgravando quelle delle aziende che in pratica si ristrutturano a spese dell’istituto previdenziale dei dipendenti. L’Inpgi ci rimette moltissimo perché i pochi nuovi assunti incassano stipendi molto più bassi dei loro predecessori versando di conseguenza contributi di valore largamente inferiore. Correva l’anno 1994 ed erano ancora tempi di vacche grasse, ma si avvertivano i primi scricchiolii di tempi brutti quando Il Mattino di Napoli e il Secolo XIX di Genova chiesero lo stato di crisi. Da allora è stata una valanga che continua tuttora. E va ricordato che in editoria come in altri settori si fa anche un largo uso della cassa integrazione che pesa sulle casse pubbliche. L’ultimo caso, strettissima attualità, è quello dell’Eco di Bergamo quotidiano di proprietà della curia arcivescovile (unico caso in Italia) dove azienda e comitato di redazione hanno raggiunto un accordo per la CIG al 14 per cento. Va detto che il giornale ha il bilancio in attivo, forte anche dell’enorme massa di soldi incassati con i necrologi in relazione al ruolo di capitale nazionale della pandemia. La cassa integrazione durerà un anno, 7 mesi subito e altri 5 mesi nel 2023. L’interruzione serve per allungare i tempi fino a chiedere e ottenere l’ennesimo stato di crisi con cui si prevede di pensionare un’altra decina di giornalisti, un quinto dell’intero organico. L’editore da un lato guadagna risparmiando a spese di tutti, ma dall’altro spende soldi dando in appalto all’Ansa la confezione delle pagine di interni e esteri finora fatti dalla redazione. Tutto va bene madama la marchesa. Il sindacato tace come del resto sugli stati di crisi in tutta Italia. Nonostante il presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti sia un dipendente dell’Eco, Paolo Perucchini. Frank Cimini

Il paradosso di Landini: combatte per i giovani ma si tiene il posto per evitare la pensione. Pasquale Napolitano il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il leader Cgil avrebbe potuto lasciare già due anni fa. Veleni nei sindacati. «Disse il prete: fa quello che ti dico ma non fare quello che faccio io». Il proverbio calza alla perfezione, come un abito sartoriale, al numero uno della Cgil Maurizio Landini. C'è un paradosso che sta venendo fuori e che investe il capo dell'organizzazione sindacale rossa. Lo scivolone è sulle pensioni, il terreno su cui Landini muove la guerra al premier Mario Draghi. Una storia che alimenta veleni e malumori nel sindacato. Landini si eleva a paladino dei giovani. Ma conserva da «pensionato» la poltrona di segretario generale della Cgil. Alla faccia dello slogan «spazio ai giovani». Proprio lui che, tre giorni fa, uscendo da Palazzo Chigi, dopo il tavolo con Draghi sulle pensioni, ha dichiarato: «La mia battaglia è per le nuove generazioni. Serve una pensione di garanzia per i giovani. Con un sistema così tra 40 anni i giovani non avranno una pensione pubblica». Battaglia che, però, sembra aver accantonato quando, due anni fa, è stato chiamato a guidare il sindacato rosso. Landini è un segretario in età pensionabile. Ma non molla la poltrona. E non lascia spazio a quei giovani che dichiara di voler difendere. Una bella contraddizione. Landini è stato eletto segretario generale della Cgil, nel gennaio del 2019 all'assemblea di Bari. Quando, calcoli alla mano, avrebbe potuto già fare domanda di pensionamento e far spazio a forze fresche. Nulla da fare. Il segretario della Cgil, oggi, ha 60 anni; nel 2019 di anni ne aveva 58. In un'intervista al Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2014 Landini dichiarava: «Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c'erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel 77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel 78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago». I conti sono semplici. A meno che non abbia lavorato come abusivo, dal 1977 fino al 2019 (anno di elezione al vertice della Cgil) Landini avrebbe maturato 42 anni di contributi. Nel 2019 i requisiti previsti dalla legge, 58 anni e 42 anni di contribuiti, avrebbero consentito al segretario Cgil di fare richiesta di pensionamento. Non l'ha fatta. È rimasto in aspettativa e al vertice del sindacato. Il mandato scadrà nel 2023. Rinnovabile per altri 4 anni. E così oggi il sindacato della Cgil si ritrova con un segretario in età pensionabile. Un leader che difende i lavoratori da pensionato. Chissà se Landini deciderà di cedere il passo a un giovane o rimanere in sella per altri 4 anni? Certamente non si vive male con lo stipendio da leader del sindacato. Cifra svelata dallo stesso Landini al programma Otto e Mezzo nell'aprile del 2019. «Non ho nessun problema - disse - a rendere noto quanto prendo. Essendo segretario generale dovrebbe essere circa 3.700 euro al mese netti. È lo stipendio più alto in assoluto. Io non ho mai preso uno stipendio di quel genere lì in tanti anni che lavoro». Si vive bene. La pensione può attendere.

Il presente mangia il futuro. Il razzismo generazionale come autobiografia politica della nazione. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 27 ottobre 2021. I giovani pagano di più per avere pensioni peggiori dei loro padri. Forse dovremo ringraziare questa crisi economica mondiale se la riforma Fornero potrà entrare (quasi) a regime a partire dal prossimo anno. Dovremo forse ringraziare la pandemia se la riforma Fornero potrà entrare quasi a regime a partire dal prossimo anno, come abbiamo dovuto ringraziare il quasi default del 2011 per avere consentito all’esecutivo di Mario Monti di rimettere con i piedi per terra un sistema pensionistico a gambe all’aria, che nel corso dei decenni aveva istituito una forma di vero e proprio razzismo generazionale. Le stucchevoli querimonie politico-sindacali sul triste destino dei giovani impoveriti, più che agli sconquassi dell’economia e della demografia planetaria, in Italia andrebbero interamente ritorte contro le scelte compiute proprio da partiti e sindacati, in ossequio a un’ideale sociale di emancipazione “dal lavoro” e non “del lavoro”, e dunque al ridisegno del sistema di welfare su accomodamenti parassitari, pensionistici e para-pensionistici. La spesa previdenziale in Italia è la vera autobiografia politica della nazione, la fotografia esatta di quello che le classi dirigenti politico-sindacali pensavano (e tuttora pensano) debba essere una società giusta, che è per l’appunto l’ideologia nazionale dell’Italia sbagliata, in cui si è per decenni teorizzato, facendone addirittura dottrina, che i problemi di sostenibilità finanziaria non fossero, in primo luogo, problemi di equità intergenerazionale, ma vincoli astratti e recessivi rispetto al “primato della politica”, cioè al voto di scambio via spesa pubblica, messo in conto alle generazioni future. Come tutti i sistemi economicamente schiavisti, la previdenza italiana ha imposto corollari ideologicamente razzisti. Le nuove generazioni non solo dovevano pagare infinitamente di più per avere infinitamente di meno, accollandosi tutto il costo del deterioramento demografico della popolazione, ma i loro diritti dovevano essere misurati e riconosciuti secondo un metro diverso da quello dei loro padroni. Quindi, non solo i giovani dovevano vedersi aumentate le aliquote contributive, perché i meno giovani non si vedessero aumentata l’età pensionabile, ma i primi si trovarono per legge riconosciuti diritti ridotti e diversi. E l’iniquità, cioè lo schiavismo e il razzismo generazionale, si è naturalmente espanso dalla previdenza ad altri capitoli del welfare e della spesa pubblica. C’è una coerenza morale, non solo matematica, insomma, tra il gradino più alto del podio europeo per la spesa pensionistica e l’ultimo per l’istruzione universitaria, in cui l’Italia spende meno della metà della media europea. Abbiamo, insomma, avuto bisogno prima di un quasi disastro nazionale e poi di una sciagura planetaria per ripristinare l’equilibrio economico e morale del sistema pensionistico, perché l’Italia politicamente reale, nel cambio delle Repubbliche, non è sostanzialmente cambiata ed è rimasta quella che pose le basi del proprio declino facendo contestualmente esplodere, dalla metà degli anni ’70, debito pubblico e spesa previdenziale, e continuando a inseguire le conseguenze nefaste della propria irresponsabilità politica e finanziaria. Cgil, Cisl e Uil non sono affatto, come appaiono dalle cronache, gli ultimi giapponesi di una guerra finita e perduta, ma solo le guarnigioni rimaste allo scoperto in una guerra temporaneamente sospesa e destinata a riprendere appena Draghi se ne andrà da Palazzo Chigi e l’Italia avrà l’impressione – anche solo l’impressione – di non essere più legata ai respiratori della Banca centrale europea e della Commissione europea. Se al momento non sembra esserci alcun partito disposto a sbarrare la strada al presidente del Consiglio, la verità è che non c’è nessun partito, tra quelli che accreditati nei sondaggi in doppia cifra o vicini alla doppia cifra, disposto a condividere la filosofia politico-morale, che porta a denunciare e correggere lo scandalo di una previdenza razzista. Successe la stessa cosa con la riforma Fornero, che nessuno dei partiti allora al governo ebbe la forza di contestare con lo spread sopra quota 500, ma appena tornò un simulacro di finta normalità tutti si ingegnarono non ad aggiustare, ma a smontare. Chi coi toni e modi squadristici di Salvini, chi con quelli gesuitici e finto-solidaristici della sinistra politica e sindacale. Adesso nella trattativa con un Draghi sempre più solo, cioè isolato, e spazientito si aprirà a sinistra e destra la solita commedia di poliziotti buoni e cattivi, di scioperi generali e di mediazioni particolari, nel tentativo di fare rientrare dalla finestra un po’ del ciarpame, che la legge di bilancio proverà a buttare fuori dalla porta. Ottimisticamente c’è da credere che Draghi e il governo reggeranno: la posta in gioco del Piano nazionale di ripresa e resilienza è troppo alta perché qualcuno faccia saltare il banco. C’è da mettere in conto qualche miliardo in più come prezzo del compromesso. Ma c’è soprattutto da mettere in conto che per il “dopo Draghi” si ripartirà da capo, finché l’Italia non avrà un sistema politico diverso da quello che ha, incapace di funzionare e prosperare su qualcosa che non sia l’autodepredazione del futuro in nome delle necessità del presente.

La verità sull'assegno: quanto si perde con quota 102. Alessandro Imperiali il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Una soluzione transitoria e di mediazione per poi tornare a discutere di una riforma organica delle pensioni con i sindacati. Cosa è quota 102. Quota 102 solamente per un anno, il 2022, è stata la proposta del governo Draghi nel corso della cabina di regia con le forze di maggioranza sulla manovra. Si tratterebbe di una soluzione transitoria e con duratura limitata con l'obiettivo di aprire a gennaio un tavolo con Cgil, Cisl e Uil per discutere di una riforma organica delle pensioni. Si vuole rivedere la legge Fornero e garantire maggiore flessibilità. Inoltre, in aggiunta alla quota transitoria valida per dodici mesi sarà istituito un fondo ad hoc di 500milioni di euro per traghettare i lavoratori penalizzati dai nuovi requisiti e per rendere possibile l'uscita anticipata dal mondo del lavoro le vecchie regole di quota 100. Superata quindi Quota 100. La Lega promette di non fare barricate soprattutto grazie al miliardo e mezzi stanziato per ammorbidire il ritorno al sistema disegnato dalla legge Fornero.

Quando si va in pensione

Si andrebbe in pensione a 64 anni con almeno 38 anni di contributi. Quota 102 è la soluzione sulle pensioni individuata in cabina di regia e che va alla ricerca di un equilibrio. In particolare, quello che garantisce sostenibilità al sistema pensionistico e che consente di ragionare per il futuro di nuovi interventi più mirati al sistema delle quote. La soluzione è stata fortemente voluta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale ricerca la gradualità di un ritorno al sistema ordinario. Il meccanismo, per quanto riguarda gli importi della pensione, di quota 102 è lo stesso di quota 100. A cambiare è soltanto la somma tra l'età anagrafica e gli anni contributivi: 64+38 anziché 62+38. Sono circa 50mila i lavoratori che, a partire dal primo gennaio 2022, potranno andare in pensione. Nell'importo della pensione non ci sono penalizzazioni, se non quelle dovute al montante contributivo e all'anticipo di uscita. Stando a una prima simulazione apparsa sul Messaggero, coloro che hanno una retribuzione lorda di 30mila euro (1.650 euro di netto mensili) perderebbero dai 40 ai 160 euro rispetto all'assegno pensionistico pieno che avrebbero incassato. Chi guadagna 50mila euro annui invece perde tra i 100 e i 210 euro.

Opzione donna e Ape sociale

Durante la riunione tra le forze di maggioranza è stata confermata la volontà di prorogare per un anno Opzione donna e l'Ape sociale, allargata anche alle categorie di lavoratori che svolgono impieghi usuranti. Opzione donna dà la possibilità alle lavoratrici dipendenti con almeno 58 anni o le autonome con 59 anni e 35 di contributi versati, di andare in pensione una volta decorso un anno di finestra mobile. L'Ape sociale invece può essere sfruttata da coloro che raggiungono i 63 anni e hanno meno di 38 anni di contributi, almeno 30 se si è disoccupati e si è esaurita la Naspi da almeno tre mesi. O 36 se si chiede il sussidio per aver svolto un'attività usurante. Alessandro Imperiali

Estratto dell’articolo di Fabio Savelli per corriere.it il 21 ottobre 2021. Tutte le proiezioni degli ultimi anni (tra le più apprezzate quelle dell’esperto di previdenza, e compianto, Stefano Patriarca) hanno più volte rilevato come i nati dopo il 1980 rischiano di andare in pensione a 73 anni. Per questo quattro anni fa l’allora sottosegretario all’Economia, del Pd, Pier Paolo Baretta provò a rilanciare il tema salvo dover fare dietrofront anche per le divisioni interne al suo partito che la ritenevano una misura iniqua per una fetta esigua della popolazione con maggiori possibilità economiche. Tridico invece ritiene che sia sostenibile: fonti Inps lo calcolano intorno ai 4 miliardi all’anno. Pensa ai laureati dal 1996 in poi, quando entrò in vigore il contributivo che ha agganciato l’assegno pensionistico all’entità dei contributi versati. Il numero uno Inps si dichiara a favore del salario minimo. Un tema divisivo tra i sindacati perché lo ritengono il grimaldello per smontare la contrattazione collettiva. Ma Tridico lo ritiene necessario perché «si rivolge soprattutto ai giovani. Salari congrui riducono anche l’emigrazione». Sarebbero due milioni i lavoratori a 6 euro netti l’ora «Intollerabile».

Leonardo Comegna per corriere.it il 22 ottobre 2021.

Il «cantiere» delle pensioni

Per superare lo scoglio del cosiddetto «scalone» che si produrrebbe con la fine della pensione «Quota 100», sul tavolo ci sono numerose proposte. Entra così nel vivo la discussione sulla Manovra da 25 miliardi che il governo presenterà a Bruxelles. Dove resta comunque il nodo dell’uscita anticipata dal lavoro. Una delle proposte avanzate (la più autorevole, a quanto pare) è quella di «Quota 102». Ma andiamo con ordine.

Addio Quota 100

Da gennaio 2022, terminata la sperimentazione della pensione anticipata con la Quota 100, tornerà, come detto, lo «scalone» anagrafico che, dai 62 anni di età e 38 di contributi, impone bruscamente un minimo di 67 anni di età per la pensione di vecchiaia e almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (uno in meno per le donne) per quella anticipata. 

L’idea di Quota 102

Nel «Documento programmatico di bilancio» (qui il testo), gli interventi in materia pensionistica tendono ad assicurare un graduale ed equilibrato passaggio verso il «regime ordinario». La via potrebbe passare attraverso una transizione rapida di due anni, offrendo per il 2022 la possibilità di uscita con 64 anni d’età e 38 anni di contribuzione ai lavoratori in parte o totalmente «retributivi». In soldoni, si tratta di una Quota 102 di fatto (per i soggetti interamente contributivi e che hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995 è già previsto un canale di pensionamento anticipato con 64 anni) e che nel 2023 si trasformerebbe in Quota 104 dodici mesi prima, per poi tornare 2024 alla riforma Fornero. 

La proposta dell’Inps: pensione a 63 anni

Anche altre opzioni sono state esplorate, compreso il cosiddetto «Ape contributivo». Ossia la proposta del presidente dell’Inps Pasquale Tridico, di consentire l’uscita anticipata da 63/64 anni con una penalizzazione dell’assegno fino al raggiungimento dei 67 anni. In pratica, ai lavoratori appartenenti al sistema misto verrebbe garantita la possibilità di accedere intorno ai 63/64 anni a una prestazione di importo pari alla quota contributiva maturata alla data della richiesta. Per poi avere la pensione completa al raggiungimento dell’età di vecchiaia. Proposta bocciata sia dalla Lega che da tutte le organizzazioni sindacali.

Questione di soldi

A Palazzo Chigi si è subito chiesto quale sarebbe l’impatto di Quota 102 sui conti pubblici. Probabilmente più limitato rispetto a quello avuto da Quota 100 (oltre 340 mila persone in pensione fino allo scorso agosto con una spesa di 18,8 miliardi), perché di fatto continua ad escludere chi era rimasto escluso già da Quota 100 per età. Mentre include solo coloro che non hanno potuto approfittare della misura sperimentale perché non avevano contributi sufficienti. La platea di coloro che avrebbero i requisiti è di circa 50 mila lavoratori, ma naturalmente saranno i singoli a decidere se andare in pensione o meno prima dell’età di vecchiaia e quindi il numero effettivo degli utilizzatori potrebbe essere più basso. Quota 104, invece, risulta essere più restrittiva. Insomma, si rischia di fare i conti senza l’oste, dato che dipenderà molto se sarà libera o con una base minima di età e contributi raggiunti. Ad ogni modo, il vero problema, che i sindacati hanno già sottolineato, è che Quota 102 e 104 sarebbero soluzioni pensionistiche «per pochi». E occorre evitare di ricreare il fenomeno dei famosi «esodati». 

L’Ape social, Opzione donna e il contratto di espansione

Sul tavolo resterebbero altri nodi da sciogliere, come l’ampliamento a nuove categorie dell’Ape social, la proroga di Opzione donna e anche l’eventuale ampliamento del contratto di espansione. E cioè l’uscita anticipata dal lavoro fino a 5 anni prima dal momento in cui si maturano i requisiti di legge (67 anni o 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, uno in meno per le donne). Per non parlare della questione dell’adeguamento (22 milioni di interessati) all’inflazione degli assegni in essere. 

Riscatto della laure gratis: tutti d’accordo

Tutti d’accordo sulla proposta Inps sul riscatto della laurea gratuito. Il cui costo si stima in 4-5 miliardi l’anno. La misura, però, comporterebbe anche benefici. Incentiva il giovane e contribuisce all’aumento delle skill in un Paese dove il tasso dei laureati è tra i più bassi dell’Ue. Pareggerebbe, inoltre, una sorta di discriminazione che potrebbe denunciare chi resta di più tra i banchi di scuola, rispetto all’ingresso nel mercato del lavoro. Oggi chi vuole riscattare gli anni di studio ha a disposizione il riscatto «agevolato» che varrà anche nel 2022. La norma prevede che si possano riscattare, tranne alcune eccezioni, gli anni degli studi universitari a fini pensionistici senza limiti di età. A patto però di non avere versato contributi prima del 1996. In sintesi, è possibile riscattare fino a 5 anni di università, a un costo parametrato alla retribuzione, ma agevolato e che in media si è attestato attorno a 5.200 euro per anno di studio. Una spesa per lo Stato, ha sottolineato Tridico, che però metterebbe l’Italia sullo stesso piano di Paesi come la Germania, dove il riscatto gratuito è possibile anche per due anni delle scuole superiori.

Pensioni, come cambiano età e requisiti per il ritiro: sei casi dall’artigiano all’impiegato. Domenico Comegna su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2021.0 ottobre 2021

Dipendente

Quarant’anni non bastano più. Fino a qualche anno fa, per chi iniziava a lavorare molto giovane, questo era il massimo della carriera professionale. Per farla breve, per incassare la pensione prima dell’età di vecchiaia. Ossia 67 anni nel 2021 e 2022, poi ci sarà l’allungamento dovuto all’applicazione della cosiddetta speranza di vita, occorrono poco meno di 43 anni di versamenti. Più precisamente 42 anni e 10 mesi (un anno in meno le donne). Prendiamo il caso di un impiegato che raggiunge i 42 anni e 10 mesi a dicembre 2025. Qualche anno fa contava di lasciare il lavoro e cominciare a riscuotere le rendita da gennaio 2026. Ora dovrà aspettare 64 anni. Per starsene a casa dovrà attendere sino alla fine di marzo del 2027 per riscuotere l’anzianità dal successivo mese di aprile, dopo aver versato la 46 anni e 10 mesi.

La riforma

Uno schema che lascerebbe andare in pensione anticipata poche decine di migliaia di lavoratori il primo anno, penalizzando fortemente i lavoratori che oggi hanno 61-62 anni d’età e 37 di contributi. Costoro, se Quota 100 (62 + 38) fosse stata prorogata nel 2022, sarebbero potuti andare in pensione anticipata l’anno prossimo. Invece, con Quota 102 (64+38) nel 2022 e Quota 104 (66+38) nel 2023 non potrebbero più andare in pensione anticipata e dovrebbero aspettare fino al 2026 per la normale pensione.

Esodati

Stop alle salvaguardie a favore di lavoratori over 60 che hanno perso il posto di lavoro, in gran parte donne, con una vita lavorativa discontinua. Con la legge Fornero in una notte si sono visti dilatare di parecchio il tempo per raggiungere la pensione. L’ultimo provvedimento è stato fatto solo per 2.400. Secondo l’Inps sono state accolte solo 1.200 domande. Quindi ci sono state più domande respinte che accettate. I sindacati contavano che il problema fosse risolto con la nuova legge di Bilancio. Ma così non è stato.

Opzione donna

Estesa di un anno di «Opzione donna», ma sale di due anni l’età per accedervi. La pensione viene riconosciuta alle lavoratrici che entro fine 2021 hanno accumulato contributi per 35 anni e un’età di 60 anni per le dipendenti e a 61 anni per le autonome. In pratica, si potrà uscire con 60 anni per le dipendenti, ma bisognerà aspettare un anno di «finestra mobile». Quindi si otterrà la pensione a 61 anni per le dipendenti e a 62 e mezzo (18 mesi in più) per le autonome. Il caso della signora Rossi, impiegata in uno studio notarile: avendo compiuto 59 anni di età nel 2021 contava di mettersi a riposo da luglio del 2022. Ma dovrà attendere i 60 anni, che in aggiunta ai 18 mesi per l’apertura della «finestra» diventano 61 e mezzo. La sua amica Bianchi, titolare di una merceria, potrà ritirarsi solo dopo aver compiuto 63 anni.

Con l’Ape sociale

Confermata la proroga di un anno dell’Ape sociale. Chi nel corso del 2022 compie 63 anni e versa in situazione di disagio, riceverà, in attesa di maturare l’età per la pensione di vecchiaia (67 anni anche per il 2022), un sussidio mensile massimo di 1.500 euro lordi. Per i lavoratori disoccupati per licenziamento, dimissioni o risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di licenziamento economico, è caduto il requisito di «almeno tre mesi» dalla conclusione della fruizione dell’indennità di disoccupazione. Tra i beneficiari dell’Ape sociale aggiunte otto categorie. Pertanto, la maestra della materna, con 36 anni di contributi, gli ultimi dei quali impegnati in questa attività, potrà richiedere l’indennità di accompagnamento alla pensione a 63 anni.

Giovane titolare di un’attività

Il signor Rossi, classe 1985, giovane titolare dell’autofficina ereditata dal padre, non pensa ancora alla sua pensione. Forse non sa che potrà mettersi a riposo ad un’età che supera abbondantemente i 70 anni. Questo il dettaglio. L’età della vecchiaia è fissata a 67 anni, cui va aggiunto l’incremento legato all’aspettativa di vita, che gli statistici stimano in 3 anni e 10 mesi in più nel 2050. Arriviamo a 68 anni e 10 mesi. A tutto ciò va aggiunto il ritardo dovuto alla finestra «scorrevole», altri tre mesi. Risultato: 70 anni e 4 mesi. Cinque anni e quattro mesi in più dell’aspettativa che il nostro giovane artigiano aveva quando l’anno scorso è entrato in officina. Né potrà raggiungere la pensione di anzianità che comunque non conquisterebbe prima del 2049.

Fornero, Salvini e la nemesi per chi non discerne. Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Non stupisce che il ritorno di Elsa Fornero, consulente (a titolo gratuito) del governo Draghi sugli indirizzi di politica economica, abbia provocato in Salvini la schiuma alla bocca dallo choc.  In queste ore è pronta un’interrogazione parlamentare e tuttavia la nemesi è servita per la lega e per i cinquestelle che sull’ex ministro Fornero hanno attivato in questi anni di populismo al potere una campagna di rara aggressività politica.  La scelta di nominare l’ex ministro del governo Monti consulente dell’esecutivo Draghi è di Bruno Tabacci, sottosegretario alla presidenza del Consiglio il quale (vecchia volpe) fa sapere di aver provveduto istituire un Consiglio d’indirizzo chiamato a orientare, potenziare e rendere efficiente l’attività programmatica in materia di coordinamento della politica economica presso il Dipartimento di programmazione economica presso l’esecutivo. L’incarico è tutto perfettamente coerente con i corsi-ricorsi della politica italiana quindi non una novità: dopo anni di fuffa cosmica di dirette social dai balconi o terrazzi (ma ve le ricordate quelle sceneggiate di Di Maio e Salvini?), di comunicazione tanto esasperata quanto inconcludente, arriva un momento in cui si prendono decisioni sostanziali, pezzi di partito buttano la palla in tribuna e la patata bollente la lasciano ad altri. La storia ci ha insegnato troppe volte che arriva sempre, dopo la caciara, il momento del “restauro” il cui compito è quello di mettere mano allo sfascio accumulato in precedenza.   Come camminare su un campo di macerie, in un paese immobile e irrigidito da posizioni polarizzate, la task force di Draghi ha il compito di offrire il proprio know-how per l’economia dei prossimi anni post pandemia suggerendo le priorità sugli investimenti più importanti (infrastrutture, scuola e ricerca, innovazione, sviluppo sostenibile, welfare del futuro etc.) ai ministeri competenti delle deleghe economiche.   I verbi – osservando l’incarico – non sono messi a caso (orientare – potenziare – efficientare) bensì indicano il peso della responsabilità di gestione nei prossimi anni. Può sembrare una provocazione ma questi stessi requisiti-obiettivi attesi sono già filtri che escludono a monte alcuni leader politici del momento, troppo occupati in quello che gli riesce davvero molto bene ovvero discutere sul nulla e scannarsi su temi laterali, periferici, al limite dell’esoterico. Ciò detto, interpellare i politici (o no) è indifferente. Non credo di essere troppo duro ma provate a guardare un talk politico degli ultimi mesi e potreste misurare in maniera empirica un bassissimo e sconfortante tasso dialettico (le contese politiche di un tempo offrivano argomenti e controargomenti, visioni interessanti, verticalità e divulgazione) alla vista del quale lo sbaraglio genera lo sbadiglio.  Gli attuali protagonisti girano fuori dai palazzi con il caldo afoso più alla ricerca dei cronisti che intenti a capirci qualcosa del paese in difficoltà, metterci la faccia sui problemi. Il motivo?  Credo che esista anche un fattore D, un fattore chiamato disagio. Quel disagio di non saper portare alla comunità un contributo autorevole, possedere un know-how a cui fare riferimento per essere volitivi, spendibili, pronti più a dare che a ricevere. Per converso, piuttosto mettere fieno in cascina si continua a raschiare il barile incuranti di risultare marziani, suonatori del transatlantico che cola a picco.  Paradossalmente, se alcuni protagonisti applicassero a se stessi l’orrenda espressione “gli italiani ci pagano per lavorare” sarebbero – in una logica conseguente – licenziati in tronco. Parafrasando Chiara Saraceno (La Stampa) è un disastro antropologico e – in questo caso – vocazionale giacché se la politica non discerne e non sceglie che senso ha? Se la politica continua a guardare la realtà con lo strabismo del consenso a tutti i costi dove può portarci? E non è solamente un deficit – ripeto – di background proprio (essere esperto in…)  ma fondamentalmente è mancanza di coraggio politico, inettitudine ad elaborare scelte di buonsenso, cambiare in meglio, riformare e correggersi se è necessario magari dopo un percorso di autocritica, la virtù – ammoniva il poeta Thomas S. Eliot – più difficile da conquistare perché niente è più arduo a morire della volontà di pensar bene di se stessi, sempre e comunque.  Per questi motivi dissento con la retorica di alcuni commentatori che denunciano- tornando a Draghi e alla Fornero – di restaurazione. Sì perchè con i governi di prima si stava una favola vero?

QUANTI LUOGHI COMUNI NON VERI SULLE PENSIONI E SU ELSA FORNERO. L’ex ministra del governo Monti è stata chiamata a fare parte, insieme ad altre 25 personalità competenti in diverse materie, del Consiglio di indirizzo del Dipe. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 21 luglio 2021. Solo in un Paese che ha perso il senso della misura può succedere che la nomina, in una commissione consultiva coordinata da un sottosegretario, di una economista di fama internazionale, professore ordinario in una Università tra le più quotate, autrice di una lunga lista di libri sulla materia, diventi un caso di cui si occupano i media, come se un marziano fosse sbarcato a Palazzo Chigi.

Parliamo di Elsa Fornero che è stata chiamata a fare parte, insieme ad altre 25 personalità competenti in diverse materie, del Consiglio di indirizzo del Dipe. Ad assistere alla sorpresa che la nomina ha suscitato verrebbe da pensare che la mia amica Elsa sia stata resuscitata da Draghi. E ovviamente si sono aggiunte le proteste da parte di quel settore della politica che ha prosperato grazie alle menzogne propalate sulla riforma delle pensioni che porta il nome dell’ex ministro del Lavoro del governo Monti. Siamo all’Oscar della malafede nei confronti di una legge (il decreto Salva Italia, agli articoli 24 e 25,  era il contenitore della riforma del 2011) approvata da una maggioranza di due terzi dei parlamentari, in ambedue le Camere; una riforma che è considerata ottima da tutti gli osservatori internazionali, che è difesa dalla Ue, che non ha prodotto nessuno degli effetti devastanti di cui è accusata, tanto che l’Italia è divenuta – nonostante Elsa Fornero – il “Paese dell’anticipo’’ poiché  il numero delle pensioni anticipate supera di circa due milioni quello dei trattamenti di vecchiaia. Nei confronti della riforma Fornero si sono profuse critiche per sentito dire, si sono presi per validi i più beceri luoghi comuni, senza mai produrre una giustificazione fondata su dati reali, a portata di tutti. Ma al di là delle considerazioni di merito come si può “personalizzare’’ (fino ad organizzare manifestazioni sotto casa) una legge come se Elsa Fornero l’avesse concepita ed imposta da sola con un colpo di Stato? I partiti – anche quelli che appoggiavano il governo Monti – dicono di essere stati costretti a votarla per la situazione in cui si trovava il Paese. Ma il governo e il ministro del Lavoro non operavano forse in quella medesima situazione di crisi? Eppure la fatwa non è stata mai ritirata come fanno gli oltranzisti islamici con chi “offende’’ il Profeta. Di pensioni si dovrà parlare: il ministro Andrea Orlando incontrerà tra pochi giorni i sindacati per discutere della materia e dovrà misurarsi con una piattaforma fuori non solo dal mercato, ma dalla storia. È veramente singolare che questo Paese rifiuti di fare i conti con gli effetti congiunti della denatalità e dell’invecchiamento. Basta varcare il confine col Canton Ticino per accorgersi che sono i giovani a chiedere di elevare l’età pensionabile proprio per fare fronte agli squilibri prodotti dalla demografia. I Giovani liberali svizzeri – scrive una nota del Ticinonews – hanno presentato nei giorni scorsi a Berna (al governo federale) una petizione “Per una previdenza vecchiaia sicura e sostenibile (Iniziativa sulle pensioni) che ha raccolto 145mila firme. Il testo chiede che l’età pensionabile sia prima aumentata da 65 a 66 anni e poi legata alla speranza di vita. Concretamente l’età pensionabile per entrambi i sessi verrebbe innalzata a 66 anni entro il 2032. In seguito dovrebbe essere adattata alla speranza di vita aumentando di 0,8 mesi per ogni mese di aspettativa di vita supplementare. I giovani liberali – spiega la nota – difendono la loro proposta spiegando che le condizioni quadro dell’AVS (la nostra IVS) sono cambiate drasticamente dalla sua introduzione, nel 1948. Oggi, per ogni 44 anni di attività, ci sono 22 anni di pensione, mentre nel 1948 erano solo 12,5. Inoltre, attualmente 3,5 persone occupate finanziano un pensionato, nel 2050 sarebbero solo 2.  Sono considerazioni che, mutatis mutandis, valgono anche da noi. «Se non facciamo nulla, la Svizzera dovrà affrontare una marea demografica», ha dichiarato Matthias Müller, presidente della sezione giovanile citata. A suo avviso, solo con questa riorganizzazione il finanziamento dell’AVS potrà essere assicurato a lungo termine. Certo: noi abbiamo già dato per molti aspetti anche se va considerato che la Svizzera non ha un numero prevalente di pensioni anticipate. I lavoratori vanno – come Dio comanda – in pensione di vecchiaia. E basta. Ma non c’è bisogno di varcare le Alpi per leggere considerazioni talmente evidenti che solo dei “terrapiattisti’’ delle pensioni possono mettere in discussione. Come scrive Enzo Cartaregia nel saggio “Pubblica (im)previdenza’’: «È allora bene ribadire qui che, sebbene non esistano categorie assolute di giusto o sbagliato nella politica e nei rapporti tra Stato e cittadini, è tuttavia necessario “per costituzione” che in uno stato democratico si esigano opportune valutazioni ex-ante ed ex-post degli interventi di policy adottati in nome e per conto dei cittadini; che si ponga il tema di una comunicazione pubblica effettivamente valida e leale nella separazione tra funzioni di pubblica utilità e comunicazione politica; che si ancorino queste due prime prerogative – in casi come quello della previdenza, in cui la politica non può improvvisare soluzioni che le leggi dell’economia sgretolerebbero come castelli di sabbia – alle necessità finanziarie che le istituzioni hanno il compito di rispettare nell’interesse dei contribuenti». Gian Carlo Blangiardo è un demografo ed è stato nominato presidente dell’Istat dal governo Conte 1. Ciò non si significa che uno scienziato di vaglia come lui abbia delle appartenenze politiche. Ma i fatti hanno la testa dura. In una recente intervista su Huffpost, tra tante considerazioni che sarebbe bene mandare a memoria, il presidente dell’Istituto di Statistica ha dichiarato: «Con una demografia come questa non è sostenibile che le imprese mandino il proprio personale via a 55-60 anni. Una soluzione, invece, sarebbe quella di mantenere i lavoratori più anziani aggiornati con programmi di formazione continua. L’interscambio fra le generazioni è un valore importante, che viene perduto con i prepensionamenti, i quali creano una brusca cesura. E non è vero, come spesso si dice, che per ogni anziano che se ne va si libera un posto per un giovane. La verità è che non c’è contrapposizione tra giovani e anziani, come invece molti hanno fatto e fanno credere: possono e anzi devono convivere». E alla domanda maliziosa del giornalista sulla responsabilità della legislazione, Blangiardo risponde: «Non so dire se, e in che misura, sia colpa della legislazione. So soltanto che ci sono troppe uscite anticipate. E a questo si dovrebbe trovare un rimedio».  Vale anche per queste considerazioni la cancel culture applicata ad Elsa Fornero? 

Da corriere.it l'1 giugno 2021. L’Italia è ancora la patria dei baby pensionati. Nonostante siano trascorsi decenni, c’è oltre mezzo milione di pensioni che viene regolarmente pagato ogni mese da oltre 40 anni, facendo lievitare i conti dell’Inps. Secondo quanto emerge dagli Osservatori dell’Istituto sulle pensioni vigenti a inizio 2021, sono per l’esattezza più di 561 mila le pensioni risalenti al 1981 e agli anni precedenti considerando complessivamente quelle di vecchiaia, quelle ai superstiti e infine quelle di invalidità previdenziali. Un numero che scende a 318.000 se invece non si considerano gli assegni di invalidità. Per il settore privato le pensioni fino al 1980 sono 423.009, mentre 67.245 quelle decorrenti nel 1981. Per il pubblico le pensioni decorrenti nel 1980 e negli anni precedenti sono 53.274; 17.508 quelle risalenti al 1981. Gli assegni vanno in pratica avanti da quando a guidare l’Unione sovietica in piena Guerra fredda c’era ancora Breznev e da quando l’Italia viveva per la prima volta l’esperienza politica del Pentapartito con Giovanni Spadolini presidente del Consiglio.

L’età media di pensionamento nel pubblico pari a 44 anni. Nel settore privato, le pensioni in vigore almeno dal 1980 hanno un’età media alla decorrenza del pensionato di 41,84 anni per un importo medio di 587 euro: un dato che risente soprattutto della bassa età media alla decorrenza delle 168.403 pensioni ai superstiti (38,29 anni) e di quella delle 200.972 pensioni di invalidità previdenziale (41,63 anni); mentre per le 53.634 pensioni di vecchiaia l’età media al momento della liquidazione della pensione era di 53,76 anni. A quei tempi, infatti, erano in vigore diverse regole per l’accesso alla pensione con le donne che andavano in pensione di vecchiaia a 55 anni. Guardando invece alle pensioni liquidate nel 2020, nel settore privato l’età media è di 67,02 anni con una decorrenza di 64,17 anni per la vecchiaia (categoria che comprende le uscite per pensione anticipata). Per il settore pubblico l’età media alla decorrenza per le pensioni che risalgono almeno al 1980 è di 41,2 anni con l’età media per le 21.104 pensioni di vecchiaia di 44 anni (e un importo medio mensile di 1.525 euro). In quegli anni per le donne dipendenti pubbliche con figli era possibile andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno di contributi (la cosiddetta baby pensione) e ci sono ancora migliaia di pensioni in vigore grazie a quella norma e alle altre che consentivano il collocamento a riposo con 20-25 anni di lavoro. L’età media alla decorrenza delle pensioni liquidate nel 2020 nel pubblico è invece di 65,8 anni con un’età più bassa per le pensioni di vecchiaia (63,9). Risalgono infine almeno al 1980 anche 16.787 pensioni di inabilità (38,2 anni l’età media alla decorrenza) e 15.383 assegni ai superstiti con 40,8 anni alla decorrenza (e un assegno medio mensile di 1.181 euro).

Morti Covid: dove mettere il miliardo di euro in pensioni che l’Inps risparmia ogni anno. DATAROOM di Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 16 maggio 2021 su Il Corriere della Sera. Considerando l’alternativa, invecchiare è la miglior cosa che possa capitare nella vita. Possibilmente in salute. Sappiamo che purtroppo non va sempre così. In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030. Parliamo di persone che non sono in grado di fare niente da soli e hanno bisogno di un accompagnamento. E allora proviamo a metterci nei loro panni: cosa devono fare per avere il sostegno a cui hanno diritto? In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030.

Odissea tra uffici e sportelli. Per il riconoscimento di una invalidità al 100% perché non riesco a camminare, lavarmi, vestirmi né a mangiare senza l’aiuto di un accompagnatore, devo andare dal medico di famiglia che mi fa la certificazione, che poi invio all’Inps per ottenere un codice identificativo. Con questo codice vado a fare la visita medica all’Asl, e poi presento online la domanda. Ma se non ho dimestichezza posso rivolgermi ad un patronato. A questo punto il mio caso viene esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps. Una volta ricevuto dall’Istituto di previdenza il verbale di indennità civile, compilo il modulo AP70 che mi consente di ricevere dalla stessa Inps l’indennità di accompagnamento di 522,10 euro al mese, indipendentemente dal reddito. Non ci sono dati ufficiali sui tempi di questo iter, ma le esperienze raccolte sul campo dicono che passano dai cinque ai sei mesi.

Una commissione diversa per ogni servizio. Da non autosufficiente ho poi bisogno di altre cose: un posto in una struttura diurna che mi ospita per sei/otto ore durante il giorno, o dell’infermiere che viene a casa (si chiama Adi, e sta per Assistenza domiciliare integrata), oppure dei pannoloni. Devo quindi rivolgermi all’Asl, perché questi servizi sono finanziati dal Sistema sanitario nazionale. Ogni Regione, e perfino ogni Asl, è organizzata a modo suo: in linea di massima queste richieste passano da tre commissioni diverse dove un geriatra, uno psicologo, un infermiere e un medico di famiglia decidono se ho diritto o meno a quel che chiedo. Se ho un reddito basso e nessun familiare in grado di occuparsi di me, e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti ad alzarmi dal letto, a vestirmi e a mangiare, mi reco agli sportelli dei Servizi sociali del Comune, dove un’altra commissione valuterà se mi spetta il voucher per pagare quello che in gergo tecnico è il Sad, ossia il Servizio di assistenza domiciliare. Ma sempre il Comune, oltre al servizio sanitario, può mettere a disposizione strutture semi-residenziali per trascorrere la giornata. Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi. Ognuno con i suoi tempi e criteri di accesso. Un calvario per le famiglie che rende di per sé sfinente e disincentivante richiedere il sostegno che spetta. Morale: se beneficio dell’indennità di accompagnamento dell’Inps, dell’assistenza domiciliare del Ssn e di servizi semi-residenziali del Comune devo passare da tre iter diversi.

Sostegno solo a un anziano su due. Il quadro è così frammentato che nemmeno i ministeri competenti oggi possiedono una mappa completa della situazione reale: né sul tasso di copertura dei servizi, né sui costi perché le varie banche dati non comunicano tra loro. Una stima è appena stata realizzata dal Cergas-Bocconi. Gli anziani che ricevono l’indennità di accompagnamento sono 1,4 milioni, per una spesa pubblica di 8,8 miliardi di euro. Di questi 911 mila anziani beneficiano anche di servizi domiciliari: in 779 mila dall’Asl, mentre in 131 mila dal Comune. Per quel che riguarda l’assistenza presso i centri diurni, 270 mila anziani la ricevono nelle strutture semi-residenziali dei Comuni, mentre 24 mila dal sistema sanitario nazionale. La spesa pubblica totale per questi servizi è di 200 milioni. Il costo complessivo ammonta a 11,16 miliardi, che diventano 15,22 se ci aggiungiamo le case di riposo, dove sono ospitati altri 287 mila anziani. Una spesa consistente per interventi che tuttavia raggiungono poco più del 50% degli anziani non autosufficienti e con servizi scarsi. Basti pensare che le ore di assistenza a domicilio con l’Adi sono in media 21 in un anno, mentre per il Sad la spesa media annua in voucher è di 2.090 euro. Di fatto la cura degli anziani viene scaricata sulle famiglie: sono 8 milioni i familiari che assistono non autosufficienti. Per supplire alla mancanza di assistenza pubblica è stata fatta la legge 104 del 1992: i parenti fino al terzo grado possono prendere 3 giorni al mese di permesso retribuito per assistere la persona bisognosa assentandosi dal lavoro: da un lato ciò è insufficiente per chi è solo, dall’altro la norma si presta a una lunga serie di abusi difficilmente controllabili. Inoltre si aggiungono un milione di badanti, per una spesa complessiva di 6,8 miliardi. E quando le famiglie non sono in grado di pagare di tasca loro i servizi domiciliari o semiresidenziali, gli anziani finiscono ricoverati in modo improprio in ospedale.

Il Recovery Plan: gli investimenti e la promessa di riforma. In Italia una riforma è attesa dalla fine degli anni Novanta. Ora sono previsti 500 milioni di investimenti in «Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dei ricoveri» e 3 miliardi alla voce «Assistenza domiciliare». I soldi arriveranno dal Recovery Plan che ha raccolto alcune delle proposte sviluppate dal Network Non Autosufficienza, coordinato da Cristiano Gori, e promosse e sostenute da decine di associazioni fra cui Caritas, il Forum Diseguaglianze e Diversità e Cittadinanzattiva. Dal Recovery Plan arriva anche la promessa di realizzare con un’apposita legge, da varare entro la primavera 2023, una «riforma organica degli interventi (…). I suoi cardini saranno la semplificazione dei percorsi di accesso alle prestazioni, un rafforzamento dei servizi territoriali di domiciliarità, e quando la permanenza in un contesto familiare non è più possibile, la progressiva riqualificazione delle strutture residenziali». Ovvero: meno burocrazia, più assistenza a casa e più case di riposo. Come tradurre nella pratica questi intenti, e integrarli di quel manca, è scritto invece nelle proposte di Francesco Longo e Gianmario Cinelli del Cergas-Bocconi, presentate nelle scorse settimane ai ministeri della Salute e del Lavoro e politiche sociali. I ricercatori del Cergas-Bocconi hanno elaborato una proposta di riforma complessiva del sistema che prevede di istituire un servizio nazionale per gli anziani non autosufficienti, come avvenuto nel 1978 per il Ssn.

Più assistenza senza aumento di spesa. Il nuovo sistema si fonda su tre elementi chiave. In primo luogo, facciamola finita con anziani e famiglie che devono peregrinare all’Inps, all’Asl e ai Comuni e istituiamo un’unica commissione che stabilisce chi può avere accesso ai servizi di sostegno. In secondo luogo, diamo un’assistenza commisurata alle effettive condizioni di salute degli anziani. Oggi il sostegno è uguale per tutti gli assistiti. Ad esempio, ricalcando il modello tedesco introdotto nel 1995, un anziano in condizione di autosufficienza limitata che sceglie un aiuto in denaro riceverebbe 288 euro al mese; un non autosufficiente che sceglie l’assistenza a domicilio e in strutture residenziali beneficerebbe di servizi per 1.815 euro al mese. Infine, bisogna affrontare di petto la questione delle badanti, spesso non in grado di assistere gli anziani adeguatamente e alle quali oggi lo Stato non riconosce il ruolo di cura. Vanno formate e regolarizzate: oggi il 60% sono clandestine. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid. Senza spendere un euro in più, ma solo riorganizzando il sistema si possono assistere meglio 590.000 anziani in più. Ma dal totale restano sempre esclusi un milione di non autosufficienti. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l’assistenza quel miliardo di euro in pensioni all’anno che l’Inps sta risparmiando sui morti Covid. La riduzione della spesa pensionistica calcolata per il 2020 è di 1,11 miliardi di euro, se la proiettiamo sul decennio 2020-2029 sulla base delle aspettative di vita rilevate dalle tavole di mortalità Istat 2019, arriviamo ad un totale di circa 11,9 miliardi di pensioni che nei prossimi 10 anni non verranno erogate.

I dieci modi per andare in pensione anticipata nel 2021. Today.it il 29/3/2021. Dieci metodi per il ritiro anticipato dal lavoro nel 2021. Ovvero: la pensione anticipata vera e propria, Quota 100, l'assegno straordinario, l'Ape sociale, la Rita, l'isopensione e altri. Ci sono dieci modi per andare in pensione anticipata nel 2021. Dieci scorciatoie che passano per vie ordinarie, ovvero previste dalle norme vigenti, oppure sfruttando l'attività che si effettua e le possibilità di ritiro prima del tempo. Oppure con l'aiuto dello Stato o dell'azienda. Ed è possibile anche l'anticipo di una rendita sulla futura pensione integrativa mentre si è ancora al lavoro. I dieci modi per andare in pensione anticipata nel 2021 li enumera Italia Oggi.

Il primo è il più semplice, ovvero la pensione anticipata. È possibile accedere attraverso il requisito contributivo, ovvero la valutazione dei periodi contributivi per i lavoratori che hanno contributi versati al 31 dicembre 1995 (ovvero coloro che appartengono al regime retributivo o misto di calcolo della pensione) e coloro che hanno iniziato a versare i contributi dal primo gennaio 1996. Il quotidiano spiega che in entrambi i casi e fino al 31 dicembre 2026 le donne possono andare in pensione con 41 anni e 10 mesi di contributi, gli uomini con 42 anni e 10 mesi. Questo significa che è possibile andare in pensione con 42 anni e 1 mese le donne e con 43 anni e 1 mese gli uomini. Nel caso di lavoratori senza contributi al 31/12/1995 è possibile un'ulteriore uscita: a 64 anni di età con 20 anni di contributi.

Poi c'è quota 100. La misura sperimentale varata dal primo governo Conte si esaurisce quest'anno e consente di andare in pensione maturando la somma di 100 tra somma di età (non inferiore ai 62 anni) e contributi (almeno 38 anni). Quota 100 varrà fino al 31 dicembre 2021 ed entro quel termine è necessario maturare l'età e i contributi per garantirsi il diritto al pensionamento anticipato. Possono avvalersi di quota 100 i lavoratori dipendenti ed autonomi, inclusi i parasubordinati del settore pubblico e privato. Sono esclusi il personale militare e delle forze armate. Il cumulo contributivo è utilizzabile. 

Il terzo metodo è l'assegno straordinario fondi solidarietà bilaterali. Si tratta di un'invenzione della riforma Fornero poi confermata dal Jobs Act.  I fondi servono per erogare prestazioni a sostegno del reddito in costanza di rapporto di lavoro, prestazioni integrative, assegni straordinari per il sostegno al reddito riconosciuti nel quadro di processi di agevolazioni all'esodo e contributi al finanziamento di programmi formativi o di lavoratori. I fondi possono prevedere l'erogazione di un assegno straordinario in caso di riduzione o sospensione dell'attività lavorativa. Ma bisogna maturare i requisiti per il pensionamento entro i successivi cinque anni. Le regole valgono anche per quota 100. 

Anche i lavoratori precoci possono andare in pensione anticipata. Si tratta di coloro che hanno lavorato e versato contributi prima dei 19 anni di età e qualora siano disoccupati, invalidi, impegnati in attività usuranti o gravose, possono accedere alla pensione anticipata con 41 anni di contributi. L'unico requisito contributivo è fissato a 41 anni ma è applicabile una finestra di tre mesi per l'accesso alla pensione. L'opportunità esiste dal primo maggio 2017 e interessa solo i lavoratori precoci e appartenenti a una categoria particolare. 

Il quinto metodo per andare in pensione prima nel 2021 è sfruttare le possibilità date a chi fa un lavoro usurante. Si tratta di lavori faticosi e pesanti e dei lavori notturni per gran parte o tutto l'anno. L'attività usurante deve essere stata svolta per almeno metà della vita lavorativa e per almeno 7 anni negli ultimi dieci di lavoro. Italia Oggi spiega che per avere la pensione anticipata, il lavoratore deve prima ottenere il riconoscimento del diritto al beneficio da parte dell’Inps. A tal fine deve fare domanda alla sede territorialmente competente dell’Inps entro il 1° maggio dell’anno precedente quello durante il quale saranno maturati i requisiti (età, contributi, «quota») per il diritto al prepensionamento. In particolare, entro il prossimo 1° maggio 2021 vanno presentate le domande da parte dei lavoratori che maturano i requisiti agevolati nel corso dell’anno 2022.

Un altro modo per usufruire del diritto anticipato al ritiro dal lavoro è l'Opzione Donna. Dal primo gennaio 2021 la misura è stata prorogata di un altro anno e possono usufruirne le lavoratrici del settore pubblico e privato, dipendenti o autonome,  che entro il 31 dicembre 2020 hanno compiuto 58 anni d’età se dipendenti o 59 anni se autonome, in presenza di almeno 35 anni di contributi. In cambio, però, ricevono la pensione calcolata con il sistema contributivo dopo una "finestra" di attesa di 12/18 mesi. 

Poi c'è l'Ape sociale, che permette a chi compie i 63 anni di età di mettersi a riposo in attesa di maturare la pensione di vecchiaia. Il sussidio mensile può arrivare a 1500 euro lordi. La prima scadenza per fare richiesta è il 31 marzo, la seconda il 15 luglio. Se si presenta in tempo la domanda si ha diritto agli arretrati a partire da gennaio. Questo a condizione di aver cessato l'attività lavorativa, non essere titolare di pensione diretta, avere 30 anni di contributi o 36 per chi svolge attività gravose e maturare una pensione di vecchiaia di importo non superiore a 1,4 volte l'importo della pensione minima dell'Inps. Bisogna versare in stato di disoccupazione per licenziamento, dimissioni per giusta causa o per risoluzione consensuale. Non bisogna percepire l'indennità di disoccupazione. 

L'ottavo metodo è il contratto di espansione che  in cambio di formazione e di nuove assunzioni autorizza il licenziamento dei dipendenti prossimi alla pensione con uno scivolo di cinque anni, nonché a ridurre l’orario di lavoro agli altri lavoratori, che sono ripagati in parte con la Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria). La legge di Bilancio del 2021 (legge n. 178/2020) ha ridotto a 500 il requisito dei lavoratori richiesto alle aziende per beneficiare del contratto di espansione limitatamente all’anno 2021 (e a 250, sempre solo per l’anno in corso 2021, nel caso in cui si preveda anche il riconoscimento di un’indennità di accompagnamento alla pensione. L'Inps ha dettato le istruzioni operative con la circolare n. 48 del 24 marzo 2021.

Il nono modo è la cosiddetta isopensione, ovvero la possibilità di andare in pensione sette anni prima con l'Esodo Fornero. Il metodo si rivolge alle aziende che hanno lavoratori ai quali mancano sette anni per maturare il diritto ad andare in pensione. La misura si applica ai datori di lavoro che hanno almeno 15 dipendenti. L’Inps ha precisato che non può essere accolta la domanda di pensione anticipata nel caso in cui il lavoratore sia già titolare di pensione d’invalidità o di assegno ordinario d’invalidità (circolare n. 119/2013). Oltre l'accordo serve una domanda.

Infine c'è la possibilità offerta da Rita, ovvero la Rendita Integrativa Temporanea Anticipata. Offre la possibilità di ricevere una rendita dal proprio fondo pensione in attesa del ritiro. La Rita rende possibile mettersi a riposo già a 57 anni ma, aggiunge il quotidiano, non si tratta di un vero e proprio pensionamento. È semplicemente la facoltà di ricevere questa "rendita temporanea", ovvero l’erogazione anzitempo, cioè, di quanto un lavoratore ha versato e accumulato presso un fondo pensione. Per usufruirne bisogna aver perso il posto di lavoro e la Rita può essere richiesta fino a cinque anni prima della maturazione dell'età della pensione di vecchiaia (ovvero 67 anni) e dieci anni prima (ovvero a 57 anni) se si è disoccupati da oltre 24 mesi. In questo caso non è richiesto il possesso di venti anni di contributi versati.

·        Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

Da liberoquotidiano.it il 2 novembre 2021. "Sei una m***a". Nuovo blitz di Vittorio Brumotti davanti alle telecamere di Striscia la notizia. Stavolta il rider spericolato di Antonio Ricci non sfida gli spacciatori alla luce del giorno, ma i parcheggiatori incivili di Milano. "Andiamo a concimare i furbetti della sosta", preannuncia Brumotti, che non rischia la pelle come in altri casi ma "semplicemente" qualche insulto e sonori "vaffa". Brumotti si dirige nel salotto buono di Milano, nel pieno quadrilatero della moda. Qui, come del resto in molte altre parti della città, i posti auto riservati ai disabili vengono presi d'assalto da parcheggiatori mordi-e-fuggi, e non solo. L'inviato di Striscia, scoperta la furbata, piazza una bella "cacca gigante" di gomma sul tetto dell'auto, giusto per far capire ai passanti con chi hanno a che fare. Una gogna pubblica che qualcuno non accetta. Una signora esce dall'auto e lo affronta: "Ma se arriva un disabile mi suona e io la sposto", protesta. Ma Brumotti, sostenuto da qualche curioso sul marciapiede, insiste e alla fine la parcheggiatrice è costretta a spostare subito l'auto, piazzata peraltro poco più avanti, davanti a un passo carrabile. E qualcuno, ironicamente, vedendo il simpatico gadget di Brumotti le urla: "Sei una m***a". Mali estremi, estremi rimedi?

(ANSA l'1 ottobre 2021) - Sul riconoscimento dell'invalidità civile "ci sono ritardi allarmanti a discapito delle fasce più deboli della popolazione". A denunciarlo, in un comunicato congiunto, Cittadinanzattiva e FIMMG Inps. "Ad ormai un anno di distanza dal primo segnale di allarme, lanciato ad ottobre 2020 dal Presidente del CIV INPS, Guglielmo Loy, che segnalava la presenza di una giacenza preoccupante nei verbali di accertamento per l'invalidità civile, continuiamo a ricevere segnalazioni di ritardi che coinvolgono e danneggiano le fasce più deboli della popolazione, anche con grandi disomogeneità tra le regioni", afferma Isabella Mori di Cittadinanzattiva. Il problema, prosegue Alfredo Petrone, Segretario Nazionale Settore FIMMG INPS, "si è acuito gravemente sia per la sospensione delle visite mediche durante il lockdown sia per la progressiva riduzione del personale, dipendente e convenzionato, appartenente all'area medica. Se l'INPS non pone seri rimedi in tempi brevi, la situazione rischia di diventare ingovernabile". Da quando è emerso il problema, "ancora troppo poco è stato fatto e i cittadini continuano ad aspettare mesi e mesi per ottenere un verbale che attesti lo stato di invalidità o di handicap, con risvolti talvolta molto pesanti, come nel caso - rileva ancora Mori - dei ragazzi che avrebbero diritto al sostegno a scuola o dei lavoratori che rientrerebbero nelle categorie protette, o di chi avrebbe diritto ad un collocamento diverso nelle procedure concorsuali. L'incremento di personale e le altre misure previste dall'Accordo quadro potrebbero contribuire alla soluzione ma, nello stesso tempo, occorrerebbero procedure di semplificazione, soprattutto in caso di patologie stabilizzate e non reversibili, per andare incontro alle esigenze dei cittadini e dare un impatto positivo alla categoria dei professionisti anche in termini organizzativi".

Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" l'8 agosto 2021. Considerando l'alternativa, invecchiare è la miglior cosa che possa capitare nella vita. Possibilmente in salute. Sappiamo che purtroppo non va sempre così. In Italia ci sono 3 milioni di non autosufficienti (5% della popolazione) e il loro numero è destinato a raddoppiare entro il 2030. Parliamo di persone che non sono in grado di fare niente da soli ed hanno bisogno di un accompagnamento. 

E allora proviamo a metterci nei loro panni: cosa devono fare per avere il sostegno a cui hanno diritto?

Per il riconoscimento di una invalidità al 100% perché non riesco a camminare, lavarmi, vestirmi né a mangiare senza l'aiuto di un accompagnatore, devo andare dal medico di famiglia che mi fa la certificazione, che poi invio all' Inps per ottenere un codice identificativo. Con questo codice vado a fare la visita medica all' Asl, e poi presento online la domanda. Ma se non ho dimestichezza posso rivolgermi ad un patronato. A questo punto il mio caso viene esaminato da una commissione presieduta da un medico Inps. Una volta ricevuto dall' Istituto di previdenza il verbale di invalidità civile, compilo il modulo AP70 che mi consente di ricevere dalla stessa Inps l'indennità di accompagnamento di 522,10 euro al mese, indipendentemente dal reddito. Non ci sono dati ufficiali sui tempi di questo iter, ma le esperienze raccolte sul campo dicono che passano dai cinque ai sei mesi. Da non autosufficiente ho poi bisogno di altre cose: un posto in una struttura diurna che mi ospita per sei/otto ore durante il giorno, o dell'infermiere che viene a casa (si chiama Adi, e sta per assistenza domiciliare integrata), oppure dei pannoloni. Devo quindi rivolgermi all' Asl, perché questi servizi sono finanziati dal sistema sanitario nazionale. Ogni Regione, e perfino ogni Asl, è organizzata a modo suo: in linea di massima queste richieste passano da tre commissioni diverse dove un geriatra, uno psicologo, un infermiere e un medico di famiglia decidono se ho diritto o meno a quel che chiedo. Se ho un reddito basso e nessun familiare in grado di occuparsi di me, e ho bisogno di qualcuno che mi aiuti ad alzarmi dal letto, a vestirmi e a mangiare, mi reco agli sportelli dei Servizi sociali del Comune, dove un'altra commissione valuterà se mi spetta il voucher per pagare quello che in gergo tecnico è il Sad, ossia il servizio di assistenza domiciliare. Ma sempre il Comune, oltre al servizio sanitario, può mettere a disposizione strutture semiresidenziali per trascorrere la giornata.

Morale: se beneficio dell'indennità di accompagnamento dell'Inps, dell'assistenza domiciliare del ssn e di servizi semiresidenziali del Comune devo passare da tre iter diversi. Ognuno con i suoi tempi e criteri di accesso. Un calvario per le famiglie che rende di per sé sfinente e disincentivante richiedere il sostegno che spetta. Il quadro è così frammentato che nemmeno i ministeri competenti oggi possiedono una mappa completa della situazione reale: né sul tasso di copertura dei servizi, né sui costi perché le varie banche dati non comunicano tra loro. Una stima è appena stata realizzata dal Cergas-Bocconi. Gli anziani che ricevono l'indennità di accompagnamento sono 1,4 milioni, per una spesa pubblica di 8,8 miliardi di euro. Di questi, 911 mila anziani beneficiano anche di servizi domiciliari: in 779 mila dall' Asl, mentre in 131 mila dal Comune. Per quel che riguarda l'assistenza presso i centri diurni, 270 mila anziani la ricevono nelle strutture semiresidenziali dei Comuni, mentre 24 mila dal sistema sanitario nazionale. La spesa pubblica totale per questi servizi è di 200 milioni. Il costo complessivo ammonta a 11,16 miliardi, che diventano 15,22 se ci aggiungiamo le case di riposo, dove sono ospitati altri 287 mila anziani. Una spesa consistente per interventi che tuttavia raggiungono poco più del 50% degli anziani non autosufficienti e con servizi scarsi. Basti pensare che le ore di assistenza a domicilio con l'Adi sono in media 21 in un anno, mentre per il Sad la spesa media annua in voucher è di 2.090 euro. Di fatto la cura degli anziani viene scaricata sulle famiglie: sono 8 milioni i familiari che assistono non autosufficienti. 

Per supplire alla mancanza di assistenza pubblica è stata fatta la legge 104 del 1992: i parenti fino al terzo grado possono prendere 3 giorni al mese di permesso retribuito per assistere la persona bisognosa assentandosi dal lavoro: da un lato ciò è insufficiente per chi è solo, dall' altro la norma si presta a una lunga serie di abusi difficilmente controllabili. Inoltre si aggiungono 1 milione di badanti, per una spesa complessiva di 6,8 miliardi. E quando le famiglie non sono in grado di pagare di tasca loro i servizi domiciliari o semiresidenziali, gli anziani finiscono ricoverati in modo improprio in ospedale. In Italia una riforma è attesa dalla fine degli anni Novanta. Ora sono previsti 500 milioni di investimenti in «Sostegno alle persone vulnerabili e prevenzione dei ricoveri», e 3 miliardi alla voce «Assistenza domiciliare». I soldi arriveranno dal Recovery plan, che ha raccolto alcune delle proposte sviluppate dal Network Non Autosufficienza, coordinato da Cristiano Gori, e promosse e sostenute da decine di associazioni, fra cui Caritas, il Forum Diseguaglianze e Diversità e Cittadinanzattiva. Dal Recovery plan arriva anche la promessa di realizzare con un'apposita legge, da varare entro la primavera 2023, una «riforma organica degli interventi (). I suoi cardini saranno la semplificazione dei percorsi di accesso alle prestazioni, un rafforzamento dei servizi territoriali di domiciliarità, e quando la permanenza in un contesto familiare non è più possibile, la progressiva riqualificazione delle strutture residenziali».

Ovvero: meno burocrazia, più assistenza a casa e più case di riposo. Come tradurre nella pratica questi intenti, e integrarli di quel che manca, è scritto invece nelle proposte di Francesco Longo e Gianmario Cinelli del Cergas-Bocconi, presentate nelle scorse settimane al Ministero della salute e del Lavoro e politiche sociali. I ricercatori del Cergas-Bocconi hanno elaborato una proposta di riforma complessiva del sistema che prevede di istituire un Servizio nazionale per gli anziani non autosufficienti, come avvenuto nel 1978 per l' ssn. Il nuovo sistema si fonda su tre elementi chiave. In primo luogo, facciamola finita con anziani e famiglie che devono peregrinare all' Inps, all' Asl e ai Comuni e istituiamo un'unica commissione che stabilisce chi può avere accesso ai servizi di sostegno. In secondo luogo, diamo un'assistenza commisurata alle effettive condizioni di salute degli anziani. Oggi il sostegno è uguale per tutti gli assistiti. Ad esempio, ricalcando il modello tedesco introdotto nel 1995, un anziano in condizione di autosufficienza limitata che sceglie un aiuto in denaro riceverebbe 288 euro al mese; un non autosufficiente che sceglie l'assistenza a domicilio e in strutture residenziali beneficerebbe di servizi per 1.815 euro al mese. Infine, bisogna affrontare di petto la questione delle badanti, spesso non in grado di assistere gli anziani adeguatamente, e alle quali oggi lo Stato non riconosce il ruolo di cura. Vanno formate e regolarizzate. Oggi il 60% sono clandestine. Senza spendere un euro in più, ma solo riorganizzando il sistema si possono assistere meglio 590 mila anziani in più. Ma dal totale restano sempre esclusi un milione di non autosufficienti. Sarebbe, dunque, giusto indirizzare verso l'assistenza quel miliardo in pensioni all' anno che l'Inps sta risparmiando sui morti Covid. La riduzione della spesa pensionistica calcolata per il 2020 è di 1,11 miliardi di euro, se la proiettiamo sul decennio 2020-2029 sulla base delle aspettative di vita rilevate dalle tavole di mortalità Istat 2019, arriviamo ad un totale di circa 11,9 miliardi di pensioni che nei prossimi 10 anni non verranno erogate.

·        L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Giuliano Aluffi per "il Venerdì - la Repubblica" il 5 luglio 2021. Perché così tante persone, passati i 50 anni, hanno il mal di schiena? Come mai è così facile, mentre si mangia o si beve, che qualcosa ci vada di traverso? E perché il parto è così doloroso? La risposta a queste, e molte altre domande, è nella nostra evoluzione: per permetterci di diventare la specie dominante sul pianeta il nostro corpo ha dovuto fare diversi compromessi, e oggi facciamo i conti con le loro conseguenze meno piacevoli, in molti casi divenute tali anche per via del nostro stile di vita. A spiegarlo è il biologo Alex Bezzerides, docente di biologia al Lewis-Clark State College di Lewiston (Maine), nel saggio Evolution gone wrong (Evoluzione andata male, Hanover Square). «L' idea per il libro mi è venuta durante una lezione sui denti. Sul libro c' era l'illustrazione di una dentatura perfetta, ho fatto un sondaggio tra i 70 studenti nell'aula e ho scoperto che - tra apparecchi correttivi, denti storti e denti del giudizio rimossi - solo due di loro avevano denti che si adattavano alla perfezione alle loro bocche» spiega Bezzerides. Ma perché è tanto difficile avere denti perfetti? «Ai precursori dell'Homo sapiens servivano mascelle e mandibole grandi e forti, per una dieta a base di piante come quella che diventò la regola circa 4 milioni di anni fa, quando scesero dagli alberi» spiega Bezzerides. «In particolare, i molari si ingrandirono: ad esempio Lucy, il famoso fossile di Australopithecus afarensis, aveva molari giganteschi». Poi climi più aridi, in Africa, costrinsero i precursori dell'uomo a spostarsi di più per trovare cibo. «Ciò richiese non solo un modo più efficiente di percorrere lunghe distanze, ovvero camminare, ma anche un cibo più energetico: la carne» osserva Bezzerides. «Non avendo denti adatti a strappare i muscoli dalle ossa della selvaggina, 2-3 milioni di anni fa si iniziò ad usare pietre appuntite. E la necessità di cacciare grandi animali stimolò la cooperazione, la comunicazione e quindi anche l'aumento delle dimensioni del cervello. Più intelligenti, imparammo a controllare il fuoco. Cotta, la carne divenne più soffice e non ci fu più bisogno di un apparato masticatorio ingombrante: mascella e mandibola iniziarono a rimpicciolirsi, e così anche i denti, ma molto più lentamente». Per questo oggi sono più grandi di quanto richiederebbe un vero sorriso hollywoodiano. La discesa dagli alberi è anche la ragione di guai come l'alluce valgo. «Fino a 4 milioni di anni fa le mani e i piedi dei nostri antenati facevano lo stesso lavoro: ci aiutavano ad arrampicarci sugli alberi. Quindi ci servivano articolazioni flessibili. Scesi a terra, ai piedi è stato richiesto un lavoro diverso: sorreggere tutto il peso del corpo, cosa che, nelle ginocchia umane, rende i menischi assai vulnerabili, e assorbire gli impatti continui col suolo» spiega Bezzerides. «Per un lavoro duro e grezzo di questo tipo, le 26 delicate - e inutili - ossa che ancora oggi fanno parte del piede umano (contro le 8 ossa dello struzzo, per dire) sono, più che un lusso, un tallone di Achille». Possiamo accusare il bipedismo anche per i malanni della schiena. «Per poter rimanere in piedi senza sforzo, la spina dorsale ha dovuto adattarsi, aggiungendo nuove curve: la curvatura lombare, utile a spostare il baricentro del corpo, e quella cervicale, che permette alla testa di scaricare il peso del cranio in verticale sulla schiena invece che in avanti, cosa che affaticherebbe oltremisura i muscoli del collo e delle spalle» spiega Bezzerides. «A sostenere queste due curve sono i muscoli della schiena: quando invecchiamo e perdiamo tono muscolare, le curve iniziano a deformarsi, e arrivano gli acciacchi: i dischi che separano le vertebre possono spostarsi e toccare i nervi». Al bipedismo si deve anche, per certi versi, il dolore del parto: il passaggio alla stazione eretta ha ristretto infatti il canale della nascita. E un altro inconveniente evolutivo di cui le donne farebbero volentieri a meno sono le mestruazioni. «Sulla loro origine c' è una teoria interessante: si tratterebbe di una forma di difesa della madre nei confronti della tendenza del feto a radicarsi troppo in profondità nell' utero» spiega Bezzerides. «Il 95 per cento dei mammiferi cambia le cellule che rivestono l'utero dopo il concepimento. Invece nell' uomo e nelle scimmie africane ciò succede prima, in preparazione del concepimento. Cambia il rivestimento uterino e bisogna liberarsi, col sangue, di quello vecchio. Se non ci fosse questo ricambio, il feto potrebbe, attraverso la placenta, avere un impatto più pesante sul metabolismo della madre. Per avere un'idea di questo impatto: oggi, nel 10 per cento delle gravidanze, il feto può causare il diabete gestazionale: attraverso degli ormoni che contrastano l'azione dell'insulina, il feto può fare in modo che nel sangue della madre circoli più glucosio utile a nutrirlo. Con il ricambio continuo delle cellule dell'utero, la madre, in questa ipotesi, si costruirebbe le opportune difese contro questo tipo di "manipolazioni" chimiche». Molto più antica dell'Homo erectus è la radice di un'altra imperfezione: la facilità con cui il cibo può andarci di traverso, mettendo a rischio la vita. «Il problema è la contiguità della trachea con l'esofago. Tutto risale a 375 milioni di anni fa, quando una parte dei pesci ha deciso di stabilirsi sulla terraferma» spiega Bezzerides. «I polmoni sono emersi in questi animali sviluppandosi dall' apparato digerente. È da allora che trachea ed esofago, negli animali terrestri, sono così attaccati. E questo ci mette a rischio perché la via che va dal cavo orale ai polmoni deve incrociarsi con l'esofago. Quando non deglutiamo, l'apertura tra le corde vocali, ovvero la glottide, rimane aperta e l’aria inspirata può arrivare liberamente ai polmoni. Se deglutiamo, la glottide si chiude proteggendo le vie aeree, ma a volte un pezzetto di cibo può oltrepassarla». Complice di questa situazione è anche il fatto che la laringe umana, rispetto a quella degli altri primati, si sia posizionata più in basso. «Questo da un lato ha rimosso quella sorta di "meccanismo di sicurezza" che impedisce agli altri animali di strozzarsi, ed è anche una concausa delle cosiddette "apnee ostruttive notturne", ma dall' altro lato ha reso possibile all' uomo l' so del linguaggio» spiega Bezzerides. «E naturalmente i vantaggi del parlare, alla base della nostra civiltà, superano il rischio che un pezzo di cibo sbagli strada». L' uscita dall' acqua 375 milioni di anni fa è il motivo degli occhi secchi e del fatto che dobbiamo sbattere le palpebre 14 mila volte al giorno. «Quando alcuni pesci sono usciti dall' acqua, i loro occhi avevano già avuto oltre 100 milioni di anni per formarsi» spiega Bezzerides. «Questa eredità fa sì che ancora oggi gli occhi siano ripieni di liquidi e debbano stare umidi. Le palpebre sono come tergicristalli che assolvono a questo scopo distribuendo il liquido». Questa origine acquatica è anche ciò che fa sì che la visione degli animali non sia perfetta sulla terraferma. «Ma noi peggioriamo la cosa con il nostro stile di vita» ammonisce Bezzerides. «Ad esempio se i bambini passano troppo tempo al chiuso, la ridotta esposizione alla luce naturale danneggia lo sviluppo degli occhi e favorisce la miopia, una condizione oggi in forte crescita».

·        Malasanità.

In Europa la malasanità uccide più del Covid-19. Redazione mercoledì 17 Giugno 2020 su  qds.it in collaborazione con ITALPRESS. Mentre tutto il mondo è alle prese con la lotta al Covid-19, che ha già causato oltre 370 mila decessi in tutto il mondo, più di 180 mila soltanto in Europa, c’è un’altra causa silenziosa che provoca la morte di centinaia di migliaia di pazienti ogni anno: la malpractice sanitaria. Ogni anno negli ospedali europei si registrano 571.000 decessi per ragioni riconducibili ai servizi sanitari, circa un caso al minuto di quelle che vengono definite morti trattabili, che potevano essere evitate se il personale avesse agito in modo diverso. La situazione va meglio in Italia, dove i numeri sono decisamente inferiori, anche se ancora troppo alti, con circa 42.000 morti all’anno per “malasanità”, vale a dire quasi cinque all’ora e un valore medio nazionale di circa 70 casi su 100.000 abitanti. Il tasso di mortalità, dati alla mano, sembra avere un’incidenza maggiore di quella portata dal Covid-19, eppure si tende a parlare poco di questo argomento. I dati sulle infezioni ospedaliere, dette Infezioni correlate all’assistenza, parlano di almeno 6.000 decessi all’anno: più di 16 persone al giorno muoiono. Queste infezioni sono non solo la causa frequente dei prolungamenti della durata della degenza ospedaliera, ma altresì quella di disabilità anche a lungo termine e, soprattutto, di una significativa mortalità evitabile. Una condizione che, spesso, è figlia dei tagli del budget destinati alla sanità pubblica, che costringe medici, infermieri e tutto il personale a lunghi ed estenuanti turni, che portano ad uno sfinimento sia fisico sia mentale. In queste condizioni, le probabilità di errore umano aumentano.

Malasanità Malagiustizia Malaffare… E IO DENUNCIO! La Voce delle Voci l'1 Maggio 2015. La Voce, in tanti anni di giornalismo d’inchiesta, ha denunciato moltissimi episodi di malasanità, malagiustizia e malaffare, spesso partendo dalle denunce dei cittadini che hanno documentato quanto sono stati costretti a subire dal Potere. Denunce tante volte anonime – perchè, si sa, chi denuncia può temere ritorsioni su di sé o sui suoi cari – ma sempre molto documentate, con riferimento a dati precisi, riscontrabili. Non solo sfoghi, quindi, pur pienamente comprensibili e condivisibili; ma la descrizione di quanto è accaduto, con una serie di informazioni che possono essere molto utili per ricostruire – e denunciare – l’accaduto. Perchè chi non ha santi in paradiso tante volte non viene ascoltato, è costretto a inutili peregrinazioni per mendicare il suo diritto a verità e giustizia. Se te la senti puoi scrivere alla Voce e raccontare quello che ti è successo, quello che pensi di aver subito. Ripetiamo: puoi farci sapere chi sei, e ciò può servire per chiederti altri dettagli ed elementi utili; o puoi inviarci la tua denuncia in maniera anonima, ma con una serie di elementi utili a capire quanto è successo per poter – a nostra volta – scrivere un articolo che denunci quanto accaduto, in modo serio ed efficace.

CONTESTATO ANCHE IL TITOLO «CRIMINI BIANCHI». Fiction sulla malasanità e i medici si ribellano: non mandatela in onda. Il produttore Valsecchi: denunciamo errori e interessi dei raccomandati, non accusiamo la categoria. Emilia Costantini il 23 settembre 2008 su Il Corriere della Sera. Per pararsi le spalle da ulteriori polemiche, oltre quelle già suscitate, il produttore Pietro Valsecchi della Taodue ha voluto tre medici come consulenti per «Crimini bianchi », la serie sulla malasanità, che andrà in onda da domani in sei puntate su Canale 5. Ma non è bastato. L'Associazione Medici Accusati di Malpractice Ingiustamente, è già partita all'attacco: «Una fiction dove già dal titolo i medici sono additati come criminali da punire, la dice lunga — avverte il presidente dell'associazione Maurizio Maggiorotti — Non solo non è imparziale, ma sembra voglia appassionare la gente contro medici e Sanità in genere ». Un titolo che ha già fatto drizzare i capelli al preside della facoltà di Medicina, futuro probabile rettore dell'Università La Sapienza di Roma, Luigi Frati, e al presidente dell'Ordine dei medici di Roma, Mario Falconi. Dice Frati: «È inopportuno, fuorviante, oltretutto copiato da certe serie americane. Non fa giustizia delle tante vite salvate, degli atti di abnegazione e sacrificio che tutto il personale sanitario compie giornalmente, ben oltre ciò che è richiesto dai loro contratti». E Falconi, che nella primavera scorsa sul Bollettino (organo d'informazione interna dell'Ordine) aveva scritto «non intendiamo subire passivamente questo gioco al massacro» ora aggiunge: «Valsecchi mi ha fatto vedere alcuni spezzoni dello sceneggiato, che riguardavano certi aspetti della professione che io denuncio da sempre. Ma avevo pregato di cambiare il titolo, che non approvo assolutamente ». Adesso, l'Associazione presieduta da Maggiorotti rincara la dose: «Dato il potere della televisione, il pubblico italiano sarà ulteriormente condizionato da questa fiction, che getterà fango sull'intera categoria, causando un'impennata di cause contro i medici: un florido giro d'affari per avvocati e avvocaticchi. Proponiamo dunque che gli organismi che ci tutelano chiedano al Garante per le telecomunicazioni di fermarne la messa in onda. E il 26 settembre si terrà un congresso proprio su questi problemi: ne uscirà un documento». Ma Valsecchi, che ieri mattina ha presentato «Crimini bianchi », assicura: «Non è contro i medici, ma solo una serie che intende puntare il dito sui casi di malasanità, su coloro che commettono errori e non vogliono ammetterlo, sui troppi interessi che ruotano intorno, su primari e primarietti raccomandati, sulla politica che dovrebbe fare un passo indietro». Ambientata a Roma e interpretata da Daniele Pecci, Ricky Memphis e Christiane Filangieri, regia di Alberto Ferrari, la fiction tratta vari temi di malasanità: diagnosi sbagliate, le truffe dei rimborsi sanitari, il business delle case farmaceutiche, le baronie. E molto sangue che zampilla, stile «pulp», tanto che qualcuno reclama il bollino rosso. È entusiasta Teresa Petrangolini, segretario generale per i diritti del malato: «Offre un messaggio positivo: la reazione a certe malefatte». E gli attori protagonisti aggiungono: «Non attacchiamo ciecamente i medici, ma è una fiction non edulcorata». Conclude il regista: «Mettiamo in risalto coloro che lavorano con passione. Speriamo in polemiche costruttive». Emilia Costantini il 23 settembre 2008

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 14 novembre 2021. Lo Stato non ricorda che Luigia a tre anni restò totalmente disabile per un errore dei medici pubblici, non ricorda che l'Asl di quei medici è stata condannata a pagare quasi due milioni e mezzo di risarcimento, non ricorda che il processo è durato 17 anni spesi spesso a guadagnare tempo. L'Agenzia delle Entrate, però, ha una memoria di ferro. E nell'attesa che l'azienda sanitaria, il ministero della Salute e il Lloyd di Londra facciano il loro dovere, ha spedito un'ingiunzione a pagare 10.445 euro di imposta di registro (3% sulla cifra del risarcimento) al papà, alla mamma (colpita lei pure da una grave malattia invalidante e ricoverata oggi all'ospedale) e alla bambina stessa che ha ormai vent' anni, è paralizzata e non è in grado neanche di soffiarsi il naso da sola. Non hanno ancora ricevuto un solo centesimo? Amen: si faranno rimborsare quando i soldi arriveranno. E quando arriveranno? Boh... Ma partiamo dall'inizio. A metà ottobre del 2004 la piccola Luigia Di Giorgio, di Margherita di Savoia, pochi chilometri a nord di Barletta, sta poco bene. Pare un attacco di diarrea. Il pediatra prescrive un paio di medicine e via. Sembra un malessere dei tanti che possono avere i bambini. Tre giorni dopo però Luigia viene portata in ospedale. Diagnosi di enterite, conferma dei farmaci prescritti e dimissioni. La notte successiva la riportano al Pronto soccorso: sta malissimo. A questo punto, racconta l'avvocato di famiglia Francesco Barucco, dell'associazione «Adotta un angelo» legata all'Ospedale pediatrico Bambin Gesù, ecco «l'errore fondamentale che segnerà la storia clinica della bimba. La piccola viene accolta in reparto con un quadro di vomito con diarrea con sangue. I sanitari pongono la loro attenzione esclusivamente sul quadro addominale, ma non si avvedono che gli esami di laboratorio mostrano un quadro di danno renale in atto. L'emocromo, poi, evidenzia una chiara e progressiva anemia assieme a piastrinopenia. Tali riscontri vengono trascurati e, nel sospetto di una colite da infezione da Clostridium difficile, i dottori dispongono il trasferimento presso la Chirurgia Pediatrica dell'Ospedale di Foggia».  Qui sì, si accorgono delle «alterazioni» e del «grave quadro di insufficienza renale». Sempre più preoccupati richiedono una consulenza nefrologica, accertano una Sindrome Emolitico Uremica, trasferiscono la piccola a Bari «per il trattamento dialitico ma è troppo tardi per evitare che le alterazioni elettrolitiche in atto determinino un arresto cardiorespiratorio». Risultato: «Il prolungato arresto cardiaco determina un grave danno anossico cerebrale, con gravissimi esiti neurologici». Per capirci, la bambina che una settimana prima era bellissima e pareva stare benissimo precipita nel buio di un tunnel senza fine. Non parla. Non cammina. Non capisce. Donato e Raffaella, travolti dal macigno che è rotolato loro addosso e dal peso insopportabile di doversi improvvisare genitori di una creatura fragilissima esposta a ogni genere di problematiche fino ad allora ignorate, neppure pensano inizialmente a rivolgersi a qualche legale. Hanno già troppi pensieri per occuparsi di cose secondarie. Anno dopo anno, però, sono costretti a fare i conti con la realtà. L'assegno di accompagnamento per la piccola non basta neppure per le spese più banali, lui è costretto a chiudere la sua attività nel tessile, la moglie vive il trauma e tutte le difficoltà con crescente sofferenza. Fino a scivolare lei pure negli abissi della malattia. Finalmente, nel 2008, viene avviata la richiesta risarcitoria. Un tormentone. Lungo tredici anni. Finché il 23 agosto scorso il Tribunale civile di Foggia ha condannato l'Asl locale, come dicevamo, a pagare ai due genitori il risarcimento di 1.593.315 euro che con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali dalla data dell'errore medico sale a due milioni e circa 400 mila euro. Tutto è bene quel che finisce bene? Niente affatto, per ora. La stessa Asl, ammesso che non contesti la sentenza con nuovi ricorsi, avrebbe infatti lasciato intuire che per non sganciare subito i primi 200.000 euro di franchigia e chiedere contestualmente al Lloyd di Londra, con cui è assicurata, di pagare l'intera somma deve capire bene un comma contenuto in un decreto voluto in piena epidemia dall'allora premier Giuseppe Conte. Si tratta del decreto rilancio n. 34 del 19 maggio 2020 che al comma 4 dell'articolo 117 diceva: «Al fine di far fronte alle esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del Covid-19, nonché per assicurare al Servizio Sanitario Nazionale la liquidità necessaria allo svolgimento delle attività legate alla citata emergenza, compreso un tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale (...) non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive. I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni agli enti del proprio Servizio sanitario regionale effettuati prima della data di entrata in vigore del presente provvedimento non producono effetti dalla suddetta data e non vincolano gli enti del Servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità dei predetti enti legate alla gestione dell'emergenza sanitaria e al pagamento dei debiti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo. Le disposizioni del presente comma si applicano fino al 31 dicembre 2020». Insomma, con quei chiari di luna, niente pagamenti. Neppure per eseguire gli ordini di una sentenza giudiziaria? Mah... Il guaio è che quella scadenza, già allungata col Milleproroghe dell'anno scorso al 31 dicembre 2021, potrebbe finire di nuovo nel mazzo del Milleproroghe in arrivo. Con tanti saluti alla giustizia nei confronti di Luigia e dei suoi genitori. Possibile? Oddio, c'è chi sostiene che i legali di Di Giorgio potrebbero comunque, a prescindere da eventuali intoppi della Sanità foggiana, esigere l'immediata esecuzione del risarcimento rivendicato. Francesco Barucco ha dei dubbi. Si vedrà. Certo è che, nell'attesa che la famiglia riceva infine quanto le è dovuto, costringerla a tirar fuori i soldi per un processo vinto sarebbe davvero insensato. La legge dice così? Se è sbagliata, andrebbe cambiata.

M.Ev. per “il Messaggero” l'11 dicembre 2021. «Ci sono ospedali in Italia in cui fatichi a ricoverare una persona dopo 24-36 ore di attesa in pronto soccorso» raccontano da Simeu (Società italiana di medicina di emergenza e urgenza). Aumentano i letti occupati da pazienti Covid, diminuiscono quelli a disposizione per le altre patologie: la quarta ondata rischia di fare saltare il sistema dell'emergenza in tutta Italia. Detta in modo brutale: a causa dei no vax che stanno ingolfando gli ospedali (in percentuale alla fetta di popolazione che rappresentano), non ricevono un'assistenza di buon livello gli altri malati. E saltano interventi programmati, si rinviano visite e prevenzione. Il Covid è una doppia emergenza: per contagiati e non contagiati. Ma c'è di più. Se la pandemia prima o poi ridurrà la sua forza d'urto, resterà un problema strutturale. Di recente nel Lazio c'è stato un concorso per trovare 150 medici di pronto soccorso. Si sono presentati solo in 61. A livello nazionale ci sono 300 borse di studio per la medicina d'urgenza, ma nessun giovane laureato si è fatto avanti. Sintesi: in Italia in pochi vogliono fare il medico del pronto soccorso. Per questo in tutte le Regioni, anche quelle un tempo prese ad esempio come Emilia-Romagna o Lombardia, si stanno creando lunghe code. Il dottor Adolfo Pagnanelli, primario del Pronto soccorso del Policlinico Casilino di Roma, sintetizza: «I giovani preferiscono puntare su altre specialistiche. Se vieni a lavorare in pronto soccorso ti devi accontentare di uno stipendio più basso, sei sempre a rischio di aggressioni e di denunce immotivate». Ecco allora che il laureato in medicina preferisce ad esempio Oculistica, puntando anche alle visite private che un medico di pronto soccorso non potrà mai fare. Alessio D'Amato, assessore alla Sanità del Lazio: «Questa è un'emergenza nazionale che si sta sottovalutando. Sarebbe successo anche senza la pandemia. Un tempo lavorare in pronto soccorso era considerata una missione, ora è vista come un'attività che ti porta al burnout. L'unica soluzione sarà pagare meglio chi sta in prima linea». I segnali dagli ospedali di tutta Italia sono molto negativi. Beniamino Susi, responsabile nazionale dei rapporti con le Regioni di Simeu e direttore del reparto d'urgenza a Civitavecchia-Bracciano: «Oggi la maggior parte dei ricoverati per Covid sono persone non vaccinate. Ciò che invece è drammatico è l'impossibilità di ricovero di tanti pazienti non Covid. Si stanno convertendo reparti normali in reparti Covid - a volte e per forza di cose anche per pochi pazienti - e questo taglia il numero dei posti letto disponibili per altre patologie. La situazione sta peggiorando anche in Regioni storicamente non calde da questo punto di vista come il Piemonte e la Lombardia. I medici sono stanchi, affaticati e vivono una quotidianità deprimente che giorno dopo giorno diventa sempre più insostenibile». Dicono ancora da Simeu: «Le risposte devono arrivare, ora davvero non c'è più tempo. È di queste ore anche il nuovo caso di un pronto soccorso andato in tilt a Pescara per un eccesso di richieste di ricoveri in geriatria. I pazienti anziani continuano ad arrivare e non si riesce più ad accoglierli al punto che occorre dirottarli negli ospedali vicini». Il presidente nazionale della società che rappresenta i medici dei pronto soccorso, Salvatore Manca, dice: «Bisogna accordarsi con il ministero dell'Università e della Ricerca affinché gli ospedali diventino luogo di formazione e gli specializzandi vengano mandati e integrati nei servizi ospedalieri da subito, se questo non accadrà i pronto soccorso rischiano veramente di chiudere». In sintesi: «I pronto soccorso in Sardegna sono vicini al collasso, ma criticità si registrano in diverse regioni italiane, in particolare Puglia, Campania e Lazio, dove soprattutto nella stagione invernale storicamente si registra un sovraffollamento nei reparti di Emergenza e Urgenza». Non si salvano aree come l'Emilia-Romagna. Ad esempio a Forlì ci sono tre ore di attesa per un codice bianco e l'azienda sanitaria spiega al Carlino: su 28 medici in organico, ne mancano 13. Fuga dalla prima linea. «Pensare - dice il dottor Pagnanelli dal Casilino di Roma - che quello in pronto soccorso è il modo migliore per fare il medico». 

«Ma quale E.R: lavorare al pronto soccorso è diventato insostenibile». Sara Dellabella su L'Espresso il 30 novembre 2021. Aggressioni, denunce, carenza di organico. E la fuga dal 118 è ormai un dato di fatto. «Negli Usa medici e infermieri d’emergenza sono una classe privilegiata: nelle nostre condizioni è già tanto riuscire a timbrare il cartellino». Viaggio tra il personale sanitario. Sono le sette di sera, il telefono squilla e dall'altra parte prontamente risponde Salvatore Manca, il Presidente della Società Italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu) che qualche giorno fa è scesa in piazza a Roma per portare all'attenzione dell'opinione pubblica la fuga in atto dal pronto soccorso da parte del personale medico e infermieristico. Su 12 mila medici di urgenza, ne mancano 4 mila, più 10 mila infermieri. Numeri che parlano di turni massacranti, carichi di lavoro raddoppiati e rischi che aumentano dovuti alla stanchezza, in luoghi dove le risposte vanno date velocemente. Manca oggi è in pensione, ma non smette di lavorare. Quando risponde ha appena concluso un turno come medico vaccinatore, ma per 40 anni è stato medico di pronto soccorso, primario dell'ospedale di Oristano, un Dea di primo livello e direttore del dipartimento di emergenza. Sa bene di che parla e non fatica a descrivere la situazione. «Le difficoltà che abbiamo oggi nascono da una sottostima delle carenze di organico, da una mancata programmazione sanitaria e dalle scuole di specializzazione che non attirano più i giovani. Tutto questo è accentuato dalla gravosità lavorativa del medico di pronto soccorso, che opera in strutture spesso non adeguate. Inoltre, la carenza di posti letto nei reparti si ripercuote sul pronto soccorso, con l'effetto di avere pazienti in attesa per diverse ore o giorni sulle barelle. Tutte queste problematiche fanno sì che i colleghi medici e infermieri, che hanno dato l'anima nel periodo del Covid, oggi non ce la fanno più a sopportare questi ritmi di lavoro». Prosegue ribadendo che il lavoro medico d'urgenza deve essere fatto da personale altamente qualificato e oggi c'è la tendenza ad improvvisare con l'utilizzo delle cooperative o delle società di servizi. Arrivano spesso persone senza alcun tipo di qualifica e oltretutto tutti i medici dell'emergenza che ci sono hanno capito che lì si guadagna di più. Così non stanno nemmeno partecipando ai concorsi a tempo indeterminato. Con le società di servizi si sta creando così un doppio danno. «Un medico che lavora attraverso la cooperativa guadagna 60 euro l'ora, consideri che un turno di guardia dura 12 ore, questo vuol dire 720 euro per un solo turno. Se uno fa quattro turni in un mese, supera lo stipendio di un dirigente medico che lavora 38 ore settimanali per un mese. Ma essendo in carenza di organico i colleghi sono obbligati a fare almeno due notti la settimana e tre weekend al mese». Ma quanto guadagna un medico assunto regolarmente? Tra i 2600 ai 2800 euro al mese. Quella del personale ingaggiato tramite le cooperative è una situazione che si replica in tutte le regioni d'Italia, anche se non ci sono stime precise sul numero di questa forza lavoro. Ma come raccontava un medico in piazza a Roma «c'è da sperare che i medici parlino almeno italiano. Una volta ho dovuto cacciarne uno perché non riusciva a dialogare con i pazienti. Ma come si fa?». A confermare la situazione è anche il Dr. Beniamino Susi, primario del reparto d'urgenza di Civitavecchia-Bracciano nel Lazio dove su un organico di 25 medici, sette sono assunti dal Servizio sanitario nazionale, 2 sono pensionati e gli altri sono liberi professionisti, quest'ultimi reclutati con manifestazioni di interesse. Perché non partecipano ai concorsi? «Perché non hanno i titoli richiesti per lavorare, ovvero la specializzazione in medicina d'urgenza o equipollenti – spiega - Il livello così si abbassa, ma mai come con le cooperative. Questi professionisti sono gli stessi da anni, hanno fatto un percorso di affiancamento, conoscono le procedure e quindi hanno fatto un percorso di crescita. Durante il Covid ho avuto dei ragazzi appena laureati e uno di questi lo avevo nominato team leader perché era davvero in gamba. Non è una disgrazia al cubo avere persone giovani, ci vuole sicuramente tempo per crescere. Se ho sempre le stesse persone ci posso lavorare, ma il problema sono le cooperative che mandano sempre persone diverse». Ma dopo il Covid non sono arrivati degli incentivi ai medici? «Ci sono circa 90 euro in più in busta paga, ma non è questo che risolve i problemi del pronto soccorso» afferma Manca. Però c'è chi è ancora in attesa, come gli infermieri che non hanno visto un euro. A spiegarlo è il Segretario Provinciale del sindacato Nursind, Stefano Barone «L'erogazione di questi soldi è legata al rinnovo del contratto nazionale. Il punto è che dobbiamo concludere la contrattazione per il periodo 2019-2021. La beffa è che stiamo contrattando qualcosa che nei fatti è già scaduto».

«Negli Stati Uniti i medici di emergenza sono una classe privilegiata, lavorano di meno e vengono pagati di più perché si pretende il massimo dell'impegno e del risultato. Nelle condizioni in cui lavoriamo noi è già tanto che uno timbra il cartellino» racconta Susi alla fine di un turno di lavoro iniziato alle 8 del mattino e conclusosi alle 19:00. E forse non è un caso, da quello che dice, che negli anni '90 spopolasse il telefilm “Er – medici in prima linea” ambientato in un pronto soccorso di Chicago. «Oggi molti degli specializzandi che abbiamo si sono fatti suggestionare da quella serie, peccato che poi le aspettative siano deluse dalla realtà» commenta Susi. Stessa situazione per gli infermieri che «dopo una laurea triennale si ritrovano a svolgere funzioni alberghiere che non sono adatte al livello di preparazione richiesto» racconta Barone che prima di approdare al sindacato era impegnato nei reparti. «I giovani infermieri arrivano pieni di buone intenzioni, ma poi si trovano a lavorare in contesti in cui non sono per nulla valorizzati». Se i medici con esperienza non si avvicinano al pronto soccorso, anche i giovani laureati ne stanno alla larga. Quest'anno su 1200 borse, ne sono andate deserte più di 400. Così aggressioni, denunce, carichi di lavoro maggiori, impossibilità di svolgere la professione privata, tengono lontani i giovani dalla medicina d'urgenza. Anche perché un medico di pronto soccorso guadagna quanto uno di reparto. «Andrebbe riconosciuta la diversità del nostro lavoro rispetto agli altri. Non ne abbiamo fatta una questione di soldi, però chi sta in piedi tutta la notte andrebbe pagato diversamente da chi nei turni di notte può riposare – spiega Susi che aggiunge - «a noi l'indennità di malattie infettive non viene riconosciuta, eppure tutti i pazienti Covid sono entrati in ospedale attraverso le porte del pronto soccorso per esempio». Nei pronto soccorso, il rischio denuncia è dietro l'angolo. “Con il flusso di gente che sta tornando ai livelli pre covid e la mancanza di organico è molto facile cadere, anche per stanchezza, nell'errore medico. Con carenze di organico così pronunciate non si possono dare risposte ottimali in tempi brevi ai cittadini. E così i cittadini scaricano la propria frustrazione dovuta alla lunga attesa sugli operatori che trova lì” racconta Manca. L'Inail conta più di mille aggressioni contro il personale sanitario ogni anno e anche se molti ospedali hanno istituito la figura del vigilantes “abbiamo visto che non può intervenire sulle persone, ma solo sulla tutela dei beni. Quindi come deterrente è molto debole“ rimarca Barone che al tema è molto sensibile. E la lista delle aggressioni degli ultimi due mesi mostrano come il fenomeno sia uniforme da nord a sud: Potenza, Fermo, Careggi, Roma. A farne le spese sempre i medici in prima linea. Anzi in una trincea sempre più deserta.

La fuga di medici e infermieri dai Pronto Soccorso: stress e rischio denunce, i concorsi restano deserti. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. È un allarme senza precedenti. Che ipotizza un calo della qualità dell’assistenza medica nelle situazioni di emergenza senza un repentino cambio di rotta. A ben vedere i professionisti che lo lanciano — che siano medici o infermieri — rivelano come sia a rischio la tutela universalistica del nostro sistema sanitario. Recarsi in un Pronto Soccorso è sinonimo di urgenza. Chi lo fa ha bisogno di essere visitato subito. Se chi ci lavora è in condizioni di stress profondo, è sotto-organico, è massacrato da turni non più gestibili, è terrorizzato dalle denunce e costretto a costose coperture assicurative allora il quadro diventa impietoso e segnala la necessità di ripensare il modello di risposta immediata alle richieste dei pazienti.

La protesta

A lanciarlo la Simeu, l’associazione di rappresentanza dei medici e degli infermieri del Pronto Soccorso e del 118, che martedì ha deciso di inscenare una protesta per sensibilizzare le istituzioni che ormai il limite è superato. Il dato inquietante — scrive Simeu — «è che la perdita di professionisti ha ormai raggiunto i massimi livelli storici e oggi si è molto vicini a compromettere, in maniera decisiva, la qualità dell’assistenza offerta, peggiorando il livello di rischio clinico per la salute dei cittadini. Nella realtà dei fatti possiamo affermare che siamo di fronte alla concreta possibilità di un fallimento che si ripercuote su tutto il Sistema Sanitario Nazionale». Un duro atto d’accusa che inevitabilmente interroga il ministero competente, quello guidato da Roberto Speranza, ma a conti fatti tutto il governo considerando le risorse del Pnrr, il piano europeo di ripresa e resilienza, che al capitolo Sanità destinano una buona parte di fondi.

La carenza degli organici

I propositi di potenziamento del sistema sanitario li conosciamo. Vengono esplicitati ad ogni convegno. Però lo spaccato attuale segnala le carenze profonde di quella che potremmo chiamare una clamorosa perdita di appeal dei Pronto Soccorso da cui fuggono i professionisti della Sanità per i rischi che lavorarci comporta. Il disagio viene confermato quasi ogni giorno dalla scelta dei molti che accelerano percorsi in uscita, prediligendo nuovi ambiti di lavoro e specialità o scivoli pensionistici. «Il ricambio generazionale non è più assicurato: la scarsa attrattiva che la disciplina ha sui giovani laureati è stata evidenziata da una Scuola di specialità che registra abbandoni, di anno in anno superiori, e borse di studio non assegnate», segnala Simeu. Oggi si registra una carenza di circa 4.000 medici e 10.000 infermieri di Pronto Soccorso e 118. I concorsi vanno deserti in tutte le regioni italiane con contestuale abbandono dei professionisti. Il 50% circa delle Borse di Studio della Specialità di Emergenza Urgenza non sono state assegnate nell’anno accademico 2021/22, per disinteresse dei neolaureati. Simeu segnala il 18% di abbandoni di studenti nell’anno accademico 2020/21.

I «medici in affitto»

Le criticità sono ben note e occorrerebbe forse prenderne nota. Le condizioni di lavoro attuali dei medici e degli infermieri non consentono loro di avere i giusti e necessari tempi di riposo, di recupero psico-fisico e spazio da dedicare alla loro formazione e agli indispensabili aggiornamenti professionali. «La specialità è complessa e unica: abbraccia conoscenze e competenze che appartengono ad altre discipline. L’attività non può essere delegata a “medici in affitto”, a neolaureati non adeguatamente formati o a cooperative di servizio». Dovrebbero essere riviste equipollenze e affinità, garantendo eque prospettive di carriera, una riforma sulla modalità di accesso per i giovani professionisti attualmente in Scuola di Specializzazione, misure di assistenza e tutele legali, protezione dagli episodi di aggressione e violenza sul luogo di lavoro. La medicina di Emergenza Urgenza dovrebbe essere una specialità legittimata nel suo ruolo per le specifiche competenze, a partire dalla denominazione che dovrebbe coincidere con quella della Scuola di Specializzazione, come avviene per le altre specialità mediche.

 La Simeu denuncia: "Mancano 4mila medici e 10mila infermieri". “Manca il personale, i giovani scelgono altro”, il grido dall’allarme dei medici del Pronto Soccorso. Serena Console su Il Riformista il 17 Novembre 2021. Un fonendoscopio e un camice a terra per simboleggiare l’assenza di chi questi strumenti dovrebbe indossarli. È questo la forma di protesta scelta da medici e infermieri di pronto soccorso per evidenziare la carenza di organico, resa più evidente con la pandemia. Per la prima volta la Simeu, la Società italiana medicina di emergenza-urgenza, scende in piazza a Roma, per accendere i riflettori su una condizione cronica, che si ripercuote sulla qualità e sul carico di lavoro. La protesta nasce dalla certezza che quanto fatto finora non basti. Dopo due anni di pandemia di Covid, la categoria dei medici dei reparti emergenza-urgenza denuncia la mancanza di 4mila medici e 10mila infermieri, il 30 per cento dell’organico. E questo si riflette su chi lavora nei pronto soccorso d’Italia, la “porta d’accesso degli ospedali”: i sanitari sono costretti a turni massacranti e a gestire il sovraffollamento in reparto, mentre fuori decine di ambulanze sono in attesa. Ma questa condizione mette a rischio la tenuta del Sistema Sanitario Italiano. Il lavoro, spiegano i medici in piazza, non riceve i giusti riconoscimenti e non risulta, quindi, attrattivo per i giovani che vogliono avvicinarsi alla professione. La maggior parte dei concorsi che sono stati banditi per rinforzare i reparti sono andati deserti in tutte le Regioni italiane: solamente quest’anno non sono state assegnate 450 borse di specializzazioni per la medicina di urgenza con la diretta conseguenza di uno sperpero di denaro pubblico. “È una vita piena di sacrifici e i giovani medici scelgono altro“, racconta Salvatore Manca, Presidente Nazionale della Simeu, che sottolinea come la categoria stia pagando una “mancata organizzazione del sistema da più di un decennio“. Manca, commentando la decisione del ministro alla Salute, Roberto Speranza, di inserire in manovra denaro, 90 milioni, per creare un’indennità speciale per chi lavora nei reparti, sottolinea che la categoria è principalmente interessata alla riorganizzazione dei servizi e ospedali, in modo da dare un’ottima risposta ai cittadini. “Salvare la medicina d’emergenza-urgenza significa salvare l’intero Sistema Sanitario Nazionale“, afferma Manca. E ha lanciato un appello: “Il nostro messaggio è drammaticamente banale: senza un’emergenza urgenza efficace, senza un servizio di pronto soccorso strutturato e all’altezza delle reali necessità, non può esistere un efficiente Servizio sanitario nazionale. Parliamo a ragion veduta, perché nonostante le carenze continuiamo a mantenere in funzione i servizi. Ma siamo arrivati in fondo“. Serena Console

Medicina e università, le scuole di specializzazione fuorilegge: quali sono e perché. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Per diventare chirurgo, ginecologo, pediatra, neurologo, ortopedico, dopo la laurea in Medicina bisogna fare 4-5 anni di scuola di specializzazione. All’inizio di novembre inizieranno i corsi 18 mila nuovi specializzandi che vanno ad aggiungersi agli altri 34 mila che già frequentano. Le Scuole di specializzazione accreditate dai ministeri della Salute e dell’Università oggi sono 1.326. I requisiti richiesti sono: professori competenti, numero adeguato di tutor, laboratori attrezzati, reparti di degenza collegati alle scuole per garantire il tirocinio specifico con numero minimo di interventi chirurgici svolti. Questi standard sono stati definiti, per la prima volta, nel 2017 con un decreto voluto dalle allora ministre Beatrice Lorenzin e Valeria Fedeli. L’accreditamento può essere dato anche in via provvisoria alle Scuole che non hanno tutti i requisiti, a patto che garantiscano di mettersi in regola entro due anni con la presentazione di un piano di adeguamento (art. 8, d.l. 402/2017). Chi deve decidere chi ha i requisiti e chi no è l’Osservatorio nazionale della formazione sanitaria specialistica (istituito nel 1999), e che dipende dal ministero dell’Università. Oggi le Scuole di specializzazione non a posto sono 85, di cui 12 da cinque anni, 3 da quattro, 7 da tre, 3 da due anni. Altre 47 sono state retrocesse perché i requisiti li avevano persi da tempo. Ecco alcuni esempi: alla Scuola di specializzazione in Urologia di Catanzaro manca il Pronto soccorso che evidentemente non c’è mai stato. A quella di Geriatria di Torino manca il reparto di lungodegenza/Rsa. Alla Scuola di specializzazione di Otorino della Vanvitelli di Napoli non c’è chiarezza sulla quantità di interventi svolti. I posti letto sono 3, troppo pochi per garantire l’attività minima necessaria per l’accreditamento: se un reparto fa 149 ricoveri, come fa a dichiarare 181 interventi di alta chirurgia, 279 di media chirurgia, e 416 di piccola chirurgia, e 826 degenze? Alla Scuola di Medicina Nucleare della Sapienza sono almeno 3 anni che il tomografo PET non c’è. Alla Scuola di Endocrinologia di Chieti-Pescara manca la direzione universitaria. Quella di neurologia di Ferrara non ha tutte le unità operative universitarie come prescritto. Altre 13 nuove Scuole sono accreditate provvisoriamente. Complessivamente le ragioni dell’accreditamento provvisorio sono queste: nel 55% dei casi manca uno dei due docenti che ci devono essere per ciascuna Scuola di specializzazione per legge, nel 16% i docenti non hanno prodotto l’attività scientifica richiesta (indicatore Anvur), nel 6% la rete formativa è insufficiente (vuol dire che l’attività che può svolgere lo specializzando in corsia è troppo scarsa), nel 19% i volumi assistenziali sono troppo bassi ( ci sono troppo pochi pazienti), nel 13% non ci sono i requisiti come la presenza del Pronto soccorso (il totale fa più di 100 perché in alcuni casi manca più di un requisito). A novembre 2018 avevamo scoperto che 40 Scuole erano fuorilegge. Cosa è successo a tre anni di distanza? 14 si sono messe a posto, 3 hanno abbandonato, una non è più stata accreditata (ginecologia del Campus biomedico). Le altre 22 sono ancora accreditate anche se non sono in regola. Quindi le cose sono migliorate, ma solo a metà. Ecco cosa emerge dal questionario che il ministero dell’Università ha pubblicato nell’aprile 2021 per monitorare la condizione delle Scuole di specialità (qui) e a cui hanno risposto anonimamente circa 11 mila specializzandi. In 79 scuole almeno due terzi degli specializzandi dichiarano di non avere mai avuto, o raramente, il tutor obbligatorio per legge ogni tre specializzandi. Alla domanda: la scuola ha offerto un’attività didattica formale in linea con il piano formativo? In 42 scuole più dei due terzi ha detto no. Chi è in formazione deve ruotare tra reparti di diversi ospedali in modo da avere una rete formativa che permetta di fare un’esperienza variata: gli specializzandi dichiarano che in 7 scuole non c’è rete, in 31 non ce li mandano. In compenso in 267 scuole gli specializzandi dichiarano di essere obbligati a lavorare oltre le 38 ore settimanali perché costretti a coprire la carenza di personale. Con l’epidemia Covid si è capito che il numero di specializzandi erano troppo pochi e si è passati dai settemila posti del 2018 (con 1.123 Scuole di specializzazione) ai 18 mila di adesso. Che la formazione facesse acqua si era capito da tempo, ma la tolleranza continua ad essere ampia. Anche qui parlano i dati. Grado di soddisfazione: in ben 315 scuole il voto medio (da 1 a 10) attribuito dagli specializzandi alla loro scuola, è inferiore a 6. Ovvero insufficiente.

Nel Barese donna colta da malore muore aspettando 50 minuti l’ambulanza. Il sindaco: “118 al collasso”. E’ accaduto a Noci, l’emergenza Covid ha ridotto i mezzi di soccorso a disposizione per le altre richieste. Valeria D'Autilio su La Stampa il 09 Novembre 2020. «Una signora accusa un malore, l’ambulanza arriva dopo 50 minuti. E nello sgomento e nell'incredulità generale, nella piazza centrale del paese la comunità assiste alla morte di una persona. Inaccettabile». La denuncia, nero su bianco, è del sindaco di Noci, in provincia di Bari, dove nelle ultime ore si è consumata la tragedia. Sullo sfondo, lo spettro dei ritardi causati dall’emergenza Covid che sta paralizzando il sistema ospedaliero e, prima ancora, quello dei soccorsi. «La precarietà del nostro sistema sanitario è inaccettabile» dice il primo cittadino Domenico Nisi, che condanna l’atteggiamento di tanti, nonostante i ripetuti appelli. «Questo dolore e questo lutto - scrive su Facebook - devono costringerci a riflettere con grande serietà sul tempo che viviamo». E poi fotografa la situazione nel suo Comune, simile a molte altre viste nel fine settimana appena trascorso in altre zone d’Italia: «Fiumane di ragazzi riempivano le strade assembrati senza la benché minima attenzione. Tante mascherine, tutte sotto il mento». Da qui l’appello al rispetto delle regole, per evitare di ammalarsi. E poi un pensiero alla signora Maria, vittima forse di una sanità ormai in affanno. E a quei 50 minuti trascorsi nell’attesa di un’ambulanza: «Il Covid sta uccidendo anche il nostro sistema sanitario che non riesce piú a garantire cure necessarie a tutti». Proprio nelle ultime ore, dal barese è arrivato l’estremo appello dell’Ordine dei Medici locale. «Sono molto preoccupato - dice il presidente Filippo Anelli - e temo che le misure adottate in Puglia siano insufficienti a scongiurare il collasso del sistema sanitario». Nel mirino, il «lockdown soft» della zona arancione: «Dispiegherà i suoi effetti tra 20 giorni, quando rischia di essere ormai troppo tardi. Anche ipotizzando che il trend di crescita rimanga costante e non abbia un andamento esponenziale, all’Immacolata rischiamo di avere 400 morti e la saturazione dei posti letto Covid che la Puglia ha a disposizione». Il dottor Anelli ricorda le file di ambulanze dei giorni scorsi con a bordo i pazienti, bloccate per ore in attesa di un posto letto sia a Bari che a Foggia: «Sono la spia di un sistema che già oggi fa fatica a rispondere alle richieste di ricovero. Se dovessimo arrivare a gennaio con questi ritmi di crescita, con l’arrivo dell’influenza stagionale il sistema andrà in tilt e non saremo più in grado di assistere né i pazienti Covid né tutti gli altri». Anche il 118, con il suo presidente nazionale Mario Balzanelli continua a lanciare appelli, finora inascoltati: «Non esiste solo il Covid, la gente ha il diritto di essere soccorsa, ma i nostri mezzi sono insufficienti».

"Ambulanza in ritardo e muore". Codici presenta denuncia. Secondo il racconto della figlia della vittima, l'uomo 58enne sarebbe morto per arresto cardiaco. L'associazione per la difesa dei consumatori: "Necessaria una riforma del servizio di emergenza del 118". Replica l'Ares: "Sul posto in 16 minuti". La Repubblica l'8 gennaio 2014. Dopo la morte del 58enne avvenuta ieri mattina a Roma all'ospedale Vannini di via Acqua Acetosa, Codici annuncia una denuncia alla Procura della Repubblica per omissione di soccorso. Secondo il racconto della figlia della vittima, l'uomo sarebbe morto per arresto cardiaco anche a causa del ritardo dell'ambulanza. Secondo Codici "la tragica vicenda non fa altro che confermare una situazione di sempre maggiore criticità, che vede un sistema emergenziale che si trova di fronte a rilevanti disagi nell'affrontare e reagire prontamente ai bisogno della collettività. Nello specifico, quello delle ambulanze è un problema ormai consolidato nei pronto soccorsi romani, solo ieri, ad esempio, le agenzie stampa riportavano la sconcertante notizia di ben 39 ambulanze ferme in diversi ospedali di Roma e Provincia. Oltre un quarto dei mezzi di soccorso generalmente operativi sul territorio erano fermi nelle accettazioni e nei pronto soccorsi, impossibilitati a liberare le barelle. I tragici fatti accaduti nella giornata di ieri sono sconcertanti e devono essere al più presto accertati per stabilire le eventuali responsabilità". Per questo Codici annuncia che "invierà denuncia alla Procura per omissione di soccorso - dichiara Ivano Giacomelli, Segretario nazionale del Codici- I tempi di reazione per arginare l'infarto sono infatti molto brevi se non si interviene in tempo il paziente può facilmente incontrare la morte. Quello che ci preme sottolineare, oggi come già da molto tempo, è che è assolutamente necessaria una completa riforma del servizio di emergenza del 118, che da molti anni versa in condizioni problematiche. Solo una completa riforma del settore - conclude Giacomelli - potrà garantire che situazioni come quelle di ieri, che vedono pericolosi blocchi del sistema con ambulanze ferme nei pronto soccorsi, andranno gradualmente a scomparire". Intanto l'Ares 118 ha fatto sapere di aver consegnato alla Direzione regionale della sanità la relazione richiesta per conoscere la tempistica dell'intervento di soccorso di ieri in via Maddaloni a Roma e oggetto di una denuncia per ritardi nell'arrivo del mezzo sul luogo dell'evento. Dalla relazione basata su acquisizione degli atti ufficiali e sugli orari delle registrazioni telefoniche in possesso della centrale operativa risulta che "la prima richiesta di intervento è arrivata alla centrale di Roma alle ore 6.34.32 da parte di una vicina di casa; la centrale operativa è stata allertata per persona con malore assegnando codice giallo in mancanza di altre informazioni sulle condizioni del paziente; alle ore 6.38 è partita la prima ambulanza disponibile dalla postazione S. Giovanni Addolorata che è arrivata sul posto alle 6.50; Il primo sollecito è arrivato alle Centrale operativa alle ore 6.40 e il secondo alle ore 6.42 solo in questa occasione viene comunicato che le condizioni del paziente sono gravi. In seguito al sollecito viene ricontattata l'ambulanza per accelerarne l'arrivo. L'ambulanza arriva sul posto che già i parenti avevano portato via il paziente con la loro automobile verso il vicino ospedale Vannini; l'ambulanza ha provato ad intercettare la vettura con il paziente durante il percorso per anticipare le cure, ma senza riuscirci. L'intervento è stato chiuso alle ore 6.58". Lo afferma, in una nota, la Regione Lazio.

Palermo, donna muore in ospedale, i parenti, ritardi nei soccorsi. Il Giornale di Sicilia, qds.it, martedì 15 Giugno 2021. I familiari della vittima denunciano i ritardi dei soccorsi. Un operatore del 118: "davanti al pronto soccorso si formano lunghe code di ambulanze. Ormai l'emergenza non è più il Covid". Inchiesta a Palermo, nosocomio più vicino non aveva ambulanze La procura ha aperto un’inchiesta sulla morte di una donna di 42 anni, Katia Calì, che ha avuto un arresto cardiaco mentre era a casa, nel quartiere Zen a Palermo. Il pronto soccorso più vicino è quello di Villa Sofia, nella zona occidentale della città, ma le ambulanze erano bloccate, con i pazienti a bordo, a causa dell’ingolfamento del pronto soccorso. Così è dovuto partire un mezzo dal Civico, nella parte est della città, che si è mosso alle 16.48 per arrivare a casa della donna alle 17.08 e da lì dirigersi verso Villa Sofia, dove la paziente è morta poco dopo l’arrivo. Sono dovuti intervenire i carabinieri per riportare la calma in ospedale, dove i parenti della donna morta hanno protestato per i tempi d’attesa dei soccorsi, ritenuti troppo lunghi. La salma di Katia Calì è stata portata al reparto di Medicina legale del Policlinico per l’autopsia, disposta dal magistrato che ha aperto un’inchiesta. “Davanti al pronto soccorso – dice un operatore del 118 – si formano lunghe code di ambulanze in attesa di affidare i pazienti ai medici, e questo rende davvero difficile il lavoro dei soccorritori e il loro ingresso nella centrale operativa. Ormai l’emergenza non è più il Covid, ma l’assistenza sanitaria quotidiana: il pronto soccorso dell’ospedale Cervello, destinato ai pazienti Covid, non ha più la pressione che si registrava in piena pandemia e sarebbe il caso di ripristinarlo per l’attività ordinaria”.

Donna muore per infarto, ambulanza attesa per 1 ora e mezza. E' accaduto a Villa San Giovanni. Episodio denunciato da medico. Redazione ANSA 31 ottobre 2021. I soccorritori di una donna colpita da infarto, tra i quali un medico, hanno atteso per un'ora e mezza l'arrivo di un'ambulanza, giunta tra l'altro sul posto senza il dottore a bordo. La donna é deceduta prima dell'arrivo del mezzo di soccorso.     A denunciare l'episodio, accaduto a Villa San Giovanni e di cui scrive il sito "il Reggino.it", é stato un medico, Salvatore Oriente, componente del gruppo di persone che hanno tentato di strappare la donna alla morte. Era stato lo stesso Oriente a chiedere l'intervento del 118. (ANSA). Salvatore Oriente

Muore di infarto. «In ritardo i soccorsi». Laprovinciadisondrio.it Domenica 07 Marzo 2021. Valdidentro. Sindaco e Comitato polemici per i tempi lunghi di trasporto a Sondrio e l’assenza dell’elicottero. Lacrime e polemiche per la prematura morte, giovedì sera, di Daniele Bradanini, artigiano 55enne di Pedenosso, nel territorio comunale di Valdidentro, stroncato da un infarto nella sua abitazione. Lacrime per la tragedia che ha scosso la comunità e le tante persone che conoscevano Bradanini; polemiche per presunti ritardi nei soccorsi che avrebbero provocato, secondo alcuni, il decesso del 55enne. «Non mi piace intervenire in momenti come questo, dove il silenzio è la miglior forma di rispetto - le parole del sindaco di Valdidentro, Massimiliano Trabucchi, affidate alla sua pagina Facebook e rivolte ai suoi compaesani e a tutti gli abitanti dell’Alta Valtellina -. Ma allo stesso tempo non posso esimermi dal far sentire la mia voce, in rappresentanza di tutti voi, nei confronti di coloro che hanno la responsabilità di definire l’organizzazione sanitaria del nostro territorio». «In mattinata ho sollecitato Regione Lombardia nel fare chiarezza su una situazione che ha colpito recentemente la nostra comunità e che non è accettabile - ha aggiunto Trabucchi -. Ringrazio a tal proposito i colleghi sindaci dei comuni vicini che sono al mio fianco per sollecitare la soluzione di questo problema che riguarda l’intero comprensorio. L’Alta Valle necessita di un’assistenza sanitaria decisamente più efficiente di quella attuale, perché non possiamo accettare di essere dimenticati solo perché più distanti dai grandi centri abitati. Pubblicamente continuerò a mantenermi sobrio e pacato perché come detto, lo reputo la miglior forma di rispetto. Nelle sedi opportune andrò invece avanti a far sentire la mia e la vostra voce finché non avremo ottenuto quello di cui abbiamo diritto». Tra i primi a denunciare l’episodio, con parole a dir poco dure, Andrea Terzaghi, ex coordinatore del Movimento a difesa della sanità di montagna. «La morte di Daniele Bradanini riguarda tutti quanti - scrive -. Daniele poteva essere chiunque di noi. Al suo posto potevo essere io. Un infarto, 100 minuti in ambulanza senza un medico, ospedale di Sondalo mai preso in considerazione. Le nostre più sentite condoglianze alla famiglia e a chiunque gli voleva bene. Contro chi va puntato il dito? Forse ci conviene chiederlo a chi di dovere». A destare dubbi, infatti, diversi aspetti: dal momento dei soccorsi, con un’ambulanza senza medico a bordo, ci sarebbe voluta oltre un’ora, qualcuno dice addirittura un’ora e 40 minuti, per arrivare in ospedale a Sondrio. Troppo tempo, denunciano in tanti, e Bradanini non si è potuto salvare. Del caso ora si stanno occupando dall’Aat 118 di Sondrio, un’analisi accurata che permetterà di capire se e quali problemi ci sono stati. «Intendiamo fare piena luce su quello che è accaduto - afferma il dottor Gianluca Marconi, direttore dell’Articolazione aziendale territoriale del 118 sondriese -. Stiamo analizzando ogni passaggio, ogni chiamata fatta, per poter dare risposte alla famiglia e alla comunità. Quello che mi sento di dire, al momento, è che il signore è stato soccorso tempestivamente con il mezzo a disposizione in quel momento sul territorio, e trattato dai sanitari farmacologicamente, non certo abbandonato a se stesso». «Purtroppo - conclude - il nuovo elicottero che fa base a Sondrio, quello in grado di volare anche di notte, alle 20 finisce il servizio per questioni legate al personale a disposizione, e la chiamata è arrivata attorno alle 20.40. Tra le altre cose stiamo cercando di chiarire se sarebbe potuto intervenire uno di quelli a disposizione h24, gli elicotteri di Como e Brescia».

Morta di infarto in attesa del 118, la Procura indaga sul ritardo nei soccorsi. Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2021. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali reati nella vicenda della donna morta per infarto a Villa San Giovanni e del tempo di un’ora e mezza, secondo chi ha denunciato i fatti, impiegato dall’ambulanza per raggiungere il luogo in cui si trovava la vittima. La donna è deceduta prima dell’arrivo dell’ambulanza, chiamata da un medico facente parte del gruppo di persone che avevano tentato di strappare la donna alla morte. Il mezzo di soccorso, tra l’altro, quando è giunto sul posto, non aveva il medico a bordo. A denunciare l’episodio è stato il medico, Salvatore Oriente, che aveva chiamato l’ambulanza. Il Procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, ed il pm di turno hanno aperto un fascicolo per il momento contro ignoti. Le indagini su quanto è accaduto sono state delegate alla Polizia di stato, che ha avviato i primi accertamenti. L’inchiesta, secondo quanto si è appreso, dovrà servire principalmente ad accertare se ci sia stato un errore di valutazione del caso da parte del Suem 118 o se quanto è avvenuto sia stato determinato da una carenza di ambulanze e personale sanitario a causa della quale non si riesce a garantire un efficiente servizio di emergenza urgenza sul territorio.

Muore in attesa dell’ambulanza, il direttore sanitario Minniti: «Il ritardo non risulta agli atti». Secondo quanto riferito a Buongiorno Regione il mezzo avrebbe impiegato poco più di 20 minuti per giungere a destinazione. Il Quotidiano del Sud il 2 novembre 2021. «Mi sono fatto inoltrare i dati relativi alla chiamata e io stesso mi sono recato alla centrale operativa per verificare di persona e questo ritardo di novanta minuti che è stato denunciato non risulta agli atti». Lo ha detto Domenico Minniti, direttore sanitario dell’Asp di Reggio Calabria intervenendo questa mattina a Buongiorno Regione, la trasmissione d’approfondimento della Tgr Calabria, in relazione al decesso di una 84enne di Villa San Giovanni che, secondo quanto denunciato dai familiari e dal medico curante, sarebbe stata soccorsa con estremo ritardo dai sanitari del 118. Minniti ha precisato che «è stato registrato che il mezzo è partito da Scilla ed è arrivato a destinazione poco oltre i 18 minuti canonici che in questo momento sono comunque difficili da garantire in Calabria. Dunque non sembra che ci sia sta stato il ritardo denunciato e aggiungo che, ovviamente, questi dati sono già in possesso della Procura della Repubblica di Reggio». Sul caso, infatti, la Procura reggina ha aperto un fascicolo per accertare eventuali responsabilità così come vuol vederci chiaro anche la stessa Asp che ha avviato un’indagine interna. Minniti ha poi precisato che «il limite fissato a livello nazionale è quasi impossibile da rispettare in una regione come la nostra dove le strade presentano diverse problematiche e dove il personale è sottoposto a turni sfibranti e a rischi sempre maggiori».

(ANSA il 19 ottobre 2021.) Appalti ottenuti anche a scapito della sicurezza dei trasportati in ambulanza: così, secondo la Gdf, la cooperativa First Aid One, si aggiudicava appalti in tutta Italia "con conseguenti gravi disservizi”. Dalle videoriprese effettuate in alcune ambulanze, è risultato che venivano raramente eseguite le sanificazioni prescritte dopo il trasporto di ogni paziente soprattutto in tempo di pandemia: "In una delle ambulanze monitorate, in 20 giorni di lavoro con trasporto di 92 pazienti è stata sanificata solo in 4 occasioni mentre un'altra, in 9 giorni di servizio ed 86 pazienti trasportati, è stata sanificata un'unica volta”. Le indagini svolte dai militari della Guardia di Finanza del Gruppo di Pavia e della Compagnia di Vigevano, che hanno portato al sequestro della cooperativa, hanno permesso di individuare diverse gare d'appalto per l'affidamento dei servizi di trasporto in ambulanza in diverse parti del territorio nazionale (Pavia, Roma, Milano, Perugia, Ancona e Pescara): gare vinte da questa cooperativa, che però, secondo quanto è emerso dall'inchiesta, sono risultate turbate e per le quali sono state riscontrate diverse frodi nell'esecuzione del servizio pubblico. "In primo luogo - si legge nel comunicato delle Fiamme Gialle pavesi -, la cooperativa agiva tramite prestanomi, al fine di occultare la costante presenza ed effettiva direzione aziendale da parte di uno degli indagati già condannato in via definitiva nel 2017 per turbata libertà degli incanti, ed aveva escogitato un metodo infallibile per aggiudicarsi tutti gli appalti a cui partecipava: proporre prezzi talmente bassi che talvolta superavano il limite della anti-economicità e assicurare, solo formalmente, una folta flotta di mezzi. Peccato però che i bassi prezzi erano ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori e dal numero dei mezzi impiegati che era sensibilmente inferiore a quello previsto da contratto. Naturalmente, l'esiguo numero di mezzi sanitari presenti sul territorio comprometteva l'efficienza dei soccorsi a disposizione della collettività”. "Inevitabili i disservizi conseguenti - continua il comunicato della Guardia di Finanza -. Infatti, già dai primi mesi di operato, la qualità del servizio richiesto dall'appalto era molto al di sotto di quanto pattuito, creando numerose e continue inefficienze unite a sensibili ritardi e mancate prestazioni sanitarie, spesso confermate anche dalle segnalazioni pervenute dai pazienti trasportati e dai medici in servizio presso i presidi ospedalieri".

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 22 ottobre 2021. È un vero terremoto nel mondo delle ambulanze milanesi quello scatenato dal provvedimento con cui due giorni fa la Procura di Pavia ha ottenuto il sequestro della cooperativa First Aid. Perchè va a colpire il colosso che negli ultimi anni ha conquistato passo dopo passo quote sempre più vaste del business delle lettighe, con metodi che sollevavano da tempo perplessità e denunce, e inghiottendo nel frattempo marchi storici in difficoltà, come Ata Soccorso e la Croce Maria Bambina. Un colosso, quello guidato dai fratelli siciliani Antonio e Francesco Calderone, dagli agganci politici importanti ma anche con legami sotterranei con ambienti malavitosi. Oggi la rete di marchi che fa capo ai Calderone gestisce la maggioranza delle postazioni di pronto soccorso concesse da Areu, l'azienda regionale per l'emergenza, nel territorio del Comune di Milano: si tratta spesso delle postazioni più ghiotte, quelle che generano più chiamate e più reddito. Ma ancora più redditizio è l'affare dei trasporti interni agli ospedali pubblici. Nell'aprile scorso a far finire nei guai la First Aid e ai domiciliari i Calderone furono i metodi con cui avevano ottenuto l'appalto per trasportare i malati tra gli ospedali della provincia di Pavia. Ma la stessa (finta) cooperativa ha anche il gigantesco appalto per il Policlinico di Milano: storia curiosa, perchè in realtà l'appalto alla First Aid risulta scaduto nel 2015, ma per vie di fatto, tra una proroga e l'altra, a regnare tra i padiglioni di via Francesco Sforza sono ancora le ambulanze dei Calderone. I metodi con cui i due fratelli (mascherati dietro un prestanome, visti i precedenti penali di uno di loro) riuscivano a sbaragliare la concorrenza erano noti da tempo nel settore: dipendenti spacciati per volontari e costretti a lavorare gratis fuori orario, mezzi non sanificati e posteggiati per strada. La Croce Verde di Bergamo aveva denunciato più volte i metodi della First Aid, che aveva anche gli appalti in ospedali flagellati dal Covid come Nembro in Val Seriana, dove ammucchiava i malati sulla stessa ambulanza. Da notare anche che i Calderone controllano anche una ditta di pompe funebri, in modo da gestire il ciclo completo dei pazienti più sfortunati, anche se il doppio ruolo sarebbe proibito. Ora la Gdf di Vigevano, coordinata dal pm Roberto Valli, ha incamerato le testimonianze di numerosi lettighieri della First Aid, che hanno confermato di essere stati costretti per anni a subire le imposizioni dei Calderone. Ma la spregiudicatezza nella gestione del personale non è sufficiente a spiegare il travolgente successo della cooperativa. I due fratelli - uno dei quali ama farsi ritrarre a torso nudo coperto di tatuaggi o alla guida di Ferrari e Lamborghini - hanno saputo trovare sponde importanti nelle istituzioni. Basta pensare che da una visura camerale effettuata nel luglio scorso il presidente del Consiglio d'amministrazione della Cooperativa Sociale First Aid risulta essere l'avvocato Michele Vietti, ex deputato ed ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Ma scavando nella rete che ha dato vita in Sicilia alla creatura dei Calderone, la Guardia di finanza ha trovato anche personaggi meno illustri. Nella ordinanza di custodia eseguita nella primavera scorsa contro la «testa di legno» che amministrava la società, tale Francesco Di Dio, si legge testualmente che «la predetta società cooperativa è amministrata dai fratelli Calderone e da Pepe Salvatore, soggetti che risultano gravati da precedenti penali di rilevante allarme sociale, in particolare Pepe per delitti connotati da metodo mafioso». Ora la gestione dell'impero dei Calderone è affidata a un amministratore giudiziario, chiamato a mettere ordine nei conti occulti della First Aid. Ma la domanda che si fanno in queste ore le croci travolte dall'avanzata dei due fratelli è: che fine faranno gli appalti assegnati in questi anni alle ambulanze venute dal nulla?

Il re delle ambulanze. Report Rai PUNTATA DEL 13/12/2021 di Chiara De Luca

La famiglia Calderone gestirebbe in Italia attraverso cooperative e società appalti per servizi di ambulanze in diverse regioni arrivando perfino alla Camera dei Deputati. Una di queste, la First Aid One Italia è finita sotto la lente della Procura di Pavia. Ma come agiscono nel resto d’Italia?

L’UOMO DELLE AMBULANZE di Chiara De Luca

SOCCORRITORE MESSINA Qua abbiamo il re, Francesco Calderone, e noi siamo le regine. Lui è il re delle ambulanze.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il re delle ambulanze è Francesco Calderone, detto Ciccio dagli amici. È animato da una spiccata vena social che comunque sembra essere un marchio di famiglia. Lei è la sorella, Concetta Calderone, per gli amici Tettina, sposata con Alessandro Cacioppo. Questo signore qui per intenderci. Quelli che sembrerebbero seguitissimi TikToker, in realtà, sono i leader italiani delle ambulanze. Hanno appalti dalle Asl in molte le regioni d’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia. Con la First Aid One Italia sono entrati nella storia del nostro Paese. È febbraio 2020, c’è un giovane alle prese con una brutta polmonite. Si scoprirà più tardi che si tratta del primo malato identificato Covid in Italia. Tra le strade di Codogno sfrecciano le ambulanze di Ciccio Calderone. La sua società opera da anni in Lombardia e nel 2017 si è aggiudicata l’appalto alla Ast di Pavia.

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA Dal 22 febbraio la prima chiamata è stata alle 23:44 a Codogno, marito e moglie. La moglie l’abbiamo trasportata noi al Sacco di Milano.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Francesco Calderone interviene a un incontro sulla gestione della pandemia. All’evento partecipa anche il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana. È il 14 ottobre del 2020 e Fontana anticipa i contenuti di un’imminente puntata di Report.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ci sarà una trasmissione nella quale si dirà che io subisco dei condizionamenti dalla ‘ndrangheta, poi vorrei capire perché la ‘ndrangheta e non la camorra e non la mafia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, Fontana si riferiva all’inchiesta di Report, che sarebbe andata in onda da lì a qualche giorno e che avrebbe illuminato la figura di Nino Caianiello, leader di Forza Italia in Lombardia soprattutto a Varese, considerato il regista della nuova tangentopoli lombarda. I Magistrati avevano acceso un faro su quelle che erano le nomine pilotate, infiltrazioni della ‘ndrangheta, e anche sugli appalti. Ora anche gli appalti del re delle ambulanze Ciccio Calderone, che presenziava all’evento insieme al governatore Fontana, sono finite sotto la lente della magistratura. Quella di Pavia sta indagando su un appalto da 2 milioni di euro, vinto all’ Ast di Pavia. Le accuse sono quelle di turbativa d’asta e frode nelle pubbliche forniture. Sono indagati i fratelli Calderone, Francesco e Antonio e anche Michele Brait, che è l’ex tesoriere di Forza Italia in Lombardia, rinominato alla guida della direzione dell’Ast di Pavia dal governatore Fontana. Secondo i magistrati avrebbe in qualche modo agevolato l’aggiudicazione dell’appalto pur in presenza di una illegittimità evidente. Brait ci fa sapere attraverso il suo legale che aveva però poi denunciato le società che facevano riferimento a Calderone perché aveva notato delle anomalie nella gestione delle cooperative. Ora i Calderone, Antonio Francesco e Concetta attraverso le loro società di riferimento, First Aid One, Hert life Croce amica, e soprattutto attraverso Italy emergenza hanno appalti in tutta Italia, con Italy emergenza pure quella della Camera dei Deputati. Come hanno fatto ad aggiudicarsi tutti questi appalti? La nostra Chiara De Luca.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Hanno aumentato notevolmente i ricavi nel periodo pandemico perché, ad esempio, la First Aid One Italia è passata da 9 milioni e mezzo a 19 milioni e mezzo.

CHIARA DE LUCA E ma perché con le ambulanze guadagnano di più?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché hanno bassi costi, perché guadagnano un sacco di soldi, perché questa è la verità. Cioè, loro fatturano 60 milioni di euro con le ambulanze, cioè, mica roba da ridere, e guadagnano più di quattro milioni di euro. La cosa incredibile in tutta questa vicenda è che, innanzitutto loro operano con le cooperative sociali. Perché? Perché non si pagano imposte. Pur avendo non delle associazioni di volontariato, ma delle strutture cooperativistiche che ricevono anche contributi statali di importante natura e rilevanza.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Tra i numerosi appalti vinti il più prestigioso è quello vinto dalla Italy Emergenza per il servizio di ambulanze e di prestazioni sanitarie della Camera dei deputati. Prima, nel 2012, per un valore di 800 mila euro e poi, nel 2020, per un valore di 500 mila euro. Tutto a gonfie vele, fino a quando la Guardia di Finanza non comincia a guardare come girano le ambulanze a Pavia.

CHIARA DE LUCA Perché voi non avete partecipato al bando di Pavia?

LUCA PULEO – PRESIDENTE ANPAS LOMBARDIA Perché avevano delle basi d’asta troppo basse, quindi anche i costi non sarebbero stati completamente coperti.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La base d'asta dell'appalto sarebbe stata fissata illegalmente a una soglia inferiore alle tariffe regionali, e questo insieme alla divisione dell’appalto in due lotti, avrebbe causato di fatto l'esclusione automatica degli altri operatori.

LUIGI MACCHIA – COMANDANTE PROVINCIALE GUARDA DI FINANZA PAVIA Queste offerte sono state dichiarate antieconomiche, perché venivano dichiarate delle attività che non venivano poi puntualmente e rigorosamente svolte.

CHIARA DE LUCA Come fate a vincere tutte queste gare d’appalto nelle Asl di tutta Italia?

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA No, guardi in questo momento non posso rispondere

CHIARA DE LUCA Come riuscite a fare un prezzo così competitivo?

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA Ma guardi che nessun prezzo facciamo competitivo CHIARA DE LUCA Ma su cosa risparmiate? Risparmiate sui dipendenti?

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA No CHIARA DE LUCA Risparmiate sulle ambulanze?

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA No CHIARA DE LUCA I dipendenti come li assumete, come volontari?

 FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA No, con contratto di lavoro. Sono sotto indagine.

CHIARA DE LUCA Possiamo parlare due minuti? È un servizio importante per la cittadinanza, dottor Calderone

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA Finirà l’indagine e avrà tutte le risposte.

CHIARA DE LUCA Avete vinto anche la gara all’Asl Napoli 1, che è la più grande d’Europa.

FRANCESCO CALDERONE – FIRST AID ONE ITALIA Ma quale Asl Napoli 1.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Le tre società dei Calderone festeggiano sfilando per le vie della città con le ambulanze. A presenziare alla lettura dell’esito della gara, il 10 marzo 2021, come dimostra questo documento, è la signora Concetta Calderone che con l’Heart Life ha un contratto da dipendente ma figura come rappresentante delle tre cooperative. A Napoli emerge anche una modalità di assunzione del personale alquanto anomala.

CHIARA DE LUCA Gli infermieri sono assunti sempre con il bando?

SOCCORRITORE NAPOLI Per la maggior parte sono infermieri ospedalieri, lavorano tutti in ospedale. Li pagano a nero e pagano pure una bella cifra: all’inizio si parlava di circa 200 euro.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta dicendo che anche per l’appalto di Napoli, come quello di Pavia, i Calderone si aggiudicherebbero gli appalti grazie alle offerte più basse, ma riuscirebbero a farle più basse perché utilizzerebbero dei volontari e perché arruolerebbero quelli che già lavorano per gli ospedali. Allora ci siamo finti infermieri e siamo andati a verificare sul posto all'ospedale del mare.

SOCCORRITORE NAPOLI Glielo dici: Jenny mi ha dato il numero.

CHIARA DE LUCA Jenny?

CHIARA DE LUCA Mi hanno detto dei colleghi che potevo chiedere per fare l’infermiera sia, insomma, all’Asl che come volontaria.

SOCCORRITORE NAPOLI Come ti chiami

CHIARA DE LUCA Chiara

SOCCORRITORE NAPOLI Vieni con me, Chiara.

CHIARA DE LUCA Grazie

CHIARA DE LUCA Ciao. Come funziona?

RESPONSABILE NAPOLI Ah, ok, chi ti manda?

CHIARA DE LUCA Jjenny

RESPONSABILE NAPOLI Ah, ok. Praticamente ci mandi la disponibilità, possiamo vedere di inseriti, ti verrà fatto un rimborso spesa praticamente che non incide con il lavoro praticamente.

CHIARA DE LUCA Cioè, loro non sapranno niente?

RESPONSABILE NAPOLI Non devi fare nessuna dichiarazione, niente, è un rimborso spese, sono 140 euro a turno sul 118.

CHIARA DE LUCA 140? A me avevano detto 200.

RESPONSABILE NAPOLI No, no, inizialmente facevamo di più, facevamo 200 euro, perché non si trovavano infermieri, adesso ne stanno arrivando una valanga.

CHIARA DE LUCA Ma come risulta che io sono volontaria?

RESPONSABILE NAPOLI Sì, sì, firmerai dei moduli di volontariato, tutte queste cose qua, e avrai un rimborso spesa.

CHIARA DE LUCA Se poi mi vedono invece sull’ambulanza che dico io, che sono volontaria?

RESPONSABILE NAPOLI Sì, sì, certo, sono infermiera, ma non lo dice nessuno. Lo sto facendo da agosto.

CHIARA DE LUCA Ok, con quale risulto poi io, con Croce Amica mi dicevano?

RESPONSABILE NAPOLI No, o con First Aid o con Italy Emergenza.

ALBERTO GROSSI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CROCE ORO Chiunque faccia il volontario lo fa gratuitamente, senza avere nessuno tipo di introito personale. Nessuno fa il volontario in una struttura che ha un padrone che guadagna per questa struttura, non sarebbe ragionevole: o lo fa in modo totalmente inconsapevole o mi sembra improbabile che sia un vero volontario.

CHIARA DE LUCA Vi risulta che questi volontari ricevano un compenso che gli viene erogato come rimborso spesa.

DOMENICO AIELLO – AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Il compenso che ricevono tutti i volontari in questa storia, come rimborso spesa. Non è…

CHIARA DE LUCA Però aspetti, rimborso spese è se io che guido un’ambulanza prendo un panino e rimborso il mio panino. Un conto è ricevere dei soldi per la mia prestazione. Quello non è un rimborso spese.

DOMENICO AIELLO – AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Quindi lei sta sostenendo che addirittura vengono pagati di più.

CHIARA DE LUCA Io sto dicendo che mi risulta che la cooperativa First Aid utilizzi dei volontari che vengono pagati per la propria professionalità.

DOMENICO AIELLO – AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE La legge lo permette. Un volontario può fare volontariato e poi può prestare il proprio servizio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La legge prevede che i volontari possano ricevere un rimborso anche tramite una autocerticazione, purché non superi i dieci euro giornalieri, invece a noi ne hanno offerti 140 euro a turno.

CHIARA DE LUCA Il fatto che queste imprese sociali si presentino in queste gare con una percentuale di volontari cosa comporta?

DARIO CAPOTORTO - ESPERTO APPALTI PUBBLICI Riescono a fare prezzi più bassi e quindi aumentano le probabilità di aggiudicazione: questo è il primo effetto. Il secondo effetto è che guadagnano di più: l’amministrazione spende cento, ma l’impresa anziché avere un costo per 90 ha costi per 50.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E che questo sia un vero e proprio modus operandi ce lo confermano anche i soccorritori che lavorano in altri appalti. In pratica lucrano sulla pelle dei lavoratori a discapito dei cittadini. E che questo sia un vero e proprio modus operandi ce lo confermano anche i soccorritori che lavorano in altri appalti SOCCORRITORE DI MESSINA Con due volontari tu copri 400 ore di lavoro e hai risparmiato tre contratti a tempo indeterminato.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Uno dei soccorritori ci racconta altri particolari di come girassero le ambulanze in Sicilia.

SOCCORRITORE DI PALERMO Sono entrati senza formazione. Quando è partito l’appalto al policlinico, nessuno aveva la patente, nessuno aveva i corsi BLSD, nessuno.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Latina per lo stesso motivo è intervenuto il Consiglio di Stato che ha confermato che la società riconducibile ai Calderone, l’Heart Life Croce Amica, ha dichiarato il falso, dichiarando che due dipendenti frequentavano corsi per la sicurezza di 16 ore, quando in realtà erano in servizio sulle ambulanze. Risparmierebbero anche sulla qualità del servizio stesso: ambulanze e barelle rotte, sedi non idonee.

SOCCORRITORE DI MESSINA Se Francesco Calderone dice che quella barella non è rotta, tu devi andare in giro con quella barella SOCCORRITORE DI PALERMO Ci danno 3, 4, 5, 6 pazienti tutti in ambulanza per accorciare i tempi di tutti i servizi.

CHIARA DE LUCA Tutti insieme in ambulanza?

SOCCORRITORE DI PALERMO Tutti in ambulanza. Purtroppo, siamo costretti perchéé loro ci dicono di fare così, perché se non facciamo così poi ci fanno una lettera di contestazione.

CHIARA DE LUCA Una situazione del genere è tollerabile?

ALBERTO GROSSI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CROCE ORO No, è impossibile. Qui ci sono tre pazienti seduti e uno barellato: è impossibile, anche perché non c’è neanche lo spazio per intervenire sul paziente sdraiato se questo ha bisogno. Se dovessimo fare una manovra sul paziente sdraiato di qualunque tipo, non ci sarebbe la possibilità di farlo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Francesco Calderone pubblicamente consegna l’immagine del datore di lavoro premuroso.

GIORNALISTA TRUMAN TV Il pensiero la sera prima di andare a dormire a chi lo dedica in questo momento di emergenza?

FRANCESCO CALDERONE - DIRETTORE GENERALE FIRST AID ONE ITALIA I miei ragazzi, i miei dipendenti che hanno forza e coraggio e che devono andare avanti senza avere nessuna paura.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma nella realtà è lui stesso a terrorizzare i suoi lavoratori. Questo è il discorso di benvenuto in un appalto per il soccorso di ambulanze a Messina.

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Io una volta a Palermo nel 2003 quando sono arrivato, si sono ribellati tutti contro di me, 60 padri di famiglia lasciati a casa, ma non è una minaccia io ve lo sto dicendo per salvaguardare il vostro posto di lavoro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Alla faccia della premura per i suoi lavoratori. Insomma, Francesco Calderone e i suoi fratelli sono sicuramente abili imprenditori, perché hanno vinto appalti dalla Sicilia alla Lombardia passando per il Parlamento. Ma Francesco Calderone è stato già condannato per una turbativa d’asta e per aver emesso più volte falsi certificati. Anche il fratello Antonio è stato condannato per aver violato le normative in materia di sicurezza e di salute sul luogo del lavoro e poi per non aver versato i contributi previdenziali e assistenziali. Ma poi chi gli aggiudica l’appalto va poi a vedere a parte la Guardia di Finanza di Pavia e i magistrati di Pavia, va poi a vedere come viene erogato questo servizio? Non viene il sospetto che a un costo così basso corrisponda poi un servizio di qualità carente? Siccome è in ballo la salute dei cittadini sarebbe importante controllare. Abbiamo visto come vengono arruolati volontari per le ambulanze alle prime armi, basta dire “mi manda Genny”. E poi abbiamo anche raccolto la testimonianza tutta da verificare da parte di un dipendente, che dice guardate che arruolano anche gli infermieri dagli ospedali napoletani dove sono già assunti, che sono anche carenti gli ospedali di infermieri. E ora andiamo a vedere come girano le ambulanze dei Calderone.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nelle registrazioni video si può vedere che i lavorati mangiano dentro le ambulanze, in un’altra che utilizzano l’ambulanza come furgone per trasportare la batteria di un’auto. Inoltre, in Lombardia non avrebbero svolto la sanificazione delle ambulanze in piena emergenza Covid. Una delle ambulanze, dopo aver trasportato oltre 90 pazienti in 20 giorni, sarebbe stata sanificata solo in 4 occasioni. Un’altra dopo aver trasportato 86 pazienti sarebbe stata sanificata un'unica volta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora parliamo della famiglia reale delle ambulanze d’Italia, i fratelli Calderone: Francesco, Antonio, Concetta. Hanno appalti aggiudicati in tutta Italia dalla Sicilia alla Lombardia, passando appunto dal Parlamento. Come hanno fatto ad aggiudicarseli? Abbiamo visto che sono un po’ tirati con i lavoratori e proprio per i prezzi bassi con cui si aggiudicano questi appalti son finiti sotto la lente della magistratura di Pavia che per vedere e verificare la qualità dei servizi offerti ha piazzato delle microcamere sulle ambulanze.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nella registrazioni video si può vedere che alcuni lavoratori mangiano dentro le ambulanze. In un’altra che utilizzano l’ambulanza come furgone per trasportare il motore di un’auto. Inoltre in Lombardia non avrebbero svolto la sanificazione delle ambulanze in piena emergenza Covid. Una delle ambulanze dopo aver trasportato oltre 90 pazienti in 20 giorni, sarebbe stata sanificata solo in 4 occasioni. Un’altra dopo aer trasportato 86 pazienti, sarebbe stata sanificata un’unica volta.

CHIARA DE LUCA In che modo la tutelate la salute dei cittadini se non sanificate le ambulanze?

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Lei sta dicendo un sacco di falsit.

CHIARA DE LUCA Parliamone.

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Interroghi i dipendenti al posto di interrogare me.

CHIARA DE LUCA Perché scappa dottor Calderone?

CHIARA DE LUCA La mancata santificazione che avete documentato avveniva in Lombardia anche durante l’emergenza sanitaria?

LUIGI MACCHIA - COMANDANTE PROVINCIALE GUARDIA DI FINANZA PAVIA Sì, è una delle manifestazioni della frode nelle pubbliche forniture.

CHIARA FUORI CAMPO A Latina poi, un altro problema sarebbe quello delle sedi non idonee al ricovero delle ambulanze.

VINICIO AMICI - DELEGATO PROVINCIALE CONF.A.I. Sono locali affittati così, presi fanno parte...

CHIARA DE LUCA Sono parcheggi?

VINICIO AMICI - DELEGATO PROVINCIALE CONF.A.I. Parcheggi, sì, diciamo sono parcheggi, hai detto la parola giusta.

CRISTIAN RAPONI - SEGRETARIO PROVINCIALE SIPAL LATINA Il capitolato d’appalto prevedeva delle postazioni idonee dove poter fare una sanificazione straordinaria del mezzo nel momento in cui era molto sporco di liquidi organici.

CHIARA DE LUCA Di sangue?

CRISTIAN RAPONI - SEGRETARIO PROVINCIALE SIPAL LATINA Di sangue in particolare, ciò purtroppo come si può constatare non vi è.

CHIARA FUORI CAMPO E infatti, uno dei posti riservati alle loro ambulanze a Latina è letteralmente per strada. Ma comunque Ares 118 ci dice che l’ambulanza verrebbe sanificata in una sede vicina.

SOCCORRITORE 1 LATINA Se c’è il sangue dove lo scarichi? Per terra, vai al lavaggio o la pulisci o in postazione. SOCCORRITORE 2 LATINA Se tu prendi un’ambulanza che è completamente piena di sangue, la devi lavare così con la pompa, la varechina e poi la butti dentro al tombino.

CHIARA FUORI CAMPO Per vincere gli appalti i Calderone userebbero anche il metodo dei carrarmati di Mussolini, dichiarando di poter mettere a disposizione un numero di ambulanze per vincere gli appalti. Ma le ambulanze sono sempre le stesse e di volta in volta le spostano dove serve. Qui siamo a Messina e all’interno del policlinico abbiamo trovato un’ambulanza che ha il logo della Regione Lazio. La cooperativa ci dice che il Logo il giorno dopo sarebbe stato tolto ma è una pratica che comunque sembra essere comune. Infatti oltre a essere stata contestata dalla procura di Pavia, l’abbiamo riscontrata anche in alti appalti. Queste ambulanze sono state dichiarate per vincere tre appalti diversi: all’Ares 118 di Roma, all’appalto dell’Asl Napoli di 1 e a Bergamo Est.

DOMENCIO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Nel momento dell’offerta si possono mettere le stesse macchine…

CHIARA DE LUCA Però, però…

DOMENCIO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Aspetti un attimo, aspetti un attimo… solo nel momento in cui si sottoscrive il contratto, solo in quel momento c’è il vincolo di indicare le macchine che svolgeranno quel tipo di servizio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Queste qui invece sono state dichiarate a Napoli dopo la firma del contratto il 5 agosto, e lo stesso giorno l’Ares 118 ha pubblicato la lista dei fornitori operativi nel Lazio e le targhe sono le stesse. A Bergamo invece avrebbero dichiarato un mezzo di soccorso registrato come spazzaneve.

CHIARA DE LUCA Io ho qui ho delle carte in cui lei dichiara di avere delle ambulanze in un appalto quando poi sono in un altro appalto ancora.

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Non è così, non è così.

CHIARA DE LUCA Ma come ci sono le targhe, targhe alla mano. FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Ma quali targhe. Mi faccia vedere.

CHIARA DE LUCA Glielo faccio vedere. Francesco aspetti perché è importante questo, qui si tratta comunque della salute delle persone. Lei non può risparmiare sulla salute dei cittadini.

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA No guardi, guardi… io sono sotto indagine.

CHIARA DE LUCA Come fa a vincere tutte queste gare d’appalto?

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Ma non è così.

GUIDO BOURELLY - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO BOURELLY Se io dichiaro di avere 70 ambulanze e poi tecnicamente non ce l’ho, cioè io il punteggio su cosa l’ho preso su una carta che ho dichiarato? E questo a me non sta bene.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Guido Burellin si era presentato insieme a Croce Rossa all’appalto vinto dalle cooperative riconducibili ai Calderone all’Asl Napoli 1. Dopo l’aggiudicazione dell’appalto oltre a denunciare il fatto che le ambulanze dichiarate fossero su altri appalti, aveva denunciato anche la modalità di assunzione dei lavoratori, che avrebbero fatto il cambio appalto.

GUIDO BOURELLY - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO BOURELLY È successo che una persona che si è qualificata come un loro responsabile ha fatto una minaccia a un mio responsabile.

CHIARA DE LUCA Che tipo di minaccia ha fatto?

GUIDO BOURELLY - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO BOURELLY Ma una minaccia di… diciamo di… che in qualche modo ci facevano chiamare da persone legate ad ambienti criminali.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nel filmato che ci mostra, si notta uno sconosciuto che afferra Bourelly e gli sussurra all’orecchio parole che hanno il sapore di avvertimento.

ANONIMO Signor Bourelly non mi avete riconosciuto? Sono venuto da voi, mi ha mandato un amico in comune di San Giovanni.

GUIDO BOURELLY - AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO BOURELLY Si è qualificato come responsabile di questa realtà imprenditoriale presente su Napoli che se noi non la finivamo in qualche modo di tutelare i lavoratori che dovevano fare il passaggio di cantiere loro ci avrebbero fatto chiamare da questo clan diciamo di questo quartiere dove noi operiamo. Il nome non lo faccio del clan, sta agli atti, sta nella denuncia perché me li ritrovo qua fuori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ovviamente questa è la denuncia di Guido Bourelly - amministratore delegato dell’omonimo gruppo, e queste denunce vanno verificate. Quello che invece la guardia di finanza ha documentato è che le sanificazioni anche al tempo del Covid all’interno delle ambulanze del Gruppo Calderone scarseggiavano. Non è così secondo gli avvocati che dicono guardate che le microcamere non erano puntate sugli impianti automatici di sanificazione e quindi non le hanno riprese. Vedremo come andrà a finire. Quello che invece è documentato sulla carta è che I Calderone utilizzano le stesse ambulanze spostandole per aggiudicarsi gli appalti. E poi come hanno costruito il loro impero? Un vero vaso di Pandora.

CHIARA DE LUCA E a che titolo la First Aid versa sul suo conto corrente 140 mila euro?

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Secondo lei un direttore generale non ha diritto allo stipendio?

CHIARA DE LUCA Quindi lui prende questi 140 mila euro…

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE In due anni.

CHIARA DE LUCA Come direttore generale?

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE In due anni.

CHIARA DE LUCA Come direttore generale?

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE In due anni.

CHIARA DE LUCA Sì sì, ma come direttore generale?

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE In due anni, certo.

GIOVANNI MARIA SOLDI- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Ma questo lo afferma lei, mi scusi.

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Ma lei come fa ad avere le carte dell’indagine?

CHIARA DE LUCA Io sono una giornalista.

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE E, ma come fa ad averle?

CHIARA DE LUCA Non sono tenuta a dirle. Lui prende 140 mila euro come direttore generale, sì o no? Mi potete rispondere?

GIOVANNI MARIA SOLDI- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Io adesso non ho idea se prendeva o meno 140mila euro come direttore generale. Ma posso dire che se anche li avesse presi sarebbe stato un emolumento assolutamene compatibile e in linea con una qualifica formale ben precisa.

DOMENICO AIELLO- AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Notificata alla stazione appaltante, visibile in camera di commercio. CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Secondo gli avvocati Francesco Calderone non gestisce la società. Ma ha un ruolo da direttore generale di cui nella visura non si trova traccia. E anche i lavoratori la pensano diversamente.

SOCCORRITORE MESSINA Comanda Francesco Calderone ma sulla carta lui non esce, le decisioni importanti vengono prese da Francesco Calderone anche se c’è pure il fratello Antonio Calderone e le due sorelle.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Presidente della cooperativa di Calderone ad un certo punto viene nominato per 4 mesi anche Michele Vietti, ex sottosegretario del governo Berlusconi ed ex vicepresidente del Csm. Per ricoprire questo ruolo Michele Vietti ha percepito uno compenso di 10mila euro al mese. CHIARA DE LUCA Che rapporto c’è con Michele Vietti?

FRANCESCO CALDERONE - FIRST AID ONE ITALIA Ma chi è Michele Vietti?

CHIARA DE LUCA È l’amministratore della First Aid, lo dovrebbe sapere bene chi è. Secondo la procura eravate voi a gestire tutte le gare d’appalto eravate voi amministratori di fatto delle varie società.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO I magistrati di Pavia sequestrano la cooperativa di Francesco Calderone. E cominciano a guardare negli appalti con le ATS in Lombardia, nelle Marche, a Pescara e Perugia e nel Lazio per un valore superiore a 11 milioni di euro. Francesco Calderone avrebbe agito attraverso una testa di legno. Ma il vero dominus sarebbe stato lui con i suoi familiari, tra i vari amministratore risulta esserci stata anche Alessandra Mazza, cognata di Calderone.

ALESSANDRA MAZZA - AMMINISTRATRICE DELEGATA 6/2021-10/2021 Qua sono l’amministratore, se ne vada.

VIDEOMAKER E quale è la proprietà privata? CHIARA DE LUCA Quale è il ruolo di Francesco Calderone?

GIOVANNI MARIA SOLDI - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Francesco Calderone aveva un ruolo operativo più direi che gestionale. Direttore generale di First Aid One Italia.

CHIARA DE LUCA E non è lui che gestisce i lavoratori dipendenti.

DOMENICO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Assolutamente no.

CHIARA DE LUCA A me risulta di sì, quanto meno a Messina.

DOMENICO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Da che cosa le risulta?

CHIARA DE LUCA A Messina nel dicembre del 2019 Francesco Calderone dava direttive ai suoi dipendenti.

DOMENICO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE Su Messina non siamo legittimati a rispondere.

CHIARA DE LUCA Sì, ma non è una questione…

GIOVANNI MARIA SOLDI - AVVOCARO FRANCESCO CALDERONE A me non risulta.

DOMENICO AIELLO - AVVOCATO FRANCESCO CALDERONE A lui non risulta.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Non è oggetto d’indagine ma c’è un audio dove Francesco Calderone, in uno dei suoi ennesimi appalti, spiega ai lavoratori che entreranno nella cooperativa chi comanda.

FRANCESCO CALDERONE – MESSINA 2019 Da oggi in poi dovete parlare solo con me. Ognuno avrà 200 ore, poi le 35 ore le ridarà a titolo gratuito per la cooperativa sociale. A nessuno potete chiamare perché sempre io poi rispondo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La fortuna della famiglia Calderone inizia proprio a Messina, è qui che nasce il consorzio Ga Scarl, amministrato fino a marzo 2021 dallo strettissimo collaboratore dei Calderone, Salvatore Pepe

MAGGIORE DANILO NICOTRA – COMANDO PROVINCIALE PALERMO Il soggetto che gestisce la contabilità di tutta una serie di società riconducibili sempre alla famiglia Calderone è questo consorzio Ga Scarl.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Le imprese sociali che si spartiscono il grosso degli appalti fanno parte del consorzio e sono la First Aid One Italia, l'Italy Emergenza e l’Heart Life Croce Amica. Dietro ci sarebbero i tre fratelli Calderone: Antonio, Francesco e Concetta. Il marito di quest’ultima è Alessandro Caccioppo, indagato perché avrebbe corrotto un funzionario del policlinico di Palermo che avrebbe fatto avere alla Italy Emergenza 2 milioni e 2mila euro in più del dovuto, provocando un danno erariale di 3 milioni di euro. Ma le società riconducibili a Francesco Calderone e dei suoi fratelli sono come il vaso di Pandora.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Il grosso della loro attività la svolgono tramite servizi di trasporto infermi e primo soccorso, dopodiché hanno un comparto sui laboratori di analisi, hanno un comparto sulle onoranze funebri, verticalizzano praticamente.

CHIARA DE LUCA In che senso?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Nel senso che dal malato direttamente al funerale, no? Offrono servizi funebri, quindi c’è la società che gli dà vestiti per i cadaveri, insomma, una roba…

CHIARA DE LUCA Fanno servizio completo.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO I fiori tutto fanno tutto. anno un servizio completo e fanno anche i carri funebri.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Infatti, nello stesso indirizzo del consorzio che fa riferimento ai Calderone, notiamo l’insegna di Eden Onoranze Funebri. E’ riconducibile al padre e alla sorella di Francesco Calderone. La famiglia Calderone si occupa anche di allestimento di ambulanze e della vendita di carri funebri, in questo filmato si vede uno dei fratelli Calderone, Antonio, che consegna le chiavi di un’autovettura funebre nuova di zecca. In questo messaggio WhatsApp il responsabile di una cooperativa invita uno dei soccorritori che si trova sull’ambulanza a dare il bigliettino da visita delle onoranze funebri al parente di un paziente, trasportato in gravi condizioni da un ospedale all’altro: è il Signor Calderone che lo chiede”.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO La società che allestisce ambulanze e carri funebri partecipa a una società che fa le corse dei cavalli.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A metà tra affari e passioni c’è la Mag Horse Racing che nel 2020 fa parlare di sé per una clamorosa operazione di mercato: l’acquisto, in vista del derby italiano del galoppo, la corsa ippica più importante in Italia, del fenomeno Tuscan Gaze, il Cristiano Ronaldo dell’equitazione. SPEAKER Riceve ancora una volta il Signor Calderone, Complimenti!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora sono un po' come il prezzemolino i Calderone. Si ha l’impressione che dal trasporto in ambulanze, all’organizzazione del funerale, vestizione e arredi, compreso anche costruzione del carro funebre, per le umane ricorrenze e vicende prima o poi da loro devi passare. Per quello che riguarda invece gli appalti siciliani, pochi giorni la Corte dei Conti di Palermo ha condannato al pagamento di un milione e trecento mila euro di euro di danno erariale, il funzionario sospettato di essere stato corrotto dal cognato di Calderone, Alessandro Cacioppo. Secondo i magistrati Cacioppo avrebbe pagato 130 mila euro questo funzionario del Policlinico per farsi giustificare verso Italy Emergenza un riconoscimento di 2 milioni e 400mila euro in più rispetto al capitolato. L’Italy emergenza, la stessa società che ha l’appalto delle ambulanze per la Camera dei Deputati. Ora Italy emergenza ci scrive che i tre fratelli Calderone non risultato titolari di cariche dentro la società. Noi ci chiediamo a che titolo Francesco Calderone abbia parlato in quegli audio che abbiamo sentito. Comunque aggiungiamo noi tutti innocenti fino all’ ultimo grado di giudizio.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 17 ottobre 2021. Pacemaker, neuro-stimolatori e stent coronarici immessi sul mercato, e impiantanti a decine di migliaia di pazienti, ma privi della certificazione di conformità. Ancora peggio: dotati di certificazioni false, emesse dall'Istituto superiore di sanità, ma in realtà inesistenti, visto che nei laboratori dell'Ente i macchinari erano fatiscenti, datati e praticamente inutilizzabili. I dispositivi finiti nel mirino della Guardia di finanza sono in tutto 33.193: sono stati acquistati dagli ospedali di tutta l'Italia tra il 2010 e il 2014. Il danno calcolato dalle Fiamme gialle per le casse pubbliche è milionario e a pagare potrebbero essere i quattro responsabili del dipartimento Tecnologie e Salute dell'Iss che si sarebbero dovuti occupare delle autorizzazioni: la Corte dei conti del Lazio li ha citati in giudizio, chiedendo loro di risarcire l'Ente e il ministero della Salute con 3.054.714 euro. L'atto è stato notificato a Velio Macellari, da luglio 2007 a dicembre 2012 direttore del dipartimento Te.Sa., Mauro Grigioni, all'epoca delegato del direttore di dipartimento, Giuseppe D'Avenio, in quegli anni responsabile della linea di prodotto per il tipo stent coronarici e periferici, insieme a Carla Daniele. Dalle indagini, condotte dal viceprocuratore regionale Massimiliano Minerva, è emersa l'emissione di certificati di conformità - irregolari - per 43 modelli di «dispositivi medici impiantabili attivi», del tipo pacemaker e neuro-stimolatori, e anche per 37 modelli di stent coronarici. Nel caso degli stent, addirittura, la documentazione sarebbe stata prodotta solo successivamente e quando le verifiche della Finanza erano già in corso. Le indagini, per l'accusa, hanno dimostrato anche l'inesistenza dei rapporti di prova, l'omessa effettuazione dei test di laboratorio - almeno per quanto riguarda i pacemaker - e, soprattutto, l'impossibilità di effettuarli a causa «dello stato di obsolescenza e non funzionamento della maggior parte dei macchinari» presenti, avevano annotato gli investigatori in un'informativa. Realizzare le verifiche era praticamente impossibile: sensori rotti, strumentazione mancante, macchine ferme. Per gli investigatori, quindi, è impensabile che i responsabili non sapessero che le prove dei dispositivi non erano mai state effettuate. Negli atti viene specificato che Macellari avrebbe firmato 33 certificati relativi a modelli di pacemaker e neuro-stimolatori, poi immessi a migliaia sul mercato, e avrebbe approvato anche 20 modelli di stent. In tutti i casi, secondo l'accusa, avrebbe certificato l'esistenza di rapporti di conformità che non erano mai stati compilati. Secondo i magistrati, Grigioni e la Daniele, pur essendo a conoscenza dello stato - pessimo - dei macchinari di laboratorio e pur sapendo che i responsabili di linea di prodotto avevano rinunciato all'incarico, visto che era impossibile effettuare i test, non avrebbero preso i provvedimenti necessari per impedire l'emissione dei certificati. Uno degli attestatori ha anche raccontato di avere subito pressioni perché firmasse i rapporti di conformità in assenza dei requisiti previsti. D'Avenio, invece, su ordine del nuovo direttore di dipartimento - ora deceduto - avrebbe compilato e stampato rapporti di conformità postumi relativi ai modelli di stent finiti sotto inchiesta. Nel 2014, durante una perquisizione, i finanzieri avevano infatti trovato sul suo computer un file per la creazione dei documenti, mentre nel suo ufficio c'erano i rapporti relativi a certificati emessi ben quattro anni prima. L'attestazione di rispondenza dei prodotti a requisiti essenziali di efficacia e sicurezza è un dato necessario per la commercializzazione e, dunque, per l'utilizzo da parte delle strutture sanitarie pubbliche. Visto che la documentazione in questione, secondo il pm, non esisteva, il danno contestato riguarda sia le mancate ore di lavoro dei responsabili del dipartimento, sia il prezzo pagato dal Servizio sanitario nazionale per l'acquisto dei dispositivi. Il costo effettivo era stato di 29.577.677 euro. Ma i magistrati hanno deciso di contestare ai quattro imputati il 10% del danno totale. 

Dispositivi medici, le nuove regole per il commercio di protesi al seno, pacemaker, spirali e stent.  Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. Il dispositivo medico non è un farmaco, ma cura molti problemi di salute, parliamo di pacemaker, defibrillatori, protesi al seno, stent, supporti ortopedici, cateteri, spirali ecc. Rientrano in questa categoria anche i prodotti da banco come gli spray nasali, le gocce per le orecchie, lo sciroppo per la tosse, le lacrime artificiali. Complessivamente sono quasi un milione. Ebbene, cinque anni fa l’Ue ha preso atto che le regole europee per commercializzare i dispositivi medici non bastavano per tutelare la salute dei pazienti. E ora è corsa ai ripari.

Dispositivi medici: due protesi seno

In una recente inchiesta di Dataroom avevamo visto quali rischi comportano le diagnosi fatte con apparecchiature mediche obsolete (tac, risonanze magnetiche, mammografi, ecc.) e come evitarli. Qui, invece, ci occupiamo di tecnologia medica utilizzata a scopo terapeutico. In Italia nel 2019 sono stati acquistati dal servizio sanitario nazionale oltre 53.800 pacemaker, 16.200 defibrillatori, quasi 4.400 neuro-stimolatori, oltre 35.600 protesi otorinolaringoiatriche e 31.100 protesi esofago e gastro-intestinali, quasi 382.300 protesi vascolari, stent e valvole cardiache, 53 mila protesi mammarie. E questi sono i dati principali del ministero della Salute solo per le strutture pubbliche, ai quali bisogna aggiungere quelli delle strutture private accreditate, che per le protesi mammarie coprono il 50% dei casi. Per quel che riguarda le protesi ortopediche, i dati non sono disponibili.

Cosa è successo con questi dispositivi?

Le autorità sanitarie francesi hanno accertato che il fabbricante francese Poly Implant Prothèse (PIP) per anni ha utilizzato silicone industriale anziché silicone di grado medico per la produzione di protesi mammarie, danneggiando la salute di migliaia di donne nel mondo. Il pacemaker innovativo Nanostim ha riscontrato problemi di batteria. Il robot-chirurgo RoboDoc ha provocato rotture di tendini e danni ai nervi. La spirale anticoncezionale Essure, costituita da due fili che avrebbero dovuto favorire la cicatrizzazione delle tube di Falloppio, si è scoperto rilasciare sostanze tossiche. Problema simile per le protesi d’anca in cromo-cobalto Depuy: le componenti metalliche rilasciavano microparticelle nel sangue in quantità pericolose. Dopo cinque anni di discussioni al Consiglio europeo, dallo scorso 26 maggio è entrato in vigore il nuovo Regolamento Ue 2017/745, immediatamente vincolante per tutti i Paesi membri. Cosa cambia? Primo: la sicurezza e l’efficacia di un dispositivo medico devono essere dimostrate con più dati clinici rispetto a quelli richiesti fino a ieri, al fine di valutare al meglio gli effetti collaterali indesiderati e l’idoneità del rapporto benefici-rischi. Secondo: è obbligatorio monitorare la sicurezza e le performance del dispositivo anche dopo la sua certificazione e immissione in commercio (post-vendita). Vuol dire che i distributori e importatori devono collaborare alla raccolta dati e condividerla con il produttore. Problema: i dispositivi approvati con le vecchie normative non potranno più essere venduti solo a partire dal 26 maggio 2024. E alle industrie, che a quella data hanno ancora in magazzino delle scorte, viene concesso un altro anno per smaltirle. Per allora c’è da sperare che gli enti notificatori (cioè quelli che devono dare il via libera), che oggi sono appena 24 in tutta Europa, aumentino.

Dagli sciroppi agli spray nasali: nuove regole

C’è poi anche un’altra categoria di prodotti, spesso sconosciuta, che viene venduta come dispositivo medico, come gli sciroppi per la tosse, i gel muscolari, le gocce auricolari, gli spray nasali, le lacrime artificiali. Sono considerati dispostivi medici a base di sostanze – e non farmaci – perché svolgono la propria funzione attraverso un’azione meccanica e non metabolica. Per capirci: il muco viene rimosso mediante l’irrigazione di una soluzione nella cavità nasale, l’eccesso di cerume viene eliminato dal canale auricolare a seguito dell’instillazione di una soluzione detergente ed emulsionante, i sintomi della tosse sono ridotti con lo sciroppo che crea un film protettivo (barriera fisica) ed evita l’irritazione del cavo orale. D’ora in poi, per nessuno di questi prodotti vale più l’autocertificazione del fabbricante. E l’orientamento della Commissione europea nelle linee guida di applicazione del nuovo regolamento è molto chiaro: laddove le sostanze sono assimilabili a un farmaco bisognerà seguire le stesse procedure di validazione. La qualità andrà dunque dimostrata e validata con regole più stringenti che, in alcuni casi, potranno portare questi dispositivi a essere valutati alla stessa stregua di un farmaco. Significa che i produttori si dovranno adeguare ad un sistema più complesso o non potranno più commercializzare il prodotto. E prontamente insorge la categoria. Secondo Confindustria i fabbricanti non riusciranno ad adeguarsi, e paventano il rischio che questi prodotti finiscano sul mercato nei canali di «libera vendita» al di fuori di qualsiasi classificazione. L’unica cosa certa è che per i prossimi quattro anni, che si tratti di uno sciroppo o una protesi, l’incertezza sulla qualità è tutta sulle spalle del paziente.

Migliaia di pazienti uccisi da protesi velenose o difettose: ecco l'inchiesta Implant Files. Pacemaker, valvole cardiache, seni al silicone, impianti artificiali: dagli Usa all’Italia sono oltre 82 mila le vittime di prodotti a rischio impiantati nei malati. Un business da 350 miliardi all’anno dominato da multinazionali senza controlli. Ecco il nuovo scoop internazionale dell’Espresso con il consorzio Icij, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, defibrillatori, protesi ortopediche, seni al silicone, infusori, cateteri, neurostimolatori. Sono una moltitudine di prodotti dell’industria sanitaria che vengono impiantati nei pazienti. Milioni di persone costrette a convivere per anni, o per sempre, con questi apparecchi dentro il corpo. Le aziende produttrici li presentano come innovativi strumenti salvavita: la medicina del futuro, le più moderne tecnologie applicate alla salute. Spesso è vero: protesi e congegni sempre più perfezionati proteggono milioni di persone. Alcuni però nascondono rischi e problemi gravissimi. In grado di rovinare masse di pazienti e provocare disastri sanitari su scala mondiale. La nuova inchiesta Implant Files coordinata dall’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui hanno partecipato per l’Italia L'Espresso e Report, documenta per la prima volta come funziona e quali segreti nasconde il ricchissimo business dei cosiddetti dispositivi medici (medical device). Un mercato in continua crescita, dominato da multinazionali con un giro d’affari da oltre 350 miliardi di euro all’anno, ma totalmente fuori controllo. I dati ora rivelati mostrano che solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni personali collegate a migliaia di apparecchi segnalati come difettosi, guasti, usurati o malfunzionanti.

Finora si conoscevano solo episodi specifici di prodotti dichiarati pericolosi e già ritirati dal mercato. Come le migliaia di protesi al seno prodotte con silicone tossico dall’industria francese Pip, finita in bancarotta nel 2010. Oppure i risarcimenti milionari sborsati dalla multinazionale americana Johnson & Johnson per i danni causati dalle sue protesi ortopediche “metallo su metallo”, impiantate su oltre mezzo milione di persone. Nonostante questi allarmi, in Europa non esistono controlli pubblici prima dell’impianto: per vendere qualsiasi congegno da inserire nei pazienti, basta una certificazione rilasciata da società private, scelte e pagate dagli stessi fabbricanti. Una certificazione industriale, il marchio CE, come per i frigoriferi, i giocattoli e mille altri prodotti comuni, che non finiscono sotto la pelle dei cittadini. Anche i dispositivi a più alto rischio, dagli apparecchi per il cuore alle protesi permanenti, obbediscono a regole molto meno severe di quelle previste per i farmaci. E dopo l’impianto le autorità sanitarie, in Italia come in molti altri paesi, non sono in grado di rintracciare gran parte delle vittime.

Paradossalmente il mercato delle auto è più controllato. In caso di guasti o difetti di fabbricazione, una casa automobilistica può rintracciare tutti i clienti e richiamare interi blocchi di vetture a rischio. Se invece un congegno sanitario viene inserito nel corpo di migliaia di uomini, donne e bambini, non esistono procedure generali di allerta, sistemi standard di richiamo: una valvola difettosa viene scoperta con anni di ritardo; raramente i pazienti che devono conviverci vengono informati, visitati e curati; i medici possono continuare in buona fede a impiantare apparecchi di cui ignorano la pericolosità, anche se già ritirati da un’autorità estera perché uccidono troppi malati.

Ora, nell’inerzia dei governi, è il consorzio dei giornalisti ad aver creato il primo archivio informatico dei dispositivi medici, accessibile a tutti i cittadini via Internet: una banca dati globale, che permette a chiunque di controllare personalmente, per la prima volta, se l’apparecchio che porta addosso ha avuto problemi di sicurezza. È il maxi-archivio degli “Implant Files”, accessibile dal sito dell’Espresso, che permette di esaminare oltre 60 mila segnalazioni di guasti o incidenti, registrate dalle autorità sanitarie degli Stati Uniti e di altre nazioni, che riguardano migliaia di congegni sanitari di ogni tipo. Con dispositivi fuorilegge negli Usa, ma ancora in circolazione in Italia.

Pacemaker e defibrillatori difettosi: i dispositivi killer che hanno ucciso migliaia di cardiopatici. Il defibrillatore che diventa come una sedia elettrica. E il pacemaker con le batterie che perforano i tessuti. Così le grandi industrie vendono agli ospedali i device cardiaci più pericolosi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Milioni di persone devono la vita ai pacemaker, valvole cardiache, defibrillatori, stent coronarici e altri dispositivi per il cuore. Ma alcuni dei congegni impiantati nel corpo dei pazienti si rivelano, a distanza di tempo, difettosi, guasti, usurati o malfunzionati. Problemi che mettono in pericolo la salute delle persone. E vengono scoperti con mesi o anni di ritardo, per mancanza di controlli preventivi. Sprint Fidelis è il nome di un defibrillatore che la multinazionale Medtronic riuscì a far approvare nel 2004 dalle autorità americane. È stato ritirato nell’ottobre 2007, dopo essere stato impiantato su circa 268 mila pazienti in tutto il mondo. Il dispositivo era difettoso: impazziva, inviando ai malati raffiche di scosse «molto dolorose»: «Era terrorizzante», ricordano i pazienti intervistati dal consorzio Icij, ancora traumatizzati. Due anni dopo, la Medtronic ha riconosciuto che quel defibrillatore poteva aver causato 13 vittime. Ora i dati raccolti dall'inchiesta giornalistica Implant Files associano quel dispositivo alla morte di oltre duemila persone.

Il Far West della salute: pazienti usati come cavie da un’industria miliardaria senza controlli. Nessuna verifica di autorità pubbliche su milioni di device impiantati nel corpo. L’inchiesta giornalistica internazionale svela lo strapotere delle lobby dei dispositivi. E i guai con la giustizia degli istituti italiani, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Valvole cardiache, pacemaker, protesi ortopediche e mille altre altre tecnologie mediche. Sono una moltitudine i prodotti dell’industria sanitaria (medical device) che vengono impiantati nel corpo dei pazienti. Dovrebbero essere sicuri, efficaci, solidi, sottoposti a rigorosi controlli pubblici e verificati da studi clinici di livello scientifico. L'inchiesta giornalistica mondiale del consorzio Icij, a cui hanno partecipato per l’Italia L’Espresso e Report, documenta invece una situazione ad altissimo rischio: una specie di Far West della salute. Un business da 350 miliardi di euro all'anno che è totalmente fuori controllo.

Femminicidio silenzioso: il calvario delle donne intossicate da tecno-spirali e silicone velenoso. Ottomila pazienti lesionate da protesi al seno pericolose solo nel primo semestre 2018. E ora scoppia il caso Essure, impiantato su almeno settemila italiane, ritirato dalla Bayer dopo lo stop delle autorità irlandesi, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 23 novembre 2018 su "L'Espresso". Le donne pagano un prezzo altissimo alla mancanza di controlli pubblici sui dispositivi impiantabili nel corpo. Nel 2012 fu lo scandalo delle protesi al seno, prodotte con silicone tossico dalla ditta francese Pip, poi finita in bancarotta, a spingere le autorità di Bruxelles a varare il nuovo regolamento europeo sui medical device che entrerà pienamente in vigore solo a partire dal 2020. Nonostante le migliaia di vittime del caso Pip, alcuni molti modelli di protesi al seno sono ancora associati a problemi gravissimi: gli Implant Files segnalano, solo nel primo semestre 2018, sette casi di morte e oltre ottomila lesioni personali. Da mesi le donne di mezzo mondo si stanno mobilitando anche contro Essure, un anticoncezionale permanente creato dalla Conceptus, una ditta acquistata dalla Bayer. Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura per cicatrizzazione delle tube di Falloppio. I dispositivi, applicati a circa un milione di donne nel mondo, rilasciano sostanze sconosciute, si spezzano, possono infiltrarsi fino al cuore o ai polmoni. L’Espresso ha raccolto le testimonianze delle prime 33 donne italiane che si sono rivolte all’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, per spedire alla Bayer una formale richiesta di risarcimento dei danni, preludio a una possibile causa collettiva (class action). In Italia Essure è stato impiantato su almeno settemila donne.

Tutte le intervistate descrivono lo stesso calvario: «Mi chiamo M.B., sono nata in Brianza, abito vicino a Treviso, ho 44 anni. Nel 2014 la mia ginecologa, dopo due parti con gravi complicanze, mi ha consigliato di impiantare Essure, assicurando che era sicuro e non aveva alcuna controindicazione. Dopo l’impianto all’ospedale di Mestre, la mia vita è cambiata. Sono sempre stata una persona molte forte, in buona salute. Ho cominciato ad avere emicranie sempre più frequenti e intense, sono aumentate molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio. Ho pensato anche questo, prima di trovare altre donne con gli stessi problemi e capire. La mia nuova ginecologa dice che sono stati pazzi a impiantarmi Essure». La signora A.C., che ha organizzato un gruppo Facebook delle vittime italiane, ha tolto Essure ed è rinata: «Poche ore dopo ho ricominciato a camminare, a poter riafferrare gli oggetti, a vederci come prima, a non avere più mal di testa. Ora sono dimagrita, sto bene, sono tornata me stessa. Il problema più grande è che molte donne non collegano questi sintomi a Essure: i mariti ci credono impazzite, ci portano dallo psichiatra. Ora voglio aiutare le altre vittime».

Gli Implant Files segnalano 8.500 casi di rimozione negli Stati Uniti, altre migliaia in Europa, 769 solo in Belgio. Al ministero italiano risultano invece solo 13 «incidenti». L’Espresso però ha contato decine di rimozioni, con ginecologi che lavorano a tempo pieno per togliere Essure. La Bayer ha ritirato le sue tecno-spirali dal mercato italiano il 28 settembre 2017. Due giorni prima, il ministero aveva ricevuto un’email dalla rappresentante delle vittime, che denunciava l’inerzia italiana dopo lo stop deciso già il 2 agosto 2017 dall’ente certificatore irlandese Nsai, che aveva fatto perdere a Essure il marchio CE. L’indomani il ministero, senza dire nulla alle pazienti, ha inviato alla Bayer un avviso di sicurezza, invitando l’azienda a richiamare Essure. Sul sito del ministero, dal 2 ottobre 2017, i cittadini possono leggere solo il comunicato di Bayer Italia, che dichiara di aver ritirato Essure perché si vendeva poco, ma resta un prodotto «sicuro e benefico». Il colosso tedesco ha mandato negli ospedali a prelevare le spirali il suo «distributore esclusivo per l’Italia»: Cremascoli & Iris spa, un’azienda che appartiene alla famiglia dell'imprenditore Eugenio Cremaascoli, arrestato e condannato per corruzione nel 2005 a Torino. Dove ha confessato di aver pagato tangenti per oltre un decennio a tre famosi cardiochirurghi per vendere dispositivi medici e prodotti per il cuore ai più importanti ospedali pubblici. "Oggi come ieri chi detiene il potere sostiene che il giornalismo sia finito e che meglio sarebbe informarsi da soli. Noi pensiamo che sia un trucco che serve a lasciare i cittadini meno consapevoli e più soli. Questa inchiesta che state leggendo ha richiesto lavoro, approfondimento, una paziente verifica delle fonti, professionalità e passione. Tutto questo per noi è il giornalismo. Il nostro giornalismo, il giornalismo dell’Espresso che non è mai neutrale, ma schierato da una parte sola: al servizio del lettore. 

Esclusivo: ecco il database dei dispositivi killer. Chi ha una protesi impiantata nel proprio corpo può qui verificare quanto è sicura, scrive Marco Damilano il 22 novembre 2018 su "L'Espresso". Nel mondo ci sono milioni di protesi difettose impiantate nel corpo dei pazienti come spieghiamo nell'inchiesta Implant Files . Spesso le persone interessate non ne sono informate, perché non è detto che le aziende produttrici, gli enti governativi e gli ospedali abbiano segnalato il problema al paziente. L'Espresso e l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) per la prima volta danno la possibilità a tutti i cittadini di verificare se il proprio dispositivo è sicuro o se invece ha avuto segnalazioni negative in passato. Accedere all'International Medical Device Database, realizzato dal consorzio giornalistico sulla base di 60mila avvisi di sicurezza registrati dalle autorità in oltre dieci nazioni, è semplice: basta inserire il nome del proprio dispositivo nella griglia qui sotto, per verificare se in passato è stato segnalato un problema su quello specifico apparecchio sanitario (medical device). Il consorzio Icij e l'Espresso continueranno ad aggiornare e ampliare questa banca dati globale nelle prossime settimane, in base alle nuove segnalazioni ricevute.

AVVERTENZA: I dispositivi medici aiutano a diagnosticare, prevenire e curare ferite e malattie. L'intento dell'International Medical Device Database non è di sostenere o far credere che le società o gli enti qui citati siano coinvolti in comportamenti illeciti o che abbiano agito in modo improprio. Inoltre uno stesso dispositivo potrebbe avere nomi differenti nelle diverse nazioni e quindi non essere rintracciabile nell'elenco. Questo database non è destinato a fornire consulenza medica: i pazienti dovranno consultare i propri medici curanti qualora ritenessero che le informazioni qui contenute possano avere delle implicazioni rispetto al proprio quadro sanitario.

Il gigante Medtronic: migliaia di incidenti e maxi-affari in Italia tra corruzione ed evasione. La multinazionale ha il primato mondiale delle vendite, ma anche dei problemi di sicurezza: oltre 1.800 morti sospette solo nel 2017. E in Lombardia ha contratti d’oro con i più importanti centri cardiologici, scrivono Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 25 novembre 2018 su "L'Espresso". La multinazionale americana Medtronic è diventata in pochi anni la più ricca azienda di device del mondo. Ha un giro d'affari di oltre trenta miliardi di dollari all'anno, ha lanciato migliaia di nuovi dispositivi e ha aperto filiali in più di 160 paesi. Nelle sue campagne di comunicazione Medtronic rivendica che le sue tecnologie hanno salvato o migliorato la vita a 70 milioni di persone. L'inchiesta del consorzio Icij documenta però che questo colosso dell'industria sanitaria è stato accusato dalle autorità, in diversi paesi del mondo, di frodi milionarie alla salute pubblica, evasioni fiscali, accordi illeciti contro la concorrenza, uso di prodotti non autorizzati, presunte corruzioni e pagamenti a medici e scienziati per orientare gli studi clinici e ottenere dati favorevoli.

«Bayer non siamo cavie»: la protesta delle donne a cui la spirale Essure ha rovinato la vita. Domenica 15 settembre sfilano a Roma, in piazza Esquilino, gruppi internazionali di donne danneggiate dal contraccettivo prodotto dal colosso tedesco in uno scandalo già denunciato dall’Espresso. Gloria Riva e Leo Sisto il 13 settembre 2019 su L'Espresso. Arriveranno a Roma dalla Francia, dalla Gran Bretagna e da tante altre città italiane. Si incontreranno in piazza dell’Esquilino domenica 15 settembre. Sfileranno con striscioni e magliette gialle spiegando con i loro slogan perché moltissime donne, dalla vita rovinata, si trovano tutte lì a protestare: “Bayer non siamo cavie”, “Vittima di Essure”. Si sono passate la voce con il tam tam di Facebook e il passa parola internazionale le ha trasformate in attiviste. Ce l’hanno con la Bayer, colpevole di aver distribuito, tramite la consociata Conceptus, il contraccettivo Essure, che ha provocato danni irreversibili danni al loro organismo. È stato L’Espresso (25 novembre 2018) a denunciare  in Italia lo scandalo delle protesi difettose impiantate nei corpi dei pazienti con l’inchiesta mondiale “Implant Files” coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) di Washington tra 252 giornalisti di 59 testate con sede in 36 nazioni con un obiettivo: tutelare la salute dei cittadini. Essure, riportava il nostro settimanale, è un anticoncezionale permanente: “Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura, per cicatrizzazione, delle tube di Falloppio”. Drammatiche le testimonianze raccolte dall’Espresso, almeno 33. Tra queste, una signora, M.B., abitante nel trevigiano, ha raccontato il suo calvario, convinta dal suo ginecologo a ricorrere a Essure dopo due parti con serie complicazioni: “Ho cominciato ad avere emicranie sembra più frequenti e intense, sono aumentata molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio”. La Bayer ha poi tolto dal mercato italiano le sue tecno-spirali il 28 settembre 2017, costretta però a questo passo per una semplice ragione: quasi due mesi prima, il 2 agosto, l’ente certificatore irlandese Nsai aveva privato Essure del marchio CE, indispensabile per la sua circolazione nell’Unione Europea. Con nonchalance la Bayer Italia si è invece limitata ad annunciare di aver tirato via quel prodotto per un altro motivo: era ormai poco venduto, pur restando “sicuro” e benefico”. Una delle animatrici della campagna anti Essure è Annabel Cavalida, fondatrice e portavoce del gruppo “Essure-Problemi in Italia”, nonché una delle promotrici della manifestazione romana. Ha lanciato lei la pagina Facebook: Essure-Effetti collaterali e problemi”. L’Espresso l’ha sentita: «Siamo circa 250 donne. Ci siamo messe in contatto via Facebook per segnalare sintomi e problemi fisici avuti in seguito all'impianto del prodotto. Trenta di noi, anche se non hanno riscontrato indizi su di loro, lo tengono comunque sotto controllo. Altre 78 l’hanno rimosso e tutte – tranne cinque – sono rinate, sono tornate a condurre una vita normale. Chi non c'è riuscita è perché, sfortunatamente, ha scoperto la presenza di frammenti di metalli Essure in altre parti del corpo». Proprio così. Lo ha dimostrato uno studio della Fda, l’ente americano regolatore dei device medici. I micro-inserti Essure in poliestere, nichel-titanio, acciaio e lega per saldature si possono muovere, spostarsi qua e là, scatenando anomali eventi di migrazione: 1101 nell’utero, 41 nel fegato e 29 nell’appendice, secondo quella ricerca. In Italia sono stati commercializzati 7 mila dispositivi, ma, continua Cavalida, “non conosciamo quanti di questi sono stati innestati. Quindi il fenomeno potrebbe colpire molte più donne che hanno dei malesseri, ma senza collegarli a Essure. Alcune, forse, credono siano i normali effetti di una menopausa: ma non è assolutamente vero». Il gruppo italiano si è raccordato con altri movimenti internazionali, specialmente in Francia dove nel 2016 è stata costituita Resist, un’associazione che ha censito 2881 vittime di Essure su un bacino di 175 mila donne. La sua presidente Emilie Gillier sarà a Roma domenica, insieme ad altre iscritte, per documentare i risultati della sua attività, grazie anche all’apporto di alcuni deputati dell’Assemblea nazionale di Parigi. Ma in questa vicenda il nostro ministero della Salute come si è comportato? Giulia Grillo, dei 5S, fino a poche settimane fa ministro, aveva promesso in febbraio di organizzare un incontro per fare chiarezza. Incontro che non c’è mai stato. Come non c’è mai stata una risposta alla prima mail inviata da Annabel Cavalida il 21 maggio, seguita da una raccomandata dieci giorni dopo e, di nuovo, da altre due mail, il 19 e 20 luglio. Ed è così che in agosto si è fatta strada l’idea della dimostrazione di piazza Esquilino, per appellarsi alla coscienza del successore della Grillo, nominato nel frattempo, Roberto Speranza. Per ottenere che cosa? “La creazione di un protocollo d'espianto, un vademecum da inviare a tutti i chirurghi e i ginecologi per insegnare loro come espiantare Essure». La spirale, infatti, è studiata apposta per installarsi nelle tube che collegano le ovaie all'utero, cicatrizzandosi insieme a questo condotto: «L'unico modo per eliminare Essure è levare l'intero utero, ovaie comprese. Ma, senza un protocollo, i medici possono intervenire come meglio credono, in alcuni casi facendo rimozioni parziali, non risolutive». Domenica, in piazza Esquilino, ci sarà un medico, Gian Luca Bracco, direttore di ginecologia all'ospedale di Lucca, che insieme ad un altro dottore, Matteo Crotti, ginecologo dell'Ospedale di Carpi, sarebbe disponibile a indicare le linee guida del protocollo. Rimarca Annabel: «Il cambio al vertice del ministero della Sanità ci preoccupa. Per questo ci rivolgiamo al nuovo ministro Speranza, augurandoci che mantenga l'impegno preso dalla ministra Grillo”. Ma non è, questa, l’unica richiesta. È importante realizzare anche una mappatura del fenomeno, identificare tutte le donne esposte alle insidie di Essure. La signora Cavalida aggiunge: «Sappiamo che un laboratorio privato è disponibile ad analizzare la composizione di Essure, per individuare l’elemento responsabile dei nostri disturbi. Vogliamo andare a fondo, capire che cosa dà origine a quelle sintomatologie». Insomma, Bayer ascolti queste invocazioni d’aiuto e intervenga. Finora però il colosso tedesco rilascia all’Espresso soltanto la seguente dichiarazione: “La salute e la sicurezza dei pazienti che fanno affidamento sui nostri prodotti è per noi la principale priorità. Il profilo favorevole benefici-rischi di Essure rimane invariato. Continuiamo a sostenere l’efficacia e la sicurezza del prodotto, che sono stati dimostrati da un ampio numero di studi, sostenuti da Bayer e da ricercatori indipendenti: tra questi sono inclusi oltre 40 studi pubblicati, che hanno coinvolto più di 200.000 pazienti negli ultimi 20 anni. Le donne che al momento hanno adottato Essure possono continuare ad utilizzare con sicurezza il dispositivo e non dovrebbero preoccuparsi. Se una donna con Essure ha dubbi o domande sul dispositivo dovrebbe discuterne con il proprio ginecologo”. Papale, papale. Ovviamente, tutto questo vale per il passato, perché ormai Essure non può più essere utilizzato, come abbiamo già scritto. Eppure, domenica, in piazza Esquilino, insieme a donne inviperite, alle T-shirt gialle e a cartelloni tipo “Essure mi ha portato via un organo sano”, nello stile del film Oscar “Tre manifesti a Ebbing”, rimarrà sullo sfondo una grande incognita. Che potrebbe essere sciolta se si potesse avere, grazie a studi di laboratorio, come Annabel Cavalida auspica, “una conferma scientifica sulla pericolosità di Essure. Allora Bayer dovrebbe farsi carico anche dei costi che la sanità pubblica si è accollata per l'impianto e l'espianto del device». Vale a dire, 2.500 euro per l'impianto e tre volte tanto per l'espianto.

Dispositivi a rischio nel cuore dei bambini. Donne con reti nocive nel grembo. Protesi al seno cancerogene. L'allarme lanciato da L'Espresso lo scorso anno ora è diventato globale: le segnalazioni di apparecchi difettosi sono oltre 90.000. E i pazienti italiani hanno cominciato a tirare fuori le loro drammatiche esperienze. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 13 maggio 2019 su L'Espresso. Mamme e papà, seduti sulle panchine di una piazza di Rovigo, tengono d’occhio i bambini che giocano a rincorrersi.  Corrono tutti, disegnando un grande cerchio, tranne Erik. Lui riesce solo a fare qualche passetto, lentamente. Erik ha quasi nove anni, la sua è una vita segnata da continue operazioni a cuore aperto, ma «sta affrontando con  grandissima forza i dolori, gli scompensi cardiaci, le angine addominali, le febbri». Le parole di suo padre, Andrea Ferrari, esprimono ammirazione per quel figlio lottatore, da dieci mix di farmaci al giorno. Erik è nato nel 2010 con una malformazione congenita chiamata tetralogia di Fallot, che causa una miscelazione tra sangue povero e ricco di ossigeno, ostacolando la crescita e i movimenti. Un difetto cardiaco abbastanza comune, che si può curare. «A Bologna uno specialista ci aveva proposto un doppio intervento chirurgico, uno immediato, l’altro dopo qualche anno: un sistema collaudato», ricorda papà Andrea. «Un pediatra di Rovigo, però, ci ha parlato di un programma innovativo, applicato a Padova: un dispositivo chiamato Cormatrix. In quella cardiochirurgia pediatrica ci hanno spiegato che era una membrana in grado di riparare il cuore una volta per tutte, perché cresce insieme ai tessuti. Mio figlio aveva pochi mesi di vita. Ci siamo fidati: chi non l’avrebbe fatto? Nessuno ci ha informato dei rischi. È stato un calvario». 

UN'INDUSTRIA FUORI CONTROLLO. Il genitore veneto è uno degli oltre 700 italiani che hanno potuto cercare documenti e informazioni nella prima  banca dati globale  dei dispositivi medici (Imdd, International medical device database) creata dal consorzio giornalistico Icij, di cui fanno parte per l’Italia L’Espresso e Report. Nell’inerzia delle autorità, è l’inchiesta Implant files, frutto di un anno di lavoro di oltre 250 cronisti di 36 nazioni, che ha reso per la prima volta pubblici, dal novembre scorso, questi dati sulla sicurezza di migliaia di apparecchi, dai pacemaker alle protesi, impiantati nel corpo dei pazienti. Costretti a convivere con quei congegni per anni, o per sempre. In Italia si contano più di un milione di modelli di device. Molti sono preziosi strumenti salvavita: moderne tecnologie che proteggono i pazienti. Alcuni però nascondono problemi gravissimi. Evidenziati dalle cifre-choc rivelate dall’inchiesta Implant Files: solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni associate a dispositivi difettosi, deteriorati o malfunzionanti. Ora anche i pazienti e i medici italiani possono controllare personalmente, sul nostro sito oltre 90 mila segnalazioni di allarme (in gergo, avvisi di sicurezza) provenienti da 18 nazioni, dagli Stati Uniti alla Germania. Proprio qui il signor Ferrari ha trovato i dati sul device applicato a suo figlio. Al Cormatrix, nell’ultimo decennio, vengono collegati quasi trecento eventi avversi: 7 morti, 259 lesioni, 18 guasti. «Ma noi l’abbiamo saputo solo adesso, grazie alla vostra banca dati». Il Cormatrix, prodotto dall’omonima azienda statunitense, è una membrana ricavata da tessuti di origine suina e bovina, biocompatibili, progettata per saldarsi e crescere con le cellule del cuore. In Europa è stata certificata dalla ditta francese Medpass. Un’impresa privata pagata dal produttore. Una regola assurda, che vale per tutti i dispositivi, anche i più rischiosi: è il controllato che sceglie il controllore. Negli Stati Uniti risultano impiantati oltre 7 mila Cormatrix. In Italia il numero è ignoto, perché non esiste un archivio o registro degli impianti. La membrana risulta utilizzata da tempo in diversi ospedali, da Torino ad Ancona, da Padova a Bologna. Ma il nostro ministero della Salute non ha pubblicato alcun avviso di sicurezza. E neppure rilanciato i quasi trecento allarmi americani. Per anni diversi chirurghi italiani lo consideravano un dispositivo valido, «utile per ricostruire il pericardio dopo un’operazione», come spiega un professore milanese consultato da L’Espresso, che poi l’ha abbandonato «perché non garantiva l’efficacia promessa». Ma fino al 2010 il Cormatrix veniva applicato solo su pazienti adulti, non sui bambini: il papà veneto ha scoperto solo oggi che suo figlio, quell’anno, è stato usato come cavia. «A Padova il medico ci assicurava che non c’erano rischi e con un solo intervento ci saremmo dimenticati dei problemi al cuore di Erik. Col senno di poi, avremmo dovuto fare più attenzione alle sue parole: ci teneva a precisare che non era una sperimentazione, ma un progetto di studio». La differenza non è trascurabile. Per impiantare il Cormatrix nei bambini, i medici padovani proprio nel 2010 chiesero per due volte il parere del Comitato etico per la sperimentazione della Regione Veneto, composto da dodici medici e giuristi. Dalla documentazione ottenuta solo alcuni giorni fa «dopo una lunga attesa e svariati solleciti», come spiega l’avvocato Alessandro Boldini, che segue da tempo il caso, risulta che il Comitato aveva dato una risposta negativa: «L’impiego proposto risulta diverso dalla marcatura CE», cioè dal tipo di utilizzo certificato e autorizzato, mentre «le potenziali capacità di rigenerazione del tessuto (del cuore) sono ancora in fase iniziale di valutazione e non vi sono dati», per cui il progetto di usare il Cormatrix per i bambini «si configura come sperimentazione clinica e richiede l’approvazione di un protocollo». A quel punto Erik viene operato come «progetto di studio». E da lì, spiega il signor Ferrari, «inizia la nostra via crucis, con operazioni continue. Nel 2015 il bambino subisce un intervento a cuore aperto durato 16 ore, al Bambin Gesù di Roma, dove i chirurghi tentano di rimuovere la membrana, ma è quasi impossibile perché si è mischiata con le cellule». Erik lascia l’ospedale mesi dopo, con il suo terzo pacemaker nel cuore. «Siamo in contatto con un’altra famiglia: anche il loro bambino sta per essere rioperato nella speranza di eliminare il Cormatrix». In questi anni varie riviste scientifiche internazionali hanno pubblicato studi sui rischi del Cormatrix. Già nel 2014 un ricercatore dell’università di Padova, Filippo Naso, ha definito «allarmante che questo dispositivo sia stato autorizzato in Europa e Usa senza avvertire dell’effetto collaterale che possono avere cellule provenienti da tessuto animale». Nel 2016 un altro studio, firmato dai professori Biagio Castaldi e Annalisa Angelini, ha riassunto i risultati della prima campagna di controlli sui bambini con un titolo eloquente: «Un monito alla cautela». Tra le carte di Erik, il padre conserva il modulo di consenso al «progetto di studio» che gli fecero firmare nel 2010. Alla voce «C’è qualche rischio per mio figlio?», si legge «No». L’ospedale di Padova ha dovuto versare un risarcimento alla famiglia di Erik. Che però non basta nemmeno a pagare le gravose spese sanitarie: «Erik va controllato ogni due mesi a Roma, qui dobbiamo tenere le macchine per monitorare il cuore...  Quindi abbiamo dovuto ipotecare la casa». Il signor Ferrari deve anche difendersi da una querela: un chirurgo di Padova si è sentito diffamato dal suo racconto della storia di Erik, pubblicata in un blog. La procura ha chiesto l’archiviazione, ma il luminare si oppone. E così il 28 maggio, in tribunale, l’unico imputato sarà lui: il papà del bimbo con il cuore a pezzi.

TUMORI DA PROTESI AL SENO. L’Espresso aveva pubblicato già il 25 novembre 2018 il primo articolo in Italia su un allarme che ora è globale. Tutto parte dai dati rivelati dall’inchiesta Implant files: in dieci anni, solo negli Stati Uniti, si contano 39 vittime e oltre 14 mila lesioni associate ad alcuni tipi di protesi al seno. Un femminicidio silenzioso, che continua ad aggravarsi: le donne colpite raddoppiano ogni sei mesi. Il problema riguarda le protesi ruvide (macro-testurizzate), sospettare di aumentare da 9 a 16 volte il rischio di sviluppare una rara forma di cancro, il linfoma anaplastico a grandi cellule. Dopo i primi articoli, il 14 dicembre 2018 il certificatore francese Gmed nega il rinnovo del marchio CE alla multinazionale Allergan, bloccando così le vendite delle protesi al seno della gamma Natrelle. Quattro giorni dopo, il governo di Parigi ne ordina «il ritiro da tutti gli ospedali». E l’Italia? In febbraio la Società di chirurgia plastica ricostruttiva (Sicpre) dichiara che «nel 2018 sono state utilizzate cerca 51 mila protesi, per il 95 cento testurizzate», con 39 donne già colpite da linfoma (ora salite a 41). Quindi i colleghi di Report scoprono il primo decesso accertato in Italia: una donna con una protesi ruvida installata nel 2002, rimossa solo nel 2018. Un caso segnalato già in febbraio al ministero, che non ha pubblicato  avvisi per informare medici e pazienti. Il 2 aprile 2018 l’autorità francese Ansv comunica di aver «proibito la vendita, distribuzione, pubblicità e utilizzo» di altri modelli di protesi (macro-testurizzati o al poliuretano) prodotti da Allergan, Arion, Sebbin, Nagor, Eurosilicone e Politech. In Italia il ministro Giulia Grillo annuncia di aver chiesto un parere tecnico al Consiglio superiore di sanità, previsto il 13 maggio. L’eventuale richiamo delle protesi-killer si profila però problematico: L’Espresso ha denunciato già nel 2018 che in Italia non esiste nessuna banca dati nazionale dei dispositivi, per identificare e contattare i pazienti in pericolo. Nel 2012 l’allora ministro Balduzzi varò un «registro obbligatorio delle protesi al seno», che però non è ancora in funzione. Anche il Canada e altre nazioni hanno seguito l’esempio francese, mentre negli Usa l’amministrazione Trump «non ravvisa gli standard di un divieto». Tra le dieci più grandi multinazionali dei device, otto sono americane: fatturano oltre 350 miliardi all’anno. 

RETI DI PLASTICA, MEA CULPA POLITICI. È uno dei maggiori risarcimenti concessi a una singola persona per danni sanitari: 120 milioni di dollari, che il gigante Johnson & Johnson (J&J) dovrà pagare a una donna di 68 anni, Susan McFarland, che nel 2008 si era vista impiantare un dispositivo a maglie contro l’incontinenza urinaria. Una sentenza emessa a fine aprile da un tribunale di Philadelphia, che la multinazionale si prepara a contrastare  in appello. Il caso riguarda una rete plastificata (Tvt-ODevice) prodotta dalla Ethicon, consociata della J&J, simile a molti altri dispositivi pelvici accusati di aver rovinato decine di migliaia di vittime nel mondo. Tracie Palmer, legale della danneggiata, si era rivolta alla giuria con queste parole: «Ecco il vostro messaggio alla J&J: per la salute e sicurezza delle donne americane, togliete dal mercato questo prodotto». Le reti aderiscono agli organi interni, per cui diventa difficile toglierle anche se provocano emorragie e dolori atroci. L’inchiesta Implant Files è nata dallo scoop di una giornalista olandese, Jet Schouten, che ha videoregistrato i dirigenti di tre società di certificazione (una è italiana) pronti a offrire il marchio CE a una rete per agrumi da supermercato. Dalle protesi ortopediche ai pacemaker, dai defibrillatori alle valvole, le rivelazioni del consorzio hanno provocato una  specie di mea culpa universale. In Germania, Olanda, Regno Unito, Spagna, India, Canada e tanti altri Paesi i governi giurano di voler garantire più sicurezza e tracciabilità. In Italia il ministro della Salute ha presentato il 22 marzo la nuova «governance dei dispositivi», ma la direttiva europea che impone di registrare ogni device, con un codice da associare al singolo paziente, verrà applicata «gradualmente, entro tre anni». La lobby dei produttori intanto ha bloccato la riforma più importante: affidare autorizzazioni e controlli a un’agenzia europea, pubblica e indipendente, come per i farmaci. Medici e pazienti devono quindi accontentarsi del marchio privato CE: un congegno impiantato nel corpo resta meno sorvegliato di un’automobile. E non è l’unico privilegio legale concesso ai big dell’industria: «Per le cause sui dispositivi c’è una prescrizione brevissima: solo un anno», spiega l’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, che assiste le prime 50 vittime italiane di Essure, il device anticoncezionale che la tedesca Bayer nel 2017 ha dovuto ritirare. Negli Stati Uniti l’agenzia di controllo (Fda) è pubblica. Il suo capo, Scott Gottlieb, un ex lobbysta nominato da Trump, che in novembre aveva promesso controlli più severi, poi è stato accusato di avere in realtà nascosto decine di migliaia di avvisi di sicurezza scoperti dal consorzio. E in marzo si è dimesso. In attesa di vere riforme, L’Espresso continua a ricevere denunce disperate. Molte donne scrivono al nostro sito di essere «molto preoccupate» per le protesi al seno: «Mi avevano detto che erano sicure. Eppure, da quando me le hanno impiantate, ho dolori diffusi insopportabili, stanchezza cronica, perdita di memoria,  rush cutanei, problemi agli occhi, gola perennemente secca, digestione difficile. Sto sempre peggio e ora si sono aggiunti dolori al seno. Fatico a lavorare, a fare le scale, a svolgere qualsiasi attività». Scrive un paziente di Roma: «Ho consultato la vostra banca dati e ho scoperto che mi è stata impiantata una protesi d’anca “a rischio medio-alto”, che rilascia metalli pesanti. Nel 2017 il cromo aveva un livello di 1,40, poco sopra il limite di 1, adesso è a 2,93. Il cobalto è 4,40, mentre la soglia va da 0,1 a 0,4. Vorrei capire cosa rischio, vorrei un aiuto medico». Altro caso pesante: «Sono stato operato per un’insufficienza cardiaca, ho scelto un ospedale veneto perché pubblicizzava un nuovo dispositivo da inserire senza un intervento a cuore aperto. È stato un vero disastro. Ho dovuto farmi rioperare in un altro ospedale. Qui i medici mi hanno detto che quella protesi è sperimentale, costosa (circa 20 mila euro) e viene applicata a centinaia di pazienti italiani anche se non è ancora autorizzata negli Usa, dove viene prodotta. È vergognoso». L’Espresso finora ha raccolto 80 denunce circostanziate che riguardano pazienti italiani. Il consorzio Icij, a livello mondiale, ne ha ricevute ben 3.432. L’inchiesta Implant files continua.  

Alessia Marani per "il Messaggero" il 21 settembre 2021. Torna il blocco barella nei pronto soccorso della Capitale. Complice il rallentamento degli ingressi al San Giovanni, ospedale messo in difficoltà dall'attacco hacker alla rete informatica, tra domenica e ieri si sono registrati nuovi blocchi, con picchi di cinquantadue mezzi fermi e contemporaneamente in ostaggio dei vari dipartimenti di emergenza cittadini, praticamente la metà. Con conseguenti ritardi e disagi per chi, richiedendo un soccorso, è rimasto in coda o ha dovuto attendere l'arrivo di un equipaggio da aree della città molto distanti tra loro. Il bollettino di metà giornata, ieri, segnava quasi 18 ore di attesa per la restituzione di una barella al San Camillo (l'ambulanza era arrivata addirittura la sera prima), sempre in questo nosocomio nel cuore di Monteverde, un altro mezzo del 118 è rimasto ai box per quindici ore prima di potere riprendere servizio. Non è andata meglio a un'ambulanza prigioniera per undici ore all'Umberto I (qui alle due del pomeriggio erano ben 15 le ambulanze ferme) e mezzi di soccorso si sono arenati anche al policlinico di Tor Vergata e al Sandro Pertini. «Ci risiamo - affermano Stefano Barone, segretario provinciale del sindacato infermieri Nursind Roma e Alessandro Saulini, delegato per l'azienda 118 - quelle di domenica e di ieri sono state altre giornate decisamente intense per gli operatori del servizio 118 e dei pronto soccorso della Capitale. Purtroppo, con il riavvio delle scuole e la ripartenza dopo le vacanze, archiviate le restrizioni per il Covid, in questi giorni che preludono all'autunno siamo alle prese ancora una volta con un problema atavico, che non si riesce mai a risolvere definitivamente. Non è possibile - continuano - che un servizio estremamente importante e fondamentale come quello dell'emergenza rischi ritardi o blocchi perché nei pronto soccorso non si liberano le barelle su cui vengono trasportati i pazienti». Il Nursind indica una media nelle ultime 48 ore di 30/35 ambulanze rimaste ferme contemporaneamente per periodi molto lunghi. Ma ci sono stati picchi, specie nella mattinata di ieri, tra i 40 e i 52 mezzi. «Tra gli ospedali più sofferenti, con un effetto domino dovuto anche alle problematiche del sistema informatico dell'hub del San Giovanni - affermano dal Nursind - figurano il Pertini e il policlinico di Tor Vergata, ma anche il Casilino e, domenica in particolare, il Sant' Andrea». Al Pertini, ieri, di ambulanze ferme ce n'erano cinque, sei al San Camillo (di cui una arrivata con un sospetto Covid alle 18,30 del giorno precedente e un'altra alle 20 e ieri mattina ancora in attesa), ingorgo di ambulanze - sei - anche a Tor Vergata. I pazienti, dunque, restano per ore parcheggiati sulle barelle all'interno delle sale e dei corridoi dei pronto soccorsi, mentre fuori, sui piazzali, si formano i capannelli di tute arancioni di 118 e misericordie, i mezzi in convenzione con la Regione. Nel novembre del 2020 il governatore Nicola Zingaretti era stato costretto a intervenire con una ordinanza ad hoc per sollecitare i pronto soccorso a non requisire le barelle delle ambulanze per più di mezz' ora, ma ora i singoli Dea dovranno di nuovo provvedere. Dal momento che se anche il 118 mettesse più messi su strada, anche questi inevitabilmente finirebbero bloccati. 

Medici di base, inchiesta sulla loro lobby di potere. Milena Gabanelli, Mario Gerevini, Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2021. Il sistema sanitario nazionale è costruito attorno al presidio numero uno: i medici di base. Devono assistere i pazienti il più possibile a casa, e ogni cittadino da lì deve passare per accedere a qualunque prestazione, dalle visite specialistiche alle ricette per i farmaci. Come abbiamo documentato durante i lunghi mesi dell’epidemia Covid-19, il loro ruolo diventerà sempre più cruciale: tra 10 anni ci saranno quasi 800 mila ultra 80enni in più, ovvero 5,2 milioni (quasi il 9% della popolazione), i malati cronici sono in aumento (23 milioni) e bisogna evitare di riempire inutilmente i Pronto soccorso di codici bianchi e verdi. Ogni anno sono 16 milioni di accessi (su un totale di 21 milioni), e l’87% non sfocia in un ricovero. Con la legge di Bilancio del 2020 sono stati stanziati 235 milioni di euro per dotare i dottori di famiglia di ecografi, spirometri ed elettrocardiografi, in modo da poter eseguire finalmente nei loro ambulatori gli esami di primo livello, evitando così ai pazienti penose liste d’attesa. Vuol dire nuovi compiti e competenze. Di qui la necessità di preparare al meglio chi intraprende la professione di medico di medicina generale.

Come sono formati?

In tutta Europa, dopo la laurea in Medicina, bisogna fare tre anni di corso tra teoria e pratica in ambulatorio e ospedale. Questo tirocinio è molto diverso da un Paese all’altro: in Baviera è governato dalla Bayerische Landesärztekammer, l’Associazione medica bavarese, e i medici sono pagati come dipendenti a 5 mila euro circa al mese. In Inghilterra i corsi e l’attività pratica sono coordinati dall’Health Education England, l’Agenzia governativa nazionale, e lo stipendio è di 4.166 sterline al mese. In Italia occorre un «diploma di formazione specifica in medicina generale», che si ottiene attraverso un corso post laurea di tre anni formato da 1.600 ore di teoria e 3.200 di pratica in ospedale e negli ambulatori dei dottori di famiglia. Sono pagati con una borsa di studio (dunque inquadrati come studenti) di 11 mila euro l’anno, cioè 966 euro al mese, soggetti a Irpef, con contributi a carico, ed erogati dal Ministero della Salute. Ben diversa dalla borsa di studio degli specializzandi ospedalieri, che è di 26 mila euro l’anno, contributi inclusi e senza Irpef. Già questo indica a monte la scarsa considerazione per il medico di base. 

I sindacati preparano i medici

Il finanziamento è affidato alle Regioni (d.lgs n. 368 del 17 agosto 1999) e ognuna decide come organizzare i corsi: attraverso centri regionali di formazione per le cure primarie (Friuli-Venezia Giulia), enti regionali (Lombardia), fondazioni (Veneto), aziende sanitarie Asl/Usl (Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte, Sardegna, Valle d’Aosta), laboratori regionali per la formazione sanitaria (Toscana). Ciascun corso di formazione ha poi una direzione, un comitato tecnico-scientifico e coordinatori territoriali per le attività teoriche e pratiche. Il criterio nella scelta di chi forma i futuri medici di famiglia dovrebbe essere solo quello della competenza, capacità, esperienza. Se si va a vedere chi gestisce i corsi, nome per nome, si scopre che nella quasi totalità dei casi sono soggetti con un ruolo di rilievo nei sindacati medici. Caso unico in Europa. La principale corporazione è la Fimmg che con 23.800 iscritti rappresenta il 63% dei medici di medicina generale, seconda lo Snami con il 19%, ma l’elenco è lungo e sorprendente. Oltre ai sindacati, i coordinatori dei corsi appartengono in numero significativo anche alla Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg), fondata nel 1982 a Firenze per valorizzare il ruolo dei medici di base. Ai suoi vertici c’è da 30 anni ininterrottamente l’ematologo Claudio Cricelli, 71 anni, presidente dal 1998 dopo essere stato vicepresidente dal 1996 al 1998 e segretario generale dal 1990 al 1996. Nel 2017 la Simg viene riconosciuta come società scientifica. Vicepresidente nazionale è Ovidio Brignoli che è anche coordinatore del corso lombardo e consigliere dell’Ordine dei medici di Brescia. Ma cosa fa di scientifico questa società?

Ruolo pubblico e interesse privato

La Simg organizza congressi e corsi di aggiornamento sponsorizzati dalle case farmaceutiche: nel 2020 riceve 80 mila euro da Bayer, 42 mila dalla Grunenthale 452 mila dalla GlaxoSmithKline, di cui 309 milaa titolo di donazione e liberalità. Nell’aprile 2020 firma con Sanofi e Fimmg (il sindacato più importante) un protocollo d’intesa per un «innovativo programma di formazione dei medici» di 40 ore, valido per i crediti Ecm, quelli che devono essere obbligatoriamente acquisiti durante il triennio. Dopo mille polemiche per conflitto d’interessi le parti hanno fatto un passo indietro. Però il grosso dell’attività è sulla raccolta e gestione dei dati sanitari dei pazienti. Come società scientifica dal 2013 Cricelli promuove con gran successo presso i medici di famiglia dei software per il governo clinico, con cui vengono raccolti migliaia di dati sanitari dei malati. Sono 17 mila oggi i medici di medicina generale che li utilizzano. Questi software sono messi a punto da due società a lui strettamente collegate. Una è la Millennium, controllata dalla Dedalus, leader internazionale dei software clinici, di cui lo stesso Cricelli tra il 2004 e il 2013 è presidente del Cda e oggi è presidente di Dedalus Italia. L’altra è la Genomedics, già società di softwaredi Cricelli e Brignoli, dal 19 aprile 2011 all’85% di Iacopo Cricelli (figlio di Claudio) e al 15% di Silvia Tronci, contemporaneamente responsabile dell’assistenza clienti di Dedalus. A sorvegliare sull’attività dei medici c’è un organismo indipendente: l’Ordine dei Medici. Carlo Roberto Rossi per esempio è sia presidente dell’Ordine dei Medici di Milano che presidente del sindacato Snami Lombardia. E contemporaneamente tiene i corsi di formazione triennale. 

Dai corsi ai contratti

Finito il tirocinio i medici di base diventano liberi professionisti, e sono gli stessi sindacati che li hanno formati e hanno raccolto le iscrizioni alla loro associazione sindacale durante il corso, a trattare poi con il governo i contratti collettivi. L’accordo in vigore prevede che l’ambulatorio debba essere aperto (a seconda del numero di assistiti) dalle 5 ore settimanali (fino a 500 pazienti) alle 15 ore (per 1.500 assistiti). Ogni prestazione in più deve essere contrattata e retribuita, al contrario di quanto avviene per i medici ospedalieri, perché nei contratti non è mai stato definito nei dettagli quali sono le cure primarie da garantire. In mezzo ci sono i pazienti, che sanno bene quanto vedono il loro medico di famiglia. Regione Lombardia, che ha pagato pesantemente gli errori della sua politica sanitaria, a luglio scorso decide di cambiare tutto: negli ambulatori di medicina generale rimasti scoperti si fa l’apprendistato retribuito come in Baviera e Inghilterra. Il futuro medico di famiglia mentre fa formazione triennale, tiene aperto anche il suo ambulatorio (ovviamente sotto stretta sorveglianza dei tutor), e alla borsa di studio viene aggiunta una retribuzione di 2.400 euro al mese per 500 pazienti. Carlo Roberto Rossi e la Fimmg escono con comunicati stampa sdegnati. Il provvedimento al momento è bloccato.

Chi comanda?

Se in Italia i dottori di famiglia in formazione restano studenti mal pagati e quasi completamente in mano ai sindacati, la conseguenza è che la professione di medico di famiglia è destinata a restare una professione di serie B, spesso utilizzata come ripiego da chi non entra nelle Scuole di specialità per diventare cardiologo, cardiochirurgo, ginecologo, ortopedico, ecc. Ormai da anni è una zona grigia dove da una parte ci sono medici di famiglia che fanno solo i compilatori di carte, e dall’ altra quelli che cercano di assistere i pazienti al meglio delle loro possibilità, ma vengono danneggiati da un sistema poco trasparente e intriso di conflitti di interesse. Una lobby di potere che riesce spesso a tenere in scacco la politica in difficoltà a prendere decisioni che sradichino il sistema. Intanto i 7 miliardi di euro del Recovery Fund disponibili per migliorare l’assistenza territoriale rischiano di essere buttati al vento se i medici di famiglia non si convinceranno ad andare a lavorare dentro le 1.288 nuove case della Comunità previste entro il 2026.

Beppe, morto dopo 23 ore in Pronto soccorso: nessun colpevole. Le Iene News il 2 settembre 2021. Giuseppe Ramognino è morto al Pronto soccorso di Moncalieri nel 2019 dopo 23 ore di attesa. Una vita ai margini, 78 anni: nessuno l’ha aiutato, era stato scambiato per un clochard. Con Roberta Rei vi abbiamo raccontato la sua storia e la sua triste e tragica fine. Giuseppe Ramognino era rimasto 23 ore in attesa nel pronto soccorso di Moncalieri prima di morire come vi abbiamo raccontato nel 2019 con Roberta Rei mentre le immagini della sua triste e tragica fine facevano il giro dell’Italia. Una vita ai margini, 78 anni, era morto da solo due anni fa nell'ospedale della cittadina vicino Torino. Nessuno se ne era accorto, nessuno lo aveva aiutato, era stato scambiato per un clochard. L’inchiesta è stata appena archiviata: non sono state trovate responsabilità penali. Non si sarebbe potuto prevedere l'infarto intestinale che lo ha ucciso e Beppe non aveva avvisato nessun parente del suo arrivo al Pronto soccorso. “Lui era un contadino. Un uomo semplice, forse un po’ schivo. La morte del fratello però lo ha turbato iniziando il declino”, raccontato i nipoti Laura e Massino a Roberta Rei. Lui si chiude in se stesso fino a isolarsi. “Non ci ha più fatto entrare in casa tenendo tutti alla larga”, dicono i parenti che vengono a sapere della sua morte dai giornali. Tutto ha inizio la mattina dell’1 maggio 2019. Sono le 10.02, quando viene trovato per terra in un centro commerciale dove c’era la tabaccheria in cui passava ogni giorno. Viene trasportato d’urgenza al pronto soccorso di Moncalieri. Quando arriva in ospedale è solo e probabilmente confuso. Alle 10.43 viene visitato e nel referto i medici scrivono: “Vigile, mutacico, poco collaborante”. Dopo quella visita passano 3 ore di attesa per altri accertamenti. Alle 13.33 l’infermiera che ha seguito la sua accettazione indica a Beppe la via d’uscita. Lo si vede dai filmati registrati dalle telecamere nella sala d’attesa del pronto soccorso. Pochi minuti dopo, alle 13.38 viene emesso il referto d’uscita con la motivazione di “disadattamento sociale”. Alle 13.41 però Beppe ricompare in pronto soccorso, entra e si siede in un angolo. “Probabilmente aspettava il suo turno perché non avendo firmato alcun documento, lui non sapeva di essere dimesso”, presume la nipote. Inizia una lunga attesa interrotta ogni 20 minuti per andare in bagno. Si vede che non sta bene tanto che alle 18 vomita in sala d’attesa. Nessuno gli chiede se ha bisogno d’aiuto. Passano le ore e il pronto soccorso si riempie di senzatetto che dormono per la notte, Beppe resta confuso tra loro. Sta male, si alza e va verso un’infermiera e si parlano. “Mi ha chiesto dove fosse l’uscita e non era visibile che stesse male”, dice la donna. Il tempo passa, arrivano le 4 di mattina, quando va di nuovo in bagno. Ci passerà due ore, fino a che un senzatetto si accorge di lui. Alle 6 di mattina un clochard si avvicina allo sportello dell’accettazione e indica il bagno. “Che cosa mi abbia detto non me lo ricordo”, sostiene l’infermiera che 10 ore prima aveva parlato anche con Beppe. Le parole che avrebbe pronunciato il primo clochard sono scritte nei verbali. “Ha detto che c’era un signore in bagno che non apriva e non rispondeva”, racconta un testimone. Passerà un’altra ora e solo dopo la segnalazione di un altro senzatetto, interviene l’infermiera. Solo a questo punto si vede nelle telecamere che tre operatori sanitari entrano in bagno, prendono Beppe e lo adagiano su una sedia a rotelle che lasciano in un angolo della sala d’attesa. Sfinito dalla malattia e dalla stanchezza inizia a scivolare su quella sedia. Pian piano si accascia fino all’ultimo movimento alle 8.19. “È devastante vedere quando lui abbassa la testa che è morto”, racconta il nipote. “È disumano”. Solo alle 9 Beppe diventa un’emergenza. Una signora segnala la sua presenza e finalmente intervengono i medici. Per Beppe non c’è più nulla da fare. Dopo 23 ore di attesa lo trascinano sulla sedia a rotelle dentro il pronto soccorso.

·        Sanità Parassita.

Sanità, i pugliesi vanno a curarsi al Nord. Nel 2019 oltre 38mila pugliesi si sono curati fuori dalla Puglia, un esodo. Gli ospedali della Lombardia i più «gettonati», seguono quelli dell’Emilia Romagna. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 3 dicembre 2021. Nel 2018 i pugliesi che furono costretti ai “viaggi della speranza” per curarsi furono 39.540. Un anno dopo poco è cambiato: nel 2019, anno pre-pandemia quindi dati ancora non influenzati dalle chiusure e restrizioni, in 38.095 hanno raggiunto gli ospedali di altre Regioni per interventi chirurgici o esami specialistici. Poco più di 1.500 pugliesi in meno, ma la percentuale della mobilità passiva è rimasta inalterata, 9%. E costa, complessivamente, circa 180-200 milioni, al netto già degli introiti per la mobilità attiva. I dati si riferiscono solamente ai ricoveri in regime ordinario per acuti; i numeri eloquenti sono messi nero su bianco nel «Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero» elaborato dal ministero della Salute sulla scorta delle schede di dimissioni (Sdo).

L’indagine statistica evidenzia ancora molte ombre del sistema sanitario regionale ma anche miglioramenti. Passi in avanti, ad esempio, li mostra il settore dell’oncologia, con una contrazione dell’esodo di pazienti. Andiamo con ordine. I pugliesi che nel 2019 si sono trasferiti in altre regioni italiane per essere curati sono stati 38.095, una mobilità passiva del 9%; di contro, sono stati 19.427 i pazienti che hanno scelto la Puglia per essere assistiti (4,8% di mobilità attiva), quasi tutti residenti nelle regioni del Sud: 5.582 sono lucani, 4.279 sono campani, 2.719 calabresi, 1.187 molisani. I cosiddetti viaggi della speranza, in sostanza, proseguono senza sosta, ma dove vanno a curarsi i pugliesi? C’è un vero e proprio esodo verso la Lombardia, oltre 10mila pugliesi hanno scelto gli ospedali milanesi (10.139 per la precisione); 7.213, invece, hanno optato per le strutture dell’Emilia Romagna e 4.407 quelle del più vicino Lazio.

Ma c’è chi ha raggiunto il Veneto (2.352 ammalati), Toscana (2.280) e Marche (2.278). Ci sono anche 2.264 pugliesi che hanno optato per la vicina Basilicata. Quanto è costato questo migrare di ammalati pugliesi alle casse pubbliche? Il dato oscilla tra i 180 e 200 milioni di euro. Analizziamo i dati relativi alla delicata branca dell’oncologia: dai 10mila pazienti oncologici del 2016 si è passati ai 4.864 del 2018, sino ai 4.452 del 2019, l’11%.

In tre anni è stato dimezzato il numero dei pugliesi ammalati di tumore che ha deciso di farsi curare fuori regione. I conti, però, continuano a non tornare, il saldo tra mobilità attiva e quella passiva resta negativo: a fronte di 2.507 pazienti provenienti da altre aree d’Italia (6,5% del totale degli ammalati oncologici), 4.452 pugliesi hanno optato per farsi curare o operare in ospedali del Nord (11% del totale). La Rop, la rete oncologica pugliese attivata circa tre anni fa, comincia a dare i primi risultati ma i viaggi della speranza proseguono. Tuttavia, i progressi ci sono e negli ultimi tre anni sono stati continui: nel 2016 i viaggi della speranza furono oltre 10mila, nel 2017 si è passati a 5.490, nel 2018 a 4.864 e nel 2019 sono stati 4.452.

Una nuova limatura che, però, non è sufficiente ad allineare la Puglia alle regioni del Nord che continuano ad attrarre pazienti, arricchendo anche le proprie casse. Basta dare un’occhiata al flusso dei pugliesi che hanno deciso di curarsi fuori regione: 1.527 pazienti hanno scelto gli ospedali della Lombardia, un altro esodo che si somma a quello dei pazienti avuti in regime di ricovero ordinario.

Un capitolo a parte lo merita la pediatria, qui di passi in avanti se ne vedono pochi: nel 2019 sono stati 4.459 i bambini e ragazzini sino a 17 anni che dalla Puglia sono stati obbligati con le proprie famiglie a raggiungere ospedali fuori regione per curarsi, per una mobilità passiva del 9,5%, di contro i piccoli pazienti che dal resto d’Italia si sono rivolti alle strutture pediatriche pugliesi sono stati 1.954, per una mobilità attiva del 4,4%. E rispetto ad un anno prima non c’è stato nessun significativo miglioramento, segnale che i problemi non sono stati superati.

Sanità Lombardia, per i privati assist con fondi pubblici e Pnrr. Approvata la nuova riforma sanitaria ma senza nessuna inversione di rotta nonostante il rapporto morti/abitanti più alto di tutte le altre Regioni e i disastri organizzativi del Covid. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 3 dicembre 2021. Come riformare il Servizio sanitario regionale (Ssr) con soldi pubblici e fondi del Pnrr e lasciare tutto in mano ai privati. Come prima e più di prima. Come se lo stress-test del Covid-19 non avesse mostrato tutti i limiti di un sistema collassato alla prima ondata, con un numero di morti in rapporto alla popolazione superiore a tutte le altre regioni italiane. Con gli anziani contagiati nelle Rsa dai pazienti positivi trasferiti dagli ospedali. Con il flop delle prenotazioni dell’azienda regionale Aria che ha allungava a dismisura i tempi per le vaccinazioni causando incredibili disagi ai cittadini.

Chi pensava insomma che la tragedia dentro la tragedia della gestione lombarda della Pandemia fosse sufficiente da sola a indicare l’inversione di rotta, la fine del processo di privatizzazione, si sbagliava di grosso. Si continuerà nella stessa direzione. E’ tutto scritto nero su bianco nella legge 187 approvata dal Consiglio regionale lombardo lo scorso 30 novembre.

IL PAZIENTE DIVENTA UN CLIENTE DA CONQUISTARE

L’ingresso degli erogatori privati nel sistema sanitario della Regione Lombardia risale alla metà degli anni ’90. Basta girare per Milano, leggere la pubblicità delle università di medicina private sulle fiancate dei tram e i manifesti per strada per rendersi conto che università e ospedali si fanno la pubblicità, che qui valgono regole diverse dagli altri.

Lo ha spiegato molto bene Maria Elisa Sartor, docente di Organizzazione aziendale alla Statale di Milano, che ha ripercorso in un suo libro – “La privatizzazione della sanità lombarda dal 1995 al Covid-19, un’analisi critica” – le varie tappe. La graduale perdita d’importanza del piano sanitario regionale; l’accentramento di poteri in capo alla Giunta regionale; lo svuotamento del ruolo dei Comuni; il dimezzamento della ricettività degli ospedali pubblici. E come immediata e logica conseguenza, le procedure di autorizzazione e accreditamento degli erogatori privati.

Ed è così – scrive la Sartor – “che il cittadino utente è diventato un cliente da conquistare”. La filosofia della Riforma è sempre la stessa: “il principio della libera e consapevole scelta dei cittadini nell’accesso alla strutture sanitarie pubbliche e private”. Un enunciato che si traduce nell’equivalenza tra il pubblico e il privato accreditato. Peccato però che e metterci i soldi sia sempre lo Stato (e in questo caso pure l’Unione europea, anche se le strutture realizzate con i fondi del Pnrr in via teorica non potranno essere gestite dai privati) e a sfruttarne i vantaggi siano sempre gli stessi, i grandi player della sanità lombarda. Ma veniamo alla “Moratti/Fontana”.

Il problema era colmare il “ritardo territoriale” delle regione più ricca d’Italia. Strano a dirsi ma proprio cosi. Lì, nella regione dove i poteva scialare, utilizzare risorse che altrove non sarebbero mai arrivate si è scientificamente accumulato un ritardo; si è distrutto e depotenziato quello che c’era svuotando pezzo a pezzo la medicina territoriale, creando che quello che a detta di tutti gli opinion leaders prima del Covid-19 era il modello, la meta obbligata dei viaggi della speranza. Il bisturi dei privati, la salute a pagamento. Un sistema sanitario pubblico privo di un piano pandemico, organizzato secondo criteri “ospedalo-centrici” per indirizzare i pazienti verso le strutture private. Le “eccellenze” che all’occorrenza ti salvano la vita in 72 comode rate.

CONTROLLORI E CONTROLLATI NOMINATI DALLA GIUNTA

Le opposizioni e i sindaci dei piccoli comuni non hanno toccato palla. “Ancora una volta in questa riforma non c’è nessuna volontà di programmare la spesa sanitaria lasciando tutto alle logiche del mercato – attacca Samuel Astuti, consigliere regionale e capogruppo pd in commissione Sanità – la libertà di scelta presuppone un sistema integrato, il pubblico dovrebbe lasciare al privato quello che non è in grado di fare ma purtroppo non è così. Basta vedere le interminabili viste d’attesa. Per una cataratta si può aspettare anche un anno. Chiaro che in questo modo chi può permetterselo si rivolge al privato”.

” Il disegno è chiaro – prosegue Astuti – basti dire che i distretti che nelle altre regioni hanno un bacino di utenza al massimo di 60 mila utenti da noi sono previsti per 100 mila”. Ma non è l’unica anomalia.

La riforma prevede un meccanismo per cui l’organismo di controllo è sotto la tutela del direttore generale, il quale però è nominato dalla giunta. Un gioco della parti in cui controllati e controllori fatalmente si sovrappongono, si scompongono, si confondono.

A sentire Lady Moratti e il suo principale sponsor, il presidente della regione Attilio Fontana, con la legge 187 – entrata in aula il 10 novembre e uscita il 30 novembre dopo 116 ore di sedute anche notturne e domenicali – si metterà in moto una vera rivoluzione. Costo: 2 miliardi, 800 milioni arriveranno dai fondi regionale, 1 miliardo e 200 milioni dal Pnrr. Sono previste 203 case di comunità, 60 ospedali di comunità, 100 distretti contro gli attuali 27 con 101 centrali operative territoriali, ovvero punti di accesso alle rete di offerta per orientare il cittadino tra i vari servizi sia con sportelli front office e online.

Sì dà il caso però che strutture pubbliche e privati accreditati nella riforma vengano messi sullo stesso piano. Ai privati viene data, inoltre la possibilità do gestire e le strutture realizzate con i soldi pubblici compresi gli ambulatori sociosanitari utilizzando edifici dei Comuni già esistenti da ristrutturare, ovviamente a spese dei contribuenti. Per ogni distretto ci saranno due case di comunità e una centrale operativa territoriale. Ogni casa di comunità avrà un consultorio e alcune funzioneranno come hub con presenza medica 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e infermieri che si daranno il turno ogni 12 ore.

LA POSTA IN PALIO IL DIRITTO ALLA SALUTE

Sulla carta di tratterà di una imponente rimodulazione della sanità lombarda. Di fatto rischia di tradursi nell’ennesimo assist ai colossi della sanità privata. Non a caso i lombardi già ora spendono più del doppio della media nazionale in strutture private convenzionate.

Lady Moratti – of corse – non la pensa così. L’assessore al Welfare lombardo cita il fondo di 5 milioni per la Telemedicina che darà supporto alle comunità montane e disagiate. I 27 dipartimenti all’interno delle Asst, le aziende socio sanitarie territoriali dedicate alla prevenzione (costo 85 milioni). Il nuovo centro per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive. E lancia una sfida sui tempi: entro il 2022 le prime 80 case di comunità e i primi 24 ospedali di comunità; entro 90 giorni dall’approvazione delle legge i distretti e 6 mesi per le centrali operative. In gioco va da sé non c’è soltanto la sanità in Lombardia. Molto di più: la salute come diritto a portata di qualsiasi portafoglio.

Un modello in cui l’Italia a un certo punto della sua storia non è stata seconda a nessuno. Prima che si stilassero le classifiche, il confronto tra le regioni, i ranking nazionali. E si scoprisse – citiamo ancora la professoressa Maria Elisa Sartor – che gran parte dei risultati e degli indicatori venivano elaborati in centri lombardi legati in qualche modo al governo della Regione. Poi è arrivato il batterio del Covid-19 e cosa è successo lo sapete. 

Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.

Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.

In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.

Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:

Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;

Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.

Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.

In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.

Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.

Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.

Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:

la presunta efficienza crea morte nei loro territori;

la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.

Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischio Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia». 

·        La cura maschilista.

Curami. Report Rai PUNTATA DEL 01/11/2021 di Antonella Cignarale. Nello studiare la salute della donna, per anni, si è posta l’attenzione soprattutto sui suoi organi sessuali e riproduttivi. Le malattie, i sintomi, le cure sono state studiate prevalentemente sull’organismo maschile, traslando i risultati delle ricerche sulla donna, come se non ci fossero differenze. Per esempio, i sintomi di alcune malattie nella donna sono diversi da quelli nell’uomo e per questo non sempre riconosciuti: può accadere così che ad alcune donne colpite da Alzheimer sia diagnosticata la depressione o che altre colpite da infarto al miocardio finiscano ricoverate nei reparti di psichiatria. Simili errori si trascinano anche nello sviluppo di nuove terapie, quando i dati delle sperimentazioni farmacologiche effettuate su uomini e donne non sono analizzati separatamente. Nell'era della medicina di precisione è accettabile dal punto di vista etico, scientifico ed economico non considerare l’influenza delle differenze di genere?  

“CURAMI” Di Antonella Cignarale immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda e Fabio Martinelli ricerca immagini di Paola Gottardi grafica di Michele Ventrone Report Rai

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Per anni le malattie, i sintomi e le cure sono state studiate prevalentemente sull’organismo maschile: il suo cuore, i suoi polmoni, il suo cervello. Non sulle donne. Un errore.

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Tutti gli organi sono differenti tra uomini e donne.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Si crede che l’infarto riguardi soprattutto gli uomini, invece le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nelle donne. E i sintomi dell’infarto nella donna sono diversi da quelli nell'uomo.

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Il famoso dolore al petto irradiato al braccio sinistro la donna, soprattutto più giovane è, meno ce l’ha. Qualche dolore lo può avere tipo alla base del collo, all'addome, può anche avere solo un po' di nervosismo.

ANTONELLA CIGNARALE Per questo ci possono essere anche rischi di ritardo nel diagnosticare, ad esempio, una patologia in una donna?

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Sì. Io ho una signora che è andata a finire in gastroenterologia, ho un'altra signora che è finita in psichiatria. Però tutte e due avevano un infarto al miocardio.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E la cardio aspirina ha una particolare efficacia sulla donna?

GIOVANNELLA BAGGIO – CARDIOLOGA – CENTRO STUDI NAZ. SALUTE E MEDICINA DI GENERE Solamente nel 2006 siamo arrivati a capire che nella donna previene l’ictus, ma perché questo? Perché fino a questo momento erano stati fatti esperimenti con l’aspirina solamente nell’uomo.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Dobbiamo pretendere che sia fatta la scienza rigorosa, che non sia traslato nelle donne ciò che è stato coperto negli uomini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Curami. Sembra facile. Buonasera. Le pari opportunità sono saltate anche nel campo della medicina. Se un farmaco viene ingerito invece che da un uomo, da una donna, potrebbe aumentare l’effetto e anche la reazione avversa potrebbe essere più cruenta. Ma questa è una spiegazione, perché quando viene fatta una ricerca, uno studio, viene fatta prevalentemente sugli uomini. Questo vale anche sullo studio delle patologie che vengono fatte più sul sesso maschile. Insomma. Ma qual è il prezzo nascosto che facciamo pagare - neppure tanto nascosto che facciamo pagare alle donne? Un alto prezzo. La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sono passati vent’anni dall’allarmante rapporto del Government Accountability Office statunitense in cui veniva riportato che su dieci medicine ritirate dal mercato, otto presentavano maggiori rischi per la salute nelle donne che negli uomini. Tuttavia, poco è cambiato: sebbene le donne siano le maggiori consumatrici di medicinali, molti dei farmaci che assumono sono stati testati prevalentemente su un campione maschile di 70 chili.

ANTONELLA CIGNARALE Che differenza c’è quando questo farmaco lo assume un uomo di 70 chili e una donna come me?

 FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Può succedere che mi va in iperdosaggio, quindi, può avere più reazioni avverse ai farmaci.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E solo quando si sono verificati eventi gravi questa diversità è stata riconosciuta con una dose più appropriata per la donna. È successo negli Stati Uniti, dove è stata osservata da studi clinici una correlazione tra incidenti stradali e l’assunzione da parte delle donne di un farmaco per curare l’insonnia, a base di zolpidem. Rispetto agli uomini, la stessa dose di farmaco assunta la sera veniva eliminata più lentamente nelle donne aumentando il rischio di compromettere la guida la mattina dopo. Così negli Stati Uniti la FDA, l’agenzia regolatoria del farmaco, ha raccomandato di dimezzare la dose per la donna rispetto a quella per l’uomo.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Le diversità sono nell’assorbimento, nella distribuzione, nel metabolismo.

ANTONELLA VIOLA – IMMUNOLOGA – PROF. PATOLOGIA GENERALE UNIVERSITÀ DI PADOVA Le reazioni avverse che sono più frequenti, appunto, nel sesso femminile dipendono dal fatto che le donne hanno una biologia diversa. Ma dipende anche dal fatto che le donne, molto spesso, non sono incluse e studiate in maniera adeguata durante la sperimentazione preclinica e clinica.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il controllo degli effetti di un medicinale avviene durante la sperimentazione farmacologica ma è proprio qui che il sesso femminile è sottorappresentato. La fase preclinica viene condotta prevalentemente su animali maschi e anche nelle fasi successive il numero delle donne testate è spesso inferiore al numero degli uomini. I principali motivi di questa esclusione sono la variabilità ormonale, le fasi del ciclo e il rischio gravidanza.

FLAVIA FRANCONI – FARMACOLOGA - OSSERVATORIO MEDICINA DI GENERE ISS Se tu fai una ricerca di genere rispetto a una ricerca non di genere spendi sicuramente il doppio, ma non solo: la ricerca di genere è più lunga. Quindi questo non incentiva né l’industria farmaceutica, né l’industria dei device, né i ricercatori.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Basterebbe bilanciare nei test il numero di donne e uomini e separare i risultati degli studi per ciascuno dei due sessi. L’associazione Women’s Brain Project ha condotto un’analisi sugli studi di farmaci sperimentati per l’Alzheimer, e ne emerge che solo 7 studi su 56 hanno riportato i dati della risposta ai farmaci separando quelli delle donne da quelli degli uomini.

ANTONELLA CIGNARALE Nello studio di patologie e nello sviluppo di nuove cure, quando non dividiamo i dati per uomo e per donna poi che cosa ci perdiamo?

ANTONELLA SANTUCCI CHADHA – AD PRO BONO ASSOCIAZIONE WOMEN’S BRAIN PROJECT Perdiamo delle informazioni importantissime a capire come la malattia si differenzia tra maschio e femmina in termini di sintomo, di decorso e quindi, successivamente, di risposta terapeutica ad un determinato agente.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO La struttura di farmacologia sperimentale del Centro di Aviano ad aprile ha pubblicato un’analisi sull’efficacia dei vaccini per il COVID-19 nei due sessi. I dati su cui si è basato lo studio sono quelli valutati dagli enti regolatori per darne l’approvazione. All’epoca i dati pubblici divisi per sesso erano quelli di Pfizer, Moderna, Johnson e Sputnik e ne emerge come a poche settimane dalla prima e dalla seconda dose la percentuale di efficacia nel prevenire il COVID-19 sia leggermente diversa nei due sessi.

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Una volta fatto il vaccino è efficace nell’uomo e nella donna, però c’è un trend di tendenza di efficacia maggiore nell’uomo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E con il passare del tempo il trend sembra cambiare. Confrontando questi primi dati con quelli pubblicati a settembre relativi all’efficacia di Pfizer e di Moderna dopo 5/6 mesi dalla seconda dose si nota come la percentuale di efficacia diventi maggiore nella donna.

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Probabilmente la capacità del sistema immune di una donna diventa più, diciamo, prono a difendersi dal virus con l’andar del tempo rispetto all’uomo.

ANTONELLA CIGNARALE Siete riusciti a fare anche un paragone della sicurezza del vaccino nell’uomo e nella donna?

GIUSEPPE TOFFOLI – DIRETTORE FARMACOLOGIA SPERIMENTALE CRO DI AVIANO (PN) Sì. Noi abbiamo dati disaggregati per sesso dopo cinque mesi relativi al vaccino Moderna. Se dobbiamo fare il confronto, è un po’ più sicuro nell’uomo rispetto alla donna, questo è il dato che emerge.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma per l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, questi dati sull’efficacia dei vaccini non evidenziano differenze significative tra i due sessi. E neanche i dati sulla sicurezza di Moderna sono un chiaro segnale di aumento di reazioni avverse nelle donne rispetto agli uomini.

ANTONELLA CIGNARALE Com’è possibile che dai dati della sperimentazione dei vaccini le differenze tra uomini e donne nella sicurezza non sono considerate significative, poi però, dal rapporto di farmacovigilanza vediamo che il 72 percento delle reazioni avverse sono state registrate nelle donne.

ANTONELLA VIOLA – IMMUNOLOGA – PROF. PATOLOGIA GENERALE UNIVERSITÀ DI PADOVA Questo succede perché passando da una vaccinazione a poche migliaia di persone a centinaia di milioni di persone, ecco che le reazioni anche più rare possono emergere. Se poi lei guarda bene i dati disaggregati non solo per genere ma anche per età, vedrà che la differenza tra uomini e donne è più ampia nell’età fertile, no? Quindi dai 20 anni ai 50 più o meno proprio perché questa è la fascia in cui il sistema immunitario delle donne è molto più reattivo rispetto a quello degli uomini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non c’erano dubbi che fossero le più reattive. È la fotografia che emerge anche dal Centro di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità che ha appurato che i vaccini a MrnA, sono più efficaci per contrastare la forma sintomatica del virus, nelle donne rispetto agli uomini. 96% contro 88%. Ma questo noi lo possiamo sapere perché sono stati divisi i dati in questo per età e sesso. Ma non sempre funziona così, anzi, le aziende farmaceutiche e i ricercatori, quando devono sperimentare nei test preclinici o quelli clinici o quando vengono sperimentati i dispositivi medici, non studiano in materia approfondita le reazioni sulle donne. Questo perché hanno un organismo più complicato e diverso e perdono più tempo che si traduce in più costi. Allora viene semplice traslare quello che hanno scoperto sull’uomo. È una visione miope perché non calcolano che quello che risparmi oggi, domani lo dovrai investire a spese del Sistema Sanitario Nazionale, per curare le reazioni avverse non previste o le diagnosi errate. La soluzione c’è: investire sulla medicina di genere. Anche perché poi, a pensarci bene non è che è così etico far pagare alle donne anche quest’altro prezzo.

·        L’Organismo.

La complessità del vitale. Piero Dominici su Il Quotidiano del Sud il 6 giugno 2021. Connotata strutturalmente da proprietà emergenti –“non osservabili” almeno inizialmente – e caratterizzata da una radicale interdipendenza e interconnessione delle “parti” (che sono sempre “relazioni”) che la costituiscono, è capace di generare e auto-organizzarsi. Irrefrenabilmente dinamica, irreversibile, imprevedibile, eterogenea e dissipativa nelle sue evoluzioni non lineari e caotiche; in grado di tenere insieme tensioni, processi, fenomeni, conflitti, ambivalenze, contraddizioni, paradossi, dimensioni apparentemente inconciliabili. In grado di far coesistere ordine e caos, equilibrio e instabilità. Dialettiche aperte e ossimori esistenziali, confini che saltano, completamente, a vantaggio di zone ibride e traiettorie indefinite e indefinibili. Impossibile gestirla e controllarla e, sia chiaro, non è una questione terminologica e/o di verbi/parole alla moda. Stiamo parlando della (iper) complessità che è caratteristica essenziale degli aggregati organici, in altre parole degli organismi viventi e dei sistemi biologici, sociali, relazionali, umani: sistemi complessi adattivi, molto ben strutturati, capaci di generare e di auto-organizzarsi, costituiti da parti che, nei loro molteplici livelli di connessione e nelle interazioni sistemiche, condizionano il comportamento e l’evoluzione, non lineare, dei sistemi stessi e degli ecosistemi di riferimento. Il paradigma della civiltà ipertecnologica e iperconnessa, fondato sul presupposto della progressiva marginalizzazione dell’umano che, da sempre, implica e porta con sé le dimensioni essenziali dell’errore, dell’imprevedibilità e, soprattutto, della responsabilità, sembra poterci restituire anche una serie di rischiose illusioni (razionalità, controllo, misurabilità, prevedibilità, eliminazione dell’errore). Tra soluzionismo tecnologico e datacrazia, tra nuovi riduzionismi e determinismi, all’insegna di una delega in bianco concessa, da tempo, alle tecnologie ed ai grandi interessi dietro, abbiamo controriformato le nostre istituzioni educative e formative nel tentativo, fuorviante e ingannevole, di poter simulare, misurare, prevedere, predeterminare tutto, anche il pensiero, i comportamenti, le interazioni, le forme della socialità e la stessa vita. Confondendo, talvolta, educazione e indottrinamento, educazione e addestramento, e continuando ad educare e formare “meri esecutori di funzioni e di regole”, continuiamo a tenere separato qualcosa che è profondamente unito e interdipendente, incapaci di cogliere l’insieme, i legami, le connessioni, la bellezza, l’inatteso, l’imprevedibile, l’ignoto e, soprattutto, la natura sistemica e caotica del loro manifestarsi.

·        La Cicatrice.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 19 settembre 2021. Avete una cicatrice sulla pelle e volete cancellarla, renderla invisibile o eliminarla? Oggi è possibile ottenere il sospirato riassorbimento di questo segno indelebile restituendo alla cute cicatriziale un aspetto del tutto simile a quella sana. La cicatrice cutanea è un normale evento di un processo di guarigione di una lesione della pelle avvenuta in seguito a un trauma, una malattia, una ustione o un intervento chirurgico, la sua estensione è direttamente proporzionale al danno subìto dalla cute stessa, e più lungo è il tempo necessario alla guarigione, maggiore sarà la possibilità che resti uno sfregio evidente. A differenza di una ferita “normale” come l’abrasione, l’escoriazione o la semplice lesione epidermica superficiale quella profonda lascia un segno permanente sulla pelle, e le sue varianti cliniche dipendono da molti fattori, tra i quali il sesso, la localizzazione sul corpo, e soprattutto l’età del soggetto, poiché la giovinezza può essere un fattore negativo, in quanto più si è giovani, più la pelle è elastica, e più si innesca un processo di riparazione veloce, esuberante e quindi evidente, mentre in età senile le cicatrici risultano quasi invisibili. Oggi i punti di sutura riassorbibili hanno migliorato di molto la cicatrizzazione, ma che sia estesa come quella di un taglio cesareo, di una rovinosa ferita, o di una ustione, oppure ridotta come quella legata all’asportazione di un neo o della tiroide, la formazione di una cicatrice porta con sè molti timori e insicurezze, soprattutto se localizzata nelle aree più visibili come il volto e il collo, e la mano del chirurgo, contrariamente a quanto si pensa, conta fino ad un certo punto, perché ci sono pazienti che hanno una cattiva rimarginazione e favoriscono riparazioni cutanee anomale e ispessite, come le ipertrofiche o quelle cheloidee, o persone affette da malattie metaboliche o immunologiche che rallentano ed alterano il processo di guarigione. Genetica a parte, oggi è possibile appiattire i segni cicatriziali fino a ridurli a linee sottili, chiare e quasi invisibili che restituiscono compattezza e levigatezza alla pelle, sia in caso cicatrici recenti, sia di lesioni vecchie di anni. Naturalmente molto dipende dal tipo di cicatrice, dalla sua ampiezza e dalla regione corporea interessata, ognuna è differente dall’altra ed ognuna di esse richiederà specifici trattamenti, per cui le aspettative di miglioramento sono influenzate dalla “storia clinica” di ogni cicatrice. Da anni la nuova frontiera per la cura dei segni permanenti cutanei passa per l’Alta Tecnologia dei sistemi Laser, RF, IPL, il Pulse Dye Laser ecc, che trattano in modo non chirurgico e indolore molte delle cicatrici antiestetiche rimuovendone il rossore, riducendone il volume e l’eventuale rilevatezza (utilizzati anche per rimozione di angiomi, cuperose, smagliature ecc), come anche i Laser più ablativi (Erbium Yag e CO2) applicati per migliorare la superficie ispessita delle lesioni cicatriziali (anche quelle da acne) in quanto rimuovono la cute indesiderata e danneggiata, fino al Laser frazionale Erbium Glass che agisce sul derma sotto-epidermico stimolando la rigenerazione di nuovo tessuto riparatore di superficie. Tali trattamenti vanno eseguiti solo da personale sanitario specializzato, altrimenti il rischio è quello di incorrere in ulteriori problemi come macchie indelebili sulla pelle (ipercromie cutanee) dovute a bruciature per un errato utilizzo dei macchinari. A volte per trattare una cicatrice fino a renderla invisibile è necessario l’utilizzo combinato di due o più laser a diverse frequenze, ma i risultati sono senz’altro più che soddisfacenti. Oggi però per le cicatrici traumatiche o chirurgiche che non hanno problemi particolari se non estetici, esistono trattamenti medici a base di creme e di cerotti contenenti quercetina, vitamina E e gel di silicone che sono in grado di riequilibrare le condizioni cutanee (umidità, tensione di ossigeno e temperatura) che favoriscono la guarigione della ferita già richiusa migliorando di molto l’esito cicatriziale, con schiarimento, appiattimento, riduzione della cicatrice ed effetto rigenerante dell’epidermide con azione levigante, donando ai tessuti un aspetto simile alla cute sana. I cerotti, dello stesso colore della pelle, vanno tagliati a seconda della estensione della lesione cutanea e applicati per circa tre mesi, e ad ogni cambio di cerotto (dopo 5/7 giorni) è utile massaggiare la cicatrice con i polpastrelli per orientare bene le nuove fibre di collagene, soprattutto se la linea cicatriziale appare rossa o rosacea, segno di reazione infiammatoria, condizione che consiglia di applicare anche pomate e gel ad hoc, tutti prodotti reperibili in farmacia, con fiale o creme a base di isoamminoacidi essenziali. L’unico punto del nostro corpo dove un intervento chirurgico non produce mai cicatrici sono le palpebre, mentre in tutti gli altri settori qualunque ferita profonda regala il suo ricordo permanente, per cui se è possibile attenuarle e creano disagio è bene approfittarne, per ragioni estetiche e psicologiche, anche perché nella vita sono ben altre le ferite che non verranno mai guarite e cancellate da nessuna terapia, quelle del cuore e dell’anima, che anzi, quando profonde, restano sanguinanti per anni. 

·        L’Ipocondria.

Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 22 marzo 2021. Spesso iniziano al mattino, attaccando al proprio dito la «pinzetta» che misura la saturazione. Poi è il turno della pressione con macchinette digitali o smartwatch pronti a misurare anche il ritmo cardiaco. L' ipocondria ai tempi del Covid è diventata epidemica e anche digitale. Le vittime principali sono gli anziani, terrorizzati di ammalarsi e per questo ossessionati dal controllo dei propri parametri vitali. Un eccesso di attenzione alla salute che, complici tecnologie di semplice uso e low cost, può provocare una serie di conseguenze più o meno gravi: da disturbi d' ansia e stress ad autodiagnosi sbagliate. A puntare i riflettori sull' ipocondria digitale sono gli esperti della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe), che sottolineano come, sotto la spinta dell'emergenza Covid, si sia passati dalla consultazione compulsiva di Google all' automisurazione di tutti i parametri corporei. Non è un caso se, nell' anno della pandemia, in Italia la spesa di strumenti digitali per la misurazione dei parametri vitali è arrivata a toccare circa mezzo miliardo con un esborso pro capite di circa 40 euro. I principali acquirenti sono i figli preoccupati per la salute dei genitori anziani. «Tutte le tecnologie digitali a partire dagli smartphone, possono rappresentare un volano per la prevenzione cardiovascolare e lo conferma il boom delle vendite di apparecchi per il monitoraggio della funzione cardiaca: dai braccialetti elettronici alle App, agli smartwatch per la trasmissione dell'elettrocardiogramma», dichiara Alessandro Boccanelli, presidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe). «È giunto il tempo di lavorare - continua - su un percorso di cura che inizia dall' interazione del paziente da remoto.  Ma non bisogna confondere l'automonitoraggio con la diagnosi che deve essere sempre eseguita dal medico, indipendentemente dal dato tecnico che non si può sostituire all' operatore sanitario. Invece c' è la convinzione che usandoli si possa scavalcare il professionista sanitario che deve sempre suggerire il loro utilizzo, altrimenti il rischio è di far sentire tutti un po' malati. Ciò vale soprattutto per gli anziani che vivono a casa, vittime spesso inconsapevoli di un ossessivo controllo fai da te, e più esposti al rischio di un eccesso di medicalizzazione e di sofferenza e inquietudini crescenti». Non capita di rado, secondo gli esperti, che l'apparecchio per la pressione invii un messaggio di allerta di una presunta fibrillazione atriale. «Ma se il paziente non è a rischio non deve preoccuparsi», precisa Boccanelli. «Bisogna dunque parlare con il proprio medico utilizzando sempre l'operatore sanitario come filtro, capire se si è una persona a rischio, se è opportuno utilizzare la tecnologia digitale e condividere i dati», aggiunge. Il settore in cui la tecnologia digitale ha trovato la massima applicazione, soprattutto da quando è scoppiata l'emergenza Covid, è la cardiologia. Ma il monitoraggio continuo dei parametri vitali e la raccolta dei relativi dati che in questi mesi di isolamento e distanziamento hanno subito un'impennata, hanno sconvolto l'equilibro del rapporto tra medico e paziente, soprattutto per gli anziani. «La riprogettazione dell'assistenza sanitaria deve tenere conto delle opportunità che la rivoluzione digitale offre, ma in questo contesto la gestione della diagnosi e della cura deve essere affidata al medico e non al cittadino che rischia di sentirsi malato e ipermedicalizzarsi», conclude Boccanelli.

·        Il Placebo.

Articolo di “El Pais”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 5 giugno 2021. Scienziati britannici dimostrano che è possibile riscrivere il genoma di un batterio per produrre proteine che non esistono in natura e renderlo geneticamente immune alle infezioni – scrive El Pais. Un gruppo di scienziati del Regno Unito ha creato la prima forma di vita resistente a quasi tutti i virus. Si tratta di un batterio Escherichia coli il cui genoma è stato letteralmente riscritto per includere fino a 18.000 cambiamenti inesistenti finora in natura. L'opera è la dimostrazione che l'umanità è riuscita non solo a capire il codice della vita ma a correggerlo così profondamente da poter creare vita sintetica capace di fare cose che nessun altro essere vivente può raggiungere. La natura permette all'uomo di muoversi, di leggere, di respirare, di pensare. Permette ai virus di scatenare un circolo vizioso di replicazione capace di produrre una terribile pandemia come quella attuale. E anche per i microbi, per generare modi in grado di bloccare un'infezione virale. Una delle maggiori barriere alla libera creazione di forme di vita artificiale era che fino ad ora non era possibile introdurre cambiamenti sostanziali nelle proteine "naturali". Queste molecole sono essenziali per qualsiasi funzione vitale. Ma il team di Jason Chin del Medical Research Council del Regno Unito ha voluto dimostrare che il codice genetico di un essere vivente può essere trasformato così profondamente da dare origine a una nuova specie invulnerabile a qualsiasi virus. Per capire l'importanza del suo risultato dobbiamo ricordare che tutte le forme di vita su questo pianeta dipendono da 20 blocchi di base da cui sono costruite le proteine: gli aminoacidi. Il genoma di una persona ha 3.055 milioni di lettere, come si è saputo martedì, ma tra tutte ci sono 64 frammenti molto più brevi ma essenziali: i codoni, che contengono le istruzioni per sintetizzare i 20 amminoacidi conosciuti. In uno studio pubblicato oggi su Science, il team di Chin dimostra come riscrivere le sequenze di questi codoni in modo che abbiano due funzioni sorprendenti. Il primo è che sono in grado di fare nuovi aminoacidi artificiali che non esistevano in natura fino ad ora. Il secondo è che le modifiche apportate al genoma dei microbi agiscono come un "firewall" contro la maggior parte dei virus batterici -fagi-, poiché disabilita il funzionamento di diversi codoni di cui i virus hanno bisogno per dirottare il macchinario cellulare e iniziare a fare copie di se stessi, annientando il loro ospite. È lo stesso processo che il coronavirus usa per infettare le persone: facendole ammalare e persino causandone la morte. Il potenziale di questa scoperta per creare nuovi farmaci e biomateriali è notevole, come evidenziato dagli autori dello studio. L'E. coli è una vera e propria fabbrica biologica da cui noi umani dipendiamo per produrre farmaci e fermentare gli alimenti. Varianti modificate di questi e altri microbi sono utilizzati nella produzione di più di 600 farmaci, tra cui l'insulina per i diabetici e i farmaci anticoagulanti che prevengono i trombi. Tra molte altre varianti progettate c'è un E. coli essenziale per fare i nuovi vaccini a RNA messaggero contro il nuovo coronavirus. Un'invasione di fagi (virus che attaccano i batteri) in una fabbrica con E. coli può costare milioni di euro. Gli scienziati britannici avevano già dimostrato un paio di anni fa come creare un microbo il cui genoma era completamente artificiale. Inoltre il loro metodo per riscrivere i genomi ed espanderli a piacere funziona anche nelle cellule animali, il che rende addirittura possibile la creazione di organismi con genomi artificiali, tra cui mosche e vermi. Ora hanno usato una tecnica per introdurre cambiamenti su larga scala nella sequenza genetica dei batteri. Il sistema utilizza la tecnica di gene-editing CRISPR-Cas9 come forbici per tagliare grandi frammenti del genoma originale. Poi le sostituisce con altre sequenze artificiali precedentemente progettate in un computer. I risultati sono sorprendenti: gli scienziati spruzzano un gruppo di batteri artificiali con un cocktail di virus che spazzerebbe via qualsiasi E. coli naturale. I batteri artificiali tengono duro e crescono più velocemente. Il lavoro mostra un fatto inquietante: gli scienziati non hanno ampliato il genoma originale del microbo, ma lo hanno accorciato, cioè hanno migliorato il codice genetico originale di un essere vivente che era il prodotto di milioni di anni di evoluzione naturale. Juli Peretó, esperto di biologia sintetica all'Università di Valencia, sottolinea che le modifiche apportate "trasformano la cellula in un luogo incomprensibile per un visitatore esterno, come un virus". "L'agente patogeno si troverà in una cellula con un codice genetico alterato e, quindi, non sarà in grado di esprimersi e produrre le proprie proteine". "Nella biologia sintetica, stiamo gradualmente superando lo stadio del plagio del genoma, rappresentato dai genomi artificiali del Venter Institute, che risintetizzano, semplificano o riorganizzano i genomi naturali, e stiamo iniziando ad avere genomi che contengono istruzioni completamente nuove", aggiunge. Includere un gran numero di nuovi aminoacidi al catalogo esistente permetterà "innumerevoli applicazioni", dicono Delilah Jewel e Abhishek Chatterjee, chimici del Boston College (USA) in un commento al documento pubblicato oggi. Questo include "biopolimeri" che non esistono in natura che "possono avere profonde implicazioni in molte discipline, tra cui la medicina e la scienza dei materiali", dicono.

Matteo Grittani per “la Repubblica – Salute” il 9 maggio 2021. Nel 1996 un gruppo di 56 studenti di Psicologia dell'università del Connecticut prese parte a uno studio per testare un antidolorifico rivoluzionario: il Trivaricane. Gli sperimentatori accolsero i ragazzi con tanto di camice, applicarono a ognuno la nuova pomata su uno dei loro indici lasciando l'altro libero e poi esercitarono su entrambe le dita una lieve pressione con piccole pinzette. Tutti i ragazzi riportarono meno dolore sull'indice trattato: il Trivaricane sembrava promettere bene. Nulla di strano, se non che il potente farmaco altro non era che un intruglio a base di iodio, acqua e olio di timo senza alcuna azione analgesica. A ingannare il gruppo di futuri psicoterapeuti fu uno dei meccanismi neurobiologici meno compresi della medicina: l'effetto placebo. Il meccanismo è noto alme-no dalla fine del '700, quando il medico britannico John Haygarth scoprì di poter curare i sintomi dei suoi pazienti con finti medicamenti. Un placebo non abbassa il colesterolo, non ferma le metastasi, ma appaga (placebo è "piacerò", dal latino piacere), cura lavorando su sintomi modulati dal cervello; è in grado di regolare la pressione, calmare il battito cardiaco, trattare l'insonnia e soprattutto alleviare il dolore. Come agisca è ancora oggi poco chiaro: «È come se il cervello suggerisse al corpo di sentirsi meglio», spiega Ted Kaptchuk, direttore del programma Placebo Studies alla Harvard Medical School. Ma non basta una pillola identica a quelle vere per renderlo efficace: il paziente deve andare in clinica, farsi esaminare dal medico e quindi ricevere la "medicina". Insomma, è l'intero rituale ad attenuare la percezione del malanno. Ma è tutto merito dell'immaginazione, o ci sono anche cause fisiologiche? Responsabile del fenomeno sarebbe una complessa serie di reazioni che vanno dall'incremento dei livelli di endorfine e dopamina - i neurotrasmettitori "del buonumore" - al mutamento dell'attività celebrale in alcune aree dell'en-cefalo. Quali? I neuroscienziati Ulrike Bingel e Tor Wager sono riusciti a circoscrivere il meccanismo a due zone in particolare: il talamo e i gangli della base. I ricercatori hanno "fotografato" il metabolismo cerebrale di 600 individui, mappando le aree del cervello che si attivano con l'effetto placebo. I risultati dell'analisi pubblicata sulle pagine di Nature Communication dimostrano che i trattamenti placebo riducono l'attività nella corteccia insulare posteriore, un'area tanto sconosciuta quanto cruciale perché "crea" le informazioni del dolore e le invia all'amigdala. «L'idea del dolore è costruita dal cervello in zone coin-volte nella motivazione e nei processi decisionali», precisa Wager. «Grazie a queste anali-si - sostiene Bingel - sarà possi-bile sfruttare meglio i benefici dell'effetto placebo, anche se c'è ancora molto lavoro da fare». Nonostante un grado di conoscenza del corpo umano mai così accurato, rimangono oggi (quasi) intatti il fascino e l'insondabilità del suo organo più complesso.

Jeremy Howick per "it.businessinsider.com" il 31 gennaio 2021.

Per curare il mal di testa Platone prescriveva: una certa foglia, ma il rimedio doveva essere somministrato con un certo incantesimo; e se si pronunciava bene l’incantesimo al momento della somministrazione, la cura faceva guarire perfettamente; ma senza l’incantesimo la foglia non era efficace. Oggi, definiremmo placebo l’“incantesimo” di Platone. I placebo esistono da migliaia di anni e sono i trattamenti più diffusamente studiati nella storia della medicina. Ogni volta che il dottore vi dice che l’efficacia del farmaco che state prendendo è dimostrata, intende che è stato dimostrato che funziona meglio di un placebo. Per ogni tassa o euro di assicurazione destinati a una cura, che è “dimostrato” che funziona, è dimostrato che funziona perché è (dovrebbe essere) migliore di un placebo. Nonostante la loro importanza, i dottori non possono usare i placebo per aiutare i pazienti (almeno ufficialmente), e si discute se ne abbiamo ancora bisogno nelle sperimentazioni cliniche. Tuttavia, la scienza dei placebo si è evoluta al punto che le nostre opinioni dovrebbero – ma non lo hanno fatto – cambiare il nostro pregiudizio sui placebo nella pratica e nel ruolo privilegiato dei controlli con placebo nei test clinici. In questo rapido ripasso della storia dei placebo, mostrerò quali progressi sono stati compiuti e ipotizzo che passi potrebbe compiere nell’immediato futuro la scienza dei placebo.

Da preghiere di benevolenza a piacevoli trattamenti. Il termine “placebo”, come viene impiegato in medicina, è stato introdotto nella traduzione della Bibbia in latino da parte di San Gerolamo nel quarto secolo. Il versetto 9 del Salmo 114 diventò: placebo Domino in regione vivorum. “Placebo” significa “Piacerò”, e il versetto: “Piacerò al Signore nella terra dei vivi”. Gli storici tengono a precisare che la traduzione non è proprio corretta. La traslitterazione ebraica è iset’halekh liphnay Adonai b’artzot hakhayim, che significa, “Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi”. Ritengo che gli studiosi si stiano scaldando per poco: perché il Signore vorrebbe passeggiare con chiunque non gli sia gradito? E però, i dibattiti su cosa siano “davvero” i placebo continuano. All’epoca, e anche oggi, le famiglie in lutto organizzavano un ricevimento per chi partecipava al funerale. Grazie alla festa gratuita, i parenti lontani e – questo è il punto importante – persone che pretendevano di essere parenti partecipavano al funerale cantando “placebo”, solo per mangiare. Questa pratica ingannatrice ha portato Chaucer a scrivere, “Gli Adulatori sono i cappellani del Diavolo che cantano sempre Placebo”. Inoltre, Chaucer chiamò Placebo uno dei personaggi de Il racconto del mercante. Il protagonista del racconto è Januarie. Januarie era un vecchio ricco soldato che desiderava fare sesso ricreativo con una giovane di nome May. Per legittimare il proprio desiderio, considera di sposarla. Prima di decidere, consulta i suoi due amici Placebo e Justinius. Placebo, interessato a ottenere il favore del soldato, approva il progetto di Januarie di sposare May. Justinius è più cauto, e cita Seneca e Catone, che predicavano la virtù e la cautela nella scelta della moglie. Ascoltatili entrambi, Januarie dice a Justinius che non gli importa niente di Seneca: sposerà May. Anche in questo caso si pone la tematica dell’inganno, dato che Januarie è cieco e non si accorge che May lo tradisce. Nel XVIII secolo. Il temine “placebo” entrò nel campo della medicina quando fu usato per descrivere un dottore. Nel suo libro del 1763, il dottor Pierce descrive una visita a un’amica, una Lady a letto per malattia. Trova il “dottor Placebo” seduto al suo capezzale. Il dott. Placebo aveva capelli ricci straordinariamente lunghi, era elegante e preparava con cura la sua medicina al capezzale della paziente. Quando il dottor Pierce chiede alla sua amica come sta, lei risponde: “Pura e in forma. Il mio vecchio amico, il Dottore, mi sta curando con alcune delle sue buone gocce”. Pierce sembra alludere che al fatto che qualsiasi effetto positivo avuto dal dottor Placebo è dovuto più alle sue buone maniere al capezzale che al reale contenuto delle gocce. Alla fine, la parola “placebo” ha iniziato a essere impiegata per descrivere le cure. Che io sappia, l’ostetrico scozzese William Smellie (nel 1752) è stato il primo a usare il termine “placebo” per descrivere un trattamento medico. Scrisse: “converrà prescrivere qualche innocente placemus, che lei possa prendere tra gli intervalli, per ingannare il tempo e accontentare la sua immaginazione” (“placemus” è un’altra forma della parola “placebo”).

I placebo negli studi clinici. I placebo sono stati usati la prima volta negli studi clinici nel XVIII secolo per sfatare le cosiddette cure ciarlatane. Fatto paradossale dato che le cosiddette cure “non-ciarlatane” dell’epoca comprendevano i salassi e il nutrire i pazienti con sostanze non digerite provenienti degli intestini di una capra orientale, pratiche considerate così efficaci da non necessitare di test. Tra i primi esempi che conosco in cui è stato impiegato un controllo con placebo c’è la sperimentazione dei “tractors di Perkins”. Alla fine del XVIII secolo, un dottore statunitense di nome Elisha Perkins sviluppò due barrette di metallo che, affermava, conducevano quello che lui definiva fluido patogeno “elettrico” fuori dal corpo. Ottenne nel 1796 il primo brevetto medico rilasciato secondo la Costituzione degli Stati Uniti. I "tractors" erano molto diffusi, e pare che anche George Washington ne avesse comprato un set. Nel 1799 sbarcarono in Gran Bretagna e si diffusero a Bath, un centro di cura molto importante per le sue acque minerali naturali e le relative terme, usate già in epoca romana. Ma il dott. John Haygarth riteneva i tractors una presa in giro e propose di provare i loro effetti in una sperimentazione. Haygarth realizzò quindi dei tractors di legno colorati per farli sembrare identici a quelli metallici di Perkins. Essendo di legno, non potevano condurre elettricità. In una serie di dieci pazienti (cinque trattati con i veri e cinque con i finti), i tractors “placebo” funzionarono altrettanto bene di quelli veri. Haygarth concluse che i tractors non funzionavano. Curiosamente, la sperimentazione non dimostrò che i tractors non portavano benefici ai pazienti, ma solo che non producevano il loro beneficio attraverso l’elettricità. Haygarth stesso ammise che i finti tractors funzionavano molto bene, attribuendone l’effetto alla fiducia. Altri esempi iniziali di controllo con placebo valutarono gli effetti delle pillole omeopatiche rispetto a pillole di pane. Uno di questi primi esperimenti rivelò che l’inazione era meglio sia della medicina omeopatica sia di quella allopatica (standard). Verso la metà del XX secolo, gli studi clinici controllati con placebo erano tanto prevalenti da permettere a Henry Knowles Beecher di svolgere uno dei primi esempi di una “revisione sistematica” che stimava la potenza dei placebo. Beecher prestò servizio nell’esercito statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale. Mentre lavorava sul fronte nell’Italia meridionale, le riserve di morfina iniziarono a scarseggiare, e pare che Beecher avesse visto qualcosa che lo sorprese. Prima di un’operazione, un’infermiera iniettava a un soldato acqua salata invece di morfina. Il soldato, pensando si trattasse di morfina, sembrava non provare alcun dolore. Dopo la guerra, fu revisore di studi controllati con placebo sui trattamenti del dolore e su una serie di altri disturbi. Gli studi erano effettuati su 1.082 partecipanti e rivelarono che, nel complesso, il 35% dei sintomi dei pazienti venivano alleviati solo dal placebo. Nel 1955, pubblicò il suo studio nel famoso articolo The Powerful Placebo. Negli anni Novanta, alcuni ricercatori misero in dubbio le stime di Beecher, in base al fatto che le persone che miglioravano dopo avere assunto il placebo avrebbero potuto guarire anche senza assumerlo. Nel linguaggio filosofico, la possibile deduzione errata per cui il placebo provoca la cura è definita sofisma post hoc ergo propter hoc (dopo di ciò, e quindi a causa di ciò). Per controllare se i placebo fanno davvero stare meglio le persone, dobbiamo fare un confronto con persone che non seguono nessuna cura. I ricercatori medici danesi Asbjørn Hróbjartsson e Peter Gøtzsche hanno fatto proprio questo. Hanno osservato sperimentazioni in tre gruppi che prevedevano il trattamento attivo, il controllo con placebo e nessun trattamento. Hanno poi verificato se il placebo era meglio rispetto al non fare niente e hanno scoperto un minimo effetto placebo generato secondo loro dal pregiudizio. Hanno concluso che “sussistono poche prove in generale circa i potenti effetti clinici dei placebo”, e hanno pubblicato i loro risultati in un articolo dal titolo Is the placebo powerless?, in contrasto diretto con il titolo dell’articolo di Beecher. Tuttavia, Hróbjartsson e Gøtzsche hanno corretto l’errore di Beecher solo per presentarne uno loro. Inclusero qualsiasi cosa fosse stata etichettata come placebo in una sperimentazione su qualsiasi patologia. Un tale paragone tra cose completamente diverse non è legittimo. Se osserviamo gli effetti di qualsiasi trattamento per qualsiasi patologia e scopriamo un lieve effetto medio, non possiamo concludere che le cure non erano efficaci. Ho esposto questo errore in una revisione sistematica, e ora è ampiamente accettato che, proprio come alcune cure hanno effetto per alcune cose ma non per tutto, alcuni placebo hanno effetto per alcune cose – soprattutto il dolore.

Chirurgia placebo. Recentemente si sono effettuate sperimentazioni cliniche controllate con placebo. In quella che è forse la più famosa, il chirurgo statunitense Bruce Moseley ha rintracciato 180 pazienti affetti da dolori al ginocchio tanto gravi al punto che addirittura i migliori farmaci avevano fallito. Eseguì su metà di loro delle artroscopie reali e sull’altra metà delle artroscopie placebo. Ai pazienti del gruppo dell’artroscopia placebo fu somministrata un’anestesia e praticato un leggero taglio sulle ginocchia, ma senza nessuna artroscopia, nessuna riparazione della cartilagine danneggiata e nessuna pulizia dei frammenti ossei. Per non svelare ai pazienti il gruppo in cui erano, i dottori e gli infermieri spiegavano passo per passo la vera procedura anche se stavano eseguendo quella placebo. I finti interventi funzionarono altrettanto bene di quelli “veri”. Un esame di oltre 50 sperimentazioni chirurgiche controllate con placebo rivelò che la chirurgia placebo era buona quanto quella reale in più della metà delle sperimentazioni.

Placebo onesti. Un placebo può funzionare anche se un paziente non crede si tratti di una cura “reale”. Nel primo degli studi effettuati con placebo open-label (placebo che i pazienti sanno essere placebo) di cui sono a conoscenza, due dottori di Baltimore di nome Lee Park e Uno Covi hanno somministrato placebo open-label a 15 pazienti nevrotici. Hanno proposto le pillole placebo ai pazienti dicendo: “Molte persone in condizioni simili alle vostre sono state aiutate da quelle che a volte sono chiamate pastiglie di zucchero e noi crediamo che una cosiddetta pastiglia di zucchero possa aiutare anche voi”. I pazienti hanno preso i placebo, e molti di loro sono stati meglio dopo averli presi, anche se sapevano trattarsi solo di un placebo. Tuttavia, i pazienti erano nevrotici e leggermente paranoidi, per cui non credevano ai dottori. Una volta che i placebo li avevano fatti stare meglio, hanno pensato che i dottori gli avevano mentito dandogli in realtà delle medicine vere. Più recentemente, molti studi di qualità superiore hanno confermato che gli open-label placebo possono funzionare. Questi placebo “onesti” potrebbero funzionare perché i pazienti hanno una reazione condizionata a un incontro con il proprio dottore. Proprio come l’organismo di un aracnofobo può reagire negativamente a un ragno anche sapendo che non è velenoso, qualcuno può reagire positivamente a una cura da parte di un dottore pur sapendo che gli sta somministrando una pastiglia di zucchero.

La storia dell’apprendimento di come funzionano i placebo. Un primo studio che indagava la farmacologia interna dei meccanismi placebo è quello condotto da Jon Levine e Newton Gordon nel 1978 su 51 pazienti cui erano stati estratti molari danneggiati. Tutti e 51 i pazienti avevano ricevuto un analgesico chiamato mepivacaina per la procedura chirurgica. Quindi, dopo tre e quattro ore dall’intervento, ai pazienti fu somministrato o morfina, o un placebo, o naloxone. I pazienti non sapevano quali avevano ricevuto. Il naloxone è un antagonista recettore degli oppioidi, cioè impedisce a sostanze quali morfina ed endorfine di produrre i propri effetti. Blocca letteralmente i recettori, quindi impedisce alla morfina (o alle endorfine) di ancorarsi ai recettori. È impiegato per trattare le overdose di morfina. I ricercatori hanno scoperto che il naloxone bloccava gli effetti analgesici del placebo. Ciò dimostra che i placebo provocano la liberazione di endorfine analgesiche. Da allora, questi risultati sono stati confermati da molti esperimenti. Centinai di altri hanno dimostrato che trattamenti con placebo influenzano il cervello e il corpo in molti modi. Il principale meccanismo tramite i quali si ritiene che agiscano i placebo sono aspettativa e condizionamento. In uno studio comprensivo pubblicato nel 1999 sui meccanismi di condizionamento e aspettativa, Martina Amanzio e Fabrizio Benedetti hanno diviso 229 partecipanti in 12 gruppi. I gruppi, cui erano stati somministrati farmaci diversi, erano stati condizionati in molti modi e avevano ricevuto messaggi diversi (per indurre maggiori o minori aspettative). Lo studio scoprì che gli effetti placebo erano provocati tanto dall’aspettativa quanto dal condizionamento. Nonostante il progresso, alcuni ricercatori sostengono – e io tra loro – che ci sia un che di misterioso nel funzionamento dei placebo. In una comunicazione personale, Dan Moerman, un antropologo medico e un etnobotanico, lo ha spiegato meglio di me: Sappiamo da tutte le persone che si sottopongono a risonanza magnetica che è abbastanza facile vedere cosa succede all’interno dell’amigdala, o in qualsiasi altra parte coinvolta, ma per sapere cosa muove l’amigdala, beh, ci vuole un po’ di lavoro.

Storia dell’etica del placebo. L’opinione accettata nella pratica clinica è che i placebo non sono etici perché necessitano dell’inganno. Questo punto di vista non tiene ancora del tutto conto della prova per cui non è necessario l’inganno affinché i placebo funzionino. La storia dell’etica del controllo con placebo è più complessa. Ora che esistono molte cure efficaci possiamo paragonare le nuove cure con le terapie dimostrate. Perché un paziente dovrebbe accettare di iscriversi a un nuovo trattamento con un placebo quando potrebbe iscriversi a un nuovo trattamento paragonato con uno dimostrato? I dottori che partecipano a tali sperimentazioni potrebbero stare violando il loro dovere etico di soccorrere ed evitare danni. L’Associazione medica mondiale aveva inizialmente bandito le sperimentazioni controllate con placebo in presenza di una terapia dimostrata. Ma nel 2010, ha rovesciato la posizione dicendo che a volte avevamo bisogno di sperimentazioni controllate con placebo, anche in presenza di una terapia dimostrata. Affermava che c’erano ragioni “scientifiche” per farlo. Queste cosiddette ragioni scientifiche sono state presentate impiegando concetti (per la maggior parte delle persone) oscuri quali  “sensibilità dei test” e “dimensione assoluta dell’effetto”. In parole semplici, questi si riducono a due affermazioni (sbagliate):

1.    Dicono che possiamo fidarci solo di controlli con placebo. Il che era vero in passato. Storicamente, i trattamenti come i salassi e la cocaina erano usati per trattare molti disturbi, essendo tuttavia spesso dannosi. Mettiamo che avessimo compiuto una sperimentazione paragonando i salassi con la cocaina nella cura dell’ansia e ne fosse risultato che i salassi erano migliori della cocaina. Non avremmo potuto dedurre che i salassi erano efficaci: sarebbero stati peggio di un placebo o di non fare niente. In questi casi storici, sarebbe stato meglio paragonare queste cure con un placebo. Ma adesso abbiamo trattamenti efficaci che possono essere usati come indicatori. Quindi, se esce un nuovo farmaco per la cura dell’ansia, lo potremmo paragonare con una cura efficace. Se la nuova cura si dimostra essere buona almeno quanto la vecchia, possiamo dire che è efficace.

2.   Dicono che solo i controlli con placebo forniscono una linea di riferimento costante. E ciò in base all’opinione errata che i trattamenti con placebo siano “inerti” e abbiano quindi effetti costanti e invariabili. Anche questo è sbagliato. In una revisione sistematica di sperimentazioni con pillole placebo nella cura dell’ulcera, la reazione al placebo variava tra lo 0% (non avere alcun effetto) al 100% (cura completa). Con la messa in discussione delle tesi a sostegno delle sperimentazioni controllate con placebo, si è ormai formato un nuovo movimento che spinge l’Associazione medica mondiale a compiere un’altra inversione a U per tornare alle sue posizioni originali.

Verso quale placebo? Per secoli, la parola “placebo” è stata strettamente legata a inganno e accondiscendenza. Studi recenti con placebo open-label dimostrano che non devono ingannare per funzionare. Dimostrano invece che non sono inerti o invariabili minando le basi dell’attuale posizione dell’Associazione medica mondiale. Sembra che la recente storia dei placebo apra la via a più trattamenti con placebo nella pratica clinica e meno trattamenti con placebo nelle sperimentazioni cliniche.

·        Le Emorroidi.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 30 novembre 2021. Per espletare i bisogni fisiologici a molte persone piace sedere tranquillamente sul water leggendo un giornale o un libro. Secondo quanto riportato dal SUN, il medico Karan Rajan su TikTok ha esortato a non rimanere più di 10 minuti seduti sul wc. Pena qualche brutta sorpresa riguardante il plesso emorroidario, con il rischio di subire un intervento. 

Sul water più di 10 minuti: si rischiano le emorroidi 

Nel video, Rajan ha spiegato che le emorroidi derivano da strutture simili a palloncini presenti all’interno del canale rettale che si riempiono di sangue quando è necessario serrare la struttura per evitare perdite fecali. Sedere sul water troppo a lungo “stressa” queste strutture causandone a volte il distacco o l’infiammazione e facendo spuntare le emorroidi. Il secondo consiglio del medico è quello di non “passare la vita in bagno”. “Cercate di rimanere non più di 10 minuti seduti sul water. La gravità non è vostra amica. Più tempo passate in bagno e più a lungo il sangue si accumula nelle vene rettali causando così le emorroidi”.  

Come prevenire le emorroidi

Di solito migliorano nel giro di pochi giorni ma per prevenire la loro comparsa è bene praticare regolarmente esercizio fisico, una buona igiene del lato B, ridurre alcol e caffeina. Per mantenere le feci morbide è consigliabile inoltre bere molti liquidi e mangiare molte fibre. Secondo Karan “a meno che una persona non abbia una malattia specifica, dovremmo assumere quotidianamente 20-30 gr fibre al giorno. Non va dunque sistematicamente eliminata la crosta del pane o la buccia di frutta e verdura”.

·        L’HIV.

La giornata mondiale. I casi di Aids stanno diminuendo, ma con la pandemia curarsi è sempre più difficile. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2021. In Italia nel 2020 sono state segnalati 2,2 casi di infezione da Hiv ogni 100.000 residenti. Una media inferiore a quella europea è in netto calo rispetto al 2012. Ma l’emergenza sanitaria ha ridotto, se non azzerato, i servizi di terapia antiretrovirali e diagnosi. Un problema che riguarda soprattutto gli adolescenti. Ricorre oggi la Giornata mondiale contro l’Aids, che, celebrata per la prima volta l’1 dicembre 1988 su impulso dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è nota a livello globale come World Aids Day. A poco meno di quindici giorni da tale data l’Istituto Superiore di Sanità aveva diffuso, secondo una prassi annua iniziata nel 2012, i dati sulle nuove diagnosi di infezione da Hiv e dei casi di Aids in Italia relativamente all’intero 2020. Dati che, raccolti ed elaborati dal Centro Operativo Aids (COA) del medesimo Istituto, sono stati pubblicati nel penultimo numero del Notiziario dell’ISS grazie al contributo di componenti del Comitato tecnico sanitario e di referenti della Direzione generale della Prevenzione sanitaria, l’uno e l’altra in essere presso il ministero di Lungotevere Ripa. In base a tale rapporto emerge che nello scorso anno sono state segnalate 1.303 nuove diagnosi di infezione da Hiv pari a un’incidenza di 2,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti. In netta riduzione, dunque, a partire dal 2012 e con diminuzione progressiva più evidente rispetto al 2018, in cui un tale dato ammontava a 2.847 unità, e al 2019, quando il leggero calo si era attestato a 2.583 nuove diagnosi. Dal 2018 si osserva inoltre un’evidente diminuzione dei casi per tutti i modi di trasmissione. D’altra parte, bisogna pur sempre considerare che i dati relativi al 2020 hanno risentito dell’emergenza Covid-19 «in modi e misure – come osservato dal Notiziario dell’Iss – che potranno essere correttamente valutate solo verificando i dati dei prossimi anni». Ciò non toglie che l’incidenza osservata in Italia sia inferiore rispetto a quella media rilevata tra i Paesi Ue: 3,3 nuovi casi ogni 100.000 residenti. Per quel che riguarda la nostra specifica realtà, la proporzione di nuovi casi attribuibile a trasmissione eterosessuale è stata del 42% (25% maschi e 17% femmine), quella a MSM, cioè a maschi che fanno sesso con maschi e sono quindi di orientamento omosessuale o bisessuale, del 46% e quella, infine, a persone che usano sostanze stupefacenti del 3%. Nel 2020 le incidenze più alte a livello regionale sono state registrate in Valle d’Aosta, Liguria, Provincia Autonoma di Trento e Lazio. Nel complesso le persone che hanno scoperto di essere Hiv positive sono state nel 79,9% maschi, mentre l’età mediana è stata di 40 anni per entrambi i generi. L’incidenza più alta al riguardo è stata osservata tra le persone di 25-29 anni (5,5 nuovi casi ogni 100.000 residenti) e di 30-39 anni (5,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti): in queste fasce d’età l’incidenza nei maschi è stata circa quattro volte superiore a quelle delle femmine. Benché poi il numero di nuove diagnosi in stranieri sia in diminuzione dal 2017, nell’anno scorso si è osservato un lieve aumento della proporzione di persone di nazionalità estera, cui è stato diagnosticato l’Hiv: si è passati dal 27,5% nel 2019 al 32,6% nel 2020. Da ultimo, i dati sull’Aids, che vengono raccolti ed elaborati dal Registro Nazionale Aids, si attestano per il 2020 a 352 segnalazioni di nuovi casi, pari a un’incidenza di 0,7 per 100.000 residenti. L’80% di essi continua a essere costituito da persone che hanno scoperto di essere Hiv positive nei sei mesi precedenti alla diagnosi di Aids. Dal 1981, inizio della pandemia tra le più distruttive di tutti i tempi, a oggi in Italia sono stati segnalati 71.591 casi di Aids, di cui 46.366 deceduti entro il 2018. Questo comprova d’altra parte come la portata della malattia sia in costante diminuzione. Circa le diagnosi tardive di sieropositività, che negli ultimi tre anni hanno registrato un costante aumento in termini di vicinanza temporale a quelle di Aids, Sandro Mattioli, presidente dell’associazione “Plus – Persone Lgbt+ sieropositive”, spiega a Linkiesta che le motivazioni a quelle sottese «sono molteplici. Non si può però non rilevare come tanti ragazzi abbiano paura del giudizio altrui: si ha difficoltà e imbarazzo a parlare di un’infezione che, nella stragrande maggioranza, è a trasmissione sessuale. Paura del giudizio dell’infettivologo o del medico di Pronto soccorso, il che induce molti di loro a non tornare più e a rimandare costantemente il test». Per l’attivista gli stessi dati del 2020, se sono «indubbiamente positivi rispetto a quelli di due anni fa, presentano non poche criticità. Essi, infatti, non ci dicono mai la differenza dei test del 2019 rispetto a quelli ultimi. Ciò dipende, fra l’altro, anche dalle Regioni, che spesse volte non conoscono il numero effettivo di chi nei propri territori si è sottoposto a test». Indubbiamente di passi in avanti, e non da poco, ne sono stati fatti dal 1981 a oggi. Lo fa notare al nostro giornale Franco Grillini, ex parlamentare nonché uno dei leader storici del movimento Lgbt+ italiano, che dice: «Chi come me ha vissuto la tragica stagione iniziale della pandemia dell’Aids, sa bene che in tutti gli anni ’80 l’unico a condurre battaglie di informazione, prevenzione e sensibilizzazione è stato il mondo del volontariato. Quel volontariato, che è stato un vero e proprio sostituto dello Stato impegnato nel lavarsene apertamente le mani per espressa volontà politica. Mi piace qui citare tra le varie realtà associative, che hanno garantito servizi, Arcigay, Asa di Milano, Circolo di Cultura Mario Mieli, Lila e Anlaids. Le cose poi cambiarono con la legge 135 del 1990, che oggi, come noto, è oggetto di una revisione a opera del forzista Mauro D’Attis, primo firmatario di uno specifico pdl. Non mancano le criticità ma so che il deputato azzurro si sta confrontando con le associazioni e appare ben disposto a valutarne le singole istanze». Per il presidente onorario di Arcigay la grande svolta nel modo di approcciare la questione Hiv/Aids la si ebbe «nel 1991 con lo specifico Congresso mondiale sul tema: vi s’impose quella che sarebbe stata la linea dei decenni successivi, volta soprattutto a valorizzare la dimensione della cronicizzazione della malattia. Linea che ebbe molto successo con l’apparire, nella metà degli anni, della triterapia che ha salvato molte persone». Da tale quadro si evince quanto, in ogni caso, sia necessario non abbassare la guardia e continuare in un serio impegno di informazione, prevenzione e contrasto all’Hiv/Aids. I dati italiani vanno poi letti in un contesto globale secondo i rapporti dell’Oms e dell’Unicef: da essi fra l’altro emerge che, se già nel 2019 i progressi in tale lotta erano rallentati, la pandemia da Covid-19, con l’interruzione alternata, almeno nella prima parte dell’anno, di molti servizi di terapia e diagnosi, ha dato la battuta finale d’arresto vanificando molti degli obiettivi previsti. Nel 2020 le nuove diagnosi di Hiv in tutto il mondo sono state sono state 1.500.000, portando così a 37.700.000 il numero complessivo delle persone Hiv positive. 680.000, invece, le persone decedute per complicanze da Aids. Un prezzo molto alto lo hanno pagato infanti e adolescenti, che sono maggiormente senza accesso alle terapie. L’anno scorso sono stati registrati nei cinque continenti 310.000 nuovi casi tra minori, 1 ogni 2 minuti, che ha fatto così lievitare fino a 2.078.000 il numero di bambine e bambini Hiv positivi. 120.000, infine, quelli morti nel 2020 per Aids. Ma come denunciato dall’Unicef, poco più della metà di loro ha avuto accesso alle terapie antiretrovirali. Molto al di sotto, dunque, della copertura offerta alle madri (85%) e ad adulti sieropositivi (82%).

40 anni di Aids: «Il diario di Forti fu una bomba in un’Italia sessuofoba e bigotta». C’era l’assenza delle istituzioni, la vergogna, il pregiudizio e la disinformazione. Tra chi squarciò il buio, l’inviato de L’Espresso. La sorella: «Con quella copertina volle dare un volto al virus innominabile». Franco Grillini: «Solo ora ne parlo senza piangere». Simone Alliva su L'Espresso l'1 dicembre 2021. Un buco nero nella memoria collettiva italiana. Questo è quello che è rimasto a distanza di 40 anni dalla scoperta dell’Aids, la pandemia che dal 1981 ha ucciso più di 35 milioni persone. In quattro decadi l’Italia non è mai riuscita a fare i conti con la sua storia per spiegare dove eravamo e cosa stavamo facendo in quei giorni mentre l’infezione uccideva nel silenzio generale. In America non si contano le produzioni culturali: libri, film, spettacoli teatrali dedicati a quel tempo. In Italia l’oblio. Ci accompagna in quegli anni Enzo Cucco, insieme a molti altri protagonisti di quella storia rivoluzionaria che è stata il F.U.O.R.I. primo movimento per diritti delle persone lgbt. Cucco oggi ha 61 anni, componente del direttivo dell’Associazione Radicale Certi Diritti, ricorda un’Italia fatta di emarginazione e indifferenza: «L’Aids non l’avevamo vista. La notizia era uscita ma nessuno se n’era accorto. Ricordo un’agenzia: scoperto un tumore molto diffuso nella popolazione americana. Lì si parlò per la prima volta del cancro dei gay. Era il 1981. Un numero spropositato di casi di sarcoma di Kaposi. E noi del FUORI! scrivemmo con un comunicato stampa che aveva più o meno questo tono: ecco, adesso si inventano il cancro dei gay, non è vero. Avevamo torto». La notizia, il viaggio in America e poi la raccolta della documentazione. «Negli Stati Uniti ci spiegavano che non c’entrava l’orientamento sessuale. Tornati a Roma cominciammo a parlare, volevamo risvegliare le coscienze. Ricordo le riunioni nell’ottobre del 1982 con l’ospedale Amedeo di Savoia, quello per le malattie infettive. Li ricordo stupiti, un po’ scocciati. Ripetevano che i casi in Italia non c’erano. Trovammo ascolto soprattutto presso l’Istituto superiore di Sanità. Grazie a un giovane Gianni Rezza, all’epoca un grande radicale e all’allora presidente dell’Istituto che era Giovanni Battista Rossi. Ricordo anche Giuseppe Ippolito molto attento e preparato. Giovanni Battista Rossi, Rezza Ippolito avevano preso contatto con il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli e costituirono insieme a Bruno Donato e Vanni Piccolo il primo gruppo di verifica. La storia della lotta all’Aids comincia in questo modo». Gianni Rezza oggi è direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, Giuseppe Ippolito direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani. Nomi che rimbalzano nelle cronache della nuova pandemia, in un paese senza tempo. Coinvolti in prima fila negli anni Ottanta erano i giovani specializzandi che vedevano morire intorno amici e amanti, come racconta Massimo Cernuschi, oggi infettivologo del San Raffale e presidente dell’Associazione ASA di Milano: «Morivano due, tre persone al giorno di Aids negli ospedali. Ricordo un amico che aveva scoperto di essere positivo da subito. Stava male per un ascesso al dente. Lo ricoverano. Dopo la diagnosi di linfoma chiese a me informazioni, in quel caso si cercava di omettere diciamo così. Gli dissi: hai una brutta tubercolosi. Capì. Il giorno stesso fece testamento. Il giorno dopo morì». Si moriva così. Si spariva nel silenzio generale. «Abbiamo perso una generazione. Incontravo tutti i giorni al parco un ragazzo molto dolce, molto tranquillo. Ci facevamo insieme. All’epoca non si parlava di Aids. Era un argomento che veniva rimosso con fastidio. Dopo poco tempo questo ragazzo è sparito. L’ho ritrovato dopo qualche mese con le stampelle, emaciato. Poi è morto», lo ricorda Luigi, oggi volontario del gruppo Salute di Arcigay Torino, 61 anni, ragazzo negli anni del riflusso e della droga: «Ho scoperto di essere positivo soltanto nel 2008. Mi hanno preso per i capelli, come si suol dire. Entrai in ospedale che ero già in Aids». A 13 anni da quell’analisi ripensa agli anni Ottanta «ma anche Novanta e Duemila» come una «dimensione parallela. Si viveva congelati. Ci facevamo insieme e quelli sull’Aids erano discorsi tabù. E poi c’era questo fatalismo: prima o poi ci tocca. Dicevamo. Oppure sopravviveva una coscienza che era molto simile a quella dei no-vax di adesso, fatta di retropensieri: chissà questa malattia cos’è veramente. Sarà un business delle case farmaceutiche. Ed era anche il mio pensiero. Nella mia vita sono stato in comunità sette volte. Ho vissuto da clochard per strada. Nessuno mi ha mai detto: fai un test. Eravamo ai margini drogati e omosessuali. C’è stata certo una generazione che abbiamo perso. Io mi ritengo un sopravvissuto». C’era l’assenza. Delle istituzioni, della politica, della società. Il ministro della Sanità, Donat-Cattin, dopo aver detto «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», nel 1988 inviò una lettera a tutti gli italiani per dire che era «consigliabile attenersi» a «un’esistenza normale nei rapporti affettivi e sessuali». Il pregiudizio cresceva e così la disinformazione. «Adesso sono di nuovo in grado di parlarne senza mettermi a piangere», racconta Franco Grillini «Ma c’è stato un periodo in cui non ci riuscivo. Eppure facevo le orazioni funebri, andavo a trovare la gente che si disfaceva negli ospedali. Si moriva in due modi: o rimanevi intatto e normale fino al giorno prima di morire, oppure ti disfacevi, pesavi trentacinque chili. Non so come siamo sopravvissuti». Non potendo contare sulle istituzioni, la comunità si organizzava. Distribuiva volantini informativi e preservativi fuori dai luoghi considerati a rischio-discoteche, battuage, saune- somministrava test. Marinella Zetti, storica attivista Lgbt, militante ASA | (Associazione solidarietà AIDS) lo racconta: «Si distribuivano preservativi con non poca diffidenza da parte anche di alcune associazioni. Dopodiché c’era questo pregiudizio difficile da sradicare» dice: «Partecipai a una trasmissione di Raidue sul tema. Non ho mai detto di essere sieronegativa. Quindi in mezzo a molte testimonianze apparivo agli occhi dei telespettatori come sieropositiva. Il giorno dopo andai al solito bar per fare colazione, ricordo mi misero in fondo. Isolata. Il proprietario si giustificò: signora ho visto il suo problema però devo metterla qui». Moltissimi i suicidi all’epoca di persone che non vedevano una via di uscita a una malattia che sembrava una sentenza a morte delle più cruente. Tra questi Ottavio Mai, regista e attivista Lgbt, fondatore insieme a Giovanni Minerba del più grande festival Lgbt d’Europa. Anche Pier Vittorio Tondelli, morto di Aids a 36 anni, scelse il silenzio, casa sua a Correggio. Era un tempo di vergogna e di colpa. Come ricorda Fabrizio Caprara, anche lui attivista lgbt: «All’epoca avere trent’anni era come averne ottanta. C’era una generazione che spariva. Erano il tuo vicino di casa, il figlio dell’amica di tua madre, l’allenatore della palestra, il pasticciere all’angolo. Keith Haring, Tondelli, Ian Charleston, l’affascinantissimo protagonista di Momenti di gloria, Nureyev. Si viveva sospesi nella paura di essersi costantemente infettati, e nel frattempo molti amici scomparivano. Tra questi ricordo Giovanni Forti». Giornalista e inviato per L’Espresso Giovanni Forti è stato il primo in Italia a scrivere la cronaca della malattia- mai pietista o scontata ma scarna e irrimediabilmente ottimista. Un diario che esplose con una copertina pubblicata su L’Espresso nel 16 febbraio 1992, qualche settimana prima della morte avvenuta il 3 aprile. La degenza in ospedale, i farmaci, i 25 chili che lo avevano ridotto al ricordo di uomo. Tutto questo per informare. 

Il diario di Giovanni Forti: «La mia vita con l'Aids». L'Espresso l'1 dicembre 2021. Dare un volto, il proprio, al virus innominabile. Enzo Biagi, poi, lo volle in tv e con la voce cavernosa ammonì la gente a usare il preservativo: «Quella voce non era quella di Giovanni. Era quello che gli aveva fatto la malattia», ricorda la sorella, Emanuela Forti, «Giovanni decise di posare per quella copertina per pubblicizzare l’uso del preservativo. Voleva convincere i giovani, convincere tutti non solo gli omosessuali. Proteggetevi. In un’Italia così sessuofoba e bigotta. Voleva dare un senso alla sua malattia e poi alla sua morte». Emanuela Forti che in quegli anni ha visto ammalarsi e poi morire prima il fratello e poi la sorella Flaminia, restituisce l’immagine di quel tempo: «Flaminia era un ex tossicodipendente. Ma ci è arrivata alla cura che le ha permesso di vivere più a lungo di Giovanni. Poi, anche lei, è morta. Tumore al fegato. Quegli anni sembrava di stare al fronte. Come combattere sulle montagne, ti alzavi sparavi ma quello si alzava ti sparava e morivi prima te. Una guerra impari. Ma Giovanni aveva una visione pubblica del privato. Diceva: bisogna nominare le cose. La mia tragedia deve permettere passi avanti a un sacco di gente. Ognuno di noi deve intervenire nel sociale». Quelle pagine rimangono una delle testimonianze più struggenti dell’epoca: «Ritengo di essermi contagiato nell'estate dell'81 durante una settimana di sfrenatezze nelle saune di San Francisco» scriveva l’inviato de L’Espresso. «Dopo la diagnosi non feci assolutamente nulla". Emanuela ricorda ogni istante di quell’epilogo, sempre al suo fianco insieme al marito Brett Saphiro: «Giovanni voleva stare bene. Fino all’ultimo tentammo una terapia sperimentale in Svizzera dato che i farmaci dell’epoca facevano più male che altro. Ma arrivammo troppo tardi, come ci disse il medico». La foto di Giovanni Forti nei suoi ultimi giorni di vita, le cronache mai banali hanno l’effetto deflagrante di una bomba: entra nell'ombra, scava negli angoli dell’ipocrisia, squarcia il velo del perbenismo. Forti spazza via la narrazione italiana con una luce prodigiosa che ferma il tempo, illumina i pensieri, consente di vedere dentro e vedere dopo. Sorride Emanuela: «Era un eroe? Forse sì. Eppure, era tutto meno che eroico. Ma ironizzava sempre al tempo. Era così».

Il tempo oggi è un altro tempo. In Italia il numero di diagnosi per Hiv è sceso nel 2020, ma la fascia interessata resta quella dei giovani tra i 25 e i 29 anni. U=U ripetono oggi medici e attivisti. Undetectable = Untrasmittable, ossia Non rilevabile = Non trasmissibile. Se la carica virale non è rilevabile, il rischio di trasmissione sessuale dell’Hiv è nullo. Serve controllarsi. Chi è in terapia e ha una carica virale stabilmente non rilevabile, non trasmette il virus ai partner e alle partner con cui ha rapporti sessuali non protetti dal profilattico. Per le persone positive al virus dell’Hiv il tempo oggi è come una luce, nitido e forte come le parole di Giovanni Forti che sopravvivono a distanza di quasi 30 anni.

Fabio Cantelli Anibaldi per corriere.it  l'1 dicembre 2021. Da adolescente sognavo di «vivere ad altezza di morte», come esortava Georges Bataille. Vivere con una morte clemente e, di fatto, inoperante è ciò che il destino mi ha finora riservato. Sono stato molto fortunato, ma la fortuna si accompagna da sempre a un senso d’ingiustizia, d’immeritato privilegio: «perché non io?» mi capita ancora di chiedermi. Sono positivo al virus Hiv almeno dal 1985, quando venni sottoposto a un esame insieme a tutti gli ospiti di San Patrignano. Allarmato dalle notizie che venivano dall’America, Vincenzo Muccioli aveva voluto capire come stessero le cose in comunità. Risultò positivo al virus circa un terzo degli ospiti, centocinquanta persone, ma Vincenzo decise di non rivelare l’esito di un esame spacciato come un normale controllo dello stato di salute, nonostante dopo il prelievo del sangue fossimo stati sottoposti a un’indagine per tutti inedita e un po’ imbarazzante: un tampone anale. Vincenzo aveva deciso di nasconderci il risultato dell’esame perché all’epoca dire a una persona che era sieropositiva era come dirle di prepararsi a una morte rapida e dolorosa. Avrebbe dunque deciso lui i modi e i tempi per comunicarlo a ciascuno di noi, a seconda della nostra capacità di reggere l’urto, nella speranza che il soggiorno in comunità ci avrebbe reso più forti e che, nel frattempo, la medicina trovasse un rimedio al terribile male. Me lo disse quattro anni dopo, una domenica della primavera del 1989. A chi reputa inammissibile questo ritardo rispondo che fu causato da un eccesso di amorevole tutela, come quella di certe madri. Dal 1985 continuavo infatti a essere asintomatico e tutte le volte che capitava d’incontrarci quando tornavo i fine settimana da Bologna – dove vivevo nella casa affittata per gli studenti universitari – Vincenzo mi vedeva stare bene nel corpo e nell’anima: prendevo trenta e lode agli esami di filosofia e avevo persino ricominciato a giocare a basket. «Glielo dirò la prossima volta» avrà pensato vedendomi sereno, salvo che, di volta in volta, passarono i mesi e gli anni, e quando quella domenica dell’89 mi prese da parte per dirmi di aver deciso di esonerare gli ospiti sieropositivi dall’assistenza ai malati di Aids – sicché avrei potuto da quel giorno dedicarmi solo ai miei studi – mi parlò come se sapessi già di essere sieropositivo, e sospetto che in qualche modo si fosse convinto che davvero lo sapessi, in modo che non fosse più necessario dirmelo o, nel caso lo fosse, mascherarlo come in quel caso da tutela nei miei riguardi. L’autoinganno, nella mente umana, può arrivare a tali acrobatici, virtuosismi…Quel giorno il mondo mi crollò addosso, ma più che per me stesso l’angoscia fu per una ragazza incontrata un anno prima durante una “licenza premio” a Milano, con la quale avevo avuto rapporti sessuali non protetti. L’ipotesi di essere stato, sia pur inconsapevolmente, un veicolo di contagio era per me molto più angosciante dell’essere ormai a un tempo supplementare di vita, e questo scivolare per forza di cose in secondo piano fu, credo, decisivo nell’impostare un giusto rapporto con la malattia. Saputo infatti di non aver contagiato la mia ragazza decisi di andare via da Sanpa per vivere con lei la vita residua e poi di non fare come i tanti ragazzi della comunità che avevo visto morire durante i quasi tre anni di assistenza al reparto “infettivi” dell’ospedale Maggiore di Bologna, assistenza che noi studenti avevamo deciso di garantire giorno e notte per farli sentire meno soli. Quei ragazzi arrivavano infatti in «Aids conclamato» ma le loro condizioni generali non facevano pensare a una malattia mortale: si nutrivano e camminavano da soli, sia pure con sforzo, giocavano con noi a carte o discutevano di calcio, di basket, delle top model ritratte sulle riviste patinate. E soprattutto volevano la tv sempre accesa su «Videomusic», il primo canale in Italia a trasmettere solo videoclip. Tale “routine” poteva andare avanti per settimane e a volte mesi, finché non si manifestava una di quelle che i bravi ma impotenti medici del Maggiore chiamavano «infezioni opportunistiche». Mali che ricordavano bruscamente ai pazienti il motivo per cui erano lì e mutavano la loro relativa serenità in una serrata, angosciata resistenza, a cui il virus rispondeva passando dal fioretto al bazooka e portando a termini in pochi giorni l’opera. L’ho ancora ben impressa quella spaventosa prova di efficienza: ai malati s’imbiancavano le ciglia e la pelle diventava trasparente. Nel contempo smettevano di parlare e, lo sguardo perso nel vuoto, ci facevano cenno di spegnere il televisore e abbassare un po’ le tapparelle. Luce e musica: segni troppo evidenti della vita che li stava lasciando. Sicché quando, nel luglio dell’89, decisi di andare via da Sanpa e vivere come desideravo la vita che mi restava, pensai: «Quando arriverà non fare l’errore di resisterle: la malattia è parte di te. Non volevi una vita ad altezza di morte? Eccoti accontentato: la malattia devi accettarla, ospitarla, viverla. Solo così avrai speranza non solo di vivere più a lungo ma di vivere bene anche in mezzo al male». È stato un momento per me decisivo perché, da allora, ho cercato di rapportarmi così alla vita nel suo insieme, cercando in ogni evento difficile o avverso un’occasione di conoscenza e di consapevolezza, dunque di vita. «Il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire» cantava Battiato in «Prospettiva Nevskij»: il mio maestro è stata la malattia, io ho avuto solo il merito di ascoltare la sua lezione. Beninteso, è stato un cammino lungo e ancora lungi dall’essere concluso. Un cammino compiuto attraversando regioni gelide e deserte. Nei primi anni Novanta – mentre nella lista di milioni di morti comparivano nomi amati come quelli di Rudolf Nureyev, Bruce Chatwin, Freddy Mercury, Keith Haring, Robert Mapplethorpe – si officiavano a Sanpa anche due funerali alla settimana. E a ogni amico perduto la stessa domanda: «quando arriverà il mio turno?». Poi, il 9 aprile ’95, la perdita straziante di Cristina, la prima fidanzata, la fidanzata dell’adolescenza, età iniziatica in cui si manifesta la fame d’infinito che sta alla base dell’incontro con la droga. Ed ecco quel giorno l’altra domanda – «perché lei e non io?» – erompere lacerante. E infine Vincenzo Muccioli, il 19 settembre: anche lui morto di Aids, credo, nonostante il reticente silenzio che avvolse la sua morte. Morte che, lungi dall’essere ignominiosa, mi parve il nobile epilogo di una vita in trincea, la vita di un uomo che aveva vissuto per noi e con noi. La svolta per tutti, e anche per me, fu la messa in commercio degli antiretrovirali, alla fine degli anni 90. Farmaci che potevano rallentare il virus, in certi casi arrestarlo. Quando cominciai a prenderli già vivevo a Torino da qualche anno, seguito dagli infettivologi dell’Amedeo di Savoia. Ne ho cambiati sei in venticinque anni: tutte donne. Ne voglio citare tre, straordinarie per competenza, umanità e grazia: Caterina Bramato, Letizia Marinaro e l’attuale, Laura Trentini. La sensibilità di un medico è parte integrante della cura. Concludo. Si direbbe che io e il virus siamo arrivati a una sorta di simbiotica convivenza. Da anni lui dorme in me: «carica virale» zero. Evidentemente si è trovato bene e ha cominciato a familiarizzare col mio organismo mentre io cercavo di familiarizzare con una vita appesa a un filo. Chissà se quello del Covid, arrivando nei paraggi, abbia trovato un cartello: «occupato, si prega di cercare altrove». Tecnicamente sono uno di quelli che gli americani chiamano: «long term survivors». Concretamente uno che ha capito che, malati o meno, se si riesce a «vivere ad altezza di morte» è possibile morire compiuti, dicendo le parole che pare abbia pronunciato un uomo tormentato come Wittgenstein prima di spirare: «Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa».

Emanuela Minucci per "la Stampa" il 26 maggio 2021. Sono 40 anni che il mondo combatte contro l'HIV. Un tunnel che la scienza ha reso meno buio grazie alla ricerca. Ma anche l'arte può metterci del suo per raccontare al mondo che cosa è stato questo virus e le insidie che ancora racchiude. È questa la molla che ha convinto il colosso bio-farmaceutico Gilead (leader mondiale nella cura e nella prevenzione dell'Aids come di altre importanti patologie) che per il terzo anno consecutivo ha deciso di dare vita al progetto «Together we can stop the virus». Così lo scorso 1° dicembre 2020, Giornata Mondiale HIV, Gilead ha rivolto ad artisti e professionisti della creatività under 40 una chiamata collettiva («Call4Artists») con l'obiettivo di scovare i nuovi talenti in grado di raccontare l'HIV. In questi mesi, la giuria, formata da esperti del settore e dalle Associazioni di pazienti, ha avuto il compito di selezionare i cinque vincitori. Nelle precedenti edizioni del progetto sono state realizzate opere che raccontano, grazie anche al supporto della Realtà Aumentata, che cosa significhi oggi vivere con l'HIV attraverso i vissuti dei protagonisti: stigma, paura della diagnosi, accettazione di una terapia per tutta la vita, il successo delle terapie, la gioia di poter invecchiare nonostante il virus e il raggiungimento di una buona qualità di vita. Nel 2020 è stata realizzata anche un'opera che racchiude alcune delle sfide delle persone con HIV durante la pandemia. L'obiettivo del progetto è creare la prima mostra permanente su questo temibile virus che ogni anno possa arricchirsi di nuovi contributi artistici.

La residenza artistica. E siamo alla novità di quest'anno. Tra i premi per i vincitori della Call4Artists oltre a un riconoscimento in denaro c'è una Residenza Artistica ovvero una formazione tecnica, teorica e pratica, sul linguaggio della realtà aumentata, con focus in ambito artistico, nonché formazione sull'arte contemporanea e sul contesto scientifico dell'HIV. Un piccolo laboratorio creativo dove far fiorire idee unendo mondi anche molto distanti. La sfida lanciata agli artisti è quella di raccontare questi 40 anni di virus con la propria sensibilità e la propria cifra stilistica. Il tutto facendosi guidare dalle suggestioni delle Associazioni di pazienti, dalle "case studies" sugli artisti che per primi, a partire dagli anni '90, hanno raccontato l'HIV quando era un tabù, quando faceva veramente paura perché di questo virus si moriva prematuramente. La Residenza ha preso il via il 24 maggio a distanza utilizzando una piattaforma digitale di comunicazione.

Fermare il virus. «Nella storia dell'arte contemporanea l'Italia ha un ritardo nell'idea di usare l'arte come strumento di sensibilizzazione a importanti temi sociali - spiega Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima la fiera internazionale di arte contemporanea e curatrice del progetto - e mi riferisco in particolare al tema dell'Aids che in America ha una lunga tradizione di attivismo e anche di rappresentanza nei musei, mentre in Italia ha visto pochissimi lavori». Aggiunge: «Per questa ragione il progetto Together we can stop the virus è stata l'occasione di mettere in contatto l'arte contemporanea con un tema tanto importante. L'arte, non utilizzando le parole ma solo le immagini, ha il potere di andare a colpire direttamente l'emotività delle persone trasmettendo messaggi anche molto profondi. Progetti artistici di questo tipo hanno sicuramente un futuro e la capacità di rendere in qualche modo il mondo migliore». Cristina Le Grazie, Direttore Medico di Gilead Italia, invece, spiega: «Il claim di Gilead a livello globale, Creating possible, è un motto che rispecchia totalmente il nostro approccio: vale a dire generare un vero cambiamento attraverso l'innovazione, sia a livello terapeutico che a livello di consapevolezza». Aggiunge: «Together we can stop the virus in particolare vuole raggiungere il grande pubblico ma soprattutto le nuove generazioni che non hanno vissuto il periodo più oscuro della storia dell'HIV». Conclude: «Spesso i giovani non sono consapevoli dei rischi perché pensano che questo genere di virus sia molto lontano da loro. Ecco perché abbiamo voluto che fossero proprio dei giovani a raccontare attraverso l'arte questi 40 anni di HIV».

I vincitori. Sono tutti giovani artisti e creativi molto interessati sia ai nuovi linguaggi sia al tema dell'arte che racconta la salute. Da Lisa Pizzato classe 1996, grafica, illustratrice, con una particolare attenzione per animazione e Realtà Aumentata a Giulia Tolino classe 1983 che ha lavorato nel campo dei videogiochi, dedicandosi poi all'animazione. Poi c'è Marco D'Ambrosio alias Adam Tempesta illustratore e grafico, che ha pubblicato due graphic novel, ha lavorato per Il Corriere della Sera, e il duo Allegria Bulgaria composto da Arianna Di Betta e Cecilia Piazza classe 1990 e 1988 entrambe graphic designer visionarie di Bologna. La rosa si chiude con Raffaele Lasciarrea classe 1982 che per l'Accademia di Belle Arti di Brera ha realizzato una piattaforma multimediale che indaga il rapporto tra arte e tecnica.

Le opere. Le opere sono il frutto di una collaborazione tra i rappresentanti delle Associazioni di pazienti e artisti che hanno dato un'identità visiva, emozionale e concettuale a ogni opera. Temi come la diagnosi, il trattamento, il successo delle terapie, la qualità di vita, più una nuova opera su HIV e COVID-19 sono i momenti chiave raccontati dalla mostra. Gabriele Genova ha realizzato l'opera sullo stigma «Ho qualcosa da mostrarvi», il collettivo Mira l'opera sul tema della Diagnosi «L'importante è saperlo», Viola Gesmundo ha interpretato il tema del Trattamento con l'opera «Verso se stessi», Andrea Zu il tema del Successo delle terapie con l'opera «Luuv Story», Adolfo di Molfetta ha realizzato l'opera sul tema della Qualità della vita «Niente paura», Francesca Guiotto ha firmato «Conscious Blooming» un' opera che vuole trasmettere il messaggio che HIV e COVID-19 possono essere affrontati grazie al fiorire comune di una consapevolezza e ricerca da parte di tutti. Il collettivo Bepart si è poi occupato di animare con la realtà aumentata le illustrazioni.

Un problema non risolto. Le ultime stime ci dicono che in Italia vivono 120mila persone con HIV, di cui circa 18mila inconsapevoli dell'infezione. È il cosiddetto sommerso. L'HIV, infatti, può non manifestare sintomi per lungo tempo ed essere diagnosticata anche a distanza di anni (4,5/5 in media). Bisogna aggiungere tuttavia che oggi esistono delle terapie che hanno permesso passi in avanti incredibili rispetto a 25 anni fa. Terapie talmente efficaci da consentire l'azzeramento della possibilità di trasmettere il virus ad altre persone e a garantire una migliore qualità di vita a chi ha contratto il virus. Gilead e l'HIV Gilead Sciences è una società biofarmaceutica californiana che da oltre trent'anni ricerca e sviluppa farmaci innovativi per contribuire alla salute del mondo. L'azienda è impegnata sul fronte del progresso in medicina per la prevenzione e il trattamento di patologie come HIV/AIDS, malattie epatiche, ematologia e oncologia. Milioni di persone affette da HIV nel mondo, oggi, ricevono una terapia antiretrovirale fornita da Gilead o da produttori partner dell'azienda. Gilead ha sede a Milano e collabora con i partner scientifici, accademici, industriali e le comunità locali per sviluppare e rendere disponibili le terapie anche per i pazienti italiani.

·        La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk il 9 maggio 2021. La tripanofobia (o belonefobia), ovvero la paura degli aghi, è molto comune: si ritiene che fino al dieci per cento della popolazione mondiale ne sia affetta, il che significa che milioni di persone saranno alle prese con la loro paura quando dovranno vaccinarsi contro il Covid-19 . In alcuni casi, il solo pensiero di un ago è sufficiente per far svenire qualcuno. Altri sintomi della fobia includono: vertigini, bocca secca, palpitazioni, sudorazione, tremore, mancanza di respiro e nausea. Lo svenimento si verifica quando la vista - o anche solo il pensiero - di un ago stimola eccessivamente il nervo vago, che va dal cervello all'intestino. Questo nervo regola molte funzioni, tra cui la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, e questa sovrastimolazione porta a un calo immediato di queste funzioni. Ciò riduce il flusso sanguigno al cervello, provocando una breve perdita di coscienza. Tale reazione è subconscia ed è piuttosto difficile da ignorare. È possibile che questa risposta alla visione degli aghi venga innescata durante l'infanzia, un fenomeno noto come riflesso condizionato. Tuttavia, proprio come si può essere addestrati a superare paura di volare è possibile addestrarsi per confrontare la paura degli aghi. I trattamenti includono una combinazione di terapie cognitivo comportamentali (CBT): la terapia di conversazione e la terapia espositiva. La prima insegna a sostituire i pensieri negativi (paura dell'ago) con quelli positivi. La terapia espositiva, che viene utilizzata per trattare altre fobie come la paura dei ragni, comporta l'esposizione graduale di una persona allo stimolo che teme, per renderla meno scoraggiante. Mentre tali interventi potrebbero curare fobia degli aghi, il riflesso dello svenimento è più difficile da vincere. L’unica soluzione sarebbe di sdraiarsi per qualsiasi iniezione o esame del sangue.

·        La siringa.

Marco Belpoliti per "la Repubblica" l'1 gennaio 2021. Da negativa a positiva. La siringa è la protagonista nella campagna di vaccinazione contro il Covid, dopo essere stata nei decenni passati un simbolo negativo, sinonimo di eroina, che negli anni Settanta e Ottanta ha fatto strage di ragazzi e ragazze in Italia e in America: il cosiddetto "buco" che si praticava il tossicodipendente iniettandosi la sua dose giornaliera. La letteratura della droga è piena di siringhe passate di mano in mano, di aghi che trapassano braccia e gambe alla ricerca di vene in cui inoculare la sostanza. Le siringhe hanno costituito un oggetto negativo, oltre a essere state nell' ambito medico uno strumento formidabile di analisi, cura e protezione. Il suo nome deriva da una ninfa, Syringa, tramutata in canna. Prima di indicare il cilindro di vetro con stantuffo per iniezioni, il termine designava uno strumento musicale a fiato formato da una o più canne tenute insieme da corda in uso agli antichi pastori. La sua invenzione moderna è attribuita a due medici, un francese, Charles Gabriel Pravaz, che nel 1852 costruisce un dispositivo per iniettare nelle arterie degli equini e dei montoni una soluzione di ferro, e uno scozzese, Alexander Wood, che in contemporanea mette a punto la medicazione ipodermica per curare le nevralgie e prelevare il sangue per le analisi. Come ogni invenzione umana ha avuto bisogno dell'ingegno di molte persone per modificarsi. Si è passati dalle siringhe d' acciaio con ago d'oro e punta di acciaio a quelle con il corpo interamente di vetro, che si potevano sterilizzare con l'acqua bollente. La siringa di Pravaz, arrivò in Italia negli anni dell' Unità: a Brescia con Bartolomeo Guala, il primo ad usarla, e a Milano, dove Ambrogio Gherini, un chirurgo, l'anno seguente cerca di contrastare un caso di tetano iniettando del curaro. Ci volle una lunga opera di persuasione per convincere tutti i medici a munirsi di questo prezioso strumento, facile da usare e così utile; ed è stata la Prima guerra mondiale a diffonderla in modo massiccio entrando nella dotazione sanitaria degli eserciti, utilizzando oltre al vetro la gomma indurente. Poi nel 1956 un farmacista neozelandese, Colin Murdoch, brevetta la siringa monouso di plastica e nel 1961 la Beckton Dikinson la mette in commercio: Plastipak. A Benjamin A. Rubin viene attribuita l'invenzione dell' ago da vaccinazione. Negli anni Duemila due ingegneri americani, Mark Prausnitz e Mark Allen, hanno invece realizzato il microago indolore alternativo all' ago e alla siringa composto di microscopici aghi di silicio: un cerotto applicabile alla cute. Che l'iniezione costituisca tuttavia qualcosa di preoccupante, se non proprio d'inquietante per molti, lo testimonia Freud nella Interpretazione dei sogni (1900), dove appare Irma, una giovane in cura da lui. Freud sogna che le viene iniettato un preparato di propile, di cui vede la formula e pensa: «Non si fanno queste iniezioni con tanta leggerezza probabilmente anche la siringa non era pulita». Nella campagna di vaccinazione appena iniziata le siringhe sono un simbolo di vita, cui s' adatta bene la pubblicità degli aghi Pic indolor degli anni Ottanta. Una bambina timorosa sta per ricevere la puntura dell' ago, ed esclama sorpresa: «Già fatto?». Da fare, fatto!

·        L’Emorragia Cerebrale.

Michele Merlo di Amici e la leucemia fulminante, "nel 95% dei casi si guarisce". Pesantissimo atto d'accusa contro i medici. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Il day after è difficilissimo. La morte ad appena 28 anni di Michele Merlo, ex concorrente di Amici, ha lasciato un vuoto immenso ed un grande sgomento. Colpito da una forma fulminante di leucemia, il cantante ha lottato per alcuni giorni tra la vita e la morte in terapia intensiva. E la sua famiglia non si dà pace perché Michele, dopo i primi sintomi, era andato in ospedale. Suo padre Domenico a Il resto del Carlino affida tutta la propria rabbia e rancore dicendo che "si era recato all’ospedale di Vergato venendo rispedito a casa senza neppure un referto medico”. Infatti, all'ospedale di Bologna Merlo arriva in gravissime condizioni con un'emorragia cerebrale provocata dalla leucemia fulminante. Il ragazzo, nella notte tra giovedì e venerdì, viene operato d’urgenza. Ma domenica sera non ce la fa. Muore giovanissimo. La leucemia fulminante che ha stroncato Michele è una patologia grave ma dalla quale se presa in tempo si guarisce nel 95% dei casi. Michele/Mike Bird purtroppo è rientrato in quel 5% che non ce la fa, ed è da capire quanto abbia pesato la possibile negligenza dei medici del pronto soccorso.  Adesso restano tanti dubbi. Troppi interrogativi. “Questa storia ha moltissime ombre, su cui vogliamo sia fatta luce”, dice papà Domenico. Intanto, da fonti giornalistiche s'apprende che l’Ausl avrebbe avviato un’indagine interna. Una notizia che sicuramente non cambia nulla: nessuno potrà restituire alla vita un ragazzo pieno di talento come Michele. E la sua famiglia annuncia battaglia. “Sicuramente un’indagine la faremo partire noi: mi sono già rivolto agli avvocati e abbiamo intenzione di sporgere denuncia. Ci sono moltissime ombre e noi vogliamo chiarezza", racconta a Il Resto del Carlino. Secondo la versione di Domenico Merlo si tratterebbe di malasanità (un'ipotesi, ovviamente, tutta da verificare nelle sedi opportune). “Mercoledì pomeriggio mio figlio è stato all’ospedale di Vergato e, come ci ha poi raccontato, c’era praticamente solo lui, di paziente. Eppure, il medico che lo ha accolto gli avrebbe intimato di ’non intasare gli ospedali per un mal di gola e due placche’. Invece mio figlio oltre a placche, febbre e mal di gola, aveva un terribile mal di testa, sangue al naso ed ematomi sul corpo", racconta Domenico. Michele, dopo la visita al Pronto soccorso, avrebbe raggiunto la sua fidanzata (che vive in una frazione di Marzabotto). "Le cose sono peggiorate, fino alla crisi di giovedì sera. E al burrascoso intervento del 118…”, spiega ancora Domenico. Che annuncia il ricorso ai legali. "L’equipe del dottor Carlo Coniglio e tutto il decimo piano del Maggiore sono stati favolosi. Si sono scusati per il trattamento che ci era stato riservato. Abbiamo già avuto due incontri con il direttore del reparto per fare il punto della situazione. Vogliamo capire se questo si poteva evitare. Perciò chiederemo anche che sia disposta l’autopsia sul corpo di Michele. Poi potremo pensare al funerale e a dargli l’ultimo saluto”, conclude il padre di Michele Merlo. 

Leucemia fulminante: qual è la causa, come si manifesta, cosa si può fare. Alice Politi l'8/6/2021 su Vanityfair.it. Un forte mal di gola e un mal di testa lancinante: questi i sintomi descritti nel suo ultimo post su IG da Michele Merlo, il cantante 28enne originario di Marostica, in provincia di Vicenza, morto nella notte tra il 6 e il 7 giugno a causa di un’emorragia cerebrale determinata da una leucemia fulminante, il nome con cui viene più comunemente definita la Leucemia Acuta Promielocitica. Una malattia che, nel caso del giovane Merlo, si è manifestata in tutta la sua gravità nell’arco di pochissimi giorni, purtroppo senza lasciargli scampo. Ma come si diagnostica la Leucemia Fulminante, quali sono i sintomi più comuni e soprattutto: cosa si può fare? Ne abbiamo parlato con Matteo Della Porta, Professore Associato di Ematologia presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Humanitas University di Rozzano, Milano. «La prima cosa da sottolineare è che si tratta comunque di una forma molto rara di leucemia: tra tutte, la Leucemia Acuta Promielocitica rappresenta l’1 o il 2% dei casi», spiega Della Porta. «La sua caratteristica consiste nel fatto che le cellule leucemiche sono in grado di liberare nel sangue sostanze che determinano una condizione molto grave, definita coagulazione intravascolare disseminata. Questo processo di coagulazione rende facile la formazione di emorragie acute in organi vitali come appunto il cervello, cosa che nelle altre forme leucemiche non avviene». La Leucemia Acuta Promielocitica si compone pertanto di una fase iniziale molto critica che corrisponde all’insorgere della malattia e alla sua immediata manifestazione nella forma più acuta, nell’arco di pochi giorni, con il rischio di morte improvvisa nell’arco della prima settimana. «Il paradosso è che si tratta della forma di leucemia in assoluto più curabile. Se si passa la fase iniziale, la possibilità di sopravvivenza supera il 95%.  Non solo: la malattia può essere curata semplicemente con farmaci mirati, senza l’impiego di chemioterapia», aggiunge l’ematologo. I sintomi più comuni? «Comprendono sanguinamento gengivale, stanchezza, febbriciattola. Si tratta di manifestazioni apparentemente comuni, ma se non sono associabili a una causa precisa è importante rivolgersi subito al proprio medico: per diagnosticare la leucemia fulminante basta infatti un classico esame del sangue». Tipica dell’adulto, la Leucemia Acuta Promielocitica non si riscontra nei bambini o negli adolescenti e non rientra nelle malattie dovute a una predisposizione genetica. «Al momento non si conoscono i fattori scatenanti di questa forma così acuta, non si può pertanto fare prevenzione. Semplicemente, è fondamentale prestare attenzione ai propri sintomi, allertando subito il medico nel caso persistano», suggerisce Dalla Porta.

Cos'è la leucemia fulminante, malattia che ha stroncato Michele Merlo. Maria Girardi il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Il giovane cantante Michele Merlo, in arte Mike Bird, si è spento a causa di un'emorragia cerebrale. A causarla, la leucemia promielocitica acuta o fulminante, uno dei tumori del sangue più pericolosi. Non ce l'ha fatta Michele Merlo, in arte Mike Bird, cantante della sedicesima edizione di "Amici" di Maria De Filippi e di "X Factor". Il giovane 28enne si è spento per un'emorragia cerebrale causata da una leucemia fulminante (scientificamente nota come leucemia promielocitica acuta) che, in soli cinque giorni, non gli ha lasciato scampo. Nella notte tra mercoledì e giovedì il ragazzo ha accusato un grave malore. All'arrivo dei sanitari del 118 le sue condizioni sono apparse subito disperate e a nulla è servito l'intervento chirurgico d'urgenza a cui è stato sottoposto presso l'Ospedale Maggiore di Bologna. Questa tragedia lascia tutti sgomenti e fa precipitare in un vuoto d'angoscia e di tristezza gli affetti più cari di Michele e il mondo artistico. Cos'è la leucemia fulminante che lo ha colpito e come si manifesta?

Cos'è la leucemia promielocitica acuta. La leucemia promielocitica acuta (LAP), un sottotipo della leucemia mieloide acuta, è la forma più aggressiva e grave dei tumori del sangue. Venne studiata per la prima volta dal medico norvegese Leif Hillestad nel 1957 e successivamente analizzata in maniera più dettagliata dall'ematologo francese Jean Bernard nel 1959. Le caratteristiche genetiche della stessa furono descritte nel 1977 dalla genetista Janet Rowley che identificò la causa della malattia nella traslocazione acquisita, non presente dunque dalla nascita, di materiale genetico tra i cromosomi 15 e 17. Fu poi nel 1991 che alcuni ricercatori italiani, guidati da Francesco Lo Coco e Giuseppe Pelicci, scoprirono i geni RAR alfa e PML coinvolti nella traslocazione. La leucemia promielocitica acuta, di cui ogni anno in Italia si registrano circa 150 casi, può manifestarsi a qualsiasi età, anche se è stato notato un picco di incidenza intorno ai 40 anni. Della stessa, che viene riscontrata più frequentemente tra i soggetti latino-ispanici, non sono purtroppo noti i fattori di rischio e la precisa motivazione della traslocazione genetica alla base della sua insorgenza. La gravità di questa forma leucemica consiste nei problemi di coagulazione che compaiono all'improvviso. Si viene così a instaurare una condizione nota come "coagulazione intravascolare disseminata". A causa dei globuli bianchi alterati, il sangue diventa denso in più punti, provocando così emorragie (soprattutto cerebrali) quasi sempre fatali.

Sintomi e diagnosi della leucemia promielocitica acuta. I sintomi della leucemia promielocitica acuta sono l'esito di una grave coagulopatia dovuta alla presenza di granuli all'interno delle cellule e sulla membrana di queste ultime. Tale anomalia si traduce in problemi di coagulazione e in emorragie che portano i pazienti al decesso nel giro di pochi giorni. Un individuo colpito dalla malattia può, dunque, accusare:

Emorragia cerebrale, quali sono i sintomi?

porpora;

epistassi;

emorragie gengivali;

sanguinamenti degli organi interni (sistema nervoso centrale, apparato digerente, apparato genito-urinario);

febbre;

stanchezza;

malessere generale.

La diagnosi si basa sull'esecuzione di un esame al microscopio dello striscio di sangue periferico e di un esame emocromocitometrico. Indispensabile, poi, l'esecuzione di un aspirato midollare, di uno screening coagulativo e di una valutazione citogenetica. Quest'ultima consente anche la modulazione della terapia da intraprendere dopo la remissione.

Leucemia promielocitica acuta, come si cura?

Negli anni appena successivi alla sua scoperta, una diagnosi di leucemia promielocitica acuta era quasi sempre una condanna a morte. La sopravvivenza, infatti, raramente superava il 40%. Con il tempo la medicina ha fatto passi da gigante e oggi, tempestività permettendo, si può sperare nell'efficacia di un approccio terapeutico basato sulla combinazione chemioterapica di triossido di arsenico con acido retinoico (un derivato della vitamina A). Il primo sollecita la morte (apoptosi) delle cellule cancerose. Il secondo, invece, presiede al percorso di differenziazione cellulare dei promielociti. I pazienti leucemici possono beneficiare, altresì, di trasfusioni di plasma fresco, emoderivati e concentrati piastrinici. Seppur in questo modo si giunga a una percentuale di guarigione che sfiora il 90%, non sono impossibili le recidive (20-25%). In questi casi, una volta ottenuta la seconda remissione, è opportuno valutare la possibilità di un trapianto di cellule staminali emopoietiche, autologo oppure allogenico.

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza...

·        Il Mercato della Cura.

Striscia La Notizia, cosa ha scoperto sul paracetamolo: succede solo in Italia. Giada Oricchio su Libero Quotidiano il 18 novembre 2021. Il prezzo del paracetamolo in Italia è molto più alto degli altri paesi europei, ma per abbassarlo l’Aifa chiede un anno di tempo. La scoperta è dell’inviato Max Laudadio  di “Striscia la Notizia”, il programma preserale di Canale 5, che ha indagato sul prezzo del farmaco: "Siamo andati in 4 farmacie scelte a caso e abbiamo comprato confezioni di paracetamolo 500 mg da 20 compresse così da poter stimare la media del costo di ogni singola compressa. Il test ha rivelato che il costo medio di questo farmaco è 4,20 euro a confezione, ovvero 0,210 euro a compressa. In Svizzera, una scatola di paracetamolo da 16 compresse costa 2,45 franchi, quindi 0,145 euro a compressa, il 44% in meno rispetto all'Italia. In Francia il prezzo di una confezione è di 2,18 euro cioè 0,136 euro a pastiglia ovvero il 54% in meno che in Italia. In Germania una compressa arriva a costare 0,089 euro, quindi il 135% in meno rispetto a noi. Nel Regno Unito siamo al 262% in meno, in Spagna al 536% in meno, per arrivare addirittura a -900% per ogni singola compressa in Albania”. Laudadio ha portato i risultati dell’indagine a Francesco Trotta, membro dell’Aifa, Associazione italiana del farmaco che ha spiegato: “Noi abbiamo dei confezionamenti che sono standard come numero di compresse cioè 16 o 20. Perché non vendiamo scatole da 50? Per motivi di sicurezza”. Laudadio però non è rimasto soddisfatto dalla risposta: “Ma che deterrente è fare confezioni da 20 compresse per evitare il sovradosaggio quando il paracetamolo si compra senza ricetta?”. Trotta ha promesso che “entro la fine dell'anno prossimo ci sarà un confronto con le aziende” aumentando le perplessità del tg satirico che si è chiesto se non sia troppo un anno per rivedere un prezzo a favore del consumatore.

Chiara Cajelli per dissapore.com il 12 novembre 2021. Il fatto che il raffreddore migliori ingerendo latte e cognac è cosa nota, ma io credo di più al fatto che alcune generazioni di nipoti siano cresciute più felici (e… allegre) di quelle di oggi, che vanno avanti a Fluimucil. I rimedi della nonna sono soluzioni da rispettare, e che fanno parte di un tenero spaccato casalingo e spesso “povero”, ma la medicina insegna che l’omeopatia ha poco potere contro naso chiuso e starnuti a profusione.

Mio papà Mario mi riporta sempre una freddura inglese: il raffreddore dura una settimana se non ti curi, e dura una settimana se ti curi. Che significa solo una cosa, ovvero che te lo becchi e non ci puoi fare molto. Ma, ecco, cercare una soluzione nello zenzero e nella castagna in tasca pur di non assumere farmaci non ha comunque molto senso. 

E la cucina è fucina ideale in cui trovare tutti i rimedi della nonna contro il raffreddore. Vediamoli uno per uno, per fare un passo nel passato, per scoprire comunque oggettive (seppur inutili, in questo caso) proprietà di alcuni ingredienti, per spiegare miti e usanze, o per ridere e sentirsi meglio.

Cognac, rum, ho letto anche di vino rosso: non è raro trovare tutt’oggi suggerimenti su come usare alcolici nella puericultura, e non è raro trovare persone che bevono davvero un bel bicchiere di rum o cognac per trovare sollievo. Acqua calda, alcol, chiodi di garofano, zucchero: questa bomba non fa altro che irritare e gonfiare le mucose – già messe a dura prova durante un raffreddore – e favorire la disidratazione.

Un altro classicone è il latte caldo col miele (o, spesso, con alcol). Il latte caldo è una coccola che ci fa tornare bimbi, la dolcezza del miele in abbinamento è deliziosa e sa di caramella, e le proprietà lenitive e antinfiammatorie del miele sono vere. Ma, credetemi, quella cucchiaiata melliflua in 400 ml di latte non aiuterà proprio nulla. Anzi, vi manderà in botta glicemica. In più, aggiungo che il miele ha proprietà naturali se di qualità e puro, altrimenti manco quelle.

Lo zenzero ha preso piede come incredibile panacea: nelle diete, come super food detox, come antinausea – gettonatissimo nelle gravidanze, dicono – come digestivo. E cura anche il raffreddore! Tutte cose vere, ma attenzione: le proprietà benefiche di un ingrediente sono oggettive se assunte con sistematicità e in grandi quantità. Ci si mette di mezzo poi la qualità dell’ingrediente, lo stile di vita, le abitudini alimentari di contorno, l’età, l’anamnesi. Come per il miele: due fette di zenzero infuse nell’acqua non “stappano” il naso.

Questo è il mio preferito, mi fa tenerezza e ci sono affezionata. Abito a ridosso di un bel bosco e comunque, ogni anno, scelgo qualche ghianda e castagna e le tengo fino all’estate. Tuttavia, lo faccio solo perché adoro l’autunno. Mia nonna era farmacista, quindi l’usanza omeopatica non ha mai attecchito in casa mia. 

Andrebbe tenuta in tasca una castagna matta, che secondo il mito sarebbe potente contro il virus del raffreddore. Ebbene, sapete perché? Anticamente i frutti dell’ippocastano erano macinati e dati ai cavalli per rafforzarli – la radice ippo in ippocastano significa infatti “cavallo” in greco… per gli umani questa cosa non solo è inutile ma è anche velenosa.

A Milano e un po’ in tutta l’Italia a Nord c’è usanza di conservare una fetta del panettone aperto il 25 dicembre, fino al 3 febbraio ovvero fino al giorno di San Biagio. Il detto recita che “San Biase el benediss la gola e el nas” (San Biagio benedice la gola e il naso): non c’è molto altro da dire, se non che è una delle tradizioni natalizie italiane che non migliorano la salute ma scaldano sicuramente il cuore.

Stai male? Ti faccio il brodo di pollo. Quante volte avete visto questa scena nei film, o ve lo siete sentiti dire? Il fatto è che il brodo di pollo, se il “pollo” è di qualità, se fatto in casa, se fatto con aggiunta di verdure di qualità, è per davvero un ottimo alimento: nutre, contiene grasso e minerali, consente di non sprecare ossa e scarti di verdure usate per altri scopi, è buono, scalda corpo e mente. Ma non cura il raffreddore, stop.

Sì avete letto bene: cipolle contro il raffreddore. Nello specifico, contro la tosse. Bisogna affettare un bel po’ di cipolle, coprirle con abbondante zucchero, aspettare una notte che avvenga la macerazione, scolarle e raccoglierne il siero o sciroppo.  

Leggenda vuole che bevendone un cucchiaio si avrebbe immediato sollievo dalla tosse grazie alle proprietà espettoranti e calmanti di questo ortaggio. Se volete provare, chi sono io per impedirvelo… ma ecco preferisco usare cipolle e zucchero per fare un bel contorno.

Adoro la salvia sia da assaggiare sia da annusare, e in qualche modo sono convinta che l’odore balsamico delle erbe aromatiche in qualche modo aiuti a combattere meglio un malanno. Che sia un malanno vero o figurato poco importa, l’autosuggestione è uno strumento potente, magico.  

La salvia è usata da tempo immemore come rimedio per il raffreddore, per respirare meglio, come infuso o come unguento se tritata e miscelata allo strutto. Eh sì, come quando si prepara un arrosto farcito: una bella massaggiata e via in forno, belli conditi.

Ho tre brutte notizie da dare. La prima è che, purtroppo, la vitamina C non è una medicina e al massimo può aiutare un po’ a prevenire un malanno. La seconda è che non bastano un’arancia ogni tanto o trentadue arance per una settimana all’anno per avere il pieno di vitamina C e salvarsi da raffreddore. La terza è che le arance non sono assolutamente l’alimento più ricco di vitamina C: prima di loro ci sono i peperoni, le fragole, i kiwi, i broccoli.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 17 ottobre 2021. Oltre un terzo degli ultra 60enni italiani ingoia più di dieci compresse medicinali al giorno, un fenomeno legato al timore dell'avanzare dell'età nell'illusione di favorire l'evoluzione della propria salute in modo migliore e ritardare l'avvento delle patologie, mentre in realtà non sempre questa abitudine acquisita corrisponde a cure appropriate per tale finalità. L'utilizzo dei farmaci in quantità elevata e mista inoltre, risulta in aumento progressivo fino agli 84 anni, dopo di che segue un declino dovuto ad un effetto naturale, poiché solo le persone più sane e con meno complicanze di malattie acute o croniche in atto raggiungono l'età più avanzata. Le categorie terapeutiche più prescritte dopo i 60 anni sono gli antiipertensivi, seguiti dai gastroprotettori e dagli antibiotici, e durante il periodo dell'emergenza epidemica da Covid19 si è riscontrato un sovrautilizzo diffuso della vitamina D, peraltro non sostenuto da evidenze scientifiche. Altri farmaci utilizzati quotidianamente, soprattutto dopo i 65 anni, sono quelli che regolano la coagulazione e rendono più fluido il sangue, come l'acido acetilsalicilico (aspirina), i fans (farmaci antinfiammatori non steroidei), gli anticoagulanti e gli antiaggreganti, quelli che curano il reflusso gastroesofageo, gli ipolipemizzanti per il colesterolo e gli anti-osteoporotici. Sono gli uomini (30,3%) più delle donne (29%) ad assumere oltre dieci medicinali al giorno contemporaneamente, e in una buona percentuale di casi tali sostanze vengono assunte con il "passaparola", ovvero su consiglio di amici e conoscenti che si atteggiano a esperti scientifici, sottovalutando il fatto che la politerapia multipla, se non prescritta da un medico, spesso può aumentare il rischio di interazioni tra i principi attivi contenuti nelle compresse, con l'evento avverso di modificare l'effetto terapeutico del farmaco. Per esempio l'uso ormai comune negli over 65, con prevalenza doppia delle donne rispetto agli uomini, di sostanze psicotrope (antidepressivi, benzodiazepine e antipsicotici) molto aumentato durante la pandemia per regolare i disturbi del sonno e le sindromi ansiose e depressive, nella interazione con gli altri farmaci assunti regolarmente, ha provocato molti danni cognitivi e mnemonici, disturbi cardiaci, neurologici ed urinari, per cui gli effetti negativi di tali sostanze hanno superato di gran lunga i benefici desiderati e ridotto l'aderenza al trattamento e alla sua finalità curativa. Errori che possono far ritardare la guarigione desiderata o far sbalzare dei valori da tenere sotto controllo e addirittura portare diritti a un letto di ospedale per il cattivo uso dei farmaci. Molto dipende naturalmente dalla durata della cura, dallo schema di assunzione e dalla scelta delle formulazioni più adatte, senza sottovalutare l'aggiunta di farmaci da banco, dei vari integratori e prodotti fitoterapici spesso non denunciati al medico curante che possono interferire con il corretto funzionamento dei principi attivi, per cui nello schema terapeutico va valutata anche questa aggiunta percepita da molte persone come un innocuo ritocco benedico della cura quotidiana. Non bisogna aver paura dei farmaci, poiché ognuno di loro ha una sua azione terapeutica ben precisa e mirata, nella maggioranza dei casi davvero molto efficace, ma l'interazione tra molecole diverse o tra medicamenti non compatibili, può comportare dei rischi per la salute, per cui spesso è necessario diminuire il dosaggio di un farmaco che si usa regolarmente, se non addirittura interromperlo, quando vi è la condizione necessaria ad assumerne un altro non compatibile, poiché quest' ultimo potrebbe causare effetti collaterali anche severi in concomitanza con altre molecole, anche perché lo stesso principio attivo usato continuamente per anni potrebbe sviluppare il fenomeno dell'assuefazione e perdere quindi di efficacia. Per tali ragioni i medici spesso, quando non ci sono le condizioni di sospendere un farmaco "salvavita", consigliano un cambio di prescrizione con molecole più nuove, moderne ed efficienti, che hanno meno reazioni interattive con gli altri principi attivi che devono essere introdotti nella multipla terapia. In realtà più passano gli anni, più si allunga la lista dei farmaci che si assumono, e con l'allungamento dell'età media di vita aumentano le diagnosi di malattie, cosa che si accompagna alla pioggia di medicine somministrate dai vari specialistiche si consultano, senza tener conto che non esiste l'equazione molti farmaci uguale a vita più lunga, al punto che molti anziani, bombardati dagli orari di assunzione di quasi 15 pillole al giorno, quando cominciano ad accusare prurito, dolore, disturbi intestinali e senso di fatica, sospendono del tutto le compresse con un effetto rigetto, che complica ancora di più la loro situazione clinica, magari rinunciando proprio al medicinale essenziale per la loro salute. Ma allora come curarsi in sicurezza quando si è affetti da più condizioni patologiche, quasi sempre croniche, evitando errori ed effetti collaterali? Serve sempre una visione generale e di coordinamento da parte del medico di base, che conosce tutto di ogni paziente e che è in grado di regolare ed armonizzare le terapie prescritte dai colleghi specialisti, tra le statine per abbassare il colesterolo, l'aspirinetta per evitare l'infarto, la pillola per tenere bassa la pressione, il gastroprotettore per la digestione oil medicinale per riuscire a dormire di più, tenendo sempre presente la regola che troppi farmaci non allungano la vita, ma, se assunti a caso, aumentano il rischio di effetti collaterali. 

Ps: Un italiano over 60 su dieci, ovvero oltre sei milioni di persone, prende anche più di dieci farmaci al giorno, e uno su due assume tra cinque e nove pillole, spesso in maniera non corretta, e quasi uno su tre ha una prescrizione non appropriata, poiché non vengono prese in considerazione le interazioni farmacologiche, con assunzioni prolungate oltre le reali necessità, spesso con dosaggi inadeguati.

Teodoro Chiarelli per “La Stampa” il 30 agosto 2021. Lei, da piccola, voleva fare l'astronoma e sognava di occuparsi di pianeti, stelle e galassie. Lui già da bambino era portato per i lavori in legno e ancora oggi realizza a mano mobili di ottima fattura. Ritrovatisi al vertice del più importante gruppo farmaceutico italiano, la Menarini di Firenze, alla scomparsa del padre Alberto nel maggio del 2014, i fratelli Lucia e Giovanni Alberto Aleotti sono quanto mai distanti dallo stereotipo del capitano d'industria. Possiedono un'azienda da 3,75 miliardi di euro di fatturato (per il 76% all'estero), al quindicesimo posto in Europa e al trentaduesimo nel mondo nella hit parade del settore, presente in 140 Paesi e con 17.650 dipendenti. Eppure, conducono una vita, se si può dire, assolutamente normale. «Non facciamo vita da jet set - ha dichiarato tempo fa Lucia, 55 anni, laurea in economia, sposata e con due figli - Personalmente non amo lo star system e mio marito condivide questo profilo di non visibilità. Arrivo a dire che siamo noiosi e banali». Anche Giovanni Alberto, 50 anni, laurea in economia, sposato con due figlie, non offre spunti di cronaca mondana. Stesso low profile e strenua difesa della privacy. Basti pensare che le scarne note biografiche rese note dall'azienda non riportano i nomi dei consorti dei due fratelli e tanto meno dei loro figli. Si sa che Lucia trascorre le vacanze nella villa di famiglia a Lerici e che sino a pochi anni fa girava d'estate l'Europa in camper con marito e figli. Giovanni Alberto, invece, preferisce i soggiorni in Toscana, dove dà sfogo alla sua creatività con il legno e si diletta a produrre birra. Affiatatissimi e legatissimi fra di loro, i due fratelli abitano anche a poca distanza l'uno dall'altra in due ville sulla collina verso Fiesole. Due costruzioni vicinissime alla villa della mamma Massimiliana. All'ora di pranzo, Lucia e Giovanni Alberto Aleotti escono puntualmente dall'azienda e vanno a colazione dalla madre con consorti e figli. Il rito si ripete tutti i giorni. Spesso Lucia fa prima un salto alla Esselunga vicino a casa. Di assoluto rilievo, al contrario, le loro attività filantropiche che ne fanno i principali mecenati della loro città. Prima di tutto il sociale, anche se gli Aleotti non amano suonare la grancassa. Se è nota la collaborazione della Menarini con la Fondazione Tommasino Bacciotti per donare appartamenti destinati a ospitare i genitori di bambini affetti da tumore in cura presso l'ospedale Meyer, non molti sanno che grazie agli Aleotti il comune di Firenze ha potuto ristrutturare 60 case popolari. L'ultimo intervento, forse quello più eclatante, risale al giugno dello scorso anno in pieno boom del Covid-19: la decisione di costruire a Firenze il diciassettesimo stabilimento del gruppo che si era già deciso di realizzare all'estero. Centocinquanta milioni di investimento per 250 nuovi posti di lavoro più altri 250 nell'indotto. «Una scelta fatta col cuore - il commento di Lucia e Giovanni Alberto - Volevamo dare un segnale di fiducia in un momento così cupo. Un contributo concreto all'economia e all'occupazione. Siamo un'azienda italiana e siamo orgogliosi di esserlo». Non solo: Menarini ha riconvertito subito parte del suo stabilimento di Firenze per produrre tonnellate di gel igienizzante da donare alla Protezione Civile. Importante, poi il contributo alla valorizzazione del patrimonio artistico. Da sessant' anni, ogni anno, la Menarini pubblica un libro d'arte, mentre sul proprio canale You Tube ha lanciato le "Pills of Art", le Pillole d'arte, per far conoscere con brevi filmati, ricchi di aneddoti, il patrimonio artistico italiano, principalmente del Rinascimento italiano. Un successo, con 20 milioni di visualizzazioni. Tutto questo mentre in poco più di sette anni hanno guidato la multinazionale del farmaco ben oltre gli orizzonti geografici raggiunti dal padre Alberto, spaziando dall'Europa, all'Estremo Oriente, alle Americhe. E dire che alla scomparsa del vulcanico e, secondo alcuni, un po' disinvolto genitore, pochi scommettevano sulla loro tenuta. Questo perché oltre all'azienda, il padre ha lasciato ai figli un pesante contenzioso con il fisco che inopinatamente i magistrati hanno riversato sui due fratelli, nel frattempo diventati presidente (Lucia) e amministratore delegato (Giovanni Alberto). Risultato: entrambi sono stati condannati dal Tribunale di Firenze in primo grado nel settembre del 2016, lei a 10 anni e 6 mesi, lui a 7 anni e 6 mesi, per una serie di reati che vanno dall'evasione fiscale, al riciclaggio e alla corruzione. A questo è seguita l'onta del sequestro di denaro e titoli per 1,2 miliardi di euro. Gli Aleotti, però, non hanno mai pensato di gettare la spugna e cedere il gruppo, magari a qualche grossa multinazionale in agguato pronta ad approfittare di un momento di oggettiva difficoltà. Hanno tenuto duro, finché l'Appello e la Cassazione hanno dato loro ragione con una piena assoluzione. Lucia e Giovanni Alberto hanno proseguito per la loro strada, ampliando gli orizzonti dell'azienda. Così hanno prima affidato la presidenza al manager svizzero Eric Cornut, ex Novartis, poi hanno chiamato come amministratore delegato la turca Elcin Barker Ergun. Loro, gli Aleotti, hanno mantenuto un posto nel board dedicandosi soprattutto alle strategie di espansione della Menarini. Fino allo scorso anno la multinazionale fiorentina, che possiede dieci centri di Ricerca e Sviluppo, vedeva i suoi prodotti presenti nelle più importanti aree terapeutiche tra cui cardiologia, gastroenterologia, pneumologia, malattie infettive, diabetologia, infiammazione e analgesia. La produzione farmaceutica, invece, è realizzata nei 16 stabilimenti produttivi del gruppo, in Italia e all'estero, dove sono prodotte con standard di qualità elevatissimi e distribuite nei cinque continenti oltre 600 milioni di confezioni all'anno. Bisognava crescere in altri settori e, soprattutto, mettere un piede negli Stati Uniti. Così nel bel mezzo della pandemia ecco la decisione, visti i tempi, per metà coraggiosa e per metà temeraria: lo sbarco negli Usa con un'acquisizione da 677 milioni di dollari per potenziare la propria presenza nel campo dell'oncologia. Il gruppo fiorentino rileva Stemline Therapeutics, società biofarmaceutica americana quotata al Nasdaq e focalizzata sullo sviluppo e la commercializzazione di terapie oncologiche innovative. Menarini acquisisce l'azienda Usa con un pagamento anticipato di 11,5 dollari per ogni azione e un "bonus" da un dollaro per azione da pagarsi al verificarsi della prima vendita in uno dei paesi Eu5 (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna) di Elzonris, farmaco per la cura di un raro, ma aggressivo, tumore del sangue, già in commercio negli Usa. Del resto, i mezzi alla Menarini non mancano: produce utili da tempo e gode di amplissimo credito da parte delle banche. Anche per questo si tiene lontana dalla Borsa. Le prossime mosse degli Aleotti? Sicuramente crescere nel settore dell'oncologia e sviluppare le potenzialità di Stemline. Fondamentale sarà allargarsi negli Stati Uniti. Nuove acquisizioni in vista? Mai dire mai: gli Aleotti, pur con la loro prudenza e il loro understatement, ci stanno ormai abituando ai colpi di scena.

Principi cattivi. Report Rai PUNTATA DEL 28/10/2019. di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, collaborazione di Simona Peluso e Alessia Pelagaggi. Quando pensiamo alla globalizzazione, immaginiamo scarpe da tennis fatte in Thailandia e smartphone prodotti in Corea. Ma anche le medicine che assumiamo ogni giorno sono prodotte in stabilimenti lontani e spesso privi di controlli stringenti. Così si possono offrire prezzi bassi ai pazienti e fare anche un buon margine di profitto. Ma a forza di tagliare i costi, in alcuni casi il farmaco può venir fuori contaminato da impurezze. Come per numerosi lotti di Valsartan, medicinale contro la pressione alta, che le autorità europee del farmaco, compresa l’italiana Aifa, hanno ritirato negli scorsi mesi perché contenenti nitrosammine, cioè agenti potenzialmente cancerogeni. A produrre le medicine era una società cinese, la Zhejiang Huahai, che pur di produrre più velocemente ha immesso per anni sul mercato un prodotto dannoso. Report farà un viaggio a ritroso a partire da una compressa per vedere cosa c’è dietro la sua catena di produzione, fra inquinamento dell'ambiente, proliferazione di batteri antibioticoresistenti e sfruttamento di cavie umane per i test clinici. 

- Le risposte inviateci da Aurobindo 

- I lotti sottoposti a provvedimenti da parte di Aifa

Ranitidina: divieto di uso - ritiro (agg. al 21/10/2019)

Valsartan e altri farmaci della famiglia dei sartani  (agg. al 16/07/2019)

PRINCIPI CATTIVI

GIULIO VALESINI C’è una puzza tremenda qui.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Sì, è tremenda.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Ci sono antibiotici, i liquami fognari si mischiano agli scarti industriali ed è per questo che hai quella schiuma lì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ecco perché Hyderabad oggi è diventato l’epicentro di un pericolo che può arrivare in tutto il mondo.

CHRISTOPH LUBBERT - CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITA’ LIPSIA È come un gigantesco bio-reattore a cielo aperto per batteri multi farmaco-resistenti. Non voglio spaventarvi, ma i batteri che stanno creando problemi in Toscana sono molto simili a quelli che abbiamo trovato ad Hyderabad

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Come è stato possibile trasformare un fiume dell’India in un laboratorio a cielo aperto dove batteri che resistono agli antibiotici, proliferano e rischiano di uccidere i soggetti più deboli qui in Italia, lo vedremo. La tentazione è dare la responsabilità alla globalizzazione quando invece qui ci sono responsabilità ben precise, e i segnali dall’allerta c’erano già da tempo. Quando tu scegli, decidi di produrre un farmaco, i componenti di un farmaco, in un luogo e con un sistema più economico senza poter effettuare efficaci controlli, la ricaduta potrebbe essere questa: che alcuni farmaci, il Valsartan e la sua famiglia che servono per regolamentare la pressione e alcuni che servono per contrastare il reflusso gastroesofageo che hanno come principio attivo la Ranitidina, alcuni lotti sono stati contaminati da una sostanza potenzialmente dannosa. La Nitrosammina. Questi lotti sono stati ritirati, mi sentirei di dirvi state tranquilli, ma in un’epoca in cui tutto è tracciabile, l’epoca del blockchain come è possibile che non si sa dove vengono prodotti i componenti di un farmaco? Il nostro Giulio Valesini e Aldo Ciccolella.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Ema deve controllare che i farmaci che assumiamo tutti i giorni siano sicuri ed efficaci. Ma il 19 settembre scorso ordina a tutte le aziende del settore: vi do sei mesi di tempo per controllare tutti i vostri farmaci a sintesi chimica. Potrebbero essere contaminati da nitrosammine.

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE CHIMICA TOSSICOLOGICA UNIVERSITÀ DI TORINO Sono potenti cancerogeni, sì.

GIULIO VALESINI Chi lo dice?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE CHIMICA TOSSICOLOGICA UNIVERSITÀ DI TORINO Lo dice la letteratura scientifica. Sono anni che si studiano. Ne sono state descritte almeno trecento diverse. Trenta sono certamente cancerogene. E proprio tra queste trenta che ci sono le almeno quattro che sono state reperite in questo studio sulle impurezze di questa categoria di farmaci.

GIULIO VALESINI Senta quali organi attacca la nitrosammina?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE CHIMICA TOSSICOLOGICA UNIVERSITÀ DI TORINO Gli organi principalmente a contatto con il tratto gastrointestinale o indirettamente come il naso, la vescica o il pancreas.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per l’Organizzazione mondiale della Sanità ci sono prove che l’Ndma è un potente cancerogeno sugli animali da esperimento. Si può formare nel fumo delle sigarette, e nelle lavorazioni industriali di pesticidi, coloranti e pneumatici. Ma anche nei salumi e nella carne grigliata. Ora sono finite anche nella pillola che cura l’acidità di stomaco: il principio attivo è la ranitidina.

GIULIO VALESINI Che differenza c’è tra questo e questo.

ANTONINO ANNETTA - FARMACISTA Questo è il farmaco originale, questo è il farmaco generico.

GIULIO VALESINI Però sono stati ritirati entrambi?

 ANTONINO ANNETTA - FARMACISTA C’è il divieto di utilizzo per tutti.

GIULIO VALESINI Ma è un farmaco popolare, quindi.

ANTONINO ANNETTA - FARMACISTA È un farmaco popolare.

GIULIO VALESINI E il paziente che dice?

ANTONINO ANNETTA - FARMACISTA Il paziente arriva in farmacia e chiede informazioni, giustamente. A volte è anche un po’ spaventato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A luglio del 2018 è stato ritirato dal commercio anche il Valsartan, un farmaco per regolare la pressione diffuso in tutto il mondo. Negli ultimi mesi le autorità hanno richiamato dal commercio anche il Losartan e l’Irbesartan perché contaminati. La signora Luisa prima di partire per le vacanze aveva fatto una scorta della sua pillola per la pressione.

LUISA PASINO - PAZIENTE Mi sono arrabbiata. Mi ha dato fastidio tutto il passaggio cioè il fatto che io l’abbia saputo così casualmente.

GIULIO VALESINI Perché come l’ha saputo?

LUISA PASINO - PAZIENTE Attraverso i social. Cioè su Facebook c’era forse proprio il vostro articolo. Sono andata dal medico. Il medico era in vacanza. Vado dal sostituto, il sostituto, non sa nulla. Vado in farmacia e in farmacia mi dice: “Eh sono stati ritirati, ti darò il farmaco sostitutivo”.

GIULIO VALESINI Lei da quanto è che mi ha detto prendeva il Valsartan?

LUISA PASINO - PAZIENTE Dal 2008. Se sono preoccupata? Questo è un farmaco che io devo prendere tutta la vita!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Ema stima nel caso peggiore un nuovo caso di tumore ogni 3400 pazienti che hanno preso il farmaco per la pressione contaminato. Ma nel documento di analisi finale aggiunge “che non si conosce la reale portata dell’esposizione dei pazienti, e quindi non è possibile effettuare una valutazione totale del rischio”.

LEONARDO D’AQUILIO - PAZIENTE Quello che dà fastidio è che farmaci venduti in così larga scala nella tua nazione dovrebbero avere dietro un controllo che ne assicuri la…

 GIULIO VALESINI Qualità…

LEONARDO D’AQUILIO - PAZIENTE La qualità. I famosi controlli qualità che si fanno nelle aziende farmaceutiche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Controlli che dovevano essere ancora più stringenti visto che nel 2015, l’Ema aveva pubblicato le linee guida sulla impurezza nei farmaci. Le nitrosammine sono definite non tollerabili neanche in basse quantità. In alcuni lotti di Valsartan contaminato sono state rilevati fino a 17 microgrammi di NDMA in una singola pillola.

GIULIO VALESINI Considerate le quantità che avete trovato nel Valsartan accettabili?

FERGUS SWEENEY - CAPO ISPETTORE EMA Non è accettabile! Infatti ci siamo subito attivati. Il nostro obiettivo è di abbassare il rischio di nuovi tumori a meno di uno su 100mila pazienti. Per questo abbiamo chiesto alle aziende farmaceutiche di fare ulteriori valutazioni del rischio anche a soglie molto basse di nitrosammine.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La prima farmaceutica a introdurre farmaci a base di Valsartan è stata la svizzera Novartis. Scaduto il brevetto, nel 2011 molte aziende hanno commercializzato la versione generica del farmaco.

GIULIO VALESINI Mi legge dov’è prodotto questo farmaco? LUISA PASINO - PAZIENTE Produttore Actavis … Malta.

GIULIO VALESINI Malta.

LUISA PASINO - PAZIENTE Oppure questo qui…eh… Bulgaria.

GIULIO VALESINI Ok. Quindi se lei legge quel bugiardino immagina che questo prodotto, questo farmaco, sia stato prodotto?

LUISA PASINO - PAZIENTE A Malta o in Bulgaria. Poi c’è scritto anche che il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio è della DOC GENERICI che è appunto quello è scritto sulla scatola, di Milano.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO INDIA Questo principio attivo contaminato di Valsartan, è stato invece prodotto in Cina. Negli stabilimenti del colosso Zhejiang Huahai Pharmaceutical. Ma non è indicato nel foglietto illustrativo, né sul sito della società.

ANDREA CAPOCCHI - DIRETTORE OPERAZIONI INDISTRIALI “DOC GENERICI” Non è previsto dalle normative.

GIULIO VALESINI Se io leggo questo foglietto illustrativo immagino che questo prodotto sia stato fatto a Malta e in Bulgaria.

ANDREA CAPOCCHI - DIRETTORE OPERAZIONI INDISTRIALI “DOC GENERICI” Mi fa vedere? Perché ce ne sono vari siti.

GIULIO VALESINI Che cosa c’è scritto, dove è rilasciato il lotto?

ANDREA CAPOCCHI - DIRETTORE OPERAZIONI INDISTRIALI “DOC GENERICI” Allora nel foglio illustrativo viene riportato l’ultimo, l’ultimo step, l’ultimo step ma da un punto di vista regolatorio.

GIULIO VALESINI Lei è il paziente, legge quel foglietto dove pensa sia stato prodotto?

ANDREA CAPOCCHI - DIRETTORE OPERAZIONI INDISTRIALI “DOC GENERICI” È irrilevante.

 GIULIO VALESINI Voi quanti principi attivi acquistate da produttori indiani e cinesi?

ANDREA CAPOCCHI - DIRETTORE OPERAZIONI INDISTRIALI “DOC GENERICI” Per quanto riguarda l’India noi siamo al 38 per cento sul totale, la Cina siamo al 18 per cento.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Risalire alla tracciabilità completa di un farmaco vuol dire fare il giro del mondo perché tra principio attivo, blister e confezione, una singola pillola può avere componenti prodotti in dodici Paesi e quattro continenti.

ANDERS FUGLSANG – CONSULENTE AZIENDE FARMACEUTICHE Più aumenta il numero dei soggetti coinvolti, più diventa difficile controllarli. Anche le agenzie di controllo hanno problemi a risalire alla tracciabilità se non hanno inserito le informazioni in un database informatico.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Quello che un paziente deve sapere sulla provenienza di un farmaco lo stabilisce l’ente regolatore come L’Ema che è a capo del sistema europeo. A leggere i bilanci si scopre che si regge per l’80 per cento da finanziamenti dell’industria farmaceutica. Solo 8 milioni arrivano come contributo dagli stati membri.

GIULIO VALESINI Su nessun prodotto c’è scritto che viene prodotto in Cina o in India. Qualsiasi cosa compriamo sappiamo da dove arriva. Sui farmaci, no!

FERGUS SWEENEY - CAPO ISPETTORE EMA Il medico o il paziente possono contattare il distributore, oppure il fabbricante del prodotto finito… hai ragione, le società e i regolatori potrebbero migliorare l’informazione da dare ai pazienti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Menarini il prodotto lo commercializzava con il brand Valpression. Scaduto il brevetto ha iniziato ad acquistare il principio attivo dalla Zhejiang. Ma non lo scrive da nessuna parte.

GIULIO VALESINI In questo caso Zhejiang lo avete selezionato?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Che cosa si fa normalmente: si vanno a vedere le aziende che hanno un CEP, perché? Perché abbiamo una prima garanzia chiamiamola istituzionale da parte di un ente indipendente. Abbiamo privilegiato la Cina perché secondo noi per quei prodotti in Cina o in India loro sono i migliori.

GIULIO VALESINI Dal punto di vista della qualità o del prezzo, onestamente?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Onestamente non ne faccio un problema etico. Ma lei sarebbe disposto a risparmiare pochi centesimi per prendere un fornitore che è a rischio?

GIULIO VALESINI Però scusi, scade il brevetto quindi c’è la necessità evidentemente di fare il prodotto a prezzo più basso.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI C’è necessità di fare il prodotto a un prezzo più basso, ma salvaguardando quelli che sono i nostri principi.

GIULIO VALESINI Perché quando io sono andata a vedere i lotti ritirati e tutti si andavano a rifornire da questo Zhejiang, ho detto ma allora qual è la differenza tra Menarini e un generico se andavate tutti lì dal cinese?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Noi ci siamo accorti che c’era molta gente, dopo, ma questo mi ha confortato. Evidente che fra un produttore bravo e uno bravo uguale vado da quello che costa meno, ma deve essere molto bravo. Nel nostro immaginario deve prendere 10.

GIULIO VALESINI Maggio 2017.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Chi è?

GIULIO VALESINI Fda. GIULIO VALESINI Un anno prima che scoppia lo scandalo del Valsartan diciamo contaminato, no? Maggio 2017 Fda bussa a Zhejang. Ispeziona e gli dice…

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Io ora non le posso dire quello che penso

GIULIO VALESINI Lo dica, ora o mai più.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI No non lo dirò mai più.

GIULIO VALESINI Mi ha fatto venire curiosità, lei lo sa.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Lei mi giura su Dio che non…ma secondo lei…no no no.

GIULIO VALESINI Dica, dica. Tanto lo dirà.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Glielo dico quando ci salutiamo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non ce l’ha più detto. È il maggio del 2017 l’Fda, l’agenzia del farmaco americano, bussa alla fabbrica di Zhejang. Un anno prima che il Valsartan venisse ritirato dalle farmacie. Gli ispettori trovano macchinari arrugginiti e condizioni igieniche carenti, nel report scrivono che i vertici della società cinese hanno ignorato le contaminazioni, anche se in alcuni casi erano in dosi più alte del principio attivo. Li chiamavano “picchi fantasma” ma cosa si nascondesse sotto il lenzuolo bianco è un mistero.

GIULIO VALESINI Questo è il suo fornitore, lei se avesse letto questo report, avrebbe dormito tranquillo la notte?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI No, avrei fatto però un’altra cosa, avrei scritto all’Fda e avrei detto: cara Fda mi dici cosa hai trovato davvero? L’Fda poteva rispondermi: io non te lo posso dire. Sarei partito immediatamente per un’ispezione.

GIULIO VALESINI Se lei avesse letto questo report prima di prendere una pasticca, insomma, l’avrebbe presa tranquillamente?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE CHIMICA TOSSICOLOGICA UNIVERSITÀ DI TORINO Direi di no perché i testi analitici non erano stati validati. C’erano state delle denunce non seguite da un approfondimento. E soprattutto il principio attivo era molto inferiore.

GIULIO VALESINI C’era meno principio attivo di quello che ci sarebbe dovuto essere, cosa c’era?

CLAUDIO MEDANA – PROFESSORE CHIMICA TOSSICOLOGICA UNIVERSITÀ DI TORINO Meno principio attivo, qui siamo al 50 percento.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Quelli di Zhejang Huahai nel video promozionale si presentano come paladini della salute umana: “creare prodotti con integrità” è il loro motto. Peccato però che Fda sospetti che molti principi prodotti nel loro stabilimento siano contaminati. Per l’Italia, i controlli all’aziende farmaceutiche li ha fatti Aifa.

 LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Portiamo avanti circa 250 ispezioni all’anno.

GIULIO VALESINI Senta ma le aziende ispezionate lo sanno che voi state arrivando per ispezionarle?

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA La maggior parte delle volte lo sanno, però le ispezioni possono essere condotte anche a sorpresa.

GIULIO VALESINI Su dieci ispezioni quante sono a sorpresa e quante sono annunciate? Onestamente.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Onestamente la maggior parte sono annunciate.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tanto sono annunciate che può capitare che l’azienda ispezionata nasconda nel cassonetto, prima dell’arrivo dell’ispettore, i documenti interni sulle analisi dei farmaci. Come ha fatto la società indiana Strides Pharma a luglio scorso. In Germania un team di esperti indipendenti ha analizzato farmaci a base di Valsartan di marche diverse con uno speciale spettroscopio di massa ad alta risoluzione.

FRITZ SÖRGEL - DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACEUTICA DI NORIMBERGA Abbiamo confermato la presenza di NDMA e abbiamo trovato anche altre contaminazioni. A oggi siamo arrivati a quattro sostanze potenzialmente cancerogene.

GIULIO VALESINI Ne avete trovati in quantità accettabili, in limiti accettabili per l’uomo?

 FRITZ SÖRGEL - DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACEUTICA DI NORIMBERGA Siamo rimasti sconvolti da quanto fossero alti i quantitativi che abbiamo trovato su alcune compresse. È un caso senza precedenti.

GIULIO VALESINI C’è il rischio secondo lei che altri farmaci, di altra natura, siano contaminati senza che noi lo sappiamo?

FRITZ SÖRGEL - DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACEUTICA DI NORIMBERGA Siamo sicuri che troveremo casi analoghi. Sono decine di migliaia di possibilità di contaminazioni possibili.

GIULIO VALESINI Quindi siamo solo all’inizio secondo lei?

FRITZ SÖRGEL - DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACEUTICA DI NORIMBERGA Sì, siamo solo all’inizio. Abbiamo appena iniziato a fare test con metodi adeguati. Finora il livello è stato troppo basso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla ricerca collabora anche Ulrike Holzgrabe. Per capire come un contaminante potenzialmente cancerogeno sia finito in un farmaco prescritto agli ipertesi di tutto il mondo, ha studiato tutta la documentazione tecnica sul Valsartan: nel 2012, l’azienda cinese Zhejiang Huahai aveva brevettato un nuovo processo di sintesi chimica, che sostituiva un reagente rispetto alla formula originale della Novartis.

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Si, esatto, serviva per produrlo in meno tempo, spendendo meno.

GIULIO VALESINI Sappiamo da quanto era contaminato il Valsartan?

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Credo da anni. Dal momento in cui l’azienda ha brevettato questo nuovo processo di sintesi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il nuovo processo di sintesi, non era mai stato registrato sul libro farmacopea europea, e così non era stato neppure specificato quali impurità sarebbero potute emergere durante la produzione. Il compito di controllare che ogni nuovo farmaco sia compatibile con gli standard della farmacopea spetta all’EDQM, un ente che collabora con le autorità europee.

GIULIO VALESINI Quindi l’EDQM poteva accorgersi che c’era stata una contaminazione da nitrosammina?

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Se avessero visto questo processo di sintesi, se lo sarebbero dovuti chiedere. Questo è sicuro. GIULIO VALESINI Collabora ancora con l’EDQM?

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Sì, ci lavoro ancora, ma ora non mi vogliono più. Il motivo è che ho spiegato come le nitrosammine sono finite nel Valsartan.

GIULIO VALESINI E non se ne sono accorti

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Il problema è che nell’unità di certificazione dell’EDQM non lavorano esperti di processi di sintesi, ma solo persone specializzate sulle analisi chimiche, che difficilmente se ne potevano accorgere.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E così solo oggi scopriamo che per sei anni nessuno tra enti di controllo, produttori e società che commercializzavano i popolari farmaci per la pressione, si è accorto che il paziente assumeva tutti i giorni pillole contaminate.

GIULIO VALESINI Per sei anni sono circolate in commercio delle pasticche contaminate da nitrosammina senza che nessuno si accorgesse o facesse nulla. Non le sembra grave questo?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Vediamo quale tipo di gravità, perché che si sia preso la pasticca con la nitrosammina è tutto da dimostrare, perché lei ha citato una fonte di principio attivo dove non tutti i produttori si approvvigionavano.

GIULIO VALESINI La sua azienda ci andava da Zhejiang a comprarlo?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Ci andavano anche, sì.

GIULIO VALESINI Per una questione di costi si andava da loro?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Evidentemente, certo che è questione di costi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non tutti andavano in Cina a comprare il Valsartan da Zhejang. Il problema è che anche molti gli altri produttori usavano metodi di fabbricazione simili. Come i colossi Aurobindo e Mylan che producono il principio attivo nei loro stabilimenti di Telangana: anche loro con nitrosammine dentro.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Il prodotto finito viene testato dalle aziende.

GIULIO VALESINI Ci dobbiamo fidare dei test delle aziende.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA I test delle aziende vengono fatti secondo delle metodiche…

GIULIO VALESINI No, no però, voglio dire, test indipendenti.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA I test indipendenti anche vengono condotti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2017 Aifa su settemila farmaci in commercio ha controllato appena 78 lotti, attraverso i laboratori indipendenti dell’Istituto Superiore di Sanità. Ma la storia non finisce qui. In questi giorni gli enti regolatori le stanno cercando anche in altri farmaci.

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG L’Ente Tedesco ha fatto già uno screening iniziale per cercare farmaci in cui potrebbero avvenire processi tali da formare nitrosammine.

GIULIO VALESINI Sappiamo cosa curano questi farmaci? Sono per il diabete, per la pressione, per il cuore…cosa sono?

ULRIKE HOLZGRABE – PROFESSORESSA DI CHIMICA UNIVERSITÀ DI WÜRZBURG Questa è un’informazione un po’ confidenziale, preferirei non parlarne.

GIULIO VALESINI Risulta anche a voi che in Germania abbiano individuato una cinquantina di farmaci su cui fare dei test per scovare eventuali impurezze di nitrosammine?

FERGUS SWEENEY - CAPO ISPETTORE EMA Ci sono diverse investigazioni in corso. Nel momento in cui verranno trovate delle presenze di nitrosammina, con il sistema di allerta rapido l’informazione sarà condivisa con tutti i regolatori europei e si metteranno in campo azioni a tutela dei pazienti.

SIGFRIDO RANUCCI STUDIO Potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Perché abbiamo capito che il meccanismo è talmente complicato che basta un granello di sabbia per mandarlo in tilt. E in tilt probabilmente è andata l’EDQM, cioè il Direttorato europeo per la qualità dei medicinali. Ci scrive che i suoi valutatori e i chimici hanno valutato in maniera indipendente le modifiche nel processo di produzione del Valsartan. Ma è stato sufficiente che l’azienda cinese, la produttrice, non ipotizzasse il generarsi di sostanze dannose, anche comunicando che stava adottando un nuovo metodo sintetico più economico. Non hanno controllato né la Food and drug administration né le aziende che commercializzavano questo prodotto. Insomma, ma è possibile? Comunque, chapeau a Menarini che almeno c’ha messo la faccia. È importante perché la prestigiosa azienda farmaceutica in questo modo ha avuto possibilità di spiegare ai pazienti. Mentre invece un po’ più stitica è stata l’azienda cinese, quella che ha causato il danno, che ci ha scritto un’email: “Stiamo collaborando con le autorità di regolamentazione, ma causa della natura confidenziale del nostro rapporto non possiamo darvi i dettagli”. E ora, la ricerca del farmaco che contrasta il reflusso gastrico, ci porta in India.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Questa è la fabbrica della Saraca Laboratories, una società indiana che secondo Aifa riforniva di Ranitidina contaminata molte società farmaceutiche che vendevano il prodotto per lo stomaco in Italia. Come la Glaxo che commercializza lo Zantac e Menarini con la sua Ranidil.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Ranidil, in questo momento è veramente…

GIULIO VALESINI Voi compravate il principio attivo da Saraca?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Saraca non è un nostro fornitore.

GIULIO VALESINI Come ci è finito allora?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Perché noi compriamo il prodotto finito.

GIULIO VALESINI Tutto quanto?

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI A noi ci arriva già astucciato, tutto.

GIULIO VALESINI Voi fate solo l’inscatolamento Menarini, in pratica.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI No.

GIULIO VALESINI No, neanche.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Nulla, ci arriva pronto da un fornitore tedesco.

GIULIO VALESINI Che a sua volta comprava da Saraca.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Assolutamente.

GIULIO VALESINI Quindi voi avete soltanto il marchio di quel farmaco.

CARLO COLOMBINI - CDA GRUPPO MENARINI Abbiamo il marchio, lo vendiamo, come dice lei ne abbiamo la responsabilità, però noi di Saraca non sappiamo niente!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Saraca Laboratories si trova nel pieno del distretto farmaceutico di Hyderabad, una città nel sud dell’India. Una volta un importante centro di commercio di diamanti. Da anni un polo farmaceutico tra i più importanti al mondo: più di 170 aziende hanno trasferito da queste parti i loro impianti di produzione.

CARL HENEGAN – DIRETTORE DIPARTIMENTO DI MEDICINA UNIVERSITÀ DI OXFORD Quando si pensa a una fabbrica di farmaci la si immagina come come la Nasa, dove la tecnologia è all’ultimo grido e i farmaci sono prodotti in un ambiente sterile. Invece, ci sono posti talmente sporchi che non ti ci faresti nemmeno un panino.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Negli ultimi due anni l'Fda, l'agenzia sanitaria americana, ha condotto diverse ispezioni nelle unità produttive di Aurobindo, il gigante indiano dei generici. Report è riuscito a ottenere alcune copie dei rapporti desecretati. A leggerli fanno impressione. Gli ispettori hanno trovato prodotti che sono “adulterati”, codici dei lotti diversi da quelli in uso, “personale non formato”, "igiene insufficiente a prevenire contaminazioni". E infine, “edifici non esenti da infestazioni di topi”.

GIULIO VALESINI Li ho letti solo io questi report?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Non è che posso leggere tutti i report delle aziende, no… non è il nostro compito.

GIULIO VALESINI Ho capito però poi dopo siete voi quelli che andate in India a comprare i principi attivi.

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Sì, ma c’è un ente regolatorio che dice “guarda che”… Noi andiamo a ispezionare, regolarmente.

GIULIO VALESINI Quindi queste cose le vedete

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Dovremmo vederle, sì, certo.

GIULIO VALESINI Fate un controllo su carta, dice lei.

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Possiamo anche andare a visitare gli impianti, ma se lei va a visitare un impianto chimico di come viene fatto il prodotto poco ci capisce. Perché vede dei grandi pentoloni ché è meglio star lontani.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I principi attivi prodotti nelle unità sotto accusa sono Valsartan, Temisartan e il Pantoprazolo Sodio e probabilmente un'altra sostanza che l'Fda ha ritenuto di non rendere pubblica. GIULIO VALESINI Siamo diventati dipendenti dai farmaci prodotti in quelle zone del mondo?

FERGUS SWEENEY - CAPO ISPETTORE EMA È per questo che stiamo cercando di fare più ispezioni. Lavoriamo fianco a fianco anche con le autorità di India e Cina, per alzare gli standard concordati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dinesh Takhur era un manager della Ranbaxy, il colosso farmaceutico indiano. Nel 2008 ha denunciato la sistematica falsificazione dei dati sui farmaci venduti dalla sua azienda in tutto il mondo. L’Fda ritirò dal mercato centinaia di farmaci perché pericolosi ed illegali. La Ranbaxy è stata condannata a pagare una multa di 500 milioni di dollari.

DINESH THAKUR - WHISTLEBLOWER Queste cose non le ha fatte solo la Ranbaxy; anche quest’anno molte aziende hanno truccato i dati sui pazienti, hanno falsificato i numeri sul processo produttivo, sulla qualità delle materie prime, perfino sull’efficacia dei farmaci.

GIULIO VALESINI Pensa che le ispezioni degli enti regolatori come Fda o Ema funzionino?

DINESH THAKUR - WHISTLEBLOWER Un ispettore passa pochi giorni in un impianto produttivo. Ed è difficile capire cosa succede, in così poco tempo. Per venire in India inoltre hai bisogno di un visto quindi le società farmaceutiche sanno in anticipo che stai per arrivare.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per un principio attivo di un farmaco servono i prodotti intermedi per innescare le reazioni chimiche. Le grandi aziende farmaceutiche di Hyderabad spesso si riforniscono da altri stabilimenti più piccoli nella zona, come questo.

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Questo prodotto ad esempio serve per fare quattro tipi di antibiotici.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Qui quaranta dipendenti lavorano tra forti odori di solventi chimici, macchinari arrugginiti, sporcizia e carenza di sicurezza.

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Il processo di lavorazione è complesso. Vedi? Questo è un reattore in cui si mettono dei materiali grezzi insieme a dei solventi. Poi il prodotto viene trasferito in un altro reattore con temperature differenti. L’intermedio per i farmaci deve essere separato da tutti i solventi e dopo viene messo nei barili.

GIULIO VALESINI È chiuso con questo, no? Se lo apriamo si contamina. Ok. Quanto costa?

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI 1800 rupie al chilogrammo. Circa 21 euro.

GIULIO VALESINI Ma a quali aziende vendi questo prodotto?

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI lo questo lo vendo a molte grandi aziende del distretto farmaceutico. Noi produciamo seguendo gli standard globali. Per ogni ordine che riceviamo le industrie ci danno delle specifiche e noi dobbiamo rispettarle.

GIULIO VALESINI Chi controlla?

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Ci sono degli scienziati che lavorano qui e fanno le verifiche.

GIULIO VALESINI Non sembra proprio molto igienico qua…

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Noi ci occupiamo di semilavorati. Se seguissimo standard più elevati i costi si moltiplicherebbero e la gente comune non si potrebbe permettere i farmaci a costo più basso. L’importante è che quando la materia finisce nella fabbrica che fa principio attivo siano rispettate tutte le regole europee. E lì ci sono le ispezioni.

GIULIO VALESINI Gli esiti di queste ispezioni non sono buoni.

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Questo non mi risulta. Non inquadrare, tu non sai di che si tratta. Sono acque di raffreddamento utilizzate con i reattori, noi abbiamo un sistema di trattamento delle acque per piccole industrie.

GIULIO VALESINI Qua a Hyderabad è tutto inquinato.

RAMA RAJU - IMPRENDITORE AZIENDA INTERMEDI FARMACEUTICI Ovunque ci siano aziende nel mondo c’è inquinamento.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È il prezzo che paghi se risparmi sulla qualità della lavorazione e sulla tutela dell’ambiente. Gli indiani di Aurobindo ci scrivono che in seguito all'ispezione dell'FDA, è stata effettuata un'approfondita valutazione del rischio, è stato redatto un piano di miglioramento della qualità e di revisione del processo di produzione stesso. Ci fa piacere perché proprio sulla qualità, che si gioca la salute di tutti. Se risparmi in tema di tutela dell’ambiente o di lavorazione del prodotto, come abbiamo detto, il rischio è che poi paghi un prezzo curandoti con un farmaco contaminato o addirittura infettandoti con un batterio che è proliferato dall’altra parte del mondo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Scaduto il brevetto di un farmaco gli studi di bioequivalenza sono la base per l’approvazione dei medicinali generici. Le aziende pagano i centri che organizzano i trial di sperimentazione: devono dimostrare sui pazienti che l’effetto del loro farmaco è simile a quello originale. Questo è il video promozionale delle GVK BIO in India. Nel 2016 l’Ema ha sospeso 700 farmaci testati da questa azienda e già autorizzati alla vendita in Europa.

DINESH THAKUR - WHISTLEBLOWER Per anni hanno falsificato i risultati delle analisi sui pazienti facendo credere che i farmaci per l’Europa fossero efficaci e sicuri. Ti reclutano gli stessi pazienti più volte per più test clinici. Nell’autorità di controllo indiana, poi, c’è tanta corruzione.

GIULIO VALESINI Le aziende europee e gli enti regolatori europei e americani come fanno ad accettare il rischio che arrivino continuamente farmaci i cui dati sono chiaramente non veritieri?

DINESH THAKUR - WHISTLEBLOWER Sanno come stanno le cose, non è un segreto. Molte volte le autorità nazionali non vogliono creare panico fra la gente dicendo la verità. Chieda alla sua agenzia del farmaco: cosa state facendo per tutelare i cittadini italiani dalla piaga delle sostanze scadenti?

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Alla stessa maniera con cui si fanno le ispezioni nei siti di produzione, si fanno anche le ispezioni nei centri di sperimentazione.

GIULIO VALESINI Vengono rispettati sempre anche tutti i principi etici di sperimentazione? Perché, per esempio…

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA I dati che provengono da questi centri sono dati che provengono da centri che sono stati verificati e certificati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le medicine sono prima testate su volontari reclutati in villaggi come questo. Jummikunta è un centro di reclutamento, soprattutto di giovani attratti dai soldi offerti dai centri di sperimentazione clinica.

ALI SHABEER - ATTIVISTA Lui è una vittima della sperimentazione dei farmaci.

GIULIO VALESINI Che farmaci hanno fatto sperimentare a lui?

ALI SHABEER - ATTIVISTA Psicofarmaci.

GIULIO VALESINI A quanti trials ha partecipato lui?

ALI SHABEER - ATTIVISTA Lui l’ha fatto per 8-9 volte.

GIULIO VALESINI Quanto viene pagato un volontario di un trial?

ALI SHABEER - ATTIVISTA Solo dai 4 mila alle 12 mila rupie. Dai 50 ai 150 euro.

GIULIO VALESINI Era stato avvisato che correva dei rischi a partecipare a questi trial?

ALI SHABEER - ATTIVISTA La maggior parte degli eventi avversi sono secretati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’intervista viene fermata dalla polizia locale.

GIULIO VALESINI Ci arrestano…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ci ordina di non fare più riprese e lasciare subito il villaggio. All’università di Hyderabad hanno realizzato uno studio su come vengono condotti i trial clinici in India.

PURENDRA PRASAD – PROFESSORE DI SOCIOLOGIA UNIVERSITÀ HYDERABAD Ho avuto il personale sempre addosso per controllare cosa chiedessi ai pazienti. Noi abbiamo visto che ci sono volontari che partecipano anche tre-quattro volte a queste sperimentazioni.

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Non si può fare.

GIULIO VALESINI Non si può fare, però è così. Ma voi ne siete a conoscenza?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI E no, certo, a conoscenza, a un certo punto non è che possiamo negare… ci sono state negli ultimi anni un paio di casi… eclatanti …dove però non ha avuto nessun impatto, sono stati fermati, buonanotte.

GIULIO VALESINI Come mai si va sempre più in India a fare i trial?

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Teniamo conto che è una popolazione di un miliardo di persone e quindi l’arruolamento è più semplice.

GIULIO VALESINI Dove c’è miseria, dove c’è povertà.

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Adesso non arriviamo alla miseria, dove c’è povertà.

GIULIO VALESINI Ci sono stato dottore, l’ho visto…

ENRIQUE HÄUSERMANN - PRESIDENTE DI ASSOGENERICI Sì ma è più facile arruolare, ho detto “facile arruolare” perché evidentemente sono pazienti sani.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2017, anche la Micro Therapeutic Research, un’altra importante CRO indiana, fu beccata a manipolare i dati degli studi sulle sperimentazioni e in Europa furono sospesi circa 300 farmaci generici.

ISPETTORE TRIAL CLINICI Falsificare un trial non è difficile. Le CRO riescono a manipolare i dati senza lasciare traccia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Incontriamo un consulente di importanti aziende farmaceutiche: va spesso in India presso i centri di sperimentazione dei farmaci.

 ISPETTORE TRIAL CLINICI Un trial, in genere, funziona così: si seleziona un campione di volontari e si fa assumere a ognuno una compressa del farmaco generico. Si misura la concentrazione del principio attivo nel sangue. Poi si fa lo stesso con il farmaco originale. Se i due farmaci sono bioequivalenti, questi valori dovrebbero coincidere o per lo meno assomigliarsi.

GIULIO VALESINI E che succede se i valori non coincidono?

ISPETTORE TRIAL CLINICI Se i valori del generico sono più bassi, vuol dire che il farmaco è troppo blando. Se sono molto più alti, potrebbero esserci effetti collaterali troppo forti.

GIULIO VALESINI E a quel punto il test è fallito e il farmaco rimandato?

ISPETTORE TRIAL CLINICI Non sempre. Alcune CRO inventano dei nuovi soggetti e assegnano a queste persone fittizie gli stessi valori dei pazienti veri, invertendo i dati del generico con quelli dell’originator. Così la media sembra uguale. Alcuni, banalmente, allungano con l’acqua i campioni di sangue in cui la concentrazione di principio attivo è troppo alta.

 GIULIO VALESINI E l’azienda farmaceutica che commissiona il trial sa che i dati sono truccati?

ISPETTORE TRIAL CLINICI In genere sì. Ci sono delle CRO che mandano due preventivi: quello base per il trial regolare e un altro più caro. Paghi di più, ma sei sicuro che sulla carta il generico risulterà bioequivalente.

GIULIO VALESINI Ed è un comportamento diffuso?

 ISPETTORE TRIAL CLINICI Conosco almeno cinque CRO che lo fanno regolarmente: e ciò vuol dire che parliamo di migliaia di trial.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Questa è una delle tante fabbriche di Aurobindo nella zona di Hyderabad. Qui vengono prodotti i farmaci che prendono i pazienti in tutto il mondo. Accanto alle mura dell’azienda, nelle baracche, vivono i lavoratori immigrati impiegati come bassa manovalanza.

LAVORATORE DISTRETTO FARMACEUTICO Io recluto i lavoratori per le industrie farmaceutiche della zona e sorveglio il villaggio.

GIULIO VALESINI Quanto sono pagati i lavoratori che lavorano per le industrie farmaceutiche?

LAVORATORE DISTRETTO FARMACEUTICO Li pagano 800 rupie al giorno per marito e moglie, per pulire i pavimenti, fare lavori di manovalanza…

GIULIO VALESINI Dieci euro diviso in due. E vivono qui?

LAVORATORE DISTRETTO FARMACEUTICO Sì, vivono qui; quando piove le condizioni sono invivibili.

GIULIO VALESINI Tu quanto guadagni per trovare le persone alle aziende?

LAVORATORE DISTRETTO FARMACEUTICO Io prendo una commissione di cinquanta rupie sul loro stipendio ma sono responsabile di quello che gli succede. Quando si ammalano devo portarli io in ospedale. GIULIO VALESINI Ma sono felici di lavorare per le aziende?

LAVORATORE DISTRETTO FARMACEUTICO No, io sono costretto a farlo. Non posso più coltivare la mia terra a causa dell’inquinamento. Ora basta parlare, perché dall’azienda ci stanno osservando.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se le aziende farmaceutiche dei dintorni di Hyderabad preferiscono far lavorare nelle fabbriche lavoratori che arrivano da fuori, ai villaggi intorno all’area industriale rimangono soprattutto i problemi. Come il forte inquinamento. Nel 2017 in questo lago nel pieno del distretto farmaceutico, i pescatori hanno trovato oltre 200mila pesci morti. Decine di famiglie sono rimaste senza lavoro.

PESCATORE Le sostanze chimiche sono arrivate dalle industrie laggiù. Ora facciamo la guardia al lago sperando che si possa tornare a pescare presto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dovunque ti giri vedi passare i camion cisterna che trasportano acqua pulita per gli abitanti e le industrie. Perché l’acqua è inquinata fin sotto alle falde: dai terreni esce di colore verde e puzza di solventi chimici.

KAMMARI SRINIVAS – ABITANTE VILLAGGIO KISTAIAPALLY Ogni anno le industrie scaricano in acqua grandi quantità di residui che finiscono negli stagni creati dal fiume, come quelli che vedete lì giù.

GIULIO VALESINI Ma la gente qui lavora per le industrie farmaceutiche?

KAMMARI SRINIVAS – ABITANTE VILLAGGIO KISTAIAPALLY No, non lavorano per loro perché la maggior parte delle persone che vive qui e lavora per le industrie si ammala subito. Le aziende farmaceutiche hanno rubato tutte le nostre risorse. Nemmeno gli animali possono bere l’acqua.

GIULIO VALESINI Ma perché permettono questo alle industrie?

KAMMARI SRINIVAS - VILLAGGIO KISTAIPALLY Per mancanza di controllo; il governo non fa nulla contro questi scarichi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2017 il National Green Tribunal ha emesso una sentenza molto dura: per colpa dell'inquinamento, la terra non si può più coltivare, i pesci muoiono, le persone si ammalano e l'acqua è diventata acida e scura. Il tribunale chiede al governo di rafforzare i controlli: ma pur riconoscendo le responsabilità delle aziende farmaceutiche, alla fine, non le sanziona. Ma è vicino alle industrie che gli effetti dell’inquinamento sono più evidenti: a pochi metri dalle fabbriche il terreno è solcato da liquidi di colore verde e arancione e in tutta l’area si sente il forte odore farmaci.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Lì ci sono le grandi industrie farmaceutiche. Le acque di scarico sono sversate direttamente in questo lago che ormai è completamente inquinato. Puoi vedere anche tu: l’acqua di scarico arriva da lì.

GIULIO VALESINI Da quei buchi laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Ok. Sversano tutto qui e arriva laggiù?

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Sì.

GIULIO VALESINI Fino al lago laggiù.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Per tutte le industrie è la stessa cosa: scaricano le loro acque grazie alla pendenza del terreno dall’alto verso il basso.

GIULIO VALESINI C’è una puzza terribile Anil.

ANIL DYAKAR - PRESIDENTE GAMANA ONG Questo è tutto lo scarto della lavorazione chimica.

GIULIO VALESINI Nel 2016 la Corte Suprema indiana ha ordinato alle industrie farmaceutiche di Hyderabad di attuare una politica di produzione chiamata a “zero liquidi”.

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITA’ LIPSIA Ufficialmente quelle società hanno impianti speciali per il trattamento in loco delle acque reflue, ma molti non funzionano a dovere perché così si risparmia.

GIULIO VALESINI C’è una puzza tremenda qui.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Sì, è tremenda.

ANIL DYAKAR – PRESIDENTE GAMANA ONG Ci sono antibiotici, i liquami fognari si mischiano agli scarti industriali ed è per questo che hai quella schiuma lì. Abbiamo raccolto dei campioni delle acque e anche campioni del suolo e li abbiamo testati nell’ospedale di Lipsia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ecco perché Hyderabad oggi è diventato l’epicentro di un pericolo che può arrivare in tutto il mondo.

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITÀ LIPSIA È come un gigantesco bio-reattore a cielo aperto per batteri multi farmaco-resistenti.

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITÀ LIPSIA Abbiamo selezionato 28 siti di campionamento ad Hyderabad, lungo il fiume Musi, nelle acque di superficie vicino ai villaggi, nei campi di riso. Abbiamo trovato batteri multifarmacoresistenti ovunque: erano in concentrazioni molto alte nei pressi delle industrie farmaceutiche. GIULIO VALESINI Perché una zona come Hyderabad la preoccupa in modo particolare?

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITÀ LIPSIA Ci aspettavamo la presenza del batterio NDM-1, il cosiddetto Nuova Delhi, ma abbiamo trovato un sacco di altri resistenti.

GIULIO VALESINI E che rischi ci sono che si diffondano veramente a noi in occidente?

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITÀ LIPSIA Il batterio Nuova Delhi viene dall’India, ma è stato individuato per la prima volta in un paziente in Svezia. Non voglio spaventarvi, ma i batteri che stanno creando problemi in Toscana sono molto simili a quelli che abbiamo trovato ad Hyderabad.

SAURO LUCHI - DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE SAN LUCA - LUCCA La zona dell’isolamento è da questa parte del reparto, in tre stanze singole. Sono praticamente dotate di una zona filtro.

GIULIO VALESINI Lì ci sono pazienti che in questo momento con il Nuova Delhi?

SAURO LUCHI - DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE SAN LUCA - LUCCA Colonizzati con Nuova Delhi. Hanno il microrganismo nel loro intestino però non hanno una patologia da questo microrganismo.

GIULIO VALESINI Si presenta come se fosse un’influenza: brividi, febbre…

SAURO LUCHI - DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE SAN LUCA - LUCCA Febbre elevata, difficoltà respiratoria, un calo della pressione arteriosa come tutti i pazienti che hanno una sepsi…

GIULIO VALESINI Può sembrare una banale influenza, ma in realtà il batterio è di quelli forti.

SAURO LUCHI - DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE SAN LUCA - LUCCA Potrebbe essere quello. Abbiamo avuto da novembre a settembre cinque casi di batterimie.

GIULIO VALESINI Di infezione?

SAURO LUCHI - DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE OSPEDALE SAN LUCA - LUCCA Di infezione, quindi con una malattia piuttosto importante. Abbiamo avuto un decesso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il batterio chiamato “Nuova Delhi” produce un enzima tanto resistente da riuscire a distruggere parecchi tipi di antibiotici come quelli più forti usati negli ospedali. Da novembre ad oggi in Toscana ha infettato 126 pazienti; le morti associate sono circa un terzo, cinque solo nell’ospedale di Viareggio.

UOMO Mio padre era una persona che aveva circa 88 anni, una persona in salute. Una mattina, in macchina, ha avuto questo problema. Febbre alta, brividi di lì è iniziato blocco renale, succede un po’ di problemi, non camminava più…

GIULIO VALESINI Erano quelli che potevano sembrare sintomi…

 UOMO Di una banale influenza. Il medico mi ha detto: “Guardi, suo padre ha questo batterio” e di lì… non siamo riusciti a fare niente finché è deceduto. Mio padre era 110 chili.

GIULIO VALESINI Era un bell’omone, insomma.

UOMO Era un bell’omone, al momento del decesso era 47 chili.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo il rapporto O’Neill chiesto dal Governo Britannico oggi 700mila persone muoiono ogni anno per infezioni resistenti agli antibiotici. Nel 2050 nello scenario peggiore se non si prendono contromisure efficaci 10 milioni di vite all’anno saranno a rischio.

CHRISTOPH LUBBERT – CAPO DIPARTIMENTO INFETTIVOLOGIA UNIVERSITÀ LIPSIA Torneremo indietro, in una sorta di era pre-antibiotici; ma considerate che i trapianti, le operazioni chirurgiche, tutto quello che noi abbiamo messo insieme con la medicina moderna, si basa su antibiotici efficaci. Se perdiamo gli antibiotici, perdiamo il potere della medicina moderna.

GIULIO VALESINI Si calcola che una pillola su 10 che viene in Europa da noi, viene prodotta lì. Noi siamo stati e abbiamo visto questa roba, no… vede questa roba chimica?

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Caspita…

GIULIO VALESINI Hanno fatto dei test, li hanno fatti in Germania, hanno fatto analizzare le acque e sono usciti fuori il proliferare di batteri antibiotico resistenti.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Caspita…

GIULIO VALESINI Secondo lei è sostenibile?

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Assolutamente no. Non è ammissibile, non è, non è giusto.

GIULIO VALESINI Basterebbe che Ema, Aifa, gli enti regolatori, dicessero: o produci rispettando degli standard, o non esporti da noi in Europa. Perché che succede, tu vai lì a far produrre qualcosa che dovrebbe farci star bene, da lì poi nascono i batteri che adesso stanno uccidendo, insomma, hanno contribuito… insomma, c’è un’epidemia adesso in Toscana, lei lo sa meglio di me.

LUCA LI BASSI - DIRETTORE GENERALE AIFA Secondo me questa è un’ottima proposta costruttiva, e sarebbe bellissimo poterla implementare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bene speriamo che inizino a lavorarci. Però bisogna cambiare lo sguardo. Bisogna mettere intorno a un tavolo gli enti di controllo, tutti, quelli mondiali, le aziende farmaceutiche, e chi produce per loro. Perché il farmaco, lo ha detto il manager della Manarini, ormai arriva anche inscatolato. Loro ci mettono solamente il marchio, e il prezzo. Quello che rischiamo di pagare noi ce lo raccontano i sette ospedali dell’area nord-ovest della Toscana che ci dicono di un’infezione che non ha precedenti per concentrazioni in Italia e in Europa da batterio New Delhi. É inutile dire che a rischio sono i soggetti con il sistema immunitario più debole. Funziona sempre così, pagano sempre i più deboli. Qui, come in India.

·        Le cure dei vari tumori.

Giampiero Valenza per "il Messaggero" il 25 dicembre 2021. Nella lotta ai tumori la radioterapia è un po' come puntare il mirino di un fucile sulle cellule cancerose. Quando si decide di premere il grilletto e di sparare le radiazioni queste vengono distrutte una ad una. La tecnica oggi si fa sempre più hi-tech, tanto che c'è chi la chiama chirurgia virtuale. Perché si interviene nell'organismo senza fare alcun taglio. Un tipo di cura in netta crescita. «Per molti tumori la radioterapia costituisce una valida alternativa all'intervento chirurgico e per altri ancora rappresenta l'unica possibilità di cura - spiega Cinzia Iotti, direttore della Radioterapia oncologica dell'Ausl-Irccs di Reggio Emilia e presidente eletto dell'Airo, l'Associazione italiana di radioterapia e oncologia clinica - La radioterapia è una disciplina in continua evoluzione. Direi straordinaria, evoluzione. Il suo impiego, da sola o in associazione con altre terapie, sta guadagnando settori sempre più ampi, anche nel paziente metastatico a cui un tempo si somministravano solo trattamenti puramente palliativi e che oggi può invece contare su approcci terapeutici molto più ambiziosi, mirati a migliorare la sua attesa di vita». 

LE CELLULE 

Quattro malati oncologici su dieci sono stati curati così, almeno per un ciclo. Proprio l'Airo ha fatto i conti di quanti pazienti sono passati, nel solo 2020, nei 104 centri italiani. I numeri raggiunti potrebbero riempire una media città. Sono stati, infatti, quasi 100.000: 47.044 al Nord, 34.686 al Centro e 18.014 nel Mezzogiorno. Tra loro, in 15.000 l'hanno usata per sferrare l'agguato finale ed eliminare completamente il tumore: circa la metà (il 48%) per le forme della prostata, il 21% per quelli alla testa e al collo, il 9% per il tumore della cervice uterina e il 22% per la forma non a piccole cellule che colpisce il polmone. Non tutti i raggi anti-cancro, quindi, si sono spenti durante la pandemia. «La radioterapia, ci dicono i dati, ha saputo affrontare le criticità e ha quasi sempre risposto alla domanda dei pazienti oncologici - commenta Vittorio Donato, presidente di Airo, capo dipartimento di Oncologia e direttore della divisione di Radioterapia dell'azienda ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma - Non ci sono state, ad esempio, battute d'arresto per i tumori testa-collo che sono considerati malattie rare e per il tumore della prostata che è stata la neoplasia più trattata dai radioterapisti con intento curativo». I primi raggi X per curare il cancro vennero usati dal medico americano Emil Grubbe. Era il 1896 e da allora la strada ne è stata fatta tanta. Oggi si usa un approccio integrato, con più professionalità che trattano uno stesso caso (oncologi, altri specialisti, fisici, ingegneri), e con la ricerca e nuovi macchinari che hanno permesso di ridurre i cicli.  

LE SEDUTE 

Si va meno in ospedale e a guadagnarci è anche la qualità della vita. Si è passati da 30-40 sedute tra le 6 e le 8 settimane a 20 sedute in un mese fino alle cure lampo, da 1 a 5. Gli effetti si vedono anche quando si fa il mix e alla radio si aggiunge la chemioterapia. Secondo l'indagine i centri che in Italia sono in grado di somministrarle tutte e due sono solo il 40%. Principalmente si tratta di strutture universitarie e grandi realtà ospedaliere. «Oltre il 56% dei tumori testa-collo vengono trattati in concomitanza con la chemioterapia, che vuol dire che il trattamento multimodale è vincente e porta a risultati ottimali anche se di difficile gestione - commenta Marcello Mignogna, direttore della Radioterapia oncologica dell'ospedale San Luca di Lucca e consigliere nazionale di Airo  La tecnica maggiormente usata è l'intensità modulata, quella modalità che consente di disegnare con estrema precisione la distribuzione della dose agli organi interessati dalla malattia e agli organi a rischio». L'obiettivo è quello di risparmiare quanto più possibili gli organi nobili che non sono coinvolti dalla malattia e che devono continuare a funzionare nella maniera corretta.  

LE DOSI 

Proprio il mirino che con perfezione millimetrica colpisce le cellule cancerose è al centro di diversi successi contro il tumore alla prostata, che rappresenta circa il 20% delle forme di cancro dell'uomo. Il 94% dei casi viene trattato con macchine di radioterapia che erogano fasci a intensità modulata, una tecnica che consente di somministrare la dose di raggi in modo efficace e puntuale. 

Estratto dell’articolo di Daniela Mattalia per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” il 17 Novembre 2021. Ogni giorno, in quella meravigliosa forma di intelligenza collettiva che è il nostro corpo, qualche cellula decide di fare per conto proprio. Ignorando disciplina, ordine, senso del sacrificio e amor patrio, inizia a riprodursi in maniera anarchica e incontrollata, pronta a dichiarare un colpo di Stato in qualche organo o tessuto.  E, ogni giorno, il sistema immunitario la stronca sul nascere. Riconosce, nella sua complessa sinfonia biologica, la «nota stonata» e la elimina. Quasi sempre. A volte, invece, la cellula individualista riesce a eludere la sorveglianza e inizia la sua corsa a diventare tumore. Lunga, articolata, piena di ostacoli. Ma da quel momento le cose, per il sistema immunitario, si fanno complicate. E quando il colpo di Stato alla fine riesce pienamente, il cancro è lì. Estirparlo, e ripristinare l'armonia iniziale, sarà una sfida dall'esito incerto. Nell'arsenale terapeutico con cui assicurarsi, nella migliore delle ipotesi, la vittoria finale - o una tregua più duratura possibile dalla malattia - oggi c'è parecchio: oltre alla chemioterapia (talvolta evitabile), alla radioterapia, all'ormonoterapia, alla target therapy, uno spazio sempre maggiore lo sta prendendo l'immunoterapia: la strategia con cui, anziché bersagliare le cellule cancerose, si fa in modo che il sistema immunitario sia in grado di funzionare nel migliore dei modi; sia cioè capace di aggirare tutti i trucchi che il tumore mette in atto per sfuggire alle difese del corpo ed espandersi sempre più. Una tecnica, quella dell'immunoterapia, potenzialmente applicabile a ogni tipo di neoplasia, proprio perché si basa su quei meccanismi che cancro e sistema immunitario mettono in atto nella loro estenuante partita a scacchi. Ma che in alcuni tumori, in particolare, sta mostrando risultati evidenti e per certi versi straordinari. Per esempio nel melanoma e nel tumore al polmone e, in modo più parziale, in quello alla mammella. []Pier Paolo Di Fiore, professore ordinario del Dipartimento di oncologia ed emato-oncologia all'Università di Milano e oncologo allo Ieo []: «Se il sistema immune è deputato a sorvegliare tutto ciò che è estraneo al nostro organismo [], dal momento che le cellule tumorali hanno mutazioni non presenti in genere nel nostro Dna, anch' esse potrebbero essere riconosciute e distrutte dalle difese immunitarie []». Un esempio semplice che fa capire bene: passata una qualsiasi infezione, il sistema immunitario ha una sorta di «freno a mano» (in linguaggio scientifico, i «check-point») con cui disattiva la produzione di linfociti. Spento l'incendio, non c'è più bisogno di mandare pompieri. Il cancro sfrutta esattamente questo meccanismo: come in un atto di sabotaggio, blocca le difese immunitarie nel momento in cui colpisce. È in questo duello che agisce l'immunoterapia. I vari farmaci che utilizza, somministrati per via endovenosa, si chiamano per l'appunto «inibitori dei check point»: molecole che riattivano il sistema immunitario in modo che possa riconoscere e uccidere il tumore. All'atto pratico, tolgono la corazza con cui il tumore si proteggeva e lo rendono di nuovo vulnerabile. «Nel tumore al polmone e nel melanoma l'immunoterapia ha cambiato la storia della malattia» afferma Filippo De Braud, professore ordinario all'Università di Milano e direttore del Dipartimento e della divisione di oncologia medica dell'Istituto nazionale dei tumori. [] «Due malattie che erano mortali nell'arco di pochi mesi sono diventate guaribili» precisa De Braud. Grazie ai farmaci immunoterapici (anticorpi monoclonali con nomi che finiscono in «mab», come ipilimumab per il melanoma, nivolumab o durvalumab per il cancro polmonare), oggi la percentuale di chi ce la fa è salita al 30 per cento in entrambi i tumori.  «Ogni settimana vediamo pazienti che mostrano una remissione parziale o completa del cancro» dice l'oncologo. «A due-tre-quattro anni dall'inizio della terapia, la malattia non si vede più, loro stanno bene e noi pensiamo siano guariti. Fino a qualche anno fa sapevamo che, dopo pochi mesi, il tumore sarebbe ripartito».I risultati della cura si vedono a distanza di poche settimane, quando il tumore comincia a regredire. [] Oggi tutti i pazienti con cancro possono beneficiare dell'immunoterapia? No, non tutti. «Nei tumori a polmone, seno e melanoma è già pratica clinica, rimborsata dal Ssn, ma siccome sono farmaci ad alto costo, i pazienti devono rientrare in categorie precise, in base alle indicazioni dell'Aifa» risponde Giusy Fallica, medico oncologo responsabile del Servizio day hospital dell'unità operativa di oncologia medica di Humanitas, a Catania. «Il melanoma, che crea metastasi in tempi molto veloci perché raggiunge subito le vie ematiche, è stato il primo a beneficiarne e spesso con risultati clinici spettacolari. Ma l'immunoterapia è trasversale; dal momento che agisce «disarmando» i meccanismi delle cellule cancerose, potrebbe essere applicata ad altri tumori. Almeno potenzialmente []».Senza contare che parlare di «vittoria», quando si scrive di cancro, è semplicistico, in una malattia tra le più complicate che esistano. «Volendo continuare a definirla «guerra», diciamo che abbiamo armi sempre più raffinate per combatterla» puntualizza Fallica. [] Se il futuro della medicina oncologica è aiutare il sistema immunitario a fare bene il suo mestiere, anche quando la cellula maligna lo inganna con mille trucchi, possiamo farlo anche noi, con strumenti a portata di mano come l'alimentazione, l'esercizio fisico, lo stile di vita? «È un discorso assai complesso» risponde Di Fiore. «Non ci sono evidenze definitive che le terapie "complementari", ossia messe in moto dal paziente e non dal medico, accelerino la guarigione. Al tempo stesso dobbiamo stare attenti a non confondere l'assenza di evidenza con l'evidenza di un'assenza. [...]».

Capitale Umano e Creatività. Tumore al seno e ricostruzione mammaria, le eccellenze del Sud alla pari del Nord. Ogni anno oltre 4.500 gli interventi dopo mastectomia, in seguito una donna su dieci si separa. Fabrizia Flavia Sernia su Il Quotidiano del Sud il 23 ottobre 2021. Dopo una diagnosi di tumore al seno, nel caso della mastectomia la ripartenza comincia con la “erre” di ricostruzione dell’organo. Che è un primo, importante passo verso la risalita anche sul piano psicologico, relazionale, emotivo. “Le ricostruzioni dopo la mastectomia rappresentano fra i 4mila500 e i 5mila casi l’anno, calcolate in tutti i centri senologici italiani”. Sono “circa cinquanta le Breast Unit accreditate dal Ministero della Salute in base a specifici parametri” – avere una casistica operatoria di almeno centocinquanta casi di tumore all’anno e aver ottenuto la certificazione della qualità dei programmi di screening attraverso lo strumento della “Site Visit”, promosso dal Ministero della Salute – . A queste “si aggiungono circa 200 Centri di Chirurgia Senologica distribuiti in Italia nelle piccole province”. Sono strutture che “lavorano e operano professionalmente, ma che difficilmente possono raggiungere il numero di casi delle Breast Unit. In questi centri è importante, per il benessere delle donne, che nell’equipe di chirurgia della mammella ci sia sempre un chirurgo plastico che affianchi il chirurgo senologo”. Carlo Magliocca, Presidente della SICPRE – Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica – nelle parole e nei fatti dimostra di essere un medico dalla parte delle donne. Al Quotidiano del Sud fornisce i dati e risponde senza esitazione che sulla Chirurgia onco- ricostruttiva della mammella ritiene che i Centri di Eccellenza del Sud non temano confronti, per qualità e presenza sul territorio, rispetto a quelli del Nord e del Centro Italia. «Le Breast Unit sono equamente ripartite fra Nord e Sud, non c’è disparità. Le pazienti della Sicilia o della Sardegna non devono temere di non disporre di una sanità adeguata». Nel mese dedicato alla prevenzione della neoplasia mammaria, ha chiamato a raccolta chirurghi ed esperti di trentatré Breast Unit, da Nord a Sud, aderenti al “Bra-day”, la Giornata Internazionale per la consapevolezza sulla ricostruzione mammaria, celebrata mercoledì 20 ottobre. In un webinar organizzato dall’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, ha compiuto un piccolo miracolo: rispondere “live” alle domande delle donne – circa seimila le partecipanti, in parte in presenza e in parte sul web – sulla ricostruzione del seno nelle pazienti in trattamento. E non soltanto a loro. Con l’incontro – ha spiegato Magliocca, che è Chirurgo Plastico Onco-ricostruttivo del Centro integrato di Senologia (Breast Unit) dell’Isola Tiberina, a Roma – abbiamo voluto offrire alle donne la possibilità di dialogare direttamente con gli specialisti di Chirurgia Plastica Onco-ricostruttiva e chiarire i propri dubbi su come si può ricostruire una mammella, quali sono i materiali protesici più utilizzati, se esistono delle tecniche alternative come la ricostruzione autologa (con grasso della paziente, ndr), quali sono gli interventi ancillari (ossia se si può correggere anche la mammella sana)”. Ma anche dissolvere i dubbi più frequenti, emersi dalle interviste a donne comuni, di tutte le età, testimoniati nel filmato confezionato per il Bra-day

Dopo il tumore, il 9% delle donne si separa

Consapevolezza del tumore al seno e della ricostruzione post-mastectomia, conoscenza, prevenzione, valore dell’informazione e collaborazione dei media, valore dello sport, supporto psicologico sono stati gli highlights dell’evento, accanto all’auspicio di un maggior coinvolgimento degli uomini nel difficile percorso sostenuto dalle donne. La donna colpita, sottolinea il professor Magliocca, “è moglie, madre, sorella, zia, figlia, nipote”. La malattia impatta in tutta la sfera delle relazioni sociali. «Nel 9% dei casi dopo un tumore alla mammella le donne si separano – ha detto il chirurgo -. In molti casi gli uomini non hanno il coraggio di stare accanto alle donne con la malattia». Di qui «il progetto che parte quest’anno di indagare il livello di conoscenza degli uomini rispetto a un problema, la malattia, che colpisce una donna su otto e che rappresenta una sfida complessa anche per gli uomini che sono loro accanto» – ha affermato Patrizia Frittelli, Direttrice della Breast Unit del Fatebenefratelli di Roma.

Per il Covid saltate nel 2020 oltre 750 mila mammografie. Atteso +21% casi entro il 2040

Il Covid ha giocato a sfavore della prevenzione oncologica. “Sarà possibile analizzare le conseguenze negative sulla salute della brusca frenata, nel periodo pandemico, degli screening oncologici e delle sane abitudini soltanto a distanza di anni” – ha detto ancora Frittelli, che ha ricordato i dati ESMO – Società Europea di Oncologia Medica. “A seguito delle diagnosi mancate di tumore del 2020, si prevede un incremento di nuovi casi oncologici del 21% entro il 2040″.  Secondo l’Osservatorio Nazionale Screening sono oltre 4 milioni gli inviti saltati e 2,5 milioni gli esami non eseguiti, che si sono tradotti in almeno cinque mesi di ritardo per l’effettuazione di screening oncologici. In particolare, nel 2020 sono oltre 750 mila le donne in Italia che non hanno eseguito la mammografia. L’impatto di questi numeri è tangibile: nel 2020 sono state diagnosticate circa 3mila300 neoplasie mammarie in meno rispetto al 2019, con il rischio sia di una diagnosi in fase più avanzata, sia di una prognosi peggiore.

Con uno stile di vita sano ogni anno evitabili 150 mila nuove diagnosi nel mondo

La prevenzione era e resta l’arma vincente, così come la lotta alla sedentarietà e alla cattiva alimentazione. “Sovrappeso e obesità – ha ricordato ancora Frittelli -, spesso legati proprio alla scarsa attività fisica, rappresentano un potente fattore di rischio per lo sviluppo del tumore della mammella e per le recidive. In Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali, circa il 40% dei nuovi tumori è potenzialmente evitabile. Se consideriamo che il 38% dei pazienti oncologici ha una vita sedentaria, è possibile prevedere quali saranno gli effetti futuri del lockdown imposto dalla pandemia. Si calcola che con l’adozione di uno stile di vita sano sia possibile evitare almeno 150 mila nuove diagnosi di cancro ogni anno”. Lo sport è un’arma potente per restituire benessere fisico e psicologico alle pazienti – ha aggiunto il presidente SICPRE, ricordando l’utilità del canottaggio per le donne in fase di riabilitazione fisica e psicologica.

Da Torino a Napoli, Palermo e Sassari: 33 Breast Unit “live”

Per il chirurgo Carlo Magliocca la “consapevolezza delle pazienti”, il loro “ascolto critico” delle parole dello specialista è un fattore determinante, perché le donne devono essere “libere di scegliere”, come recita il claim del Bra-day. “Ricevere una diagnosi di carcinoma mammario non è certamente una situazione facile, ma un’informazione precisa e dettagliata che arriva da una voce “esperta” può aiutare la paziente a essere maggiormente consapevole delle proprie scelte”- afferma. Così, in un alternarsi di interventi dal web e dalla sala del Fatebenefratelli di Roma, ecco gli esperti rispondere “live” a domande a 360 gradi sulla onco-ricostruzione mammaria. Ci sono Adriana Cordova, direttrice di Chirurgia Plastica dell’Università di Palermo; Rosario Ranno, Chirurgo plastico dell’Ospedale Cannizzaro di Catania. Con loro, altri numeri uno, fra i quali Francesco D’Andrea della Federico II di Napoli, Diego Ribuffo della Sapienza, Marzia Salgarello e Daniela Terribile, della Chirurgia Plastica e Chirurgia Senologica del Gemelli di Roma e, da Milano, Maurizio Nava, il cui mentore è stato Umberto Veronesi. E ancora, Paolo Persichetti dal Campus Bio-Medico di Roma, Corrado Rubino dell’Università di Sassari e la clinica convenzionata con il SSN, Mater Olbia nella omonima città.

Palermo, un’eccellenza. In Calabria brilla Catanzaro

Fra Nord e Sud non c’è disparità, conclude il numero uno SICPRE. In Sicilia esistono Breast Unit accreditate – a Palermo, Trapani, Siracusa, Catania, Messina – distribuite sul territorio come forse non accade in una regione quale è il Lazio, che conta cinque strutture, tutte a Roma. Conosco personalmente le eccellenze della Sicilia. Credo che l’Università di Palermo sia una delle prime Università per insegnamento e trattamento in Italia”. Anche la Puglia è al passo. Quanto invece alla Calabria e Basilicata “sono un piccolo passo indietro”. Tuttavia, “a Catanzaro c’è una bellissima Scuola di Chirurgia Plastica del professor Manfredi Greco, all’Università Magna Graecia”.

Cancro: perché io ce l’ho fatta e gli altri no? Il senso di colpa del sopravvissuto. Tina Simoniello su La Repubblica il 29 settembre 2021. Un senso di ingiustizia esistenziale può accompagnare chi guarisce dalla malattia. Non solo: la colpa si prova alla diagnosi e nel corso delle cure, in famiglia e al lavoro. Come affrontare queste emozioni? Ne abbiamo parlato con una psiconcologa. BETHANY Hart vive con marito, il figlio e tre cani ad Indianapolis, negli Usa. È sopravvissuta a un cancro della cervice uterina e su Cancer.Net - un sito che l’American Society of Clinical Oncology (Asco) dedica all’informazione dei pazienti - racconta la sua esperienza. Bethany non elenca tutti gli stressanti, dolorosi, ansiogeni appuntamenti per le analisi, gli interventi o i controlli affrontati e, nel suo caso, superati: al web ha affidato, invece, il racconto del suo senso di colpa di sopravvissuta, cioè di quel particolare sentimento negativo che affligge a volte chi supera la malattia. Di quell’emozione che si insinua nella mente e che costringe a pensare: perché io sono guarita e la mia amica no? Perché io ho reagito alle cure mentre il tumore ha ucciso il mio vicino di letto in ospedale? 

L’autocensura

Quando l’oncologo le comunica che è libera dal cancro e le chiede come si sente, lei - racconta - non riesce ad essere davvero sincera: dice che va tutto bene, alla grande. In sostanza si autocensura. Non dice che per colpa dei trattamenti non si sente bene, che ha dolori, fastidi e che non dimentica lo stress, psichico e fisico, che ha sopportato. “Che faccio? Mi lamento? Davvero devo snocciolare tutto quello che mi dà fastidio? -  pensa Bethany nello studio del medico mentre risponde che va tutto bene - Come potrei elencare tutti i dolori che ancora sento a causa dei trattamenti quando così tante persone stanno peggio di me? Cammino bene, perché dovrei parlare del dolore che provo ai fianchi? Come potrei dire dell’ansia delle tac o della paura delle recidive, quando le scansioni non mostrano più i segni di malattia e così tante persone che conosco stanno invece combattendo contro le recidive? Il mio oncologo penserebbe che sono pazza. Perché dovrei lamentarmi di qualcosa, quando sono viva e tanti altri che ho conosciuto nei gruppi di sostegno o in ospedale non lo sono più? (…). Tutte persone con così tanta vita davanti, stroncate dal cancro”. 

Il lutto e l’ingiustizia

Come abbiamo anticipato, è il senso di colpa del sopravvissuto, quello di Bethany. E lei non è un caso isolato, piuttosto un caso paradigmatico, perché il sentimento della colpa non è raro tra i pazienti oncologici guariti. “I malati di cancro sviluppano legami affettivi molto intensi con le persone che hanno condiviso il loro percorso - spiega Anna Costantini, direttore della Unità Operativa di Psico-oncologia dell’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Andrea di Roma - anche se non si tratta di amici magari di vecchia data, ma di persone con cui hanno scambiato parole, emozioni, con cui hanno condiviso una stanza di ospedale, o una sala d’attesa o un day hospital nel corso delle terapie, o che hanno incontrato in un gruppo di autoaiuto. Quando qualcuno di loro sa che un altro non ce l’ha fatta, oltre che un lutto, perché di un lutto si tratta visto che parliamo di legami forti, avverte anche una sorta di senso ingiustizia esistenziale”. Lutto e ingiustizia esistenziale. Parliamo di emozioni negative e intense, non è poca cosa. Ma si superano, questa emozioni, nel tempo? “Sì, col tempo si superano - riprende l’esperta - a volte con l’impegno, con rilanciando attività significative nella propria vita: molti, più spesso donne, chiedono di fare le volontarie per poter dare agli altri quello che di buono hanno ricevuto loro, reinvestendo nella propria capacità di dare senso e significato alla vita”.

Il senso di colpa della diagnosi

Per quanto possa sembrare paradossale, il sentimento doloroso della colpa non si insinua soltanto al momento della guarigione, ma inquina i pensieri nel corso di tutto il percorso di cura, a partire dalla diagnosi. “Almeno il 50% dei pazienti oncologici e fino al 90% fa esperienza di sensi di colpa, a partire dal momento della scoperta della malattia e nel corso delle cure – conferma Costantini – con problematiche e aspetti differenti. Il cancro è una malattia in parte diversa dalle altre, perché molti dei meccanismi all’origine dei tumori sono ancora in fase di studio. Inoltre rappresenta una delle patologie più che hanno maggiore impatto sulla popolazione. Questi due elementi fanno sì che si arriva alla diagnosi già con un’idea di cosa sia un tumore, che è più o meno realistica. Per tanti anni ha avuto un certo successo un filone di pensiero secondo il quale stili di vita inappropriati, come il tabagismo o una vita sessuale libera, per esempio, o esperienze emotivamente stressanti, come una storia di relazioni frustranti, provochino il cancro. Come se ci fosse un automatismo. Un automatismo che non c’è, naturalmente, ma che a volte induce a pensare che si è responsabili della propria malattia”. Un senso di colpa, o di responsabilità, privo di basi scientifiche certe, ma anche una reazione normale, però, perché in fondo tutti, quando facciamo esperienza di un evento traumatico e che non ci spieghiamo, abbiamo bisogno di un certo controllo cognitivo. “E a volte, paradossalmente, attribuire una causa a qualcosa a cui non riusciamo a dare un significato dà una qualche forma di controllo sulla situazione. Anche se è un boomerang”, avverte Costantini. 

L'importanza di ascoltare i pazienti

“È un boomerang - riprende - perché il senso di colpa ha delle conseguenze. È documentato da ricerche che i sentimenti di colpa possono portare a negare sintomi fisici, a sensazioni di inferiorità, di inadeguatezza, a chiudersi in sé stessi, ma soprattutto il senso di colpa è causa di depressione o si accompagna a depressione. E la depressione è un fattore di rischio, perché spinge e a curarsi peggio, a saltare le visite, a trascurare l’alimentazione. Si capisce facilmente quanto sia importante cogliere presto i segnali del senso di colpa nei pazienti, facendo per esempio caso a espressioni del tipo: ‘che sarebbe successo se avessi fatto…?’, ‘come sarebbe andata se non avessi fatto…?’, ‘perché non ho seguito i consigli del medico?’ Il paziente va ascoltato e gli va lasciato tutto il tempo per rivelarsi nei suoi sentimenti e nei suoi pensieri, in questo modo diventa più facile cogliere e correggere preconcetti e false interpretazioni della sua condizione. Inoltre è utile - aggiunge la psicologa - fornire una informazione realistica, scientifica ma semplice sull’origine della malattia”. E i malati come possono aiutarsi a non cadere dalle false interpretazioni del cancro? “Diventando consapevoli che il sentimento di colpa è frequente, che non sono soli, che quello che provano è estremamente umano ma controproducente”, risponde la psicologa: “Nessuno si provoca la malattia. L’idea di esserselo procurato è una angoscia insopportabile, che non può essere accettabile”.

Il senso di colpa verso i familiari

Pazienti che si sentono in colpa per l’imbarazzo che provocano nei figli o nel coniuge per non avere più una immagine fisica socialmente accettabile. Donne che perdono i capelli per le cure e che si vergognano di andare a prendere i figli a scuola. O che hanno perso la voglia di fare sesso con i compagni e temono di infliggere un sacrificio pesante a chi amano. Padri di famiglia “colpevoli” di non essere produttivi sul lavoro com’erano prima della chemio. Uomini e donne sotto il peso del pensiero delle rinunce a cui costringono figli, magari adolescenti. Tutti questi pensieri negativi - dicono gli esperti - sono molto frequenti, specialmente tra chi ha una malattia che si cronicizza. “A questi pazienti - consiglia la specialista - va ricordato quanto loro hanno dato alla famiglia prima di ammalarsi, che è tantissimo. E che per i familiari è un grande beneficio poter restituire tutto il bene che hanno ricevuto: i figli, i coniugi sono impotenti difronte al cancro, non possono fare nulla. Quindi prendersi cura di chi amano, della madre, del padre, del compagno di una vita, è un regalo che vogliono fare, che fanno volentieri”.

La metafora del guerriero

C’è una metafora molto diffusa che riguarda il cancro: quella del guerriero. Il malato di cancro è come guerriero, il cancro come una guerra, le cure come armi, eccetera. Il fatto è che, sebbene questa malattia, come anche altre, un po’ effettivamente assomigli a una guerra, non tutti i pazienti oncologici possono, o devono, sentirsi guerrieri: tanti non riescono a essere reattivi, molti sopportano male i trattamenti. Non c’è il rischio, davvero paradossale a questo punto, che oltre a dover sopportare una malattia grave, questi pazienti possano sentirsi anche in colpa o arrabbiati perché si sentono stanchi o depressi, perché non corrispondono al modello del guerriero? “Il rischio è che queste persone possano pensare che la loro depressione possa far progredire la malattia – spiega Costantini – quindi la metafora del guerriero si può trasformare in un altro ennesimo boomerang. Nessuno è responsabile della sua malattia e di come evolve, sia che muoia a causa del cancro sia che continui a vivere”.

Isabella Fantigrossi per corriere.it il 18 settembre 2021. Arriva il caffè sul tavolo e, prima di sorseggiarlo, apre una bustina di zucchero, bianco. Ne versa un po’ nella tazzina. Osservato, spiega: «Ma non ho mai detto che non si può mangiare. Se è per questo sono appena stato in Calabria e ho anche mangiato del salame, non è facile resistere. Pensi che l’altro giorno ero in un bar a Genova, una persona mi riconosce e mi dice: “Ma professor Longo, l’ho vista, ha messo la sambuca nel caffè!”. Beh ma certo, si può. Inutile mangiare mezzo chilo di pane, pasta, pizza e patate al giorno e poi stare a levare quattro grammi di zucchero. Non ha senso». Il punto, insomma, è seguire abitualmente una dieta diversa. Ma, soprattutto – spiega Valter Longo, direttore del Laboratorio Longevità e Cancro di IFOM (l’Istituto Firc di Oncologia Molecolare di Milano) e dell’Istituto di Longevità della University of Southern California di Los Angeles – capire che il digiuno e un certo tipo di dieta possono aiutare a combattere il cancro. O, detto meglio, che la combinazione studiata di dieta per la longevità e di dieta mima digiuno può ottenere importanti effetti anti-tumorali: mangiare poco, insomma, ma bene può ritardare la progressione della malattia nei pazienti oncologici. Valter Longo, biochimico di formazione, nato a Genova nel 1967, quest’anno definito dalla rivista scientifica americana Science come un pioniere nel campo della nutrizione, lo racconta nel suo nuovo libro, Il cancro a digiuno, in libreria per Vallardi dal 20 settembre. È così convinto della sua teoria, Longo, da azzardare una previsione importante: «Oggi sappiamo che quasi una persona su due si ammalerà di tumore. Ma, grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, io credo che in meno di 20 anni sconfiggeremo il cancro. Se ci mettessimo di più, sarebbe davvero sconvolgente. Certo, non è una cosa di domani ma la ricerca scientifica è davvero a buon punto. Ora si tratta di capire quanto anche l’alimentazione possa dare il suo contributo».

La dieta della longevità. Il segreto sta nell’integrazione, dunque, di dieta della longevità e dieta mima digiuno. La prima è un regime pesco-vegetariano che prevede l’assunzione di poche proteine (negli adulti circa 0,8 grammi per chilo di peso corporeo ideale), zuccheri e carboidrati raffinati limitati (in modo da fornire nutrimento senza provocare alti livelli di insulina) e la decisione di mangiare solo nell’arco concentrato di 12 ore al giorno, in modo da digiunare per le altre 12 (nelle persone sane, mentre nella terapia di vari tipi di tumore è consigliabile spingersi fino a 13-14 ore giornaliere di digiuno). «La dieta della longevità andrebbe seguita sempre nell’arco della vita, seppur con differenze di quantità a seconda dell’età, perché ideale per massimizzare la longevità e minimizzare la progressione tumorale».

La dieta mima digiuno. A questo tipo di alimentazione — «in momenti precisi stabiliti dal medico, evitando rigorosamente il fai da te» — , si abbinano poi cicli di dieta mima digiuno, un programma alimentare della durata di 5 giorni chiamato così perché consente di mangiare, anche se poco, e di avere allo stesso tempo gli effetti benefici del digiuno: si tratta di una dieta ipocalorica, ipoproteica (con proteine di origine esclusivamente vegetale), a basso contenuto di zuccheri semplici e che prevede uno studiatissimo bilanciamento tra macro-nutrienti (proteine, grassi, carboidrati, fibre) e micro-nutrienti (vitamine e minerali). Un esempio di menu giornaliero? Caffè decaffeinato o tè deteinato, un bicchiere di latte vegetale, del pane integrale o di segale e un cucchiaio di marmellata senza zuccheri a colazione; a pranzo una zuppa e dell’insalata; come spuntino di metà pomeriggio un frutto fresco e 15 grammi di frutta secca; e a cena del filetto di pesce e della macedonia di stagione con semi misti.

«Jolly terapeutici». «Queste due diete – è convinto Longo – non solo sono in grado di ritardare l’invecchiamento e allungare la gioventù ma possono davvero rendere difficile la vita alle cellule tumorali». Tanto da essere considerate dei veri propri «jolly terapeutici» a rinforzo delle tradizionali terapie anti-cancro come la chemio, l’immunoterapia o le terapie ormonali. Ma qual è il meccanismo con cui agiscono secondo Longo? «Semplificando, è come se il digiuno aiutasse a separare le cellule sane dalle cellule tumorali: mentre le prime sanno come comportarsi perché il digiuno fa parte della storia dell’uomo, le seconde, nel momento in cui vengono affamate, sono in difficoltà. In questo modo è come se le cellule sane fossero silenti, mentre le terapie anti-cancro fanno il loro dovere colpendo solo quelle malate». Questa dinamica, racconta, era già stata dimostrata sui lieviti e sui topi. E ora sembrano andare nella stessa direzione i diversi studi clinici randomizzati sugli esseri umani citati nel libro. Nel frattempo stanno per partire due studi randomizzati, coordinati da Longo, assieme all’università della Calabria per scoprire gli effetti della dieta della longevità sugli abitanti di Molochio e Varapodio e per capire se, dopo tre cicli di dieta mima digiuno e studiando i marcatori della giovinezza, è possibile riportare indietro l’età biologica delle persone. 

L’equipe: oncologo, nutrizionista e biologo. Il cambio di prospettiva è evidente. Si è sempre pensato di dover rimettere in forza il paziente. Ora bisogna mettersi a stecchetto. «Ma non è così. L’obiettivo resta sempre quello di rimettersi in forza ma mangiando diversamente, per mettere il tumore in condizione di fermarsi. Senza mangiare di più ma nemmeno senza la restrizione calorica, una dieta poco sofisticata ideata negli anni passati che conduceva all’anoressia. Io, per esempio, seguo questa alimentazione da quando ho 30 anni, dopo aver scoperto di avere il colesterolo e la pressione molto alta come tutti i miei famigliari. Oggi ho valori nella norma, non prendo farmaci e non sono affatto sottopeso: sono alto 186 centimetri e peso 78 chili». Dunque, le terapie tradizionali guidano la strategia di cura, la dieta si affianca per massimizzarne gli effetti. «L’oncologo, dunque, non basta più. Per guarire dalla malattia o fermarne la progressione è necessaria un’equipe, un team composto dall’oncologo e poi anche da nutrizionista, biologo molecolare e psicologo che possono costruire assieme una strategia più efficace». Realtà o utopia? «Noi ci siamo già. Lavoriamo così nelle nostre cliniche non profit di Milano e Los Angeles che speriamo diventino sempre più grandi. E chiunque può contattare i nutrizionisti della Fondazione Valter Longo Onlus, dove per altro il servizio è gratis per chi non se lo può permettere e per gli altri a basso costo».

La comunità scientifica. Dopo di che, però, c’è ancora scetticismo da parte della comunità scientifica su questa strategia. «Purtroppo è così, dieta della longevità e dieta mima digiuno non sono ancora accettate dalla maggior parte degli oncologi come aiuti alle terapie tradizionali. Non si tratta però di cure alternative, quello che raccontiamo è frutto di ricerca scientifica e di anni di lavoro continuo all’Ifom di Milano e a Los Angeles in collaborazione con oncologi di tutto il mondo. Ora dobbiamo solo andare avanti con la ricerca e gli studi per dimostrare definitivamente la bontà dell’idea». Convinti, intanto, lo sono senz’altro i genitori di Longo: «Vivono a Genova, mio papà ha 96 anni e mia mamma 86. E da tempo seguono le mie indicazioni. Ma non è difficile: in fondo la dieta della longevità è ciò che loro mangiavano durante la guerra: verdure, molti legumi e un po’ di pasta. Con loro sono uno stratega – sorride -. Parlo con il geriatra, il neurologo, il cardiologo, ascolto tutti e poi li metto in collegamento. Certo, il sogno sarebbe riuscire a fare così con tutti, non solo con i miei genitori».

Isabella Fantigrossi per corriere.it il 18 settembre 2021. Arriva il caffè sul tavolo e, prima di sorseggiarlo, apre una bustina di zucchero, bianco. Ne versa un po’ nella tazzina. Osservato, spiega: «Ma non ho mai detto che non si può mangiare. Se è per questo sono appena stato in Calabria e ho anche mangiato del salame, non è facile resistere. Pensi che l’altro giorno ero in un bar a Genova, una persona mi riconosce e mi dice: “Ma professor Longo, l’ho vista, ha messo la sambuca nel caffè!”. Beh ma certo, si può. Inutile mangiare mezzo chilo di pane, pasta, pizza e patate al giorno e poi stare a levare quattro grammi di zucchero. Non ha senso». Il punto, insomma, è seguire abitualmente una dieta diversa. Ma, soprattutto – spiega Valter Longo, direttore del Laboratorio Longevità e Cancro di IFOM (l’Istituto Firc di Oncologia Molecolare di Milano) e dell’Istituto di Longevità della University of Southern California di Los Angeles – capire che il digiuno e un certo tipo di dieta possono aiutare a combattere il cancro. O, detto meglio, che la combinazione studiata di dieta per la longevità e di dieta mima digiuno può ottenere importanti effetti anti-tumorali: mangiare poco, insomma, ma bene può ritardare la progressione della malattia nei pazienti oncologici. Valter Longo, biochimico di formazione, nato a Genova nel 1967, quest’anno definito dalla rivista scientifica americana Science come un pioniere nel campo della nutrizione, lo racconta nel suo nuovo libro, Il cancro a digiuno, in libreria per Vallardi dal 20 settembre. È così convinto della sua teoria, Longo, da azzardare una previsione importante: «Oggi sappiamo che quasi una persona su due si ammalerà di tumore. Ma, grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, io credo che in meno di 20 anni sconfiggeremo il cancro. Se ci mettessimo di più, sarebbe davvero sconvolgente. Certo, non è una cosa di domani ma la ricerca scientifica è davvero a buon punto. Ora si tratta di capire quanto anche l’alimentazione possa dare il suo contributo».

La dieta della longevità. Il segreto sta nell’integrazione, dunque, di dieta della longevità e dieta mima digiuno. La prima è un regime pesco-vegetariano che prevede l’assunzione di poche proteine (negli adulti circa 0,8 grammi per chilo di peso corporeo ideale), zuccheri e carboidrati raffinati limitati (in modo da fornire nutrimento senza provocare alti livelli di insulina) e la decisione di mangiare solo nell’arco concentrato di 12 ore al giorno, in modo da digiunare per le altre 12 (nelle persone sane, mentre nella terapia di vari tipi di tumore è consigliabile spingersi fino a 13-14 ore giornaliere di digiuno). «La dieta della longevità andrebbe seguita sempre nell’arco della vita, seppur con differenze di quantità a seconda dell’età, perché ideale per massimizzare la longevità e minimizzare la progressione tumorale».

La dieta mima digiuno. A questo tipo di alimentazione — «in momenti precisi stabiliti dal medico, evitando rigorosamente il fai da te» — , si abbinano poi cicli di dieta mima digiuno, un programma alimentare della durata di 5 giorni chiamato così perché consente di mangiare, anche se poco, e di avere allo stesso tempo gli effetti benefici del digiuno: si tratta di una dieta ipocalorica, ipoproteica (con proteine di origine esclusivamente vegetale), a basso contenuto di zuccheri semplici e che prevede uno studiatissimo bilanciamento tra macro-nutrienti (proteine, grassi, carboidrati, fibre) e micro-nutrienti (vitamine e minerali). Un esempio di menu giornaliero? Caffè decaffeinato o tè deteinato, un bicchiere di latte vegetale, del pane integrale o di segale e un cucchiaio di marmellata senza zuccheri a colazione; a pranzo una zuppa e dell’insalata; come spuntino di metà pomeriggio un frutto fresco e 15 grammi di frutta secca; e a cena del filetto di pesce e della macedonia di stagione con semi misti.

«Jolly terapeutici». «Queste due diete – è convinto Longo – non solo sono in grado di ritardare l’invecchiamento e allungare la gioventù ma possono davvero rendere difficile la vita alle cellule tumorali». Tanto da essere considerate dei veri propri «jolly terapeutici» a rinforzo delle tradizionali terapie anti-cancro come la chemio, l’immunoterapia o le terapie ormonali. Ma qual è il meccanismo con cui agiscono secondo Longo? «Semplificando, è come se il digiuno aiutasse a separare le cellule sane dalle cellule tumorali: mentre le prime sanno come comportarsi perché il digiuno fa parte della storia dell’uomo, le seconde, nel momento in cui vengono affamate, sono in difficoltà. In questo modo è come se le cellule sane fossero silenti, mentre le terapie anti-cancro fanno il loro dovere colpendo solo quelle malate». Questa dinamica, racconta, era già stata dimostrata sui lieviti e sui topi. E ora sembrano andare nella stessa direzione i diversi studi clinici randomizzati sugli esseri umani citati nel libro. Nel frattempo stanno per partire due studi randomizzati, coordinati da Longo, assieme all’università della Calabria per scoprire gli effetti della dieta della longevità sugli abitanti di Molochio e Varapodio e per capire se, dopo tre cicli di dieta mima digiuno e studiando i marcatori della giovinezza, è possibile riportare indietro l’età biologica delle persone. 

L’equipe: oncologo, nutrizionista e biologo. Il cambio di prospettiva è evidente. Si è sempre pensato di dover rimettere in forza il paziente. Ora bisogna mettersi a stecchetto. «Ma non è così. L’obiettivo resta sempre quello di rimettersi in forza ma mangiando diversamente, per mettere il tumore in condizione di fermarsi. Senza mangiare di più ma nemmeno senza la restrizione calorica, una dieta poco sofisticata ideata negli anni passati che conduceva all’anoressia. Io, per esempio, seguo questa alimentazione da quando ho 30 anni, dopo aver scoperto di avere il colesterolo e la pressione molto alta come tutti i miei famigliari. Oggi ho valori nella norma, non prendo farmaci e non sono affatto sottopeso: sono alto 186 centimetri e peso 78 chili». Dunque, le terapie tradizionali guidano la strategia di cura, la dieta si affianca per massimizzarne gli effetti. «L’oncologo, dunque, non basta più. Per guarire dalla malattia o fermarne la progressione è necessaria un’equipe, un team composto dall’oncologo e poi anche da nutrizionista, biologo molecolare e psicologo che possono costruire assieme una strategia più efficace». Realtà o utopia? «Noi ci siamo già. Lavoriamo così nelle nostre cliniche non profit di Milano e Los Angeles che speriamo diventino sempre più grandi. E chiunque può contattare i nutrizionisti della Fondazione Valter Longo Onlus, dove per altro il servizio è gratis per chi non se lo può permettere e per gli altri a basso costo».

La comunità scientifica. Dopo di che, però, c’è ancora scetticismo da parte della comunità scientifica su questa strategia. «Purtroppo è così, dieta della longevità e dieta mima digiuno non sono ancora accettate dalla maggior parte degli oncologi come aiuti alle terapie tradizionali. Non si tratta però di cure alternative, quello che raccontiamo è frutto di ricerca scientifica e di anni di lavoro continuo all’Ifom di Milano e a Los Angeles in collaborazione con oncologi di tutto il mondo. Ora dobbiamo solo andare avanti con la ricerca e gli studi per dimostrare definitivamente la bontà dell’idea». Convinti, intanto, lo sono senz’altro i genitori di Longo: «Vivono a Genova, mio papà ha 96 anni e mia mamma 86. E da tempo seguono le mie indicazioni. Ma non è difficile: in fondo la dieta della longevità è ciò che loro mangiavano durante la guerra: verdure, molti legumi e un po’ di pasta. Con loro sono uno stratega – sorride -. Parlo con il geriatra, il neurologo, il cardiologo, ascolto tutti e poi li metto in collegamento. Certo, il sogno sarebbe riuscire a fare così con tutti, non solo con i miei genitori».

Valter Longo: «Ecco come il digiuno può aiutare a combattere il cancro». Alice Politi il 12 settembre 2021 su Vanityfair.it. A distanza di 5 anni da La dieta della Longevità, esce Il Cancro a digiuno, nuovo saggio firmato da Valter Longo, pioniere nella ricerca su nutrizione e tumori. Dal modo in cui il digiuno agisce sulle cellule tumorali a ciò che potremmo aspettarci da qui a dieci anni, ecco cosa ci ha spiegato in questa intervista esclusiva. Quanto il digiuno possa essere importante nel rallentare il processo di invecchiamento, favorendo il rinnovamento cellulare lo aveva già ampiamente spiegato con il libro La dieta della Longevità, uscito nel 2018 e subito diventato un bestseller mondiale. Come invece la dieta mima digiuno (lo schema alimentare che consente di mangiare e, contemporaneamente, di avere sul proprio corpo gli stessi identici effetti del digiuno) possa aiutare a prevenire e curare molti tipi di tumore, anche negli stadi avanzati, Valter Longo lo dimostra adesso con Il cancro a digiuno, nuovo saggio edito da Vallardi – in libreria dal 20 settembre – destinato ad ampliare la prospettiva sul ruolo che la nutrizione può rivestire non soltanto nel preservare la salute ma anche nel riconquistarla. Professore ordinario di Gerontologia e Scienze Biologiche, direttore dell’Istituto di Longevità presso la School of Gerontology alla University of Southern California di Los Angeles e del Laboratorio di Longevità e Cancro all’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, in questa sua nuova pubblicazione il biochimico Longo spiega i dati raccolti in decenni di ricerca di base e clinica, che dimostrano come un uso controllato di dieta mima-digiuno e dieta della longevità possa aiutare a prevenire, ma anche a sconfiggere, le patologie tumorali, togliendo nutrimento solo alle cellule malate. Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio la portata dei suoi studi e ipotizzare dove tutte queste importanti evidenze potrebbero condurci da qui ai prossimi dieci anni.

Professor Longo, Il cancro a digiuno esce a distanza di cinque anni da La dieta della longevità. Che cosa è successo di importante nel frattempo?

«Sono successe sostanzialmente due cose, una nell’ambito della prevenzione e una riguardo agli studi clinici. Da una parte, è diventato sempre più chiaro che il cancro si può prevenire – o almeno lo si può fare per una grossa fetta di tumori – e questo grazie a studi genetici, e relative pubblicazioni, sugli effetti di chi mangia poche proteine e chi invece ne mangia tante. 5 anni fa, inoltre, mancavano tutti gli studi clinici e il nostro era l’unico laboratorio che pubblicava studi sul digiuno dei topi, mentre adesso i laboratori che lo fanno sono molto più numerosi e con tutti con pubblicazioni positive. Infine, ci sono ora studi clinici, ovvero studi relativamente ampi – tra cui uno con 125 pazienti, citato nel libro – che mostrano gli effetti potenti della mima-digiuno su donne malate di cancro al seno».

Nel libro, si evidenzia la preziosità di un approccio medico di “squadra” (che comprenda cioè l’oncologo ma anche un dietista, un nutrizionista, etc.) nell’affrontare la cura di un tumore. Perché è importante farlo?

«All’interno degli ospedali ci si ostina a dire che il paziente nutrito con la carne vive e reagisce meglio alle cure. C’è molta insistenza in tal senso, perché non si sapeva ancora nulla della relazione tra alimentazione e cancro. L’assunto del nutrizionista e del dietologo è da sempre proprio quello di dar da mangiare il più possibile al paziente. Adesso però si cominciano ad avere una cinquantina di relazioni che dimostrano che non importa che tumore è, non importa che tipo di terapia è, ma mettendo il tumore a digiuno qualsiasi terapia funziona molto meglio. Chiaramente, al momento, questo team con multiapproccio al tumore è raro, noi lo abbiamo a Los Angeles e a Milano grazie all’intervento dei nutrizionisti della Fondazione, ma è ancora difficile vederlo nella pratica quotidiana delle cure oncologiche di tutto il mondo».

Soffermiamoci sul focus del suo libro: che ruolo può svolgere l’alimentazione nella gestione e nella cura di un paziente con tumore?

«L’alimentazione può essere centrale ma è ovvio che si deve guardare, da un lato, alle cellule tumorali e, dall’altro, al paziente. Si è sempre alla ricerca di una pallottola magica che vada a uccidere il tumore e prima o poi arriverà, ma l’alimentazione, nel frattempo, ci permette di operare un’eccezionale distinzione fra cellule normali e cellule del cancro: le cellule normali sanno esattamente cosa fare quando noi non mangiamo, perché il digiuno è parte della nostra storia; le cellule tumorali, invece, si trovano in grande difficoltà e si rifiutano di fermarsi, nonostante il digiuno le renda “affamate”: questo dà un potere notevole alla terapia antitumorale in atto, che si tratti di chemioterapia, immunoterapia o terapia ormonale. Stiamo vedendo dai primi studi clinici che questa strategia funziona: la rivoluzione messa in atto attraverso la dieta mima digiuno rende il tumore meno resistente e più sensibile alle terapie. La scoperta più nuova, in tal senso, è legata all’immunoterapia: stiamo notando che, nei topi, quando il digiuno è unito all’immunoterapia risulta molto più potente e rende più visibile il tumore al sistema immunitario».

In modo specifico, come agisce il digiuno sulle cellule tumorali? 

«Uso una metafora: se mettessimo un miliardo di persone nel deserto per 15 giorni e avessero ombra e avessero acqua, dopo un paio di settimane quelle persone sarebbero probabilmente tutte vive. Se invece quel miliardo di persone (le cellule tumorali) fossero obbligate a correre per due settimane (l’atteggiamento di tali cellule) ma fossero private dell’acqua (che nel caso del paziente con tumore sarebbe il cibo) e costrette a stare sotto il sole (che sarebbe la chemioterapia o altre forme di terapia), quante persone sopravviverebbero dopo due settimane? Forse nessuna».

In quali tipi di tumori, in particolare, si sono riscontrati miglioramenti inserendo nella terapia il digiuno o la dieta mima digiuno? 

«Negli studi condotti su animali, in tutti i tipi di tumore. Quelli clinici, al momento, si sono invece focalizzati sul cancro alla mammella, su quello alle ovaie e ultimamente sul cancro alla prostata. Su cancro alla mammella e chemioterapia iniziano a esserci già dati molto positivi, diciamo che mancherebbe uno studio condotto su 300 o 400 pazienti per far sì che questa possa diventare una terapia standard».

Sulla base di ciò che ha scoperto fino a questo momento, che cosa si può fare per prevenire lo sviluppo di tumori e mantenersi in salute?

«Si possono fare varie cose: seguire una dieta pescetariana, ovvero mangiare pesce (a basso contenuto di mercurio) una o due volte la settimana così da limitare l’eccesso di proteine. Perché, lo abbiamo dimostrato noi e l’hanno confermato altri: troppe proteine di origine animale sono associate con l’aumento del rischio di tumori e quindi una dieta pescetariana, associata a un po’ di pasta, tante verdure e tanti legumi, rappresenta il pranzo o la cena ideale. Il tutto rispettando la regola delle 12 ore al giorno in cui concentrare tutti i pasti: dalle 8 del mattino alle 8 di sera o dalle 9 del mattino alle 9 di sera, permettendo al corpo un successivo digiuno di 12 ore. Se si è in sovrappeso, inoltre, può aiutare mangiare due volte al giorno limitandosi a un pranzo di sole 100 calorie. Personalmente, quando prendo peso, salto il pranzo e mangio 100 calorie di noci o una piccola insalata con un po’ d’olio. Lo faccio per 5 giorni alla settimana e questo mi permette di controllare il peso senza cambiare dieta. Infine, adottare la dieta mima digiuno, due o tre volte all’anno, può essere d’aiuto per la maggior parte delle persone che non sono sovrappeso ma tendono ad avere più peso di quanto vorrebbero».

Lei ha coniato il termine “iuventologia”; di cosa si occupa esattamente?

«Con il termine iuventologia si intende il periodo della vita in cui rimaniamo giovani e in salute, il cosiddetto Health Life Span. Si tratta di un periodo che non è mai stato studiato e del resto non esisteva neanche una parola che lo definisse. Prende origine dalla domanda: “Fino a quanto si resta giovani?” Oggi diremmo che la iuventologia arriva fino ai 40 anni, ma è possibile spostare questo periodo di gioventù dai 40 ai 60? Ovviamente è possibile, ma come lo spostiamo? Perché una volta spostato l’health life span (la durata della vita in salute), tutto viene spostato, anche la durata della vita stessa. Essendo tutto interconnesso, il punto è studiare pertanto come mantenere le persone giovani e non solo sane».

Ci sono evidenze legate al fatto che il modo in cui ci alimentiamo può essere uno dei fattori chiave che accelerano il processo di invecchiamento?

«In effetti, il cibo è al centro della vita e dell’evoluzione, controlla ogni cosa: se una donna può rimanere incinta o meno, la crescita di un bambino, tutto. Basterebbe non mangiare per un paio di giorni e il metabolismo verrebbe subito influenzato come in nessun altro modo. Il cibo è molto di più di come noi lo vediamo, controlla anche i programmi di longevità. Se guardiamo agli ultimi 1000 anni, notiamo che l’allungamento della vita è stato possibile grazie a una maggiore assunzione di calorie. La restrizione calorica, però, può avere anche effetti positivi. All’interno del nostro laboratorio, focalizziamo il lavoro proprio sull’ottimizzazione della parte positiva del cibo, a proposito di digiuni, di quante ore al giorno si mangia, di dieta, di tipi di dieta».

Esiste una relazione anche tra cibo e sviluppo dei tumori?

«Al momento, esistono varie pubblicazioni negli Stati Uniti sulla relazione tra proteine animali e cancro, dalle quali emerge che gli americani che mangiano molte proteine animali hanno un rischio di sviluppare malattie da tumore da tre a quattro volte più alte rispetto a chi ne mangia meno. Il cibo è chiaramente centrale anche in tal senso, un esempio sono le persone che vivono sulle montagne dell’Ecuador con la Sindrome di Laron, a cui manca il gene che viene attivato dalle proteine e che al tempo stesso non sviluppano quasi mai tumori. Lo stesso si verifica in aree del medioriente e chiaramente i tumori sono controllati da questi geni. In definitiva, palesemente la dieta, sia dal punto di vista dell’assunzione di proteine sia per lo sviluppo dell’obesità, può avere un’influenza. C’è anche il tema del biologico: chi mangia cibo bio abbassa di un quarto il rischio di sviluppare tumori rispetto a chi mangia cibo normale e questo vuol dire che chi ingerisce cibo ricco di tossine corre un rischio più elevato di tumori. Si tratta ovviamente di studi di correlazione, nessuno lo ha mai dimostrato clinicamente ma sappiamo che certe tossine sono cancerogene, come dimostra una recente causa americana vinta contro alcuni pesticidi, colpevoli di aver favorito la formazione di linfomi».

Le sue ricerche e i suoi studi hanno come obiettivo generale quello di scoprire i meccanismi che possono ritardare l’invecchiamento cellulare. Sulla base di ciò che si sta scoprendo, da qui a dieci anni che cosa potrebbe cambiare?

«Possiamo aspettarci, nel nostro caso, le dimostrazioni pratiche di ciò che sosteniamo. Allo stato attuale abbiamo tre studi in atto sul diabete che completeremo entro il prossimo anno. È da tanti anni che parliamo degli effetti cardiometabolici e usciremo con 4 studi sul diabete e sulle malattie cardiovascolari. Penso che da qui ai prossimi dieci anni passeremo da una realtà in cui i farmaci hanno sempre dominato in esclusiva a una realtà dove la nutrizione sarà al pari protagonista delle terapie, al punto, come nel caso del diabete, da arrivare addirittura a sostituire i farmaci. Il cibo verrà usato come farmaco e non per “mettere una pezza al problema” ma per riportare indietro il paziente a uno stato di piena salute.  Già oggi, tramite la nostra Fondazione, abbiamo portato centinaia di persone diabetiche e prediabetiche a uno stadio antecedente la malattia. E vedo proprio questo nei prossimi 10 anni quando, soprattutto medici giovani o più illuminati, diranno basta all’escalation di 60-70enni imbottiti di farmaci che non hanno neanche una funzione curativa».

Dagotraduzione dal Guardian il 3 agosto 2021. Gli enti di beneficenza contro il cancro e il servizio sanitario nazionale inglese si stanno preparando a indagare su uno spray nasale a base di cannabis ideato per combattere i tumori al cervello e aiutare i pazienti a vivere più a lungo. Tutti i malati affetti da glioblastoma riceveranno il farmaco, Sativex, abbinato a una medicina chemioterapica, il temozolomide, per studiarne gli effetti clinicamente. Sarà il primo studio di questo tipo al mondo. Il glioblastoma è un tumore al cervello aggressivo e difficile da trattare altamente recidivo, nonostante i medici utilizzino la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia per curarlo. La speranza di vita alla diagnosi e dai 12 ai 18 mesi, che diventano 10 in caso di recidiva. Ogni anno il tumore viene diagnosticato a circa 2.200 persone in Inghilterra, il che la rende la forma più comune di cancro al cervello. Sativex è già stato somministrato a pazienti con sclerosi multipla, ma non ha avuto effetti. È uno dei tre medicinali a base di cannabis attualmente in uso nel NHS. «Pensiamo che il Sativex possa uccidere le cellule tumorali del glioblastoma e che possa essere particolarmente efficace se somministrato con la chemioterapia con temozolomide, quindi potrebbe aumentare gli effetti del trattamento chemioterapico nel fermare la crescita di questi tumori, consentendo ai pazienti di vivere più a lungo», ha detto Susan Short, professoressa di oncologia clinica e neuro-oncologia presso l'Università di Leeds, principale autore dello studio. «Questo è ciò che vogliamo testare nello studio», ha detto. La Brain Tumor Charity, che sta finanziando la ricerca, recluterà 232 pazienti all'inizio del prossimo anno da almeno 15 ospedali, inclusi centri specializzati in oncologia, in tutto il Regno Unito. Due terzi riceveranno Sativex e temozolomide mentre l'altro terzo riceverà il farmaco chemioterapico e un placebo. Sativex contiene quantità uguali di due cannabinoidi: la sostanza psicoattiva Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), che dà agli utenti uno "sballo", e il cannabidiolo (CBD), che può aiutare a ridurre il dolore, l'infiammazione e l'ansia senza indurre alcun effetto psicoattivo. «Speriamo che questo studio possa aprire la strada a una nuova ancora di salvezza tanto attesa che potrebbe aiutare a offrire ai pazienti con glioblastoma preziosi mesi in più per vivere e creare ricordi con i loro cari», ha affermato il dottor David Jenkinson, amministratore delegato ad interim di Brain Tumor Charity. «Sappiamo che c'è un interesse significativo nella nostra comunità per la potenziale attività dei cannabinoidi nel trattamento dei glioblastomi e siamo davvero entusiasti che questa prima sperimentazione mondiale qui nel Regno Unito possa aiutare ad accelerare queste risposte». Il processo segue uno studio precedente - uno studio di fase uno - che ha esaminato esclusivamente la sicurezza della somministrazione di Sativex e temozolomide insieme, e che ha coinvolto 27 pazienti. Il nuovo studio triennale, chiamato studio Aristocrat, esaminerà sia la sicurezza di quel regime sia l'impatto che ha sull'esito del paziente, compreso il tempo di sopravvivenza. «I recenti risultati in fase iniziale sono stati davvero promettenti e ora non vediamo l'ora di capire se l'aggiunta di Sativex alla chemioterapia potrebbe offrire un prolungamento della vita e una migliore qualità della vita, il che sarebbe un importante passo avanti nella nostra capacità di trattare questa malattia devastante», ha aggiunto Jenkinson. Short ha affermato che lo studio iniziale suggeriva che il farmaco potesse dare ad alcune persone un po' di vita in più. Più partecipanti che avevano assunto Sativex erano ancora vivi un anno dopo rispetto a quelli che avevano preso un placebo. «Ha dimostrato che questa combinazione era sicura, sebbene alcuni pazienti avessero problemi con effetti collaterali tra cui stanchezza e vertigini. Lo studio non è stato progettato per verificare se il Sativex fosse migliore in termini di sopravvivenza. Ma i suoi risulltati hanno mostrato che alcuni pazienti trattati con Sativex hanno fatto meglio del previsto e meglio di quelli che trattati con la chemioterapia», ha detto. Il nuovo studio è coordinato dall'unità di studi clinici di Cancer Research UK presso l'università di Birmingham. «È fondamentale che vengano condotti studi come questo, che indaghino sul ruolo che la cannabis o le sostanze chimiche in essa contenute possono svolgere per curare il cancro», ha affermato il professor Pam Kearns, direttore dell'unità. 

Dagotraduzione da Fox5 l'11 luglio 2021. Una nuova ricerca dell’UC Berkeley mette in forte relazione le radiazioni emesse dai telefoni cellulari e i tumori, in particolare quelli al cervello. Prima di arrivare a questa conclusione, gli scienziati hanno analizzato in modo completo i risultati statistici di 46 studi diversi realizzati in tutto il mondo. Così hanno scoperto che usare il cellulare per più di 1.000 ore, cioè a una media di 17 minuti al giorno per dieci anni, aumenta il rischio di tumore del 60%. Non solo. Usarlo per più di dieci anni raddoppia il rischio di tumori al cervello. Joel Moskowitz, direttore del Center for Family and Community Health con la UC Berkeley School of Public Health, ha condotto la ricerca in collaborazione con il National Cancer Center della Corea e la Seoul National University. La loro analisi ha esaminato in modo completo i risultati statistici di studi caso-controllo di 16 paesi tra cui Stati Uniti, Svezia, Regno Unito, Giappone, Corea e Nuova Zelanda.  «L'uso del cellulare evidenzia una serie di problemi di salute pubblica e purtroppo ha ricevuto poca attenzione nella comunità scientifica», ha detto Moskowitz. Eppure il telefono è diventato sempre di più parte della vita quotidiani di tutti noi, soprattutto con il lancio degli smartphone. Il 97% degli americani possiede un cellulare. Con l'aumento dell'uso dei dispositivi mobili, la ricerca sul loro potenziale legame con il cancro è stata vasta. I risultati sono stati vari e talvolta controversi. Molti studi sono stati parzialmente o completamente finanziati dall'industria della telefonia, il che può distorcere i risultati. «Moskowitz ha sottolineato che questi studi sono stati controversi perché si tratta di un argomento politico molto delicato con significative ramificazioni economiche per un'industria potente», ha osservato il Berkeley Public Health.  La posizione detenuta dai regolatori federali è che non ci sono prove a dimostrare un collegamento diretto. «Ad oggi, non ci sono prove scientifiche coerenti o credibili di problemi di salute causati dall'esposizione all'energia a radiofrequenza emessa dai telefoni cellulari», dichiara la Food and Drug Administration sul suo sito web. La FDA spiega anche che la Federal Communications Commission ha fissato un limite che "rimane accettabile per proteggere la salute pubblica" all'energia a radiofrequenza. I ricercatori dell'UC Berkeley hanno notato che nel 2017, i regolatori della California hanno avvertito il pubblico dei potenziali rischi per la salute legati all'uso del telefono cellulare. Nel suo avviso, il Dipartimento della sanità pubblica della California dichiarava: «Sebbene la scienza sia ancora in evoluzione, alcuni esperimenti di laboratorio e studi sulla salute umana hanno suggerito la possibilità che l'uso a lungo termine e intenso dei telefoni cellulari possa essere collegato a determinati tipi di cancro e altri effetti sulla salute». L'agenzia ha anche fornito consigli su come ridurre l'esposizione, come tenere i telefoni lontani dal corpo e trasportare i dispositivi in uno zaino, in una valigetta o in una borsa. Gli esperti consigliano di non lasciare il cellulare in tasca, nel reggiseno o nei pantaloni, perché l’antenna rimane collegata alla torre emettendo energia a radiofrequenza (RF) anche quando il telefono non è in uso. E se non serve, il cellulare andrebbe tenuto in modalità aereo. Durante le telefonate meglio utilizzare la funzione altoparlante o gli auricolari, e se il cellulare ha meno di due tacche di connettività, meglio non usarlo. «Quando il segnale è debole i telefoni cellulari emettono più energia RF per connettersi con le torri cellulari», hanno spiegato gli esperti. La stessa regola vale utilizzando il cellulare in auto, in autobus o in treno, perché il telefono emette più energia RF per mantenere le connessioni ed evitare di interrompere le chiamate. In definitiva, quando si tratta di telefoni cellulari, «la distanza è tua amica», ha detto Moskowitz. «Tenendo il cellulare a 25 cm di distanza dal corpo invece che a 2 cm, si riduce l’esposizione di 10.000 volte. Quindi, meglio tenere il telefono lontano dalla testa e dal corpo», ha consigliato. I telefoni cellulari esistono da decenni, e sono diventati ampiamente accessibili al grande pubblico negli anni '80. Siccome sempre più persone trascorrono del tempo sui dispositivi, i ricercatori hanno avvertito che il rischio di problemi di salute potrebbe aumentare. Lo studio ha richiesto ulteriori ricerche approfondite e ha utilizzato dati esatti sul tempo trascorso sui telefoni cellulari prima di confermare gli ultimi risultati. Moskowitz, che ha svolto ricerche e scritto sui pericoli delle radiazioni dei telefoni cellulari e delle torri cellulari per più di un decennio, ha detto che la pubblicazione delle sue scoperte ha costantemente portato a un aumento delle richieste di ricerca. «... non appena quelle storie sono diventate pubbliche nei media», ha detto, «sono stato contattato da sopravvissuti alle radiazioni dei telefoni cellulari che mi pregavano di rimanere su questo argomento».

Dagotraduzione da Axios il 5 giugno 2021. Il cancro più comune diagnosticato tra le latine statunitensi è il cancro al seno, ed è la loro principale causa di morte per cancro, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Cancer Control. «Le donne ispaniche hanno meno probabilità di avere il cancro al seno rispetto ad altri gruppi etnici. Ma quando a una donna ispanica viene diagnosticato il cancro al seno, ha il 20% in più di possibilità di morirne», scrive il Baltimore Sun. La scienza ha dimostrato che le latine hanno la seconda più alta prevalenza di geni BRCA1 E BRCA2, responsabili del cancro al senso. Eppure la loro consapevolezza del rischio ereditario è bassa, e questo limita le loro opzioni per il trattamento precoce dice Susan M. Domcheck, direttore esecutivo del Basser Center for BRCA presso Abramson Cancer Center di Penn Medicine. È più probabile che la comunità latina abbia difficoltà ad accedere all'assistenza sanitaria e all'assicurazione, rendendo più difficile la consulenza medica, le segnalazioni e i servizi di test. Uno studio del 2017 ha scoperto che le convinzioni culturali influenzano le latine quando rimandano «servizi preventivi o follow-up tempestivi per i sintomi al seno».  Quasi il 50% delle donne che ha partecipato allo studio ha detto di credere che «la fede in Dio può proteggerti dal cancro al seno». La minore incidenza di cancro al seno tra le latine può anche portare all'idea sbagliata che non dovrebbero preoccuparsi della malattia, secondo la Dr. Susan Love Foundation per la ricerca sul cancro al seno. Per coloro che parlano solo spagnolo, ci sono meno risorse che in inglese. La Oncology Nursing Society raccomanda di diversificare la forza lavoro per aumentare il numero di consulenti di lingua spagnola. Un sondaggio della National Cancer Society condotto tra il 2018 e il 2020 ha rilevato che il 61% delle donne ispaniche di età superiore ai 40 anni ha riferito di aver fatto una mammografia rispetto al 65% delle donne bianche nella stessa fascia di età. La ricerca condotta in Texas ha rilevato che il 21,3% dei pazienti ispanici di età inferiore ai 50 anni ha sviluppato un cancro al seno avanzato, rispetto al 13,5% dei pazienti non ispanici. Vale la pena notare: il tasso complessivo di mortalità per cancro al seno per le donne ispaniche è di 13,8 per 100.000, inferiore a quello delle donne nere (27,5 per 100.000) o bianche (19,4 per 100.000), secondo la Kaiser Family Foundation. Ma il cancro al seno colpisce la comunità latina in modo diverso a seconda dell'etnia. Portoricani e messicani hanno maggiori probabilità di morire a causa della malattia rispetto ad altre donne ispaniche. Il tasso di mortalità per le donne portoricane con cancro al seno negli Stati Uniti è 19,04 per 100.000 donne. Per i messicani, è 18,78 per 100.000. In confronto, il tasso per le donne dell'America centrale e meridionale è 10,15 per 100.000. «A meno che non possiamo guadagnare slancio con più discussioni ed educazione sul cancro al seno e più ricerche su cause specifiche e prevenzione del cancro al seno negli ispanici, il tasso di mortalità potrebbe presto superare quello dei bianchi non ispanici», ha detto Susan Love, fondatore della Dr. Susan Love Foundation per la ricerca sul cancro al seno.

Da ilmessaggero.it il 5 giugno 2021. Per i malati di tumore al polmone, nei quali la chirurgia non è possibile, è stato trovato un anticorpo monoclonale che allungherebbe la sopravvivenza. Il durvalumab è l'alternativa alla chemioterapia. Per i pazienti di tumore al polmone non a piccole cellule, che si trovano al III stadio e nei quali non è possibile l'intervento chirurgico, l'anticorpo monoclonale durvalumab offre un beneficio «clinicamente significativo», che si traduce sia in termini di sopravvivenza globale sia di sopravvivenza libera dalla progressione per i malati che hanno avuto buoni risultati dopo il trattamento chemio-radioterapico. È quanto emerge dallo studio Pacific di fase 3, presentato al Congresso dell'American Society of Clinical Oncology (Asco). La sopravvivenza globale a cinque anni è del 42,9% per i pazienti trattati con durvalumab rispetto al 33,4% per i pazienti trattati con placebo dopo chemio-radioterapia. La sopravvivenza globale mediana è stata di 47,5 mesi per chi ha avuto il durvalumab rispetto ai 29,1 mesi di chi ha avuto il placebo. Dopo il trattamento per un massimo di un anno, il 33,1% dei pazienti trattati con durvalumab non è andato incontro a progressione cinque anni dopo l'arruolamento rispetto al 19% del placebo. Il tumore del polmone è la principale causa di morte in Italia. Degli oltre 40.000 nuovi casi di carcinoma polmonare diagnosticati lo scorso anno, circa l'80-85% possono essere classificati come 'non a piccole cellulè. Oggi un paziente su tre con questa patologia presenta alla diagnosi una malattia in stadio III, una condizione in cui, nella maggior parte delle volte, il tumore non è più resecabile. Prima dell'approvazione di durvalumab, per decenni la chemio-radioterapia è stata l'unica opzione di trattamento disponibile per questi pazienti. «I dati presentati confermano, anche dopo un follow-up a 5 anni, il potenziale dell'immunoterapia come approccio terapeutico nel trattamento del tumore del polmone in stadio III non resecabile» osserva Giorgio Scagliotti, direttore del Dipartimento di oncologia medica dell'Università di Torino. Per Umberto Ricardi, direttore del Dipartimento di Oncologia e della Struttura complessa universitaria di radioterapia della Città della Salute e della Scienza di Torino, «lo stadio localmente avanzato del carcinoma polmonare 'non a piccole cellulè è un setting complesso e clinicamente eterogeno, dove comunque in passato solo il 15-25% dei pazienti sopravviveva a cinque anni dopo chemio-radioterapia». 

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 31 maggio 2021. La Food and Drug Administration (Fda) ha approvato una pillola rivoluzionaria che combatte il cancro ai polmoni realizzata da Amngen Inc.  Il farmaco, denominato Lumakras, sarà somministrato a un gruppo di malati di tumore con una particolare mutazione genetica che hanno già provato altre terapie. La mutazione, nota come KRAS, è la tra le più comuni riscontrate nei tumori, ma i ricercatori hanno lottato per così tanti anni per trovare un medicinale in grado di trattarla che è stata considerata "non farmacologica". L'approvazione della FDA, che ha accelerato le sperimentazioni cliniche sin dai primi risultati incoraggianti nel 2019, è una convalida delle capacità di scoperta di farmaci di Amgen, dicono gli analisti, e un punto di riferimento nello sfruttare le scoperte genetiche per trovare nuovi farmaci per i tumori difficili da trattare altre malattie. «Le mutazioni KRAS sono state a lungo considerate resistenti alla terapia farmacologica, rappresentando un vero bisogno insoddisfatto per i pazienti con determinati tipi di cancro», ha detto Richard Pazdur, capo ad interim della divisione farmaci antitumorali della FDA. «L'approvazione di oggi rappresenta un passo significativo verso un futuro in cui più pazienti avranno un approccio di trattamento personalizzato». Gli scienziati dell'azienda hanno scoperto il farmaco alla fine del 2017 e lo hanno trasferito negli studi clinici meno di un anno dopo. La FDA ha approvato Lumakras sulla base di uno studio a metà fase che mostra che il farmaco ha aiutato a controllare la malattia nell'80,6% dei pazienti; in media, i pazienti che assumevano il farmaco sono sopravvissuti a 6,8 mesi senza che i loro tumori peggiorassero. «È stato uno sprint di tre anni per fare qualcosa che pochissime aziende hanno fatto nel campo dell'oncologia, portare un farmaco sul mercato in tre anni», ha detto Murdo Gordon, vicepresidente esecutivo per le operazioni commerciali globali, in un'intervista. «È un evento molto importante per l'azienda». Amgen dovrà completare uno studio di fase 3 più ampio per confermare i benefici del farmaco nell'ambito del programma di approvazione accelerata della FDA. Negli Stati Uniti, circa il 13% delle persone con carcinoma polmonare non a piccole cellule ha il tipo di mutazione KRAS che tratta Lumakras, circa 25.000 nuovi pazienti ogni anno, secondo Amgen. La maggior parte dei pazienti con KRAS viene inizialmente trattata con un altro farmaco mirato, a volte in combinazione con la chemioterapia. Quando il trattamento di prima linea smette di funzionare, ai pazienti restano poche opzioni, ha detto Bob Li, un medico oncologo presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center e ricercatore capo per lo studio Lumakras. «Per 40 anni, non siamo stati in grado di risolvere questo problema e ... improvvisamente i pazienti hanno una pillola che possono prendere una volta al giorno e per molti pazienti il tumore si ridurrà», ha detto il dottor Li in un'intervista. «La possibilità di una durata dell'effetto molto più lunga, e quindi di ricavi molto più elevati, dipenderà dalla sua capacità di essere combinata. E la giuria è ancora fuori», ha detto il dottor Werber. L'analista di Bernstein Ronny Gal ha detto in una nota ai clienti questa settimana che ci sono motivi per essere preoccupati per le prospettive commerciali a lungo termine di Lumakras. Il farmaco potrebbe non aggiungere molti benefici in combinazione con altri trattamenti e farmaci più nuovi e potenzialmente migliori mirati al KRAS sono in fase di sviluppo da concorrenti. «Il valore a lungo termine del farmaco è tutt'altro che certo», ha detto Gal. «Questo ci preoccupa un po’ per le prospettive a lungo termine per l'azienda». Altri produttori di farmaci che seguono l'esempio di Amgen nello sviluppo di farmaci KRAS sono Mirati Therapeutics Inc., che mira a richiedere l'approvazione della FDA per la sua pillola mirata al KRAS come trattamento per il cancro ai polmoni entro la fine dell'anno. Eli Lilly & Co. ha recentemente affermato che prevede di avviare uno studio di fase 1 su un nuovo farmaco KRAS quest'anno e biotech Revolution Medicines Inc. ha più farmaci mirati al KRAS che sta avanzando verso studi clinici.

Da corriere.it l'1 giugno 2021. Johnson&Johnson dovrà risarcire le sue clienti per oltre due miliardi di dollari. Così ha deciso la Corte Suprema americana che ha respinto il ricorso della multinazionale. La società dovrà pagare 2,1 miliardi di dollari per via del talco prodotto dall’azienda finito nel mirino di decine di azioni legali perché accusato di causare il cancro. Senza alcun commento, riporta l’agenzia Bloomberg, la Corte Suprema ha rigettato le obiezioni di J&J sul verdetto emesso nel 2018 da una giuria del Missouri secondo cui il talco avrebbe contribuito a causare tumori alle ovaie in 20 donne. I giurati avevano fissato 25 milioni di dollari per ognuna delle 20 donne in danni compensatori e 4 miliardi di danni punitivi. Una cifra poi dimezzata dalla corte di appello. Johnson & Johnson ad oggi ha smesso di vendere il talco Baby Powder negli Usa e in Canada, mentre il prodotto resta in vendita sugli altri mercati.

Delle Donne: «Rubare anche una siringa non è tollerato». Medicinali e altro materiale rinvenuto nelle abitazioni di alcuni dipendenti.  La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Giugno 2021. Medicinali e dispositivi medici scoperti nelle abitazioni di alcuni dipendenti riconducibili all'istituto oncologico «Giovanni Paolo II» di Bari sono stati scoperti dalla polizia nel corso di perquisizioni eseguite su ordine della Procura. L'inchiesta nasce a seguito delle segnalazioni di diversi furti all'interno dell'Iccrs. In corso accertamenti per verificare il coinvolgimento nella vicenda di altre persone.

PERQUISIZIONI IN CORSO - Perquisizioni nell’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari e in casa di cinque indagati, tre dei quali dipendenti dell’ospedale, sono state eseguite dalla sezione di pg della Polizia su disposizione della Procura di Bari nell’ambito di una indagine relativa a diversi episodi di furto di medicinali e altri dispositivi medici. L’inchiesta, partita circa un anno fa sulla base di alcune segnalazioni arrivate agli inquirenti baresi anche dalla struttura ospedaliera, è coordinata dal procuratore aggiunto Alessio Coccioli con il sostituto Ignazio Abbadessa. Le perquisizioni, eseguite nei giorni scorsi, hanno consentito di rinvenire e sequestrare nella disponibilità degli indagati "ingenti quantitativi di medicinali e dispositivi medici-chirurgici». L'ipotesi investigativa è che gli indagati sottraessero farmaci e attrezzature all’ospedale per utilizzarle fuori dalla struttura. Una delle attività illecite ipotizzate è quella degli infermieri che, abusivamente, offrono servizi sanitari come prelievi o altro tipo di assistenza domiciliare. Il numero degli indagati - si apprende da fonti investigative - è destinato a crescere e, infatti, sono già in corso ulteriori accertamenti sul coinvolgimento di altri soggetti interni ed esterni alla pianta organica dell’Irccs barese.

LE INDAGINI - C'è anche un medico tra le persone coinvolte nell’inchiesta della Procura di Bari su diversi episodi di furti avvenuti nell’Istituto Tumori nell’ultimo anno. A quanto si apprende al medico, nei confronti del quale l’Irccs Giovanni Paolo II ha avviato un procedimento disciplinare, viene contestato di non aver impedito ad altri dipendenti, infermieri e operatori socio sanitari, di sottrarre medicinali e dispositivi sanitari dalla struttura. Anche nei confronti dei tre dipendenti accusati di furto l’ospedale ha avviato procedimenti disciplinari. Gli indagati, oltre ai tre dipendenti ci sono due esterni alla struttura, sono stati destinatari nei giorni scorsi di perquisizioni. A quanto si apprende tra il materiale rubato c'erano soprattutto siringhe e sacche per l’alimentazione che, è il sospetto dei poliziotti ai quali è delegata l’indagine, sarebbero state utilizzate dal personale sanitario per attività privata abusiva.

IL COMMENTO DEL COMMISSARIO DELLE DONNE - «Il furto, anche solo di una siringa del valore di pochi centesimi, non può essere tollerato in una struttura sanitaria tutta votata alla cura e all’assistenza di pazienti così fragili, in cui lavorano con professionalità e dedizione tanti professionisti seri e coscienziosi, il cui impegno quotidiano non deve essere offuscato dalle condotte illecite di pochi». Lo dichiara in una nota il commissario straordinario dell’istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari, Alessandro Delle Donne, con riferimento all'indagine della Procura nella quale sono indagati quattro dipendenti dell’ospedale per presunti episodi di furti di medicinali e dispositivi medici avvenuti nella struttura. «In merito all’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Bari sugli episodi di furto di dispositivi medici nell'Istituto Tumori di Bari - si legge nella nota - , il commissario straordinario, Alessandro Delle Donne, insieme alla direzione strategica dell’istituto, ha espresso agli inquirenti la massima disponibilità e la piena collaborazione per fare chiara luce sulla vicenda, dando mandato inoltre all’ufficio per i procedimenti disciplinari di avviare indagini e accertamenti interni». "La direzione strategica dell’Istituto - conclude - ribadisce il proprio impegno per il ripristino della legalità, passaggio fondamentale per accrescere la credibilità dell’Istituto e dei professionisti che vi lavorano».  

3 milioni sequestrati a primario oncologo, chiedeva denaro ai pazienti per somministrare farmaci. In casa aveva due milioni di euro in contanti. La Voce di Manduria venerdì 08 ottobre 2021. Il primario oncologo Giuseppe Rizzi, era stato denunciato dai familiari di un paziente al quale aveva tolto 130mila euro, la sproporzione tra redditi dichiarati e beni posseduti. In casa aveva quasi 2 milioni in contanti. Militari dei Comandi Provinciali della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Bari stanno dando esecuzione a un decreto di sequestro preventivo - emesso, su richiesta della Procura della Repubblica di Bari, dal competente G.I.P. del locale Tribunale - avente per oggetto immobili di pregio, terreni e cospicue disponibilità finanziarie di un noto oncologo residente a Bari. Il predetto medico era stato attinto, nel maggio scorso, a Bari, da un’“Ordinanza di applicazione di misura cautelare” (arresti domiciliari) per il reato di “concussione aggravata e continuata”, in concorso con la propria compagna (co-indagata nel medesimo procedimento penale), eseguita dai locali Reparti dell’Arma dei Carabinieri. Le investigazioni, delegate e coordinate dalla Procura della Repubblica di Bari, avevano accertato come il medico - abusando della qualità e dei poteri di pubblico ufficiale, dirigente medico presso il Dipartimento di Oncologia dell’Istituto Tumori “Giovanni Paolo II” di Bari - durante lo svolgimento della sua attività professionale sia in orario di servizio che fuori turno e, comunque, non in regime di attività intra od extramoenia, eseguiva su ben 14 pazienti oncologici, affetti da accertate e gravi patologie e in trattamento presso il citato Istituto, prestazioni mediche e, in particolare, iniezioni di un farmaco, la cui somministrazione era a titolo gratuito in quanto a totale carico del S.S.N.. In ciò costringendo i pazienti al pagamento in suo favore di ingenti somme di denaro nonché di altre utilità sia presso la struttura ospedaliera, sia presso il patronato CAF (sito in Bari) in uso alla compagna, adibito nell’occasione ad ambulatorio medico. Le condotte venivano poste in essere dalla coppia approfittando delle gravi condizioni psico-fisiche delle vittime, che avevano riferito agli organi inquirenti, con non poche difficoltà connesse con il particolare stato d’animo in cui versavano, di essersi trovate in una situazione di soggezione e di reverenza, oltre che di totale fiducia nel loro medico, tale da essere state indotte a riconoscerlo quale unico referente in grado di garantire loro la sopravvivenza e così ottenendo illecitamente cospicue somme di denaro contante, regalie di notevole valore, lavori edili ed altre utilità. In tale contesto, nello scorso mese di giugno la locale Procura della Repubblica ha delegato il G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Bari a eseguire - nei confronti dell’oncologo e della sua compagna - approfondimenti investigativi finalizzati alla veicolazione di una proposta di sequestro preventivo “per sproporzione” di beni. Nello specifico, le Fiamme Gialle - al fine di disvelare l’origine del rilevante patrimonio dell’oncologo - hanno  proceduto ad acquisire copiosa documentazione, tra cui i contratti di compravendita dei beni nonché numerosi altri atti pubblici che hanno interessato nel tempo i soggetti investigati, verificando poi, per ogni transazione, le connesse movimentazioni finanziarie sottostanti alla creazione della necessaria provvista economica. Il materiale così raccolto è stato oggetto, pertanto, di circostanziati approfondimenti, anche bancari, che hanno consentito di accertare un’ingiustificata e considerevole sproporzione tra il reddito dichiarato e i beni nella disponibilità del medico. Il competente G.I.P. del Tribunale di Bari - condividendo l’analoga proposta avanzata dall’A.G. inquirente, basata sul solido compendio indiziario acquisito in piena sinergia operativa dai Finanzieri e dai Carabinieri baresi - ha, quindi, emesso un decreto di sequestro preventivo avente per oggetto una prestigiosa villa ubicata a Bari Palese, terreni siti a Bitonto (BA) e i saldi attivi di rapporti bancari. Ai beni così oggetto di sequestro, è da aggiungere la somma di circa 1,9 milioni di euro rivenuta nell’abitazione dell’oncologo nonché i numerosi reperti archeologici - risultati, a seguito di verifiche da parte del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico e della Sovrintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Bari, di notevole valore storico e artistico - già sottoposti a vincolo cautelare all’atto dell’esecuzione della citata ordinanza di custodia cautelare. L’operazione in argomento dimostra come i cittadini onesti che rispettano le regole possano trovare nell’Autorità Giudiziaria, nella Guardia di Finanza e nell’Arma dei Carabinieri un sicuro punto di riferimento, a cui denunciare qualsiasi comportamento illecito, così ottenendo un’efficace risposta alle proprie istanze di giustizia. 

ARRESTATO MEDICO ONCOLOGO A BARI: 130MILA EURO ESTORTI AD UN MALATO DI CANCRO PER SOMMINISTARGLI GRATIS DEI MEDICINALI. Il Corriere del Giorno il 29 Maggio 2021. I Carabinieri hanno eseguito nei confronti di Rizzi oltre alla misura cautelare anche un decreto di sequestro preventivo per equivalente della somma di 136mila euro. I fatti sono relativi al periodo compreso tra dicembre 2018 e dicembre 2019. Durante perquisizione nell’ abitazione del Rizzi, i Carabinieri hanno trovato reperti archeologici e oltre 1milione e 900mila euro in contante nascosti in buste e scatole per calzature. I Carabinieri hanno arrestato il medico oncologo barese Giuseppe Rizzi, posto agli arresti domiciliari, che sino a circa un anno fa in servizio all’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari. Il pm Marcello Quercia della Procura di Bari gli contesta il reato di concussione aggravata e continuata in concorso con la compagna, l’avvocatessa Maria Antonietta Sancipriani. I carabinieri hanno eseguito nei confronti di Rizzi Oltre alla misura cautelare anche un decreto di sequestro preventivo per equivalente della somma di 136mila euro. I fatti sono relativi al periodo compreso tra dicembre 2018 e dicembre 2019. Durante perquisizione nell’ abitazione del Rizzi, i Carabinieri hanno trovato reperti archeologici e oltre 1milione e 900mila euro in contante nascosti in buste e scatole per calzature. L’indagine è partita dalla denuncia dei familiari del paziente, dopo la sua morte. E così i carabinieri hanno potuto accertare che il medico, che all’epoca era dirigente nel dipartimento di Oncologia dell’Istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari, mentre era servizio ma anche fuori turno, e comunque non in regime di attività intra od extramoenia, avrebbe eseguito delle prestazioni mediche, nello specifico delle iniezioni di un farmaco oncologico salvavita, per la cui somministrazione gratuita, in quanto a totale carico del Servizio sanitario nazionale, il medico avrebbe costretto il paziente a versargli ingenti somme di denaro e di altre utilità, nella struttura ospedaliera e persino all’interno della sede del patronato Caf gestito dalla compagna l’avvocatessa Maria Antonietta Sancipriani attualmente co-indagata, che era stato adibito illegalmente ad ambulatorio medico! Per mesi il figlio di Ottavio Gaggiotti, ex dipendente di banca a Foggia deceduto per cancro nel febbraio dello scorso anno, ha registrato gli incontri tra suo padre, paziente oncologico, e il dottor Rizzi. Dopo la morte del padre, il figlio ha consegnato agli investigatori una pendrive contenente screenshot di conversazioni whatsapp e audio-video degli incontri che documentano le consegne dei soldi. Dal 22 dicembre 2018 al 15 giugno 2019 sarebbero state consegnate dal povero Gaggiotti a Rizzi 54 mazzette per complessivi 127.600 euro, corrispondenti a 103 somministrazioni di un farmaco che il medico definiva “miracoloso”: 900 euro ad iniezione oltre il compenso richiesto dal professionista che oscillavano da 400 a 700 euro a visita. Le consegne del denaro avvenivano quasi sempre nella stanza del medico in ospedale a Bari, con la porta chiusa a chiave e le tapparelle abbassate per evitare sguardi indiscreti. “Ci disse che non avremmo dovuto parlarne con nessuno sia delle somministrazioni farmacologiche sia delle dazioni di denaro in suo favore, altrimenti avrebbe bloccato tutto” ha scritto il figlio nella sua denuncia, dicendosi “intimorito” dal medico, il quale “spesso aveva affermato di avere conoscenze tra la massoneria e i servizi segreti e di aver estratto proiettili dal corpo dei delinquenti”. Gli inquirenti scrivono che “Le condotte venivano poste in essere dalla coppia ( il medico Rizzi e l’avvocatessa Sancipriani – n.d.r.) approfittando delle gravi condizioni psico-fisiche della vittima che versava in uno stato psicologico di soggezione e di reverenza oltre che di totale fiducia nel suo medico, al punto di indurre la vittima a riconoscerlo quale unico referente in grado di garantirgli la sopravvivenza e così ottenendo illecitamente la somma di denaro contante di circa 130 mila euro, regali e lavori edili nella sua villa a Palese”. Il medico avrebbe illuso il paziente prospettandogli “false speranze di sopravvivenza” ed il malato, “pur di restare in vita, continuava a soddisfare le ingenti e costanti richieste di denaro del professionista, dilapidando a sua volta il proprio patrimonio tanto da dover ricorrere agli aiuti economici di amici e parenti”. La Sancipriani come lei stesso racconta sulla sua pagina Linkedin, era consulente legale di una emittente privata pugliese, Delta TV . Il Rizzi nelle interviste veniva spacciato come grande “oncologo di grande fama”. In realtà non era “fama”, ma solo una grande fame di soldi! Il medico barese Giuseppe Rizzi “non provava alcun tipo di pietà nel chiedere ad un malato terminale di effettuare personalmente sforzi fisici per soddisfare le sue richieste”. Nel centinaio di pagine di ordinanza cautelare disposta dal dr. Giovanni Anglana Gip del Tribunale di Bari, compare anche il racconto dei lavori di ristrutturazione pretesi dal Rizzi nella sua villa di Palese, per compensare i mancati pagamenti da parte di un paziente, ormai sul lastrico dopo avergli già consegnato quasi 130 mila euro in contanti. A quei lavori il malato partecipava attivamente, aiutato da amici artigiani che “lavoravano gratis per senso di solidarietà”, nella convinzione che quel medico stesse salvando la vita al loro amico. “Il povero Ottavio (il malato di cancro n.d.r.) che fisicamente era davvero molto deperito, ad un certo punto prese un martello e iniziò a demolire con fatica le piastrelle da un muro” ha raccontato un operaio agli inquirenti, “Resomi subito conto della sofferenza fisica, lo fermai, gli dissi di sedersi e riposarsi al fresco”. Quando il medico non era soddisfatto di come procedevano i lavori, si rivolgeva operai dicendo che “dovevano essere fatti a regola d’arte, altrimenti l’amico sarebbe morto”. Affermazioni queste confermate da un’altro operaio che ha confermato le parole proferite dal Rizzi: “I lavori devono essere fatti bene perché io ho dato e sto dando tanto a Ottavio, sennò da mò che se ne sarebbe andato”. Il medico era stato licenziato dall’istituto Tumori "Giovanni Paolo II" di Bari il primo marzo scorso “con licenziamento disciplinare senza preavviso proprio a causa dei comportamenti posti in essere nei confronti di un paziente oncologico e dei suoi familiari”. Lo ha reso noto Alessandro Delle Donne commissario straordinario dell’istituto, che ha espresso “un sentito ringraziamento alle forze dell’ordine per l’attività di indagine svolta, che ha permesso di accertare, anche nelle sedi giudiziarie, un fatto gravissimo, potenzialmente idoneo a gettare discredito sull’immagine dell’Istituto”. “L’Istituto Tumori esprime inoltre piena soddisfazione per la collaborazione con le forze dell’ordine e con l’autorità giudiziaria a cui la direzione strategica si era rivolta, fin da subito, per segnalare le gravi condotte che avevano già motivato il licenziamento disciplinare” prosegue la nota “Fatti di tale gravità non devono succedere, mai, soprattutto nei luoghi in cui il patto di alleanza terapeutica fra medico e paziente deve fondarsi su un fortissimo rapporto fiduciario improntato all’etica deontologica e professionale“. L’odierno risultato investigativo pone in risalto ancora una volta – scrive la Procura di Bari in un comunicato stampa – “l’importanza della fiducia che il cittadino deve porre nelle Istituzioni, denunciando all’Autorità Giudiziaria o alle Forze dell’Ordine qualsiasi pratica o comportamento ritenuto illegale, nella convinzione che il riparo nella giustizia è l’unica strada per la legalità. A fronte di quanto innanzi, chiunque dovesse ritenersi vittima di analoghe condotte potrà con fiducia rivolgersi al Comando Stazione Carabinieri di Bari Santo Spirito o al personale della Sezione di P.G. carabinieri della Procura della Repubblica c/o il Tribunale di Bari”.

Da "lagazzettadelmezzogiorno.it" l'1 giugno 2021. Un secondo procedimento penale per abuso d’ufficio relativo alla richiesta di denaro quale corrispettivo non dovuto per prestazioni mediche rese in favore di un altro paziente è attualmente pendente nei confronti di Giuseppe Rizzi, il medico oncologo 65enne di Bitonto arrestato ieri per concussione aggravata. Il medico è agli arresti domiciliari per aver costretto un paziente oncologico con un cancro terminale, poi deceduto, a pagare 900 euro per ogni somministrazione di un farmaco salvavita gratuito (130 mila euro in totale oltre lavori di ristrutturazione nella villa al mare del professionista) da dicembre 2018 a dicembre 2019, quando era dirigente medico all’istituto Tumori Giovanni Paolo II di Bari, dal quale è poi stato licenziato. Per questa vicenda, assistito dall’avvocato Gaetano Sassanelli, Rizzi sarà sottoposto nei prossimi giorni a interrogatorio di garanzia dinanzi al gip del Tribunale di Bari che ha firmato l’ordinanza d’arresto Giovanni Anglana. Dagli atti giudiziari emerge la precedente vicenda. Il gip, motivando le esigenze cautelari, scrive infatti che «Rizzi risulta interessato da altre pendenze per aver posto in essere condotte illecite abusando della sua funzione sempre mentre era in servizio presso l’Irccs Giovanni Paolo II di Bari». Per quel presunto abuso d’ufficio il pm Marcello Quercia, lo stesso che indaga sulla vicenda che ha portato al suo arresto, ha chiesto il rinvio a giudizio del medico. Secondo il gip «la gravità e le modalità del fatto in contestazione, nonché la personalità deviata dell’indagato, costituiscono inequivocabili indici rivelatori di una programmazione a lungo termine di ulteriori condotte analoghe, da realizzare ai danni di altre persone esposte, in quando gravemente malate, agli istinti predatori» di Rizzi.

Oncologo arrestato a Bari, c'è un'altra denuncia. «Soldi per i farmaci anti-tumore». Nel 1994 il medico barese fu coinvolto nello scandalo Ccr. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Giugno 2021. Nuove accuse per Giuseppe Rizzi, l’oncologo barese finito agli arresti domiciliari venerdì scorso per aver fatto pagare 130mila euro ad un malato terminale che invece aveva diritto all’esenzione totale per i farmaci. Dopo le diverse segnalazioni giunte agli investigatori dopo la notizia dell’arresto del professionista, nelle scorse ore è stata formalizzata una nuova denuncia. Sul contenuto c’è assoluto riserbo, anche perchè come da prassi i carabinieri dovranno effettuare una serie di attività per trovare i riscontri a quando dichiarato dalle presunte vittime. È probabile che nei prossimi giorni verranno formalizzate altre denunce. L’inchiesta, quindi, rischia di allargarsi a macchia d’olio. L’interrogatorio di garanzia è fissato per domani mattina. In quella sede Rizzi potrà rispondere alle domande del gip Giovanni Anglana e fornire la propria versione dei fatti. Rizzi non è nuovo alle grane giudiziarie. Assunto nel 1975 come infermiere, nel 1998 si laurea e prende servizio al «Di Venere» di Bari come medico. Nel 1994, quando era responsabile dell’ufficio controlli della Usl Bari 11, venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla Case di cura riunite e poi assolto all’esito del giudizio. Ora l’accusa contestata dal pm Marcello Quercia è concussione aggravata in concorso con la compagna, l’avvocato Maria Antonietta Sancipriani. Secondo quanto emerso dalle indagini dei carabinieri della sezione di Pg e della stazione di Santo Spirito, la coppia avrebbe approfittato della disperazione di un paziente oncologico, un 67enne di Foggia, facendogli pagare profumatamente farmaci che invece dovevano essergli somministrati gratuitamente. In particolare, iniezioni di Filgrastim e Zarzio (un farmaco che per il sistema sanitario nazionale ha il costo di 5 o 8 euro a fiala a seconda del dosaggio), per le quali Rizzi avrebbe chiesto fino a 1.250 euro a somministrazione: 900 euro solo per il costo del medicinale, al quale poi doveva essere aggiunto il compenso per il medico. Ma stando a quanto sostenuto dal figlio del paziente - deceduto nel febbraio 2020 - Rizzi faceva credere loro che il farmaco somministrato non fosse in realtà Zarzio ma qualcosa di diverso, senza mai specificarne il tipo, del quale soltanto lui poteva disporre. «Ne usciremo vincenti» ripeteva al paziente, alimentando la falsa speranza che in questo modo avrebbe sconfitto il cancro. Così, iniezione dopo iniezione, il 67enne foggiano ha dilapidato tutto il suo patrimonio, al punto da dover chiedere ingenti prestiti ai familiari ed effettuare lavori di ristrutturazione gratuiti nella villa del medico.

«Così quel medico plagiò mio padre», parla figlio vittima dell'oncologo arrestato a Bari. Arrestato venerdì scorso dai carabinieri per aver intascato più di 127mila euro da un malato terminale che aveva invece diritto all’esenzione totale. Linda Cappello La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Giugno 2021. «Intendo ridare giustizia e dignità alla memoria di mio padre, vederlo sul letto di morte con le lacrime agli occhi è stato straziante». Antonio Gaggiotti commenta così l’arresto di Giuseppe Rizzi, l’oncologo barese arrestato venerdì scorso dai carabinieri per aver intascato più di 127mila euro da un malato terminale che aveva invece diritto all’esenzione totale. Suo padre Ottavio, ex funzionario di banca ormai in pensione, si è spento a 67 anni per un male incurabile, dopo aver dilapidato tutto il suo patrimonio per assecondare le richieste del medico che aveva promesso di salvargli la vita.

Signor Antonio, quando ha maturato l’idea di denunciare il dottor Rizzi?

«Un paio di mesi dopo la morte di mio padre, che è venuto a mancare nel febbraio 2020. L’ho fatto anche per far sì che ad altre persone non possa capitare quello che è successo a noi. Non sapevo bene cosa fare, ho pensato anche di fornire tutte le prove che avevo direttamente alla stampa, poi mi sono consultato con persone vicine e mi hanno consigliato di percorrere le vie legali. Attendiamo che le indagini si concludano, mi auguro che le cose vengano fatte nel migliore dei modi e che sia fatta giustizia».

Ritiene che negli ultimi mesi di vita suo padre abbia realizzato ciò che era accaduto?

«Mio padre era una persona molto intelligente. Faceva il funzionario in banca, era andato in pensione da poco. Forse alla fine si era avveduto, ma è solo una mia impressione. Era diventato molto silenzioso, distaccato da tutti, aveva sempre gli occhi lucidi. Purtroppo prima di incontrare Rizzi altre due strutture gli avevano rappresentato la gravità della sua situazione, che era questione di mesi. Ma nel momento in cui un medico ti dice “Ne usciremo vincenti” sia il malato che i familiari si aggrappano con tutte le loro forze a queste parole. Eravamo speranzosi, anche se il rapporto con lui era strano. Fin da subito aveva detto di non raccontare niente a nessuno, altrimenti avrebbe bloccato tutto. Mio padre era soggiogato».

Agli atti delle indagini ci sono delle videoriprese che lei ha prodotto. Da quando lei ha notato qualcosa di strano?

«Ho iniziato a registrare già dalla seconda o terza seduta, non ricordo bene. La prima volta che l’abbiamo visto Rizzi si è limitato a guardare la documentazione, per poi chiedere subito 500 euro. Questo mi ha lasciato perplesso. Poi ci ha invitato a tornare, chiedendo 1250 euro per un’iniezione: chiunque al mio posto avrebbe cercato di tutelarsi e capire cosa stava accadendo».

Vista la situazione, non ha cercato di mettere in guardia suo padre?

«Sulla base dell’esperienza avuta con papà, posso dire che quando si crea un rapporto di sottomissione totale nessuna persona che si trova in quelle condizioni riesce ad opporsi. In famiglia eravamo tutti consapevoli, abbiamo chiesto anche aiuti ai parenti. Mio padre era arrivato al punto da chiedermi i soldi anche per le sue strette necessità. Abbiamo vissuto un dramma nel dramma».

Ancora oggi state facendo i conti con le difficoltà economiche?

«Certo, mia madre sta onorando i prestiti contratti con le banche e con i parenti. Lei è molto provata dalla situazione: non solo ha dovuto affrontare la scomparsa del marito, ma anche far fronte alla catastrofe economica in cui si è trovata».

Vi siete più sentiti con l’amico di suo padre che vi consigliò di rivolgervi a Rizzi?

«Sì, ci è rimasto malissimo quando ha saputo cosa era accaduto. Si è scusato, ma soprattutto si è sentito in colpa. Non avrebbe mai immaginato una situazione simile».

Cosa si aspetta da questa inchiesta?

«Mi aspetto di avere giustizia. Mio padre era un uomo buono e onesto, che non esitava ad aiutare gli altri. Non è bello vedere morire una persona tormentata, non serena. Spero che quando tutto questo sarà finito la mia famiglia riacquisti un po’ di pace. Voglio che chi ha sbagliato, chiunque esso sia, sia chiamato a rispondere per ciò che ha fatto».

Bari, si faceva pagare per somministrare farmaco gratuito: arrestato oncologo Fino a 2500 euro a somministrazione».

Abbiamo dimenticato il cancro. Floriana Bulfon su L'Espresso il 19 maggio 2021. Ogni giorno mille casi. Eppure non solo il piano pandemico ma anche quello oncologico è rimasto al 2011, prorogato al 2016. E il divario Nord-Sud aumenta. Solo il Covid lo ha insidiato nelle classifiche di letalità, ma il cancro resta «l’Imperatore del Male», che miete vittime in modo sistematico: in Italia ogni giorno si diagnosticano mille nuovi casi, tutti bisognosi di cure lunghe e complesse. Eppure il ministero della Salute da anni non aggiorna la strategia per combattere il tumore. Sì, nel nostro Paese non è stato dimenticato solo il piano pandemico, lo strumento fondamentale per affrontare il dilagare del virus: anche il piano oncologico nazionale è rimasto abbandonato nei cassetti del dicastero e a livello nazionale non si rivedono le linee guida su prevenzione, monitoraggio, ricerca e terapie.

LA DISEGUAGLIANZA. Questa grande omissione si traduce in una spinta alla diseguaglianza sanitaria, perché manca una regia che uniformi al meglio l’assistenza sul territorio. Senza direttive da Roma, ogni regione procede per fatti suoi: c’è chi comunque va avanti e c’è chi invece resta sempre più indietro. «Ci sono ancora grandi disparità tra l’assistenza sanitaria offerta dalle diverse regioni che determinano spesso una mobilità sanitaria. In molti luoghi mancano strutture e soprattutto servizi di prevenzione sul territorio: era un cavallo di battaglia di mio padre», sottolinea Paolo Veronesi, professore ordinario di chirurgia dell’Università di Milano e Direttore del programma senologia dell’Istituto europeo di oncologia nonché presidente della fondazione creata dal padre Umberto: «In Italia, stando agli ultimi dati disponibili pre-pandemia, si guarisce mediamente meglio dal cancro rispetto agli altri Paesi europei, anche se la situazione può variare molto da regione a regione. Abbiamo un ottimo sistema sanitario nazionale che permette un accesso gratuito a tutti e personale sanitario preparato e capace, che molti Paesi ci invidiano. Siamo indietro invece per quanto riguarda pianificazione, coordinamento e monitoraggio dei risultati». Il federalismo delle cure – radiografato prima del Covid-19 da un dossier di All.Can, l’associazione internazionale che promuove il miglioramento dell’assistenza oncologica – mostra come la linea gotica esista ancora: divide chi può avere diagnosi e terapie adeguate dal resto del Paese. A Nord gli standard sono considerati molto buoni; un gradino più in basso ci sono Lazio, Umbria e Marche. Sotto, invece, resta tantissimo da migliorare e i pazienti sono spesso obbligati ai viaggi della speranza. È una mappa frammentatissima, con Asl che rimborsano farmaci tanto avanzati quanto cari e altre che non li finanziano, con ospedali in cui si possono avere test genomici e altri che li ignorano. Quasi una foresta, in cui si può perdere la strada per la sopravvivenza. Senza che nessuno si sia impegnato a livello nazionale per abbattere le differenze.

IL DRAMMA DEI BAMBINI. Questi anni di oblio hanno fatto sì che i programmi di screening per i tumori più diffusi non siano ancora estesi a tutto il Paese, che la disponibilità di posti letto nei reparti oncologici di diverse regioni resti carente e che si continuino a usare apparecchiature obsolete. Il numero di pazienti aumenta, ma non c’è la pianificazione per assisterli, ad esempio, formando il personale in base alla crescita delle necessità. Un deficit che viene pagato soprattutto dai più piccoli: non ci sono specialisti in oncologia pediatrica, tanto che manca persino un riconoscimento accademico e un registro tumori, nonostante il nostro Paese sia tristemente secondo in Europa solo a Malta per numero di bambini e adolescenti malati. Anche per gli adulti restano pochi i percorsi psicologici di supporto, zero i piani riabilitativi di reinserimento del malato. Nulla anche sul fronte delle reti oncologiche regionali che consentono di individuare percorsi diagnostici per differenti patologie e mettere in rete le strutture, ma che sono presenti a macchia di leopardo.

NESSUN SOLLIEVO. Il piano in vigore – un centinaio di pagine di analisi, percorsi e azioni programmatiche con le linee guida su come organizzare la prevenzione e le cure – è rimasto quello del 2011, prorogato fino al 2016. La lotta contro il cancro è stata dimenticata. Nel frattempo l’Italia è cambiata, ci sono zone in cui sono aumentati i tumori ai polmoni a causa dell’inquinamento; i sistemi medici, le terapie, le analisi si sono evoluti. Eppure si sono alternati ministri della Salute e governi ma non hanno ritenuto importante rivedere la strategia contro il male più spietato. Da quel 2016 nessuna iniziativa fino al 2019, quando viene redatta una nuova bozza di 145 pagine, che però non ha completato il cammino per l’approvazione ed è rimasta un esercizio teorico. Le ricadute invece sono concrete. Prendiamo il caso delle cure palliative, il sollievo per chi non ha più speranza: una realtà con la quale si è confrontato chiunque abbia vissuto il dramma di un familiare o di un amico. Il piano del 2011 evidenziava come in grandi fasce della penisola questo tipo di assistenza fosse totalmente deficitario. Le stime europee più aggiornate sostengono che servano in media 80-100 letti per ogni milione di residenti, ma nella bozza redatta a fine 2019 si sottolinea che «anche stimando la necessità della popolazione italiana in 60 letti di hospice per milione di residenti, attualmente ne mancano mille». È come se quindici milioni di italiani venissero privati in caso di malattia della possibilità di ricorrere a un trattamento dignitoso. Con le solite disparità lungo la penisola. In Campania ci sono 262 letti in meno del previsto, in Sicilia un gap di 162: carenze che si concretizzano in un percorso angosciante di dolore per migliaia e migliaia di persone.

SPERANZA NEGATA. Sappiamo tutti che prima si scopre un tumore, più chance ci sono di superarlo. Ma neppure gli «standard minimi di qualità» per una diagnosi ottimale sono diffusi in maniera uniforme nel Paese. I tecnici del ministero mettono nero su bianco che «è grave la situazione d’invecchiamento degli apparecchi ad elevata tecnologia» e parlano burocraticamente di «un livello di vetustità preoccupante». Peccato che l’allarme sia rimasto nel cassetto. Un’altra carenza evidenziata nella bozza mai approvata è la mancanza di collaborazione tra centri periferici e quelli di riferimento nel caso di interventi chirurgici. Il risultato? Prendiamo le metastasi epatiche da tumore al colon-retto. Sono presenti una volta su due o compaiono a distanza dalla resezione del tumore: nel 10-20 per cento dei casi possono essere tolte con una reale prospettiva di cura. Servirebbero tra i 2.500 e i 5.000 interventi l’anno, ma in realtà se ne contano molti di meno. E questo perché chi potrebbe essere operato non viene indirizzato alle strutture specializzate: resta all’oscuro della possibilità di avere una chance in più di guarire. Rinunciando al piano nazionale, le istituzioni statali hanno abdicato alla tutela dei cittadini, rendendoli di fatto disuguali davanti alla malattia. Non ci sono stati né stimoli, né vincoli per spingere le regioni in ritardo ad uniformare la loro assistenza e così è stato limitato il diritto alle cure. Soprattutto sul fronte delle reti regionali, condizione per accedere ai finanziamenti europei. «Adeguare il piano anche in relazione a quello europeo significa poter ricevere fondi che sono nostri e che ci spettano e dare a tutti i malati le stesse opportunità: penso alla telemedicina da incrementare, perché molte cose ad oggi si possono fare da casa senza doversi recare in ospedale; ai programmi di screening che non vengono condotti in modo uniforme in tutte le regioni; al coordinamento tra centri specializzati e presidi sul territorio. Il cancro c’è e purtroppo ci sarà anche nei prossimi anni. Non è un’emergenza. La mancanza o la non aderenza ai programmi di screening fa sì che le diagnosi siano tardive e purtroppo le prognosi peggiori. Lo stiamo vedendo in questo periodo. Il tumore non si è fermato con la pandemia e molti pazienti arrivano con malattie più avanzate. Nei prossimi anni secondo molti studi le morti per cancro potrebbero aumentare», continua Paolo Veronesi. 

LO TSUNAMI COVID-19. Il lockdown rischia di essere una condanna per i pazienti oncologici. Le diagnosi e le biopsie sono diminuite, sia perché il personale è stato spostato a presidiare la diga contro le ondate del Covid-19, sia perché il pericolo di contagi ha ridotto al minimo controlli ed esami. Una situazione drammatica durante la fase drammatica della primavera 2020, che poi – stando alle indagini di Iqvia, il leader mondiale nell’elaborazione dei dati medici – è migliorata, anche se gli oncologi italiani dichiarano di visitare ancora in media il 30 per cento di persone in meno rispetto al periodo pre-pandemia. Un’emergenza nell’emergenza, tanto che le 550 associazioni riunite nella Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo), hanno definito il Covid-19 «uno tsunami per i malati di cancro». Un grido di dolore che ha portato il Parlamento ad approvare due risoluzioni sollecitando il governo ad adottare iniziative e – soprattutto - a provvedere con urgenza all’approvazione di un nuovo piano oncologico nazionale, in linea con quello europeo che ha stanziato ben 4 miliardi e in grado di definire una progettualità complessiva da inserire nel Recovery Plan. Favo sottolinea come «in Europa sia iniziata una nuova era oncologica con fondi e progetti di ricerca e in Italia questa indifferenza rischia di farci perdere i finanziamenti per salvare vite». Il paradosso è che la bozza del piano nazionale elaborata dal 2019 ormai è stata superata proprio a causa del virus, che ha imposto una revisione globale di tutte le cure imponendo la centralità dell’assistenza territoriale e domiciliare. «Manca il punto di contatto territoriale e l’emergenza che stiamo vivendo ci ha fatto comprendere quanto sia importante», sottolinea Giordano Beretta, presidente dell’Associazione Italiana di oncologia medica: «Occorre dare organicità a un percorso perché altrimenti ognuno procede come può, con iniziative estemporanee che possono anche essere incongruenti l’una con l’altra». Il viceministro e chirurgo oncologico Pierpaolo Sileri in Parlamento ha chiesto scusa a nome del ministero, assicurando: «Sarà mia premura seguire il nuovo documento e far sì che venga approvato senza dover aspettare altri cinque anni». Vedremo. Perché c’è mezza Italia che attende da troppo tempo le cure che nell’altra metà sono già garantite a tutti.

Pembrolizumab, dall'Aifa l'ok per la cura di altre tre neoplasie. L'Aifa ha dato l'ok all'uso della molecola nel trattamento di tre neoplasie, sia in monoterapia che in combinazione con altri farmaci. Chiara Console, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato la rimborsabilità di pembrolizumab per il trattamento in fase avanzata di tre complesse neoplasie: il tumore del polmone non a piccole cellule squamoso, del rene e del distretto testa-collo. L’innovatività della molecola anti PD-1 di MSD ha spinto l’Aifa a dare l’ok nel trattamento di tali patologie. In Italia, aumenta in maniera costante il numero di pazienti che vivono dopo la diagnosi di tumore. Rispetto al 2015 vi è stato un incremento del 20% (quando se ne contavano solo 3 milioni rispetto ai 3,6 di oggi). Lo stesso vale per l’aspettativa di vita: sono infatti quasi 2,4 milioni le persone che vivono da più di 5 anni dalla scoperta del cancro, mentre nel 2015 non superavano 1,9 milioni. A contribuire in maniera decisiva al raggiungimento di questi risultati è stata l’innovazione nei trattamenti, anche attraverso l’impiego dell’immuno-oncologia, un approccio che potenzia la risposta del sistema immunitario contro il cancro. Giordano Beretta, Presidente Nazionale Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e Responsabile dell’Oncologia Medica all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo, si è espresso sul miglioramento dell’aspettativa di vita dei pazienti trattati per patologie tumorali: «Almeno un paziente su quattro, pari a quasi un milione di persone in Italia è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e può considerarsi guarito. [...] Un parametro molto importante è la sopravvivenza condizionata, che indica la probabilità di essere vivi a 5 anni, qualora si siano superati i primi 12 mesi dalla diagnosi. Oggi, se riferita a tutti i tumori, è pari al 78% nelle donne e al 73% degli uomini. L’impatto delle terapie innovative come l’immuno-oncologia su questi risultati è significativo, soprattutto perché consentono benefici a lungo termine».

Il ruolo del pembrolizumab nella cura delle neoplasie renali. pembrolizumab è la prima immunoterapia rimborsata dall’Agenzia del Farmaco dedicata al trattamento in prima linea del tumore del rene. L’AIFA ha ratificato nello specifico la rimborsabilità del farmaco in combinazione con axitinib (inibitore tirosin chinasico) nei pazienti con carcinoma a cellule renali metastatico, una forma che nel 2020 ha visto circa 9 su 10 casi delle 13.500 diagnosi di tumore al rene, in precedenza non trattati. Per Sergio Bracarda, Direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica e Traslazionale dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni, la combinazione dei due farmaci potrebbe rappresentare il nuovo standard terapeutico nel trattamento di tali tumori: «Storicamente, i pazienti con carcinoma a cellule renali avanzato presentano tassi di sopravvivenza a 5 anni inferiori al 10%. Nello studio di fase 3 KEYNOTE-426, la combinazione di pembrolizumab con axitinib, indipendentemente dall’espressione di PDL-1, ha migliorato in modo significativo la sopravvivenza globale riducendo del 32% il rischio di morte rispetto a sunitinib, l’attuale standard di cura. Siamo di fronte a un nuovo standard terapeutico per il trattamento in prima linea, che cambia la pratica clinica quotidiana».

Il ruolo del pembrolizumab nella cura dei tumori della testa e del collo. L’immunoterapia con pembrolizumab rivoluziona lo standard di cura in prima linea anche dei tumori della testa e del collo (faringe, laringe e cavo orale). Solo nel 2020 si contano circa 9.900 nuove diagnosi in Italia. AIFA ha approvato pembrolizumab, in monoterapia o in combinazione con chemioterapia (platino e 5-fluorouracile), per il trattamento in prima linea di pazienti con carcinoma a cellule squamose della testa e del collo metastatico o ricorrente non resecabile. Marco Benasso, Direttore della Struttura Complessa di Oncologia della ASL2 Savonese, ha ricordato come si tratti di neoplasie invalidanti che compromettono l’identità della persona e le relazioni con gli altri. L’impiego del pembrolizumab ha dimostrato un incremento della sopravvivenza globale, con probabilità a 4 anni nell’85% dei casi anche 3.5 volte superiore se utilizzato in associazione alla chemioterapia.

Il ruolo del pembrolizumab nella cura dei tumori del polmone. Con 41mila nuove diagnosi nel 2020, il tumore al polmone si attesta tra uno dei più diffusi. Circa l’85% dei casi è costituito dalla forma non a piccole cellule, di cui il 25% è ad istologia squamosa. È proprio in quest’ultima istologia che AIFA ha approvato pembrolizumab in combinazione con chemioterapia (carboplatino e paclitaxel/nabpaclitaxel) per il trattamento in prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule metastatico squamoso. Silvia Novello, Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università degli Studi di Torino e Responsabile Oncologia Polmonare all’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano, si è espressa sui risultati dello studio Keynote-407 sulla nuova opzione terapeutica rappresentata dal pembrolizumab: «L’approvazione da parte di AIFA di questa ulteriore indicazione di pembrolizumab nel tumore del polmone non a piccole cellule ha permesso di ampliare la popolazione di pazienti candidabili ad un trattamento immunochemioterapico in prima linea, includendo sia la forma squamosa che quella non squamosa e portando a tre le indicazioni approvate nel trattamento di prima linea di questa patologia». Nel dicembre 2019, infatti, AIFA, aveva già approvato la combinazione di pembrolizumab con chemioterapia per il trattamento in prima linea del carcinoma polmonare non a piccole cellule metastatico non squamoso in alcune specifiche condizioni. A maggio 2017, invece, pembrolizumab in monoterapia era stato approvato da AIFA per il trattamento in prima linea dei pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule metastatico.

Pembrolizumab, in una molecola l'innovazione della ricerca. Nicoletta Luppi, Presidente e Amministratore Delegato MSD Italia si è espressa sull’importanza di questa molecola, prodotto della ricerca nel campo del trattamento dei tumori, approvata dall’Aifa in ben dieci diversi trattamenti: «Con più di 1.300 studi clinici attivi nel mondo in oltre 30 tipi di tumori, questa molecola dimostra il grande valore della nostra ricerca e innovazione che, negli anni, ha regalato "più domani" e continuerà a dare più speranza di vita a migliaia di pazienti. MSD è un’azienda ‘science-driven’ che fa della Ricerca e dello Sviluppo la sua vocazione per poter fornire innovazioni terapeutiche in grado di dare nuove prospettive e speranza di vita ai pazienti e a chi li assiste. Un impegno che non si esaurisce nella volontà di rendere disponibili farmaci e vaccini che possano contribuire al bisogno di salute pubblica, ma che ci vede in prima linea anche in attività di informazione e di prevenzione, grazie alle tante campagne di sensibilizzazione rivolte alla popolazione che da moltissimi anni promuoviamo e sosteniamo in collaborazione con le più autorevoli Società Scientifiche italiane e Associazioni di Pazienti».

·        Il metodo Di Bella.

Metodo Di Bella: guariti dal tumore al seno e alla prostata senza chemio e senza radio. Giovanna Taormina mercoledì 12 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il Metodo Di Bella continua a ottenere risultati. La “scelta antitumore” ideata dal professor Luigi Di Bella è stata portata avanti dal figlio Giuseppe. Dalla morte del padre il dottor Giuseppe Di Bella si è dedicato esclusivamente alla cura dei malati di cancro e alla ricerca scientifica con la creazione di una Fondazione. Ora parla di risultati. «Dal 2004 a oggi si sono presentati 533 tumori alla prostata», spiega in un’intervista a Radio Radio. Di questi una recente pubblicazione della Fondazione ha documentato come almeno «sedici casi hanno risposto molto bene senza operazione, senza chemio, senza radio, applicando come terapia di prima linea il Metodo Di Bella». Una notizia che non è sfuggita al mondo della comunità scientifica. Lo stesso Giuseppe Di Bella ha annunciato di aver ricevuto un invito dalla Società Europea di Oncologia per un Congresso che si svolgerà il prossimo autunno a Vienna. «Un altro degli elementi che cerchiamo di risolvere con la collaborazione dei colleghi è quello di potere cominciare a revisionare dei risultati. Quando io devo esaminare 533 cartelle per pubblicare un caso e per portarlo a un congresso devo dare tutta una serie di elementi. Ad un certo punto siamo stati invitati a un congresso di oncologia a Vienna». E poi ancora. «Adesso abbiamo tempo fino a settembre per il congresso di Vienna. Adesso in studio ho quattro dottoresse che collaborano, mi stanno aiutando… Comunque si sta facendo un certo tipo di lavoro. Ne approfitto per dire una cosa: la differenza tra il nostro risultato e il risultato delle terapie attuali è soprattutto l’intervento su quel percorso più insidioso del tumore per mutazione. Perché inizialmente oggi l’oncologia ottiene buoni risultati per il tumore alla prostata. Anche al di fuori dell’intervento. Perché fanno un blocco dell’ormone sessuale maschile che ha un ruolo importante nella crescita». Di Bella spiega come muta il tumore. «Ora, quello dura per un po’ di tempo. Dopo un po’ di tempo cosa succede? La siero-tumorale per mutazione diventa ormono-resistente. E non intervengono neanche sul meccanismo di crescita primario del tumore che è l’ormone della crescita. Se io mi prendo in cura un paziente con tumore alla prostata, che rifiuta l’operazione, rifiuta la radioterapia (…), io faccio un blocco completo dell’accesso a tutto quello che fa crescere i tumori. Contemporaneamente gli impedisco le vie di fuga dei tumori, le mutazioni». Il dottor Di Bella spiega a Radio Radio che «è un percorso che in alcuni casi, attenzione in alcuni casi, può consentire l’eliminazione del tumore. Attenzione: nelle banche dati mondiali non c’è una casistica di tumori della mammella guariti senza operazione. Uno che sia uno pubblicato con terapie oncologica non esiste. Ce ne sono venti pubblicati e curati con la Terapia Di Bella, non operati, non chemio, non radio trattati…».

Il tribunale di Catanzaro: “L’unica cura del suo tumore è la Di Bella”. Gioia Locati il 12 gennaio 2021 su Il Giornale. “Attualmente l’unica terapia indispensabile e insostituibile per la cura della sua patologia tumorale è il multitrattamento Di Bella…”. Così il collegio giudicante del Tribunale di Catanzaro, con l’ordinanza 1396, garantisce a Aldo Bencivenni, 61 anni, che gli sia rimborsata la cura Di Bella dal Sistema sanitario. A vita. Dopo svariati anni di sentenze della Cassazione propense a rifiutare questo risarcimento ai malati, ecco un tribunale che si esprime a favore.  La ‘discussa’ terapia anti tumorale fu studiata e applicata dal professor Luigi Di Bella a partire dagli anni ‘70 e richiesta a furor di popolo dai malati – specie da chi non vedeva risultati con le terapie ufficiali – tant’è che lo Stato italiano decise di sperimentarla nel 1998 per sei mesi, al termine dei quali la valutò inefficace. Le sentenze a favore del rimborso della terapia sono sempre state altalenanti, o meglio: a macchia di leopardo (giudice che vai speranza che trovi), fino a quando la linea giurisprudenziale non si è eretta compatta “contro”. Contro i malati e il loro diritto a scegliere come curarsi – al punto che oggi è ampiamente accettato che questo diritto non esista – ; contro i malati e il loro diritto di sperare fino all’ultimo: che fare quando chemio, radioterapia e anticorpi non funzionano? Già, è lecito consumare oppioidi, perfino chiedere l’eutanasia, ma non sperare in una terapia alternativa…E veniamo all’oggi. Prima di spiegare come mai il tribunale del lavoro Catanzaro sia arrivato a una decisione così eclatante (l’ordinanza non è impugnabile), due parole sul protagonista. Aldo Bencivenni risiede a Davoli, in provincia di Catanzaro. A 58 anni scopre di avere un tumore alla coda del pancreas avanzato, con “multiple metastasi al fegato”. La diagnosi è del febbraio 2017. Bencivenni affronta la sedute di chemioterapia cercando di dimenticare la prognosi infausta: i medici si sono mostrati subito pessimisti. Ma tentar non nuoce. Dal 23 marzo al 31 maggio, sopportando il susseguirsi dei malesseri, Aldo si presenta a tutte le sedute di chemioterapia. A giugno però la doccia gelata, il tumore non è stato nemmeno scalfito (“la massa tumorale non subiva alcuna diminuzione di volume ed anzi la patologia veniva certificata grave dalla commissione medico-legale ASP Catanzaro” si legge nell’ordinanza). I medici concludono che il “tumore è incurabile” e che è “da stabilizzare”. Ma a giugno inizia anche il cammino che porterà Aldo alla remissione: comincia la cura Di Bella. Con il passare dei mesi Bencivenni ritrova forze e ottimismo, gli esami periodici lo motivano a proseguire. Piano piano tornano le energie e i valori del sangue si normalizzano. Aldo riprende la sua vita normale di pensionato con la passione per la pesca e per la caccia. Arriviamo al 2020. Tac e Pet in gennaio e in agosto certificano l’assenza di malattia. Assenza completa. Non ci sono più nemmeno le metastasi. “E pensare che, all’inizio, nemmeno il dottor Giuseppe Di Bella ci aveva creduto – racconta la moglie Teresa – Da lui ci siamo andati subito, dopo la prima seduta di chemioterapia. Aldo insisteva, ricordava la vicenda del professore che aveva entusiasmato l’Italia e diceva che avrebbe voluto curarsi così. Ma quando siamo stati ricevuti a Bologna, in aprile, il dottore ci disse chiaro che la situazione era grave, ci invitò a proseguire con la chemio. Sotto nostra insistenza ci spiegò come avremmo dovuto procedere se avessimo voluto affiancare la cura Di Bella alle terapie in corso e ci diede il nome di un medico siciliano, più vicino a noi. Andammo a conoscere quel medico, che poi è cugino del dottor Di Bella e si chiama Francesco Calogero. La terapia con lui la iniziammo a giugno, dopo aver concluso senza successo la chemioterapia. Calogero non ci diede false illusioni, ma nemmeno ci tolse la speranza. ‘Proviamo’ ’, si disse. E così, aggrappati al filo del ‘proviamoci’ siamo arrivati qui, mio marito è decisamente un altro. Possiamo dire che è guarito? Per noi sì ma anche per gli esami clinici lo è”. L’avvocato di Aldo, Gianluca Ottaviano, ricostruisce le tappe che hanno portato a questa ordinanza. “Il giudice di primo grado rigettò il nostro ricorso a settembre rifacendosi a una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione, che dice in sintesi che "quando una terapia è efficace sul singolo non è giustificato che se ne faccia carico il sistema sanitario". Per il reclamo sono partito da qui, dall’efficacia dimostrata su Aldo Bencivenni. Ho ricordato poi che l’esito della sperimentazione è un mero atto amministrativo. E che, come tale non può comprimere un diritto non solo costituzionalmente ma universalmente garantito: quello alla salute e alla vita. La sperimentazione ha stabilito che la terapia Di Bella è inefficace in generale, ma non nel caso singolo. Prova ne è che, a sperimentazione conclusa, lo Stato continuò a rimborsare la terapia Di Bella ad alcuni pazienti, quelli sui quali aveva avuto un effetto benefico”. Conclude Ottaviano che “un conto è l’interesse legittimo della collettività, un altro il diritto soggettivo che è superiore anche all’interesse legittimo collettivo”. Così è per i tre giudici del Tribunale di Catanzaro: “Risultate inefficaci le prescrizioni terapeutiche offerte dalla medicina ufficiale, la terapia Di Bella, per Aldo Bencivenni, si è dimostrata indispensabile e non sostituibile”.

·        Il Linfoma di Hodgkin.

Vera Martinella per corriere.it il 14 gennaio 2021. Quello che a soli 22 anni ha colpito Teresa Cherubini, figlia del cantante Lorenzo Jovanotti e di Francesca Valiani, è un tumore poco frequente e che, fortunatamente, ha una buona prognosi. Sono circa 1.200 i nuovi casi di linfoma di Hodgkin diagnosticati ogni anno in Italia: si presenta soprattutto nei giovani (prima dei 45 anni, è più frequente nelle fasce d’età intorno ai 20 anni, ma può svilupparsi più raramente anche oltre i 60) e oltre l’80 per cento dei pazienti è vivo e può essere considerato guarito a cinque anni dalla diagnosi. Oggi, grazie ai progressi della ricerca scientifica, le moderne terapie consentono in molti casi di ottenere la guarigione anche se la malattia si è diffusa ad altri organi. O quanto meno di mantenerla in remissione per molti anni.

Almeno l’80% dei pazienti con linfoma di Hogkin guarisce. I linfomi si dividono in due macro-gruppi: il linfoma di Hodgin (dal nome del medico inglese Sir Thomas Hodgkin, che l’ha descritto per primo nella prima metà dell’800) e i linfomi non Hodgin (tutti gli altri). Si tratta di un gruppo di malattie eterogenee, comprendenti vari sottotipi anche molto diversi fra loro, che possono avere un’evoluzione e un’aggressività differenti e che quindi richiedono trattamenti specifici a seconda della singola patologia. «Si sviluppano a seguito della degenerazione maligna del tessuto linfatico, diffuso in varie parti del nostro organismo, ma più spesso nelle ghiandole linfatiche (linfonodi) superficiali e profonde - spiega Corrado Tarella, direttore dell'Oncoematologia dell'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano, dove Teresa Cherubini è stata curata -. Talvolta c’è poi anche il coinvolgimento di milza e midollo osseo e, meno frequentemente, di fegato, stomaco e altri organi. Fortunatamente i linfomi rappresentano indubbiamente uno degli esempi di neoplasia in cui la moderna onco-ematologia ha ottenuto i migliori risultati terapeutici e, secondo le statistiche più recenti, oltre l'80% dei pazienti con un linfoma di Hodgkin è vivo all'importante traguardo dei 5 anni dalla diagnosi, superato il quale i controlli si fanno sempre meno frequenti e si può parlare di guarigione». Come tutti i malati di cancro ben sanno, bisogna infatti aspettare a lungo prima di potersi considerare completamente fuori pericolo da una recidiva, ma è molto importante che a conclusione del ciclo di terapie non resti alcuna traccia del tumore: per questo nel suo post su Instagram Teresa Cherubini (che ha ricevuto la diagnosi e iniziato le cure a luglio 2020, dopo aver notato l’ingrossamento di un linfonodo ascellare asportato da Paolo Veronesi, direttore della Divisione di Senologia Chirurgica dell’Ieo) si dichiara «ufficialmente guarita» dopo l'ultimo controllo effettuato il 12 gennaio 2021.

Terapie e cadute dei capelli. Quali sono le cure? «Ad oggi, i principali tipi di trattamento del linfoma di Hodgkin sono chemioterapia e radioterapia, che possono essere usate da sole o in combinazione in funzione dello stadio della malattia, ed eventualmente anche la terapia intensificata con un trapianto di cellule staminali - risponde Tarella -. Negli ultimi anni si sono poi resi disponibili anche nuovi farmaci biologici «intelligenti» che riescono a guarire una proporzione consistente di pazienti nei quali la malattia non è più controllata dai trattamenti tradizionali. Quali strategie scegliere, fra le molte disponibili, dipende dal sottotipo di tumore, dalle sue caratteristiche, dall'età del paziente e da molti altri parametri che vanno considerati caso per caso». Ogni anno circa 32mila italiani devono fare i conti con un tumore del sangue, le cui cause sono ancora oggi in gran parte sconosciute. I linfomi sono, insieme a leucemie e mieloma, fra i tipi più frequenti e da soli costituiscono più di un terzo di tutte le neoplasie del sangue, ma ne esistono molti tipi diversi e la prognosi dei pazienti può variare molto. Anche per quanto riguarda la temutissima caduta dei capelli ci sono molte variabili da tenere in considerazione: è un effetto collaterale molto comune in corso di chemioterapia, ma non tutti i farmaci citotossici causano l’alopecia, che a volte può essere talmente lieve da essere quasi irriconoscibile. In altri casi può verificarsi invece un’alopecia temporanea, parziale o totale, ma quasi sempre i capelli ricrescono: a seconda del tipo di tumore e quindi della terapia effettuata, la ripresa del ciclo vitale del capello vari e generalmente, a 3-6 mesi massimo la ricrescita è compiuta.

Sintomi ed esami diagnostici. Quali sono i sintomi che devono insospettire? «Purtroppo è difficile giungere a una diagnosi precoce di un tumore del sangue perché i segnali iniziali sono sempre piuttosto vaghi e poco specifici e potrebbero essere spia anche di molte altre patologie (come nel caso de prurito riferito dalla figlia di Jovanotti, ndr) - sottolinea Tarella -. È però importante parlare con un medico in presenza di: febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna) e un senso di debolezza che perdurano senza cause apparenti per più di due settimane; perdita di appetito e dimagrimento importante e ingiustificato; formazione di ematomi o lividi spontanei; sanguinamenti e ulcerazioni che non guariscono (come quelle del cavo orale); gonfiore, spesso indolore, di un linfonodo superficiale del collo, ascellare o inguinale. Possono essere presenti anche una sudorazione eccessiva, soprattutto di notte, che obbliga a cambiare gli indumenti e un prurito persistente diffuso su tutto il corpo». In presenza di sintomi sospetti è bene andare dal medico di medicina generale che, dopo la visita, può prescrivere degli accertamenti (esami del sangue più o meno specifici a seconda dei sospetti) e, se lo ritiene opportuno, suggerire di consultare un ematologo per una più approfondita valutazione ed eventuale esecuzione di ulteriori indagini (come una biopsia del midollo osseo o di un linfonodo ingrossato).

·        La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

Quali sono i sintomi della patologia di Papa Francesco. Maria Girardi il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Santo Padre è stato sottoposto a un intervento chirurgico per stenosi diverticolare sintomatica del colon, una conseguenza della diverticolite. Si è risolto positivamente l'intervento chirurgico programmato al colon a cui è stato sottoposto Papa Francesco nel pomeriggio di domenica 4 luglio. A condurre l'operazione, il professore Sergio Alfieri. Il Santo Padre soffre di stenosi diverticolare sintomatica del colon, una conseguenza della diverticolite, ovvero l'infiammazione dei diverticoli dell'intestino che, specialmente negli anziani, si può tradurre in un restringimento del lume con conseguente ostacolo per il passaggio delle feci. I diverticoli, di natura congenita oppure acquisita, sono delle piccole sacche che si formano lungo le pareti del colon. Ecco perché si infiammano e quali sono i sintomi a cui è bene prestare attenzione. La diverticolosi, ossia la presenza di diverticoli, è la terza patologia gastrointestinale più comune. Ad esserne colpita è soprattutto la popolazione anziana dei paesi occidentali. L'incidenza, infatti, aumenta con l'età e raggiunge un picco massimo nei soggetti con più di 80 anni. La diverticolosi spesso evolve nella diverticolite, l'infiammazione dei diverticoli che si verifica nel 10-25% dei casi. Frequenti sono le recidive, basti pensare che dopo il primo episodio e nonostante l'adeguata terapia, la flogosi può comparire nuovamente entro i primi 5 anni. Seppur l'incidenza della malattia negli individui con meno di 30 anni sia molto bassa (1-2%), essa è destinata a crescere a causa delle sempre più diffuse cattive abitudini alimentari e dello stile di vita sregolato.

Non è possibile conoscere anzitempo se e quando i diverticoli si infiammeranno. Esistono, tuttavia, alcuni fattori di rischio che predispongono all'avvento della diverticolosi:

scarsa assunzione di fibre;

consumo esagerato di cibi speziati;

sovrappeso e obesità;

fumo di sigaretta;

consumo eccessivo di alcolici;

abuso di farmaci antinfiammatori non steroidei;

familiarità.

I sintomi della diverticolite. Il sintomo tipico della diverticolite è il dolore addominale, inizialmente lieve e localizzato al fianco sinistro. Con il passare del tempo tende a diventare più intenso e a interessare tutto l'addome.

Nausea, i cibi utili per contrastarla. Altre manifestazioni includono: nausea, vomito, diarrea o costipazione, febbre con brividi, tachicardia, disturbi vescicali. Nessuno di questi segni clinici deve essere sottovalutato. Se un attacco di diverticolite non viene curato adeguatamente può dar luogo a una serie di gravi complicazioni. Tra queste si ricordino:

ascesso: è la conseguenza di una severa infezione del diverticolo, con formazione di una raccolta di pus. Se piccolo viene trattato con una terapia antibiotica, diversamente è indispensabile un drenaggio chirurgico;

fistola: questa comunicazione anomala tra due organi si forma in seguito ad un'infiammazione tra due parti dell'intestino, tra intestino e cute o tra intestino e vescica;

emorragia rettale: è l'esito della rottura di un piccolo vaso sanguigno presente all'interno di un diverticolo;

occlusione intestinale: si verifica in seguito ad un'infiammazione cronica a carico del colon.

Come trattare la diverticolite. La cura della diverticolite varia a seconda dell'intensità dei sintomi e delle condizioni generali del paziente. Inizialmente, è possibile somministrare allo stesso antibiotici e antispastici. Questo trattamento deve essere affiancato da una dieta liquida e/o semiliquida e dal riposo a letto. Trascorsi 2/3 giorni, in assenza di miglioramenti, è indispensabile ricorrere al ricovero, soprattutto se il malato è anziano o affetto da altre patologie, quali diabete, insufficienza renale e malattie del sangue. In ospedale la cura prevede antibiotici per via endovenosa, antidolorifici e reidratazione con liquidi per via parenterale. Quando i farmaci non fanno effetto e in presenza di complicanze (occlusione intestinale, emorragia, perforazione del colon) si deve ricorrere alla chirurgia. L'intervento può essere programmato nei soggetti con attacchi di diverticolite ricorrenti oppure in caso di fistole o di subocclusione. Due sono le modalità dell'operazione:

colectomia: resezione del tratto malato di colon e successiva unione delle due estremità sane. Il ricovero ha una durata di almeno una decina di giorni;

colectomia con colostomia: attraverso un'apertura temporanea del colon sulla pelle, viene inserito un sacchetto per la raccolta delle feci. Trascorsi alcuni mesi e a guarigione avvenuta, la stomia sarà chiusa. 

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza... 

LA STENOSI DIVERTICOLARE COLPISCE UN ANZIANO SU 5 «E SPESSO NON DÀ SINTOMI». Graziella Melina per "il Messaggero" il 5 luglio 2021. Prima arrivano i dolori addominali, acuti o cronici. Poi si prova a rimediare con una terapia a base di antibiotici. E infine, se i sintomi non passano, si deve ricorrere ad una operazione chirurgica in laparoscopia. L' intervento di Papa Francesco ricoverato ieri al policlinico Gemelli di Roma per una stenosi, è la soluzione che si sceglie quando l'infiammazione dei diverticoli non si risolve con la terapia farmacologica. Ma se l'intervento è stato programmato, significa che il paziente è già sotto cura e quindi non è costretto all' improvviso a farsi operare con urgenza. «La stenosi è una complicanza della malattia diverticolare, che è dovuta a piccole formazioni sacciformi a carico della parete del colon - spiega Giovanni Milito, professore di Chirurgia dell'apparato digerente ed endoscopia digestiva dell'Università Tor Vergata di Roma - Finché non si infettano si vive tranquillamente. Quando poi queste formazioni diverticolari, che possono essere o congenite o acquisite, si infiammano, determinano un ispessimento della parete del colon». In genere, i diverticoli possono colpire tutto il colon, però sono maggiormente frequenti nel tratto sigma discendente, che è la parte a sinistra. Quando si manifesta una restrizione del lume, quindi un'infiammazione di questi diverticoli, si passa da malattia diverticolare a diverticolite, ossia un'infezione. «L' infiammazione provoca un ispessimento della parete del colon. È come se - esemplifica Milito - un'autostrada da tre corsie diventa una carreggiata unica. E si crea quella che è la stenosi, ossia quasi un quadro di sub-occlusione o di occlusione intestinale». 

LA DIAGNOSI. Se non viene diagnosticata in tempo, si rischia di dover intervenire con urgenza. «Quando i diverticoli si infiammano - precisa Milito - si possono perforare e avviene la famosa peritonite». Nel caso di diverticolite, l'intervento chirurgico non è però la prima opzione. «In genere aspettiamo un secondo, un terzo attacco. Si prova prima con una terapia antibiotica. Quindi, si mette a riposo l'intestino, si segue un'alimentazione che permetta di mantenere un alvo più morbido, eliminando dalla dieta tra l'altro gli acini di uva e la frutta secca. Ma se c' è un secondo attacco, per evitare che si possa creare un'occlusione, si interviene e si asporta il tratto del colon compreso tra il sigma e il colon discendente. Si uniscono i due capi del colon e la persona guarisce». L' intervento si svolge in laparoscopia. Dopo tre giorni si viene dimessi. «Poi, per la ripresa delle attività, come nel caso del Papa, bisogna tenere conto anche delle complicanze post operatorie. Non dimentichiamo che è necessaria l'anestesia, stiamo parlando di un trattamento anche invasivo, e poi bisogna considerare che sono sempre circa due ore di intervento. Dopo le dimissioni, serve comunque qualche giorno di riposo».

LA DIETA. Di malattie diverticolari, nelle persone anziane, ne soffre circa un 15-20 per cento. «Superati i 50 anni - raccomanda Milito - a scopo preventivo tutti devono fare una colonscopia ogni cinque anni. Per evitare la stitichezza, tra le cause della formazione dei diverticoli, è opportuna poi una dieta ricca di fibre, serve bere moltissima acqua, e non includere nei pasti le spezie piccanti. Bisogna, inoltre, cercare di mantenere sempre una certa attività fisica. Non dimentichiamo che i diverticoli sono asintomatici e spesso possiamo averli senza saperlo».

"Infiammazione o altro, lo dirà l'istologico. Un mese per tornare in forma alla sua età". Francesco Rigatelli per "La Stampa" il 5 luglio 2021. «Oh, poverino». Uberto Fumagalli, responsabile di Chirurgia dell'apparato digerente dello Ieo di Milano, sa cosa prova chi come il Papa ha la stenosi diverticolare sintomatica del colon. 

Di che si tratta esattamente?

«La parte terminale dell'intestino si restringe, ha appunto una stenosi, e questa patologia può essere di diversa natura: neoplastica o infiammatoria». 

Un tumore?

«La diagnosi dice stenosi diverticolare, quindi bisogna credere che si tratti di natura infiammatoria, ma non è semplice capirlo prima dell'operazione. Se il Papa avesse sofferto in precedenza di diverticolite sarebbe un segnale positivo per esempio. O se avesse fatto una colonscopia per stabilire la natura della stenosi. Altrimenti si scopre durante l'intervento e poi con un esame istologico del tratto di colon asportato». 

Se fosse di natura diverticolare cosa vorrebbe dire?

«Che nel colon si sono creati dei diverticoli, cioè delle estroflessioni della mucosa interna, come delle piccole bolle, che possono andare incontro a dei processi infiammatori, alla fibrosi e alla stenosi. Le cicatrici di queste infiammazioni poi ostruiscono la parte finale dell'intestino, che va asportata». 

È un intervento difficile?

«Dipende dal motivo per cui viene fatto e dalla condizione del paziente. Se si tratta, come pare, di un intervento programmato può essere semplice. Se avviene in emergenza a seguito di un'occlusione intestinale è più complesso». 

Cos'altro può succedere?

«Molto dipende dalla posizione della stenosi. Se è nel tratto che si chiama sigma l'intervento si chiama emicolectomia sinistra e serve a togliere metà del colon». 

Con quali conseguenze?

«È un intervento sopportabile per il paziente, perché quel tratto assorbe il liquido del contenuto fecale, che nel corso del suo transito viene solidificato. Inizialmente si hanno disturbi ad andare in bagno, ma nel tempo ci si adatta. Se invece la stenosi fosse di natura neoplastica bisognerebbe saperne lo stadio, se ci sono rischi di diffusione del tumore, ma confidiamo che non sia così». 

Quanto tempo dura l'intervento?

«Un emicolectomia sinistra laparoscopica può durare tre ore, ma dipende dalla velocità del chirurgo. La laparoscopia consiste in quattro buchini all' addome per fare entrare telecamera, forbici, pinze e dissettori, eventualmente aggiungendo il robot. Una suturatrice meccanica seziona il giunto retto-sigma, incide come per il cesareo, al che si estrae la parte finale del colon, la si taglia e poi si rimette dentro cucendo colon discendente e retto». 

E il robot a che serve?

«In laparoscopia un chirurgo tiene la telecamera e una pinza da presa, mentre un altro opera con forbice, dissettore e un'altra pinza. Il robot può fare da interfaccia tra questi strumenti e il chirurgo che sta seduto al computer». 

E cos'è meglio?

«Il robot non è più preciso, ma si muove meglio in certi punti piccoli e complessi. In questo caso non serve molto».

Che equipe occorre per l'operazione?

«Due o tre chirurghi, anestesista, strumentista e due infermieri». 

Tra quanto tempo il Papa tornerà a Santa Marta?

«Se si tratta di un intervento programmato dopo tre giorni si valutano le condizioni del paziente ed entro una settimana si viene dimessi» 

E poi?

«Una persona anziana torna in forma dopo un mese di convalescenza. Si tratta comunque della perdita di un pezzo di intestino e ci possono essere conseguenze. In alcuni casi può anche essere necessario un sacchettino per una deviazione temporanea dell'intestino».

SSar. per “il Giornale” il 5 luglio 2021. L' intervento di stenosi diverticolare «è difficilmente programmabile» perché «si tratta di una infiammazione della parete del colon che provoca una occlusione intestinale quando una precedente terapia di antibiotici non ha avuto efficacia». In questo caso «occorre effettuare una resezione del colon, in parole povere bisogna asportare la porzione di colon malata». A spiegare tecnicamente cosa sia la stenosi diverticolare sintomatica del colon, per la quale Papa Francesco è stato ricoverato, è il professor Renato Andrich, per anni primario di chirurgia oncologica e senologia dell'Ospedale San Giovanni di Roma. «Con la diverticolosi spiega il chirurgo al Giornale - il colon presenta già delle piccole sacche che normalmente non danno alcun disturbo. Ci possono però essere delle complicazioni, come emorragia, perforazione e stenosi, come sembra si sia verificato per il Santo Padre. In quest' ultimo caso, si verificano delle infezioni dei diverticoli che estendono l'infiammazione a tutta la parete». La stenosi, si legge sul sito della Società italiana della chirurgia colo-rettale, è una delle complicanze dei diverticoli che sono benigni e frequentissimi con il crescere dell'età: 50% fra i 50enni, 70% fra i 70enni. I diverticoli possono definirsi erniazioni a forma di piccoli sacchi che interessano la mucosa e la sottomucosa della parete dell'intestino e che si localizzano più frequentemente nel colon sinistro ed in particolare nel colon sigmoideo. L' intervento chirurgico, spiega il professor Andrich, «avviene in anestesia generale, è un'operazione importante specie in una persona fragile e over 80. Il Papa avrà probabilmente una degenza di almeno una settimana». Al momento la previsione della degenza del Santo Padre è di cinque giorni. Di solito dopo un intervento di qualsiasi entità sono le prime 48 ore quelle cruciali per stabilire sia il buon esito dell'operazione sia le condizioni generali del paziente. Ma quali sono i rischi legati ad un intervento di questo tipo? Ovviamente sono strettamente legati alle condizioni di salute generali del paziente ma sicuramente il rischio maggiore specialmente nel caso di una persona di età avanzata è sempre e comunque legato all' anestesia. Certamente Papa Francesco soffriva di questa condizione da tempo ma i sintomi di solito sono facilmente controllabili attraverso terapie antiinfiammatorie. Evidentemente lo stato infiammatorio, che deve essere trattato prima di sottoporsi all' operazione, avrà però comportato conseguenze sul funzionamento del colon che hanno reso inevitabile l'intervento. Prima però di entrare in sala operatoria sicuramente il Santo Padre avrà effettuato tutte le analisi necessarie a stabilire le sue condizioni: elettrocardiogramma, analisi del sangue, probabilmente anche una tac o una risonanza magnetica. Una volta eseguita la preparazione si passa alla fase pre-operatoria che prevede una sedazione prima della vera e propria anestesia che rappresenta comunque l'aspetto più rischioso di un intervento che viene considerato di routine dai medici. Questa patologia infatti è molto comune dopo i 50 anni e non presenta solitamente complicazioni tali da compromettere lo stato di salute del paziente.

·        La Miastenia.

La malattia che ha colpito Gattuso Dove nasce e quali sono gli effetti. L'allenatore del Napoli Gattuso combatte da ormai 10 anni con una malattia autoimmune che colpisce i muscoli volontari che si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Marco Gentile, Giovedì 24/12/2020 su Il Giornale. Gennaro Gattuso è sempre stato un grande combattente nella sua vita privata e da calciatore. L'allenatore del Napoli ormai da anni sta combattendo contro una malattia molto fastidiosa, autommune, che colpisce gli occhi: la miastenia. "Io soffro di una malattia autoimmune, la miastenia. Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che non si vedono bene allo specchio".

Che cos'è la miastenia? La miastenia è una condizione in cui tutti i muscoli volontari si indeboliscono e si affaticano rapidamente. Per questo tipo di problema, purtroppo per chi ne è colpito, non esiste una cura definitiva ma solo un trattamento adeguato che aiuta a ridurre i sintomi. Le cause di questa malattia autoimmune possono essere molteplici ma il problema scatenante é l'interruzione della corretta comunicazione fra nervi e muscoli, causata dal fatto che l'organismo inizia a produrre anticorpi che inibiscono l'attività dei recettori per il neurotrasmettitore acetilcolina, che generalmente stimola i muscoli. La miastenia oculare, quella che ha colpito Gattuso, è una forma limitata ai muscoli degli occhi e delle palpebre che si presenta perché alcuni autoanticorpi inibiscono il meccanismo nervoso che permette la contrazione dei muscoli appartenenti al compartimento oculare. I tipici sintomi della miastenia oculare sono due: diplopia (visione doppia come ha detto anche Gattuso) e ptosi, ovvero la palpebra cadente.

Il messaggio di Ringhio. "Sono 10 giorni che non sono me stesso e voglio dirlo a tutti i ragazzini che hanno paura quando hanno un qualcosa di strano e non si vedono bene allo specchio: la vita è bella e bisogna affrontarla senza paura, senza nascondersi. E comunque sono vivo, perché ho sentito voci in giro che dicevano che ho un mese di vita, ma tranquilli che non muoio. Ho questa malattia da 10 anni, questa è la terza volta che mi ha colpito e stavolta mi ha colpito forte, ma tranquilli perché l’occhio tornerà al suo posto e sarò più bello, speriamo, il più presto possibile. Adesso non sono bello da vedere, ma passerà pure questa", questo il commento come sempre mai banale di Gattuso. L'ex giocatore e allenatore del Milan ha poi concluso con un messaggio di grande maturità e dignità: "I ragazzi mi sono stati tanto vicino, anche se lo nascondevo negli ultimi giorni facevo tanta fatica: vedere doppio 24 ore al giorno non è facile, solo un pazzo come me può stare in piedi. E non mi piace vedere la gente che si emoziona a vedermi in questo modo... Ma va accettato perché nella vita c'è di peggio, e io ho la fortuna di fare quello che mi piace nella vita".

·        La Tachicardia e l’Infarto.

Antonio G. Rebuzzi, Professore di Cardiologia Università Cattolica Roma, per "Il Messaggero" il 16 dicembre 2021. Si è sempre attribuita molta importanza, sia nel trattamento che nella prevenzione della fibrillazione atriale (aritmia) ai numerosi fattori di rischio che possono essere coinvolti in questa patologia cardiaca. Così è stata sempre data una notevole importanza al trattamento dell'obesità, dell'ipertensione, del diabete o delle apnee ostruttive, quali fattori favorenti l'insorgenza dell'aritmia, come anche al ruolo positivo dell'esercizio fisico. Non solo. A questi fattori di rischio, infatti, se ne è aggiunto un altro come dimostrano le ultime ricerche. Parliamo dell'alcol, dell'abuso di alcol. Che aumenta la probabilità di sviluppare numerose aritmie cardiache. 

IL CONSUMO

Tra queste, la fibrillazione atriale. Uno studio dell'Università di Amburgo in collaborazione con numerosi centri italiani (Ircss Neuromed di Pozzilli, Università dell'Insubria a Varese ed altri) coordinato da Dora Csengeri e pubblicato sull'European Heart Journal, ha dimostrato su oltre 100.000 soggetti sani seguiti per 14 anni, che un consumo di 12 grammi di alcol al giorno (pari a 120 ml di vino, circa due bicchieri) incrementa del 16% il rischio di sviluppare una fibrillazione atriale. Con una chiara correlazione tra rischio e quantità di alcol quotidiana. Sull'ultimo numero dell'European Heart Journal, So-Ryoung Lee ed i suoi collaboratori del Dipartimento di Medicina Interna del Seoul National University College of Medicine, hanno pubblicato un lavoro sui rischi dell'alcol nei soggetti che sono già portatori di fibrillazione atriale, dimostrando che l'alcol ha un effetto negativo non solo in quanto favorisce l'insorgere della fibrillazione, ma in quanto continua a provocare danni anche nei soggetti già fibrillanti.

LE CATEGORIE

Usando i dati del registro nazionale coreano sulla salute, sono stati esaminati i dati di circa 100.000 cittadini che avevano una recente diagnosi di fibrillazione atriale. I pazienti sono stati divisi in tre categorie: 1) non bevitori 2) bevitori che però hanno smesso dopo la diagnosi di fibrillazione 3) soggetti che hanno continuato l'assunzione di alcol anche successivamente alla diagnosi. Durante i cinque anni di follow up, nonostante la terapia praticata, più dell'uno per cento dei pazienti è andata incontro ad ictus. Quelli che avevano continuato a bere come prima erano quelli che, in percentuale decisamente significativa (il 14%) avevano più ictus rispetto non solo ai non bevitori, ma anche a quelli che, dopo la diagnosi di fibrillazione atriale, avevano smesso di bere. Quali sono le ragioni per cui l'astinenza dall'alcol porta ad una riduzione del rischio? Se ne ipotizzano varie, tra cui che l'alcol possa provocare danni elettrico e strutturali diretti alle cellule degli atri, e questo creerebbe i presupposti per la fibrillazione. Tali effetti sono tanto maggiori quanto maggiore è la dose di alcol quotidiano assunta. Altra ipotesi è che l'assunzione di alcol si accompagna, in genere, ad uno stile di vita meno sano. Quindi non solo l'alcol, ma anche ipercolesterolemia, pressione più alta e maggiori danni vascolari potrebbero essere alla base dell'ictus. La cessazione dell'alcol porta infine ad una migliore aderenza ai farmaci che vengono eventualmente presi non solo per la profilassi anti trombotica, ma anche antiipertensiva con conseguente riduzione del rischio. Sono oltre 700 mila i casi in Italia di fibrillazione atriale e si registrano circa 60 mila nuovi casi annualmente. La fibrillazione atriale è il disturbo del ritmo cardiaco più diffuso. Colpisce circa 1,3-2% della popolazione e la sua prevalenza aumenta con l'età, arrivando ad oltre l'8-9% negli ultra-ottantenni (più colpiti gli uomini che le donne).

LA COMPLICANZA

L'ictus cerebrale è la più importante e frequente complicanza della fibrillazione, tanto che il 20% circa degli ictus è dato da questa patologia. Pertanto è evidente che tutti i fattori di rischio, che portano alla fibrillazione, e quindi potenzialmente all'ictus, (e l'alcol è tra questi) vanno drasticamente ridotti e, se possibile, eliminati. 

 

 

Bianca De Fazio per “la Repubblica” il 16 dicembre 2021. «Aggirare l'obbligo di vaccino per il personale scolastico non è difficile. Io ho già provveduto: ho prenotato in farmacia un vaccino che non farò. L'appuntamento è per il 22 dicembre, ultimo giorno di scuola prima delle feste di Natale. Ovviamente non andrò. Ma sarò coperto, sul lavoro, fino all'anno nuovo».

Lei insegna in una scuola media del centro della città. Rischia la sospensione, senza stipendio. Non teme controlli?

«Le norme consentono di continuare a insegnare se si esibisce una prenotazione. La scappatoia l'ho trovata nelle maglie larghe del decreto. Non temo controlli e non corro rischi».

L'obbligo di Green Pass rafforzato continua nel 2022.

«Si torna a scuola il 10. Potrei essere ammalato in quei giorni, o rifare il giochino della prenotazione in farmacia». 

È un imbroglio.

«A mali estremi… Lo Stato mi priva di una libertà costituzionale ed io trovo le scappatoie che la legge mi consente».

Che fine fa la sua deontologia professionale?

«E che fine fanno le parole della Costituzione che vietano trattamenti sanitari forzati? Dovrei lasciarmi ridurre sul lastrico dal governo senza oppormi?».

IPERTENSIONE. Maria Rita Montebelli per “il Messaggero”. Tutti conoscono la pericolosità della pressione alta, ma pochi la misurano con costanza. Molti altri poi, pur sapendo di essere ipertesi, si accontentano di abbassarla un po' senza arrivare all'obiettivo indicato dalle linee guida europee, che è 130/80 mmHg. E, a complicare le cose, c'è il fatto che per riportare a livelli ragionevoli la pressione è in genere necessario assumere due o più molecole diverse. La maggioranza inizia la terapia e si ferma a una sola compressa.  Oggi una possibile soluzione al problema potrebbe venire dalla polipillola, cioè dal racchiudere diverse molecole in un'unica pillola. Se ne parla da vent' anni ma adesso il Quartet, studio di fase 3 presentato all'ultimo congresso della Società europea di cardiologia e pubblicato su Lancet, conferma la validità di questa strategia. Il lavoro è stato condotto in Australia su 591 pazienti ipertesi, che sono stati scelti per ricevere una polipillola, contenente quattro farmaci antipertensivi (irbesartan, amlodipina, indapamide, bisoprololo) a bassissimo dosaggio, o il trattamento con una singola molecola. A distanza di 12 settimane, i soggetti trattati con la quadpillola mostravano un buon controllo pressorio nell'80% dei casi, contro il 60% del gruppo dei pazienti trattati con un solo farmaco. «Il nostro studio commenta Clara Chow dell'Università di Sydney è stato il primo a dimostrare che i benefici della polipillola si mantengono a lungo, anche a distanza di un anno, senza mostrare flessioni». Gli autori concludono che una strategia di trattamento precoce con un'associazione di quattro molecole ad un quarto del loro dosaggio pieno è in grado di ottenere e di mantenere nel tempo un miglior controllo rispetto all'approccio abituale, consistente nell'iniziare con un farmaco antipertensivo.  Questa nuova strategia è indirettamente supportata anche dalle ultime linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, pubblicate questa settimana, che consigliano di iniziare la cura con un'associazione di almeno due molecole, anziché una sola. «Nei Paesi che hanno a disposizione centri specialisti di alto livello e dove i pazienti hanno accesso a tutti i farmaci esistenti commenta Emily Atkins dell'Università di Sydney un risultato come quello ottenuto da questo studio potrebbe tradursi in una riduzione del 20% del rischio di infarti e ictus». In Italia, a soffrire di pressione alta è circa il 30% delle donne e il 40% degli uomini, sei su dieci neppure lo sanno (la pressione alta spesso è asintomatica e per questo non ci si ricorda di misurarla), solo poco più della metà è in trattamento. A raggiungere l'obiettivo del 130/80 è solo un'ipertesa su tre e un iperteso su quattro. Una situazione questa che mette in grave pericolo i pazienti perché l'ipertensione è il più importante fattore di rischio per infarto e ictus, le principali cause di morte nei Paesi occidentali.  

Dagotraduzione dal Times il 3 settembre 2021. Secondo la ricerca, il Viagra potrebbe essere preso per proteggere il cuore. I ricercatori hanno scoperto che il farmaco per la disfunzione erettile sopprime fortemente i ritmi cardiaci anormali, noti come aritmie, che possono portare a morte cardiaca improvvisa. Il farmaco, noto anche come sildenafil, è stato in grado di sopprimere un'aritmia chiamata torsione di punta entro 90 secondi riducendo la frequenza dei ritmi cardiaci irregolari causati dalla manipolazione anormale del calcio. Le aritmie cardiache spesso seguono un infarto o sono il risultato di malattie cardiache. Sono spesso benigni ma possono causare palpitazioni, affanno, svenimenti e talvolta morte improvvisa. Esistono trattamenti, come betabloccanti e defibrillatori impiantabili, ma non sono sempre efficaci. Un team dell'Università di Manchester, finanziato dalla British Heart Foundation, ha testato l'impatto del Viagra sul cuore usando le pecore, ma ha dichiarato che i risultati potrebbero avere importanti implicazioni per l'uomo. Lavorando su cellule muscolari cardiache isolate di pecora, il team è stato anche in grado di misurare le loro riserve di calcio. Il calcio è un fattore chiave dell'azione di pompaggio del cuore e un sovraccarico può essere la causa principale delle aritmie. Secondo lo studio, pubblicato su Circulation Research, il Viagra è stato in grado di sopprimere il meccanismo nella cellula che causa il sovraccarico di calcio. Il dottor David Hutchings, l'autore principale, ha detto: «Non solo questo studio ha dimostrato che il Viagra ha un potente effetto antiaritmico sul tessuto cardiaco vivente, ma i nostri studi sulle cellule hanno anche scoperto il meccanismo con cui ciò accade. Anche se abbiamo studiato l'effetto nelle pecore, riteniamo che questa scoperta possa essere rilevante per l'uomo. Il cuore umano è di dimensioni simili a quello di una pecora, così come la sua anatomia e i relativi circuiti elettrici». «Quindi questa scoperta potrebbe un giorno generare il potenziale per un trattamento efficace su quello che può essere un problema devastante. Chiaramente, chiunque abbia un'aritmia cardiaca non dovrebbe auto-medicarsi e dovrebbe consultare il proprio medico di famiglia per un consiglio sulle attuali opzioni di trattamento». Il professor Metin Avkiran, direttore medico associato presso la British Heart Foundation, ha detto che «una migliore comprensione di come si verificano i disturbi del ritmo cardiaco potrebbe aprire la strada a migliori prevenzioni e trattamenti per loro. Sono necessarie ulteriori ricerche, tuttavia, prima che il Viagra e farmaci simili possano essere riutilizzati per il trattamento dei ritmi cardiaci anormali nei pazienti». Lo studio si basa su ricerche precedenti che hanno scoperto che nei pazienti con diabete il Viagra riduce il rischio di infarto. 

Vaccino, il genetista Mauro Giacca: "Così il siero ripara il cuore dopo l'infarto", la più straordinaria scoperta. Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Covid, quale autunno ci aspetta? A dare una risposta alla questione cruciale dei nostri giorni saranno il genetista Mauro Giacca (ordinario al King' s College di Londra) e il presidente Aifa Giorgio Palù, con un dialogo nell'ambito del Link Festival che avrà luogo oggi alle 18 alla Fincantieri Newsroom di piazza Unità a Trieste. In attesa del convegno, lo scienziato di fama internazionale Mauro Giacca anticipa a Libero alcuni spunti interessanti sul tema. Assieme alla sua équipe, infatti, il prof. Giacca sta verificando la possibilità di utilizzare la modalità di inoculazione dei vaccini Pfizer e Moderna per curare patologie diverse dal Covid, come la rigenerazione di un cuore infartuato.

Il vaccino anti- Covid ripara anche il cuore?

«Per completezza è corretto specificare che non il vaccino quanto le tecniche di somministrazione dei vaccini Pfizer e Moderna possono essere impiegate anche per rigenerare il cuore. Una scoperta straordinaria, considerato che al mondo ci sono più di 60 milioni di persone che soffrono di scompensi cardiaci».

In che modo queste tecniche rigenerano il cuore?

«Una breve premessa. Nella nostra formazione genetica esistono dei geni che hanno funzione di produrre piccole molecole di RNA chiamate microRNA. Dei circa 2000 micro-RNA che esistono, alcuni sono in grado di stimolare la riparazione cardiaca. La tecnica Pfizer e Moderna si basa su sferette di lipidi (grassi) che contengono RNA messaggero, in grado di codificare la proteina Spike del virus. Noi non facciamo altro che prendere le stesse "sferette" e inserire al loro interno un microRNA, che entra nelle cellule cardiache spingendole a replicarsi. Il processo porta alla rigenerazione del cuore dopo un infarto.

Interessante.

«Ma anche sul Covid stiamo facendo importanti scoperte...».

Ci spieghi.

«L'équipe del King' s College che ho l'onore di guidare ha scoperto che la Niclosamide, un comune farmaco antiparassitario, potrebbe risultare efficace nell'arresto della fusione cellulare, indotta dalla proteina Spike del coronavirus. Questo farmaco (che in India è in fase avanzata di sperimentazione) non solo impedisce la replicazione del virus ma ne blocca anche i danni che quest' ultimo arreca all'organismo».

Cosa dobbiamo aspettarci in autunno?

«Se la gente continuerà a vaccinarsi sia la diffusione del virus che il suo impatto saranno ridotti. Con ogni probabilità ci sarà comunque un leggero aumento dei contagi ma a livello individuale i vaccini dovrebbero garantire un'adeguata protezione, riducendo la gravità della malattia».

Si parla di una terza dose. Che ne pensa?

«Probabilmente la terza dose è indispensabile, a partire dalle persone fragili e da chi si è vaccinato prima, come gli operatori sanitari. Stiamo osservano che per chi si è sottoposto al vaccino a inizio anno l'immunità comincia un poco a calare...Per questo ritengo che a un anno di distanza dalla prima inoculazione sia utile procedere con la terza dose».

Come agire nei confronti dei No vax?

«Una piccola percentuale di loro è "perduta": non rinuncerà alle sue convinzioni. Ma la maggioranza è semplicemente male informata. I cosiddetti No vax non sono né stupidi né ignoranti, molti di loro sono laureati. Dobbiamo convincerli trasmettendo loro informazioni corrette».

Quando torneremo alla vita pre Covid?

«Possiamo cercare di tornare a fare una vita normale senza rinunciare, per ora, alla mascherina. Il nostro traguardo è tornare al cinema, allo stadio e alla socialità conservando le giuste precauzioni, facendo tesoro di questa esperienza». 

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo cos’è: come funziona il dispositivo che sarà impiantato a Eriksen. Debora Faravelli il 18 giugno 2021 su Notizie.it. Cos'è e come funziona il defibrillatore cardiaco sottocutaneo, dispositivo che verrà impiantato a Eriksen dopo il malore in campo. La federazione danese ha reso noto che dopo il malore accusato in campo durante la partita Danimarca-Finlandia, a Eriksen sarà messo un ICD, vale a dire un defibrillatore cardiaco sottocutaneo: cos’è e come funziona questo strumento?

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: cos’è

L’ICD è un dispositivo elettrico che viene impiantato sottopelle in soggetti affetti da patologie cardiache che li espongono al rischio di frequenze cardiache troppo veloci e quindi pericolose. Una volta inserito, lo strumento monitora costantemente l’attività del cuore, può fornire una stimolazione e interviene in caso di necessità con degli shock elettrici che defibrillano il cuore e ripristinano la normale funzionalità cardiaca. Grazie a questo dispositivo è dunque possibile riconoscere condizioni di anomalia, come tachicardia ventricolare o fibrillazione ventricolare e ricevere autonomamente una terapia elettrica salvavita tramite un impulso elettrico.

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: come funziona

L’impianto sottopelle del defibrillatore cardiaco avviene tramite un piccolo intervento chirurgico in anestesia locale in cui posizionano lo strumento nella zona toracica, in particolare sotto la clavicola. Durante l’operazione il paziente non avverte dunque alcun dolore, mentre una volta conclusa potrebbe sentire fastidio nella sede dell’incisione e una sensazione di stanchezza. Il dispositivo è collegato a uno o due fili (elettrocateteri) a loro volta posti in collegamento con il muscolo cardiaco. Questi trasmettono informazioni dal defibrillatore al cuore e inviano gli impulsi elettrici qualora sia necessario. Prima di essere impiantato, l’ICD necessita di una programmazione tramite computer in cui i medici possono visualizzare tutte le informazioni che riguardano il cuore dell’individuo interessato e il suo funzionamento. La convivenza con un defibrillatore sottopelle viene ritenuta semplice e sicura a patto che si rispettino tutte le precauzioni fornite dal personale specialistico, in particolare rispetto a dispositivi elettrici, radiazioni elettromagnetiche e apparecchiature di diverso tipo.

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: quanto dovrà tenerlo Eriksen?

Per il momento non è ancora noto se il calciatore danese dovrà convivere per sempre con questo dispositivo impiantato oppure se ne usufruirà temporaneamente. Una volta inserito sottopelle, i medici lo visiteranno nel giro di tre-quattro settimane per capire i tempi. Sono già diversi i calciatori che all’estero giocano con un impianto simile installato tra cui l’olandese Blind. In Italia invece, stando così le cose Eriksen non otterrebbe l’idoneità perché non è consentito giocare nelle sue condizioni.

Tachicardia da stress, come riconoscerla e curarla con i rimedi naturali. La tachicardia è caratterizzata dall’aumento del battito cardiaco, una sensazione di avere il cuore in gola, vertigini e stanchezza. Si manifesta a qualsiasi età e, tra le cause scatenanti, compaiono stress e ansia. Mariangela Cutrone, Venerdì 22/01/2021 su Il Giornale. La tachicardia si manifesta con un aumento dei battiti del cuore, oltre gli 80 al minuto. È considerato un evento assolutamente normale che contribuisce ad aumentare l’afflusso di sangue e di ossigeno di cui si ha bisogno. Può manifestarsi a qualsiasi età, coinvolgendo sia giovanissimi che anziani. Solitamente, si manifesta quando si compie uno sforzo fisico oppure quando si provano emozioni forti. I sintomi comprendono palpitazioni accompagnate da nausea, vertigini, stanchezza, difficoltà a respirare. Si ha la sensazione di avere il "cuore in gola". Diventa però patologica quando cela alcune malattie cardiache, oltre a coinvolgere la zona sovra ventricolare o quella ventricolare del cuore. Generalmente, si distinguono due principali tipologie di questa specifica patologia: la tachicardia sinusale e quella parossistica. La prima è caratterizzata da un aumento dell’attività del cuore a livello del nodo senoatriale che, di conseguenza, genera un aumento graduale dei battiti del cuore. La seconda tipologia, invece, è determinata da un’anomalia presente nell’impulso di contrazione della zona atrio-ventricolare. Rispetto alla prima, la tachicardia parossistica non è costante. Infatti, solitamente compare e svanisce per poi ripresentarsi anche a distanza di tante ore dal primo episodio.

Qual è il legame tra tachicardia e stress? Tra le cause della tachicardia, lo stress gioca un ruolo di rilievo. Difatti, bisogna distinguere la tachicardia cardiologica legata a determinate anomalie del cuore da quella causata da uno stato di ansia. In questo caso, si parla di una causa inorganica che scatena un battito cardiaco accelerato. Si parla, quindi, di tachicardia sopraventricolare. I sintomi più diffusi sono la respirazione affannosa e irregolare, scatenata da una iperventilazione eccessiva. Quest’ultima spinge l’organismo a espellere una quantità di anidride carbonica superiore alla norma; di conseguenza, si assumono quantità maggiori di ossigeno che creano un disequilibrio e affaticano il cuore. In queste condizioni il cuore pompa più sangue e va in sovraccarico. Sono le preoccupazioni, la stanchezza mentale e l’incapacità di gestire le emozioni forti a generarla.

Tachicardia in gravidanza, perché si manifesta. Durante la gravidanza, la tachicardia è un fenomeno molto frequente che si manifesta sin dai primi mesi di gestazione. Questo accade perché il cuore di una donna incinta deve pompare più sangue per garantire il giusto quantitativo di nutrienti e ossigeno, necessari per lo sviluppo ottimale del feto. Da lieve sin dalle prime tre settimane di gestazione, aumenta di intensità negli ultimi mesi, quelli più vicini al parto. Questo è dovuto all’aumento del peso e all’ansia tipica delle settimane che precedono la nascita. Infatti, oltre alle cause fisiologiche come la pressione bassa, eventuali problemi alla tiroide o carenze di ferro non bisogna sottovalutare anche i fattori di natura psicologica. Solitamente i sintomi sono una forte pulsazione che si presenta nel momento del riposo, quando è più facile da percepire. Accompagna questo sintomo comune un senso di stanchezza e spossatezza, vertigini e gonfiore a gambe e piedi. Quello della tachicardia in gravidanza è ritenuto un fenomeno normale e molto diffuso, il quale non deve destare tanti allarmismi e preoccupazioni nelle neomamme.

I rimedi naturali per alleviare la tachicardia. Quando è patologica e legata ad anomalie del sistema cardiocircolatorio, la tachicardia può essere curata attraverso l'assunzione di farmaci betabloccanti. Se le cause sono stress e ansia, vi sono numerosi rimedi naturali che possono venire in aiuto, soprattutto nei casi più lievi e sempre sotto il controllo del proprio medico curante. Il primo fra tutti è quello di imparare una corretta respirazione. Difatti, inspirare ed espirare lentamente e in modo profondo può aiutare a rallentare le palpitazioni e contribuire quindi a tenere sotto controllo la tachicardia.

Con la meditazione si tiene a bada lo stress. Un’alimentazione sana ed equilibrata può contribuire a prevenirla. Gli esperti consigliano di consumare alimenti ricchi di triptofano, una sostanza che stimola l’ormone del benessere e contribuisce a rilassare l’organismo. Alimenti ricchi di questa sostanza preziosa sono il pane, la pasta, i cereali, il latte e i suoi derivati. Tra gli alimenti di origine vegetale, ne sono una fonte preziosa la lattuga, il radicchio, la cipolla e l’aglio. Contribuiscono alla tachicardia, invece, le bevande alcoliche e ricche di caffeina. Sconsigliato anche il consumo eccessivo di alimenti nervini, bevande o cibi a base di cacao. Utili a placare l’ansia che genera le palpitazioni sono le tisane calde a base di biancospino, il quale agisce come ansiolitico naturale e vasodilatatore. L’ideale sarebbe berne una tazza prima di andare a letto, in modo da godere di un riposo prolungato e qualitativamente migliore. Tra i rimedi fitoterapici più diffusi vi sono i Fiori di Bach, in particolare il Rescue Remedy e l’Oak che consentono anche di gestire efficacemente gli stati di ansia e stress.

·        La SMA di Tipo 1.

SMA DI TIPO 1. E SE FOSSE TUO FIGLIO? Ilaria Del Prete per "leggo.it" il 22 gennaio 2021. Melissa ha dieci mesi. Ha le guance paffute e la sua mamma le pettina i capelli con due codini. Quando aveva sei mesi e 28 giorni le hanno diagnosticato la Sma di tipo 1, la più grave forma di atrofia muscolare spinale. Colpisce le cellule nervose della spina dorsale impedendo progressivamente la capacità di deglutire, camminare e respirare. Ne è affetto un bambino su 80mila, l'esordio avviene nei primi sei mesi di vita e riduce le aspettative di sopravvivenza a pochi anni. Una malattia terribile per la quale una cura - una speranza - esiste. Si chiama Zolgensma, meglio conosciuto come il farmaco più costoso al mondo: 1,9 milioni di euro per una sola dose. Prodotta da Novartis, è una terapia genica che con un'unica iniezione può ribaltare il destino di Melissa. Un gene artificiale che si va a sostituire a quello malato ripristinando - se iniettato in tempo - le normali funzioni dei motoneuroni. Ed è stato proprio il tempo a tradire Melissa: in Italia il farmaco è fornito gratuitamente dal SSN dallo scorso novembre, ma solo nei bambini al di sotto dei sei mesi d'età. Questione di 28 giorni e oggi Rossana, la mamma di Melissa, starebbe raccontando un'altra storia. Ma anche questione di parallelo. Negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei come Germania e Francia il limite d'età è stato abolito, tanto che bambini fino a cinque anni hanno a oggi beneficiato della terapia a patto di rientrare nei 21 chilogrammi di peso. Quello di Melissa non è un caso isolato. Come lei ci sono Federico, 17 mesi. Rosy, di 16 mesi. Nicolò, 10 mesi. E ancora Marco, Stefano, David, Leonardo, Paolo, Andrea, Angelo, Luca, Amy, Lorenzo. Alle loro spalle ci sono mamma Rossella, Tina, papà Mattia. Famiglie disperate e ormai disposte a tutto purché ai loro figli venga concessa l'opportunità di un futuro dignitoso. I loro appelli si susseguono sui social, da oggi raggruppati sotto l'hashtag #esefossetuofiglio e si rivolgono al ministro Speranza e al Direttore generale Aifa Nicola Magrini: «Abbiamo il diritto di curare i nostri figli in Italia. Approvate la terapia anche oltre i sei mesi. Ci sono le prove che funziona». L'alternativa? Organizzare raccolte fondi milionarie e volare all'estero. Maria Grazia Cucinotta ha scelto di metterci la faccia e combattere affianco alle famiglie dei bambini affetti da Sma.

Come è venuta a conoscenza della lotta per la somministrazione di Zolgensma anche dopo i sei mesi di vita?

«Grazie a mia figlia Giulia. Mi ha mostrato il link della raccolta fondi per aiutare Melissa e non ci ho pensato un attimo a condividerlo sui miei social».

Da quel momento è diventata la loro madrina, portando alla ribalta la questione anche in programmi tv come Storie Italiane su Rai1.

«Mi ha contattato Rossana, la mamma di Melissa, per ringraziarmi. Mi ha parlato di altri bambini nelle stesse condizioni e ho proposto di riunire le famiglie in una chat su Whatsapp in cui scambiarsi informazioni».

Come si chiama il gruppo?

«Lottiamo tutti insieme. Al momento ci sono quattordici famiglie ma sono già molte se si considera l'incidenza della malattia. Colpisce un bambino su diecimila nati all'anno».

Qual è il vostro intento adesso?

«Abbiamo rivolto un appello al ministro Roberto Speranza e al Direttore Generale Aifa Nicola Magrini affinché la terapia possa essere effettuata da questi bambini oltre i sei mesi anche in Italia».

Basterebbe una firma.

«Una firma e un'iniezione. Se c'è anche una sola possibilità di salvare la vita ad un bambino bisogna provare. Discriminare sull'età significa condannarli a morte».

Il costo del farmaco è altissimo.

«Quasi due milioni di euro, una cifra che in pochissimi hanno a disposizione. Ma davanti a una vita umana non devono esistere interessi economici o logiche di business».

Come può contribuire chi ha la sua visibilità?

«Sfruttandola per aiutare a salvare questi bambini. Condividere le loro storie e far sentire le loro voci».

·        L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Marzo mese dell'endometriosi, la malattia invisibile: “Ho avuto la diagnosi dopo 12 anni di sofferenza”. Le Iene News il 15 marzo 2021. Marzo è il mese dedicato alla sensibilizzazione e alla conoscenza dell’endometriosi, la malattia invisibile che colpisce tre milioni di donne in Italia. Ve ne abbiamo parlato nel servizio di Roberta Rei, intervistando anche l’attrice Whoopi Goldberg. “L’endometriosi purtroppo è tra quelle cose che accadono alle donne di cui nessuno vuole parlare”. Marzo è il mese dedicato alla sensibilizzazione e alla conoscenza dell’endometriosi, una patologia ancora troppo poco conosciuta di cui vi abbiamo parlato nel servizio di Roberta Rei che potete vedere qui sopra. In Italia sono tre milioni le donne affette da endometriosi e nei paesi occidentali sono circa 200 milioni. Nonostante questi numeri, purtroppo l’endometriosi è ancora una malattia invisibile, come hanno raccontato alcune donne che ne soffrono alla Iena. In questa patologia, le cellule endometriali che solitamente rivestono e proteggono la parete dell’utero, si formano anche al di fuori dell’utero andando ad attaccare e ad avvolgere altri organi. “Tutto quello che sappiamo è che succede qualcosa con il rivestimento dell’utero”, ci ha spiegato Whoopi Goldberg, famosa attrice, doppiatrice, scrittrice e attivista americana. “E le cisti che creano possono essere così grandi… fanno male”. Il dolore che prova chi soffre di endometriosi è davvero insopportabile, come ci hanno detto Dania, Francesca e Silvia. “Almeno un giorno al mese non andavo a scuola perché non riuscivo ad alzarmi dal letto”, racconta Dania. “Ero arrivata a soffrire tantissimo e a fare un abuso di antidolorifici per gestire il dolore”, continua Francesca. E più l’età va avanti, più i dolori aumentano. Uno dei problemi è il ritardo con cui avviene la diagnosi. Come si legge sull’Ansa, a oggi sull’endometriosi grava un ritardo medio di 8-9 anni. “È solo con l’operazione che io sono giunta alla diagnosi di endometriosi, dopo 12 anni di sofferenza”, ci ha raccontato Francesca. Per dodici anni nessun medico le aveva prospettato questa possibilità. “Nessuno mi aveva mai pronunciato la parola ‘endometriosi’. Sono stata io che ingenuamente avevo messo tutti i sintomi su internet e combaciavano con quelli dell’endometriosi”. Così troppe donne si portano dietro per tanto tempo la malattia. E quando finalmente qualcuno gliela diagnostica, può essere troppo tardi. “È una disfunzione corporea che può essere orribilmente pericolosa per le donne e per il loro futuro”, ci dice Whoopy. Per questo una diagnosi precoce è importantissima. La malattia inoltre non solo provoca moltissimo dolore, ma spesso porta anche all’infertilità: il 40% delle donne con endometriosi ha problemi nell’avere figli. “Se gli uomini soffrissero di questa cosa ogni mese”, dice Whoopi, “avrebbero le migliori medicine al mondo. Ma siccome siamo donne, nessuno prende l’endometriosi sul serio”. E al momento, "l’endometriosi è una malattia senza cura”, spiega Francesca. “Non siamo pazze, non siamo isteriche”, continua Whoopi. “Questa è una cosa che accade nel nostro corpo, agisce su di noi chimicamente e a livello ormonale e non possiamo fermarla”. “È veramente tanto invalidante”, conclude Francesca. Nella legge di bilancio per il 2021, approvata a fine 2020, è stato inserito un finanziamento per il “sostegno dello studio e della ricerca sull’endometriosi”. In particolare, “è autorizzata la spesa di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023 per il sostegno allo studio, alla ricerca e alla valutazione dell’incidenza dell’endometriosi nel territorio nazionale”. Il ministero della Salute ha 90 giorni dall’entrata in vigore della legge per stabilire i criteri e le modalità di ripartizione dei fondi. È importantissimo investire sulla ricerca in merito a questa malattia, perché fondamentale è riuscire ad avere diagnosi precoci e non tardive come avviene invece oggi. 

·        Sindrome dell’intestino irritabile.

Sindrome dell’intestino irritabile: sintomi, cause e rimedi. Dolori all’addome e turbe intestinali sono i sintomi più frequenti in chi è affetto da sindrome da intestino irritabile. Le cause di questo frequente e fastidioso disturbo sono da ricercarsi in una commistione di fattori, fisiologici e psicologici. Nicolò Canziani - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. La sindrome dell’intestino irritabile, conosciuta anche come colite spastica o sindrome del colon irritabile, è un disturbo molto diffuso, tanto da interessare il 20% della popolazione. Vittime predilette? Donne tra i 20 ed i 50 anni, che accusano intensi dolori addominali, specialmente dopo i pasti. Una componente caratteristica di questa patologia è la ciclicità, caratterizzata da un riacutizzarsi dei sintomi, perlopiù dolori all’addome e turbe intestinali, associati a diarrea, stitichezza o una situazione che le contempla entrambe. Si segnalano ricorrenti episodi di colon irritabile in occasione di forti momenti di stress fisico, come un intervento chirurgico, o di affaticamento psichico (lutti, separazioni, problemi lavorativi). In alcune persone possono insorgere anche gonfiore addominale, meteorismo, nausea e difficoltà nella digestione. Non è possibile individuare una singola causa per questa malattia, ma la sua genesi è da ricercarsi in una commistione di fattori fisio-patologici e psico-sociali, anche se in passato si riteneva, talvolta minimizzando, che potesse avere una genesi essenzialmente psicosomatica. Quella di sindrome da intestino irritabile è una diagnosi differenziale: è necessario, infatti, escludere che il gonfiore addominale, il dolore e l’alterazione dell’alveo in senso stitico o diarroico siano sintomi di celiachia, intolleranza al lattosio o altre malattie croniche intestinali. Tre sono le principali alterazioni fisiologiche che si riscontrano in pazienti che soffrono di questa malattia: motilità intestinale alterata, aumento della sensibilità dell’intestino (iperalgesia viscerale) e predisposizioni genetiche. Alcuni fattori ambientali, come la diffusione di regimi dietetici globalizzati, caratterizzati da processi di produzione agro alimentare che ricorrono a tecniche di conservazione e raffinazione degli alimenti, diffusi specialmente nei paesi occidentali, possono facilitare l’insorgenza della sindrome da intestino irritabile. Gli elementi psicologici e sociali rivestono una notevole importanza nella genesi di questa patologia. Tra le malattie che più di frequente si accompagnano alla sindrome da intestino irritabile annoveriamo depressione, disturbi d’ansia e del sonno, problemi di somatizzazione, conflitti emotivi non risolti, in questo periodo spesso esacerbati dal lockdown imposto dal Covid. La creazione di un rapporto empatico con il medico curante, nella sindrome da intestino irritabile, assume una rilevanza determinante. Proprio per questo, sarà molto importante che il paziente non si concentri solo sulla descrizione dei sintomi, ma anche che comunichi il suo atteggiamento nei confronti della malattia: attraverso un approccio proattivo nella gestione di questo disturbo, possono essere fissati adeguati obiettivi terapeutici.

L'intestino, il "cervello" dell'apparato digerente. Non bisogna dimenticarsi come l’intestino rappresenti una sorta di secondo cervello, caratterizzato da un’elevata quantità di cellule nervose, che costituiscono il sistema nervoso enterico e sovrintendono a tutte le funzioni digestive, nonché sono deputate a trasmettere al nostro cervello le sensazioni e gli stimoli correlati alla digestione. Un recente studio, pubblicato sulla rivista Nature, ha evidenziato come l’ingestione di cibi che possono favorire intolleranze quali latte, glutine, soia e grano da parte di pazienti con la sindrome da intestino irritabile favorisca lo sviluppo di un edema locale e l’attivazione di mastociti, cellule immunitarie che rilasciano istamina, ipereccitando i nervi intestinali e aumentando il dolore addominale. Il dottor Sarnelli, Professore di Gastroenterologia all'Università degli Studi Federico II di Napoli, ha illustrato ad Adnkronos il corretto approccio terapeutico, in risposta ai singoli sintomi, da adottare in questa patologia multifattoriale: «[…] la terapia potrà essere indirizzata a trattare i sintomi prevalenti, come ad esempio la diarrea, la stipsi e/o il meteorismo, consigliando presidi farmacologici, probiotici e/o interventi nutrizionali mirati. Nei casi più severi, nei quali la componente psicosomatica è preponderante, il ricorso alla psicoterapia o l'utilizzo di basse dosi di farmaci serotoninergici (antidepressivi) può essere un'ulteriore risorsa per migliorare i sintomi che impattano in maniera drammatica sulla qualità della vita […]».

Sindrome dell'intestino irritabile, la dieta da seguire. Per ovviare ai disturbi legati alla funzionalità intestinale, è consigliabile attenersi ad una dieta equilibrata, composta da piccoli e frequenti pasti, variando spesso gli alimenti senza però eliminarli (a tal proposito, ricorda sempre il professor Sarnelli, è sconsigliabile un regime alimentare “gluten free”). Mangiare lentamente, cercando di limitare l’apporto di cibi grassi, tenere un diario alimentare, assumere integratori o probiotici sotto la guida di un nutrizionista sono tutte buone pratiche che dovrebbero essere valutate da chi soffra della sindrome da intestino irritabile. Andranno preferibilmente evitati quegli alimenti che producono gas intestinale e possono indurre diarrea mentre, per chi soffra di stipsi, si consigliano cibi ricchi di fibre. Sconsigliato anche il consumo di caffè, che dovrebbe essere ridotto o sospeso, così come il fumo di sigaretta. Se aveste l’abitudine di masticare chewing gum, dovreste smettere: soprattutto quelli che contengono sorbitolo, potrebbero peggiorare i sintomi. Molto importante, nel contrasto ai fastidi causati dal colon irritabile, è riuscire ad idratarsi correttamente, bevendo molto, e a non eliminare l’attività fisica, estremamente utile anche a livello psicologico per innalzare il tono dell’umore.

·        Il Menisco.

Quando si rompe il menisco. Viviana Persieni il 10 maggio 2021 su Il Giornale. Negli anni ’80, quando ci si “rompeva” un menisco, tendenzialmente l’ortopedico, sottoponeva l’infortunato ad apertura dell’articolazione, asportazione del menisco; poi, gesso per un mese e riabilitazione. Chissà quanti di voi hanno subito la stessa sorte e oggi, stanno pagando, a caro prezzo, questo tipo di intervento che ha portato ad una degenerazione dell’articolazione. Come spiega il dott. Corrado Bait, specializzato in Ortopedia e Traumatologia, socio presso il centro specializzato Physioclinic di Milano “il menisco è una struttura che dona stabilità al ginocchio e funziona come ammortizzatore. Il femore e la tibia, si accoppiano perfettamente grazie alla presenza del menisco consentendo il movimento tipico del ginocchio. Quando il menisco si rompe possono verificarsi episodi di blocco e causa di frammenti che ostacolano il meccanismo di movimento, mentre l’assenza del menisco, col tempo, può provocare seri problemi di deambulazione”. Oggi le tecniche si sono evolute e così anche le strumentazioni in grado di individuare il problema a livello articolare. “Attraverso la visione diretta, esami strumentali come la palpazione della zona meniscale e anche esami diagnostici come la risonanza, è possibile verificare la gravità del problema. Quando, palpando, non si trova la giusta consistenza e non si ha più stabilità si deve intervenire in artroscopia tagliando un pezzo di menisco, o riparandolo con suture, allo scopo di ridare proprio la stabilità originaria. Questa è una soluzione da preferire nei pazienti giovani per salvaguardare il più possibile l’integrità dell’articolazione.”. E’ interessante scoprire proprio come, grazie a queste tecniche più avanzate, si possano salvaguardare le articolazioni del ginocchio, evitando usura. “Togliendo gran parte del menisco, si sottopone il ginocchio a stress meccanici che, automaticamente, vengono assorbiti da cartilagine e anche dall’osso; le conseguenze di questo sovraccarico si manifestano attraverso lo sviluppo di artrosi precoce. Ovviamente, la degenerazione avviene lentamente, nell’arco di alcuni anni e le conseguenze dell’intervento al menisco dipendono da alcune variabili, come ad esempio, l’età del paziente, ma anche dal peso”.

Viviana Persieni. Sono nata a Busto Arsizio, ma sono cresciuta in un paesino in campagna all'aria aperta dove da piccina giocavo ad arrampicarmi sugli alberi del frutteto dei miei genitori, che produce, ancora oggi, frutta eccezionale e, soprattutto, biologica. Ora vivo in città e ho un marito, Maurizio Acerbi, e due figli, Gianmarco di 14 anni e Federico di 12, dividendomi tra famiglia e gli articoli che, da anni, scrivo, con passione e orgoglio, per Il Giornale. Essere madre è, spesso, una missione impossibile. Soprattutto, di questi tempi. Per questo, trovo fondamentale essere preparata ed informata su ogni aspetto che riguardi la vita dei miei ragazzi. Una mamma curiosa, in servizio H24

·        Il Singhiozzo.

Kevin Loria per "it.businessinsider.com" il 27 dicembre 2020. Ognuno è cresciuto con il metodo anti-singhiozzo della propria famiglia. Come provare a spaventare la vittima del singhiozzo, trattenere il respiro, o bere un bicchiere d’acqua capovolto dal lato opposto del bicchiere. Da bambino, la mia famiglia usava la tecnica di bere l’acqua, che era eccellente per farlo passare e sembrava essere efficace come qualsiasi altro metodo che era in circolazione per combatterlo. E in realtà, forse è proprio così. Questo perché non esiste un singolo trattamento anti singhiozzo supportato dalla scienza, secondo Gregory Levitin, assistente universitario di otorinolaringoiatria presso la Icahn School of Medicine del Mount Sinai Health System. “Noi non riusciamo a capire il motivo per cui venga il singhiozzo e il perché se ne vada“, ha detto Levitin. “Ma tutto ciò che ha una qualità distraente è un buon sistema per poterlo interrompere”, specialmente se quella distrazione fornisce qualche altra forma di stimolazione. Sebbene gli scienziati non conoscano la vera causa o il miglior trattamento per il singhiozzo, essi sanno di cosa si tratta. E ci sono alcune strategie che Levitin e altri otorinolaringoiatra – medici dell’orecchio, del naso e della gola – raccomandano per prevenire e per far passare il singhiozzo.

La misteriosa causa del singhiozzo. Un “singhiozzo” è il suono che produciamo quando proviamo ad inspirare, ma uno spasmo involontario del diaframma fa sì che le corde vocali si chiudano di scatto. I medici chiamano tecnicamente questo “singultus“, un termine latino che si riferisce a singhiozzi o ansiti mentre si ha il singhiozzo. Tutto ciò che estende il diaframma o aumenta la distensione nello stomaco, secondo Levitin, potrebbe stimolare un nervo che può causare spasmi involontari. Ciò include comportamenti come mangiare troppo, mangiare troppo in fretta o bere in modo da riempire lo stomaco di aria (come ad esempio consumare bevande gassate). I bambini tendono a nutrirsi più spesso degli adulti e ingeriscono più aria quando lo fanno, sia che mangino da un biberon o da un seno, e ciò spiega perché sono vittime più frequenti del singhiozzo. Ma ciò che è fondamentale è che il singhiozzo deriva da una contrazione involontaria, uno spasmo come quelli che si possono avere in un muscolo dopo essersi allenati.

Una cura per il singhiozzo. Anche se molto comuni i singhiozzi fortunatamente sono eventi poco frequenti e auto-limitanti per la maggior parte delle persone, secondo Levitin. Tuttavia, ci sono alcune cose che lui consiglia per le persone a cui viene spesso il singhiozzo. “Dico alla gente di fare respiri profondi e poi di trattenere il respiro“, ha detto. Se il problema è causato dall’aria in eccesso nello stomaco, l’espansione dell’addome può smuovere quell’aria, consentendole di uscire. In alcuni casi, Levitin ha detto che si potrebbe provare a massaggiare la base del collo dove si trova il nervo frenico, che stimola il diaframma. A volte, questi metodi funzionano – ma poi di nuovo, molte teoriche cure contro il singhiozzo sembrano funzionare solo occasionalmente. “Se si fa una di queste cose, passa davvero dopo pochi minuti”, ha detto Levitin. In rari casi, il singhiozzo può persistere per mesi o addirittura anni. In quelle situazioni, i medici possono provare con interventi più seri. Sebbene non ci siano farmaci per il singhiozzo, gli effetti collaterali di altri farmaci potrebbero aiutare. I medici hanno provato a dare alle persone un rilassante muscolare o un farmaco che aiutasse a far passare il cibo attraverso lo stomaco. L’iniezione di un anestetico nel nervo frenico potrebbe fornire un sollievo temporaneo, secondo Levitin, anche se probabilmente solo per poche ore. In casi molto gravi, le nuove opzioni potrebbero includere impianti a batteria che possano stimolare il nervo frenico. Per quei pazienti che hanno problemi seri e reali con il singhiozzo, Levitin ha detto che esistono delle terapie alternative in grado di venire in loro aiuto. Diverse tecniche di respirazione potrebbero aiutare, così come la meditazione o l’agopuntura. Ma quando si tratta di fornire le risposte finali alle domande su dove nascano i singhiozzi o sul come farli andare via, noi ancora non lo sappiamo. “Alla fine, tutti soffriamo di questa condizione umana”, ha detto Levitin.

·        L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Il medico sfata i falsi miti dell'estate. “Fare il bagno dopo mangiato si può, basta entrare in acqua nel modo giusto”, i consigli del pediatra. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Agosto 2021. È probabilmente la questione più dibattuta sotto l’ombrellone, quella che da sempre mette contro genitori e figli: dopo pranzo si può fare il bagno? La vulgata comune vuole che no, non si possa fare, che sia pericoloso perchè provoca la congestione. Mamme di tutti i secoli ce lo hanno ripetuto. Ma a sfatare questo mito c’è Raffaele Troiano, pediatra dell’Ospedale Frangipane di Ariano Irpino. “In acqua dopo mangiato? Certo che si può! Per evitare riflesso vagale e idrocuzione la cosa importante è entrarci nel modo giusto”. Il pediatra spiega così il fenomeno: “La “sindrome da idrocuzione” per rapido ingresso in acqua fredda è infatti capace di indurre svenimento e annegamento ed è da sempre erroneamente attribuita al cibo. Il falso mito del cibo nasce probabilmente dal fatto che tra i sintomi di esordio di idrocuzione vi è spesso dolore addominale, nausea e vomito. E ciò induce a pensare che il nocciolo del problema sia il pasto, tanto che alcuni la chiamano impropriamente anche “congestione alimentare””. Troiano sottolinea che il problema non è il pasto, ma lo sbalzo termico improvviso tantochè l’idrocuzione può verificarsi anche a stomaco vuoto. Una rapida immersione in acqua fredda può infatti causare l’iperattivazione di un nervo chiamato “nervo vago”: tale riflesso vagale oltre ai sintomi gastrici sopra descritti, provoca anche bradicardia (rallentamento cardiaco) e ipotensione e ciò può condurre alla perdita dei sensi in acqua. Per intenderci, il “riflesso vagale” è lo stesso che ci fa svenire in risposta anche ad altri tipi di stress: emozione, paura, caldo afoso, affollamento. “In questo caso lo stress che lo innesca è lo sbalzo termico improvviso – continua il pediatra che sulla sua pagina Facebook fa una grande oper adi divulgazione sui temi della pediatria –  e c’è da aggiungere che una situazione di precedente stress già in corso può facilitarlo: ecco perchè l’idrocuzione è ancor più frequente se il tuffo in acqua fredda avviene dopo esercizio fisico, sudorazione, insolazione o anche un pasto molto abbondante”. “In quest’ultimo caso l’organismo è ‘stressato’ dall’enorme carico di cibo da digerire per cui laddove diventi ‘fonte di stress’ anche l’idea di alzarsi semplicemente dalla sedia, figuriamoci quanto possa essere stressante un forte e improvviso sbalzo caldo/freddo sull’organismo – conclude il post – Un pasto normale invece, un gelato, uno spuntino, non stressano molto il sistema digestivo e l’ingresso in acqua avverrà quasi come se foste a pancia vuota. Ma al di là di pancia piena o pancia vuota, la cosa davvero importante per evitare tale spiacevole e pericoloso riflesso capace di rallentarci il battito, è entrare in acqua gradualmente bagnandosi un po’ per volta, in particolar modo se l’acqua è fredda o avete già in atto altri tipi di stress”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

·        Vi scappa spesso la Pipì?

VI SCAPPA SPESSO LA PIPÌ? Silvia Turin per "corriere.it" il 24 gennaio 2021.

La vostra percezione di «spesso» potrebbe essere sfasata. Magari vi sembra di andare troppe volte alla toilette, ma dipende da quanto bevete: fare pipì circa 8 volte nel corso della giornata è nella media. Anche alzarsi una volta durante la notte è considerato “normale”. Ovviamente quando siete in viaggio il “fastidio” della sosta-obbligata potrebbe contribuire a farvi sembrare di esserci andati troppe volte.

Potreste davvero avere una vescica piccola

“Ho la vescica piccola”: sembra strano ma potrebbe essere così. Anatomicamente ognuno è fatto in modo diverso: la maggior parte delle vesciche hanno la capacità totale di circa 2 bicchieri di liquidi. Se andate in bagno spesso ma producete meno di 2 bicchieri di urina, probabilmente non è normale. La buona notizia è che si può allenare la vescica a trattenere più liquidi. Quando è piena, potete allungare un po’ i tempi: molti pensano sia un esercizio dannoso, in realtà è un po’ come lo stretching, ma bisogna fermarsi appena si sente una sensazione spiacevole di fastidio-dolore perché «abituarsi sin da giovani a trattenersi ad oltranza prima di urinare - spiega il professor Francesco Montorsi - può provocare una iperdistensione vescicale con, a lungo termine, una perdita progressiva di funzionalità dell’organo».

State bevendo troppo poca acqua

Sembra un controsenso ma funziona così: quando si beve meno, l’urina diventa più concentrata e più “irritante” per la vescica, innescando quindi la sensazione di dover urinare. Più si beve invece, più si è in grado di trattenere maggiormente. Quindi bere meno per andare meno in bagno potrebbe non essere una buona idea. Allo stesso modo non bisogna esagerare con l’acqua: la giusta idratazione si vede anche dal colore della pipì che deve essere giallo paglierino. «Un soggetto adulto sano dovrebbe produrre due litri di pipì al giorno - aggiunge l’esperto - . Una buona regola è riuscire a bere due litri di acqua distribuiti nelle 24 ore. Bisogna ovviamente considerare che se si beve anche durante le ore notturne, ci si alzerà più spesso di notte!».

Avete un’infezione o i calcoli renali

Sia un’infezione delle vie urinarie (tipo la cistite) sia i calcoli renali possono irritare la vescica, aumentando la frequenza con cui si sente il bisogno di fare pipì. Ad entrambe le casistiche però si associano altri sintomi: un calcolo renale crea dolore alla schiena o sui fianchi e le infezioni del tratto urinario forte dolore durante la minzione. «In entrambe le situazioni, bere due litri di acqua al giorno è una vera e propria terapia», consiglia Montorsi.

Dovreste fare un po’ di ginnastica al pavimento pelvico

Quanto più sono tonici i muscoli pelvici, tanto più sono in grado di trattenere l’urina. Molte donne non sanno come stringerli o rilassarli in modo consapevole. Imparare ad usarli è utile soprattutto in vista di gravidanze e menopausa. «Ci si può rivolgere ai fisioterapisti specialisti nella ginnastica muscolare del pavimento pelvico», osserva l’urologo.

Avete una vescica «iperattiva»

Se andate in bagno molte più volte rispetto alle otto standard e se il vostro stimolo è sempre accompagnato ad una fastidiosa urgenza potreste anche avere una vescica iperattiva. È una condizione in cui si trovano sempre più donne quando invecchiano. L’età aumenta anche la probabilità di avere disturbi che influiscono su questo, come soffrire di mal di schiena: le vertebre possono spingere sui nervi che a loro volta possono dare la sensazione di vescica piena.

Prendete certi farmaci

I diuretici sono spesso usati per trattare la pressione alta e quindi possono aumentare la produzione di urina anche del doppio. Un’altra classe di farmaci chiamati anticolinergici, che sono usati per trattare l’ansia e la depressione, possono far in modo che la vescica non riesca a svuotarsi completamente, lasciando la sensazione di dover andare di nuovo. «Se parlate con un medico dei vostri disturbi urinari ricordatevi di citare sempre tutti i farmaci che state assumendo», dice il professor Montorsi.

Potreste avere il diabete

C’è una possibilità legata al diabete. Se lo zucchero nel sangue è troppo altro, i reni cercheranno di smaltirlo tramite le urine. Ecco perché anche mangiare cibo o caramelle con un sacco di zucchero è sufficiente per farvi andare più spesso in bagno. Non è un problema legato alla vescica ma alla produzione di urina. «L’esame delle urine può identificare la presenza di zucchero, cosa non normale e da segnalare al vostro medico», consiglia l’urologo.

State prendendo freddo

Quando la temperatura esterna scende, il corpo fa di tutto per mantenersi al caldo. Parte di questo processo consiste nella costrizione dei vasi sanguigni in piedi e mani: questo porta più sangue verso il cuore, il che aumenta la pressione sanguigna. Allora il corpo reagisce alla pressione alta cercando di abbassarla e lo fa sbarazzandosi dei liquidi extra, proprio come agiscono alcuni farmaci contro l’ipertensione.

C’è un problema di salute più serio

Solo voi sapete davvero quanto è normale fare pipì per il vostro organismo e per questo solo voi potete notare variazioni significative e soprattutto apparentemente immotivate nella frequenza. È piuttosto questo a dover mettere in allarme: sono vari i disturbi che possono legarsi al bisogno di urinare, dall’ernia del disco, ai tumori dell’addome, alla sclerosi multipla, ai tumori della via urinaria. Evenienze comunque molto rare. Solo il medico può aiutarvi in questi casi (anche a fugare i timori).

·        La Prostata.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 23 novembre 2021. Il cancro dell'utero è diventato una malattia rara grazie alla Vaccinazione HPV (Human Papilloma Virus), non obbligatoria, consigliata e somministrata dal 2006 alle ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni gratuitamente dal servizio sanitario nazionale, e i risultati epidemiologici di tale vaccinazione mostrano tutto il potere della scienza, poiché sono la prima prova diretta e mondiale della capacità di un vaccino di prevenire e debellare il cancro, quello genitale e orale causato dal Papilloma Virus. L'infezione da Papilloma Virus è in assoluto la più frequente infezione sessuale trasmessa tra uomini e donne, e questo agente virale è classificato come il secondo patogeno responsabile di cancro nel mondo, in quanto può causare tumori maligni in tutte le zone interessate durante un rapporto sessuale, dove il virus attecchisce e va ad insediarsi e a proliferare con la sua azione maligna in ambiente protetto caldo-umido, dalla cervice uterina, alla vagina, alla vulva, all'ano e al pene, fino alla cavità orale, al faringe e laringe. Il Papilloma Virus nelle stesse sedi naturalmente causa inizialmente lesioni benigne, come displasie, verruche e condilomi genitali, che però se non vengono curate adeguatamente, negli anni possono trasformarsi, malignizzare e dare origine a carcinomi spesso letali, la cui causa necessaria per svilupparsi è appunto la presenza e persistenza dell'infezione del temibile Hpv.

ASSENZA DI SINTOMI Quando si contrae sessualmente tale patologia, l'assoluta assenza di sintomi iniziali ne favorisce la diffusione con i vari partner, perché la maggior parte degli individui affetti non è a conoscenza del processo infettivo in corso, e nonostante parte delle infezioni regredisca spontaneamente, nei molti casi di persistenza e cronicizzazione, la stessa evolve negli anni in lesione prima pre-cancerosa, per poi diventare carcinoide. Un poderoso studio scientifico, pubblicato sul Lancet il mese scorso, ha riscontrato un calo del 97% delle lesioni precancerose delle cellule nelle ragazze vaccinate in Inghilterra in età puberale, le quali, una volta intrapresa l'attività sessuale, pur essendo venute a contatto con il Papilloma Virus non hanno sviluppato lesioni neoplastiche, nemmeno con i ceppi virali ritenuti ad “alto rischio”, proprio grazie alla protezione vaccinale. Meno vigoroso risulta invece il calo delle lesioni cancerose più pericolose delle prime vie respiratorie, laringe e farine, e del cavo orale, ove l'infezione si trasmette attraverso il sesso orale, ovvero tra il contatto tra mucose e genitali, e tale fenomeno è attribuibile al fatto che gli adolescenti di sesso maschile sono più restii a sottoporsi alla vaccinazione, soprattutto in Italia, nonostante sia dimostrato che sono gli uomini, in numero enormemente maggiore, generalmente ignari dell'infezione poiché asintomatici, e non vaccinati, a diffondere il virus alle loro partner.

DIAGNOSI CLINICA La diagnosi clinica della presenza dell'infezione da HPV viene eseguita attraverso l'esecuzione del Pap Test, con biopsie mirate a mucose genitali (colposcopia) e bronchiali (laringoscopia), gli unici esami che permettono di confermare l'insediamento nelle mucose dei vari ceppi virali e di testarne la pericolosità in termini evolutivi, per poi valutate l'eventualità di asportazioni parziali o totali dei tessuti interessati dal processo neoplastico. Fortunatamente l'infezione da Hpv spesso non è evolutiva verso lo stadio tumorale, ma l'attenzione dei medici è sempre alta verso questo virus capace di sviluppare neoplasie evitabili anche letali. Scrivo oggi questo articolo per sensibilizzare e fidelizzare la popolazione ancora scettica nei confronti dei vaccini a mRna, come quelli attualmente in uso contro il Covid19, poiché queste meravigliose molecole recentemente sintetizzate, nei prossimi cinque-dieci anni, porteranno a un cambio di paradigma non solo contro le malattie infettive che provocano il cancro, ma permetteranno di sviluppare veri e propri Vaccini anti-Cancro addirittura personalizzati sul singolo paziente e sulla singola neoplasia, a partire dalle caratteristiche di ogni tumore maligno, e quando saranno a disposizione sul mercato i pazienti dovranno aspettare solo un mese per la consegna del loro specifico vaccino salvavita. La Pfizer-BioNTech ha recentemente annunciato di aver pronta la versione anticancro del vaccino antiCovid, anzi di avere ben 15 vaccini mRna anticancro in fase di test clinici, il più avanzato dei quali è quello contro il temibile melanoma, che riconosce le cellule cancerose distruggendole a cascata, ed uno che sembra ottimale per il carcinoma del colon-retto, e dai risultati pubblicati sembrano specifici anche per prevenire la ricorrenza e le recidive dei tumori maligni. E lo slogan che l'azienda farmaceutica diffonderà per il lancio sul mercato internazionale degli innovativi vaccini nel cancro, affidato a Ugur Sahin, cofondatore della BioNTech, sarà: «Si incomincia a salvare il mondo salvando un uomo alla volta». Durante la pandemia da Covid19 gli scienziati internazionali hanno infatti compreso l'enorme potenzialità che c'era, grazie all'Rna Messaggero, di fornire informazioni direttamente alle cellule immunitarie, codificandole per poi lasciare che il sistema immunitario faccia quello che sa fare meglio, ovvero proteggere il nostro corpo dalle minacce infettive, infiammatorie e tumorali, e questa pandemia è stata per la scienza il battesimo di fuoco per questa incredibile tecnologia bio-ingegneristica che salverà milioni di persone del mondo dalla malattia del secolo, il cancro appunto. E salverà forse anche coloro che ad oggi ancora sbraitano ignorantemente e ignobilmente contro il salvifico e benedetto vaccino mRna antiCovid. 

Tumore della prostata, farmaci efficaci e buona qualità di vita. Nel mese dedicato alla salute maschile, i dati sulla neoplasia ci dicono che nuove molecole permettono di ridurre il rischio di morte senza effetti collaterali gravi. su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. Novembre è il mese dedicato alla salute maschile. E il tumore della prostata è quello di cui si parla di più. Soprattutto per i suoi numeri: è infatti il secondo tumore più comunemente diagnosticato negli uomini e la quinta causa di morte per cancro nei maschi a livello mondiale. Ogni anno, in Italia, si stimano circa 37mila nuovi casi di tumore della prostata, ma grazie ai farmaci sviluppati negli ultimi anni, più del 90% è vivo a 5 anni dalla diagnosi. Gli uomini affetti da carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione sono generalmente attivi e non presentano sintomi, ma sono a rischio elevato di sviluppare la malattia metastatica; circa un terzo dei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione sviluppa metastasi entro due anni. Una delle sfide più importanti è quindi quella di evitare l'insorgenza di metastasi, mantenendo inalterata la qualità di vita. "Novembre è il mese dedicato alla salute maschile, ed è sempre più importante poter disporre di armi efficaci come darolutamide per aiutare i pazienti con tumore della prostata a vivere meglio. I sintomi locali correlati all'apparato genitourinario possono influire negativamente sulla qualità di vita dei pazienti. Al momento della scelta del trattamento in un paziente con carcinoma della prostata non metastatico resistente a castrazione è importante, quindi, valutare farmaci come darolutamide che aiutano ad aumentare la durata di vita, riducendo il rischio complicanze correlate alla ripresa di malattia con un ottimo profilo di tollerabilità. Oltretutto, capire meglio il profilo di tollerabilità di una terapia aiuta a prevenire e a gestire gli eventi avversi indesiderati come fatigue, deficit cognitivo e ipertensione," afferma Daniele Santini, Ordinario di Oncologia medica presso l'università Campus Bio-Medico di Roma. "Gli ultimi risultati presentati confermano che il trattamento con darolutamide per un periodo prolungato permette ai pazienti di mantenere una vita sociale e lavorativa attiva". Nello studio di fase III ARAMIS, darolutamide, inibitore orale del recettore per gli androgeni, ha infatti dimostrato di ridurre il rischio di morte del 31% e di migliorare la sopravvivenza libera da metastasi, senza compromettere la qualità di vita dei pazienti. Risultati che sono stati confermati dalle  analisi dello studio ARAMIS presentate al Congresso dell'Associazione Americana di Urologia  e al Congresso della Società Europea di Oncologia Medica che hanno valutato darolutamide nei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione (nmCRPC). I dati di queste analisi forniscono una ulteriore evidenza che rafforza il profilo di efficacia e tollerabilità noto di darolutamide nei pazienti con carcinoma della prostata non metastatico resistente alla castrazione, con un progresso significativo della sopravvivenza libera da metastasi (MFS) e della sopravvivenza globale (OS), e un profilo di sicurezza favorevole in un periodo di trattamento prolungato paragonabile alla sola terapia di deprivazione androgenica (ADT).

Tumore alla prostata, ecco quali uomini rischiano di più e che cosa devono fare. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Più casi in famiglia, geni ereditari, dieta scorretta e chili di troppo fanno salire il rischio. Prevenzione poco diffusa, ma basta una visita con l'urologo e il test del Psa dai 50 anni poi. Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata. Con 36mila nuovi casi diagnosticati nel 2020 in Italia è il tipo di cancro più frequente nel sesso maschile dopo i 50 anni, ma i numeri sono in aumento anche fra i più giovani. La buona notizia è che, se identificato in fase iniziale, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. La cattiva è sempre la stessa da anni: gli uomini sono restii ai controlli e la diagnosi precoce in oncologia può salvare la vita. «Sarebbe bene che tutti gli uomini dall’adolescenza in poi facessero almeno una visita l’anno dall’urologo per verificare lo stato di salute di reni vescica, prostata e organi genitali. Esattamente come fanno le donne con il ginecologo — sottolinea Giuseppe Carrieri, direttore del Dipartimento di Urologia all’Università di Foggia e componente del Comitato esecutivo della Società italiana di urologia (Siu), in occasione del 94esimo Congresso nazionale della società scientifica che si apre oggi a Riccione —. Poi a partire dai 50 anni, e dai 45 anni se c’è familiarità e si rischia di più, si parte con l’esame del Psa e, se è necessario approfondire, con la risonanza magnetica multiparametrica della prostata».

Gli esami: Psa e risonanza magnetica multiparametrica

Il test del Psa è un utile strumento di diagnosi precoce del tumore alla prostata: può favorire la scoperta della malattia in stadio iniziale, quando è più facile da curare e si può guarire definitivamente. Oggi è anche certo che può portare a molti casi di diagnosi e trattamenti in eccesso perché vengono anche individuati i tumori cosiddetti «indolenti», che clinicamente non sono significativi (in pratica potrebbero non comportare mai alcuna conseguenza per la salute degli uomini), con il rischio di un conseguente sovra-trattamento (cioè l’adozione di terapie inappropriate che comportano costi inutili per il Sistema sanitario e, in termini di effetti collaterali, anche per i pazienti). È in questo contesto che la risonanza magnetica multiparametrica ha un’importanza strategica, come hanno dimostrato sempre più ricerche negli ultimi anni — aggiunge Carrieri — . Questo esame evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale, consentendo di identificare le forme che meritano di essere biopsiate e quelle ritenute non pericolose».

Tumori da sorvegliare o da trattare

Gli uomini con una neoplasia non «pericolosa» possono poi tenere solamente sotto controllo la malattia con una strategia ben definita, la sorveglianza attiva, senza sottoporsi a cure che possono avere conseguenze come disfunzione erettile e incontinenza urinaria. «Le terapie a disposizione per il tumore alla prostata oggi sono moltissime — spiega Francesco Porpiglia, direttore dell’Urologia all’Università di Torino e all’Azienda Ospedaliera San Luigi Gonzaga di Orbassano —, sia per un carcinoma ai primi stadi, quando è localizzato e non ha ancora dato metastasi, sia nelle fasi più avanzate di malattia, dove abbiamo nuove molecole in grado di allungare e migliorare la vita anche dei pazienti più “difficili” da curare. E individuare un’alterazione genica nei nostri malati è sempre più determinante per scegliere la strategia terapeutica migliore nel singolo caso».

Chi rischia di più: eredità in famiglia

Ma chi è più a rischio di ammalarsi? «Senza dubbio chi ha una familiarità per questa patologia, che ha anche maggiori probabilità di avere una neoplasia più aggressiva e in età più precoce — risponde Carrieri —. Ovvero gli uomini con parenti di primo grado (padre e fratelli) con la malattia, soprattutto se manifestata in età inferiore ai 55 anni. Oppure quelli che hanno familiari con un tumore ereditario della mammella e/o dell'ovaio (per via dei geni BRCA). Gli uomini con un parente di primo grado affetto da questa malattia presentano un rischio fino a 3 volte più alto di svilupparla. Per chi invece ha più di un familiare colpito il rischio aumenta addirittura di 5 volte». Infatti recenti statistiche indicano che circa il 10-15% dei casi di tumore alla prostata è ereditario e una percentuale non trascurabile (tra il 20 e il 30%) presenta una mutazione dei geni BRCA1/2 o ATM che si associa spesso a una malattia potenzialmente meno responsiva ai farmaci più comunemente utilizzati. «Per questo è fondamentale identificare le mutazioni genetiche nelle forme avanzate della malattia, poiché in questa fase il tumore diventa un bersaglio sensibile a nuovi farmaci, come gli inibitori di PARP, efficaci nel contrastare le neoplasie causate da un gene BRCA mutato e già ampiamente utilizzati con successo contro il cancro di seno e ovaio, disponibili per la prostata solo in protocolli sperimentali» aggiunge Porpiglia.

Dieta scorretta e sindrome metabolica

Dunque anche gli uomini possono eseguire le indagini genetiche, che vanno però effettuate in condizioni ben precise. «Per esempio, in caso di multipli membri della propria famiglia con storia di tumore di prostata diagnosticato in giovane età oppure nel caso in cui sia presente un componente della famiglia con già nota mutazione genetica — precisa Porpiglia —. Attualmente sono rimborsabili solo in situazioni specifiche all’interno di un counseling genetico». Chi è poi più in pericolo? «Altri fattori di rischio vanno riscontrati nelle abitudini alimentari e nello stile di vita — conclude Carrieri —. A far lievitare le probabilità di ammalarsi sono soprattutto un alto contenuto di proteine nella dieta e la sindrome metabolica, una patologia caratterizzata da aumento della circonferenza dell’addome, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolo “buono” HDL e aumento della glicemia a digiuno. Se si hanno anche solo tre su cinque di queste caratteristiche si soffre di sindrome metabolica e sale il rischio di cancro perché si crea un microambiente favorevole alle cellule cancerose per svilupparsi e prolificare».

Vera Martinella per il Corriere.it il 10 ottobre 2021. Allungare la sopravvivenza e migliorare la qualità di vita dei pazienti con una forma più aggressiva di tumore alla prostata che, con circa 36mila nuovi casi individuati nel 2020 in Italia, è il tipo di cancro più frequente fra i maschi del nostro Paese. Sono questi gli obiettivi a cui puntano molte ricerche presentate durante l'ultimo congresso della European Society of Medical Oncology (Esmo). Grazie alla diagnosi precoce e ai progressi scientifici oggi il 90% dei pazienti è ancora vivo dopo 10 anni dalla diagnosi: un traguardo importante, soprattutto se si pensa che è una forma di cancro tipica dell’età avanzata e che la maggior parte dei malati ha più di 70 anni. In un’elevata percentuale di casi, però, la malattia evolve in una forma resistente alle terapie e metastatizza. Gli esiti di due sperimentazioni illustrate al convegno europeo indicano che una nuova combinazione di farmaci, già ampiamente conosciuti, può prolungare la vita degli uomini con un carcinoma prostatico sensibile agli ormoni e i risultati di un altro studio indicano come sia possibile, in chi ha invece una forma metastatica resistente alla terapia ormonale, arginare il dolore e ritardare peggioramenti nella quotidianità. Quando la neoplasia arriva a uno stadio avanzato nel 90% dei pazienti compaiono metastasi alle ossa che possono determinare un aumentato rischio di fratture, forte dolore, immobilità e di conseguenza ridurre la qualità di vita. La cura standard per gli uomini con un carcinoma prostatico metastatico è stata per decenni la terapia ormonale: il testosterone prodotto dai testicoli maschili, infatti, stimola la crescita del tumore e l'ormonoterapia cerca di contrastare questa azione rallentando o bloccando la sintesi del testosterone (deprivazione androgenica). Nel 2015, poi, è stato dimostrato che aggiungere il chemioterapico docetaxel migliorava la sopravvivenza dei malati e nel 2017 allo stesso risultato si è arrivati somministrando, insieme all'ormonoterapia, un agente ormonale di nuova generazione, abiraterone. Ma quale, fra le diverse opzioni, fosse il mix migliore fino a ora non era chiaro. I risultati delle studio PEACE-1, presentati al congresso Esmo 2021, indicano che utilizzare tutti e tre i medicinali (deprivazione androgenica, più docetaxel, più abiraterone) è la soluzione migliore soprattutto per gli uomini con una neoplasia molto aggressiva, con metastasi multiple. «Questo è il primo trial a indicare che ai pazienti con un carcinoma prostatico metastatico sensibile agli ormoni andrebbe offerta la tripletta, anche considerando che gli effetti collaterali sono stati per lo più lievi e la cura ben tollerata - ha commentato Karim Fizazi, oncologo medico dell'Institute Gustave Roussy di Villejuif, in Francia, e primo autore della ricerca -. In questo modo siamo riusciti ad aggiungere due anni e mezzo senza che la malattia progredisca: per la prima volta questi uomini possono aspettarsi di vivere oltre cinque anni dalla diagnosi, mentre prima la media era inferiore a tre». Lo studio STAMPEDE si è invece concentrato su malati con un carcinoma prostatico sensibile agli ormoni e localizzato, cioè senza metastasi, ma ad alto rischio di svilupparle. Circa il 20% dei casi al momento della diagnosi è in questa situazione e generalmente gli uomini ricevono ormonoterapia per due o tre anni abbinata a radioterapia a prostata e pelvi per prolungare la sopravvivenza. Ricerche precedenti hanno indicato che l'aggiunta di chemioterapia con docetaxel allonta il momento in cui la malattia progredisce, ma non allunga la vita dei malati. Ai partecipanti alla sperimentazione, è stata somministrata l'ormonoterapia da sola oppure associata ad abiraterone e predinisone. «Le conclusioni indicano che tutti i pazienti con questo tipo di tumore dovrebbero essere valutati per ricevere in aggiunta due anni di abiraterone - ha spiegato l'auore principale dello studio Gerhardt Attard, dell'Urological Cancer Research Center allo University College di Londra -. In questo modo si allungano sia il periodo precedente alla comparsa di metastasi sia la durata della vita dei malati. Ora dobbiamo valutare se la cura abbia gli stessi effetti somministrata per un periodo più breve oppure se, prendendola più a lungo, si possano ottenere risultati anche migliori». Infine, una terza sperimentazione (VISION) ha coinvolto 831 malati con carcinoma della prostata progressivo metastatico resistente alla castrazione, che sono trattati con 177Lu-PSMA-617, nuova terapia mirata con radioligando, in aggiunta al miglior standard di cura. Numerosi pazienti con questo tipo di neoplasia lamentano disabilità fisiche e notevole dolore perché le metastasi alle ossa possono determinare un aumentato rischio di fratture, grande sofferenza, immobilità e di conseguenza ridurre la qualità di vita. Gli esiti del trial indicano che, con il nuovo farmaco, migliora la quotidianità dei malati e si ritarda la comparsa dei sintomi più invalidanti. «Una componente non trascurabile del tumore alla prostata in stadio metastatico è la sintomatologia particolarmente debilitante e causa di ulteriori complicazioni per lo stato di salute e il benessere psico-fisico del paziente - ha commentato Giuseppe Procopio, responsabile dell'Oncologia medica genitourinaria della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Ad avvalorare l'importanza dei dati di questo studio presentati ad Esmo 2021 è il fatto che la terapia con radioligando apre una nuova prospettiva rivelandosi un’efficace opzione terapeutica, in grado di offrire ai pazienti, insieme a una buona tollerabilità, anche una prognosi favorevole in termini di durata e anche di qualità di vita». All’ultimo congresso americano Asco erano stati presentati i dati di efficacia e sicurezza dello studio VISION, in cui la terapia oncologica con radioligando in aggiunta al miglior standard di cura ha ottenuto una riduzione sia del 38% del rischio di morte sia del 60% del rischio di progressione della malattia. «Ora è possibile iniziare a pensare di personalizzare le scelte terapeutiche in modo estremamente preciso, consentendo una prognosi migliore anche ai pazienti più complessi, per i quali tutto questo si traduce in un aumento della durata e della qualità di vita - ha concluso Marcello Tucci, direttore dell'Oncologia all'Ospedale Cardinal Massaia di Asti -. Per i pazienti con carcinoma prostatico metastatico lo scenario è oggi del tutto diverso rispetto a pochissimo tempo fa ed è tuttora in continua, rapidissima evoluzione come in pochi altri settori dell’oncologia. Questi ultimi del trial VISION vanno a sottolineare i risultati positivi sulla qualità di vita, confermando le potenzialità di questo trattamento». 

Tumore alla prostata a basso rischio: la sorveglianza «attiva» è meglio di una terapia. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2021. Gli uomini con una neoplasia non «pericolosa» possono vivere anni tenendo sotto controllo la malattia, senza sottoporsi a cure che possono avere conseguenze come disfunzione erettile e incontinenza urinaria. Quello alla prostata è il cancro più frequente tra i maschi a partire dai 50 anni di età di cui in Italia si registrano circa 36mila nuove diagnosi ogni anno, ma in circa 4 casi su 10 si tratta di carcinomi non aggressivi, a basso rischio di progressione, che possono essere tenuti soltanto sotto controllo e non necessitano di cure immediate. In questo modo gli uomini possono continuare a svolgere le proprie attività quotidiane senza dover affrontare quelle che sono le conseguenze indesiderate più frequenti e più temute delle terapie: disfunzione erettile e incontinenza urinaria. Nuove prove a favore dei programmi di «sorveglianza attiva», soprattutto per i maschi ultra 60enni, arrivano dai risultati di due ricerche presentate durante l’ultimo congresso della Società Europea di Urologia (Eau), uno svedese e l’altro coordinato dall’associazione pazienti Europa Uomo. «La mortalità è in calo dal Duemila ed è fondamentale che le terapie vengano personalizzate sul singolo paziente in base alle sue caratteristiche e al tipo di neoplasia, alla sua aggressività, al rischio che la malattia peggiori - sottolinea Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata all’Istituto Nazionale Tumori (Int) di Milano e professore associato di Radioterapia all’Università degli Studi di Milano -. Dev’essere chiaro che non tutti i tumori vanno necessariamente curati: a volte servono trattamenti aggressivi, altre si deve soltanto tenere sotto osservazione il paziente ed evitargli così cure inutili e possibili effetti collaterali severi».

Sorveglianza utile per gli over 60. Nel primo studio sono stati analizzati i dati contenuti nello Sweden's National Prostate Cancer Register, il registro svedese che raccoglie le informazioni relative agli uomini di quel Paese che dal 1998 hanno ricevuto una diagnosi di carcinoma prostatico, 23.649 dei quali sono stati eseguiti con la sorveglianza attiva. «Questa opzione, introdotta nella pratica clinica da ormai quasi 20 anni, è riservata solo a determinate tipologie di malati: quelli con un carcinoma di piccole dimensioni e non aggressivo - chiarisce Valdagni, che è anche direttore della Radioterapia dell’Int, il centro italiano con maggiore esperienza in questa strategia -. Prevede di tenere sotto controllo il tumore, posticipando eventuali trattamenti al momento in cui la malattia cambia atteggiamento, se lo cambia. Rimandando così, per anni o per tutta la vita, insieme alle terapie anche i loro possibili effetti collaterali. Dal 2004 abbiamo seguito circa 1300 pazienti in Int e ad oggi nessuno di loro, in sorveglianza attiva, è deceduto o ha sviluppato metastasi». I ricercatori dell’Università di Gothenburg hanno valutato sia il numero di pazienti in sorveglianza attiva che negli anni sono deceduti a causa della neoplasia, sia la quota di quanti sono passati dai soli controlli a un trattamento (chirurgia, radioterapia o brachiterapia) e hanno concluso che, in particolare per i pazienti over 60, il monitoraggio è una scelta vincente: la maggior parte dei pazienti ha vissuto, infatti, 10 anni o più a lungo senza doversi sottoporre a una terapia e la percentuale di decessi è risultata molto bassa.

La scelta spetta ai pazienti. «Oggi si stima che circa il 40% dei casi diagnosticati ogni anno in Italia appartenga a una categoria di rischio basso o molto basso di progressione – ricorda Valdagni -. Questi pazienti hanno elevate probabilità che il loro tumore resti fermo nel tempo, non cresca, non dia metastasi e l’aspettativa di vita di queste persone è sempre più lunga. Di fronte a un tumore prostatico in classe di rischio basso, le soluzioni terapeutiche ottimali sono diverse: chirurgia, radioterapia, brachiterapia o sorveglianza attiva -. A parità di efficacia, la scelta va fatta prendendo in considerazione i possibili effetti collaterali. Sono gli uomini che, soppesando pro e contro di ogni opzione, devono stabilire cosa è meglio per la loro qualità di vita». Un altro studio presentato al convegno Eau 2021 ha analizzato proprio l’impatto del monitoraggio sulla vita sessuale dei malati, partendo da quanto i diretti interessati hanno riportato in appositi questionari sulla qualità di vita. «Lo studio EUPROMS (Europa Uomo Patient Reported Outcome Study) è il primo condotto direttamente da pazienti per altri pazienti – spiega Bernardo Rocco, presidente del Comitato Scientifico di Europa Uomo Italia, professore ordinario di Urologia all’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Urologia all’Ospedale San Paolo -. Circa 3mila uomini in 24 Paesi europei hanno risposto all’indagine da casa loro, in modo da avere il tempo e la comodità per rispondere in modo esaustivo e sereno: meno del 45% degli interpellati in sorveglianza attiva ha riportato disturbi dell’erezione, mentre si sale al 70-90% dei maschi sottoposti ai trattamenti».

Visite dall’urologo dopo i 50 anni. Fortunatamente oggi oltre il 90% dei pazienti è ancora vivo dopo 10 anni dalla diagnosi di tumore prostatico: un traguardo importante, ottenuto grazie alla prevenzione e ai progressi della ricerca e della tecnologia. «Laddove i programmi di prevenzione si sono allentati, come è avvenuto negli Stati Uniti, si è riscontrato un aumento di casi diagnosticati in fase più avanzata - conclude Rocco - . E quanto più l’intervento non è tempestivo, tanto peggiori saranno gli esiti dei trattamenti. Citando le parole del professor Van Poppel, presidente del Comitato Scientifico di Europauomo, “la diagnosi precoce deve avvenire attraverso una strategia di screening adattata al rischio del singolo paziente, e questo consentirà di salvare altre vite”. Ed è proprio la visita urologica il momento nel quale si imposta la giusta strategia, sia di prevenzione che di eventuale trattamento: è consigliata a partire dai 50 anni o anche dai 45 in caso di famigliarità. E se viene diagnosticato il tumore prostatico? Sarà sempre l’urologo a valutare la possibile sorveglianza o viceversa la necessità di un trattamento attivo del tumore. Trattamento che, per garantire i massimi risultati sia oncologici che funzionali, dev’essere eseguito in centri di riferimento che dispongano delle risorse mediche, tecnologiche, organizzative, richieste per la gestione del tumore maschile più frequente».

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 agosto 2021. Secondo un nuovo studio, gli uomini che eiaculano più spesso hanno un rischio inferiore di sviluppare il cancro alla prostata. I ricercatori dell'Università di Harvard hanno analizzato i dati di quasi 32.000 uomini e hanno scoperto che eiaculare almeno 21 volte al mese riduce di un terzo il rischio di sviluppare il tumore. I legami tra eiaculazione e cancro alla prostata non sono completamente noti. Tuttavia, alcuni credono che l'eiaculazione potrebbe liberare la prostata dagli agenti cancerogeni, ridurre l'infiammazione e anche portare a meno stress e dormire meglio, il che può ridurre il rischio di cancro. L'American Cancer Society afferma che il cancro alla prostata è il cancro più comune negli uomini statunitensi dopo il cancro della pelle. Si stima che a un uomo su otto verrà diagnosticato un cancro alla prostata nel corso della sua vita. Nel 2021, si prevede che a più di 248.500 uomini verrà diagnosticato un cancro alla prostata e più di 34.000 moriranno a causa della malattia. Ma il cancro alla prostata in genere cresce lentamente e, se rilevato precocemente mentre è ancora confinato alla ghiandola prostatica, c'è una possibilità di successo del trattamento. I ricercatori, che hanno pubblicato i loro risultati su European Urology, hanno analizzato i dati auto-riferiti sull'eiaculazione degli uomini che hanno partecipato allo studio. Lo studio è stato condotto dal 1992 al 2010, e gli uomini hanno completato i sondaggi mensilmente. La frequenza dell'eiaculazione è stata misurata quando gli uomini hanno iniziato lo studio, tra i 20 e i 40 anni. Dopo aver analizzato i dati e averli messi in relazione ad altri fattori, come l’indice di massa corporea, l’attività fisica, il consumo di cibo e alcol e i fattori di stress, hanno determinato che gli uomini che eiaculavano frequentemente - almeno 21 volte al mese - avevano un terzo in meno di probabilità di sviluppare il cancro rispetto quelli che eiaculavano dalle quattro alle sette volte al mese. «Questi risultati forniscono ulteriori prove di un ruolo benefico dell'eiaculazione più frequente durante la vita adulta nell'eziologia del cancro alla prostata, in particolare per le malattie a basso rischio», hanno scritto gli autori. Il legame tra eiaculazione e cancro alla prostata è stato controverso tra i ricercatori. Uno studio di Harvard del 2004 non ha trovato collegamenti tra eiaculazione e cancro alla prostata. Uno studio australiano pubblicato nel 2003 ha scoperto che gli uomini che eiaculavano spesso in giovane età adulta crescevano con un rischio ridotto di cancro.  Uno studio del 2008 condotto dall'Università di Cambridge ha scoperto che i tassi di cancro alla prostata aumentavano insieme alla masturbazione frequente. «Ci sono stati altri studi contraddittori. Ma la maggior parte di loro concorda sul fatto che c'è una diminuzione dell'incidenza del cancro a basso rischio», ha detto a Mashable il dottor Odion Aire, un esperto di urologia sudafricano. «Non c'è un verdetto chiaro per il cancro ad alto rischio, dallo studio». Gli uomini che hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro alla prostata hanno più di 50 anni e hanno origini africane. Anche mangiare molti latticini, fumare o essere obesi sono fattori che aumentano il rischio di contrarlo.  Alcuni credono che ci siano anche fattori genetici che rendono alcuni uomini più vulnerabili alla malattia. Gli esperti raccomandano che gli uomini a rischio di cancro alla prostata conducano test semi-regolari, perché scoprirlo presto potrebbe renderlo più facile da trattare.

Vera Martinella per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2021. Dopo anni di discussioni e la raccolta di una vastissima mole di dati, la comunità scientifica ha trovato un accordo sul test del Psa come strumento di prevenzione per la diagnosi precoce del tumore alla prostata: l'esame è utile e va consigliato agli uomini a partire dai 50 anni, ma è fondamentale che la sua esecuzione venga prescritta dai medici seguendo ben precise linee guida per due motivi. Prima di tutto perché se emergono dati fuori dai valori normali nel referto vanno ben interpretati dall'urologo che li deve spiegare al paziente e c'è a quel punto un nuovo iter di accertamenti da seguire allo scopo di ridurre il numero di biopsie inutili. La seconda ragione è che anche quando si arriva ad appurare la presenza di un tumore a non è detto che questa vada trattato e se non è «pericoloso» è utile promuovere l'utilizzo della cosiddetta sorveglianza attiva. Come si è arrivati a questa decisione? Importanti studi internazionali hanno coinvolto centinaia di migliaia di uomini in Europa e negli Stati Uniti e i loro esiti sono stati confrontati con le statistiche relative ai nuovi casi diagnosticati e alla mortalità per carcinoma prostatico negli ultimi 20 anni. «Il cuore del problema è evitare sia il rischio di diagnosi e di trattamenti in eccesso, sia di arrivare tardi alla scoperta del tumore, compromettendo le possibilità di guarigione - spiega Alberto Lapini, presidente della Società Italiana di Urologia Oncologica (Siuro) e responsabile Prostate Cancer Unit all'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze -. A partire dagli anni Novanta la grande diffusione del test del Psa e l'aumento del numero delle biopsie hanno provocato una crescita delle diagnosi di carcinoma prostatico, in particolare di forme limitate e a basso rischio di progressione dove il trattamento poteva creare più problemi (incontinenza e disfunzione erettile) che vantaggi».  La ricerca scientifica ha infatti confermato che un gran numero di neoplasia prostatiche sono «clinicamente non significative»: si tratta cioè di tumori indolenti, di piccole dimensioni, non aggressivi e che non influiscono sulla vita del malato. Così nel 2008 gli esperti della Task Force americana si sono pronunciati contro l'utilizzo del Psa, ma questo ha portato a un drastico calo nell'esecuzione del test e, conseguentemente, ha determinato un aumento significativo di casi localmente avanzati o metastatici alla diagnosi. «Si potrebbe dire che, basandoci sulle migliori conoscenze scientifiche raccolte negli anni, ora abbiamo finalmente trovato la giusta via di mezzo - prosegue Lapini - e l'Associazione di Urologia Europea (Eau) ha impostato un programma di diagnosi precoce del cancro alla prostata che permette un bilanciamento tra il non fare niente o il fare troppo. Si tratta di un progetto innovativo (proposto alla Commissione europea nell'ambito del piano per battere il cancro 2021-2027) che è stato sposato e viene portato avanti da tutte le società scientifiche italiane che si occupano di urologia. In pratica, è stato elaborato un algoritmo che prevede un utilizzo «razionale» del Psa, che tiene conto di diverse fasce d'età e dei fattori di rischio degli uomini. E, quando necessario, dopo la visita con esplorazione rettale e in presenza di un Psa sospetto, prevede la valutazione del Psa-density e della risonanza magnetica multiparametrica della prostata come passaggi successivi di approfondimento diagnostico, prima di arrivare a una biopsia». La densità del Psa mette in rapporto il valore del Psa con il volume prostatico: da prostate più «grandi» ci si aspetta una produzione maggiore (e dunque livelli più elevati) di Psa. La risonanza multiparametrica, inoltre, analizza tre parametri (densità, diffusione e vascolarizzazione) ed evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e al contempo rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale. «Bisogna che tutti gli uomini abbiano ben presente che valori elevati nell'esito del Psa (il test del sangue che misura l'antigene prostatico specifico) provano la presenza di un disturbo della ghiandola prostatica: può essere un'infiammazione (prostatite), un aumento del volume (ipertrofia), un'infezione o un tumore. Per questo, prima di allarmarsi e di decidere qualsiasi intervento bisogna valutare bene i risultati e procedere, se necessario, con altre indagini» chiarisce Giario Conti, primario di Urologia all'Ospedale S. Anna di Como e segretario della SIUrO. E anche quanto l'iter porta a una diagnosi di cancro, bisogna tener presente che fino a circa il 40 per cento dei casi di carcinoma prostatico corrisponde a tumori «potenzialmente insignificanti». Quindi, invece di trattarli ed esporre la persona alle conseguenze indesiderate che le tradizionali cure (chirurgia, radioterapia e brachiterapia) possono avere, vanno soltanto tenuti sotto osservazione. «La "sorveglianza attiva" è sicura ed efficace - conclude Conti. Il presupposto su cui si basa questa strategia è che l'evoluzione dei tumori a basso rischio sia così lenta (e solo locale, senza metastasi) da poter evitare o rinviare il trattamento e al tempo stesso mantenere la finestra di curabilità. Se la patologia cambia siamo in grado di interrompere il percorso osservazionale, intervenire tempestivamente e indirizzare il paziente al trattamento».

·        La Vulvodinia.

Vulvodinia, la malattia della fidanzata di Damiano dei Maneskin: ecco che cos'è. Le Iene News il 12 maggio 2021. L’identità della fidanzata di Damiano dei Maneskin sembra esser stata rivelata: è Giorgia Soleri, una modella e influencer di 25 anni che in passato aveva raccontato della sua malattia: la vulvodinia. Un tema di cui noi de Le Iene ci siamo occupati con Nina Palmieri: colpisce una donna su 7 e ha pesanti ripercussioni nella vita di tutti i giorni. La “malattia invisibile”: è spesso chiamata così la vulvodinia, che colpisce una donna su sette ma su cui purtroppo si sa e se ne parla ancora troppo poco. La notizia dell’identità della fidanzata di Damiano dei Maneskin, Giorgia Soleri, ha riportato la vulvodinia sotto i riflettori: la modella e influencer di 25 anni ne aveva parlato in passato sul suo profilo Instagram. Un tema di cui ancora oggi si parla troppo poco: noi de Le Iene ne avevamo parlato con la nostra Nina Palmieri, che aveva spiegato cos’è la vulvodinia e come impatta in modo devastante sulla vita delle donne che ne soffrono. Parliamo di una patologia che colpisce l’organo genitale femminile, dovuta alla crescita di piccole terminazioni nervose, in maniera disordinata, a livello vulvare. Ce l’aveva spiegata un medico, uno di quei pochi in Italia che la conoscono e se ne occupano: “Un nervo è un po’ come un cavo elettrico, deve portare un segnale, la corrente. Quando queste terminazioni perdono l’orientamento, te lo portano in maniera disordinata”. Le conseguenze, per chi è affetta da vulvodinia, sono davvero difficili da accettare, perché i nervi che impazziscono danno letteralmente la scossa e il dolore si manifesta in modo molto diversi da donna a donna. Come in Valentina, che a Nina Palmieri aveva spiegato: “Senti degli spilli conficcati dentro la carne, costantemente”.  “Senti bruciare le viscere proprio, perché ti coinvolge tutto proprio”, aveva aggiunto Rossella. “Sono stanca, stanca mentalmente di pensare a questa cosa. Dodici anni son lunghi, la vita di prima non me la ricordo più”. La patologia, che in pochissimi riescono a diagnosticare e a curare, richiede decine di medicinali assunti ogni giorno, che talora non riescono comunque a placare le sofferenze. Colpisce il 15% delle donne, una su 7. E il dolore porta con sé tutta una serie di quotidiane privazioni. Potete vedere il servizio di Nina Palmieri in testa a questo articolo.

«Ho la Vulvodinia e nessuno mi crede». Alessia Ferri l'1 luglio 2021 su Vaniyfair.it. La Vulvodinia è una malattia invalidante, che colpisce molte donne ma che spesso si perpetua in un tessuto sociale e medico che invece di supportarle le isola. Pochi, infatti, gli specialisti che ne riconoscono l’esistenza e sanno come intervenire. Ne abbiamo parlato con chi soffre ogni giorno e con chi prova ad aiutarle. «Al settimo mese di gravidanza ho iniziato a sentire scosse e dolori fortissimi, come se una miriade di aghi bollenti mi trafiggessero la vagina esternamente. Ogni giorno, costantemente, anche di notte, senza sosta». Comincia così, tutto d’un fiato, il racconto di Alice Cussotto, che un momento prima si godeva l’attesa di un bambino, e quello successivo veniva scaraventata in un incubo al quale solo mesi dopo avrebbe saputo dare un nome: Vulvodinia.

COS’È LA VULVODINIA

La Vulvodinia è una sindrome cronica dolorosa, che colpisce il 16% circa delle donne (incidenza sotto stimata perché spesso non si arriva alla diagnosi), ma della quale si sa ancora pochissimo. I sintomi, infatti, possono essere diversi e vanno dalle sensazioni simili a punture di spillo o abrasioni nella zona vulvare, al dolore durante i rapporti sessuali, fino a disfunzioni nella minzione, bruciore, irritazione, secchezza a livello vaginale, percezione di avere tagli sulla mucosa e molto altro. Le cause non sono ancora note. A volte tutto parte dall’infiammazione del nervo pudendo ma gli imputati possono essere anche traumi, predisposizione genetica o infezioni batteriche. Alice fino al giorno della comparsa dei dolori lancinanti non aveva avuto avvisaglie. «Stavo benissimo ed ero serena quando è iniziato il calvario. Ricordo di aver cambiato mille medici e tutti mi parlarono erroneamente di candida, curandomi di conseguenza e peggiorando la situazione. Alla fine sono giunta alla diagnosi ma essendo incinta non potevo fare nulla, quindi ho convissuto con il dolore fino al parto, un cesareo programmato perché la via naturale sarebbe stata impossibile da percorrere». Successivamente è iniziato un percorso di cura a quella che, nel suo caso, si è rivelata un’infezione del nervo pudendo dovuta a un tipo di papilloma virus. «A distanza di un anno posso dire di aver provato di tutto, dai farmaci a punture di cortisone e lidocaina in vagina, alla fisioterapia. Oggi la situazione è un po’ migliorata, anche se alterno giorni sopportabili ad altri in cui il dolore non mi fa alzare da letto. Se penso al futuro non ho certezze, né per quanto riguarda la guarigione né il resto della mia vita. Sono ancora in maternità ma dopo non so come farò, adesso non riuscirei a lavorare». Le manifestazioni della Vulvodinia sono molto diverse tra loro e non per tutte sono costanti nelle 24 ore, tuttavia si tratta quasi sempre di una patologia invalidante, come confermato da Bruna Orlandi. «Mi sono ammalata nel 2010, a 33 anni. Ho sempre urinato più della norma ma null’altro. Poi un giorno, dopo una visita medica di approfondimento ho iniziato a stare male. Nel mio caso l’inizio di tutto è stato qualcosa di meccanico che ha provocato una sorta di tilt al corpo e, che mi ha portato a fare pipì 60 o 70 volte al giorno, arrivando a produrne anche oltre 4 litri». A quel punto per lei, come per quasi tutte le donne accomunate dalla patologia, al calvario fisico si è aggiunto quello emotivo.

IL PROBLEMA DI NON ESSERE CREDUTE

«Andavo dai medici e non venivo creduta. Oltre al problema della minzione, per il quale mi dicevano di bere meno, e del bruciore costante, provavo anche dolore durante i rapporti sessuali. Uno specialista mi suggerì di cambiare compagno, un altro che avrei dovuto divertirmi a letto e non farmi venire queste paturnie. Come se fosse tutto riconducibile a quella sfera e, soprattutto, fosse colpa mia». Bruna, che oggi grazie alla cura giusta sta molto meglio, Alice e molte altre, hanno dovuto quindi fare i conti anche con la solitudine. «Il primo passo è convincere chiunque, anche i familiari spesso, che non sei fuori di testa», commenta Paola che, sulla vicenda, ha scritto anche un libro, Nonostante libera, un atto di denuncia verso l’immobilismo del sistema medico e il racconto del senso di vuoto nel quale versano le vittime di Vulvodinia.

VULVODIANIA ONLINE AIUTA LE DONNE A RICONOSCERE LA PATOLOGIA

A cercare di farle sentire meno sole e, soprattutto, ad informarle, è nato il progetto Vulvodinia Online, che attraverso una campagna di informazione si pone l’obiettivo di far conoscere questa patologia il più possibile e di creare una rete tra donne, medici e società. «Il ritardo diagnostico può fare molti danni perché se non si individua per tempo, la Vulvodinia si cronicizza. Chi ce l’ha ma ancora non lo sa, spesso passa le notti su Google a cercare risposte ai propri dubbi, quindi abbiamo creato un sito dove descriviamo i sintomi più comuni con parole semplici», spiega Paola Nicoli, una delle responsabili dell’iniziativa che si sviluppa anche su Facebook e alla quale collabora l’AIV, Associazione Italiana Vulvodinia Onlus. «Molti medici non sono solo impreparati, ma non credono proprio nella malattia, mentre noi siamo qui per dire che esista eccome. Fino a quando questo concetto non verrà chiarito, sarà impossibile anche far fronte a un altro problema: il fatto che la Vulvodinia non sia riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale, e che quindi ogni spesa per le cure sia a carico delle pazienti».

IL PROBLEMA DELLA MEDICINA DI GENERE

Il 7 aprile 2021 è stata depositata alla Camera dei Deputati la proposta di legge per riconoscere la vulvodinia come malattia invalidante, ma in attesa che ciò accada la lotta è anche di genere. Già perché dietro alla reticenza a parlarne nei termini appropriati c’è, come spesso accade quando si affronta il tema della salute femminile, l’ombra del patriarcato. Il primo errore è quello di associarla solo al dolore durante i rapporti sessuale, aspetto molto comune ma non sempre presente e unico. «Da lì si perpetua la visione maschilista secondo cui se un problema in ambito sessuale femminile non abbia a che fare con la riproduzione sia secondario. Si tratta di un fattore culturale che sia la società civile sia la classe medica si trascina da anni. La sessualità delle donne è sempre stata poco indagata, basti pensare che il funzionamento della clitoride è studiato nel dettaglio da pochi decenni e che per anni si sia parlato di Isteria. Non è esagerato pensare che se la stessa malattia, a specchio, avesse colpito gli uomini, forse una soluzione ci sarebbe già o l’impegno nel trovarla sarebbe maggiore. Le medicina di genere è una questione enorme e il modo in cui la Vulvodinia viene trattata ne è un chiaro esempio», conclude Paola Nicoli.

·        La Cistite interstiziale.

Cistite interstiziale cronica, che cos'è la malattia di Francesca Neri. Elvira Naselli su La Repubblica il 29 settembre 2021. Problemi urinari e sessuali ma soprattutto dolore, un dolore intenso che rischia di cronicizzarsi se non si arriva a una diagnosi precoce che evita la progressione della malattia. Sintomi e terapie di una rara patologia femminile. Una malattia fortemente invalidante, la cui connotazione principale è il dolore cronico. Un dolore pelvico intenso, che si accompagna ad alterazioni delle funzioni urinarie, spesso anche a quelle intestinali, e rende difficili i rapporti sessuali. Una malattia rara - la cistite interstiziale cronica - e se ne parla perché l'attrice Francesca Neri ha raccontato di soffrirne da anni, e della convivenza difficile con questa malattia che colpisce prevalentemente le donne, in un rapporto di 7 a 1.

Cos’è la cistite interstiziale cronica: sintomi e possibili terapie. Daniela Natali su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021.  La malattia raccontata da Francesca Neri nel libro «Come carne viva» ha gli stessi sintomi della classica cistite, ma non si rilevano segni di infezione urinaria. La terapia è incerta: convivere con la patologia richiede molti accorgimenti nella dieta e non solo. L’attrice Francesca Neri ha recentemente dichiarato — e raccontato in un libro autobiografico Come carne viva — di soffrire di cistite interstiziale, una malattia invalidante, dolorosa e cronica, dalle cause non chiare, e dalla terapia incerta. Ma che cos’è esattamente questa patologia e che cosa la differenzia dalla cistite “comune”? I sintomi sono gli stessi della “classica” cistite: bisogno continuo di urinare, bruciore, dolori pelvici, ma al contrario di quanto accade nella forma “comune, non ci sono segni di infezione urinaria, le analisi microbiologiche risultano infatti negative e gli antibiotici non fanno effetto.

Infiammazione cronica

La patologia , fortunatamente rara, ancora più negli uomini, può colpire persone di qualsiasi età o sesso. Tuttavia, si manifesta con maggior frequenza nelle donne, di età compresa tra i 20 e i 50 anni. All’origine dell’infiammazione c’è un’alterazione della parete vescicale, ma le cause di questa infiammazione non sono note anche se si pensa a origini infettive (sconosciute e non rilevabili), piuttosto che ormonali, vascolari, neurologiche o alle conseguenze di una patologia immunitaria. Nelle donne la cistite interstiziale è spesso associata a dolori vaginali, tali da impedire rapporti sessuali. Gli uomini possono invece soffrire di dolore ai testicoli, allo scroto ed al perineo e avere eiaculazioni dolorose. Spesso i malati riferiscono di essere anche colpiti emicrania, dolori muscolari e articolari, problemi gastrointestinali e allergie.

La diagnosi

«La diagnosi, non è affatto facile ed è essenzialmente clinica —spiega Giario Conti, primario di Urologia all’ospedale Sant’Anna di Como— Si procede per esclusione, partendo dalla descrizione dei sintomi per poi passare agli esami delle urine (per escludere la presenza di infezioni da batteri) , a un’ecografia dell’apparato urinario e poi alla cistoscopia e alla biopsia delle parete vescicale. La comparsa sulle mucose vescicali di lesioni, chiamate ulcere di Hunner, è un chiaro indizio di cistite interstiziale anche se non sempre sono presenti»

I possibili interventi

Purtroppo non ci sono cure definitive, come racconta Francesca Neri bisogna imparare a convivere con la malattia, cercando di ridurre quelle che potrebbero essere le cause scatenanti tra cui alcuni cibi, come quelli piccanti o speziati, e gli alcolici. Meglio dimenticare anche il fumo. Tutti elementi che contribuiscono ad irritare vescica. La riduzione dello stress e il rafforzamento dei muscoli del pavimento pelvico possono contribuire al miglioramento della sintomatologia. «In alcuni casi —aggiunge Conti- si utilizza anche la tossina botulinica per ridurre gli spasmi vescicali e il bisogno di urinare. E in altri si può pensare alla “neuromodulazione”che si usa nei casi di vescica iperattiva. Sul fronte farmacologico si può intervenire , per esempio, con instillazioni di pentosano polisolfato sodico che aiuta a ristabilire il rivestimento protettivo superficiale della vescica, con integratori che contrastano i processi neuro-infiammatori dolorosi, oltre che, in linea generale, con antidolorifici, anti-infiammatori e anche antidepressivi. In casi molti gravi e refrattari a qualsiasi terapia si può pensare anche alla chirurgia che spesso comporta la rimozione della vescica e la sua sostituzione con un ansa intestinale che viene aperta e rimodellata e messa nello stesso posto della vescica Si ottengono buoni risultati funzionale senza sacchetti esterni».

Cistite interstiziale, ecco la malattia che ha colpito Francesca Neri. Chiara Console il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Più comune nelle donne che negli uomini, questa patologia può rivelarsi estremamente dolorosa. A parlarne recentemente è stata Francesca Neri, la quale ha spiegato come la malattia abbia condizionato fortemente la sua vita privata e lavorativa. Ne ha parlato Francesca Neri, nota attrice e produttrice cinematografica, che ha raccontato come il dolore l’avrebbe spinta ad accarezzare l’idea del suicidio. Stiamo parlando della cistite interstiziale, dolorosa patologia che colpisce l’apparato urinario indebolendo le pareti della vescica.

Con l’assottigliamento della membrana, alcuni composti irritanti contenuti nell’urina riescono a provocare irritazioni anche gravi, fino a dare vita a processi infiammatori che tendono a cronicizzare. Più frequente nella popolazione femminile che in quella maschile, può influire non solo sullo stato generale di salute ma anche su quello psicologico, conducendo a stati d’ansia e depressivi.

Cistite intersiziale, quei sintomi che fanno male. Come accade con la cistite batterica, il primo sintomo che compare è quello della minzione dolorosa, associata a uno stimolo frequente. Secondo la scienza, le cause della sua comparsa non prevedono la presenza di batteri; per questo motivo si escludono terapie a base di antibiotici, visto che si renderebbero completamente inutili alla risoluzione del problema.

Cistite, state attente ai sintomi. Il dolore, nella maggior parte dei casi, può indebolire particolarmente il fisico di chi soffre di cistite interstiziale; anche la psiche ne esce provata: la natura cronica pesa sulla quotidianità, sul lavoro e la vita sessuale. Nelle donne è spesso associata a fibromialgia, sindrome del colon irritabile o vestibolite vulvare mentre, negli uomini, il dolore si concentra nei testicoli e allo scroto, coinvolgendo anche pube, perineo e la fase dell’eiaculazione che può causare dolore.

Cistite interstiziale, come viene diagnosticata. Viste le similitudini con la più comune cistite, diagnosticare questa particolare malattia non sempre è semplice. A volte si procede per tentativi, escludendo quelle con le quali potrebbe confondersi a causa dei sintomi condivisi. Tra questi vi sono esami delle urine, tra cui l'urinocoltura, ed ecografie dell’intero apparato urinario. Più mirati, invece, sono gli esami che individuano la presenza di ulcere ed emorragie puntiformi, come l'uretrocistoscopia sotto anestesia generale, previa distensione della vescica, funzionale anche nella diminuzione della sintomatologia dolorosa. Per escludere l’eventuale presenza di degenerazioni più gravi, è possibile sottoporre i pazienti all’esame istologico. In questo modo è possibile anche determinare la progressione dell’infiammazione della parete interna della vescica, prelevandone un frammento e analizzandolo accuratamente attraverso metodologie di osservazione mirata.

Cistite interstiziale, come trattarla. Patologia piuttosto tenace, i trattamenti per eliminare la cistite interstiziale agiscono su diversi fronti, curando l’infiammazione e al contempo limitando i sintomi. Tra i farmaci più utilizzati vi sono quelli somministrati per via orale, capaci di agire direttamente sulla mucosa vescicale danneggiata. A questi, poi, si aggiungono anche antinfiammatori e analgesici per combattere il dolore, oltre ad antidepressivi per il benessere mentale del paziente. Alle terapie orali si sommano spesso quelle endovescicali, capaci di diminuire l’intensità dell’algia; le più usate sono soluzioni di glicosaminoglicani, a base di acido ialuronico o condroitinsolfato. Per assegnare una terapia adeguata, i medici sottolineano l’importanza di una diagnosi precoce; solo così è possibile agire rapidamente sulla cistite interstiziale ed evitare danni irreversibili alla mucosa presente sulle pareti della vescica. Non è da sottovalutare, poi, la dieta. Importante è tenere lontano alimenti speziati o ricchi di potassio, colpevoli di influire sull'irritazione già presente. Anche fumo e alcol vanno messi al bando. Per allentare lo stress è corretto fare affidamento a esercizi di rilassamento oltre che di rafforzamento della muscolatura pelvica, tra cui gli esercizi di Kegel; mantenere un giusto equilibrio psicofisico, infatti, aiuta a concentrarsi sulla ricerca di una positività mentale, evitando che i pensieri negativi possano rendere più difficoltosa la convivenza con la malattia. Chiara Console

·        L’Afonia.

Afonia, che cos'è e come curarla in modo naturale. L’afonia è un disturbo della voce che provoca nei casi gravi la perdita totale di essa. È provocata da infiammazioni a livello respiratorio, oltre che da ansia e nervosismo. Mariangela Cutrone, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale.  L'afonia è un disturbo della voce. Si verifica maggiormente in coloro che utilizzano la voce a livello professionale e come principale mezzo di comunicazione. Tra di essi figurano insegnanti, giornalisti, operatori di call center, cantanti, attori, conduttori tv e radio. A causa dell’afonia si verifica una perdita graduale della voce, sino a diventare totale nei casi più gravi. Se la perdita della voce è di tipo parziale e si ha solo difficoltà ad emettere i suoni corretti associati a determinate parole, si parla di disfonia. Il problema, anche in questo caso, è da rintracciare nelle corde vocali che hanno difficoltà a vibrare quando l’aria che soffia nei polmoni le raggiunge per emettere il suono corretto. I sintomi più comuni sono mal di gola, raucedine e perdita della voce.

Da che cosa è provocata l’afonia. Le cause di questo disturbo possono essere molteplici e legate a differenti fattori. Solitamente, il problema è provocato da disturbi di tipo respiratorio. La perdita della voce si presenta soprattutto quando ci si trova di fronte a infiammazioni a carico della laringe o delle tonsille, provocate da malanni stagionali come influenza, raffreddore e mal di gola. Anche alcune disfunzioni della tiroide possono predisporre il soggetto a perdere la voce. Questo problema è frequente in chi riscontra il gozzo voluminoso, il quale provoca una vera e propria alterazione della tonalità della voce. Esiste anche una forma di afonia legata a fattori psicologici che prende il nome di afonia psicogena. Le cause di questa forma molto frequente tra i professionisti della comunicazione sono l’ansia e il nervosismo. Anche un abuso di alcol e fumo può provocare una voce roca che tende gradualmente ad esaurirsi del tutto. Gli esperti, inoltre, segnalano che anche l’uso improprio della voce può essere una delle cause più frequenti. Infatti ci sono insegnanti o venditori che tendono a sforzare troppo le corde vocali, spingendo troppo la voce. Come curare l’afonia con i rimedi naturali. Quando si perde la voce, gli esperti consigliano di stare a riposo cercando di usare la voce il meno possibile. Solo così è possibile calmare gradualmente ed efficacemente l’infiammazione alla base del problema. Durante questo periodo di riposo, la gola va coperta proprio per non essere esposta agli sbalzi termici. Per calmare l’infiammazione si possono fare dei gargarismi con una soluzione salina e sciacquare con un mix di succo di limone e aceto. Utili sono anche i gargarismi con acqua e bicarbonato. Tra i rimedi omeopatici per far tornare la voce vi sono le gocce a base di una pianta chiamata erismo, nota come l’erba dei cantanti. Invece tra i rimedi della nonna vi sono i bastoncini di liquirizia, in grado di dare sollievo. Se il problema non è in uno stadio avanzato, nel giro di tre o quattro giorno tutto dovrebbe ritornare alla normalità. Anche un’alimentazione sana potrebbe aiutare a contrastare il problema. Tra gli alimenti più indicati vi sono il miele, la cipolla e l’aglio. Via libera anche all’assunzione di frutta e verdura ricca di betacarotene e dall’azione altamente idratante come albicocche, meloni, carote e patate dolci. Da evitare, invece, sono i latticini, il caffè, il cioccolato, gli agrumi, i cibi piccanti e le bevande gassate e alcoliche che potrebbero risultare disidratanti e peggiorare la situazione.

·        La Ludopatia.

Virus dell'azzardo online, giovani sempre più a rischio: al giorno giocano fino a 1000 euro. Tra siti legali e illegali, slot e casino sbarcano anche su Twitch. Il nuovo studio dell’Iss mostra che i ragazzi hanno aumentato il tempo di gioco durante la pandemia. La psicoterapeuta Maria Pontillo: «Il 34% degli under 18 lo pratica quotidianamente. La fascia più critica tra i 12 e 18 anni». Giulia Ferri su L'Espresso il 02 febbraio 2021. Kakegurui è un termine giapponese traducibile come “pazzia per il gioco”. È anche il titolo di un manga, trasposto in anime e film e trasmesso da Netflix, che spopola tra gli adolescenti, in cui si raccontano le vicende di una scuola la cui attività principale è il gioco d’azzardo. Se il manga nasce per trattare un problema molto diffuso in Giappone, da qualche anno il fenomeno sta prendendo contorni sempre più reali anche in Italia, dove sono sempre più numerosi i giovani che si avvicinano al gioco d’azzardo, facilitati dall’ampia gamma di giochi disponibili online. Nell’ultimo anno il mercato del gioco online è cresciuto almeno del 25%, proseguendo un trend in aumento dal 2015. Nei primi dieci mesi del 2020, si è registrato un +39% dei casinò online rispetto allo stesso periodo del 2019, con incassi ormai prossimi al miliardo di euro. Entrate quasi raddoppiate anche per il poker, che ha raggiunto i 100 milioni di euro. Ancora, le scommesse sportive online hanno incassato 997 milioni nel 2020, con un aumento del 37.5%, dato ancor più impressionante visto che i principali eventi sportivi sono stati sospesi durante la prima fase della pandemia. Il rischio di questa corsa è che continui a crescere la popolazione patologica e che aumenti il coinvolgimento di chi si trova più a suo agio con le nuove tecnologie: giovani e adolescenti. Soprattutto se si considera che la maggior parte dei dipendenti da gioco d’azzardo sono patologici già appena maggiorenni e che per uscirne serve un lungo percorso. «Bene o male il gioco è stato sempre presente nella mia vita, ma quando ho iniziato a nascondermi dai miei genitori per giocare ho capito che la cosa mi era sfuggita di mano. Poco più che ventenne ero già dipendente. Giocavo prima 50, poi 100, poi fino a 1000 euro al giorno», racconta Antonio, (nome di fantasia), da tre anni nei Giocatori Anonimi. «Da lì il tunnel: la mattina mi svegliavo e la prima cosa che pensavo era iniziare a giocare. Passavo giornate intere a giocare. Poi ho finito tutte le mie risorse economiche e lì il giocatore diventa un attore: mi sono inventato di tutto per recuperare soldi, intanto mi facevo debiti su debiti. Arrivavo la sera schifato da quello che avevo fatto, ma il giocatore patologico non accetta mai di esserlo». Per questo sono passati anni prima di arrivare al limite e decidere di confessare tutto alla famiglia e all’ormai ex fidanzata. «Anche quando mi hanno aperto gli occhi non lo accettavo, “smetto quando voglio” mi dicevo, ma da soli è impossibile. Inizialmente provavo vergogna, ma nel giro di pochissimo il gruppo mi ha fatto sentire a mio agio ed è iniziato il mio percorso di recupero. Con l’aiuto della mia famiglia sto finendo di pagare i debiti. Non ho mai più giocato», conclude. Il disturbo da gioco d’azzardo rientra tra le dipendenze del nuovo millennio, quelle comportamentali. Chi ne è affetto prova un desiderio incontrollabile di giocare, soffre l’astinenza, prova assuefazione e sperimenta il gambling, sovrastimando le proprie capacità di calcolare le probabilità di vittoria e sottostimando la perdita economica. Per il Ministero della salute sono oltre 1 milione e 500mila i giocatori problematici adulti e, nonostante i divieti, quasi 150mila i minori. Le associazioni che monitorano i disturbi legati al gioco, come Alea, AND -Azzardo e Nuove Dipendenze o Vinciamo il gioco, specificano che durante il lockdown non c’è stato uno spostamento verso l’online dei giocatori abituati a recarsi nelle sale, che anzi hanno beneficiato della chiusura dei più di 250mila punti di gioco. Ma certamente c’è stato un aumento dell’attività di chi già giocava sui siti. E tra loro ci sono soprattutto giovani. Ad esempio, dai test effettuati tra giugno e novembre 2020 attraverso il sito dell’associazione Vinciamo il gioco, risulta che il 27% delle persone problematiche o patologiche è sotto i 25 anni e che il 68% di loro arriva a giocare tra i 100 e i 1000 euro al giorno. I risultati di una ricerca  condotta dall’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Istituto Mario Negri, l’Università di Pavia, il San Raffaele di Milano e l’Ispro, mostrano un significativo aumento della frequenza e dell’intensità di gioco nella parte più giovane della popolazione. Come spiega la dottoressa Roberta Pacifici dell’ISS, secondo lo studio, condotto su 6mila persone, risulta che, durante il primo lockdown, è scesa la percentuale di chi giocava su internet, dal 10% all’8%, ma che è poi risalita e ha superato la percentuale prepandemia, arrivando al 13% nella seconda fase dello studio, tra novembre e dicembre 2020. Dalla ricerca emerge che per i giovani (18-25 anni) il tempo dedicato al gioco, soprattutto scommesse sportive, gratta e vinci e slot online, è in media aumentato di un’ora al giorno. «La dipendenza dal gioco d’azzardo è una realtà anche tra i giovanissimi: il 34% degli under 18 lo pratica quotidianamente e la fascia che sembra essere più critica è quella tra i 12 e 18 anni», afferma la dottoressa Maria Pontillo, psicoterapeuta del servizio di Neuropsichiatria per l’infanzia e l’adolescenza del Bambin Gesù di Roma, che racconta: «Negli ultimi mesi c’è stato un aumento delle richieste d’aiuto: sono arrivate segnalazioni da parte di genitori che si accorgevano che i propri figli rubavano soldi in casa o si appropriavano di nascosto delle carte di credito per scommettere online». L’adolescente infatti non è consapevole della gravità del meccanismo in cui si trova, per cui sono gli adulti a dover cogliere i segnali di allarme e contattare servizi che possono fornire assistenza, come la mail dedicata del servizio “Io gioco” del Bambin Gesù. Come spiega la dottoressa Pontillo, il ragazzo dipendente non è in grado di limitare il tempo che dedica al gioco e va incontro a una serie di problematiche patologiche correlate: è ansioso, irritabile, il suo umore è completamente in balia dell’esito delle scommesse. In più, spesso, al gioco si associa il disturbo del sonno, perché, per non farsi notare dai genitori, i ragazzini passano le notti chiusi nelle camerette a giocare, invertendo il ritmo sonno veglia e arrivando anche a rifiutarsi di seguire le lezioni online al mattino. «Quello che stiamo vedendo è che nel momento in cui gli stimoli sociali, affettivi e cognitivi, così come il contatto fisico con i coetanei vengono meno, si verifica un aumento della ricerca di nuovi stimoli online e aderenza ai siti di gioco», commenta la psicoterapeuta. I ragazzi infatti iniziano a giocare o per emulazione o per la tendenza alla “sensation seeking”, la ricerca di sensazioni tipica dell’adolescenza, per cui si ha l’impulso di voler provare nuove e forti esperienze emotive senza però essere consapevoli dei rischi connessi. «La pandemia non è l’unica causa, ma sicuramente l’esposizione allo stress causato da essa e la carenza di stimoli esterni ha predisposto i ragazzi a cercare in internet una forma di gratificazione e il gioco d’azzardo può rappresentarlo», chiarisce la dottoressa. In più la dipendenza da internet e la diffusione dei giochi pay to win, che secondo lo studio dell’ISS sono stati usati dal 39% degli under 34, possono facilmente aprire le porte al mondo dell’azzardo. La dottoressa Pontillo riferisce che nell’ultimo anno è aumentato a dismisura il tempo che gli adolescenti dedicano all’uso dei dispositivi elettronici. Nel 67% dei casi più di 4 ore al giorno, ma c’è un 20% che passa più di 6 ore al giorno davanti a pc, tablet e smartphone. «Questo è un fattore di rischio: sia perché è dimostrato che chi ha una dipendenza è più predisposto a svilupparne altre, sia perché passare molto tempo su internet facilita il contatto con i siti che propongono gioco d’azzardo», conclude. E l’offerta di questi siti è sempre più diversificata, tanto quella legale quanto quella illegale, promossa, nonostante il divieto di pubblicità in vigore da luglio 2019, sia sui canali sportivi sia sui nuovi media. Su Twitch, la piattaforma di Amazon che trasmette contenuti live, solitamente videogiochi ed e-sports, sono in aumento i canali di micro influencer poco più che adolescenti che si filmano e interagiscono con la chat mentre giocano d’azzardo. Il fenomeno era praticamente inesistente prima di marzo, mentre ora ha preso piede soprattutto in Italia: l’italiano è la lingua più parlata sulle chat di Virtual casinò e i canali italiani sono stati seguiti per 779mila ore nell’ultimo mese. Sono almeno una ventina i canali italiani seguiti da centinaia di migliaia di adolescenti che, a tutte le ore del giorno e della notte, guardano loro coetanei giocare a slot, poker o black jack. C’è poi l’universo dei siti illegali che spuntano in rete, senza regolari licenze, e che oltre a violare le norme sulla pubblicità, promettono vincite più facili o richiedono meno controlli per l’iscrizione. Quasi sempre sono truffe. Se è vero che lo Stato ne ha chiusi almeno 262 tra marzo e novembre 2020, è altrettanto vero che queste operazioni rischiano di risultare vanificate dal fatto che spesso i siti possono solo essere resi irraggiungibili agli utenti, ma non definitivamente chiusi perché ospitati su server esteri. La D.I.A nella sua ultima relazione semestrale aveva evidenziato come la criminalità organizzata stesse sempre più investendo in questo settore, anche con siti per il gioco e le scommesse i cui server sono posti in Paesi off-shore. La relazione sottolinea però infiltrazioni anche nel gioco fisico e denuncia una sorta di cortocircuito “dai drammatici risvolti sociali: le mafie approfittano dei giocatori affetti da ludopatia, concedendo loro prestiti a tassi usurari”. Si genera così un circolo vizioso, in cui alla dipendenza dal gioco si somma la “dipendenza” economica dai clan”. Tutta questa giostra ha gravi conseguenze sociali e incide sulla salute delle persone. Per questo è necessario predisporre reti di controllo sempre più efficaci e precoci e a tal fine sarebbe utile avere dati precisi sui giocatori. Di qui la denuncia di Maurizio Fiasco: «I dati ci sono, ma al momento non sono disponibili alle autorità sanitarie e questo è un vulnus democratico serio: informazioni che potrebbero essere usate per fini sanitari servono invece per creare prodotti sempre più performanti a beneficio di entità private della filiera del gioco e non dei cittadini».

Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 24 gennaio 2021. Giovanissimi giocatori e mature donne in cerca di fortunati e rapidi guadagni crescono. Dalle slot machine alle scommesse online: la pandemia ha fatto registrare in generale un aumento di giocate pari al 29% rispetto all' anno precedente. Tra i nuovi patiti dell' azzardo ci sono i ventenni che, costretti a stare in casa e invogliati a iniziare con un credito offerto per innescare la spirale senza fine della ludopatia, hanno maturato come passatempo la febbre del gioco online. E qui la tecnologia aiuta: basta uno smartphone tra le mani, o un click al joystick del proprio computer, per crearsi una comoda sala giochi virtuale in casa. Ma ad ingrossare le fila del popolo dei ludopatici (1,5 milioni secondo l' Istituto superiore di sanità i "giocatori problematici") sono soprattutto le donne. Giovani, ma anche mogli, madri o pensionate over 70. Iniziano quasi tutte con un "gratta e vinci" acquistato al Tabacchi e finiscono col perdere ore e fortune davanti a una slot machine piazzata nel bar o nella sala giochi più lontana da casa. «Ci sono donne che dopo aver perso tutto si prostituiscono per poter continuare a giocare», confida Francesco, 72 anni, di Milano, tra i responsabili dell' associazione "Giocatori anonimi italiani" (la mail è info@giocatorianonimi.org, tel. 331.271215) che ha sotto l' ala 1.500 vittime del gioco, da sette anni guarito lui stesso dalla ludopatia. «Ma anche uomini, pronti a far sesso con altri uomini. Purtroppo col Covid sono aumentate le richieste di aiuto al nostro centralino da parte dei giocatori che hanno ricadute, oppure di nuove vittime che nella chiusura forzata peggiorano e prendono coscienza di essere entrate nella spirale infernale dell' azzardo».

INCONTRI VIA SKYPE. L' associazione, che conta una cinquantina di volontari distribuiti nelle grandi città del nord e del sud (quasi tutti ex ludopatici), prima della pandemia organizzava settimanalmente incontri serali con gruppi che si riunivano nelle cosiddette "stanze di mutuo aiuto", ospitate per lo più da disponibili parroci nelle diverse chiese di tutta Italia. «Visto che il fenomeno è in crescita esponenziale in questi mesi di lockdown, abbiamo creato "stanze telefoniche" con gruppi anche di 25 persone che si vedono o sentono via Skype o su altre piattaforme internet», aggiunge Francesco, ex scommettitore di cavalli. «I gruppi, formati da uomini e da donne vittime della ludopatia, servono. Parlare liberamente, ascoltare le storie di chi sta vivendo il tuo dramma e che quindi parla la tua lingua, è una cura. Meglio ancora se si è affiancati dalla psicoanalisi». E prima di lasciarci, Francesco confida: «In questi anni di opera prestata all' associazione ne ho viste e sentite di tutte. Come quell' imprenditore lombardo che man mano ha perso l' azienda e lasciato a casa i suoi dipendenti, poi la famiglia e tutti i suoi appartamenti, per finire un brutto giorno svenuto per fame e freddo in un parco pubblico. Si è ripreso, grazie alla moglie che è rimasta a lui vicina nonostante la conclamata povertà. Ho visto persone che non ce l' hanno fatta a superare la ludopatia e si sono tolte la vita, altre che hanno chiesto aiuto e si sono salvate dopo essere cadute nel baratro. Una cosa è certa: la ludopatia è un dramma, una malattia, una droga e da soli non se ne esce». Quello della dipendenza da azzardo è un fenomeno tutt' altro che marginale, visti i numeri presentati lo scorso anno dall' Osservatorio nazionale in Parlamento, se solo si pensa che in Italia si stimano 8/10 milioni di giocatori. Una curiosità: le regioni con la più alta vocazione al gioco sono l' Abruzzo, dove la media pro-capite per puntate è di 1.770 euro. Seguono Lombardia (1.725), Campania (1.611), Emilia-Romagna (1.607), Lazio (1542) e in fondo alla lista c' è la Valle d' Aosta con 879. Pavia è stata per anni la città con la più alta percentuale di giocatori.

LE SLOT DILAGANO. Il fenomeno più dilagante è quello dello slot machine. Molti iniziano mettendo un euro dato di resto dal barista mentre bevono un caffè al volo, e finiscono per passare ore a sfidare la sorte buttando via fino a duemila euro al giorno. «Io sono stata una giocatrice compulsiva parecchi anni fa. Oggi sono quindici anni che frequento l' associazione G.A (Giocatori anonimi, ndr). Non dico che sono uscita, sono sempre sotto controllo. Da questa malattia non si guarisce mai, ma si può imparare a fermarsi». Così la pensa Anna, 73 anni, milanese. «Mi spinse mio marito, imprenditore che mi ha lasciato alcuni anni fa, a frequentare l' associazione. Mi diceva che ero malata, ma io non me ne rendevo conto - aggiunge -. Mi dicevo: "smetto quando voglio", invece non si smette mai, anzi». Anna nel 1974 è stata la prima donna driver a scendere in pista a San Siro. «Lì ho iniziato a scommettere ai cavalli, lì mi sono ammalata. Non mi sono più fermata. Mi sono giocata la mia scuderia e tutti i cavalli, persino la mia piscina. Mi sono trovata senza nulla. Dopo i cavalli infatti sono passata alle slot. Quegli apparecchi ti mandano in pappa il cervello. Sarà la musichetta, i colori, il video Non ti rendi conto del tempo che passi, non mangiavo nemmeno più. Quanti soldi mi sono giocata? Talmente tanti che non so dire». L' ultimo bilancio ufficiale sul gioco d' azzardo, stilato nel settembre 2020 dall' Agenzia delle Dogane e del Monopoli, segnala un volume di raccolta su rete fisica (no online) pari a 74,1 miliardi di euro, per una raccolta procapite pari a 2.180 euro. Slot machine e videolottery si confermano i più utilizzati (46,7 miliardi nel 2019), inglobando il 63% delle giocate complessive su rete fisica. Va detto che questi apparecchi da intrattenimento, soggetti a continue tassazioni da parte dello Stato, forniscono i due terzi del gettito erariale. Intanto prosegue inarrestabile la crescita della raccolta online: nel 2019 è stata pari a 36,4 miliardi di euro (+16% rispetto al 2019), un terzo delle giocate complessive in Italia. «La mia vita era finita, ho tentato un paio di volte di morire, ero diventata uno zombie» racconta Lucia, 57 anni, operatrice sanitaria romana, dipendente in una Rsa. «Sono finita in strada, dormivo in auto con le mie cose negli scatoloni perché spendevo tutto e non potevo più pagare l' affitto, ero piena di debiti fatti con le finanziarie per poter giocare. Poker, slot, ero malata di tutto. L' ultima volta che ho giocato, esattamente 5 anni e 8 mesi e 19 giorni fa, ero alla slot e avevo appena preso lo stipendio di 1400 euro. Ne avevo vinti 500 e alla fine in un' ora ho perso tutto, non avevo più un euro per prendermi un caffè. Da lì ho chiesto aiuto a un' amica che mi ha introdotto nell' associazione giocatori anonimi e grazie a loro ne sono uscita. Oggi lavoro e sto ancora pagando i debiti accumulati, ma sono una donna libera, capace di vivere. Sono una giocatrice compulsiva: sono uscita dal tunnel quando ne ho preso atto».

BINGO FATALE. Cristina di Ravenna, casalinga over 50, era invece una patita del Bingo. «Ho iniziato a 40 anni, in concomitanza con le prime crepe del mio matrimonio. Pensavo fosse un passatempo per starmene fuori casa la sera, il Bingo mi sembrava un gioco innocente. Mi sono trovata ad esserne schiava. Ricordo l' euforia della prima vincita, 500 euro. Li portai a casa con molto orgoglio, ma quello fu l' inizio della fine. La mia dipendenza è durata dieci anni, mi sono giocata molto, decine di migliaia di euro. Mi sono giocata anche il mio matrimonio. Quando ho iniziato a chiedere prestiti a un fondo finanziario, è subentrata per me la vergogna e la presa di coscienza della mia malattia». Prosegue Cristina: «Una donna che gioca mette in discussione il suo ruolo, sei anche un esempio cattivo di madre. Quando ne ho preso atto ho chiesto aiuto all' associazione. Non ho più giocato neppure un centesimo. E posso dire una cosa banale? Ora che non gioco sono una donna felice».

·        La sindrome metabolica. 

Elena Meli per "corriere.it" il 14 marzo 2021. Basterebbe un metro da sarta. Misurarsi il girovita è facilissimo e tutti dovremmo farlo, perché il risultato parla della nostra salute, presente e futura, più di tanti altri test complicati o dispendiosi: una circonferenza addominale abbondante, infatti, è il primo e più importante indizio della sindrome metabolica. Se ne parla poco, per anni c’è stata pure discussione se fosse da considerarsi una malattia: oggi però c’è finalmente consenso sulla sua definizione e soprattutto accordo sulle gravi responsabilità di questo mix esplosivo di fattori di rischio alterati. La sindrome infatti è una condizione complessa, in cui non solo uno, ma diversi parametri metabolici sono sballati: la glicemia, i trigliceridi e la pressione sono più alti del normale, il colesterolo buono è troppo basso, il girovita è largo. Proprio l’obesità viscerale, quindi la circonferenza addominale, è l’elemento cardine, oltre che l’unico chiaramente visibile mentre gli altri vanno cercati con le analisi del sangue o la misurazione della pressione. Di solito infatti la sindrome metabolica inizia in sordina, con uno solo dei parametri di rischio che peggiora senza che ce ne accorgiamo; poi si aggiungono gli altri, ma l’unico segno esterno è appunto la «pancetta».

Infiammazione. Come spiega Agostino Consoli, presidente della Società Italiana di Diabetologia, «Pare proprio che a scatenare la sindrome sia l’accumulo di grasso dove non deve stare, ovvero attorno agli organi interni come fegato, pancreas, intestino: il tessuto adiposo viscerale infatti produce sostanze pro-infiammatorie che a loro volta richiamano cellule infiammatorie. Il risultato è il cosiddetto inflammosoma, un mix di cellule e molecole che portano a un’infiammazione di basso grado ma cronica, negativa per i vasi sanguigni (nei quali favorisce l’aterosclerosi, ndr) e per il pancreas, che diventa meno capace di produrre l’insulina, l’ormone necessario a gestire il glucosio in circolo. L’infiammazione inoltre peggiora o scatena la resistenza all’insulina: i tessuti e le cellule rispondono meno all’ormone, aprendo la strada all’incremento della glicemia e in ultima analisi allo sviluppo del diabete di tipo 2. Tutto nasce dall’obesità centrale, perciò misurare il girovita è il modo più veloce ed economico per capire se ci stiamo avviando sulla strada della sindrome metabolica».

Donne e falsi magri. La pancetta tende ad accumularsi con gli anni e nelle donne compare spesso con la menopausa, anche in chi ha sempre avuto il girovita sottile: gli estrogeni infatti aiutano a depositare il grasso in eccesso sui fianchi, dove non fa male, ma quando iniziano a scarseggiare l’adipe finisce sulla pancia e si tende alla pericolosa forma «a mela». Da tutto ciò deriva che pesarsi non basta: l’indice di massa corporea che si usa comunemente per sapere se si è sovrappeso, ottenuto dividendo il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri, non dice molto su dove sia il grasso. Perché pure i falsi magri, con gambe sottili e pancia abbondante, rischiano la sindrome metabolica e le sue tante conseguenze negative, come sottolinea Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia: «La sindrome è la confluenza non casuale di diversi fattori di rischio cardiovascolare, che manifestandosi contemporaneamente si associano a una maggior probabilità di diabete, ma soprattutto di infarti e ictus: il pericolo è doppio rispetto a chi non ha la sindrome, perché i vari elementi che la compongono favoriscono la formazione di placche aterosclerotiche e ne facilitano anche l’instabilità, quindi il distacco di trombi».

Rischi connessi. La sindrome metabolica predispone anche ad alcuni tumori fra cui mammella, prostata, ovaio, pancreas, fegato e rene; è stata associata a malattie come la sindrome dell’ovaio policistico e alla demenza; in più anche il fegato ne risente, perché oltre a dover far fronte a un eccesso di grassi e zucchero dalla dieta riceve tante molecole infiammatorie dall’adipe viscerale, che non riesce a gestire in maniera efficiente. Perde così la sua capacità di regolatore metabolico, accumula esso stesso grasso e si sviluppa la steatosi, il fegato grasso che è l’espressione epatica della sindrome metabolica; tutto questo innesca un circolo vizioso che perpetua la sindrome e ne amplifica le ripercussioni negative su tutto l’organismo. La sindrome metabolica insomma è una mina vagante, soprattutto considerando che nel mondo occidentale «Si stima ne soffra più del 35 per cento degli ultracinquantenni, con una maggior prevalenza fra le donne», precisa Indolfi. «L’obesità è in aumento, il diabete pure e quindi lo è anche la sindrome metabolica: conoscerla e combatterla è perciò indispensabile.

Prevenzione. L’intervento più efficace è senza dubbio la prevenzione, che si basa su un’alimentazione corretta, ricca di vegetali e povera di grassi saturi e zuccheri semplici, e sull’attività fisica costante, con almeno 150 minuti di esercizio aerobico moderato o intenso alla settimana. Fin dall’infanzia, perché purtroppo non riguarda più soltanto gli adulti». Una volta diagnosticata la sindrome metabolica, risolverla è necessario ma non c’è un farmaco risolutivo, occorre intervenire su ciascun fattore di rischio singolarmente e par di più non ci sono, per esempio, medicinali in grado di «curare» il colesterolo Hdl troppo basso. «Perdere peso resta però il fulcro di tutte le terapie», puntualizza Consoli. «Eliminare il grasso viscerale non è facile e non abbiamo strumenti certamente in grado di privilegiare una riduzione localizzata all’addome, ma dimagrire è un passo indispensabile, sempre».

·        La Celiachia.

A CACCIA DI CELIACI. Dagotraduzione da Studyfinds il 7 giugno 2021. Secondo un nuovo studio il numero di bambini intolleranti al glutine è raddoppiato negli ultimi 25 anni. I bambini che soffrono di celiachia, una delle condizioni più comuni in Europa, potrebbero non ricevere le cure di cui hanno bisogno perché molti casi non sono stati diagnosticati, affermano gli scienziati. Le persone celiache producono anticorpi contro il glutine, una proteina presente nel grano, nell'orzo e nella segale, ingredienti comunemente usati per realizzare una varietà di cibi gustosi come pane, torte, biscotti, pasta e alcuni cereali per la colazione. Se si nutrono accidentalmente di cibi ricchi di glutine, questi anticorpi danneggiano il rivestimento intestinale e possono portare a sintomi, tra cui gonfiore, mal di stomaco, diarrea e affaticamento. Possono insorgere anche causare malattie del sangue, problemi di fertilità e osteoporosi, se chi è celiaco non segue una dieta rigorosamente priva di glutine. Nei bambini, la condizione è stata anche collegata a una scarsa crescita e può ritardare la pubertà. Ora, i ricercatori dell'Università Politecnica delle Marche ad Ancona, in Italia, hanno scoperto che il problema è molto più grande di quanto si pensasse in precedenza. «Il nostro studio ha dimostrato che la prevalenza della celiachia negli scolari è raddoppiata negli ultimi 25 anni rispetto ai dati riportati dal nostro team in un gruppo di età scolare simile», afferma in una dichiarazione l'autrice dello studio Elena Lionetti. «La nostra sensazione è che ci siano più casi di celiachia rispetto al passato e che non potremmo scoprirli senza una strategia di screening». La scoperta è avvenuta dopo che in otto province italiane è stato condotto un nuovo programma di screening che ha coinvolto 7.760 scolari. È stato effettuato un esame del sangue sulla punta delle dita per vedere se i bambini avevano determinate mutazioni genetiche che li predisponevano alla celiachia. Quando sono risultati positivi, i ricercatori hanno verificato se avevano gli anticorpi contro il glutine. È stata poi effettuata una diagnosi formale utilizzando criteri clinici noti come criteri ESPGHAN (European Society for Pediatric, Gastroenterology, Hepatology and Nutrition). I ricercatori hanno scoperto che l'1,6% dei bambini aveva la celiachia, una percentuale molto più alta della media globale di circa l'1%. «Al momento il 70% dei pazienti celiaci non viene diagnosticato e questo studio mostra che si potrebbe identificare molto di più, e in una fase precedente, se lo screening fosse effettuato durante l'infanzia con test non invasivi», dice Lionetti. «La diagnosi e l'eliminazione del glutine potrebbero potenzialmente prevenire danni ai villi, proiezioni simili a dita che rivestono l'intestino, che possono portare a malassorbimento di nutrienti e condizioni a lungo termine come problemi di crescita, affaticamento e osteoporosi». Circa l'uno per cento della popolazione degli Stati Uniti, 3 milioni di persone, soffre di celiachia. Si stima che il 97% di questi casi non sia stato diagnosticato, dice il Celiac Disease Center dell'Università di Chicago. Lo svolgimento di programmi di screening nelle scuole potrebbe evitare molte sofferenze. «Lo studio ha dimostrato che lo screening è uno strumento efficace per diagnosticare la celiachia nei bambini e che potrebbe potenzialmente aiutare a evitare molte sofferenze inutili da quella che può essere una condizione difficile da rilevare», afferma Lionetti. I risultati sono stati presentati al Congresso Mondiale di Gastroenterologia Pediatrica, Epatologia e Nutrizione.

·        L’Obesità.

Daniela Natali per il “Corriere della Sera - Salute” il 10 novembre 2021. E se per perdere peso, e soprattutto proteggere la nostra salute, scongiurando il rischio di diabete e di danni al cuore, puntassimo, invece che sulla dieta, sull'attività fisica? Di più: se proprio smettessimo del tutto di preoccuparci di quello che mangiamo e ci trasformassimo da «couch potatoes», patate da divano, e cioè da pantofolai, in sportivi? La proposta viene dall'America, dove il 70 per cento della popolazione adulta è sovrappeso e il 36,2 francamente obesa e i moniti a mangiare meno, soprattutto a rinunciare al cibo spazzatura, che si ripetono ormai da decenni, non hanno avuto alcun risultato. Anzi hanno spesso innescato il cosiddetto fenomeno «yo-yo»: perdite di peso seguite da recuperi (spesso con gli interessi) dannosissimi per la salute perché associati a un maggiore rischio di patologie cardiovascolari e di diabete.  Spiega Gianfranco Beltrami, vicepresidente della Federazione medico sportiva italiana: «La ricerca che sta facendo discutere, anzi la "review", cioè la revisione di una serie di studi precedenti, (autori Glenn Gaesser e Siddharta Angadi, recentemente pubblicata su iScience- Cell Press) è intitolata proprio "Trattamento dell'obesità: perdita di peso a confronto con l'aumento dell'attività fisica per la riduzione dei rischi per la salute". Lo studio punta sull'importanza del controllo della pressione arteriosa (sottovalutato, secondo gli autori) e dell'aumento delle capacità polmonari e della "muscolar fitness" rispetto alla diminuzione del peso corporeo». 

È d'accordo con le affermazioni dei colleghi americani che concludono la loro review suggerendo di dimenticare la dieta e puntare sul fitness? 

«Pur comprendendo lo scoraggiamento (giustificatissimo) dei colleghi americani per i programmi rivolti al solo controllo dei chili di troppo, vorrei sottolineare che la strategia corretta punta sui due fronti senza privilegiare l'uno rispetto all'altro. Riduzione del peso e attività fisica sono due armi complementari per proteggere la salute. Ma quando si parla di "dieta", non penso certo all'ossessione di pesare maniacalmente tutto, alla mania del calcolo delle calorie o alla demonizzazione di certi cibi e all'assunzione a "salva vita" di altri. Bisogna pensare meno alla "quantità" del cibo e più alla sua "qualità". «No al cibo spazzatura pieno di grassi e zuccheri semplici e povero di vitamine, fibre, minerali e spesso anche di proteine e dalla forte azione infiammatoria che come ben sappiamo è dannosa per l'intero organismo» 

Ma l'esercizio fisico di per sé fa dimagrire? 

«Giustamente nello studio citato si dice che sebbene l'esercizio fisico in genere non porti a riduzioni significative del peso o del grasso corporeo, può ridurre significativamente il grasso viscerale ed "ectopico": quello che sta dove non dovrebbe stare e invade sangue, fegato, pancreas, midollo osseo e persino i muscoli e il cuore. E ci sono anche altri benefici». 

Di che benefici si tratta? 

«Riduzione della pressione arteriosa, miglioramento del controllo della glicemia e del funzionamento generale dell'apparato cardiovascolare, calo dei lipidi e cioè del colesterolo cattivo. «Ma il moto è fondamentale anche perché comporta il rilascio di endorfine, gli ormoni del buon umore, che contribuiscono a ridurre la propensione verso i cibi "consolatori," in genere ricchi di grassi "cattivi" e di zuccheri di "pronto utilizzo" che fanno impennare l'insulina e causano un rapido ritorno dell'appetito». 

Nello studio citato si parla in particolare del ruolo benefico della cardiofitness, di che cosa si tratta esattamente? 

«A prescindere dal fatto che mezz' ora di camminata di buon passo, ogni giorno, è già utilissima e allena il cuore; con cardiofitness si intende un allenamento aerobico che aiuta a perdere peso e accresce efficienza cardiaca e respiratoria. Si svolge a "circuito", cioè tramite macchinari differenti o anche elastici o piccoli pesi da usare in serie, con tempi e obiettivi diversi». 

Ci può fare un esempio? 

«Si possono effettuare, a casa, flessioni sulle braccia, squat libero, addominali, affondi, estensioni con elastici, alzate laterali con piccoli pesi effettuando 15- 20 ripetizioni per ogni esercizio per almeno tre serie con brevi pause. In palestra, invece, si possono fare esercizi aerobici con bike, tapis roulant o ellittica alternati da esercizi con crunch machine , pectoral machine ,macchina abduttori e adduttori, leg extension . Facendo sempre tre serie a basso carico con pause di 20 secondi tra un esercizio e l'altro».

Dagotraduzione dalla BBC il 6 dicembre 2021. Secondo gli scienziati l'enigma del perché gli umani stiano diventando più alti e raggiungano prima la pubertà può essere spiegato da un sensore nel cervello. Durante il XX secolo, nel Regno Unito l’altezza media è aumentata di 10 cm durante il XX secolo e negli altri paesi fino a 19 centimetri, anche perché ci alimentiamo meglio. Ma non ne è mai stato capito il perché. Scoprirlo potrebbe portare a farmaci per migliorare la massa muscolare e curare la crescita ritardata. Gli scienziati sanno da tempo che con una buona dieta e un accesso affidabile al cibo gli esseri umani tendono a diventare più alti e a maturare più rapidamente. In Corea del Sud, per esempio, l'altezza degli adulti è aumentata vertiginosamente da quando la nazione si è trasformata da un paese povero a una società sviluppata. Eppure, in alcune parti dell'Asia meridionale e dell'Africa, le persone sono solo leggermente più alte di 100 anni fa. È noto che i segnali provenienti dal cibo raggiungono una parte del cervello chiamata ipotalamo, comunicandogli la salute nutrizionale del corpo e innescando la crescita. Questo nuovo studio, pubblicato su Nature e condotto da ricercatori dell'Università di Cambridge insieme al team della Queen Mary University di Londra, dell'Università di Bristol, dell'Università del Michigan e della Vanderbilt University, ha scoperto il recettore cerebrale alla base di tale processo. Si chiama MC3R ed è il legame cruciale tra cibo e sviluppo e crescita sessuale. «Racconta al corpo: siamo fantastici qui, abbiamo molto cibo, quindi cresci rapidamente, raggiungi presto la pubertà e fai molti bambini», ha detto il professor Sir Stephen O'Rahilly, autore dello studio, di Cambridge. «Non è solo magia: abbiamo lo schema elettrico completo di come avviene».  Quando il recettore del cervello non funziona normalmente negli esseri umani, i ricercatori hanno scoperto che le persone tendevano ad essere più basse di altezza e iniziavano la pubertà più tardi rispetto alle altre persone. Il team ha cercato nel patrimonio genetico di mezzo milione di volontari iscritti alla UK Biobank - un enorme database di informazioni genetiche e sanitarie - per confermare che ciò fosse vero. I bambini che hanno scoperto di avere mutazioni genetiche che interrompono il recettore cerebrale, erano tutti più bassi e pesavano meno degli altri bambini, il che mostra che l'effetto inizia presto nella vita. Il team di ricerca ha trovato una persona che aveva mutazioni in entrambe le copie del gene per MC3R, che è estremamente raro e dannoso. Questa persona era molto bassa e ha iniziato la pubertà dopo i 20 anni. Ma gli esseri umani non sono soli in questo: i ricercatori hanno studiato i topi per confermare che lo stesso percorso è attivo negli animali. La scoperta potrebbe aiutare i bambini con gravi ritardi nella crescita e nella pubertà, così come quelli che diventano fragili a causa di malattie croniche e hanno bisogno di costruire muscoli. «La ricerca futura dovrebbe indagare se i farmaci che attivano selettivamente l'MC3R potrebbero aiutare a reindirizzare le calorie nei muscoli e in altri tessuti magri, con la prospettiva di migliorare la funzionalità fisica di tali pazienti», ha affermato il professor O'Rahilly. Gli scienziati avevano già identificato un recettore cerebrale che controlla l'appetito, chiamato MC4R, e coloro che ne sono privi sono solitamente obesi. C'è un tetto per l'altezza e viene raggiunto quando le persone raggiungono il loro potenziale genetico. Fattori come la salute e la dieta hanno un enorme impatto sul fatto che ciò accada. Quando i bambini delle famiglie più povere ricevono cibo e calorie a sufficienza, possono crescere fino all'altezza che ereditano dai loro genitori e nonni. Le persone più alte generalmente vivono più a lungo e hanno meno probabilità di soffrire di problemi cardiaci e possono anche finire per guadagnare di più. Ma gli umani non possono continuare a crescere per sempre. Come molti altri paesi in Europa, l'altezza media nel Regno Unito è aumentata durante l'ultimo secolo, ma ci sono stati segnali negli ultimi 10 anni che si sta appiattendo. I maggiori aumenti di altezza nel secolo scorso sono stati nelle donne sudcoreane e negli uomini iraniani. Le persone più alte al mondo sono gli uomini nati nei Paesi Bassi (182 cm), mentre le più basse sono le donne nate in Guatemala (140 cm).

Dagotraduzione da Study Finds il 5 dicembre 2021. Negli ultimi anni c'è stata molto entusiasmo per la dieta mediterranea, che in genere consiste in frutta e verdura, cereali integrali, noci, olio d'oliva e pesce. Ora una nuova ricerca offre alcuni avvertimenti allarmanti. Il passaggio da una normale dieta "occidentale" a una tradizionale dieta mediterranea può triplicare l'assunzione di contaminanti ambientali, rivela lo straordinario nuovo rapporto. Molti studi l’hanno accolta come una sana alternativa alle tipiche diete (ricche di grassi saturi da carne rossa e latticini), rendendola molto popolare tra gli individui attenti alla salute. Con una svolta sorprendente, tuttavia, gli autori di questo nuovo rapporto affermano che frutta, verdura e cereali integrali sono la fonte della maggior parte delle tossine quando provengono da tecniche agricole tradizionali. Invece il pesce contiene molti meno contaminanti. Il team internazionale afferma che la dieta mediterranea potrebbe indebolire il sistema immunitario umano, la fertilità e persino arrestare la crescita e lo sviluppo dei bambini. Lo studio, condotto da scienziati dell'Università di Oslo, ha esaminato gli studenti britannici che seguono la dieta. Gli autori hanno concluso che una dieta mediterranea in cui gli ingredienti sono autocoltivati riduce organicamente l'assunzione di questi contaminanti del 90 percento. I ricercatori hanno testato l'urina dei partecipanti e hanno studiato quali contaminanti erano presenti negli alimenti che mangiavano. Il responsabile del progetto Carlo Leifert, professore in visita a Oslo, afferma che molti dei contaminanti ambientali scoperti possono influenzare gli ormoni nel corpo. «Molti dei pesticidi sintetici rilevati sia negli alimenti che nei campioni di urina in questo studio sono confermati o sospettati di interferenti endocrini (EDC). L'esposizione ai pesticidi 10 volte superiore degli alimenti convenzionali può quindi fornire una spiegazione meccanicistica per la minore incidenza di sovrappeso/obesità, sindrome metabolica e cancro associati ad alti livelli di consumo di alimenti biologici negli studi epidemiologici/di coorte», spiega Leifert in un comunicato universitario. I ricercatori dicono che è troppo presto per i funzionari sanitari per iniziare a non raccomandare la dieta mediterranea. Lo studio su 27 studenti britannici era troppo piccolo e sono necessarie ulteriori ricerche per confermare i risultati. «Questo studio fornisce prove evidenti che sia la nostra dieta che il modo in cui produciamo il cibo possono influenzare il livello di esposizione ai pesticidi chimici sintetici e, in definitiva, la nostra salute», aggiunge Chris Seal, professore della Newcastle University. L'assunzione di contaminanti ambientali da parte di una persona proviene anche da altre cose come le creme per la pelle e persino l'aria che respiriamo. Lo studio non ha tenuto conto di questi fattori, sebbene i ricercatori affermino che è improbabile che abbia influenzato i risultati. I partecipanti allo studio hanno mangiato cibi britannici "ordinari" per una settimana prima dell'inizio dello studio e hanno dovuto registrare ciò che mangiavano. Il team ha quindi prelevato campioni di urina da ogni persona prima di inviarli in una fattoria a Creta per due settimane. Quando sono arrivati, i ricercatori hanno diviso il gruppo in due gruppi, uno che mangiava cibo coltivato normalmente e l'altro che mangiava prodotti biologici. Hanno prelevato di nuovo campioni di urina prima di tornare nel Regno Unito e hanno seguito la loro dieta normale per un'altra settimana. «Vi sono prove crescenti da studi osservazionali che i benefici per la salute derivanti dall'aumento del consumo di frutta, verdura e cereali integrali sono parzialmente diminuiti dalla maggiore esposizione ai pesticidi associata a questi alimenti. Il nostro studio dimostra che il consumo di alimenti biologici consente ai consumatori di passare a una dieta più sana, senza un aumento dell'assunzione di pesticidi», conclude il professor Per Ole Iversen dell'Università di Oslo.

Anoressia, bulimia e alimentazione incontrollata: l’epidemia silenziosa che colpisce tre milioni di italiani. Non sono patologie incurabili, ma lo diventano perché spesso la rete di assistenza è inesistente. Nel nostro Paese le strutture sono un centinaio, ma non bastano e con la pandemia il fenomeno è aumentato in modo esponenziale (foto di Francesco Cilli). Marialaura Iazzetti La Repubblica il il 27 ottobre 2021. Ti guardi allo specchio e vorresti essere diversa, diverso. Non ti piaci: le tue gambe, la tua pancia, il tuo viso. Senti delle voci. Conti le calorie, razioni il cibo, smetti di mangiare. Non riesci a fermarti: i tuoi pensieri sono intrappolati. In Italia le persone che soffrono di disturbi alimentari sono tre milioni. Di anoressia, di bulimia e di “binge eating disorder” (alimentazione incontrollata) si muore. Non sono patologie incurabili, ma lo diventano perché spesso la rete di assistenza è inesistente. In tutto il Paese un centinaio di strutture si occupano di seguire, a diversi livelli, pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare (Dca): i casi più lievi sono gestiti negli ambulatori, quelli più complessi nei centri diurni o residenziali, quando si è intervenuti troppo tardi si ricorre al presidio ospedaliero. Per garantire un soccorso adeguato, in ogni regione dovrebbe essere presente ognuna di queste realtà. Nei territori più abitati, dovrebbero essere anche più di una. Non è così: in Puglia, ad esempio, mancano centri predisposti al ricovero ospedaliero e alla riabilitazione residenziale; in Calabria c’è solo un ambulatorio. «Si possono verificare diverse situazioni. Nella maggior parte dei casi, nelle Asl non c’è nessuna competenza: le ragazze e i ragazzi non riescono a ricevere assistenza. In altri casi invece, quando esistono centri organizzati e ben specializzati, le strutture sono stracolme e le risorse insufficienti», spiega Leonardo Mendolicchio, direttore scientifico dello “Specchio”, l’unica struttura residenziale per la cura dei disturbi alimentari esistente in Sardegna. Si trova a Iglesias, a 59 chilometri da Cagliari: il percorso riabilitativo è a carico del Servizio sanitario nazionale ed è personalizzato in base alle esigenze del paziente. «Ci occupiamo della riabilitazione nutrizionale, psicologica e della rieducazione del corpo e del movimento attraverso un équipe di fisioterapisti». È un livello di cura intermedio, i pazienti sono seguiti costantemente. Alcuni ospiti arrivano qui dopo un ricovero ospedaliero. Per poter accedere c’è una lista di attesa di quattro mesi. «Servirebbe il 30 per cento in più del personale per poterla smaltire», osserva Mendolicchio. Le strutture come “Lo Specchio” sono una rarità, le famiglie chiamano da tutta Italia per poterci entrare. Chi riesce a ottenere un posto spesso decide di trasferirsi: si considera fortunato, perché ha trovato un luogo dove poter curare suo figlio o sua figlia. L’assistenza è a macchia di leopardo, ma il disagio è diffuso ovunque. E continua a crescere. Per Mendolicchio «siamo di fronte a un’emergenza epocale, dentro la pandemia c’è un’altra epidemia». Nell’ultimo periodo i casi si sono moltiplicati: il ministero della Salute ha registrato un aumento del 30 per cento. Nel primo semestre del 2020 sono stati rilevati 230.458 nuovi pazienti, nello stesso periodo dell’anno precedente erano stati 163.547. Sulla salute mentale dei ragazzi e delle ragazze hanno pesato l’isolamento e la chiusura delle scuole. Nel 2021 le chiamate al numero verde nazionale della Presidenza del Consiglio, che fornisce indicazioni sui servizi di riferimento, sono triplicate rispetto al 2020. L’età dei primi sintomi si è abbassata. L’osservatorio dell’Asl di Roma 1 segnala un aumento del 231,7 per cento delle richieste di presa in carico nella fascia di età tra i 12 e i 18 anni. Ci si ammala quando si è più piccoli e si arriva nei centri di assistenza in una fase già critica. «I casi sono più complessi. Noi abbiamo aumentato del 60 per cento le sacche nutrizionali (quelle che garantiscono l’alimentazione per via endovenosa, ndr)», racconta Michele Severini, psichiatra e referente del tavolo tecnico con l’azienda sanitaria Ospedali Riuniti Salesi di Ancona. Nelle Marche ci sono tre strutture che si occupano di Dca. Un’assistenza frammentata e poco sviluppata comporta una guarigione più difficile. Secondo, l’Organizzazione mondiale della sanità i disturbi del comportamento alimentare rappresentano la seconda causa di morte nella popolazione femminile in adolescenza, dopo gli incidenti stradali. Nel 2016 le vittime sono state 3.360: dieci al giorno. Come ha spiegato in una relazione al Senato Giuseppe Ruocco, direttore generale della Direzione igiene e sicurezza degli alimenti del Ministero della Salute, i numeri sono sottostimati perché «i decessi si presentano spesso sotto altra specie, per lo più arresti cardiaci». Molte morti potevano essere evitate. «I casi non nascono complicati, lo diventano con il passare dei mesi», sottolinea il dottor Mendolicchio. Per chiedere al governo di intervenire e di lavorare sulla rete di assistenza, venerdì 8 ottobre diverse associazioni hanno manifestato di fronte alla sede del ministero della Salute. In piazza c’era anche Stefano Tavilla, presidente della onlus “Mi Nutro di Vita”: organizzazione nata nel 2011 per informare sui disturbi del comportamento alimentare. Stefano ha creato “Mi Nutro di Vita” dopo la scomparsa di sua figlia Giulia, morta poco prima di essere ricoverata in un centro specializzato. Giulia soffriva di bulimia, aveva 17 anni. «Sono anni che io cerco di muovere qualcosa. Siamo stati alla Camera, al Senato. E i risultati quali sono? Mia figlia è mancata a causa dalla mala sanità: sono passati dieci anni, ma succedono sempre le stesse cose». Stefano parla con convinzione. Nella sua voce non c’è alcun segno di rassegnazione, crede ancora che qualcosa possa essere migliorato e cambiato. Grazie al lavoro di “Mi Nutro di Vita” e di altre associazioni il governo ha istituito la Giornata nazionale del fiocchetto lilla per sensibilizzare la società sui disturbi alimentari: dal 2018 viene celebrata ogni anno il 15 marzo. In piazza l’8 ottobre c’erano più di 300 persone. Associazioni, genitori e pazienti si sono uniti in un’unica organizzazione, dando vita alla rete “Movimento Lilla”. Una delle richieste presentate al ministero della Salute riguarda la classificazione dei disturbi alimentari all’interno dei Lea (i livelli essenziali di assistenza che i cittadini hanno diritto a ottenere dal Servizio sanitario nazionale): fino a oggi i Dca sono stati inseriti sotto la categoria delle fragilità psichiatriche. Secondo Stefano dovrebbero essere considerati come una malattia a sé stante, in quanto patologie multidisciplinari. Questo permetterebbe di stanziare risorse dedicate. «Noi vogliamo che ci sia un budget destinato unicamente ai Dca e che il governo controlli come vengono spesi al livello regionale i finanziamenti, perché la cura deve essere accessibile a tutti». Anche secondo Stefano stiamo parlando di un’epidemia. Un’epidemia silenziosa che non può più essere sottovalutata. Al termine della manifestazione alcuni membri delle associazioni hanno incontrato il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, che ha promesso di ampliare la spesa per la cura dei Dca e ha proposto di coinvolgere l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) nel monitoraggio delle possibilità di assistenza offerte. Trovare maggiori risorse è fondamentale. Per curare i disturbi alimentari bisogna raccogliere diverse professionalità. «Ma oggi creare delle équipe, composte da operatori dotati di specifica formazione e predisporre tutti i livelli di intervento, risulta spesso molto difficile», racconta Caterina Renna, responsabile del Centro per la cura e la ricerca sui disturbi del comportamento alimentare dell’Asl di Lecce. Qui nei primi sei mesi del 2021 le richieste sono raddoppiate rispetto all’anno precedente. I casi più gravi riguardano ragazzi e ragazze tra i 10 e i 15 anni. «Più del 50 per cento dei pazienti fa ricorso ad autolesionismo, presenta umore depresso, disforia, ansia, aggressività e irritabilità». Secondo Renna questi comportamenti derivano anche da un utilizzo eccessivo e incontrollato dei social network: «Si sono diffuse tra i giovanissimi convinzioni erronee sul cibo e sull’alimentazione, sono stati introiettati modelli di bellezza irrealistici a cui si pensa sia necessario adeguarsi, pena l’esclusione, la derisione e il body shaming». Molto dipende da come vengono utilizzati i social e dai contenuti che sono diffusi. Sono strumenti, e quindi non necessariamente nocivi. In piazza l’8 ottobre c’era anche Alba. Durante il suo percorso di riabilitazione e di cura ha aperto un canale Youtube e ha iniziato a raccontare la sua storia. «Volevo essere d’aiuto a chi stava affrontando le mie stesse difficoltà», dice. Alba sui social è spontanea e chiara. Ride, piange, si arrabbia. Spiega cosa vuol dire soffrire di Dca e quali sono i primi campanelli d’allarme. Ripete che soffrire di anoressia o bulimia non significa semplicemente «essere troppo magri». Il disturbo può esserci, anche se non si vede. Nei suoi video dà dei consigli su come imparare ad affrontare quotidianamente le situazioni in cui chi è in difficoltà con il proprio corpo non si sente a suo agio: mettersi in costume, andare a mangiare fuori con gli amici. Per guarire serve tempo, bisogna imparare a riconoscere le proprie fragilità e ad accettarle. Alba prima di essere ricoverata al centro di Empoli, era andata da uno psichiatria non specializzato che le era stato indicato dal medico di base: in quei mesi aveva continuato a perdere peso, le era stato diagnosticato un disturbo ossessivo compulsivo. È stata la madre a trovare la struttura di Empoli e a chiedere un colloquio. Alba ora ha iniziato un corso di laurea magistrale in Criminalità, sicurezza e investigazione internazionale a Roma, in uno dei suoi ultimi post su Instagram racconta della manifestazione davanti al ministero della Salute. In mano ha un cartello con scritto: «Non sono i Dca a causare 4mila morti ogni anno. È lo Stato a negarci le cure».

Valter Longo: «Ecco come il digiuno può aiutare a combattere il cancro». Alice Politi il 12 settembre 2021 su Vanityfair.it. A distanza di 5 anni da La dieta della Longevità, esce Il Cancro a digiuno, nuovo saggio firmato da Valter Longo, pioniere nella ricerca su nutrizione e tumori. Dal modo in cui il digiuno agisce sulle cellule tumorali a ciò che potremmo aspettarci da qui a dieci anni, ecco cosa ci ha spiegato in questa intervista esclusiva. Quanto il digiuno possa essere importante nel rallentare il processo di invecchiamento, favorendo il rinnovamento cellulare lo aveva già ampiamente spiegato con il libro La dieta della Longevità, uscito nel 2018 e subito diventato un bestseller mondiale. Come invece la dieta mima digiuno (lo schema alimentare che consente di mangiare e, contemporaneamente, di avere sul proprio corpo gli stessi identici effetti del digiuno) possa aiutare a prevenire e curare molti tipi di tumore, anche negli stadi avanzati, Valter Longo lo dimostra adesso con Il cancro a digiuno, nuovo saggio edito da Vallardi – in libreria dal 20 settembre – destinato ad ampliare la prospettiva sul ruolo che la nutrizione può rivestire non soltanto nel preservare la salute ma anche nel riconquistarla. Professore ordinario di Gerontologia e Scienze Biologiche, direttore dell’Istituto di Longevità presso la School of Gerontology alla University of Southern California di Los Angeles e del Laboratorio di Longevità e Cancro all’Istituto di Oncologia Molecolare IFOM di Milano, in questa sua nuova pubblicazione il biochimico Longo spiega i dati raccolti in decenni di ricerca di base e clinica, che dimostrano come un uso controllato di dieta mima-digiuno e dieta della longevità possa aiutare a prevenire, ma anche a sconfiggere, le patologie tumorali, togliendo nutrimento solo alle cellule malate. Lo abbiamo intervistato per comprendere meglio la portata dei suoi studi e ipotizzare dove tutte queste importanti evidenze potrebbero condurci da qui ai prossimi dieci anni.

Professor Longo, Il cancro a digiuno esce a distanza di cinque anni da La dieta della longevità. Che cosa è successo di importante nel frattempo?

«Sono successe sostanzialmente due cose, una nell’ambito della prevenzione e una riguardo agli studi clinici. Da una parte, è diventato sempre più chiaro che il cancro si può prevenire – o almeno lo si può fare per una grossa fetta di tumori – e questo grazie a studi genetici, e relative pubblicazioni, sugli effetti di chi mangia poche proteine e chi invece ne mangia tante. 5 anni fa, inoltre, mancavano tutti gli studi clinici e il nostro era l’unico laboratorio che pubblicava studi sul digiuno dei topi, mentre adesso i laboratori che lo fanno sono molto più numerosi e con tutti con pubblicazioni positive. Infine, ci sono ora studi clinici, ovvero studi relativamente ampi – tra cui uno con 125 pazienti, citato nel libro – che mostrano gli effetti potenti della mima-digiuno su donne malate di cancro al seno».

Nel libro, si evidenzia la preziosità di un approccio medico di “squadra” (che comprenda cioè l’oncologo ma anche un dietista, un nutrizionista, etc.) nell’affrontare la cura di un tumore. Perché è importante farlo?

«All’interno degli ospedali ci si ostina a dire che il paziente nutrito con la carne vive e reagisce meglio alle cure. C’è molta insistenza in tal senso, perché non si sapeva ancora nulla della relazione tra alimentazione e cancro. L’assunto del nutrizionista e del dietologo è da sempre proprio quello di dar da mangiare il più possibile al paziente. Adesso però si cominciano ad avere una cinquantina di relazioni che dimostrano che non importa che tumore è, non importa che tipo di terapia è, ma mettendo il tumore a digiuno qualsiasi terapia funziona molto meglio. Chiaramente, al momento, questo team con multiapproccio al tumore è raro, noi lo abbiamo a Los Angeles e a Milano grazie all’intervento dei nutrizionisti della Fondazione, ma è ancora difficile vederlo nella pratica quotidiana delle cure oncologiche di tutto il mondo».

Soffermiamoci sul focus del suo libro: che ruolo può svolgere l’alimentazione nella gestione e nella cura di un paziente con tumore?

«L’alimentazione può essere centrale ma è ovvio che si deve guardare, da un lato, alle cellule tumorali e, dall’altro, al paziente. Si è sempre alla ricerca di una pallottola magica che vada a uccidere il tumore e prima o poi arriverà, ma l’alimentazione, nel frattempo, ci permette di operare un’eccezionale distinzione fra cellule normali e cellule del cancro: le cellule normali sanno esattamente cosa fare quando noi non mangiamo, perché il digiuno è parte della nostra storia; le cellule tumorali, invece, si trovano in grande difficoltà e si rifiutano di fermarsi, nonostante il digiuno le renda “affamate”: questo dà un potere notevole alla terapia antitumorale in atto, che si tratti di chemioterapia, immunoterapia o terapia ormonale. Stiamo vedendo dai primi studi clinici che questa strategia funziona: la rivoluzione messa in atto attraverso la dieta mima digiuno rende il tumore meno resistente e più sensibile alle terapie. La scoperta più nuova, in tal senso, è legata all’immunoterapia: stiamo notando che, nei topi, quando il digiuno è unito all’immunoterapia risulta molto più potente e rende più visibile il tumore al sistema immunitario».

In modo specifico, come agisce il digiuno sulle cellule tumorali? 

«Uso una metafora: se mettessimo un miliardo di persone nel deserto per 15 giorni e avessero ombra e avessero acqua, dopo un paio di settimane quelle persone sarebbero probabilmente tutte vive. Se invece quel miliardo di persone (le cellule tumorali) fossero obbligate a correre per due settimane (l’atteggiamento di tali cellule) ma fossero private dell’acqua (che nel caso del paziente con tumore sarebbe il cibo) e costrette a stare sotto il sole (che sarebbe la chemioterapia o altre forme di terapia), quante persone sopravviverebbero dopo due settimane? Forse nessuna».

In quali tipi di tumori, in particolare, si sono riscontrati miglioramenti inserendo nella terapia il digiuno o la dieta mima digiuno? 

«Negli studi condotti su animali, in tutti i tipi di tumore. Quelli clinici, al momento, si sono invece focalizzati sul cancro alla mammella, su quello alle ovaie e ultimamente sul cancro alla prostata. Su cancro alla mammella e chemioterapia iniziano a esserci già dati molto positivi, diciamo che mancherebbe uno studio condotto su 300 o 400 pazienti per far sì che questa possa diventare una terapia standard».

Sulla base di ciò che ha scoperto fino a questo momento, che cosa si può fare per prevenire lo sviluppo di tumori e mantenersi in salute?

«Si possono fare varie cose: seguire una dieta pescetariana, ovvero mangiare pesce (a basso contenuto di mercurio) una o due volte la settimana così da limitare l’eccesso di proteine. Perché, lo abbiamo dimostrato noi e l’hanno confermato altri: troppe proteine di origine animale sono associate con l’aumento del rischio di tumori e quindi una dieta pescetariana, associata a un po’ di pasta, tante verdure e tanti legumi, rappresenta il pranzo o la cena ideale. Il tutto rispettando la regola delle 12 ore al giorno in cui concentrare tutti i pasti: dalle 8 del mattino alle 8 di sera o dalle 9 del mattino alle 9 di sera, permettendo al corpo un successivo digiuno di 12 ore. Se si è in sovrappeso, inoltre, può aiutare mangiare due volte al giorno limitandosi a un pranzo di sole 100 calorie. Personalmente, quando prendo peso, salto il pranzo e mangio 100 calorie di noci o una piccola insalata con un po’ d’olio. Lo faccio per 5 giorni alla settimana e questo mi permette di controllare il peso senza cambiare dieta. Infine, adottare la dieta mima digiuno, due o tre volte all’anno, può essere d’aiuto per la maggior parte delle persone che non sono sovrappeso ma tendono ad avere più peso di quanto vorrebbero».

Lei ha coniato il termine “iuventologia”; di cosa si occupa esattamente?

«Con il termine iuventologia si intende il periodo della vita in cui rimaniamo giovani e in salute, il cosiddetto Health Life Span. Si tratta di un periodo che non è mai stato studiato e del resto non esisteva neanche una parola che lo definisse. Prende origine dalla domanda: “Fino a quanto si resta giovani?” Oggi diremmo che la iuventologia arriva fino ai 40 anni, ma è possibile spostare questo periodo di gioventù dai 40 ai 60? Ovviamente è possibile, ma come lo spostiamo? Perché una volta spostato l’health life span (la durata della vita in salute), tutto viene spostato, anche la durata della vita stessa. Essendo tutto interconnesso, il punto è studiare pertanto come mantenere le persone giovani e non solo sane».

Ci sono evidenze legate al fatto che il modo in cui ci alimentiamo può essere uno dei fattori chiave che accelerano il processo di invecchiamento?

«In effetti, il cibo è al centro della vita e dell’evoluzione, controlla ogni cosa: se una donna può rimanere incinta o meno, la crescita di un bambino, tutto. Basterebbe non mangiare per un paio di giorni e il metabolismo verrebbe subito influenzato come in nessun altro modo. Il cibo è molto di più di come noi lo vediamo, controlla anche i programmi di longevità. Se guardiamo agli ultimi 1000 anni, notiamo che l’allungamento della vita è stato possibile grazie a una maggiore assunzione di calorie. La restrizione calorica, però, può avere anche effetti positivi. All’interno del nostro laboratorio, focalizziamo il lavoro proprio sull’ottimizzazione della parte positiva del cibo, a proposito di digiuni, di quante ore al giorno si mangia, di dieta, di tipi di dieta».

Esiste una relazione anche tra cibo e sviluppo dei tumori?

«Al momento, esistono varie pubblicazioni negli Stati Uniti sulla relazione tra proteine animali e cancro, dalle quali emerge che gli americani che mangiano molte proteine animali hanno un rischio di sviluppare malattie da tumore da tre a quattro volte più alte rispetto a chi ne mangia meno. Il cibo è chiaramente centrale anche in tal senso, un esempio sono le persone che vivono sulle montagne dell’Ecuador con la Sindrome di Laron, a cui manca il gene che viene attivato dalle proteine e che al tempo stesso non sviluppano quasi mai tumori. Lo stesso si verifica in aree del medioriente e chiaramente i tumori sono controllati da questi geni. In definitiva, palesemente la dieta, sia dal punto di vista dell’assunzione di proteine sia per lo sviluppo dell’obesità, può avere un’influenza. C’è anche il tema del biologico: chi mangia cibo bio abbassa di un quarto il rischio di sviluppare tumori rispetto a chi mangia cibo normale e questo vuol dire che chi ingerisce cibo ricco di tossine corre un rischio più elevato di tumori. Si tratta ovviamente di studi di correlazione, nessuno lo ha mai dimostrato clinicamente ma sappiamo che certe tossine sono cancerogene, come dimostra una recente causa americana vinta contro alcuni pesticidi, colpevoli di aver favorito la formazione di linfomi».

Le sue ricerche e i suoi studi hanno come obiettivo generale quello di scoprire i meccanismi che possono ritardare l’invecchiamento cellulare. Sulla base di ciò che si sta scoprendo, da qui a dieci anni che cosa potrebbe cambiare?

«Possiamo aspettarci, nel nostro caso, le dimostrazioni pratiche di ciò che sosteniamo. Allo stato attuale abbiamo tre studi in atto sul diabete che completeremo entro il prossimo anno. È da tanti anni che parliamo degli effetti cardiometabolici e usciremo con 4 studi sul diabete e sulle malattie cardiovascolari. Penso che da qui ai prossimi dieci anni passeremo da una realtà in cui i farmaci hanno sempre dominato in esclusiva a una realtà dove la nutrizione sarà al pari protagonista delle terapie, al punto, come nel caso del diabete, da arrivare addirittura a sostituire i farmaci. Il cibo verrà usato come farmaco e non per “mettere una pezza al problema” ma per riportare indietro il paziente a uno stato di piena salute.  Già oggi, tramite la nostra Fondazione, abbiamo portato centinaia di persone diabetiche e prediabetiche a uno stadio antecedente la malattia. E vedo proprio questo nei prossimi 10 anni quando, soprattutto medici giovani o più illuminati, diranno basta all’escalation di 60-70enni imbottiti di farmaci che non hanno neanche una funzione curativa».

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'8 settembre 2021. "7 chili in 7 giorni", il famoso film degli anni' 80 con Carlo Verdone e Renato Pozzetto, ambientato in una clinica per dimagrire, con risultati surreali e fumettistici per i pazienti in cura, era una commedia esilarante, come commedie esilaranti sono le previsioni dei cali ponderali immediati promessi soprattutto in questi ultimi mesi da migliaia di regimi dietetici pubblicati su riviste e lanciati sui media, che si dichiarano scientificamente provati ed approvati, perché 7 chili in 7 giorni sono clinicamente impossibili da perdere in una settimana, nonostante quasi tutti lo promettano ingannando migliaia di persone in sovrappeso, dal momento che la perdita di "peso" non è veritiera ma soltanto illusoria. La più famosa è chiamata "la dieta del cardiologo" che nulla ha a che fare con i chili di troppo, poiché si tratta di un regime ospedaliero applicato ai pazienti che si devono operare con urgenza al cuore, i quali in 5/7 giorni devono scendere rapidamente di peso per non compromettere l'esito dell'intervento chirurgico, e consiste in una blanda restrizione calorica aggiunta alla somministrazione massiccia di potenti diuretici per eliminare i liquidi trattenuti in eccesso, quelli che nei cardiopatici sulla bilancia appaiono come chili di grasso, mentre i realtà ad essere eliminati sono solo i litri di acqua che ristagnano nell'organismo appesantendolo dalle caviglie ai polmoni, per gravi insufficienze cardiache e renali di smaltimento.  In queste settimane, dopo il lungo periodo di lockdown e varie quarantene imposte dal Coronavirus, e soprattutto dopo le sospirate vacanze in cui ci si è potuti sedere al tavolo dei ristoranti a pranzo e cena gratificando il palato e l'umore, sulle riviste e sui media impazzano regimi alimentari che promettono di eliminare in breve tempo i chili di troppo accumulati, elencando diete miracolose che di miracoloso hanno solo il nome, in grado comunque di essere attrattive e provocare forte impatto psicologico sulle persone che intraprendono ignare tali percorsi dietetici descritti "di comprovata efficacia scientifica", con restrizioni caloriche più dannose che utili allo scopo, che innescano processi metabolici che nessun medico consiglierebbe. Nell'elenco dei benefici associati a tali regimi si legge di tutto, dalla detossicazione endogena al miglioramento dell'assorbimento dei nutrienti, all'influenza sull'assetto infiammatorio e immunitario sull'energia fisica, lucidità mentale e sul rafforzamento della memoria, alla liquefazione della massa grassa viscerale con protezione di quella magra muscolare e di quella ossea, con modulazione del profilo lipidico, supporto all'equilibrio metabolico, contrasto all'invecchiamento e conseguente prolungamento della longevità e finanche al rinnovamento cellulare a base di cellule staminali che come per incanto, grazie alla dieta e al digiuno prolungato, inizierebbero a produrre cellule nuove, neonate e vitali che invadono l'intero organismo e la sua superficie cutanea, con l'agognato effetto antiage, splendido e ringiovanente. Se si è in buona salute dimagrire è difficile, si fa fatica a seguire un piano dietetico per il tempo necessario a produrre risultati, e spesso ci si arrende ai piaceri della tavola, ma il tempo è un elemento essenziale e necessario, perché non si perde peso drasticamente in due/tre settimane e non esistono formule magiche, regimi alimentari drastici, integratori che bruciano lipidi, che ne impediscano l'assorbimento, cure miracolose o pasticche ad azione rapida, specialmente se si è impazienti di veder scendere l'ago della bilancia di oltre 1 kg a settimana, che è il massimo che si può ottenere durante le prime fasi di una dieta, per poi perdere sempre meno chili e lentamente quelli reali di grasso di deposito. Tra tutte le diete che circolano in giro non ce n'è una che funzioni per tutti e per tutta la vita, come è naturale che sia, per cui il "mercato" delle diete generiche e personalizzate prolifera incontrastato, senza dare alcuna importanza al valore della nutrizione a lungo termine o all'educazione alimentare intesa come prevenzione di gravi malattie correlate al sovrappeso e all'obesità, molte delle quali letali, ma solo con il miraggio di perdere peso, alleggerirsi e snellirsi in poche settimane a fini estetici, per ridurre la pancetta, i fianchi o le cosce, con lo specchio che diventa un amico insidioso e infedele in grado di alimentare ossessioni pericolose fino ai serissimi disturbi alimentari che ormai compaiono in ogni età. In realtà i tempi e le modalità con cui si perde peso non sono mai così lineari come ci si aspetta, influenzati come sono da molteplici fattori, soprattutto metabolici ed ormonali, individuali e differenti da persona a persona, determinati dai vari stati clinici e medici, che non hanno una metrica applicabile a chiunque e quasi mai si adattano a brevi e ristrette finestre di tempo. All'inizio di ogni dieta che si rispetti è accertato che si perdono di norma più litri che grassi, per eliminare i quali diventa complicato senza un'attenta osservazione medica, senza una guida clinica, senza maggiori sacrifici per cambiare i comportamenti abituali e sociali, e senza far diventare il cibo un nemico della linea, perché esso, è bene ricordarlo, è l'unica fonte primaria di energia per tutte le cellule del nostro corpo, oltre che una fonte di benessere fisica e mentale, quella che ci consente di restare attivi e soprattutto vivi e in buona salute.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 25 agosto 2021. L'errore più comune per controllare la nostra linea è quello di continuare a pesarsi sulla bilancia senza mai misurare il girovita, ovvero la nostra circonferenza addominale, un indice non solo dei centimetri in più acquisiti con gli anni, ma del reale stato di salute di ogni soggetto. Di regola quasi tutte le persone adulte, una volta superati i 30/35anni, anche se l'ago della bilancia registralo stesso peso corporeo della gioventù, si ritrovano ad avere il punto vita più largo con indici superiori alla misura consigliata, ovvero 80 cm per le donne e 95 cm per gli uomini, e questo dato nella clinica medica acquista più importanza dell'Indice di Massa Corporea, il criterio scientifico internazionale per identificare quale sia il peso forma di una persona dal punto di vista medico in base alla sua struttura ed alla sua altezza, al punto che le stesse linee guida internazionali sono state aggiornate di recente, vista la grave esplosione dei casi di obesità nel mondo, chiedendo ai medici di valutare, oltre a questo dato, anche quello della circonferenza del punto vita, che va misurata con un semplice metro da sartoria appena sopra l'ombelico, di mattina (la sera si è più gonfi per l'azione dei gas digestivi intestinali), senza stringerlo, con il soggetto in piedi, naturalmente nudo e con i muscoli rilassati (senza tirare indietro la pancia). Finora c'erano solo due misure che indicavano un rischio per la salute: 102 cm per gli uomini e 88 cm per le donne, che però sono state aggiornate sui diversi gradi rinnovati di obesità, in relazione all'età e al sesso, ed in particolare l'individuo adulto viene certificato con Peso moderato quando il giro vita misura 80 cm nelle donne e 90 cm negli uomini, in Sovrappeso con misure 90 cm per le donne e 100 cm per gli uomini, mentre con valori superiori, 105 cm per le donne e 110 cm per gli uomini si parla di Obesità di primo grado con rischio moderato, e di secondo grado con 115 cm per le donne e 125 cm per gli uomini, con rischio accentuato. Tutti i soggetti che superano questi parametri di riferimento hanno un rischio significativo di andare incontro ad eventi patologici futuri di vario grado, soprattutto cardiovascolari, per cui il monitoraggio della circonferenza addominale nell'arco del tempo è molto importante, poiché il suo aumento, anche a parità dipeso, riflette una crescita del grasso addominale viscerale, che si infiltra e avvolge gli organi, condizionandone la regolare funzionalità, riconosciuto oramai come rischio di mortalità in genere. L'accumulo lipidico di grasso sottocutaneo a livello addominale infatti, è ritenuto a ragione il fattore predittivo della presenza di grasso viscerale, quello ciò e che si accumula all'interno della cavità addominale e che va ad abbracciare e stratificarsi sugli organi vitali in essa contenuti comprimendoli, ed è ritenuto proporzionale alla circonferenza esterna del giro vita. Il grasso viscerale non va confuso con quello sottocutaneo, che si trova al di sotto dello strato più profondo della cute, e nemmeno con quello intramuscolare che invece è distribuito linearmente tra le fibre dei muscoli, poiché questo grasso interno è ritenuto un vero e proprio surplus adiposo che si traduce in minore speranza di lunga vita. In pratica, a parità di grasso corporeo, avere la caratteristica pancia debordante, anziché una distribuzione omogenea dello strato adiposo su tutto il corpo, si traduce in una minore previsione di anni di vita, come dimostra il fatto che nessun paziente obeso raggiunge facilmente gli 80 anni e tutti coloro che invece arrivano all'età ultracentenaria sono magri, longilinei, quasi scheletrici e senza nemmeno l'ombra di addome prominente. Il grasso non è tutto uguale, perché quello concentrato per esempio sui fianchi non è considerato così pericoloso come i chili concentrati nella parte centrale anteriore del corpo, poiché è accertato che quelli addizionati sulla pancia aumentano il rischio della cosiddetta Sindrome Metabolica, ovvero la comparsa progressiva e quasi contemporanea di diabete tipo 2, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, malattie cardiovascolari, ictus cerebrale incluso. L'aumento di grasso viscerale presenta molte conseguenze negative per la salute, con effetti indesiderabili principalmente per il fegato, pancreas, intestino e cuore, ma favorisce anche la produzione di agenti infiammatori, per cui è associato a coronaropatie, al rischio di infarto del miocardio, allo sviluppo di neoplasie e a quello di tutte le malattie cardiometaboliche associate. Quando il girovita è elevato è elevato oltre i limiti consigliati è necessario diminuire di circa 200/300Kcal le calorie introdotte quotidianamente con l'alimentazione, anche se non è detto che ad un minor apporto calorico segua sicuramente la diminuzione della circonferenza addominale. Questa può essere misurata ogni due settimane e si potrà parlare di risultati quando si perdono almeno 1 o 2 cm, ma l'unico modo valido per essere certi di ottenere valori accettabili è aumentare l'attività fisica, od iniziarla se si è sedentari, per "bruciare" quei maledetti "grassi di deposito" difficilissimi da smaltire quando si sono ormai stabilizzati, che non rappresentano solo un fattore antiestetico, bensì eliminarli vuol dire assicurarsi di non ammalarsi ed avviarsi verso una maggiore longevità, per chi ha intenzione di vivere a lungo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 agosto 2021. Per milioni di persone che combattono con l'arrivo della mezza età, c'è sempre una scusa perfetta per giustificare l'aumento di peso: il metabolismo che rallenta a causa dell'avanzare degli anni. Le persone tra i 40 e i 50 anni si aspettano di mettere su qualche chilo: la percezione comune è che si combatte contro gli anni di troppo, non contro il cibo. Un falso mito, almeno secondo le ultime ricerche. In realtà il nostro metabolismo, cioè il processo mediante il quale il nostro corpo brucia energia per mantenere organi e tessuti funzionanti ed efficienti, non inizia a rallentare prima dei 60 anni. «Questi risultati sono stati una vera sorpresa», ha detto Waljit Dhillo, professore di endocrinologia e metabolismo all'Imperial College di Londra. Quindi, se non si tratta di metabolismo rallentato, qual è la causa del girovita che affligge uomini e donne di mezza età? Scartata l’ipotesi del metabolismo veloce/lento, gli scienziati credono che il colpevole sia il cambiamento nello stile di vita: in una fase della vita in cui siamo inclini a fare meno, mangiamo di più. «Quando arriviamo alla mezza età, la maggior parte di noi si è sistemata e probabilmente ha una famiglia», dice Duane Mellor, dietista e responsabile della nutrizione e della medicina basata sull'evidenza presso l'Aston University di Birmingham. «Probabilmente stiamo facendo pasti più abbondanti di quanto dovremmo, concedendoci un bicchiere di vino la sera e uno spuntino davanti alla TV. Anche al lavoro, è probabile che molte persone tra i 40 o i 50 anni abbiano raggiunto una posizione di responsabilità, in cui siedono dietro una scrivania tutto il giorno, ed è il personale più giovane a correre». Ma è solo questo. Alcuni cambiamenti legati all'età nel corpo aumentano il rischio di accumulare chili. Dopo i 30 anni, i muscoli e i tessuti magri si trasformano gradualmente in grasso, soprattutto intorno agli organi interni. Tra i 60 ei 70 anni potremmo avere il 30% di grasso corporeo in più rispetto ai 20 anni, semplicemente a causa degli effetti dell'invecchiamento. I muscoli bruciano fino a dieci volte più calorie del grasso, quindi questo rende più difficile mantenere un peso sano. Per fortuna ci sono metodi per migliorare il metabolismo. Good Health dà un'occhiata alle ultime ricerche su cosa fare. 

Sollevare pesi e fare giardinaggio possono aiutare. Anche se il nostro metabolismo potrebbe non rallentare come si pensava, può essere reso più efficiente. La massa muscolare magra brucia molte più calorie del grasso, quindi l'esercizio aiuta perché trasforma il grasso in muscoli. Eseguite regolarmente esercizi di resistenza o di carico, come sollevare pesi o utilizzare macchine che forniscono allenamento di resistenza (dove i muscoli vengono utilizzati per tirare o spingere pesi) in palestra. «Più massa muscolare magra hai, più alto è il tuo tasso metabolico», spiega Giles Yeo, ricercatore sull'obesità presso l'Unità di malattie metaboliche MRC dell'Università di Cambridge. «Il tuo metabolismo per unità di peso, o il tuo tasso metabolico integrato, è probabilmente in gran parte determinato alla nascita, ma puoi ancora cambiarlo se costruisci più massa muscolare e non sei in sovrappeso». Secondo i medici del SSN gli adulti dovrebbero fare attività di rafforzamento che «lavorino su tutti i muscoli principali - gambe, fianchi, schiena, addome, petto, spalle e braccia» - almeno due giorni alla settimana. Il loro sito web spiega: «Gli esempi comprendono il sollevamento pesi e gli esercizi ad alta intensità. Anche il giardinaggio pesante può essere utile». Se poi l’attività fisica viene svolta prima di mangiare, ancora meglio. Secondo uno studio del 2018 dell'Università di Bath, gli uomini che si sono allenati prima di mangiare hanno bruciato il doppio delle calorie di quelli che si sono allenati dopo, perché l’assenza di cibo nel sistema significa che hanno maggiori probabilità di bruciare depositi di grasso indesiderati. Sempre sugli orari: può aiutare consumare l’ultimo pasto della giornata prima delle 18, perché il metabolismo rallenta naturalmente durante il sonno, rendendo più difficile bruciare le calorie ingerite troppo tardi.

Chi si muove molto ha un vantaggio. Gli studi dimostrano che le persone che si muovono molto hanno un metabolismo migliore di quelle che non lo fanno. Nel 2016, i ricercatori della Mayo Clinic in Arizona, negli Stati Uniti, hanno convinto 16 impiegati a scambiare le loro normali sedie con sedili progettati per incoraggiare il movimento: oscillavano leggermente da un lato all'altro. Ai lavoratori è stato anche dato un dispositivo poggiapiedi elastico, chiamato FootFidget, che spinge gli utenti a "rimbalzare" costantemente i piedi mentre si è seduti a una scrivania. I risultati hanno mostrato che i lavoratori coinvolti hanno bruciato fino al 30% in più di calorie rispetto a quelli rimasti fermi. Il professor Dhillo consiglia: «L'esercizio in qualsiasi forma è una bacchetta magica. Se fai qualcosa che ti fa alzare dal divano e allontanarti dalla TV o dal computer, è probabile che sia di beneficio».   

Per evitare gli spuntini dormi molto. Anche dormire bene è essenziale. Uno studio del 2019 presso la Penn State University, negli Stati Uniti, ha scoperto che bastano quattro notti insonni per mandare in tilt il metabolismo e cambiare il modo in cui metabolizza il cibo. I volontari, che normalmente dormivano dieci ore a notte, sono stati svegliati dopo cinque ore per quattro notti di fila e poi nutriti con pasti ricchi di grassi e calorie a base di peperoncino e pasta. I risultati hanno mostrato che la privazione del sonno ha portato a un aumento dell'insulina, un ormone rilasciato per aiutare le cellule ad assorbire i nutrienti dal cibo, che così sono stati smaltiti più velocemente lasciando i volontari con una sensazione di fame.

Perché le diete non funzionano davvero. C'è un modo infallibile per rallentare il metabolismo: seguire una dieta. «Con alcune diete, il tuo corpo è costretto a scomporre i muscoli da utilizzare per produrre energia», avverte il sito Web del NHS. «Più bassa è la massa muscolare, più lento è il metabolismo». Spiega Mellor: «La chiave è seguire una dieta e fare esercizio in modo intelligente, combinando un'alimentazione sensata con l'allenamento di resistenza e l'esercizio aerobico». 

Un farmaco potrebbe aumentare il metabolismo? Un farmaco che può accelerare il metabolismo potrebbe giovare a milioni di persone, ma è una specie di campo minato per la sicurezza. Dal 2015, almeno dieci persone nel Regno Unito sono morte dopo aver assunto un farmaco dimagrante tossico illegale chiamato dinitrofenolo, o DNP, che hanno acquistato online. «Poiché il DNP si incastra con i tuoi mitocondri, la "centrale energetica" all'interno delle cellule che trasforma le calorie in energia, tu letteralmente "bruci"», dice il dott. Yeo. «Rende il calore corporeo incontrollabile e le persone muoiono di una terribile febbre». Ma c'è una medicina più sicura, basata su prescrizione medica, in cantiere. Chiamato mirabegron, è già usata per trattare la vescica iperattiva. Uno degli effetti collaterali rilevati durante le prove è che la compressa accelera anche il metabolismo facendo bruciare al corpo il cosiddetto grasso "bruno", noto anche come grasso buono. A differenza del grasso bianco, che si accumula intorno alla pancia ed è una fonte povera di energia, il grasso bruno è nascosto in profondità all'interno del corpo (attorno alla colonna vertebrale e ai reni) e può essere utilizzato dal corpo per generare calore quando la temperatura scende. La maggior parte di noi non ha bisogno di bruciare regolarmente il grasso bruno, poiché viviamo in case calde e consumiamo cibo denso di energia. Ma se un farmaco come il mirabegron sarà sicuro potrebbe essere un'altra arma nella lotta contro l'obesità. «Molte persone stanno studiando il grasso bruno, compresi alcuni dei miei colleghi qui all'Università di Cambridge», dice il dott. Yeo. Stanno studiando se è possibile ricavare un farmaco da una molecola, chiamata bmp8b, che si trova nel corpo e che può trasformare il grasso bianco in grasso bruno più sano.

A 60 anni è meglio correre o camminare? Ecco la verità. Monica Cresci il 27 Agosto 2021 su Il Giornale. A 60 anni l’attività fisica è essenziale, ma in molti si domandano se sia meglio camminare o correre. Scopriamo insieme i vantaggi e i benefici delle due pratiche. Sono innegabili i benefici dell’attività fisica e del movimento, come ad esempio la camminata o la corsa da perseguire anche dopo i 60 anni quando il corpo necessita di maggiori sollecitazioni. Una routine utile per una categoria sempre molto impegnata nelle incombenze del quotidiano, e che nello sport trova la giusta valvola di sfogo. Una soluzione per scaricare stress e tensioni ma anche per mantenere il fisico attivo, liberandolo dal grasso di troppo. Del resto l’attività sportiva è la soluzione migliore per ottenere in cambio un fisico forte, tonico e giovane. Tra chi si affida al trekking e chi al nuoto o anche alla sala pesi, c’è anche chi preferisce workout casalinghi o sessioni di pilates o yoga. Senza dimenticare gli appassionati della corsa e della camminata, forse il gruppo più corposo e attivo. Ma dopo i 60 anni quale potrebbe rivelarsi più salutare?

Over 60, perché scegliere tra corsa o camminata. Praticare attività fisica dopo i 60 anni è una scelta utile, non solo per il benessere del corpo ma anche della mente. Una regolarità che può trasformare lo stile di vita spronando gli over 60 a modificare le abitudini del quotidiano, in favore di un maggiore benessere. Ma sempre compatibilmente con la condizione fisica e con il supporto di un medico, che potrà suggerire l’attività più adatta. Dopo i 60 anni i ritmi e l’agilità subiscono dei cambiamenti, diminuiscono la forza fisica e la resistenza. Il corpo non è più scattante come una volta e anche le capacità respiratorie subiscono evidenti cambiamenti. Tutti fattori da considerare prima di scegliere un’attività sportiva, in particolare se si soffre di qualche problematica. Indubbiamente il movimento può solo offrire benefici, in particolare se affrontato nel modo giusto. Anche la corsa può garantire ottimi risultati, basta praticarla senza eccedere e sforzare troppo, ma con la giusta preparazione fisica. Di sicuro la camminata può impattare di meno evitando di incappare in strappi e contratture, garantendo al contempo la possibilità di eliminare il peso in eccesso.

Benefici della corsa, come affrontarla correttamente. Dopo i 60 anni il corpo tende a rallentare i movimenti diminuendo in agilità, potenza e resistenza. La corsa è un’attività che va affrontata con la giusta preparazione, meglio se con il supporto di un team o di un personal trainer così da allenare correttamente muscoli e mente. Per non cadere vittime di traumi muscolari e articolari è necessario praticarla con tranquillità, senza forzare con un ritmo eccessivo e troppo debilitante. Sicuramente la pratica offre innegabili benefici perché spinge a nutrirsi, idratarsi e riposare nel modo giusto, preservando energie e forza per la corsa stessa. Inoltre l’attività aiuta a liberare la mente, stimola la potenza personale e rallenta l’invecchiamento fisico. Migliorando anche la massa muscolare che appare più tonica, con maggiore equilibrio e potenziando le capacità respiratorie. Non bisogna esagerare ma creare un programma con obiettivi da raggiungere ogni giorno, piccoli step utili a focalizzare l’attenzione stimolando l’interesse personale nel modo giusto. Come già accennato la corsa dopo i 60 anni deve poter contare su una corretta preparazione e il supporto di una serie di esperti, che potranno consigliare la metodologia più consona alle proprie necessità.

Camminata, tra sicurezza e benessere. La camminata invece è un’attività sportiva efficace ma meno traumatizzante dal punto di vista fisico, sicura e piacevole con innegabili benefici. Tra tutti una migliore coordinazione, agilità personale, resistenza ed equilibrio, seguiti da un sano dimagrimento e un potenziamento delle capacità respiratorie. Camminare anche per trenta minuti al giorno migliora la resistenza, diminuisce i valori glicemici in modo sano e regolarizza la pressione. Le tossine vengono eliminate e il corpo scarica le zavorre di troppo, con benefici anche per la serenità mentale. Si può effettuare sul posto, ovvero camminata da fermi da praticare in casa oppure seguire un percorso in esterna passando lentamente da sessioni di 20/30 minuti a 40/60 minuti al giorno. L’intensità della camminata deve aumentare gradualmente, è fondamentale preparare il corpo per gestire questa nuova tipologia di resistenza fisica così da migliorare la potenza personale e il fiato. Per i primi tempi è bene farsi seguire da un esperto, affiancare un team o un corso per principianti per giungere gradualmente a una stabilità esecutiva consona alle proprie possibilità.

Corsa e camminata: tra invecchiamento e vantaggi. Il passare inesorabile del tempo è un processo inevitabile che impatta su corpo e mente, per questo è importante giungervi in modo sano e reattivo. Evitando un accumulo dannoso di chili che potrebbero favorire patologie cardiache, respiratorie ma anche diabete, ipertensione e problematiche agli organi. Uno stile di vita sano, con buone abitudini alimentari e di vita, migliorando nettamente la qualità del quotidiano e arginando l’avanzare del tempo. Lo sport si inserisce correttamente all’interno di uno stile più attivo migliorando la salute delle ossa, delle articolazioni e garantendo una dimagrimento ove necessario. I muscoli risultano più tonici con relativo aumento della forza personale, ma anche dell’equilibrio e della coordinazione. Alimentazione, idratazione, sonno sono i comprimari di un percorso importante per il benessere, ma sempre nel rispetto delle capacità personali e con il giusto supporto di un allenatore esperto. Eccedere non è mai una buona scelta perché si può solo scatenare una reazione avversa incappando il problematiche fisiche peggiori. Monica Cresci

La ginnastica dopo i 60 anni: come farla a casa. Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo i 60 anni è possibile restare in forma e in salute praticando ginnastica a casa. Ecco quali sono tutti gli esercizi da fare. Fare ginnastica a casa dopo i 60 anni è molto più che una buona idea. L'esercizio fisico, specie dopo i temutissimi "anta", è caldamente raccomandato dagli esperti in quanto previene l'insorgenza di patologie a carico dell'apparato muscolo-scheletrico e circolatorio. Bastano davvero pochi minuti di allenamento quotidiano - e un pizzico di buona volontà - per tonificare il corpo evitando quei fastidiosissimi acciacchi dell'età. In questo articolo, vi suggeriamo come fare per restare in forma con qualche piccolo accorgimento e un paio di dritte sulla pianificazione dei workout casalinghi.

Perché fare ginnastica a casa. Disporre di tempo utile da dedicare alla cura del proprio corpo dovrebbe essere una priorità assoluta per gli uomini e le donne di tutte le età. Tuttavia, è sempre più difficile riuscire a ritagliarsi un momento per sé durante la giornata. Men che meno lo è frequentare un corso di aerobica o pilates in un centro sportivo. Una valida alternativa alla palestra potrebbe essere l'home fitness, ovvero, la ginnastica a casa. In questo modo, riuscirete ad ottimizzare il tempo a vostra disposizione senza mai dover rinunciare a un pomeriggio di shopping con le amiche o a un romantico week-end con il vostro partner. Senza contare che, qualora decideste di seguire un programma di allenamento online, potete interrompere la sessione di esercizi e riprenderla in qualunque momento. Insomma, sarà un po' come avere a disposizione un personal trainer 24 ore al giorno.

Cosa serve per l'home fitness. Per allenarsi in casa non occorre dotarsi di bilancieri olimpionici e macchine multifunzionali. Anzi. Uno degli aspetti più vantaggiosi dei workout casalinghi è proprio quello di trasformare piccoli oggetti in uso nella quotidianità in attrezzi. Le bottiglie d'acqua da mezzo litro, ad esempio, possono essere utilizzate a mo' di pesi per tonificare la muscolatura delle braccia. Lo stesso si dica della pallina da tennis, utile per rassodare l'interno coscia o assottigliare il punto vita. Gran parte dei programmi di ginnastica casalinga prevedono perlopiù esercizi a corpo libero. In linea di massima, per l'home fitness dovrete disporre di:

abbigliamento comodo (tuta o leggins e sneakers);

cardiofrequenzimetro (per tenere sotto controllo il battito cardiaco);

tappetino antiscivolo;

bande elastiche (non indispensabili);

tablet o pc con connessione a internet per seguire video illustrativi e tutorial.

Quali esercizi si possono fare a casa dopo i 60 anni. In internet, tra le app del vostro smartphone e su alcuni canali della tv satellitare, troverete una miriade di tutorial dimostrativi per la ginnastica da fare a casa. Il nostro consiglio è quello di affidarvi a esperti selezionando un programma di allenamento soft. In questo modo, eviterete di sottoporre corpo a stress eccessivo riducendo il rischio di infortuni. Ecco una breve lista di esercizi total body da eseguire dopo un breve riscaldamento:

stretching: è utile per allentare la cosiddetta "tensione muscolare". Lo strching comprende una lunga serie di esercizi che aiutano a distendere la muscolatura migliorando la fessibilità del corpo;

skip: serve per riattivare tutti i muscoli delle gambe, della braccia e i glutei. È una sorta di corsa/saltello sul posto in cui si muovono in maniera alternata gambe e braccia;

plank: è l'esercizio perfetto per ottenere un ventre piatto. Tutto quello che dovete fare è distendervi su un tappetino antiscivolo, con l'addome rivolto verso il basso, piegando i gomiti a 90°. Sulla superficie gommata dovrete appoggiare solo gli avambracci, le mani e le punte dei piedi. Restate in questa posizione di equilibrio per circa 5 minuti;

affondi: servono a rafforzare i muscoli delle gambe. Da in piedi, allungate una gamba in avanti mentre l'altra piegatala in modo che il ginocchio sfiori il pavimento. Durante l'esecuzione dell'esercizio il busto deve rimanere ben fermo;

esercizi con le bande elastiche: sono utili per tonificare soprattutto i muscoli dorsali. Sedetevi sul tappetino con le gambe allungate, quindi adagiate l'elastico sotto la pianta dei piedi mentre trattenete le due estremità con le mani. Portate i gomiti verso il torso mantenendo gli avambracci perpendicolari al pavimento.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Maria Rita Montebelli per “Il Messaggero” il 22 agosto 2021. Sdoganata da cappotti e maglioni oversize, la pancia è la protagonista suo malgrado della bella stagione. Ammiccante dalle magliette corte delle giovanissime, dalle tuniche morbide delle signore e dalle camicie degli uomini, potrà anche far simpatia, ma certo non contribuisce all'estetica, né all'eleganza. Né tanto meno alla salute. La pancia, intesa come grasso viscerale, dà infatti tanti problemi, anche in persone che hanno il resto del corpo nella norma. Perché si associa ad un aumento del colesterolo cattivo (Ldl) e dei trigliceridi, altera la risposta all'insulina, contribuendo alla comparsa del diabete. È un fattore di rischio noto per ipertensione, infarto, ictus, fegato grasso, artrosi, tumori e depressione. Se si vuole conoscere con precisione il rischio di incappare in questa pletora di problemi, la bilancia non basta. A determinare l'entità del rischio infatti non sono tanto il peso, o l'indice di massa corporea, quanto la distribuzione del grasso. Gambe e braccia magre, non compensano in termini di rischio cardio-metabolico un girovita abbondante, che è spia dell'accumulo del grasso più pericoloso, quello viscerale. Annidato tra gli organi addominali, fegato, intestino, stomaco. È lui il grasso cattivo per antonomasia, che fa impennare i valori di pressione arteriosa e di glicemia. E che non va confuso con il grasso sottocutaneo che, pur contribuendo alle rotondità (anche sulla pancia), non fa danni cardio-metabolici. Il grasso viscerale è diverso: è tossico in quanto rilascia gli acidi grassi liberi nella circolazione del fegato, da dove si vanno ad accumulare in una serie di organi (cuore, pancreas, ecc.), ostacolandone il funzionamento ottimale. Questo tipo di grasso produce anche la RBP4 (retinol binding protein 4), una proteina che aumenta la resistenza all'insulina e vari biomarcatori dell'infiammazione che contribuiscono ad aumentare il rischio di malattie croniche. Il grasso all'interno dell'addome insomma, lungi dall'essere solo un di più, un'innocente imbottitura, è un grasso cosiddetto attivo dal punto di vista metabolico, e può fare danni seri. Una valutazione sulla condizione della nostra pancia consiste nel misurare la sola circonferenza vita con un metro da sarta non elastico. In posizione eretta con i piedi uniti, si espira tutta l'aria e, senza tirare in dentro la pancia, si misura il punto vita a livello dell'ombelico, con il metro parallelo al pavimento. Le misure del rischio variano anche in questo caso a seconda del genere: nell'uomo il rischio aumenta sopra i 94 cm, mentre per la donna compare al di sopra di 80 cm di circonferenza vita. Quindi, prima di tutto, controllare le misure. Le linee guida prevedono, dunque, quattro differenti misure: 1) peso moderato, 80 cm per le donne e 90 cm per gli uomini; 2) sovrappeso, 90 cm per le donne e 100 cm per gli uomini; 3) obesità di primo grado, 105 cm per le donne e 110 cm per gli uomini; 4) obesità di secondo grado, 115 cm per le donne e 125 cm per gli uomini. La valutazione spannometrica del grasso addominale è dunque molto facile. Decisamente meno semplice è invece la terapia per questa condizione che richiede grande determinazione, restrizione calorica ed esercizio fisico. Mezz' ora al giorno di esercizi cardio (corsetta, bicicletta, circuit training, nuoto), alternati a esercizi di resistenza (pesetti, bande elastiche) almeno 5 giorni alla settimana sono una buona base di partenza. Yoga, pilates e meditazione sono valide strategie anche per tenere a bada lo stress, nemico assoluto della dieta. Ma la protagonista della perdita di peso, anche per il grasso viscerale, è proprio la dieta che dev' essere ben bilanciata, povera di zuccheri e condimenti, ricca di carboidrati complessi (sono quelli contenenti amido ovvero pane, pasta, pizza), proteine magre e tanta verdura.

Dagotraduzione da Study Finds il 21 agosto 2021. Uno studio ha scoperto che una dieta a digiuno intermittente potrebbe aiutare a proteggere le persone anziane da cadute e altre lesioni rafforzando i loro muscoli. Il digiuno intermittente, noto anche come alimentazione limitata nel tempo­, potrebbe anche essere un intervento efficiente in termini di costi per prevenire il diabete di tipo 2, la malattia del fegato grasso e il cancro al fegato, afferma un team del Salk Institute for Biological Studies in California. Il digiuno per un­­ periodo più lungo potrebbe anche proteggere meglio dalle malattie infettive come il COVID-19 e persino salvare le persone dalla morte di sepsi. Il digiuno intermittente è un regime alimentare che sta diventando sempre più popolare. La dieta consiste nel mangiare ogni otto ore e potrebbe avere molteplici benefici per la salute oltre alla perdita di peso. I ricercatori hanno somministrato una dieta ricca di grassi e zuccheri a topi di due diverse fasce di età, equivalenti a umani di 20 e 42 anni. Il team ha eseguito test e ha confrontato i risultati dell'alimentazione in tempo limitato (TRE) su steatosi epatica, regolazione del glucosio, massa muscolare, prestazioni e resistenza e tassi di sopravvivenza alla sepsi. I ricercatori hanno anche lavorato di notte per abbinare gli orologi circadiani degli animali, lavorando con occhiali per la visione notturna e illuminazione specializzata. Indipendentemente dall'età, dal sesso o dalla perdita di peso, la dieta protegge fortemente dalla malattia del fegato grasso. Le stime mostrano che fino al 20% degli adulti statunitensi ha una steatosi epatica non alcolica, in cui ci sono piccole quantità di grasso nel fegato. Questo può portare a gravi danni al fegato, inclusa la cirrosi, nel corso del tempo. 

Il digiuno intermittente può prevenire gravi complicazioni ospedaliere?

I test di tolleranza al glucosio orale somministrati ai topi dopo 16 ore di digiuno hanno indicato che il digiuno intermittente era associato a un minor aumento della glicemia e a un più rapido ritorno ai normali livelli di zucchero nel sangue sia nei maschi giovani che in quelli di mezza età, con un significativo miglioramento della tolleranza al glucosio nelle femmine giovani e di mezza età. Allo stesso modo, i topi di mezza età su TRE sono stati in grado di ripristinare i normali livelli di zucchero nel sangue in modo più efficiente rispetto ai topi di controllo, che avevano cibo a disposizione in ogni momento. I ricercatori hanno anche scoperto che il digiuno intermittente può proteggere sia i maschi che le femmine dalla morte indotta dalla sepsi. Questo è un pericolo particolare nelle unità di terapia intensiva, specialmente durante la pandemia di COVID-19. Dopo aver somministrato una tossina che ha indotto una condizione simile alla sepsi nei topi, i ricercatori hanno monitorato i tassi di sopravvivenza per 13 giorni e hanno scoperto che il TRE proteggeva i topi maschi e femmine dalla morte di sepsi. 

Una spinta muscolare per gli anziani. Il professor Satchidananda Panda afferma che la dieta a digiuno intermittente ha persino consentito ai topi maschi di preservare e aggiungere massa muscolare e migliorare le prestazioni muscolari. Gli autori dello studio non hanno osservato lo stesso effetto nelle femmine. Il team afferma che questa è una scoperta importante per gli anziani, che sono a più alto rischio di lesioni da caduta. "Per molti interventi clinici TRE, l'esito primario è la perdita di peso, ma abbiamo scoperto che TRE è buono non solo per le malattie metaboliche ma anche per una maggiore resilienza contro le malattie infettive e la resistenza all'insulina", afferma Panda in un comunicato universitario. "Questa era la nostra prima volta che studiavamo topi femmina e non eravamo sicuri di cosa aspettarci", aggiunge la dott.ssa Amandine Chaix, assistente professore presso l'Università dello Utah. "Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che, sebbene le donne su TRE non fossero protette dall'aumento di peso, mostravano comunque benefici metabolici, inclusi fegati meno grassi e glicemia meglio controllata".

Antonio G. Rebuzzi, Docente di Cardiologia Università Cattolica Policlinico Gemelli Roma, per "Il Messaggero" il 17 febbraio 2021.

PROBLEMI DI PESO. Obesità, quanti rischi per quei chili in più. Una patologia che aggrava e, spesso scatena, altre patologie. Lo stretto legame tra grave eccesso di peso e diabete, ipertensione, infarto e malattie renali lo conosciamo bene. La letteratura scientifica e la pratica clinico ce lo hanno ampiamente dimostrato. Ma, forse, non ci aspettavamo che questa condizione ormai così diffusa anche in Italia (5 milioni) aggravasse il decorso di un'infezione virale come quella del Covid-19. L'obesità è stata identificata tra le cause che rendono più complessa la guarigione nei pazienti con coronavirus. Come risulta da uno studio dell'American Heart Association Covid-19 Cardiovascular Disease Registry coordinato da Nicholas S. Hendren e pubblicato sulla rivista Circulation.

GLI OSTACOLI. Una sorpresa per molti, una conferma per chi, quotidianamente, si trova a visitare pazienti che soffrono di obesità. Parliamo di uomini e donne più vulnerabili che, nel momento in cui si ammalano, devono affrontare molti più ostacoli per uscire dalla malattia. Il lavoro americano ha analizzato i dati di oltre 7.600 pazienti affetti da Covid-19 provenienti da 88 ospedali degli Stati Uniti. L'obesità tra i ricoverati era iper-rappresentata rispetto alla media della popolazione americana: ben il 43% di loro era obeso. In particolare nei pazienti di età inferiore a 50 anni la percentuale di chi soffriva di obesità tra gli infettati era il doppio della media nazionale. La mortalità tra i pazienti dello studio si è rivelata pari al 17,1%, il 21% del campione è stato sottoposto a ventilazione meccanica. Gli obesi hanno avuto una percentuale di mortalità superiore del 26% rispetto ai non obesi, ed una necessità di ventilazione meccanica superiore dell'80%. In questi pazienti è stato riscontrato anche un rischio maggiore di insufficienza renale nonché di tromboembolismo venoso o polmonare.

GLI UNDER 50. L'associazione tra obesità e prognosi peggiore (morte o ventilazione meccanica) era molto evidente specialmente nei più giovani (sotto i 50 anni) mentre scompariva negli ultra settantenni. Addirittura nei grandi obesi di età inferiore a 50 il rischio mortalità per Covid-19 era del 36% superiore alla media. La ricerca, dunque, ci offre un'ulteriore prova della fragilità di questi pazienti. Nel caso del coronavirus questa si traduce in una maggiore probabilità di ospedalizzazione e, una volta ricoverati, in un rischio maggiore di mortalità o terapia intensiva prolungata rispetto ai non obesi. Quelli che soffrono di questa patologia dovrebbero essere considerati soggetti ad alto rischio (ma anche avere la coscienza di esserlo) e essere vaccinati presto indipendentemente dall'età.

LE INFIAMMAZIONI. Non è, inoltre, escluso che quella particolare condizione non renda il paziente più vulnerabile al virus. Le condizioni legate all'obesità, inclusa l'infiammazione e la permeabilità intestinale, rendono i polmoni dei pazienti obesi più suscettibili al Covid-19. Come testimonia un'altra ricerca della University of Texas Southwestern pubblicata sulla rivista scientifica eLife. «È stato dimostrato che diverse condizioni preesistenti aumentano il rischio di gravità del Covid-19, tra cui l'obesità e il diabete di tipo 2, che spesso vanno di pari passo», spiega Philipp Scherer direttore del Touchstone Center for Diabetes Research dell'ateneo statunitense. L'obesità e il sovrappeso grave sono associate ad elevata mortalità anche per altre patologie e rappresentano un fattore di rischio per numerose malattie croniche come quelle cardiovascolari (ictus, infarto), l'ipertensione e il diabete di tipo 2. Si stima che il 44% dei casi di diabete tipo 2, il 23% dei casi di cardiopatia ischemica e fino al 40% di alcuni tipi di tumori possano, direttamente o indirettamente, essere in relazione all'obesità.

L'Istat certifica che l'eccesso di peso riguarda un minore su 4 e la quota raddoppia tra gli adulti con il 46% oltre i 20 anni. Un'emergenza così grave che, nel novembre del 2019, il Parlamento ha votato all'unanimità il riconoscimento dell'obesità come una malattia cronica recidivante a tutti gli effetti. Si era pronti a dare l'avvio a un Piano nazionale di cura e prevenzione. Ma il tornado della pandemia ha rallentato, se non fermato, il progetto.

·        Il Fumo.

La cortina di fumo. Report Rai PUNTATA DEL 25/05/2020 di Giulio Valesini, collaborazione di Elisa Bruno e Laura Nesi. Dopo anni di lotta al fumo e diminuzione dei fatturati da sigarette tradizionali, le grandi aziende del settore hanno lanciato prodotti alternativi, tra cui quelli a tabacco riscaldato: gli HTP. Si assume nicotina ma senza combustione. All'apparenza gli HTP dovrebbero essere meno rischiosi per la salute, ma una relazione dell'Istituto Superiore di Sanità di cui Report è in possesso lo smentisce. Eppure l'Iqos di Philip Morris e gli HTP delle altre aziende sono sottoposti a una tassazione molto più favorevole delle sigarette tradizionali. Chi lo ha deciso? Perché?  Report, insieme ad altri dodici media internazionali coordinati dal Consorzio di giornalismo investigativo OCCRP nel progetto “Blowing Unsmoke”, lo racconterà, anche chiedendo conto a quei centri di ricerca che dicono di combattere il fumo ma sono finanziati dalle industrie del tabacco.

Philip Morris Italia non ha voluto rilasciare una videointervista a Report: queste le loro risposte scritte.

RISPOSTE PMI Da: Relazioni, Media. Inviato: giovedì 21 maggio 2020 11:42 A: Redazione Report. Oggetto: Report.

Buongiorno Laura, di seguito puoi trovare tutte le risposte alle vostre domande che speriamo servano a darvi elementi utili per un’informazione quanto più completa possibile. Prima di rispondere puntualmente alle vostre domande, in maniera anche più esaustiva di una intervista, ci preme sottolineare un aspetto relativamente al tema della puntata. Prendiamo atto che questa sia esclusivamente focalizzata su un prodotto, il tabacco riscaldato, che per quanto in crescita, rappresenta una quota di mercato pari al 3,94%, contro una quota per le sigarette di oltre l’85%, (dato relativo al periodo 1 gennaio 2019 — 30 settembre 2019 - fonte: Relazione Tecnica Legge di Bilancio 2020). Sebbene i prodotti a tabacco riscaldato non siano prodotti privi di rischio, rappresentano sicuramente delle alternative valide rispetto alle sigarette per tutti quei fumatori adulti che continuerebbero a fumare. Secondo quanto riportato dall’ Istituto Superiore di Sanità, “in Italia i fumatori sono 11,6 milioni e rappresentano il 22% della popolazione, con una prevalenza uguale a quella riscontrata undici anni fa (2008), a riprova del fatto che ci troviamo da oltre dieci anni in una situazione di stagnazione” (Istituto Superiore di Sanità, 3 1/05/2019). Come abbiamo avuto modo di scrivervi siamo l’unica azienda del settore ad aver dichiarato pubblicamente di voler completamente sostituire le sigarette con prodotti senza combustione, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, nel più breve tempo possibile. Crediamo infatti che incentivare il passaggio a prodotti senza combustione per i fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a fumare, unitamente al persistere delle politiche di cessazione e disassuefazione dal fumo, potrebbe contribuire ad accelerare il trend verso la completa eliminazione delle sigarette, obiettivo che — ci teniamo a ribadire — solo Philip Morris si è impegnata pubblicamente a perseguire. È utile portare alla vostra attenzione che sono stati recentemente presentati alcuni emendamenti parlamentari che propongono esclusivamente di aumentare le tasse sui prodotti a tabacco riscaldato, che ricordiamo rappresentano una quota molto marginale, senza però fate altrettanto con le tasse sulle sigarette. Ci domandiamo quindi se queste proposte rappresentino un reale interesse pubblico o siano semplicemente spinte da meri interessi competitivi per bloccare la crescita di un prodotto che sta erodendo il mercato delle sigarette. Auspichiamo dunque che il servizio possa rappresentare la complessità dei temi trattati, da quelli relativi alla tassazione dei diversi prodotti a quelli scientifici, dando inoltre piena evidenza delle differenze tra le pratiche delle diverse aziende per non generare confusione. Analizzeremo in maniera approfondita il rapporto scritto nel 2018 dall’Istituto Superiore di Sanità che ha risposto con un giudizio non favorevole alla vostra richiesta di riconoscimento di riduzione del rischio e riduzione delle sostanze tossiche negli EHTP, rispetto ai prodotti da combustione, a parità di condizioni di utilizzo Come già precisato, Philip Morris Italia ha volontariamente presentato al Ministero della Salute una prima parte di studi ed evidenze scientifiche sul nostro prodotto senza combustione IQOS nel 2018. Ci teniamo a precisare che le autorità italiane, diversamente da quanto da voi riportato, hanno ritenuto che tali studi, “allo stato attuale e sulla base della documentazione fornita”, non fossero sufficienti per etichettare il prodotto come “a ridotta tossicità” o “a rischio ridotto” rispetto ai prodotti a combustione. Come abbiamo avuto modo di scrivervi, diversamente da quanto sostenuto dell’istituto Superiore di Sanità, ad oggi, più di dieci enti terzi governativi internazionali hanno preso una posizione netta nel riconoscere come il sistema 1005 sia in grado di ridurre significativamente le sostanze tossiche presenti nel fumo di sigarette. Tra questi:

il “German Federal Institute for Risk Assessment (BfR)” in Germania

il “Public Health England” nel Regno Unito

il “National Institute of Public Health (Japan)” in Giappone

il “National Institute for Public Health and the Environment fRIVM)” in Olanda. È importante inoltre precisare come la valutazione dell’istituto Superiore di Sanità si basi su studi precedenti al 2017. In Italia infatti, per motivi legati a come è strutturato il processo di sottomissione volontaria delle evidenze scientifiche, nei pochi mesi previsti per la revisione, non è stato possibile integrare il dossier con studi più recenti, né con informazioni o studi complementari forniti da terze parti, né rispondere durante il processo ai comprensibili dubbi posti dall’ISS nel suo rapporto. Solo a titolo esemplificativo riportiamo invece il caso US, dove l’iter legislativo previsto dalla Food and Drug Administration — ovvero l’ente che si occupa anche della regolamentazione dei prodotti del tabacco — rende possibile una interazione e una continua integrazione della documentazione scientifica da parte dell’industria, lasciando anche la possibilità di integrazioni/commenti da parte di esperti e di aprire consultazioni pubbliche, in un processo di dialogo costante tra le parti. Tale iter, durato oltre 2 anni, ha fatto sì che lo scorso 30 aprile 2019 1005 sia stato autorizzato alla commercializzazione nel Paese in quanto ritenuto “uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”. Per vostra maggiore informazione potete consultare a questo link - a mero titolo d’esempio - le differenze emerse dalle analisi della Food and Drug Administration. Nonostante questo rapporto, sappiamo che ad inizio del 2019, avete chiesto, tramite la società Solving Bfm un incontro ad alcuni medici deIl’lspro della Regione Toscana per chiedere di raccomandare lqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco Confermiamo l’appuntamento con alcuni medici dell’Ispro della Regione Toscana e rappresentanti dell’Assessorato alla Sanità. L’informazione secondo cui avremmo chiesto questo appuntamento per “chiedere di raccomandate lqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco”, invece, è fuorviante rispetto alla nostra richiesta, e non rappresenta in alcun modo quanto discusso durante l’incontro con Regione Toscana. La legislazione esistente della Regione Toscana, attraverso l’ “lntegrazione alle Linee guida di prevenzione Oncologica Tabagismo” del 2014 già include indicazioni per gli operatori sanitari con riferimento alla sigaretta elettronica. Alla luce della legislazione esistente la quale, tra le altre cose, prevede che “dovrebbe essere incrementata la ricerca sulla sigaretta elettronica per valutarne il reale impatto in termini di sicurezza per la salute, di cessazione del fumo di tabacco, e di riduzione del danno nel fumatore tradizionale che non riesce a smettere”, abbiamo chiesto quali azioni la Regione stesse considerando, a cinque anni dall’approvazione della legge stessa. Nella riunione non si è parlato di singoli prodotti. Con i Rappresentanti Istituzionali presenti abbiamo discusso di una potenziale applicazione del principio della riduzione del danno al settore del tabacco, che comprende qualsiasi prodotto privo di combustione, e di una sua possibile integrazione al fianco delle politiche di prevenzione e di controllo che rimangono le strategie chiave nella lotta al fumo. Secondo quanto riportato dai fonti di stampa a fine 2019, Philip Morris risulta essere cliente della Casaleggio Associati. Ci confermate questo rapporto commerciale? Che tipo di consulenza avete richiesto? A quanto ammonta il contratto stipulato? È tuttora in essere? I rapporti con Fornitori e Consulenti sono informazioni di carattere riservato. Se la domanda sottintende un eventuale legame con realtà legate ci teniamo a precisare che Philip Morris Italia non finanzia partiti o movimenti politici in Italia. Monitorando i sodal network abbiamo notato in passato, soprattutto su lnstagram, macro e micro influencer fumare lqos. Questa tipologia di post è stata da voi gestita e contrattualizzata? Qual è oggi la vostra linea? In Italia, a differenza di altri operatori del settore, Philip Morris non ha mai contrattualizzato alcun digital influencer per la promozione dei suoi prodotti senza fumo sui social media. Che tipo di politica seguite per evitare che un minore possa acquistare lqos direttamente dal vostro sito internet? I minorenni non devono utilizzare nessun prodotto contente nicotina, e adottiamo procedure specifiche per garantire il più alto livello possibile di aderenza a questo obiettivo su tutti i nostri canali commerciali. Per quanto riguarda l’acquisto online, chi accede al sito web iqos.com deve dichiarare di essere un fumatore e di essere maggiorenne. Inoltre, chiunque intende procedere all’acquisto di IQOS sul sito web iqos.com deve fornire la propria data di nascita e, qualora sia un minorenne, l’acquisto di IQOS non potrà essere finalizzato. In aggiunta, Philip Morris Italia ha volontariamente imposto un obbligo al corriere che al momento della consegna deve chiedere il documento di identità del ricevente e verificare e accertare che chi riceve il bene è l’acquirente e che sia un maggiorenne. Se chi Io riceve è un minorenne o si rifiuta di mostrare il proprio documento di identità, il corriere ha l’obbligo di rifiutare la consegna. Si tratta di un servizio supplementare richiesto volontariamente dall’azienda al fornitore del servizio, per il quale è prevista la corresponsione di una fee aggiuntiva di circa 100.000 euro l’anno. La garanzia dell’attuazione della verifica dell’età rappresenta una condizione necessaria per la sottoscrizione dei contratti di fornitura stipulati da Philip Morris Italia, che ha deciso volontariamente di non essere presente con i propri prodotti su altri canali di vendita e-commerce in assenza ditali garanzie. Avete mai effettuato sponsorizzazioni o partnership con movimenti e fondazioni politiche? No. A differenza di altre aziende del settore, Philip Morris Italia non finanzia partiti, fondazioni o movimenti politici in Italia come tra l’altro avete già correttamente riportato durante un vostro servizio dedicato proprio a questo tema, a seguito di una vostra approfondita inchiesta, andato in onda Io scorso 4 dicembre 2017. (servizio: “Il lobbista che è in noi” di G. Mottola: minuto 06.00 al minuto 06.35). Nel restare a vostra disposizione vi porgiamo cordiali saluti.

Philip Morris Italia From: Redazione Report Sent: martedì 19 maggio 2020 17:08 Subject: R: Report.

Buonasera Michele, nel corso della prossima puntata di Report dedicata alla legislazione e tassazione dei prodotti a tabacco riscaldato, parleremo di alcuni documenti che abbiamo potuto visionare:

Analizzeremo in maniera approfondita il rapporto scritto nel 2018 dall’Istituto Superiore di Sanità che ha risposto con un giudizio non favorevole alla vostra richiesta di riconoscimento di riduzione del rischio e riduzione delle sostanze tossiche negli EHTP, rispetto ai prodotti da combustione, a parità di condizioni di utilizzo

 Nonostante questo rapporto, sappiamo che ad inizio del 2019, avete chiesto, tramite la società Solving Bfm un incontro ad alcuni medici dell’Ispro della regione Toscana per chiedere di raccomandare Iqos come strumento utile ai propri pazienti che non riescono a smettere di fumare per ridurre il danno da tabacco

Secondo quanto riportato dai fonti di stampa a fine 2019, Philip Morrìs risulta essere cliente della Casaleggio Associati. Ci confermate questo rapporto commerciale? Che tipo di consulenza avete richiesto? A quanto ammonta il contratto stipulato? E tuttora in essere?

Monitorando i social network abbiamo notato in passato, soprattutto su Instagram, macro e micro influencer fumare Iqos. Questa tipologia di post è stata da voi gestita e contrattualizzata? Qual è oggi la vostra linea?

Che tipo di politica seguite per evitare che un minore possa acquistare Iqos direttamente dal vostro sito internet?

Avete mai effettuato sponsorizzazioni o partnership con movimenti e fondazioni politiche? Dato che di tutto questo renderemo conto ai nostri telespettatori, penso sia di reciproco interesse la vostra presenza all’interno della puntata. Per motivi legati alla produzione ti chiedo una risposta entro e non oltre giovedì 21 maggio h 11:59 am. Ti ringrazio come sempre per la disponibilità. Cordialmente, Laura Nesi Redazione Report

Da: Samoggia Zerbetto, Michele Inviato: venerd’ì 24 aprile 2020 17:09 A: Redazione Report.

1. Questo link e in allegato puoi trovare i contenuti del webinar della Food and Drug Administration statunitense su “Perché la FDA ha autorizzato la commercializzazione del prodotto a tabacco riscaldato”.

2. Una raccolta delle dichiarazioni di alcune delle principali autorità governative che hanno analizzato o rivisto la letteratura scientifica disponibile su IQOS.

3. lI link al sito di PMI Science dove, oltre a tutta la nostra attività di ricerca scientifica, potrai trovare una sezione dedicata agli studi indipendenti. 4. L’ultima edizione del fact-sheet dell’OMS sul tabacco riscaldato. Come vedrai, nell’ambito di un approccio cautelativo, che raccomanda studi indipendenti per determinare gli effetti di questi prodotti sul lungo periodo, si riporta, tra le altre cose, che “[...] in addition to tobacco industry funded studies, there ore some independent studies showing that there ore significant reductions in the formation of and exposure to some harmful and potentially harmful constituents (HpHcs) relative to standard cigarettes and independent reviews of industry data have concluded the same. However, the relationship between exposure and health effect is complex and reduced exposure to these harmful chemicals does not mean that they are harmless, nor does it translate to reduced risk in humans”.

A quanto ammonta la voce di bilancio destinata a Ricerca e Sviluppo ogni anno in Italia L’attività di R&D di Philip Morris International è svolta presso i nostri due centri di ricerca in Svizzera e Singapore. Philip Morris International ha dedicato, a partire dal nuovo millennio, oltre 7 miliardi di dollari alla ricerca e sviluppo di alternative senza combustione al fine di eliminare le sigarette, sostituendole per i fumatori adulti che altrimenti continuerebbero a fumare. In allegato trovi una scheda riassuntiva di tutta la nostra attività di R&D (Scheda 3.SCIENCE), consultabile anche sul sito pmiscience.com. Philip Morris è presente in Italia con due affiliate: Philip Morris Italia S.r.l. e Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna S.p.A. (PMMTB). L’italia è il centro di eccellenza a livello mondiale per la prototipazione, la produzione su larga scala e la formazione del personale dei prodotti alternativi e di filtri ad alto contenuto tecnologico di Philip Morris. Attiva a Zola Predosa (Bologna) dal 1963 con uno stabilimento per la produzione di filtri ad alto contenuto tecnologico, l’azienda è stata ampliata a partire daI 2014 grazie a un investimento di i miliardo per la costruzione, l’avviamento e la messa a regime del primo impianto produttivo al mondo per la produzione su larga scala di prodotti del tabacco senza fumo. Lo stabilimento bolognese è il Lead site per i 44 stabilimenti PMI presenti in 32 paesi e rappresenta il centro di eccellenza mondiale per l’innovazione nelle tecnologie produttive per la manifattura di filtri e prodotti a potenziale rischio ridotto. In qualità di primo stabilimento del suo tipo nel mondo, PMMTB è oggi il centro in cui vengono definiti i processi industriali per la produzione dei prodotti innovativi. Il know-how sviluppato al suo interno viene esportato all’estero nella fase di riconversione delle altre affiliate produttive del gruppo, estendendo così oltre i confini del territorio nazionale il perimetro potenziale di attivazione di filiera dell’attività manifatturiera svolta in Italia. Tra il 2017 e il 2018, PMMTB ha investito oltre 336 milioni di euro in R&D, innovazione tecnologica e ottimizzazione dei processi. Oltre 1600 persone sono attualmente impiegate a Bologna a pieno regime (grazie al nuovo investimento sono stati creati oltre 1200 nuovi posti di lavoro, che si sommano alle circa 400 persone già operative prima dell’avvio dell’investimento nel 2014). Il numero di occupati complessivi in Italia, tra le due affiliate, è pari a 2.460 persone, rispetto agli 864 del 2014.

Quanto spendete annualmente in marketing e promozione del prodotto (Iqos) Nel 2019 i prodotti senza fumo hanno rappresentato il 71% delle spese commerciali e il 98% delle spese in ricerca e sviluppo (“PMI Annual Report 2019”). Solo tre anni fa, queste cifre erano il 15% e 72% a testimonianza di quanto l’azienda sia completamente focalizzata sui prodotti senza fumo. Il crescente trasferimento di risorse dalle sigarette ai prodotti senza combustione è in linea con la visione e l’obiettivo finale di una completa sostituzione.

From: Redazione Report Sent: martedì 21 aprile 2020 11:36 To: Samoggia Zerbetto, Michele, Nesi Laura. Subject: R: Report.

Buongiorno Michele, di seguito ti fornisco una lista di risposte alle tue domande, nella speranza siano sufficientemente esaustive da poterci concedere un’intervista:

1) Il nostro servizio racconterà la recente evoluzione del mercato del tabacco in Italia, con un focus sui nuovi prodotti a tabacco riscaldato e sul regime di tassazione a cui sono sottoposti. Nello specifico saremmo interessati a conoscere: - Le prospettive di Philip Morris rispetto al suo prodotto a tabacco riscaldato, Iqos - Se pensate, o meno, che questi prodotti possano sostituire sul lungo periodo le sigarette tradizionali - Come commentate e giudicate la tassazione agevolata di cui godono questi prodotti in Italia - Se esistono evidenze scientifiche che dimostrano la minore tossicità dei prodotti a tabacco riscaldato e una riduzione del danno -A quanto ammonta la voce di bilancio destinata a Ricerca e Sviluppo ogni anno in Italia - A quanto ammonta la percentuale di fatturato di Iqos rispetto alle sigarette tradizionali. Da qui a 5 anni che tipo di evoluzione vi aspettate? - Quanto spendete annualmente in marketing e promozione del prodotto (Iqos)

2) Saremmo interessati a svolgere l’intervista - dalla durata di circa 45 minuti - nella sede italiana di Philip Morris a Crespellano (Bo). La puntata andrà in onda nella seconda metà di maggio.

3) Abbiamo già richiesto interviste a società scientifiche nazionali e internazionali, e ad altre aziende del settore come British American Tobacco; inoltre ci è stata garantita una presenza da parte delle autorità sanitarie italiane (Ministero della Salute e/o Istituto Superiore Sanità) e saranno intervistati numerosi decisori italiani. Visto l’interesse pubblico della materia e il fatto che analizzeremo il ruolo dei principali player del settore e i loro prodotti riteniamo di reciproco interesse la presenza di Philip Morris all’interno della puntata. In caso non foste disponibili, ne dovremo dare conto ai nostri telespettatori. Per motivi legati alla produzione ti chiedo cortesemente una risposta entro la giornata di venerdì 24 aprile. Un saluto, Laura Nesi Redazione Report

Da: Samoggia Zerbetto, Michele [— Inviato: mercoledì 15 aprile 2020 11:17 A: Valesini Giulio Cesare Cc: [CG] Redazione Report; Mirabella, Antonio Oggetto: FW: Report.

Buongiorno Giulio, come anticipato al telefono a te e alla tua collega Lauta, avremmo bisogno di sapere quali saranno i temi che vorreste approfondite e quali saranno, se ve ne sono, le altre voci rappresentate. Durante la nostra ultima telefonata mi dicevi, infatti, che avresti sentito anche altri attori, tra cui altre aziende del settore. Rispetto ai documenti che ti ho mandato in data 19 marzo u.s., volevo sapere se era quello che ti serviva o se avessi bisogno di altro. Resto a tua disposizione. Grazie, a presto

From: Valesini Giulio Cesare Sent: venerdì 10 aprile 2020 18:27 To: Samoggia Zerbetto, Michele Subject: RE: Report.

Buonasera Michele, ho provato a chiamarti ma purtroppo senza successo. Come avevamo ampiamente chiarito telefonicamente, l’intervista che vi abbiamo chiesto, come del resto è ovvio vista la natura del programma Report, è video e non scritta. Fammi sapere come è possibile organizzarci. Come sempre da parte nostra avrete la massima disponibilità come nello spirito di servizio pubblico che ci contraddistingue. Cordiali saluti Giulio Valesini Giulio Cesare Valesini e-mail: web: rai.it

Da: Samoggia Zerbetto, Michele Inviato: venerdì 10 aprile 2020 17.49 A: Valesini Giulio Cesare Cc: Redazione Report; Mirabella, Antonio Oggetto: FW: Report.

Ciao Giulio, rispetto ad un possibile intervento di Philip Morris, ti chiederei di mandarmi le domande in modo da poterti inviare le risposte. Rispetto al materiale che ti ho mandato, resto a tua disposizione qualora avessi bisogno di altro. Grazie, a presto

From: Samoggia Zerbetto, Michele Sent: giovedì 19 marzo 2020 08:39 Io: Cc: Subject: FW: Report.

Buongiorno Giulio, come d’accordo, ti allego quanto segue:

1) Comunicato stampa e il documento completo dell’FDA circa l’autorizzazione alla commercializzazione negli Stati Uniti d’America di IQOS — ottenuta da Philip Morris International (PMI) lo scorso 30 aprile 2019 a seguito di un processo di revisione durato oltre 2 anni che ha portato l’agenzia del farmaco statunitense a decretare che IQOS — primo prodotto della sua categoria a ottenere tale riconoscimento - “è uno strumento idoneo alla tutela della salute pubblica”; Mentre a >guesto link e in allegato puoi trovare i contenuti del webinar della Food and Drug Administration statunitense su “Perché la FDA ha autorizzato la commercializzazione del prodotto a tabacco riscaldato”

2) Lo studio Exposure Response Study (ERS), primo studio clinico di PMI di media-lunga durata atto a valutare in maniera diretta il potenziale di riduzione del danno del prodotto a tabacco riscaldato IQOS nei fumatori che passano al suo utilizzo.

3) Una raccolta delle dichiarazioni di alcune delle principali autorità governative che hanno analizzato o rivisto la letteratura scientifica disponibile su IQOS.

4) Uno studio pubblicato su Tobacco Control e condotto da ricercatori dell’American Cancer Society volto a determinare se l’introduzione di IQOS abbia effettivamente avuto un impatto sulle vendite di sigarette in un’economia di grandi dimensioni come il Giappone. Lo studio conferma che le vendite di sigarette hanno iniziato un calo sostanziale in seguito all’introduzione di lQOS in ognuna delle 11 regioni analizzate in Giappone.

5) lI link al sito di PMI Science dove, oltre a tutta la nostra attività di ricerca scientifica, potrai trovare una sezione dedicata agli studi indipendenti.

6) La strategia contro il tabagismo del governo UK denominata “Towards a Smoke Free Generation”;

7) La Convenzione Quadro per il Controllo del Tabacco (FCTC), istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in cui all’articolo i si menziona come “tobacco control’ means a range ofsupply, demand and harm reduction strategies that aim to Improve the health of a population by eliminating or reducing their consumption of tabacco products and exposure to tabacco smoke”; Nel ringraziarti, resto a disposizione per qualsiasi ulteriore informazione di cui dovessi avere bisogno. A presto Michele

“LA CORTINA DI FUMO” di Giulio Valesini collaborazione Elisa Bruno Laura Nesi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, parliamo del tabacco riscaldato. Sta sostituendo, prendendo sempre più piede, sostituendo la sigaretta tradizionale, il problema è che sta prendendo piede anche tra i giovanissimi, ma su questo indaga l’antitrust. Perché?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A febbraio di quest’anno, l’Università di Stanford ha pubblicato un dossier di oltre 300 pagine sulla massiccia strategia di marketing portata avanti da Philip Morris negli ultimi anni per rendere popolare il suo prodotto a tabacco riscaldato. Tra boutique, design accattivanti, party, festival e vip, il dossier si concentra soprattutto sull’uso dei social network, e in particolare di Instagram, quello più usato dai giovani. Otto account ufficiali, oltre 400mila hashtag #Iqos, post studiati per rendere il prodotto desiderabile, uso di giovani influencer, forse anche troppo. A maggio 2019 un’indagine di Reuters accusa Philip Morris di utilizzare per la sua campagna social influencer sotto i 25 anni, contravvenendo alla sua stessa policy, tanto che la multinazionale fa mea culpa e la sospende.

ROBERT JACKLER – GRUPPO DI RICERCA IMPATTO PUBBLICITA‘ TABACCO UNIVERSITÀ STANFORD I giovani vivono su Instagram, Tik tok, Facebook, Twitter. Quindi queste aziende usano musicisti, modelle, gli attori - per far vedere i loro prodotti.

GIULIO VALESINI In che misura questa strategia di comunicazione di Philip Morris su Iqos ha successo tra i giovani?

ROBERT JACKLER – GRUPPO DI RICERCA IMPATTO PUBBLICITA‘ TABACCO UNIVERSITÀ STANFORD I dati mostrano che fra tutte le nazioni del mondo, l'Italia sembra avere un numero molto alto di non fumatori che usano l'Iqos. E questo è preoccupante perché Iqos e Vaping possano diventare una rampa per la dipendenza da nicotina, soprattutto per gli adolescenti.

GIULIO VALESINI Cosa sono le Iqos?

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Come nella sigaretta elettronica c'è un dispositivo elettrico che scalda un prodotto per generare un aerosol che contenga nicotina: un tabacco, è tabacco vero e proprio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chi è stata molto attiva a promuovere i prodotti a tabacco riscaldato di Philip Morris e British American Tobacco è la nota influencer Chiara Biasi: 2 milioni e mezzo di follower, molti giovanissimi e guadagni alle stelle, come disse l’anno scorso alle Iene.

CHIARA BIASI – LE IENE 1 DICEMBRE 2019 Ok. Accetto di andare su un assorbente! Ma per 80 mila euro? Io per 80 mila euro manco mi alzo al mattino e mi pettino i capelli! GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sul suo profilo Instagram ci sono le foto del 2018 che la ritraggono con Iqos. Su Facebook regalava i codici per comprare i kit a prezzi scontati. Per British American Tobacco è stata protagonista di un grande evento organizzato a Ibiza per promuovere Glo.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Laddove c'è un influencer viene evidenziato in maniera cospicua che è sponsorizzato e pagato dalla nostra azienda. Gli influencer devono avere almeno 25 anni di età, di secondo che devono essere iniziatori di prodotti di nicotina, e il terzo è che i follower che hanno, devono essere per l'85% maggiorenni.

GIULIO VALESINI Voi come fate a essere sicuri che quel prodotto poi, quella promozione non finisca per essere visualizzata ed essere attraente anche per un minorenne?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Ci siamo dati come regola che possiamo usare canali che abbiano almeno il 75% di utenti registrati adulti.

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENTE UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI Resta il nodo centrare della questione, cioè se è vietato fare pubblicità dei prodotti del tabacco e noi riteniamo che questi siano prodotti del tabacco. Anche un post correttamente etichettato sarebbe illegale.

GIULIO VALESINI E allora perché, scusi eh, questa ricerca l’avete fatta voi e queste sono tutte foto di influencer più o meno famose, attori, attrici, cantanti, chi più ne ha più ne metta, che hanno l’Iqos in bocca. Quindi questa è una pubblicità?

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENTE UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI Questa non è una ricerca: questi sono gli allegati che noi abbiamo depositato all’autorità Antitrust denunciando, con nomi e cognomi, tutte queste pratiche scorrette. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Philip Morris dichiara di avere rigidi controlli per impedire che un minore possa acquistare un Iqos sia tramite rivenditore che attraverso il suo sito ufficiale dove, per entrare, basta autodichiarare la maggiore età e poi c’è la verifica dell’identità al momento della consegna del pacco. Per capire se tutto questo è sufficiente, abbiamo verificato con Simone, 16 anni e una carta prepagata Junior di Poste Italiane per minorenni intestata a lui. L’acquisto è andato a buon fine, nonostante la carta per minori usata per pagare. Il pacco è arrivato puntuale dopo una settimana consegnato dal corriere senza domande, nelle mani del minorenne Simone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cari amici della Philip Morris, eccolo il pacchetto con l’Iqos dentro, come è finito in mano ad un minore. Probabilmente a vostra insaputa, quello che è certo è che i meccanismi che avrebbero dovuto impedire che un minore acquisti del tabacco seppur da riscaldare online sono meccanismi che non funzionano ed è anche probabile che sia figlio però anche, la conseguenza di una strategia, se uno divulga un prodotto sui social media che sono il mezzo più utilizzato, più consultato da giovanissimi e minori, e se questo prodotto viene usato con disinvoltura dagli influencer più celebrati, è facile che qualche giovanissimo possa cadere nella tentazione di usarlo e di comprarlo. Philip Morris ci scrive che in Italia non ha mai contrattualizzato influencer. Invece per quello che riguarda una delle più note, Chiara Biasi, quella che ha confessato che per meno di 80 mila euro neppure si alza dal letto per pettinarsi i capelli, il suo avvocato ci scrive che ha sì fatto pubblicità per l’Iqos ma non ha preso neppure un euro per Philip Morris ha ottenuto solo il prodotto in omaggio. Insomma è stata generosa la Chiara visto le tariffe che applica alle altre aziende. Ma non è questo il problema. La domanda è perché il nostro paese rinuncia ad incassare di tasse dai produttori di tabacco da riscaldare 1 miliardo e 200 milioni di euro per i prossimi tre anni? E poi, questo prodotto è veramente meno, più sicuro rispetto alle sigarette tradizionali? Questa inchiesta che vedrete questa sera è il frutto di una collaborazione con 10 media internazionali coordinati dal consorzio di giornalismo investigativo OCCRP e appartiene al progetto “Blowing Unsmoke”. E il nostro Giulio Valesini è entrato in possesso di una relazione del Ministero della Salute che è rimasta a lungo nascosta in un cassetto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 23 gennaio. Il segretario del partito democratico, Nicola Zingaretti sostiene la campagna elettorale del candidato presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. E fa tappa a Crespellano, vicino Bologna, nello stabilimento industriale di Philip Morris, la multinazionale del tabacco.

NICOLA ZINGARETTI – SEGRETARIO PARTITO DEMOCRATICO Oggi intanto siamo in una delle eccellenze industriali italiane e dell’Emilia-Romagna, perché questa è una terra che si è ricostruita grazie all’innovazione, e incontrare coloro che pensano all’innovazione è un segno di quello che serve a questo paese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Crespellano, il colosso del tabacco ha messo in piedi uno stabilimento su un’area di 300mila metri quadrati. È da sempre meta di pellegrinaggi dei nostri politici. Matteo Renzi ci è stato perfino due volte: nel 2014 a posare la prima pietra dei lavori e nel 2016 al taglio del nastro. È qui che Philip Morris ha scelto di produrre per il mercato occidentale, i componenti del suo nuovo prodotto di punta a tabacco riscaldato: l’Iqos.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 – 2018 Philip Morris in Italia ha fatto un discorso particolare. Ha aperto uno stabilimento che si occupa del confezionamento di tutto il prodotto per il mercato europeo.

GIULIO VALESINI E gli abbiamo restituito un favore, questo mi sta dicendo?

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 No, però…

GIULIO VALESINI Un pochino sì.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 No, insomma, quando ci sono dei fenomeni, ci sono vari interessi contrapposti, naturalmente. C’era il Presidente del Consiglio il giorno che si inaugurò quello stabilimento a Bologna…

GIULIO VALESINI Philip Morris ha scelto l'Italia come punto di attacco all'Europa.

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ha trovato un ambiente favorevole per garantire per esempio che ci fosse una agevolazione fiscale dei nuovi prodotti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2014 fu proprio il governo Renzi a dare il benvenuto in Italia ai prodotti a tabacco riscaldato. I pacchetti di heats da fumare con l’Iqos hanno goduto subito di uno sconto sulle accise del 50% rispetto alle sigarette tradizionali. In questi anni sono spuntati ovunque i negozi che vendono i prodotti a tabacco riscaldato. Gli affari vanno a gonfie vele: Philip Morris è di fatto il monopolista in Italia del mercato con il 90% di vendita. Un design accattivante e i negozi di Iqos sembrano vere e proprie boutique del lusso.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Allora, quale vuole assaggiare? Poi, volendo, possiamo assaggiare anche altri gusti.

GIULIO VALESINI Mah, una cosa, una cosa media, dai.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI La mentolata, quindi la scartiamo?

GIULIO VALESINI No, proviamo la mentolata, dai.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI La vuole provare?

GIULIO VALESINI Sì.

GIULIO VALESINI Ma fa meno male?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Allora, c’è una riduzione di circa il 90% di quelli che sono i livelli tossicologici delle sostanze nocive e/o potenzialmente nocive che vengono fuori dalla combustione.

GULIO VALESINI Fa meno male della sigaretta?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI È presente la nicotina, che è la molecola che dà la dipendenza. Quindi, se Lei mi dice: “Io sono intenzionato a smettere di fumare”, io non gliela consiglio. Ma Lei lo vuole vedere, il funzionamento? Lo vuole utilizzare?

GIULIO VALESINI Sì, però voglio pensarci. Perché io pensavo fosse uno strumento meno...

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Eh, non è un problema, questo. Noi possiamo anche fare una dimostrazione e poi non la compra...

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A questi prodotti il legislatore non ha mai applicato la legge Sirchia. E dunque il tabacco riscaldato si può fumare anche all’interno dei luoghi pubblici.

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI Potrebbe dare fastidio al proprietario del locale. Può dire: nel mio locale non piace, non voglio che la utilizza. GIULIO VALESINI Però non c’è una norma specifica?

HOSTESS IQOS LOUNGE – STAZIONE ROMA TERMINI No, non è multabile.

GIULIO VALESINI Eppure, l’ex ministro alla Salute Giulia Grillo aveva tentato di far applicare la legge Sirchia anche al tabacco riscaldato. Ma non c’è riuscita.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Volevamo estendere anche il divieto di fumo nei luoghi chiusi aperti al pubblico però insomma quella maggioranza in quel momento non ha voluto.

GIULIO VALESINI Perché?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Perché ci vuole una volontà politica per farlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È finisce così che qualcuno fumi l’Iqos in una stanza di ospedale, e anche questo diventa marketing.

HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO Sono venuti clienti che mi hanno detto: sai, avevo la pressione bassa e l'infermiera mi ha chiesto se fumavo. Io le ho detto che fumavo Iqos e quindi lei mi ha detto di fumarmene una perché almeno mi si alzava la pressione.

GIULIO VALESINI In ospedale?

HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO E gliel’ha fatta utilizzare nella camera di ospedale, quindi...

GIULIO VALESINI Ammazza, oh… HOSTESS IQOS LOUNGE - STAZIONE CENTRALE DI MILANO E ovviamente non suonano i cosini perché non è fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nelle grandi città ci sono anche le lounge dove puoi prenotare la prova tabacco con un coach. Nel marketing dell’Iqos nulla è lasciato al caso. A partire dall’esposizione dei modelli che hanno un design curatissimo. E alcuni negozi si presentano come gallerie d’arte.

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Ogni cosa che vedete fa parte di un artista.

GIULIO VALESINI Ah, quindi è una galleria.

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Sì, sì… La struttura rappresenta un po’ la molecola della nicotina. Considera che è stato fatto con materiale riciclato: tappi di bottiglia e magliettine. La struttura rappresenta un po’ la molecola della nicotina.

GIULIO VALESINI Immagino che i giovani impazziscano…

STEWARD IQOS EMBASSY - VIA MARGUTTA ROMA Ma proprio perché ci puoi giocare tantissimo pure con gli accessori, quindi…

GULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Italia negli anni ha aderito a numerosi trattati internazionali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, finalizzati a limitare i danni dal tabacco. Nel 2018 l’OMS ha raccomandato che il tabacco riscaldato deve essere equiparato dal punto di vista fiscale, e normativo alle sigarette tradizionali. Tuttavia nella prima finanziaria l’allora governo Lega - 5 Stelle decide di aumentare lo sconto concesso inizialmente da Renzi: Philip Morris passa così dal 50 al 75% in meno di tasse rispetto alle sigarette tradizionali.

GIULIO VALESINI Qual è il motivo per cui un prodotto a tabacco ha un’agevolazione, un vantaggio fiscale non del 5, del 10, del 20… del 75 per cento rispetto a una sigaretta tradizionale.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Tenga presente che negli Stati Uniti il vantaggio è zero. Sono tassate nello stesso modo. In Kazakistan non sono tassate. Forse fra gli Stati Uniti e il Kazakistan avremmo potuto scegliere una via di mezzo ragionevole. Noi italiani siamo sempre generosi e ospitali con le multinazionali che vengono da fuori…

GIULIO VALESINI Ci piacciono.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Però in Sudafrica lo sconto è al 25 e il Ceo di Philip Morris ha fatto una dichiarazione pubblica dicendo “Grazie Sudafrica che ci dai questo sconto del 25”.

GIULIO VALESINI Pensi quanto ci ringraziano a noi.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Quindi potevamo anche fare noi uno sconto al 25, come il Sudafrica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche perché alla Philip Morris gli affari vanno a gonfie vele. Da Gennaio 2019 a Marzo 2020 sono state vendute in Italia circa 4 miliardi di heatsticks. Significa: 400 milioni di ricavi in più realizzati da Philip Morris. Un gruppo di parlamentari, tra cui Nannicini voleva tassarli e destinare le entrate fiscali ai malati cronici e portatori di handicap più a rischio per il Covid-19. Ma l’emendamento al Cura Italia non è passato.

GIULIO VALESINI Quindi lei diceva: anziché uno sconto del 75% gli facciamo lo stesso lo sconto ma lo portiamo al 20%.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Questo era il nostro emendamento.

GIULIO VALESINI Perché è stato bocciato l'emendamento?

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Quello che francamente mi è dispiaciuto - che non sia stato mai preso in discussione – è stato come sbattere con un muro di gomma.

GIULIO VALESINI Le hanno fatto una bella lavata di capo? Onestamente.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Mi hanno fatto sapere che non era il caso per la tenuta occupazionale. Dal mio punto di vista era una scusa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo Nannicini la relazione tecnica che giustificò l’aumento dello sconto alle multinazionali del tabacco si basava su presupposti inverosimili.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Dal mio punto di vista inverosimile. Ovviamente è molto curioso di fronte a un settore in crescita esponenziale, stava crescendo del 200 per cento in quella fase iniziale, far finta che poi questa crescita si arresta magicamente per avere minori perdite di gettito da un beneficio fiscale che sto introducendo, mi sembra una relazione un po' curiosa.

GIULIO VALESINI Ma lo Stato per giustificare l'ulteriore vantaggio fiscale dato a Philip Morris dice vabbè ma tanto lo Stato non ci perderà tanto perché il settore non crescerà, invece non è così.

TOMMASO NANNICINI - SENATORE PARTITO DEMOCRATICO E non è stato così.

GIULIO VALESINI Come mai in Italia siamo così generosi verso questi prodotti e rinunciamo a decine e decine di milioni tassazione?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Dato 100 il volume a livello mondiale di tabacco riscaldato, il 60 per cento è venduto a oggi in Giappone e in Corea del Sud. Questi due paesi che rappresentano il 60% del volume la fiscalità è rispettivamente in Giappone dell'80% rispetto alle sigarette tradizionali da combustione e in Corea l'89.

GIULIO VALESINI Secondo voi sono ingiustificati questi sconti fiscali così generosi al momento?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Persino chi ne beneficia ammette che lo sconto fiscale è troppo generoso, non il nostro governo. Anche negli Stati Uniti non c’è differenza fiscale tra le sigarette anche dopo l’autorizzazione al commercio dell’Fda. Perché in Italia sì?

GIULIO VALESINI Lo Stato italiano sta permettendo una tassazione agevolata.

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Esatto. GIULIO VALESINI Ma giustificata in qualche modo?

SILVANO GALLUS - ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Loro sostengono dal fatto che questi prodotti fanno meno male.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Si ispira a questa logica che è il principio, ripeto, sempre di riduzione del danno, lo so che la sua domanda successiva è: “Ma chi gliel’ha detto a lei che riduce il danno?”

GIULIO VALESINI Esatto.

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Lo dovrebbe dire qualcuno che ha le competenze scientifiche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tuttavia anche in mancanza di una certezza scientifica, Paolo Tancredi in qualità di relatore della legge di delegazione europea nel 2016 offre all'industria del tabacco in Italia la possibilità di dimostrare i minori danni dei nuovi prodotti rispetto alle sigarette tradizionali, e di poter anche informare i consumatori scrivendolo sui pacchetti. Un’offerta molto generosa, perché la legge europea non prevede questa possibilità.

GIULIO VALESINI Siccome l’avete combinata voi la cosa, allora ho detto: ma cosa, ma chi vi ha convinto a farla?!

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Non me ne sono accorto però, voglio dire…

GIULIO VALESINI Lo sa che grazie a questa normativa, adesso, appunto l’Italia rischia anche una procedura? PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Dal Ministero della Sanità le fonti informali che io ho consultato mi hanno paventato anche questa possibilità di rischio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il rischio di farci beccare una procedura di infrazione Paolo Tancredi l’ha corso, dice, solo per inconsapevolezza ma lui ha subito pressioni. Il suo nome è nella lista depositata alla Camera tra i parlamentari incontrati dai lobbisti di Philip Morris

GIULIO VALESINI Cosa le raccontava a lei Philip Morris? La venivano a trovare per dirle ‘faccia questo su Iqos’, Iqos che proprietà ha? Che cosa le raccontavano?

PAOLO TANCREDI – DEPUTATO NUOVO CENTRO DESTRA 2013 - 2018 Sì, adesso diciamoci la verità…Philip Morris si butta sul prodotto da tabacco senza combustione nel momento in cui deve reagire all’emorragia causata dalle sigarette elettroniche. Comunque, insomma, loro facevano un’attività di lobby fortissima.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un’attività di lobby fortissima, lo dice chi l’ha testata sulla propria pelle. E il risultato quale è? Che se da una parte lo Stato incassa circa il 76% di tasse sulle sigarette tradizionali, dai produttori di tabacco da riscaldare incassa solo il 33%. Cioè stiamo parlando comunque di un settore in continua crescita e anche sotto emergenza Covid ha registrato a marzo il +7%. Secondo il centro studi Competere: “Portando lo sconto fiscale di cui godono dal 75% al 20% lo stato italiano potrebbe recuperare un gettito di 1,2 miliardi di euro solo in un triennio, dal 2020 al 2022. Evidentemente ci fanno schifo. Ma quale è la strategia delle multinazionali del tabacco. Se da una parte nei mercati più poveri continuano a promuovere la sigaretta tradizionale, su quelli occidentali che sono un po’ più saturi dove è cominciata anche una campagna di sensibilizzazione contro il fumo, cercano di acquistare quote di mercato divulgando il tabacco da riscaldare. Ecco e lo fanno approfittando anche un po’ dell’incertezza dei governi sul rischio della salute che può rappresentare questo nuovo prodotto. Sta di fatto che nell’aprile del 2018 Philip Morris, presenta una relazione di 8mila pagine al nostro ministero della Salute, e gli chiede sostanzialmente di valutarle una minore tossicità del prodotto rispetto alle sigarette tradizionali e anche di certificare un rischio minore per la salute rispetto alle sigarette tradizionali. L’ Istituto superiore di sanità si studia bene le carte, alla fine fa una relazione che però rimane misteriosamente chiusa in un cassetto. Il nostro Giulio Valesini però è riuscita a recuperarla.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA DI EPIDEMIOLOGIA È stato chiesto. L’Istituto Superiore di Sanità ha costruito, sulla base dei dati forniti dalla Philip Morris, ha elaborato un rapporto… non è mai stato reso pubblico.

GIULIO VALESINI Quindi nessuno ha potuto leggere la valutazione dell’Istituto Superiore di Sanità su questo argomento.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA DI EPIDEMIOLOGIA Noi come gruppo del Tobacco Endgame abbiamo fatto richiesta al Governo di pubblicarlo, questo alcuni mesi fa, e non abbiamo avuto risposta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nelle 93 pagine della sua relazione, l’Istituto Superiore di Sanità avanza più di una critica di metodo sulle qualità degli studi sottoposti da Philip Morris. E mette in dubbio la validità di alcuni risultati. Ma soprattutto l’Istituto manifesta le sue preoccupazioni per la salute di chi usa il tabacco riscaldato: sottolinea la presenza di sostanze cancerogene e di alcune sostanze potenzialmente genotossiche. Critica anche la presenza del mentolo che oltre a impattare sulla salute pubblica, potrebbe incentivare i giovanissimi al fumo. E infine lancia un alert per i danni del fumo passivo dell’Iqos.

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ci sono alcune sostanze che sono effettivamente in minore concentrazione rispetto alle sostanze presenti nelle sigarette tradizionali, però sono state trovate decine di sostanze che o non sono presenti nelle sigarette tradizionali o sono presenti con concentrazioni inferiori. E, per questo motivo insomma, questi…

GIULIO VALESINI Ci sono anche sostanze cancerogene tra queste?

SILVANO GALLUS – ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI Ci sono anche sostanze cancerogene tra queste, sì. E poi ci sono, appunto, ci sono sostanze di cui non sappiamo ancora niente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Istituto Superiore della Sanità conclude che Philip Morris non è riuscita a dimostrare che Iqos a parità di utilizzo riduca le sostanze tossiche e sia potenzialmente meno a rischio per la salute rispetto alle sigarette tradizionali. La relazione viene consegnata come da prassi al direttore della prevenzione del ministero della Salute. Claudio D’Amario, che oggi ci dice che l’avrebbe girata al gabinetto del ministro Grillo. Ma qui c’è un mistero.

GIULIO VALESINI Lei questo rapporto l’ha mai visto?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 No.

GIULIO VALESINI Non gliel’hanno mai fatto vedere...

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 No.

GIULIO VALESINI Come mai a Lei non glielo hanno fatto vedere?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Ma, non lo so, perché in quel momento… di solito, diciamo, a me arriva tutto…

GIULIO VALESINI Questo è stato comunicato a Gennaio 2019 a Philip Morris.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sì, però la richiesta, se non erro…

GIULIO VALESINI La richiesta è stata fatta ad Aprile 2018.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Prima, quando c’era ancora l’altro Ministro.

GIULIO VALESINI E però la risposta è arrivata quando Lei era ministro…

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sì sì ma è arrivata successivamente, sì sì, questo lo so…

GIULIO VALESINI Mi chiedo come mai non gliel’hanno fatto vedere.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Ma, non lo so…

GIULIO VALESINI Voi date il parere a Philip Morris a fine 2018 inizi 2019, dicendo ‘Voi non siete in grado di dimostrare una riduzione del danno, eccetera, e contemporaneamente il governo gli abbassava la tassazione, allora delle due l’una.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Io di Philip Morris non so nulla. Non credo che il Movimento 5 Stelle abbia avuto a che fare con Philip Morris, direttamente.

GIULIO VALESINI Lei si è trovata sola anche dentro al suo partito rispetto al tabacco riscaldato?

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Sola, sì mi sono trovata sola sì. Non è che è la prima volta, dico, è successo anche con altri argomenti, quindi...

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo una ricostruzione del Fatto Quotidiano, nel 2017 la Philip Morris avrebbe ingaggiato gli esperti di Casaleggio per una consulenza sulla comunicazione digitale in Italia che è coincisa con l’apertura del canale Twitter della multinazionale.

GIULIO VALESINI Può avere influito, secondo Lei, il fatto che Casaleggio avesse rapporti commerciali, secondo lei sulla scelta del partito.

GIULIA GRILLO - MINISTRO DELLA SALUTE GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019 Non credo proprio. Spero proprio di no e comunque di tutte queste cose io, ovviamente, ero all’oscuro, non avevo alcun tipo di informazione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche British American Tobacco, l’altro colosso internazionale ha creato il suo prodotto per il tabacco riscaldato. Si chiama Glo. E anche loro hanno chiesto al ministero della Salute che gli venga riconosciuta la minore tossicità e riduzione del rischio alla salute per il loro prodotto. E anche a loro è andata male.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Non abbiamo avuto una valutazione di riconoscimento del rischio ridotto.

GIULIO VALESINI Quindi voi non potete dire che il vostro prodotto ha un rischio ridotto e un potenziale danno minore per la salute di chi lo consuma. Non lo potete dire.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Non si può dire in Italia che i prodotti sono a rischio ridotto per la salute.

GIULIO VALESINI Io mi chiedo perché in Italia il ministero della Salute non ha pubblicato risultati di questo tipo di analisi?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICEPRESIDENTE BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALIA Indubbiamente anomalo ma, dottore, lo deve veramente chiedere al ministero della Salute.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nonostante l’Istituto Superiore di Sanità avesse bocciato i suoi test, l’attività di Philip Morris non si arrende. Si rivolge alla società di lobbying Solving, coinvolge il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, lo scopo, è quello di spingere gli epidemiologi della Regione che si occupano di prevenzione oncologica, a raccomandare l’Iqos ai pazienti che non riescono a liberarsi dal fumo. E a febbraio ottengono l’incontro.

GIULIO VALESINI In 20 anni non le era mai capitato una roba del genere?

GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGO ISTITUTO STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA La realtà è andata oltre le mie fantasie più diciamo paranoiche, in qualche modo. Gli chiedono un incontro con la Regione, e quindi poi anche con noi, al fine di raccomandare, di suggerire agli operatori sanitari di raccomandare ai propri pazienti l’uso di questi prodotti a tabacco riscaldato, al fine di procedere a questa riduzione del danno.

GIULIO VALESINI Voi medici?

GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGO ISTITUTO STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Noi come Regione Toscana raccomandassimo al personale sanitario toscano, che opera nelle ASL e negli ospedali, di suggerire questo ai pazienti. GIULIO VALESINI Perché io ho ricostruito le date. Voi, l’incontro, l’avete fatto a febbraio...

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Mi sembra, sì.

GIULIO VALESINI Okay. Da quello che risulta dalla risposta del Ministero, il Ministero aveva comunicato a Philip Morris il risultato, l’esito negativo rispetto all’utilizzo dei claim meno tossicità e riduzione del danno a gennaio. GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Sì.

GIULIO VALESINI Quindi Philip Morris, quando vi incontra, era a conoscenza del fatto che il Ministero gli aveva detto: “Attenzione, voi, questo, non lo potete affermare...”

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Questo è un problema di Philip Morris. Non è un problema mio.

GIULIO VALESINI Per capire l’approccio, ma i lobbisti e i rappresentanti di Philip Morris hanno fatto menzione del fatto che c’era una relazione negativa dell’Istituto Superiore?

GIANNI AMUNNI – DIRETTORE GENERALE STUDIO E PREVENZIONE ONCOLOGICA Non mi sembra.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma di chi è la società di lobby Solving BFM che aveva chiesto l’incontro tra il governatore Rossi e Philip Morris? Il presidente è Wladimiro Boccali ex sindaco di Perugia, membro della direzione nazionale del Partito Democratico. All’incontro con i medici toscani ci va Andrea Mazzoni, che è socio e consigliere della Solving, candidato nel 2018 alla Camera con Articolo 1, lo stesso partito da cui proviene il governatore Enrico Rossi oggi ritornato nel partito democratico. Legittima attività di relazione pubblica, si direbbe, eppure Andrea Mazzoni con noi non vuole parlare. GIULIO VALESINI “Raccomandare Iqos come strumento valido e efficace per operatori sanitari”, richiesta mandata al presidente Rossi. Lei è Articolo 1 come il presidente Rossi, ma ha sfruttato questo fatto?

ANDREA MAZZONI – RELAZIONI ISTITUZIONALI SOLVING BFM Guardi io non sono iscritto a nessun partito.

GIULIO VALESINI Come no. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Enrico Rossi girò la richiesta della Philip Morris al suo assessore alla Salute, Stefania Saccardi, che facilitò l’incontro con i medici dell’Ispro.

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Io nemmeno li ho ricevuti, per la verità.

GIULIO VALESINI No, mi stupisce proprio il fatto che si arrivi a chiedere un incontro…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Beh… Questo mi stupisce fino a un certo punto perché…

GIULIO VALESINI Nelle segrete stanze della Regione…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Nelle segrete stanze, insomma…

GIULIO VALESINI Questo incontro non sarebbe stato mai reso pubblico, immagino…

STEFANIA SACCARDI - ASSESSORE SANITÀ E POLITICHE SOCIALI REGIONE TOSCANA Ma, non ce n’era motivo, non se n’è fatto niente alla fine…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono arrivati al punto di incontrare i medici perché questi consigliassero ai loro pazienti che non riuscivano a smettere, il prodotto Iqos. Hanno dovuto percorrere la strada della lobby, della politica perché quella sanitaria era stata sbarrata dalla bocciatura dell’Istituto Superiore di Sanità. Con noi invece hanno preferito la strada del silenzio hanno preferito scriverci. E hanno giustificato la bocciatura dei loro test perché l‘Istituto Superiore di sanità secondo loro avrebbe concesso poco tempo per integrare i documenti successivi al 2017. Ecco, tre mesi secondo loro non sarebbero stati ritenuti sufficienti per integrare e raccogliere il materiale richiesto. Non solo, Philip Morris aveva anche effettuato dei test sui topi per 18 mesi. Ma la relazione che avrebbe presentato riguarderebbe solo 10 mesi. Mancherebbe la relazione finale, fatto che è stato stigmatizzato anche con una certa ironia dall‘Istituto Superiore di Sanità. Però Philip Morris sottolinea anche il fatto che a differenza del nostro Istituto Superiore di Sanità altri prestigiosi enti come quello della Germania, del Giappone, hanno riconosciuto un minore rischio della salute di Iqos rispetto alle sigarette tradizionali. Citano anche la l’FDA Ma l’FDA ha concesso solo un permesso alla commercializzazione motivato da un generico interesse per la salute pubblica. Non è entrata mai scientificamente a certificare i minori rischi per la salute del tabacco riscaldato. L’intera risposta della Philip Morris la potete trovate sul nostro sito. Ma mentre registravamo gli studi è arrivata la diffida di Philip Morris ad andare in onda a pubblicare la relazione dell’Istituto Superiore di Sanità perché violeremmo secondo loro segreti d’ufficio, perché ci sarebbero dei segreti industriali. Ora noi dei segreti industriali di Philip Morris non ci interessa nulla, ci interessa la salute dei cittadini. Ecco non vorremmo che poi dopo la vostra attività di lobby che già comporta il fatto che dobbiamo rinunciare probabilmente per i prossimi tre anni a un miliardo e 200 milioni di welfare che ci avrebbero fatto comodo e dopo la vostra attività di lobbying presso quei medici per sponsorizzare un prodotto ai pazienti che non riescono a smettere di fumare, dopo che c’è stato un alt dell’Istituto Superiore di Sanità, ecco non vorrei che alla fine il problema siamo noi di Report che abbiamo avuto a cuore la salute dei cittadini italiani. Ricordiamo anche che l’attività di lobbying che è stata fatta attraverso delle persone che sono vicine o fanno parte di Articolo 1, che è il partito dell’attuale ministro della salute Roberto Speranza, spetterebbe a lui pubblicare questa relazione oggi che riguarda l’alt dell’Istituto Superiore di sanità al prodotto della Philip Morris. E poi per quello che riguarda invece i contatti tra Philip Morris e Casaleggio, Casaleggio ci ha scritto che lui non rivela i nomi dei suoi clienti. Philip Morris non rivela quelli dei suoi fornitori. Ecco insomma hanno alzato una bella cortina di fumo quando invece andrebbe diradato per eliminare i sospetti di conflitti di interesse. Così come anche dovrebbero farlo tutti i ricercatori sul tema, nel campo del fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2017 un ex dirigente dell’OMS, Derek Yach, tra gli autori della Convenzione quadro per la lotta al tabagismo, crea la fondazione per “Un mondo senza fumo”. Dicono di essere indipendenti. Ma a leggere il bilancio si scopre che ha un unico finanziatore: Philip Morris, che si è impegnata a dare un miliardo di dollari nei prossimi anni. Sulla dichiarazione fiscale del 2019 c’è scritto che la fondazione ha ricevuto 80 milioni di dollari in un anno e solo da Philip Morris.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENTE ISTITUTO DI RICERCHE FARMACOLOGICHE MARIO NEGRI È una specie di presa in giro dell’umanità perché per avere un mondo privo di fumo basterebbe che loro smettessero di fare il mestiere che fanno. Alle aziende che producono il tabacco, a loro interessa fondamentalmente che la gente rimanga dipendente dalla nicotina, perché poi che utilizzino una cosa o l’altra alla fine poco cambia. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma proprio dalla fondazione “Un mondo senza fumo” dell’ex dirigente dell’OMS, Derek Yach, supportata da Philip Morris, sono partiti nell’ultimo anno 8 milioni di dollari verso il centro di ricerca per la riduzione del danno da fumo che si trova presso l’università di Catania. E in previsione arriveranno 23 milioni. Il centro è stato fondato dal professor Riccardo Polosa.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Un crociato contro il fumo. Ti sorprende? GIULIO VALESINI Ma la fondazione è una fondazione indipendente?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO È assolutamente indipendente.

GIULIO VALESINI Ma lei ci crede?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Ci credo fermamente anche perché il presidente della fondazione è un pezzo grosso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità… GIULIO VALESINI …infatti, è diabolica…

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO …che ha addirittura creato il meccanismo del controllo del tabacco mondiale. Il famoso FCTC

GIULIO VALESINI Però le viene da ridere. Le viene un po’ da ridere.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Mi viene da ridere per la sua domanda che mi sembra un po’ tendenziosa.

GIULIO VALESINI Tendenziosa. Scusi, ma come fa a essere tendenziosa una domanda che le chiede: ma, una fondazione per un futuro, per un mondo senza fumo, finanziata da Philip Morris sembra una roba molto ipocrita. Glielo posso dire?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Non è ipocrita perché ormai la Philip Morris l’ha detto pubblicamente più di una volta, sta investendo miliardi di dollari per prodotti senza fumo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma al centro del professor Polosa i soldi della fondazione dell’ex dirigente dell’OMS non arrivano direttamente, passano attraverso uno spin off dell’università: la società Eclat srl. Tra gli obbiettivi di Polosa c’è quello di ridurre il danno provocato dal tabacco, e mettere a confronto i prodotti del tabacco riscaldato e la sigaretta elettronica.

GIULIO VALESINI Philip Morris ha iniziato a vendere l’Iqos perché ha visto che vendeva meno sigarette?

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Le multinazionali del tabacco per evitare di farsi sorpassare dall’industria indipendente delle sigarette elettroniche si sono dovute mettere al passo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, anche se Eclat è uno spin-off universitario, ha tra i suoi soci Md Tech, che a sua volta possiede Eurovape, cioè un'azienda che vende sigarette elettroniche e articoli per fumatori con sede a Torino. Non ne limita l’indipendenza? Leggendo lo statuto della società, che dovrebbe fare ricerca sui potenziali rischi delle sostanze per sigarette elettroniche, si vede che può fare anche campagne promozionali sulla sicurezza di tutti gli strumenti da "fumo alternativo". Un’altra contraddizione.

RICCARDO POLOSA – FONDATORE CENTRO PER LA RIDUZIONE DEL DANNO DA FUMO Noi, quello che noi facciamo è: venire incontro al fumatore e dirgli “Guardate, questo è il nostro package, queste sono le opzioni: vuoi un farmaco per smettere? Qua c’è il farmaco. Vuoi una pipa di plastica per smettere? Qua c’è. C’è una sigaretta elettronica o vuoi scegliere un liquido? Vedi se ti va bene. C’è il tabacco riscaldato se non ti piace la sigaretta. Vuoi il tabacco masticabile? Vuoi la gommina alla nicotina?”. Scegli quello che secondo te è la cosa giusta per te per smettere di fumare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E di certo Polosa gestisce un centro che dovrebbe limitare i danni provocati dal fumo, però poi è anche socio della Eclat, una società che è uno spin off dell’università di Catania. Che ha sua volta è finanziata dalla Philip Morris, in maniera indiretta attraverso la fondazione dell’ex dirigente dell’Oms. Dentro la Eclat però c’è chi vende le sigarette elettroniche, chi ha il mandato per fare la ricerca sui danni sulle sigarette elettroniche e ha anche il mandato di fare promozione per queste sigarette elettroniche. Insomma è uno e trino. Poi c’è il professor Polosa che è anche membro della Liaf, Lega antifumo italiana, con lui ci sono anche due soci, quelli dello spin off che lo finanziano. Ecco insomma ma alla fine la Liaf, la lega antifumo, è un’associazione che vuole promuovere la salute o è lo strumento condizionato in mano alle multinazionali del tabacco, che vogliono governare il passaggio delle perdite di quote di mercato delle sigarette tradizionali in quello da ampliare del mercato del tabacco riscaldato? Insomma ecco, capire chi sono i santi e chi sono i peccatori è fondamentale perché in mezzo c’è la salute delle persone. Poi non vorrei che alla fine gli unici peccatori certificati siamo noi di Report che questa storia l’abbiamo raccontata.

“THE SMOKESCREEN” by Giulio Valesini in collaboration with Elisa Bruno Laura Nesi STUDIO 10

VALESINI INFLUENCER Welcome back, we're talking about heated tobacco. It's increasingly catching on, replacing traditional cigarettes; the trouble is that it's catching on even among very young people, and antitrust agencies are investigating this. Why?

GIULIO VALESINI VOICE-OVER In February of this year, Stanford University published a report of over 300 pages on the massive-scale marketing strategy that Philip Morris conducted in recent years to promote its heated tobacco devices. As well as boutiques, eye-catching design, parties, events and VIPs, the report focuses on how social networks – Instagram in particular, most widely used by young people – are being employed. Eight official accounts, over 400,000 hashtags with #Iqos, posts designed to make products appealing, and young influencers – too much, perhaps. In May 2019 a Reuters investigation denounced Philip Morris for using social influencers younger than 25 years old in its social media campaign, breaching its own policies, so that the multinational apologised and called it off.

ROBERT JACKLER – THE IMPACT OF TOBACCO ADVERTISING RESEARCH GROUP, STANFORD UNIVERSITY Young people live on Instagram, TikTok, Facebook, Twitter. These companies employ musicians, models and actors to display their products.

GIULIO VALESINI How successful is Philip Morris's communication strategy among young people?

ROBERT JACKLER – THE IMPACT OF TOBACCO ADVERTISING RESEARCH GROUP, STANFORD UNIVERSITY Data shows that among all countries in the world, Italy seems to have a very high number of non-smokers who use IQOS devices. This is worrying, as IQOS and vaping devices could lead to nicotine addiction, especially among teenagers.

GIULIO VALESINI What are IQOS devices?

SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH Just like electronic cigarettes, they use an electric device to heat up the product and generate an aerosol that contains nicotine: it's tobacco, actual tobacco.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER The popular influencer Chiara Biasi has been very active in promoting Philip Morris and British American Tobacco heated tobacco devices: 2 and a half million followers, many of whom are very young, and sky-high profits, as she said last year on the Le Iene TV programme.

CHIARA BIASI – LE IENE 1 DECEMBER 2019 OK. I'll go for the sanitary pads! But for 80,000 euros? 80,000 euros isn't enough to get me out of bed in the morning to brush my hair!

GIULIO VALESINI VOICE-OVER On her Instagram profile there are photos from 2018 showing her with IQOS devices. On Facebook, she gave away promotional codes to buy kits at a discounted price. She was the star of a major event by British American Tobacco held in Ibiza to promote GLO devices.

 ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY When we use influencers, we always make it very clear that they are sponsored and paid by our company. Influencers must be at least 25 years old, users of nicotine products and, lastly, 85% of their followers must be of age. GIULIO VALESINI How can you be sure that these products, these promotions, don't end up being seen by and entice underage persons as well?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY Our policy says that we can only use channels where at least 75% of the registered users are adults.

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENT, ITALIAN NATIONAL CONSUMER UNION The main point is that advertising tobacco products is not allowed and we believe that these are tobacco products. Even a correctly labelled post is illegal.

GIULIO VALESINI Sorry, but in this case... You did this research and these are all photos of influencers more or less famous, actors, singers, you name it, all with an IQOS device in their mouth. Is this advertising then?

MASSIMILIANO DONA – PRESIDENT, ITALIAN NATIONAL CONSUMER UNION This is not research: these are the annexes that we delivered to the antitrust authority, reporting, with names and surnames, those who pursue these irregular practices.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Philip Morris claims to have strict checks in place to prevent underage individuals purchasing IQOS devices from either retailers or from its official site. To enter the site, you just need to state that you’re old enough, and identity will be verified on delivery. To understand whether this is really enough, we asked 16-year-old Simone for help; he used a Junior prepaid card by Poste Italiane issued in his name. The purchase was confirmed, even though paid for with a Junior card. The package arrived on time, after a week; the courier delivered it without any questions, directly into the hands of our underage Simone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dear friends at Philip Morris, this is the package containing the IQOS device, as delivered to an underage person. You're probably not aware of it, but what's clear is that the procedures in place to avoid underage tobacco purchase online, albeit heatnot-burn tobacco, don't work. It's likely to be the consequence of a strategy promoting products via social media, the most used and accessed channels by very young and underage persons. If this product is used casually by the most renowned influencers, it stands to reason that a very young individual might be tempted to buy it and use it. Philip Morris writes to say that they never had influencers under contract in Italy. Yet the lawyer of one of the most popular Italian influencers, Chiara Biasi – the one who stated she wouldn't even get out of bed and brush her hair for less than 80,000 euros – writes that she did advertise IQOS devices but didn't get a euro from Philip Morris, only complimentary products. Chiara's been generous, considering the fees she charges other companies. But this is not the issue. What we'd like to know is, why did Italy decide to stop collecting taxes from heated tobacco producers, which would add up to 1.2 billion euros over the next three years? Moreover, is this product really safer than traditional cigarettes? Tonight's investigation is the result of a collaboration with ten international media companies coordinated by the non-profit consortium of investigative journalism OCCRP (Organized Crime and Corruption Reporting Project) and is part of their “Blowing Unsmoke” project. And our Giulio Valesini got hold of a report by the Ministry of Health that, for a long time, had been hidden away in a drawer.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER It's 23 January. Nicola Zingaretti, secretary of the Democratic Party, was promoting the electoral campaign for candidate Stefano Bonaccini, president of Emilia-Romagna. And made a stop in Crespellano, near Bologna, at the Philip Morris factory, the tobacco multinational.

 NICOLA ZINGARETTI – SECRETARY, DEMOCRATIC PARTY Today we're at one of the most outstanding industrial firms in Italy and in EmiliaRomagna, a land that rebuilt itself through innovation, and people with an innovative mind is what this country needs.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER In Crespellano, the tobacco giant built a factory spanning an area of 300,000 square metres. It's always been a site of pilgrimage for our politicians. Matteo Renzi even went twice: in 2014 to lay the foundation stone and in 2016 to cut the ribbon. Here's where Philip Morris decided to locate a production site for the components of its leading heated tobacco device destined for the Western market: IQOS.

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 In Italy, Philip Morris adopted a particular strategy. It opened a factory for manufacturing the whole product, destined for the European market.

GIULIO VALESINI And we returned the favour, is that what you're saying?

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 No, but...

GIULIO VALESINI A little. PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 No, well, when things happen, various conflicting interests come into play, of course. The Prime Minister was present when the Bologna factory was opened...

GIULIO VALESINI Philip Morris identified Italy as the point of entry to Europe.

SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH The environment was suitable for guaranteeing, for example, that the new products would enjoy a certain tax benefit.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER And in 2014 it was Renzi's Democratic Party government that welcomed the arrival of heated tobacco products in Italy. Heatstick packs for IQOS devices immediately benefited from a 50% discount on excise duty as compared to traditional cigarettes. In these years, shops selling heated tobacco products sprung up everywhere. Business is thriving. Philip Morris effectively holds the monopoly, with 90% of the Italian retail market. A fancy design, and the IQOS shops come to resemble veritable luxury boutiques.

 IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION Right, which one would you like to try? You can also try some other flavours.

GIULIO VALESINI I don't know, something not too strongly flavoured.

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION Shall we pass on the menthol, then?

GIULIO VALESINI No, actually let's try the menthol, why not.

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION Would you like to try it then?

GIULIO VALESINI Yes.

GIULIO VALESINI Is this healthier?

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION There's a reduction of about 90% in the toxicity levels from toxic and/or potentially toxic substances caused by the combustion. GIULIO VALESINI Is it healthier than cigarettes?

 IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION There's nicotine, which is the molecule that causes addiction. So, if you're telling me, “I want to give up smoking”, I wouldn't recommend this. Would you like to see how it works? Are you thinking of using it?

GIULIO VALESINI Yes, but it requires a little thought. I assumed it'd be less of a...

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION Well, no problem. You can have a demonstration, you don't need to buy it...

GIULIO VALESINI VOICE-OVER The legislature never imposed the Sirchia law – the smoking ban – on these products, which means that it's possible to smoke heated tobacco even in public places.

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION It could bother the owner of the premises, who could say, “I don't like it, you can't use it on my premises.”

GIULIO VALESINI But there's no specific rule?

IQOS LOUNGE HOSTESS – ROMA TERMINI STATION No, you wouldn't get fined.

GIULIO VALESINI Yet, the former Minister of Health, Giulia Grillo, tried to extend the Sirchia law to include heated tobacco, too, but didn't succeed.

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 We wanted to extend the smoking ban to include enclosed public spaces, but in those days the majority didn't want to. GIULIO VALESINI Why?

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Because one would have had to be politically committed to do so.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER And so it is that people can use IQOS devices in a hospital room, and this too is marketing.

IQOS LOUNGE HOSTESS - MILAN CENTRAL STATION A customer told me, “I suffered from low blood pressure and the nurse asked me if I smoked; I told her I smoked IQOS and she told me to have one, to raise my blood pressure at least.”

GIULIO VALESINI In a hospital?

IQOS LOUNGE HOSTESS - MILAN CENTRAL STATION Yes, in a hospital room, so...

GIULIO VALESINI Blimey!

IQOS LOUNGE HOSTESS - MILAN CENTRAL STATION And obviously the smoke alarm doesn't sound as it doesn't produce smoke.

 GIULIO VALESINI VOICE-OVER In big cities there are also lounges where you can book a tobacco “test drive” with a coach. IQOS marketing leaves nothing to chance. Starting with the displays of models with extremely fancy designs. And some shops even look like art galleries.

IQOS EMBASSY STEWARD - VIA MARGUTTA, ROME Everything here was created by an artist.

 GIULIO VALESINI Right, so this is a gallery.

 IQOS EMBASSY STEWARD - VIA MARGUTTA, ROME Yes, yes... The structure vaguely recalls a nicotine molecule. Note that it was made with recycled material, bottle caps and T-shirts. As I was saying, the structure vaguely recalls a nicotine molecule.

GIULIO VALESINI Young people love it, I imagine...

IQOS EMBASSY STEWARD - VIA MARGUTTA, ROME Exactly, and you can have a lot of fun with the accessories, so...

 GIULIO VALESINI VOICE-OVER Over the years, Italy joined several international treaties by the World Health Organization, aimed at mitigating the damage caused by tobacco. In 2018, the WHO recommended that heated tobacco should be placed on the same fiscal and legal footing as traditional cigarettes. However, during their first tax reform process, the then Lega – Five Star government decided to increase the discount originally granted by Renzi: so for heated tobacco Philip Morris passes from 50 to 75% less tax compared to traditional cigarettes.

GIULIO VALESINI How come a tobacco product was granted not a 5, 10 or 20, but a 75% incentive, a 75% tax benefit, compared to traditional cigarettes?

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY Bear in mind that in the US there are no benefits. They're taxed in the same way. In Kazakhstan they're not taxed. Maybe we could have found a reasonable compromise, halfway between the United States and Kazakhstan. We Italians are always very generous and hospitable to foreign multinationals...

 GIULIO VALESINI We like them.

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY However, in South Africa there's a 25% tax benefit and the Philip Morris CEO publicly declared, “Thank you South Africa for this 25% tax benefit.”

GIULIO VALESINI Think how grateful they feel towards us.

 TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY We, too, could have offered a 25% tax benefit, like South Africa.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Also because business is thriving at Philip Morris. From January 2019 to March 2020 about 4 billion heatsticks were sold in Italy, which to Philip Morris means an additional profit of 400 million. A group of Members of Parliament, including Nannicini, wanted to tax them and earmark the tax revenue for care for the chronically ill and people with disabilities more vulnerable to COVID-19. But the amendment to the Cura Italia (Cure Italy) decree was not approved.

GIULIO VALESINI So, you were saying, instead of a 75% tax benefit we could have imposed a 20% one.

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY That was the amendment we requested.

GIULIO VALESINI Why was it rejected?

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY What really saddened me is that it was never even discussed – it was met with a wall of silence.

GIULIO VALESINI Did they tell you off? Be honest.

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY They told me it was better not to, to maintain the employment levels. As I see it, it was an excuse.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER According to Nannicini, the technical report justifying the tax benefit to the tobacco multinationals rested on implausible assumptions.

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY Implausible, that's how I see it. Obviously, it was quite strange, considering the sector's exponential growth – 200% growth in that initial stage – to pretend that this growth would magically stop so that there would be fewer revenue losses caused by a tax benefit that was just being introduced; quite an odd notion.

GIULIO VALESINI To justify the additional tax benefit granted to Philip Morris, the government said, well, we won't lose much anyway because the sector won't grow; but it wasn't the case.

TOMMASO NANNICINI - SENATOR, DEMOCRATIC PARTY It wasn't the case.

GIULIO VALESINI How come in Italy we're so generous in relation to these products, to the point of giving up tens of millions in tax revenue?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY Nowadays, 60% out of the 100% global total of heated tobacco is sold in Japan and South Korea. These two countries represent 60% of the volume; taxation is 80% in Japan and 89% in South Korea, as compared to traditional cigarettes.

GIULIO VALESINI Do you believe that such a generous tax benefit is not currently justified?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY Yes.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Even those who take advantage of the tax benefit admit it's too generous, yet our government doesn't think so. In the United States, too, even after obtaining the FDA's marketing authorisation, cigarettes are not taxed differently. Why are they in Italy?

GIULIO VALESINI The Italian government opted for preferential taxation.

SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH Exactly.

GIULIO VALESINI Is it justified in any way?

 SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH They believe that these products are not as harmful.

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 It's based on the rationale that these products are less harmful, and I know that your next question will be, “Who told you that they're less harmful?”

GIULIO VALESINI Exactly.

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 It should be explained by someone with scientific expertise.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER However, despite not being scientifically certain, in 2016 Paolo Tancredi, in his role as rapporteur for the European Delegation law, offered the Italian tobacco industry the chance to provide evidence that the new products are less harmful than traditional cigarettes, and if so to let consumers know by labelling the packs appropriately. A very generous offer, as European law doesn't provide for this.

 GIULIO VALESINI As you came up with this, I thought, “What, who made you do it?!”

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 I wasn't aware, but I'd like to say...

 GIULIO VALESINI Do you know that thanks to this policy, Italy now risks infringement proceedings?

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 The informal sources at the Ministry of Health I talked to mentioned this risk.

 GIULIO VALESINI VOICE-OVER Paolo Tancredi said he was unaware that Italy might be liable for infringement proceedings, but he was pressured into it. His name is included on the list sent to the Chamber of Deputies as one of the Members of Parliament who met up with Philip Morris's lobbyists.

GIULIO VALESINI What did Philip Morris tell you? Did they tell you, “Do this for IQOS”? What role did IQOS have? What did they say to you?

PAOLO TANCREDI – PARLIAMENTARY REPRESENTATIVE OF THE NEW CENTRERIGHT PARTY 2013–2018 Yes, let's be honest... Philip Morris pounced on heated tobacco products just when electronic cigarettes caused them a great loss of money. Anyway, there was intense lobbying going on.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Intense lobbying, says the person who experienced it first-hand. And what was the outcome? If, on the one hand, the government collects about 76% tax revenue from traditional cigarettes, on the other it only collects 33% from heated tobacco products. We're talking about a sector that's still growing and even during the COVID emergency recorded a +7% in March. According to the Competere research centre: “By decreasing the tax benefit from 75% to 20%, the Italian government could recover 1.2 billion euros in tax revenue over three years alone, from 2020 to 2022. We obviously spurn such money. But what's the tobacco multinationals' strategy? While the poorest markets keep on promoting traditional cigarettes, Western markets – which are more saturated and began an awareness-raising campaign against smoking –, attempt to acquire market shares by promoting heated tobacco. And they do so by taking advantage of governments' uncertainties about the health hazard that these new products could represent. In any case, in April 2018, Philip Morris provided an 8,000-page report to our Ministry of Health, and essentially asked that these products be considered as less hazardous than traditional cigarettes, and that they should be certified as such. The Italian National Institute of Health carefully reviewed all the documentation and provided a report that, weirdly enough, ended up shoved away in a drawer. But Giulio Valesini managed to find it.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENT, ITALIAN EPIDEMIOLOGICAL ASSOCIATION The question has been raised. The Italian National Institute of Health, working on the data provided by Philip Morris, drafted a report... it was never made public.

GIULIO VALESINI This means that no one read the Italian National Institute of Health's assessment on this topic.

FABRIZIO FAGGIANO - PRESIDENT, ITALIAN EPIDEMIOLOGICAL ASSOCIATION We, as part of the Tobacco Endgame group, asked the government a few months ago to have it published, but we didn't get a reply.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER In its 93-page report, the Italian National Institute of Health found fault in more than one way with the methodological quality of Philip Morris's research. And called into question some of the results. But, above all, the Institute voiced its concern about the health of heated tobacco users: it emphasised the presence of carcinogens, as well as some other potentially genotoxic substances. It also condemned the use of menthol which, as well as affecting public health, could encourage younger people to take up smoking. And, finally, it raised an alert on the effects of the second-hand smoke produced by IQOS devices.

SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH Some of the substances are indeed present at a lower concentration than in traditional cigarettes. However, there are dozens of substances not found – or found in lower concentrations – in traditional cigarettes. This is the reason why... GIULIO VALESINI Have carcinogens also been found?

SILVANO GALLUS - MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH Yes, they've also been found, as well as substances which we still don't know anything about.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER The Italian National Institute of Health concluded that Philip Morris didn't provide sufficient evidence to prove that, in equal conditions of use, IQOS devices have fewer toxic substances and are less of a health hazard than traditional cigarettes. In line with common practice, the report was handed over to the Director General for Prevention at the Ministry of Health, Claudio D’Amario, who today said he forwarded it to minister Grillo's advisers. But it looks as if we have a mystery on our hands.

GIULIO VALESINI Have you ever seen this report?

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 No.

GIULIO VALESINI They never forwarded it to you...

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 No.

GIULIO VALESINI Why not show it to you?

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 I don't know, maybe at the time... usually I get everything.

GIULIO VALESINI This was communicated to Philip Morris in January 2019.

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Yes, but the request, if I remember...

GIULIO VALESINI The request was made in April 2018.

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Before then, when the previous minister was in place.

GIULIO VALESINI Yes, but the reply came when you were minister...

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Yes, but it came later on, yes, I know that...

GIULIO VALESINI I wonder why they didn't show it to you.

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Well, I don't know...

 GIULIO VALESINI At the end of 2018, beginning of 2019, you informed Philip Morris that they had not been able to demonstrate a reduction in harm, etcetera, while, at the same time, the government offered them a tax benefit... It should have been one or the other.

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 I don't know anything about Philip Morris. I don't think that the Five Star Movement had anything to do with Philip Morris, directly.

GIULIO VALESINI Were you alone in your opinion about heated tobacco even within your party?

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 Yes, alone, I was alone. It's not the first time; it happened with other topics, so...

GIULIO VALESINI VOICE-OVER According to a reconstruction by the newspaper Il Fatto Quotidiano, in 2017 Philip Morris commissioned the network strategy company Casaleggio to provide them with guidance about digital communication in Italy; this coincided with the opening of the multinational's Twitter account.

GIULIO VALESINI Do you think that Casaleggio's business interests may have influenced the party's choice?

GIULIA GRILLO - MINISTER OF HEALTH JUNE 2018–SEPTEMBER 2019 I really don't think so. I hope not, and in any case I obviously didn't know anything about all this; I had no information.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER British American Tobacco, the other international giant, also created its own heated tobacco device: it's called Glo. And they also asked the Ministry of Health to have their products recognised as less toxic and hazardous to health. They failed, too.

 ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY We couldn't get an assessment that acknowledged a reduced risk.

GIULIO VALESINI This means you're not allowed to say that your products are less risky and as such would be less hazardous to users' health. You're not allowed to say so.

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY No, in Italy we're not allowed to say that these products are less harmful to health.

GIULIO VALESINI I wonder why the Italian Ministry of Health hasn't had this kind of study published?

ALESSANDRO BERTOLINI - VICE PRESIDENT OF BRITISH AMERICAN TOBACCO ITALY It's very strange but to be honest you should ask the Ministry of Health.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Despite the Italian National Institute of Health's rejection of its analyses, Philip Morris didn't give up. They approached the lobbying firm Solving and got the president of the Tuscany Region, Enrico Rossi, involved. The aim was to persuade the Region's epidemiologists dealing with cancer prevention to recommend the use of IQOS devices to patients who couldn't give up smoking. They met up in February.

GIULIO VALESINI You never had such an experience in 20 years? GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGIST, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER Let's say that reality surpassed all my most paranoid imaginings. They asked for a meeting with the Region and with us, so that we could advise health workers to recommend these heated tobacco products to their patients, to reduce damage to their health.

GIULIO VALESINI You as doctors?

GIUSEPPE GORINI – EPIDEMIOLOGIST, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER We, as representatives of the Tuscany Region, were asked to advise healthcare staff, working in local health units in Tuscany, to recommend them to patients.

GIULIO VALESINI I looked at the dates. The meeting was in February...

GIANNI AMUNNI – DIRECTOR GENERAL, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER I think so, yes.

 GIULIO VALESINI Okay. According to the Ministry's reply, the Ministry informed Philip Morris of the outcome, the negative outcome regarding the claims that the products were less toxic and would reduce harm, in January.

GIANNI AMUNNI – DIRECTOR GENERAL, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER Yes. GIULIO VALESINI So when Philip Morris met up with you, it was aware that the Ministry had said, “Be warned, you're not allowed to say that...”

GIANNI AMUNNI – DIRECTOR GENERAL, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER That's Philip Morris's concern, not mine.

GIULIO VALESINI Just to understand better... Did lobbyists and representatives of Philip Morris mention the fact that the Italian National Institute of Health had provided a negative report?

GIANNI AMUNNI – DIRECTOR GENERAL, INSTITUTE FOR THE STUDY AND PREVENTION OF CANCER I don't think so.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Who owns the lobbying firm Solving BFM, which requested a meeting between governor Rossi and Philip Morris? Its president is Wladimiro Boccali, former mayor of Perugia, member of the Democratic Party's national leadership. Andrea Mazzoni, member and adviser of Solving, who in 2018 ran as a candidate of the Articolo Uno party for the Chamber of Deputies – the same party governor Enrico Rossi, now returned to the Democratic party, adhered to. It seems like legitimate public relations activity, yet Andrea Mazzoni doesn't want to speak to us.

GIULIO VALESINI “Recommend IQOS devices as valid and effective tools for healthcare workers”; this is the request sent to president Rossi. You belong to Articolo Uno, just like president Rossi; did you take advantage of this?

ANDREA MAZZONI – INSTITUTIONAL RELATIONS, SOLVING BFM Look, I don't belong to any party. GIULIO VALESINI Really?

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Enrico Rossi forwarded Philip Morris's request to his Health commissioner, Stefania Saccardi, who expedited the meeting with doctors from the Institute for the Study and Prevention of Cancer.

STEFANIA SACCARDI - TUSCANY REGION HEALTH AND SOCIAL POLICY COMMISSIONER I didn't even see them actually.

GIULIO VALESINI I'm really surprised that a meeting was even requested...

STEFANIA SACCARDI - TUSCANY REGION HEALTH AND SOCIAL POLICY COMMISSIONER Well, I'm only surprised up to a point, as...

GIULIO VALESINI In the secret chambers of the Region...

STEFANIA SACCARDI - TUSCANY REGION HEALTH AND SOCIAL POLICY COMMISSIONER The secret chambers, come on...

 GIULIO VALESINI This meeting would never have been disclosed to the public, I expect...

STEFANIA SACCARDI - TUSCANY REGION HEALTH AND SOCIAL POLICY COMMISSIONER There was no reason to, nothing happened in the end...

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO They actually met the doctors in order to have them recommend IQOS devices to patients who couldn't give up smoking. They had to pursue a lobbying path, a political path, as the health one had been barred by the Italian National Institute of Health's rejection. They took the path of silence with us, and chose to write in, instead. And they justified the rejection of their analyses by saying that the Italian National Institute of Health didn't give them enough time to integrate documents drafted after 2017. According to them, three months weren't enough to collect and integrate the material requested. Not only that; Philip Morris had also experimented on mice for 18 months, but the related report only covered 10 months. The final report is missing, something that was criticised, with a little irony too, by the Italian National Institute of Health. However, Philip Morris also highlighted the fact that unlike our Italian National Institute of Health, other prestigious German and Japanese institutions have acknowledged that IQOS represents a lower health risk than traditional cigarettes. They also mention the FDA, although the FDA only granted marketing authorisation, prompted by a generic interest in public health. It never scientifically assessed the lower risks of heated tobacco. Philip Morris's full reply can be found on our website. However, while we were recording the studies, an injunction by Philip Morris arrived, stating that the programme could not divulge the Italian National Institute of Health's report as we'd be in violation of trade secrecy. We don't care about Philip Morris's trade secrets, we only care about public health. After your lobbying activities, already depriving us of 1.2 billion euro for the next three years that would have been very handy for our welfare system, after you tried to persuade doctors to promote a certain product to patients who can't give up smoking, and after your report was rejected by the Italian National Institute of Health... Well, we wouldn't want our concern for public health to get in your way. We'd also like to remind everyone that these lobbying activities were carried out by people who are close to or members of Articolo Uno, the party the current minister of Health Roberto Speranza belongs to; he's the one who should publish the Italian National Institute of Health's report rejecting Philip Morris's claim about the products. With regards to the relation between Philip Morris and Casaleggio, Casaleggio let us know in writing that they wouldn't reveal the name of their clients. And Philip Morris won't reveal who their suppliers are. In substance, they raised a smokescreen which, to eliminate any suspicion of conflict of interest, should have been dissipated instead. As all researchers on the topic of smoking should do.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER In 2017, former WHO director Derek Yach, one of the authors of the Framework Convention on Tobacco Control, established the “Foundation for a Smoke-Free World”. They claim be independent, but looking at their budget we see that they have only one sponsor: Philip Morris, who committed to donate a billion dollars over the next few years. The 2019 tax return shows that the foundation received 80 million dollars over one year, and only from Philip Morris.

SILVIO GARATTINI – PRESIDENT, MARIO NEGRI INSTITUTE FOR PHARMACOLOGICAL RESEARCH It's something of a travesty, as to have a smoke-free world tobacco companies should just shut down; but they want people to remain addicted to nicotine, whichever device they use.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Last year, the Foundation for a Smoke-Free World, established by former WHO director Derek Yach and funded by Philip Morris, gave 8 million dollars to the Centre for the Acceleration of Harm Reduction, part of the University of Catania, which researches the effects and damage produced by tobacco smoke. And the Centre is expecting to receive a further 23 million. The Centre was founded by professor Riccardo Polosa.

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION A crusader against smoking. Are you surprised?

GIULIO VALESINI Is this an independent foundation?

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION Completely independent.

GIULIO VALESINI Do you really believe that?

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION I firmly believe it: the foundation president is a big shot from the World Health Organization...

GIULIO VALESINI ...I know, incredible...

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION ...who actually established the Framework Convention on Tobacco Control, the famous FCTC.

GIULIO VALESINI But I see you're laughing. It makes you laugh a little.

 RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION I'm laughing at your question, which seems rather biased to me.

GIULIO VALESINI Biased. I'm sorry, how can a question about a foundation for a smoke-free future, a smoke-free world, funded by Philip Morris, be biased – the whole thing seems hypocritical to me, if I may say.

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION It's not hypocritical: Philip Morris has publicly stated more than once that it is investing billions of dollars in smokeless products.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER But the money from the foundation run by the former WHO director doesn't go directly to professor Polosa's Centre. It goes through a university's spin-off first, the ECLAT srl company. Polosa's goals include reducing the harm caused by tobacco and comparing heated tobacco devices and electronic cigarettes.

GIULIO VALESINI Philip Morris started selling IQOS once it started selling fewer cigarettes?

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION To avoid being overtaken by independent companies producing electronic cigarettes, tobacco multinationals had to catch up with the times.

GIULIO VALESINI VOICE-OVER Yet, even if ECLAT is a university's spin-off, one of its members is Md Tech, which owns Eurovape, a company selling electronic cigarettes and smoking items, located in Turin. Doesn't this limit its independence? The company's charter states that the company should research the possible risks from substances used in electronic cigarettes, but can also run promotional campaigns on the safety of all “alternative smoking products”. Yet another contradiction.

RICCARDO POLOSA – FOUNDER, CENTRE FOR THE ACCELERATION OF HARM REDUCTION What we do is meet smokers' needs by saying “Look, this is what's on offer, these are the options: would you like a drug to help you give up? Here's the drug. Would you like a plastic pipe to help you give up? Here it is. There are electronic cigarettes, or would you rather use a liquid? See what you prefer. There's heated tobacco if you don't like cigarettes. Do you want chewable tobacco? Do you want nicotine gum? Choose what you think would be best for you to give up smoking.”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Polosa certainly manages a Centre that should limit the damage caused by smoking, but he's also a member of ECLAT, a spin-off company of the University of Catania, which in turn is indirectly financed by Philip Morris via the foundation established by the former WHO director. ECLAT, however, includes people selling electronic cigarettes, as well as people researching the damage caused by electronic cigarettes and those promoting electronic cigarettes. Basically, three in one. It also includes professor Polosa, who's also a member of LIAF, the Italian Anti-Smoking League, and two other members belonging to the spin-off that funds him. In the end, is LIAF, the Anti-Smoking League, an association wishing to promote health or an instrument manipulated by the tobacco multinationals who, having lost shares in the traditional cigarette market have decided to expand in the heated tobacco market? In all this, an understanding of who's guileless and who's not is essential, as it's about people's health. And I hope Report won't take the blame for simply telling the story.

·        La Caduta dei capelli.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2021. Il numero dei capelli che si perdono quotidianamente varia molto da individuo a individuo, anche se a grandi linee si ritiene normale una media di caduta che va dai 40 ai 120 capelli al giorno nei due sessi, per un totale di oltre 1.000 al mese sui circa 100.000 presenti sullo scalpo. La perdita quotidiana dei capelli è un fenomeno normale facente parte del naturale ciclo di crescita e del continuo ricambio, e normalmente il capello cade quando il suo follicolo ne ha già prodotto uno nuovo pronto a sostituirlo, anche se il distacco precoce del capello destinato a cadere può essere accelerato da traumi meccanici, quando per esempio si favorisce la perdita prematura durante la spazzolatura, l'asciugatura ad alte temperature o un vigoroso lavaggio. Chi si lava i capelli tutti i giorni ne troverà 30/40 nel lavandino, mentre chi lava la capigliatura più raramente perderà, durante il lavaggio, dai 200 ai 400 capelli, così come chi non si pettina o si spazzola quotidianamente perderà tutti insieme i capelli in riposo durante lo shampoo, cosa verificabile quando, non essendo biodegradabili, si ritroveranno accumulati ad intasare lo scarico della doccia o della vasca. Le migliaia di follicoli piliferi presenti sul cuoio capelluto hanno cicli vitali indipendenti, ovvero con fasi di crescita sfasate rispetto a quelle dei bulbi adiacenti, per cui non ci si rende conto quasi mai del continuo processo di ricambio e rinnovamento della capigliatura, a meno che non subentrino condizioni cliniche e psicologiche patologiche che favoriscono una caduta numericamente molto elevata e quantitativamente omogenea dei capelli, che interessa diffusamente tutta la testa comprese le parti laterali e posteriori, a differenza di ciò che accade nell'alopecia androgenetica, la cui origine invece è genetica, quindi inesorabile. Una perdita cospicua di capelli può avvenire in situazioni di stress particolarmente intensi, anche se di breve durata, come in caso di lutti, incidenti o traumi psicologici, ma questo effluvio pilifero in genere si risolve spontaneamente, mentre altre condizioni di diversa natura, come carenze nutrizionali prolungate, mancanza di ferro, disturbi di ansia e depressione, assunzione di farmaci o deficit ormonali, possono non arrestare la caduta, o comunque non sollecitare la sostituzione dei capelli perduti, per cui il paziente si ritroverà con una quantità e densità di chioma sempre inferiore che tenderà a diminuire e diradarsi nel tempo. Altre condizioni cliniche che possono favorire il diradamento capillare sono la menopausa, le malattie della tiroide, anemie varie, denutrizione, abuso di alcol, chemioterapici , malattie neoplastiche, dermatiti seborroiche dello scalpo, ma soprattutto, nelle persone esenti da malattie, l'uso sconsiderato di molti prodotti per la "cura" dei capelli, preparati troppo aggressivi, (decoloranti, cheratina, tinture varie) i quali, arrivando a danneggiare il cuoio capelluto rendono i bulbi intossicati dalle sostanze chimiche e difficilmente produttivi. Durante l'anno tra ottobre e dicembre, quando cala l'esposizione al sole, si verifica la caduta maggiore dei capelli, che ripeto è un evento fisiologico, ma la chioma non è solo un fattore estetico poiché riflette lo stato di salute della persona, per cui quando si nota una perdita eccessiva è sempre bene consultare un medico per limitare il problema e magari scoprire che esiste una causa patologica nascosta da curare. Molte sono le false credenze che riguardano i capelli, la più diffusa delle quali è quella che tagliare i capelli aiuti la ricrescita, cosa assolutamente non vera poiché i capelli crescono a partire dal follicolo pilifero che alloggia nel cuoio capelluto e non si allungano dalle estremità, quindi a nulla serve spuntarli per limitarne la caduta o favorirne la crescita. È vero però che in fase di asciugatura bisognerebbe tenere il phon a distanza di almeno 15 cm dalla testa, e utilizzarlo con un getto di aria tiepida, perché il calore eccessivo può bruciare la radice del capello e comunque indebolirne la struttura. Le donne orientali sono famose per la lucentezza corvina delle loro chiome, dovuta al fatto che, per ragioni climatiche, esse asciugano i capelli quasi sempre all'aria e al sole, senza usare quasi mai il phon, la cui temperatura elevata, insieme al coefficiente di frizione e tiraggio della spazzolatura, rimuove la curicola naturale che ricopre il capello, facendogli perdere la naturale luminosità dell'infanzia. Un capello trattato, decolorato e strapazzato da procedure violente e ustionanti (piastre, ferri ecc) diventa opaco, non riflette più la luce, si indebolisce, appare poroso con dissertazioni distali (doppie punte), i suoi aminoacidi si disintegrano rendendolo visivamente elettrico e difficile da pettinare o domare, appare secco e arido al tatto una volta asciugato ed è destinato progressivamente alla rottura. Quando, dopo una messa in piega, si vedono sulla testa capelli più corti rispetto alla normale lunghezza degli altri, che restano verticali senza piegarsi, questi non sono affatto quelli nuovi che ricrescono, come viene fatto credere, ma sono purtroppo quelli spezzati e lesionati, che non sono sopravvissuti ai trattamenti applicati. Il fenomeno dello schiarimento dei capelli al sole inoltre, è un segno di ossidazione della melanina contenuta nel fusto, per cui il capello diventa più chiaro in quanto il suo fusto ha subito dei danni solari dovuti al calore e alla secchezza provocata dopo l'asciugatura dalla salatura dell'acqua marina. È bene ripetere che una caduta di capelli diventa anormale quando la perdita giornaliera supera i 100/120 capelli (700/1.000 a settimana) poiché può essere il sintomo primario o principale di molte malattie, cosa che richiede una valutazione medica anche se non è evidente alcun diradamento della chioma. Per fortuna i capelli, tranne nei soggetti soprattutto maschili che soffrono di alopecia genetica, continuano a crescere per tutta la vita, e tale processo inizia a scemare nell'età senile, quando il carico ormonale si avvia al suo naturale declino. La dermatoscopia del cuoio capelluto è un esame rapido e non invasivo che permette di ottenere informazioni importanti per la diagnosi di molte patologie del capello e cuoio capelluto, mettendo in evidenza aspetti morfologici non visibili ad occhio nudo. 

Caduta dei capelli: i rimedi per tutte le cause. A favorire la caduta dei capelli nelle donne contribuiscono anche genetica, stress e dieta. I rimedi cominciano a tavola e arrivano fino al parrucchiere. Claudia Bortolato su La Repubblica il 24 Febbraio 2021. Il body acceptance investe finalmente territori finora poco esplorati, come quello dell’alopecia femminile, molto più diffusa di quanto si pensi (secondo l'International Hair Research Foundation riguarda circa il 35,8% delle italiane in età fertile e il 53,9% dopo la menopausa). Tra le donne più famose a soffirine c'è la divina Naomi Campbell, 50 anni, che non fa più mistero della sua alopecia da trazione (ovvero causata dall’abuso di extension) postando di tanto in tanto foto della sua chioma diradata. Come lei, hanno rivelato di aver sofferto di alopecia anche l’attrice Jada Pinkett Smith, 49, e la socialite e volto tv Kourtney Kardashian, 41. Ma il problema della caduta dei capellinelle donne non riguarda solo le over 40, anzi: come segnala Kérastase, secondo Italy Report beauty Track la caduta dei capelli è oggi una delle principali preoccupazioni beauty delle millenial. In particolare, l’80% delle donne tra i 25 e 34 anni dichiara di perdere i capelli, ma ben il 76% dichiara di non acquistare prodotti anticaduta per paura di dover rinunciare agli effetti cosmetici di shampoo e condizionanti.

QUANDO PREOCCUPARSI. La caduta dei capelli diventa un'anomalia quando supera la normale quantità giornaliera che va dai 50 ai 200 capelli al giorno. Inoltre, poiché ciascun capello ha uno suo ciclo di vita solitamente i capelli cadano in modo casuale nelle diverse zone della testa, se al contrario la caduta è concentrata in un’area specifica della testa significa che c'è un'anomalia e bisogna intervenire.

LE CAUSE. Su una base di predisposizione genetica, che corrisponde anche alla maggiore sensibilità del bulbo pilifero all’azione degli ormoni androgeni, le cause del vistoso assottigliamento del fusto (tipico del diradamento femminile) e della caduta anomala e diffusa dei capelli sono multifattoriali e spesso agiscono sinergicamente. "Tra le più diffuse ci sono i disordini della tiroide, le diete fortemente ipocaloriche, le carenze di ferro e di vitamina D, l’uso di farmaci antidepressivi e il fumo, perché provoca un danno ossidativo e riduce l’irrorazione sanguina della papilla dermica del follicolo pilifero", spiega Elisabetta Sorbellini, specialista in dermatologia a Milano. Un po’ meno diffusi sono i danni provocati dalla tricotillomania (il disturbo ossessivo-compulsivo che porta a strapparsi ciocche di capelli) e dall’eccessiva trazione delle acconciature, dovuta ad esempio a treccine afro, extension e code troppo aderenti alla nuca. Molto alta, invece, è l’incidenza degli stress psicofisici, che possono indurre un copioso effluvio sia attraverso meccanismi ormoni-dipendenti che neurologici. "Il Corticotropinreleasing factor (Crf), l’ormoneadrenocorticopropo (ACTH), sintetizzato dall’ipofisi, e i glucocorticoidi, tra i quali il cortisolo prodotto dai surreni, non sono solo componenti chiave per la risposta dell'organismo allo stress, ma interrompono anche il ciclo di crescita del follicolo", chiarisce Sorbellini.

LA DIETA. Un fattore chiave per mantenere o riconquistare capelli sani e folti è la dieta: non a caso, le carenze alimentari e le diete restrittive e squilibrate sono tra i principali fattori scatenanti dell’effluvio anomalo. Oltre ai circa 1,5/2 litri di acqua minerale naturale al giorno e alle classiche cinque porzioni tra verdura e frutta di stagione, per assicurare vitamine e minerali antiossidanti, la dieta ideale include due o tre porzioni settimanali di cereali e legumi, due di carne e un bicchiere al giorno di latte, perché apportano quantità ottimali di aminoacidi, come metionina e cisteina, costitutivi della cheratina dei capelli. "Due-tre volte la settimana, come fonte proteica è importante preferire il pesce, in particolare quello ricco di acidi grassi polinsaturi Omega 3, antinfiammatori, come le sardine, le aringhe e il salmone selvatico", dice l’esperta. La dieta può essere  supportata dagli integratori alimentari, per cicli di assunzione di 2-3 mesi. "Tra i supplementi più utili ci sono  quelli a base di vitamine del gruppo B, di aminoacidi, di antiossidanti come resveratrolo, vitamina C, selenio, e poi di olio di borragine, fonte di Omega 3 e 6".

L'HAIR ROUTINE A CASA. Per ritrovare capelli robusti, sani e folti occorrono i dovuti approfondimenti e la relativa diagnosi dal dermatologo, che in base alla gravità del disagio potrà prescrivere appositi farmaci locali, come il minoxidil. Nelle forme meno importanti, oggi ci si può affidare a molecole cosmetiche di nuova generazione particolarmente attive, spesso di origine naturale. "Per l’alopecia androgenetica funzionano i complessi antiossidanti, per esempio con capsaicina, melatonina e resveratrolo, associati a principi attivi che agiscono sui meccanismi ormonali dell’assottigliamento del fusto e della caduta, come il Ganoderma lucidum, estratto da un fungo giapponese", svela Sorbellini. Per le cadute eccessive provocate da stress o eventi traumatici, come l’abuso di acconciature troppo tirate sulla nuca, sono efficaci gli shampoo e le lozioni che contengono sempre mix di antiossidanti derivati dalle piante, come l’ortica e il tè verde, insieme ad aminoacidi e vitamine del gruppo B. In queste formule oggi si trovano frequentemente anche dei post-biotici, delle sostanze rielaborate dai probiotici e per questo ancor più attive. Tra le più valide c’è la plantaricinia, che ripristinando un buon equilibrio del microbioma del cuoio capelluto riduce l’infiammazione e stimola l’attività dei bulbi per farli tornare in fase anagen, quella attiva. "Per dare risultati, qualsiasi trattamento locale va proseguito per almeno 3 mesi", raccomanda Sorbellini.

I TRATTAMENTI DI MEDICINA ESTETICA. Una soluzione anticalvizie perseguibile sono anche i trattamenti soft della medicina estetica, mentre l’autotrapianto è spesso sconsigliato perchè il diradamento al femminile coinvolge tutto il capo, non solo la sommità come accade negli uomini, rendendo insufficienti le possibili aree donatrici. Tra le tecniche più rodate c’è il micro-needling, un dispositivo dotato di tanti microaghi monouso che, creando piccole ferite superficiali multiple nel cuoio capelluto, induce la produzione di fattori di crescita e di citochine che stimolano la rigenerazione del follicolo (4 sedute da circa 400€ l’una, risultati visibili dopo 6-9 mesi). "Altri trattamenti validi sono il PRP (Plasma ricco di piastrine) e il PRF (Plasma ricco di Fibrina),  entrambi ricavati in ambulatori autorizzati da un piccolo campione di sangue della paziente,  perché sono molto utili per rinnovare e rigenerare le cellule del bulbo. Il ciclo consigliato è di  3 o 4 sedute l’anno", dice Sorbellini. Costi: da 350 a 500 € a seduta a seconda che la tecnica utilizzata dal medico sia la veicolazione transdermica (senza ago) o iniettiva (con l'ago).

IL CAMOUFLAGE ESTETICO. Per far sembrare i capelli più voluminosi un aiuto arriva anche dal parrucchiere: meglio spuntare spesso i capelli, anche se per pochi millimetri, e preferire un taglio medio-corto, scalato o sfilato ma senza eccessi, per bilanciare la forza di gravità che tende a impoverire otticamente la massa. Sul fronte colore: meglio i toni caldi dei biondi, che "staccano" meno rispetto alla cute diradata, mentre chi ama i toni del bruno può rimediare camuffando i diradamenti con le apposite polveri colorate volumizzanti o con un ombretto in tono distribuito con un pennello.

·        Borse e occhiaie.

Borse e occhiaie: rimedi e soluzioni naturali per contrastarle. Sofia Lombardi il 13 Aprile 2021 su Il Giornale. Borse e occhiaie sono molto ricorrenti, con cause differenti che colpiscono a ogni età. Che si tratti di un gonfiore localizzato sotto la palpebra inferiore degli occhi o una macchia scura, ciò che conta è il cercare una soluzione utile. Inestetismo cutaneo molto presente, anche tra i più piccoli, le borse e le occhiaie sono in grado di incidere negativamente sull’aspetto dello sguardo, oltre a rivelarsi un campanello d’allarme di problematiche e cause sempre differenti, che è bene sondare e monitorare. La zona cutanea sotto agli occhi è un’area molto delicata, con una consistenza davvero leggera e per questo facile preda anche degli agenti atmosferici. E borse e occhiaie spesso si presentano insieme, con contorno occhi incavato, più scuro e tanto di rigonfiamento. Averne cura è un imperativo, così come stabilire le cause che possono portare alla formazione di profonde e scure occhiaie o borse gonfie e ricolme di liquido. Per trattarle non esistono solo medicinali ma anche rimedi naturali, soluzioni fai da te, da utilizzare seguendo uno stile di vita e alimentare sano. Si tratta di una risposta indispensabile per ridare smalto e rivitalizzare la parte in questione, riportando benessere, salute e bellezza allo sguardo stesso.

Occhiaie, cosa sono e cosa le provoca. Si presentano come un alone scuro dal marrone al nero e si collocano esattamente sotto alla palpebra inferiore degli occhi. Le occhiaie non sono solo un problema di tipo estetico ma un vero campanello d’allarme per la salute. Come anticipato, queste macchie colpiscono a tutte le età, senza distinzione di sesso, ma possono sopraggiungere per cause sempre differenti. Sono una presenza in grado di appesantire il viso rendendolo più stanco, sciupato, con uno sguardo più triste e anche maggiormente invecchiato. Esteticamente è un’ombreggiatura che influisce sull’aspetto generale del volto e che, spesso, di cerca di mascherare, correggendo abitudini ma principalmente impiegando trucchi e correttori.

Occhiaie: cause e come combatterle. Per eliminare la problematica è fondamentale scoprirne la causa. Le occhiaie possono comparire per una predisposizione genetica, o come conseguenza diretta della presenza di alcune malattie e problematiche fisiche, come ad esempio l’anemia, stati infiammatori, allergie, problematiche alla microcircolazione sottocutanea dell’area in questione e al fegato. A queste si aggiungono anche un eccessivo sfregamento e una forte irritazione del contorno occhi, una prolungata esposizione al sole senza un’adeguata protezione, passando per l’assunzione di medicinali e a un naturale cedimento cutaneo dato dall’invecchiamento.

Occhiaie: indicano vari disturbi. Possono incidere nettamente anche lo stress, l’insonnia, la mancanza di riposo e sonno, un’alimentazione sbagliata, abitudini e stili di vita eccessivi, una scarsa idratazione e al contempo un abuso di alcolici e tabacco. Non vanno poi dimenticate le problematiche di tipo ormonale, una lacrimazione eccessiva e gli sbalzi di temperatura.

Borse sotto gli occhi, cosa le provoca. Anche per quanto riguarda le borse la componente genetica incombe. Inoltre, si presentano per stanchezza e stress fisico ed emotivo mostrandosi con un gonfiore localizzato nella zona suboculare noto come edema, dato da un accumulo di liquidi. E, come accade per le occhiaie, la zona appare violacea con alone più scuro, una condizione data dalla cute molto sottile della stessa area. Le cause possono essere tante; oltre a quelle già indicate, può contribuire anche un eccessivo consumo di sale, un’evidente mancanza di sonno, poca assunzione di acqua e uno stile di vita sbagliato, così come un’alimentazione non adeguata, fattori ereditari, allergie e il più classico di tutti: l’invecchiamento cutaneo.

Borse e occhiaie, come si presentano. Sia le occhiaie che le borse sotto agli occhi sono una condizione molto presente che colpisce senza distinzione di sesso e genere, ma anche di età. Con l’avanzare del tempo la pelle che caratterizza questa specifica area inizia a subire un cedimento fisiologico, in parte naturale e in parte causato da stili alimentari e di vita del tutto errati. Il tessuto potrebbe accumulare liquidi favorendo un vero e proprio ristagno, con una presenza marcata durante le prime ore della mattina. L’inattività notturna data dal riposo favorisce un’assenza di drenaggio liquidi, e per questo il tanto temuto accumulo. La parte incriminata appare violacea, con un alone più scuro che interessa l’area suboculare e, spesso, in tandem con un eccesso di liquidi non drenati.

Rimedi naturali e soluzioni. Per combattere questa problematica è necessario scoprire la causa scatenante così da operare in modo mirato, ma principalmente efficace. Ad esempio, se si tratta di una questione di tipo ormonale o legata a uno stile di vita o alimentare del tutto errato, ma che si può correggere nel modo giusto, potrebbe essere sufficiente aumentare l’idratazione personale oppure impiegare creme specifiche per l’area, in grado di riattivare la microcircolazione. Per ridare splendore alla zona si possono utilizzare una serie di rimedi naturali, metodi facili e veloci ma principalmente salutari. Tra questi vi sono gli impacchi freddi, realizzati con un fazzoletto di stoffa imbevuto di acqua ghiacciata da posizionare sulla parte, dopo una leggera strizzata. Da non dimenticare, poi, sono gli impacchi con erbe officinali; il più classico è quello con le bustine di camomilla o con i dischetti di cotone imbevuti nella stessa sostanza fredda. Una variante valida potrebbe essere il tè, sempre in bustina o in infusione, seguito da betulla, centella asiatica ed eufrasia. Gli impacchi si effettuano due volte al giorno, applicando il panno o il dischetto sulla parte da sgonfiare e lasciandolo in posa per venti minuti.

Perché bere acqua  in inverno è importante. Ottime sono anche le fette di cetriolo, limone o di patata da applicare direttamente sugli occhi e da lasciare in posa per quindici minuti. Senza dimenticare, poi, le maschere localizzate come quella ricavata mixando yogurt magro e miele, con qualche goccia di olio alle mandorle oppure di olio essenziale di cipresso. L’olio di cocco è utile per massaggiare e frizionare la parte, al pari di una maschera al latte, una all’argilla classica o quella rossa, fino alla crema all’aloe vera. Ci sono poi gli interventi più radicali come quelli di blefaroplastica, l’impiego di agenti schiarenti, quelli depigmentanti e il peeling chimico. In ogni caso, indispensabile è una buona idratazione, bevendo tanta acqua, e l’assunzione di cibi antiossidanti quali kiwi, tè verde, agrumi, frutti rossi, cercando di seguire uno stile di vita sano, meno stressante e praticando più sport per eliminare le tensioni accumulate dedicando più tempo alla cura del viso attraverso massaggi, creme e dormendo di più.

·        La Blefarite.

Blefarite, come riconoscerla e curarla con i rimedi naturali. Maria Girardi il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. La blefarite è una condizione che tende a cronicizzare, per questo è importante prevenirla con una serie di attenzioni, norme igieniche incluse. Il termine blefarite deriva dal greco ed è costituito dal prefisso "blefar" (palpebra) e dal suffisso "ite". Questo disturbo, molto diffuso in qualsiasi fascia di età, consiste in un'infiammazione della palpebra caratterizzata dalla comparsa di crosticine, squame e ulcere irritative lungo il margine della stessa. Esistono tre tipologie distinte a seconda della natura dello stato flogistico: blefarite seborroica: altrimenti definita squamosa, non è nota con esattezza la causa scatenante. Si ritiene, tuttavia, che alcuni fattori possano contribuire alla sua comparsa. Tra questi: seborrea del viso, acne rosacea, forfora;

blefarite ulcerativa: solitamente la problematica insorge in età infantile e, se non ben curata, si protrae fino all'età adulta. A generarla è un'infezione batterica. Il principale indiziato è lo stafilococco;

blefarite iperemica: dall'eziologia pressoché sconosciuta, si manifesta con edema palpebrale e occhi arrossati (iperemia).

Nonostante alcune varianti possono risolversi in maniera spontanea nell'arco di 2-4 settimane, nella maggior parte dei casi la blefarite tende a cronicizzare. Per evitare questo spiacevole inconveniente è di fondamentale importanza l'igiene quotidiana delle palpebre. I primi sintomi, infine, devono essere subito trattati anche con degli ottimi i rimedi naturali. Scopriamo quali sono i più indicati.

Le cause della blefarite. Ad oggi non è stata ancora individuata la precisa causa della blefarite. In seguito ad attente analisi si è giunti alla conclusione che l'esordio del disturbo sia l'esito della combinazione di due o più fattori.

Dal pericolo batteri alle infezioni: le 7 parti del corpo da non toccare

Come già accennato, nella quasi totalità delle diagnosi sono implicate le infezioni batteriche, sostenute in particolar modo da stafilococchi e streptococchi che possono, altresì, costituire una complicanza della forma allergica. Non si devono, poi, dimenticare le altre possibili condizioni responsabili della patologia:

infezioni virali: il principale indiziato è l'Herpes simplex di tipo I;

dermatite seborroica;

acne rosacea;

alterata secrezione delle ghiandole di Meibomio;

vizi refrattivi non corretti: soprattutto ipermetropia e astigmatismo;

allergie varie;

acari delle ciglia;

congiuntivite: allergica, irritativa o infettiva;

malattie sistemiche: diabete, avitaminosi, dispepsia, ipercolesterolemia.

I sintomi e la diagnosi della blefarite.

Nella fase di esordio non è raro confondere i sintomi della blefarite con quelli di un'altra patologia oculare, ad esempio la congiuntivite o la sindrome dell'occhio secco. È possibile, infatti, apprezzare arrossamento, prurito, sensazione di corpo estraneo, gonfiore palpebrale, offuscamento della vista. Mano a mano che il tempo passa le manifestazioni diventano più riconoscibili. Esse comprendono:

formazione di cisti e di crosticine lungo il margine delle palpebre;

palpebre desquamate;

alterazione della cromia delle palpebre;

bruciore, sensazione di calore e/o dolore sul bordo palpebrale

fotofobia;

secrezioni giallo-verdastre.

Purtroppo la blefarite tende a cronicizzare con una certa facilità. Se non trattata tempestivamente, la patologia può dar luogo a diverse complicanze. Tra queste sono presenti il calazio, l'orzaiolo, la cheratite, la cheratocongiuntivite e la perdita delle ciglia.

Calazio, il perché di questa fastidiosa cisti

La diagnosi precoce è dunque importante. Essa si basa sulla visita oculistica durante la quale lo specialista esaminerà le palpebre e, nell'ipotesi della natura infettiva del disturbo, lo stesso preleverà un campione di tessuto per l'indagine citologica.

I rimedi naturali per la blefarite 

La terapia classica della blefarite si basa sulla instillazione di colliri antibiotici e antinfiammatori a seconda della causa del problema. In caso di sintomi intensi agli stessi è possibile associare pomate oftalmiche a base di cortisone. Se ci si vuole affidare alla natura, i rimedi più indicati sono senza dubbio gli impacchi alla malva e alla camomilla.

Camomilla, proprietà, usi e benefici di questo fiore

Lenitivi e antinfiammatori, gli infusi di questi fiori vanno fatti raffreddare e applicati sugli occhi mediante una garza sterile due volte al giorno. Per un'azione più intensa è possibile aggiungere anche l'eufrasia e l'altea. In alternativa, si può ricorrere a una soluzione preparata con un cucchiaino di bicarbonato di sodio e 1/2 litro di acqua bollente. Le palpebre vanno strofinate leggermente con un batuffolo di cotone imbevuto.

La prevenzione della blefarite è indispensabile. Essa si basa su una corretta alimentazione (cibi ricchi di vitamine e sali minerali) e sul rispetto di semplici ma efficaci norme igieniche:

lavare le mani prima di toccare gli occhi;

detergere accuratamente palpebre e ciglia al mattino e alla sera con acqua tiepida;

in caso di necessità idratare gli occhi con lacrime artificiali;

evitare l'uso promiscuo di asciugamani, federe, lenzuola e cosmetici.

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero. Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza

·        L’Antigelo.

Da "tg24.sky.it" il 20 febbraio 2021. Quasi il 20% delle persone ha un gene che rende più resistenti al freddo. A indicarlo sono i risultati di un nuovo studio condotto da un team di ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma, che è riuscito a identificare una variante genetica che influisce sulle funzioni muscolo-scheletriche e che potrebbe aver protetto gli esseri umani dalle basse temperature durante la migrazione dall'Africa all'Europa oltre 50mila anni fa. Si tratta della variante del gene ACTN3, in grado di provocare la perdita della proteina muscolo-scheletrica α-actinin-3. Questa proteina è presente unicamente nelle fibre muscolari a contrazione veloce, che "accelerano" l'affaticamento, mentre è assente in quelle a contrazione lenta, che rendono più resistenti allo sforzo. I risultati dello studio, pubblicati sulle pagine della rivista specializzata American Journal of Human Genetics, suggeriscono che la proteina α-aktinin-3 è assente in quasi una persona su cinque a causa di una mutazione genetica.

Lo studio nel dettaglio. "Le persone prive di questa proteina trattengono meglio il calore, hanno più energia e resistono meglio ai climi più duri. Finora però non c'era una prova diretta sperimentale di questo", ha spiegato Hakan Westerblad, coordinatore del team di ricerca. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno misurato l'attività elettrica muscolare di 42 uomini di età compresa tra i 18 e i 40 anni, a cui è stato chiesto di restare seduti nell'acqua fredda a 14 gradi, finché la loro temperatura corporea non raggiungeva i 35,5°. Al termine del test, i partecipanti sono stati sottoposti a una biopsia muscolare per studiare la composizione delle loro fibre. Comparando i risultati delle analisi, è emerso che i muscoli dei partecipanti privi della proteina erano in grado di mantenere la loro temperatura corporea con un consumo di energia più efficiente. In particolare, il team di ricerca ha notato che in questi soggetti venivano attivate più fibre a concentrazione lenta, in grado di produrre calore, aumentando il tono muscolare, rispetto a quelle a contrazione rapida, correlate alla comparsa di brividi. "Questa mutazione ha offerto un vantaggio evolutivo durante la migrazione verso i climi freddi - conclude - Nella società di oggi, con case riscaldate e accesso illimitato al cibo, invece potrebbe aumentare il rischio di malattie come diabete e obesità", ha concluso il coordinatore della ricerca. 

·        La Sindrome del Cuore Infranto.

Valeria Arnaldi per "il Messaggero" " il 27 aprile 2021. «I cuori sono fatti per essere infranti», diceva Oscar Wilde. Quelli delle donne in particolare, pare sostenere la scienza. E quelli delle occidentali ancora di più, stando a recenti ricerche. Da uno studio della Monash University di Melbourne è emerso che le donne, specie dopo la menopausa, hanno nove volte più probabilità degli uomini di morire per la sindrome di tako-tsubo detta sindrome del cuore infranto. Nei Paesi asiatici, però, - la sindrome è stata individuata per la prima volta in Giappone - non c' è differenza nei dati tra uomo e donna. Così se prima più ricerche erano concentrate sulle differenze tra i sessi, oggi l'interrogativo si pone pure dal punto di vista culturale.

EVENTI TRAUMATICI Alla base della patologia ci sono forti stress, dettati da eventi traumatici, come separazioni e lutti, che sarebbero in grado di determinare una disfunzione del ventricolo sinistro fino a farlo somigliare a un cesto per la pesca dei polpi, detto tako-tsubo, appunto. I sintomi sono dolori al petto e mancanza di respiro. E in alcuni casi somigliano a quelli di un infarto. La gran parte dei pazienti guarisce. Non tutti. Dunque, l'immagine letteraria del cuore che si spezza per il dolore poggia su fondamenti scientifici. Non solo, però. Secondo quanto dichiarato al Daily Mail da Sam El-Osta dell'ateneo australiano, sarebbe «possibile» attribuire un ruolo pure alle consuetudini culturali in base alle quali gli uomini, in Occidente, non manifestano le emozioni.

DUE TIPOLOGIE «Riscontriamo la sindrome maggiormente nelle donne - dice Leda Galiuto, cardiologa Fondazione Policlinico Gemelli-Università Cattolica e membro della task force internazionale sulla sindrome di tako-tsubo - perché più frequentemente hanno le coronarie integre, magari tale sindrome negli uomini è catalogata in quelle coronariche. Non abbiamo una risposta scientifica sulla disparità di dati tra donne occidentali e soggetti asiatici. Ho contribuito alla scoperta del meccanismo fisiopatogenetico della sindrome e, ad oggi, ne individuiamo due tipologie. La primaria, a seguito di forti stress emotivi negativi. La secondaria, che si sovrappone a malattie importanti. Nella primaria c' è una forte componente psichica». Il dolore, quindi, potrebbe essere tra le cause della malattia. Anche la paura.

IL SISMA «L' Aquila, dopo il terremoto, ha visto molti casi di tale sindrome - dichiara Cosimo Napoletano, cardiologo, Comitato Centrale Fnomceo - Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri - a determinarli è stata la paura di morire. Molti erano portati in ospedale come sospetti infarti e ciò faceva crescere la paura stessa. Anche lì erano più donne. Perlopiù, persone sole. In Italia, la sindrome si manifesta al femminile in percentuale più alta rispetto alla media mondiale». Perfino la gioia può incidere. «Ci sono casi da stress emotivo positivo - prosegue Galiuto - come matrimoni o vincite. Nella mia interpretazione, tali pazienti non sanno gestire le emozioni». Rimane il dato geografico. «Culturalmente si possono anche dominare meglio talune emozioni - dice Napoletano - ma non conta solo l'educazione. Il lato psicologico è importante». «Gli ultimi dati rilevano un'alterazione a livello del sistema limbico, quindi cerebrale, nelle pazienti. Se questa alterazione sia differente culturalmente è difficile da dimostrare - dice Galiuto - Potrebbero incidere pure diverse condizioni di vita e dieta».

·        La cura chiamata Amore.

Taurina: gli effetti sessuali sull’uomo. Simona Bernini su Notizie.it. Gli integratori sessuali a base di taurina permettono di migliorare le proprie prestazioni e performance in modo che il sesso sia più coinvolgente. 

ARGOMENTI TRATTATI

Taurina

Taurina: effetti sessuali

Taurina: effetti sessuali e integratore.

Il sesso è una componente fondamentale, ma non sempre le prestazioni sono coinvolgenti. A volte, ci possono essere dei piccoli ostacoli e in quel caso è possibile usare integratori sessuali a base di taurina che possono aumentare la qualità e la durata delle proprie prestazioni. Vediamo quali sono i possibili effetti sessuali sull’uomo e la vita di coppia.

Taurina. Con questo nome s’intende un aminoacido che è presente in vari organi e tessuti del corpo umano e si trova soprattutto a livello di cuore e muscoli. Dal momento che l’organismo non è in grado di sintetizzare la taurina, è necessario assumerla o in alimenti che la contengono oppure sotto forma di integratori sessuali che aiutano a migliorarne gli effetti. Un aminoacido presente soprattutto negli alimenti di origine animale, quali uova, carne, ma anche frutti di mare, quindi il pesce. Sono diversi gli integratori sportivi che contengono taurina e che contribuiscono a dare l’apporto giusto durante l’attività fisica per migliorare le proprie performance in una gara e sentirsi maggiormente potenti durante lo sport e l’esercizio. La taurina apporta una serie di benefici all’organismo. Infatti, migliora l’apparato cardiovascolare, il colesterolo e anche i lipidi che sono presenti nel sangue. Ha una azione antiossidante e regola la contrazione muscolare, quindi particolarmente utile per gli sportivi e atleti. se si assume la taurina durante l’attività fisica permette di migliorare e aumentare la forza muscolare. Ha un ruolo importante anche nei processi di assimilazione digestiva e nella salute dell’apparato cardiocircolatorio. Non ha particolari controindicazioni o effetti collaterali, per cui si può assumere senza particolari problemi per apportare dei miglioramenti a tutto l’apparato.

Taurina: effetti sessuali. Se le proprie prestazioni sessuali ne risentono e fare l’amore con la partner è un problema in quanto non si è sicuri delle proprie prestazioni, forse è bene chiedere un piccolo supporto. In commercio sono diversi gli integratori sessuali a base di taurina come Tauro Plus che possono aiutare a incrementare e migliorare le proprie prestazioni sessuali con grande gioia per entrambi i partner. La taurina ha il compito di migliorare le performance sessuali sotto le lenzuola, di far affluire maggiore circolazione sanguigna al membro maschile in modo che non vi siano difficoltà di erezione o di disfunzione erettile in camera da letto. In questa maniera, le performance sono maggiormente coinvolgenti e stimolanti per tutti e due e l’uomo si sente bene nella sua virilità. Nel caso di un calo della libido maschile, la taurina permette di stimolarla e migliorarla in modo che ci si possa sentire maggiormente recettivi e pronti per vivere il sesso con la partner. Aumenta le prestazioni per una attività sessuale nettamente migliore e prolungata nel corso del tempo. Nell’ambito degli integratori sessuali, si usa soprattutto per trattare e combattere l’infertilità maschile. Stimola e favorisce il numero degli spermatozoi in modo che siano maggiormente attivi per contribuire a un aumento della fertilità dello sperma. Aumenta la libido con le erezioni che hanno maggiore potenza e vigore, oltre a migliorare il rapporto di coppia sotto tutti i punti di vista e non solo sessuale.

Taurina: effetti sessuali e integratore. Considerando che la taurina ha notevoli benefici sull’apparato sessuale maschile e sulla vita sotto le coperte di entrambi i partner, per migliorare le proprie prestazioni in camera da letto, è possibile abbinarla a un buon integratore che questo componente all’interno. Tra i tanti in commercio, il migliore, al momento, è Tauro Plus, un integratore della linea Natural Fit, quindi di origine italiana che ha notevoli benefici sul sesso. Un integratore naturale che aumenta la libido, la durata e la potenza dei propri rapporti sessuali e delle performance a letto. Grazie a questo prodotto in compresse, si migliora la qualità delle prestazioni sessuali che risultano essere maggiormente coinvolgenti. Si è inoltre più reattivi agli stimoli con performance maggiormente coinvolgenti. Un integratore che, oltre a combattere la disfunzione erettile, aiuta anche a contrastare l’eiaculazione precoce di cui molti uomini si vergognano al punto da non parlarne neanche con gli amici. Inoltre, è un prodotto naturale al 100% poiché si compone di erbe officinali che garantiscono risultati eccellenti. Grazie a Tauro Plus, si aumenta la potenza e il vigore nei rapporti sessuali. Grazie alle sue proprietà è definito e riconosciuto universalmente come il viagra naturale. Per chi volesse saperne di più, può cliccare qui o sulla seguente immagine

Non ha controindicazioni o effetti collaterali e si compone di:

Arginina: regola l’attività sessuale ed è molto importante sia negli uomini che nelle donne

Taurina premium: aumenta la motilità degli spermatozoi combattendo l’infertilità maschile e anche l’eiaculazione precoce

Ginseng: stimola il sistema endocrino aumentando il testosterone

Vitamina C : aiuta a migliorare l’umore aumentando di conseguenza la frequenza dei rapporti sessuali

Tribulus Terrestris: una pianta originaria dell’India e dell’Africa che combatte la fertilità

Schisandra: aumenta la longevità e l’energia in modo da avere maggiore vigore nel fare l’amore.

Basta assumere una compressa al giorno con acqua. Per ottenere maggiori benefici e giovamento sessuale, è possibile aumentare la dose arrivando a due da assumere la mattina e la sera, ma sempre previo consiglio dell’esperto.

Taurina: gli utilizzi e l’effetto sulla libido maschile. Simona Bernini su Notizie.it. Per aumentare la libido e le prestazioni sessuali con la propria partner, la taurina è l'aminoacido adatto per una notte coinvolgente sotto le lenzuola. 

ARGOMENTI TRATTATI

Taurina e libido

Taurina e libido: benefici

Taurina: miglior rimedio naturale

Il sesso con il partner è uno degli aspetti migliori del rapporto di coppia. Alcune volte, la libido maschile può venire meno e di conseguenza anche il rapporto sessuale tende a risentirne. Per migliorare le prestazioni, si consiglia di assumere la taurina, un aminoacido dagli importanti benefici. Cerchiamo di capire come funziona e gli effetti sul rapporto con la partner.

Taurina e libido. La libido, ovvero il calo del desiderio maschile è un problema che può colpire diversi uomini. Porta ad avere meno rapporti sessuali con la partner e lo stesso rapporto di coppia rischia di risentirne. Il calo della libido maschile varia da un soggetto all’altro e può dipendere da diversi fattori, tra cui l’ansia da prestazione, la stanchezza e anche lo stress. Per aumentare le proprie prestazioni e di conseguenza aumentare la libido maschile, è possibile assumere dei prodotti, come gli integratori sessuali a base di taurina. Si chiama in questo modo dal momento che inizialmente era isolata dalla bile del toro, quindi un aminoacido che è presente in molti tessuti animali, compreso appunto l’uomo. Infatti, si trova nel corpo umano, negli apparati circolatori e cardiaci. Molto presente anche negli alimenti di origine animale, quale la carne, il pesce e le uova, ma non si trova in quelli di origine vegetale. Contrasta l’invecchiamento grazie all’azione degli anti-radicali liberi. Un aminoacido molto importante dal momento che aumenta la resistenza muscolare e di conseguenza anche fare l’amore permette di trarre i migliori benefici. Considerando che si tratta di un aminoacido molto importante e utile in vari campi, la taurina è presente negli integratori sessuali in compresse che aiuta a migliorare le proprie prestazioni sotto le coperte con notevole soddisfazione da parte di entrambi i partner.

Taurina e libido: benefici. Per chi sente giù di tono al punto che anche le proprie prestazioni sessuali ne risentono e si ha un calo della libido, quindi del desiderio maschile, per migliorare, è bene assumere degli integratori sessuali. Sono prodotti disponibili sia per il sesso maschile che femminile che hanno il compito di aumentare la resistenza e la potenza in modo da concedere notti di passione sotto le lenzuola. Un integratore sessuale a base di taurina aiuta a migliorare l’erezione e il flusso sanguigno verso il membro sessuale maschile. Stimola il desiderio sessuale in modo da incrementare la durata delle proprie prestazioni per una performance che sia maggiormente tonica e duratura nel tempo. Un aminoacido come la taurina aiuta ad avere rapporti sessuali e costanti nel tempo. La taurina è nota come stimolante sessuale che aumenta, non solo le prestazioni, ma anche il desiderio con la voglia da parte dell’uomo di ritornare a fare l’amore per il piacere della partner. Si usa anche nell’infertilità dell’uomo per via della scarsa motilità degli spermatozoi. Insomma, la taurina e gli integratori sessuali come Tauro gel sono consigliati.

Aumenta il numero e la motilità degli spermatozoi in modo che siano maggiormente attivi e favorire anche la fertilità dello sperma. Grazie alla taurina, le erezioni sessuali sono maggiormente potenti con dei miglioramenti che riguardano anche il rapporto di coppia.

Taurina: miglior rimedio naturale. Dal momento che i benefici di taurina sono notevoli, questo aminoacido è l’ingrediente principale di un integratore sessuale che aiuta a migliorare la libido e di conseguenza i rapporti sessuali. Si trova in Tauro gel, un alleato che permette di ritrovare il vigore perduto per la gioia di entrambi i partner che possono godere di esperienze sotto le coperte uniche. Tauro gel è un prodotto in gel raccomandato dagli stessi esperti, ma anche dai consumatori proprio per la sua efficacia. Grazie all’applicazione di questo gel, le prestazioni a letto sono più forti e durature. L’uomo ha maggiore vigore e potenza nel fare l’amore e lo stesso rapporto di coppia ne guadagna. Grazie ai benefici e alla mancanza di controindicazioni, è considerato il miglior gel naturale per erezioni. Migliora le prestazioni, si è maggiormente sensibili e recettivi agli stimoli in modo da garantire alla partner una performance maggiormente coinvolgente. Possono usarlo davvero tutti, dal momento che non ha controindicazioni o effetti collaterali, considerando che all’interno si trovano componenti naturali di prima qualità, scelti dagli esperti del settore, quali:

Maca peruviana: ingrediente di qualità che fornisce effetti benefici sul desiderio, la potenza e il controllo delle proprie prestazioni

Cardo mariano: antiossidante e depurativo

Elastina: una proteina che dona più tono ed elastica all’epidermide.

Taurina

Gli ingredienti forniscono e garantiscono un benessere a tutto il sistema sessuale dell’uomo. Tutti i componenti, di tipo naturale, uniti insieme, aiutano a migliorare la circolazione verso l’organo sessuale, mantengono l’attività dei vasi sanguigni e stimolano i centri nevralgici dell’organismo.

Si contraddistingue da altri integratori sessuali dal momento che permette di riacquistare il vigore nel tempo. Usarlo è molto facile perché basta applicarlo sulla pelle, massaggiare con movimenti circolari e lasciare che il prodotto si assorba in profondità.

Disclaimer: su alcuni dei siti linkati negli articoli della sezione Offerte & Consigli, Notizie.it ha un’affiliazione e ottiene una piccola percentuale dei ricavi, senza variazioni dei prezzi.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 agosto 2021. Secondo un nuovo studio, gli uomini che eiaculano più spesso hanno un rischio inferiore di sviluppare il cancro alla prostata. I ricercatori dell'Università di Harvard hanno analizzato i dati di quasi 32.000 uomini e hanno scoperto che eiaculare almeno 21 volte al mese riduce di un terzo il rischio di sviluppare il tumore. I legami tra eiaculazione e cancro alla prostata non sono completamente noti. Tuttavia, alcuni credono che l'eiaculazione potrebbe liberare la prostata dagli agenti cancerogeni, ridurre l'infiammazione e anche portare a meno stress e dormire meglio, il che può ridurre il rischio di cancro. L'American Cancer Society afferma che il cancro alla prostata è il cancro più comune negli uomini statunitensi dopo il cancro della pelle. Si stima che a un uomo su otto verrà diagnosticato un cancro alla prostata nel corso della sua vita. Nel 2021, si prevede che a più di 248.500 uomini verrà diagnosticato un cancro alla prostata e più di 34.000 moriranno a causa della malattia. Ma il cancro alla prostata in genere cresce lentamente e, se rilevato precocemente mentre è ancora confinato alla ghiandola prostatica, c'è una possibilità di successo del trattamento. I ricercatori, che hanno pubblicato i loro risultati su European Urology, hanno analizzato i dati auto-riferiti sull'eiaculazione degli uomini che hanno partecipato allo studio. Lo studio è stato condotto dal 1992 al 2010, e gli uomini hanno completato i sondaggi mensilmente. La frequenza dell'eiaculazione è stata misurata quando gli uomini hanno iniziato lo studio, tra i 20 e i 40 anni. Dopo aver analizzato i dati e averli messi in relazione ad altri fattori, come l’indice di massa corporea, l’attività fisica, il consumo di cibo e alcol e i fattori di stress, hanno determinato che gli uomini che eiaculavano frequentemente - almeno 21 volte al mese - avevano un terzo in meno di probabilità di sviluppare il cancro rispetto quelli che eiaculavano dalle quattro alle sette volte al mese. «Questi risultati forniscono ulteriori prove di un ruolo benefico dell'eiaculazione più frequente durante la vita adulta nell'eziologia del cancro alla prostata, in particolare per le malattie a basso rischio», hanno scritto gli autori. Il legame tra eiaculazione e cancro alla prostata è stato controverso tra i ricercatori. Uno studio di Harvard del 2004 non ha trovato collegamenti tra eiaculazione e cancro alla prostata. Uno studio australiano pubblicato nel 2003 ha scoperto che gli uomini che eiaculavano spesso in giovane età adulta crescevano con un rischio ridotto di cancro.  Uno studio del 2008 condotto dall'Università di Cambridge ha scoperto che i tassi di cancro alla prostata aumentavano insieme alla masturbazione frequente. «Ci sono stati altri studi contraddittori. Ma la maggior parte di loro concorda sul fatto che c'è una diminuzione dell'incidenza del cancro a basso rischio», ha detto a Mashable il dottor Odion Aire, un esperto di urologia sudafricano. «Non c'è un verdetto chiaro per il cancro ad alto rischio, dallo studio». Gli uomini che hanno maggiori probabilità di sviluppare il cancro alla prostata hanno più di 50 anni e hanno origini africane. Anche mangiare molti latticini, fumare o essere obesi sono fattori che aumentano il rischio di contrarlo.  Alcuni credono che ci siano anche fattori genetici che rendono alcuni uomini più vulnerabili alla malattia. Gli esperti raccomandano che gli uomini a rischio di cancro alla prostata conducano test semi-regolari, perché scoprirlo presto potrebbe renderlo più facile da trattare.

Da “donnaglamour.it” il 28 febbraio 2021. Durante il sesso si bruciano circa 600 calorie, almeno secondo le ultime statistiche. Però per arrivare a bruciare tutte quelle in un rapporto sessuale conta anche la durata. Per bruciare 600 calorie bisogna fare l’amore per circa un’ora di seguito. Considerando che la media europea arriva a malapena a 14 minuti, forse il dato è un po’ sopravvalutato. Gli studiosi hanno elaborato un vero e proprio vademecum su come dimagrire con il sesso. Si parte dalle 4 calorie per i massaggi per arrivare alle 240 della posizione del missionario. Fare l’amore invece che andare in palestra Per le posizione più artistiche si superano addirittura le 350 calorie. Naturalmente ci sono diversi fattori e condizioni che entrano in gioco quando si cerca di dimagrire con il sesso. Ad esempio, stando sopra si brucia di più. Il dispendio di calorie è anche sorprendentemente maggiore se il sesso è da tradimento o occasionale. L’importante, come in ogni cosa, è non esagerare. Il rischio è quello di apparire visibilmente stanchi a lavoro, oltre a quello dell’infarto, soprattutto oltre una certa età. I ricercatori dell’Università del Quebec in Canada, sono andati oltre e hanno calcolato con precisione le calorie bruciate. Lo studio condotto ha dimostrato che durante l’attività sessuale, un uomo riesce a bruciare circa 4 kilocalorie al minuto, mentre ne brucia 9,2 correndo. Una donna ne consuma rispettivamente 3,1 e 7,1. Togliersi i vestiti fa consumare 12 calorie, in 20 minuti di baci e coccole si consumano tra le 80 e le 110 calorie. Con la posizione del missionario, in 10 minuti si consumano 250 calorie, con la posizione della cowgirl, in 10 minuti la donna consuma 300 calorie, l’uomo 130. La notizia migliore pare proprio che il momento del massimo piacere può far consumare fino a 122 calorie!!! Buon allenamento !

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 20 febbraio 2021. Si dice che l' amore sia la medicina più potente di tutte. Sarà davvero così? In parte. Perché se è vero che di solo amore non si vive, è altrettanto corretto affermare che l' amore, da solo, non guarisce. Ha però una grande capacità di cura, che potenzia le sempre necessarie terapie mediche. La scienza ufficiale è molto cauta su questo punto, nonostante sia appurato che un amore intenso e felice possa riaccendere la voglia di vivere e agisca positivamente sul sistema immunitario, rinvigorendolo. E poi c' è il sesso, un vero toccasana per la salute, a patto che sia protetto contro le malattie sessualmente trasmissibili in caso di rapporti occasionali. I suoi benefici? Tanti: dal sonno alla pressione arteriosa, dalla linea al tono dell' umore. Non solo. Gli scienziati hanno scoperto che una sana attività sessuale allenta lo stress, fa bene al cuore, riduce il rischio di cancro alla prostata, potenzia le capacità mentali, aumenta l' autostima e fa passare il mal di testa (lo dice uno studio di ricercatori tedeschi, secondo i quali l' amplesso stimola il rilascio di endorfine nel cervello, sostanze che vengono chiamate "gli ormoni del benessere" e che sono antidolorifici prodotti dal nostro organismo). Avete capito bene, amiche mie: quelle volte che non avete voglia di concedervi (in fondo è un vostro diritto), meglio accampare un' altra scusa per essere prese sul serio. Ironie a parte, il vero nemico delle donne a letto si chiama "vestibolite vulvare" ed è causa di dolori così forti da costringere molte di loro a rinunciare ad avere rapporti, con conseguenti ricadute nella vita di coppia e non solo (può portare anche alla depressione). Sentiamo il parere della dottoressa Concetta Miele: ginecologa, psicoterapeuta e consulente sessuale di Napoli.

Dottoressa, è possibile per queste donne tornare ad avere un' appagante attività sessuale, senza più provare dolore?

«Sì è possibile. La vestibolite vulvare è legata all' iperattivazione di una cellula, il mastocita, che oltre a produrre sostanze infiammatorie, determina l' aumento delle terminazioni nervose periferiche del dolore. Il dolore, da campanello d' allarme, se trascurato cronicizza diventando neuropatico (si genera nelle stesse vie del dolore). Spesso si sottovaluta il dato organico e si ascrive la sintomatologia a un disturbo psicologico, che sicuramente coesiste quando la paziente diventa "impenetrabile". L' esame obiettivo e la storia clinica dell' interessata: età, infezioni vulvo-vaginali ripetute, microtraumi, stili di vita, iperattività dei muscoli perivaginali che può essere presente prima della vestibolite (vaginismo) o determinata dal dolore (dispareunia), consentono una corretta diagnosi. La terapia si basa sulla riduzione dell' attività del mastocita con l' uso di farmaci quali amitriptilina, acido alfa lipoico, Pea. Localmente si consiglia l' uso di gel specifici. È indicato il rilassamento dei muscoli perivaginali con fisioterapia, biofeedback di rilassamento, esercizi di yoga, automassaggio. Un percorso psicoterapeutico che agisca sull' ansia da prestazione (non è solo maschile), sulla ristrutturazione dell' immagine corporea e sui sensi di colpa sarebbe auspicabile, come auspicabile sarebbe il coinvolgimento del partner, che spesso avverte il rifiuto nell' intimità come un rifiuto personale. Il percorso richiede tempo e pazienza sia da parte delle utenti, sia da parte dello specialista dedicato. Inoltre i medici devono conoscere e riconoscere la patologia, per poter suggerire i trattamenti opportuni ricordando che "far bene l' amore, fa bene all' amore"».

·        Ridere fa bene.

Perché ridere fa bene e come «curarsi» col sorriso. Alessandra Sessa su Vanityfair.it il 2/5/2021. Dagli effetti su cervello, cuore e polmoni alla cura antidepressiva. Il sorriso è protagonista di vere e proprie terapie e pratiche antistress che entrano in reparti ospedalieri e sessioni dedicate. Lo sosteneva già Ippocrate, il padre della medicina antica. E lo trasformò in terapia di fama mondiale Patch Adams, il medico americano portato sullo schermo da Robin Wiliams: ridere aiuta a guarire! Non un semplice momento di evasione, dunque, ma una vera e propria terapia. E a riconoscerne gli effetti, nel 2017 arriva anche in Italia la legge che stabilisce «la possibilità di utilizzare, attraverso l’opera di personale medico, non medico e di volontari appositamente formati, il sorriso e il pensiero positivo a favore di chi soffre un disagio fisico, psichico o sociale». Oggi, nella Giornata mondiale della risata, vogliamo capire perché ridere faccia bene e quali siano i modi per trarne giovamento.

TUTTI I BENEFICI DELLA RISATA. Sono moltissimi e coinvolgono sia corpo che mente. Per quanto riguarda la salute corporea, una risata migliora la circolazione del sangue, contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e tiene il cervello in allenamento. In pratica ridere aumenta la pressione sanguigna aiutando a prevenire le malattie cardiovascolari e a restare giovani. Inoltre, diversi studi mostrano come il riso aumenti gli scambi polmonari abbassando il livello dei grassi nel sangue, riducendo il colesterolo. E sulla mente? Ridere rilascia endorfine, gli ormoni della felicità, e questo ha un influsso benefico sulla gestione di ansia, stress, e sul livello di autostima. Lo hanno dimostrato diversi studi, fra cui quello della Mayo Foundation for Medical Education and Research, che ha registrato il drastico calo degli ormoni dello stress nei soggetti monitorati durante le risate. Così come la ricerca del Loma Linda University, pubblicata anche su Nature, che ha mostrato come nei partecipanti allo studio fosse stato rilevato un aumento del 27% di beta-endorfine in seguito alla vista di un video comico. Praticamente una sana risata equivale a un antidepressivo, ma senza controindicazioni. Per non parlare del rapporto interpersonale che, grazie al sorriso, migliora e distende l’ambiente. Soprattutto in ambito lavorativo, dove il buonumore salda il rapporto tra colleghi, favorendo il lavoro di gruppo e la capacità di problem solving. Ma non solo, il buonumore dissipa le ombre in un baleno e aumenta anche la leadership. Ad esempio, i ricercatori della St. Edwards University di Austin, in Texas, hanno scoperto che l’81% dei 2500 impiegati intervistati dichiarava di essere più produttivo in un luogo di lavoro disteso e pervaso dal buonumore. Del resto, come dargli torto?

QUANDO LA RISATA È CURATIVA. «Una risata può avere lo stesso effetto di un antidolorifico: entrambi agiscono sul sistema nervoso anestetizzandolo e convincendo il paziente che il dolore non ci sia» ama ripetere Patch Adams, il padre della clownterapia. Ma quando e come nasce la terapia del sorriso? Fra i primi a occuparsene vi fu il professore della Standford University William Fry, che negli anni Settanta approfondì i processi fisiologici del riso misurando gli effetti sul battito cardiaco e sulla circolazione arteriosa. Lo scienziato arrivò addirittura a quantificare la dose giornaliera per stare meglio. Cento risate al giorno per avere lo stesso effetto tonificante di dieci minuti di vogatore. Mentre i suoi colleghi dell’American College of Cardiology hanno individuato la quota ottimale in dieci, quindici minuti al giorno per la salute psicofisica. In questo contesto s’inserisce la clownterapia di Patch Adams che fonda un metodo terapeutico basato sull’umorismo e il divertimento come supporti alla guarigione fisica e psichica del paziente. Una vera e propria cura collaterale che entra, tra giochi e scherzi da clown, in diversi reparti: da quelli pediatrici a quelli geriatrici. La sua storia, diventata famosissima grazie al film americano, si diffonde in tutto il mondo. Anche in Italia ci sono oggi migliaia di clown-dottori, infermieri e volontari. Gli effetti? Distogliendo l’attenzione dal dolore si generano emozioni positive, si de-medicalizza l’ospedale e si distendono muscoli e sensazioni.

LO YOGA DELLA RISATA. Ma la gelotologia (dal greco gelos=riso e logos=scienza) trova applicazioni anche fuori dalle strutture mediche e assistenziali. Grazie alla pratica dello Yoga della Risata, infatti, la terapia diventa esercizio e tecnica che chiunque può seguire a casa con soddisfazione. Lo si deve al dottore indiano Madan Kataria, che negli anni Novanta sperimenta i benefici della risata su se stesso, dopo esser rimasto bloccato a letto per una malattia. È proprio grazie a lui che si festeggia la Giornata mondiale della risata, ogni prima domenica di maggio. Su cosa si basa questo genere di yoga? La pratica combina esercizi respiratori dello yoga con il riso indotto. Niente barzellette o scherzi da clown! In questa disciplina la risata è volutamente forzata, fragorosa e diaframmatica, ma gli effetti su corpo e cervello sono gli stessi di una spontanea. Diventa dunque un esercizio che aumenta l’ossigeno e l’energia protraendo la risata per diversi minuti, se non ore. E se è vero che la risata è contagiosa, la pratica trae forza proprio dal gruppo. Non a caso sono nati in tutto il mondo, Italia compresa, dei veri e propri club della risata (domenica è prevista una maratona della risata, per info vai qui). Ci si dà appuntamento fisicamente e, soprattutto in questo periodo, anche on line. Quando? Al mattino. Così la giornata inizia dell’umore giusto!

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” l'1 maggio 2021. «Vietato piangere». Seguiva il feretro impugnando un cartello contenente questo ordine un giovane uomo, che faceva parte di un drappello di altri uomini, i quali tutti camminavano composti come soldatini, con i tratti del viso calcificati in una espressione che non poteva dirsi triste ma neppure felice, ma soltanto concentrata. Mi ha colpito questa immagine. Me l'ha descritta Vittorio Feltri, quando qualche giorno fa parlavamo della maniera che ognuno di noi ha sviluppato, in base alla propria educazione, di manifestare le emozioni, brutte o belle che siano. Egli era un bimbetto quando, nel cuore di Bergamo, vide scorrere questa scia funebre, e gli restò impresso nella memoria quel divieto: sì, qui abbiamo un morto, ma che nessuno si sogni di piagnucolare, sia chiaro. Chi lo sa se si trattava di una precisa indicazione dettata dal defunto quando ancora era in vita? O forse era un desiderio dei suoi congiunti, allergici a quei lamenti insopportabili che, se fatti in solitudine scaricano, alleviano il dolore, ma, se fatti in gruppo, lo accentuano, appesantendolo. Di sicuro è una questione, appunto, di educazione. Un tempo estrinsecare le sensazioni era quasi un atto indecente, un mettersi a nudo, quindi un mostrarsi senza difese, scoperti, fragili. Oggi non lo è più. Chi non nasconde ciò che prova adesso non è più considerato debole e indecoroso, bensì semplicemente umano. E il senso di umanità piace, ne abbiamo bisogno, ci rassicura, ci fa sentire uniti, ci avvicina, ci migliora. Accorgersi della sofferenza altrui, confrontarci con essa, comprenderla sono operazioni che favoriscono l'empatia, ci rendono più sensibili e ci inducono a capire meglio noi stessi. Il confronto con quello che sentono gli altri è talmente giovevole che è stata inventata la cosiddetta "giustizia riparativa", ossia quel meccanismo che porta il reo e la vittima ad incontrarsi, affinché il primo si renda conto del patimento che ha arrecato alla seconda e questa ultima possa superare i sentimenti negativi e pure il trauma che derivano dal danno subito, rimarginando la ferita e spalancando il cuore al perdono. Un progresso per entrambi. Personalmente non mi preoccupano coloro che esprimono le proprie emozioni, piuttosto mi fido poco di coloro che non le esprimono mai, che le soffocano nello stomaco, dove ribollono per poi detonare. Ogni emozione inespressa, quindi soffocata e rigettata, secondo diversi studiosi, può trasformarsi in un acciacco, in un male, in un sintomo fisico, in una patologia. Tanto vale allora tirare fuori tutto. E pure piangere, se è il caso. Non è vietato né alle donne né agli uomini, né ai bambini né agli adulti. Non può essere mica proibito ciò che è assolutamente naturale. Assistiamo negli ultimi mesi, anzi già dallo scorso anno, come hanno confermato i dati Istat, ad un aumento delle violenze in famiglia, omicidi inclusi. Il 2020 è stato l'anno in cui gli omicidi hanno toccato in Italia i numeri minimi storici, eppure sono cresciuti quelli avvenuti all' interno del nucleo familiare, ossia tra consanguinei. In particolare, troppo spesso la cronaca ci sta raccontando di figli che ammazzano i genitori, figli che covavano sentimenti di rabbia e di odio, uniti ad una cieca brama di annientare, ossia cancellare, coloro che li hanno dati alla luce. Questi sentimenti non insorgono all' improvviso nell' animo di un individuo, bensì vengono alimentati e coltivati per lustri. Com' è che nessuno si accorge della loro esistenza? Come si può passare dalla calma piatta, dalla normalità quasi monotona, al fatto di sangue? Se le emozioni fossero state estrinsecate di volta in volta e non fossero state lasciate esplodere in modo tanto devastante, anzi atomico, questi delitti sarebbero avvenuti? Allora che l' educazione alle emozioni faccia ingresso nelle case, pure perché ne abbiamo esigenza più che mai, stressati come siamo da una pandemia che ha sconvolto le nostre esistenze portando a galla le nostre vulnerabilità, che non si dica mai più al pargoletto "non piangere", che non gli si dia mai più uno schiaffo perché lo fa, gesto che ho visto compiere a padri e madri, che non si esiti a dichiarare "ti voglio bene" e che alla stessa maniera non si esiti a rivelare "mi sento arrabbiato", o trascurato, o solo, o disperato, illustrando i motivi. Le emozioni sono nostre amiche, sia quelle positive che quelle non positive, si trasformano in nostre nemiche solamente allorché noi le rinchiudiamo nel ripostiglio. Concediamoci dunque di essere emotivi.

·        La Parafilia.

Parafilia /pa·ra·fi·lì·a/ sostantivo femminile. Anormalità psichica nella ricerca del piacere e della soddisfazione degli istinti, spec. sessuali.

Parafilia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

La parafilia (dal greco para παρά = "presso", "accanto", "oltre" e filia φιλία = "amore", "affinità"), in ambito psichiatrico, psicologico e sessuologico, questo termine si riferisce a qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti (APA, 2013). Le parafilie sono state l’argomento centrale della sessuologia ottocentesca, il cui massimo esponente è stato Richard von Krafft-Ebing con il suo famoso trattato Psychopathia sexualis. L’autore, all’interno dell’elaborato, analizza con precisione tutte quelle situazioni che allora venivano definite “perversioni sessuali”.

Descrizione. La quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, a cura della American Psychiatric Association del 2013 ha introdotto un importante cambiamento in tema, facendo luce su quelle che venivano definite perversioni dovute a degenerazioni cerebrali. Oggi, l’attuale classificazione della quinta edizione del DSM distingue le parafilie dal disturbo parafilico.

Da qui vengono considerate parafilie tutti quei comportamenti sessuali atipici per i quali il soggetto sente una forte e persistente eccitazione erotico-sessuale. Tale condizione erotica è vissuta in perfetta egosintonia. Quando il comportamento parafilico diventa invece una forma di dipendenza e il soggetto accusa un certo disagio interpersonale (egodistonia), allora è utile introdurre il concetto di Disturbo Parafilico. Il Disturbo Parafilico è quindi una parafilia, ma il soggetto, oltre ad avere un intenso e persistente interesse sessuale per particolari attività erotico-sessuali, vive l'esperienza e i vissuti parafilici con disagio, tanto da arrecare danni a se stesso e/o agli altri.

Classificazione. Le parafilie possono essere classificate in base all'"atto" che sostituiscono o all'"oggetto" verso cui si indirizzano. Un'ulteriore suddivisione riguarda il canale sensoriale che viene sollecitato. Nella parte dell'atto vi è una sostituzione del coito o dell'attività sessuale, con pratiche di altro tipo.

Nella parte d'oggetto vi è una surrogazione dell'oggetto normativo o uno spostamento della meta:

l'oggetto normativo è costituito dal partner sessuale (eterosessuale od omosessuale).

la meta è rappresentata dal raggiungimento del piacere sessuale (orgasmo).

I canali sensoriali implicati nelle parafilie:

canale visivo, l'eccitazione sessuale viene ricercata nell'esibizione del corpo o parti di esso (esibizionismo), nell'osservazione di altri soggetti impegnati in attività sessuali (voyeurismo, mixoscopia) o di funzioni corporee fisiologiche (coprofilia, urofilia);

canale acustico/verbale, l'eccitazione è ottenuta mediante la pratica del turpiloquio, l'ascolto o il pronunciamento di parole scurrili o volgari attinenti alla sessualità (scatologia telefonica, coprolalia, pornolalia, mixacusi);

canale olfattivo, esistono collegamenti neurofisiologici tra l'organo vomero-nasale e determinate aree del cervello, come il sistema limbico (emozionale) e il nucleo BNST (nucleo della stria terminale); l'eccitazione sessuale è data dalla percezione di odori, anche sgradevoli, come l'urina, le feci, le flatulenze (flatulofilia), il sudore (ospressiofilia), ciò può essere connesso ai feromoni escreti con queste sostanze;

canale gustativo, l'eccitazione sessuale è perseguita tramite l'ingestione/irrorazione di escrezioni corporee (coprofagia, spermatofagia, pissing);

canale tattile, il piacere sessuale è dato dalla pratica di attività corporee inusuali: stuffing (penetrazione con oggetti), percossofilia, spanking (sculacciare con violenza), clismafilia (pratica del clistere), nasofilia, rinolagnia, uretrolagnia (stimolazione di parti del corpo non classicamente erogene, come le narici o l'uretra).

Forme clinicamente riconosciute. All’interno del manuale, sono descritte dettagliatamente le parafilie più comuni come il voyeurismo, l’esibizionismo o il feticismo.

Esibizionismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi all’esporre i propri genitali a persone che non se l’aspettano

Feticismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi a soggetti inanimati come vestiti, scarpe o parti del corpo a carattere non genitale

Voyeurismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi all’osservazione, a sua insaputa, di una persona nuda o impegnata in attività sessuali

Tuttavia, esistono dalle 300 alle 500 parafilie che vengono categorizzate come “parafilia" e altri come "disturbo parafilico" come:

dacrifilia: eccitazione nel vedere qualcuno piangere

arpaxofilia: eccitazione sessuale nel venire derubati

efefilia: eccitazione nel toccare tessuti morbidi

somnofilia: eccitazione sessuale derivante dalla vista di partner addormentati

La nuova nomenclatura dei disturbi parafilici descritti dal DSM-5 (2013) si organizza all'interno di due differenti gruppi:

Evoluzione del concetto e delle definizioni. Nel 1974 l’omosessualità viene cancellata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) pubblicato dall'American Psychiatric Association (APA). Nella prima versione del 1952 risultava ancora una condizione psicopatologica tra i “Disturbi sociopatici di Personalità”. Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale, come la pedofilia, catalogata tra i “Disturbi Mentali non Psicotici”. E ancora nel 1974 sui testi scientifici si parlava di ”omosessualità egodistonica”, ovvero quella condizione in cui una persona omosessuale non accetta il proprio orientamento sessuale e non lo vive con serenità. Questa teoria verrà superata nel 1987 per arrivare poi appunto al 1990, quando anche l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) decide di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Ray Blanchard, un sessuologo americano-canadese noto per i suoi studi di ricerca sulla pedofilia (attrazione su minori sotto gli 11 anni di età) e l'ebefilia (attrazione su minori tra gli 11 e i 14 anni di età), ha affrontato (nella sua revisione della letteratura per il DSM-5) le obiezioni all'eccessiva inclusività e alla sottoinclusività del DSM-IV-TR, e ha proposto una soluzione generale applicabile a tutte le parafilie. Ciò significava cioè una distinzione tra parafilia e disturbo parafilico. Quest'ultimo termine è proposto per identificare il disturbo mentale diagnosticabile che soddisfa i criteri A e B, mentre un individuo che non soddisfa il criterio B può essere accertato ma non diagnosticato come affetto da parafilia. Blanchard e un certo numero di suoi colleghi hanno anche proposto che l'ebefilia diventi un disturbo mentale diagnosticabile nell'ambito del DSM-5 per risolvere la sovrapposizione dello sviluppo fisico tra pedofilia ed ebefilia combinando le categorie sotto disturbo pedofilo, ma con specificatori su quale fascia di età (o entrambi) è l'interesse principale. La proposta per l'ebefilia fu respinta dall'American Psychiatric Association, ma fu implementata la distinzione tra parafilia e disturbo parafilico.

Benno sex symbol social: "È una parafilia e può diventare ossessione". Da Pietro Maso a Benno Neumair: gli autori di reati efferati diventano l'idolo delle ragazzine sui social. "Bisogna denunciare", suggerisce la psicologa Silvia Bassi. Rosa Scognamiglio - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. Ha confessato di aver strangolato i genitori, Laura Perselli e Peter Neumair, con una corda d'arrampicata e di averne poi gettato i corpi senza vita giù da un ponte, nel fiume Adige. Eppure Benno Neumair, il 30enne bolzanino accusato di duplice omicidio e occultamento di cadavere, rischia di diventare un "sex symbol": l'idolo delle adolescenti. Due settimane fa su Facebook è spuntata addirittura una fanpage - "Le bimbe di Benno" - che conta già più di 1000 iscritti. Il gruppo social pare sia amministrato da tre giovani ragazze - in realtà potrebbe trattarsi della stessa persona con molteplici profili fake - che condividono quotidianamente foto, talvolta ritoccate a regola d'arte, del presunto omicida. Le didascalie a corredo delle immagini si sprecano, tanto quanto la pioggia di like e commenti ai post. "Oggi tutto BENNissimo", esordisce un'iscritta di buon mattino. "Finché non lo condannano, sono garantista e innamorata", rilancia un'altra con tanto di emoji di un "cuoricino trafitto" sul finale. Per quanto l'iniziativa susciti profonda indignazione e sgomento, non è certo la prima volta che un assassino - presunto tale o accertato - raccolga consensi tra i giovanissimi o addirittura sia idolatrato alla stregua di una divinità. Basti pensare al caso Pietro Maso che, quando fu processato per aver ucciso i genitori (17 aprile 1991), poté contare sul supporto di un fanclub - il "Maso FanClub" - e di una nutrita schiera di sostenitori pronti a sfidare il buon senso comune con magliette inneggianti al suo nome. Prima di lui il criminale Renato Vallanzasca fece "innamorare" decine di ragazzine nonostante la condotta decisamente antieroica. Così tante furono le lettere che il pluriomicida ricevette dalle sue ammiratrici in carcere che la sua seconda moglie, Antonella D'Agostino, successivamente ha deciso di raccoglierle tutte in un libro intitolato "Lettera a Renato" (Telemaco Edizioni, 2007). La figura dell'antieroe (killer seriale o malavitoso) è stata inoltre riproposta in moltissime serie tv - basti pensare a Suburra (2017) o Romanzo Criminale (2008) - finendo al centro di un accesissimo dibattito mediatico circa la presunta mitizzazione di assassini efferati. Ma quali sono i rischi legati alla celebrazione degli autori di reati? "Si può sviluppare una vera e propria ossessione per questi criminali al punto da farne quasi una ragione di vita, specie se si è in età vulnerabile e non si è ancora sviluppata una consapevolezza morale rispetto a certi tipi di azione", spiega a IlGiornale.it Silvia Bassi, psicologa e direttore scientifico del Centro Studi Forensi di Firenze.

Dottoressa Bassi due settimane fa è stato aperto un gruppo Facebook dedicato a Benno Neumair che conta già centinaia di iscritti. Come lo spiega?

"Se ne parla poco ma accade spessissimo che nelle carceri arrivino centinaia di lettere indirizzate a chi ha commesso determinati tipi di crimine. Questo fenomeno ha un nome ben preciso in ambito psicologico, quello dell'ibristrofilia".

Cosa s'intende per "ibistrofilia"?

"Rientra tra le parafilie, ovvero quei comportamenti trasgressivi che vanno al di fuori delle norme sociali. L'ibistrofia porta a provare eccitazione nel sapere che la persona oggetto del desiderio ha commesso delle azioni illecite o reati efferati".

Quando diventa una condizione patologica?

"La parafilia diventa una condizione patologica quando il soggetto non può più fare a meno di mettere in atto questo tipo di comportamento 'trasgressivo'. A quel punto possiamo parlare di disturbo".

Quali sono le ragioni per cui una persona subisce "il fascino" di un criminale?

"Una motivazione fa capo al bisogno di proteggere e accudire un soggetto che ha delle difficoltà, dei disagi o che ha commesso dei reati. Un'altra ragione potrebbe essere il desiderio di cambiare una persona con un comportamento deviante - la famosa 'sindrome della crocerossina' - o la presunzione di poter redimere il criminale con il proprio amore. C'è poi un'altra motivazione, ovvero quella di finire al centro dell'attenzione mediatica riuscendo a stabilire una comunicazione epistolare con l'assassino. Il bisogno narcisistico di finire sotto i riflettori insomma. Ma ce ne sono anche altre che si basano sulla psicologia evolutiva. Il maschio violento, nella storia ancestrale, rappresenta il 'maschio alpha'. Dunque colui che protegge la propria donna e i figli a qualunque costo".

Riguarda di più le donne o gli uomini?

"La casistica ci dice che sono le donne a essere maggiormente attratte da questi personaggi devianti. Ma non mancano anche casi di uomini che subiscono il fascino della killer o presunta tale di sesso femminile. Mi viene in mente Amanda Knox che pare abbia ricevuto circa 40 lettere di ammiratori durante le prime settimane di carcere".

Quanto incide la mediatizzazione dei casi di cronaca e più in generale l'attenzione mediatica agli assassini?

"Negli ultimi anni davvero tanto. Se da un lato dobbiamo ringraziare i media che informano su certe vicende, e quindi consentono anche di fare una sorta di prevenzione per alcuni delitti, dall'altro hanno un effetto boomerang. L'attenzione a un presunto reo, che quindi non è stato ancora condannato, divide il pubblico tra colpevolisti e innocentisti. Ne consegue un interesse esasperato che può potenzialmente degenerare in ossessione".

Vale lo stesso discorso per le fiction o serie tv?

"Un conto sono le vecchie serie tv in cui si è cominciato a parlare di crime. Mi viene in mente, ad esempio, il caso di Csi in cui si fa attenzione alla prova scientifica, quella è stata una produzione televisiva davvero importante. Per le serie tv attuali invece il discorso cambia. Da un lato portano alla luce fenomeni sociali con cui non tutti sono a contatto e dunque questo è un aspetto positivo. Dall'altro però bisogna tenere conto che tra i telespettatori ci sono anche 'soggetti immaturi'. Per immaturi intendo quelle persone che, per una questione legata al processo evolutivo, non hanno ancora acquisito il senso delle conseguenze logiche di alcune azioni, non hanno ancora sviluppato in modo compiuto la morale".

Quali sono i rischi legati alla venerazione degli "antieroi"?

"Da sempre i criminali hanno attratto il pubblico femminile, soprattutto quelli 'affascinanti' a livello fisico. Basti pensare al caso di Ted Bundy, ad esempio, che si proponeva come seduttore, al punto poi da ottenere moltissimi consensi. Nel caso di Benno, bisogna tenere conto che avesse già un canale YouTube in cui esibiva il corpo. Questo aspetto riguardante la cultura e la cura del proprio corpo attrae molto le giovani generazioni. Il rischio è che l'attrazione evolva in ossessione, ovvero che l'infatuazione (reale o immaginaria) diventi un pensiero costante, un chiodo fisso".

Quando bisogna preoccuparsi?

"Bisogna sempre preoccuparsi perché sono fenomeni che deviano dai comportamenti socialmente accettabili. È necessario prenderne atto, subito. In questi gruppi ci sono anche ragazze molto giovani che, mediante la sovraesposizione sui social in un momento di accentuata vulnerabilità, possono diventare preda di adescamenti online da parte di eventuali malintenzionati o pedofili".

Cosa può fare un genitore quando si accorge che il figlio o la figlia sono iscritti a un gruppo come le "Bimbe di Benno"?

"È importante che il genitore possa trasmettere il messaggio di essere presente e che intende partecipare alla vita del figlio. Qualora ci si renda conto che la propria figlia - come nel caso della fanpage di Benno - è entrata in una sorta di circolo vizioso, che ha un'ossessione per il presunto autore di determinati tipi di crimine o ha sviluppato una dipendenza dal gruppo social, deve rivolgersi a un esperto. Altra cosa fondamentale è la denuncia. Questi gruppi devono essere segnalati alla Polizia Postale perché è al loro interno che si annida il pericolo. Bisogna denunciare".

Quanto hanno inciso e incentivato certi comportamenti antisociali le attuali restrizioni Covid?

"Io credo molto. Purtroppo i ragazzini sono più isolati e si riversano nel mondo digital".

Qual è il suo consiglio?

"Quello che consiglio è di posizionare il computer in una zona della casa in cui il genitore può passare e controllare cosa sta facendo il proprio figlio. Dunque evitare di lasciarlo da solo, in camera propria, davanti al monitor per molte ore. Ma non bisogna vietare l'uso di smartphone o tablet, basta educare a un uso corretto della tecnologia digitale. Il punto è fornire un corretto modello educativo, tutto lì".

·        L’Alzheimer e la Demenza senile.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 ottobre 2021. Gli scienziati della New York University credono di aver trovato le cellule cerebrali responsabili delle malattie neurodegenerative come il Parkinson e la demenza. Secondo i ricercatori sono gli astrociti, cellule cerebrali che eliminano le particelle tossiche accumulate nel cervello e nutrono i neuroni, a svolgere un ruolo chiave nel processo di decadimento cerebrale: test di laboratorio sui topi hanno mostrato infatti che gli astrociti svolgono anche un altro ruolo, quello di uccidere i neuroni danneggiati. «I nostri risultati mostrano che gli acidi grassi tossici prodotti dagli astrociti svolgono un ruolo fondamentale nella morte delle cellule cerebrali» ha detto il professor Shane Liddelow, della New York University. «I risultati forniscono un nuovo promettente obiettivo per il trattamento, e forse anche per la prevenzione, di molte malattie neurodegenerative». La demenza è una delle principali cause di morte nel mondo sviluppato. I neurologi stanno cercando di sviluppare trattamenti adeguati, ma non comprendono ancora appieno alcuni aspetti chiave della malattia, tra cui le cause scatenanti. Gli astrociti erano conosciuti per le loro proprietà: mantenere sani i neuroni nel cervello e regolare il flusso sanguigno. Ma secondo i medici sono anche responsabili della morte dei neuroni in decomposizione. Per dimostrarlo i ricercatori hanno ingegnerizzato geneticamente un gruppo di roditori in modo da arrestare la produzione di acidi grassi liberi e li hanno confrontati con un gruppo di controllo. Nei topi ingegnerizzati è sopravvissuto il 75% dei neuroni, in quelli normali solo il 10%. I risultati hanno quindi confermato le teorie secondo cui gli astrociti producono una molecola che uccide i neuroni per ripulire le cellule danneggiate. Ma l’esatta natura del processo di rimozione non è stata ancora compresa. Non è chiaro il motivo per cui gli astrociti producono le tossine, anche se il professor Liddelow e i suoi colleghi credono che lo scopo sia distruggere i neuroni danneggiati prima che possano rovinare i loro vicini. Su Nature, dove è stata pubblicata la ricerca, Liddelow suppone che questo processo potrebbe essere quello responsabile di malattie come la demenza, il Parkinson e l’Alzheimer. 

Demenza, scoperta una nuova causa della malattia. Maria Girardi il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'importante studio sul collegamento tra queste particolari cellule e il decadimento delle funzioni cerebrali è stato condotto dagli scienziati della New York University. Con il termine demenza si indica un decadimento progressivo di varie funzioni cerebrali, tra cui ragionamento, memoria, linguaggio e orientamento. Questa condizione, che nella maggior parte dei casi deriva da malattie degenerative cerebrali (morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson), è sempre più diffusa in tutto il mondo e attualmente è incurabile. I ricercatori della New York University, guidati dal professor Shane Liddelow, ritengono che a causare la demenza siano alcune cellule cerebrali, gli astrociti, il cui compito è quello di eliminare le particelle tossiche che si accumulano nel cervello e di nutrire i neuroni. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista "Nature". Da tempo è noto che alla base della demenza vi è un deterioramento neuronale. Secondo gli scienziati, gli astrociti rilasciano acidi grassi tossici che sono in grado di uccidere i neuroni. Per giungere a questa conclusione, il team ha geneticamente modificato alcuni topi affetti da lesioni cerebrali al fine di arrestare la produzione di acidi grassi saturi a catena lunga e di fosfatidilcoline. Essi sono poi stati confrontati con un gruppo di controllo. Nei roditori ingegnerizzati il 75% dei neuroni è sopravvissuto, percentuale che è scesa al 10% negli animali normali. Nonostante i risultati confermino la tesi avanzata dagli studiosi, non è chiaro il motivo per cui gli astrociti producano le tossine. L'ipotesi più plausibile è che tali cellule distruggono i neuroni danneggiati prima che essi rovinino quelli a loro vicini. In una precedente analisi, Liddelow aveva dimostrato la presenza degli astrociti in diverse malattie neurodegenerative associate alla demenza: Parkinson, Alzheimer, corea di Huntington, sclerosi laterale amiotrofica e sclerosi multipla. In merito all'ultima ricerca, Liddelow afferma: «I nostri risultati mostrano che gli acidi grassi tossici prodotti dagli astrociti svolgono un ruolo fondamentale nella morte delle cellule cerebrali. Essi, inoltre, forniscono un nuovo promettente obiettivo per il trattamento, e forse anche per la prevenzione, di molte patologie neurodegenerative».

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero. Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" l'11 agosto 2021. Avete più di 50 anni ed iniziate a dimenticare le parole, i nomi o non ricordate appuntamenti e date importanti? Oggi con un semplice esame del sangue è possibile sapere, con ben cinque anni di anticipo, se vi state avviando verso una forma di demenza incipiente e progressiva, ma ancora meglio è possibile escludere del tutto questa nefasta diagnosi in favore di altre patologie meno devastanti. I ricercatori del Royal Melbourne Hospital in Australia, hanno messo a punto un sofisticato test ematico che rivela la presenza in circolo di una particolare proteina del cervello che in condizioni normali non è mai presente nel sangue, poiché il suo compito è quello di restare ad operare chiusa dentro la scatola cranica, per aiutare a mantenere solida e compatta la struttura delle cellule cerebrali tra di loro, e che perciò, quando viene rilevata nel plasma dei soggetti, il suo livello segnala il più o meno grave danneggiamento già in corso e la quantità di neuroni che stanno morendo, più o meno lentamente, le cui scorie vengono eliminate e riversate nel flusso sanguigno molto precocemente, quando tutto ciò avviene ancora all'insaputa sia del paziente, che non manifesta sintomi evidenti, che dei suoi medici curanti che non ne rilevano i segnali patologici, né tantomeno risultano danni cerebrali agli esami radiologici e strumentali. La proteina in questione è stata chiamata "NfL" poiché si tratta di un "Neurofilamento a catena leggera" che si ritrova nel circolo ematico solo quando avviene la morte progressiva di cellule encefaliche, ed infatti non è stata mai riscontrata presente in tutte le altre condizioni di malattie mentali che non prevedono la perdita di neuroni. L'importanza della scoperta scientifica risiede nel fatto che quando si trova questo biomarcatore del sangue, il suo livello equivale a quello dei neuroni morenti del cervello, e siccome è stato riscontrato in pazienti apparentemente sani e in salute cerebrale, che presentavano solo lievissimi disturbi cognitivi come cali di memoria, oppure avevano parenti e familiari con demenza, questo vuol dire che con tale test è possibile sapere e diagnosticare, con anni di anticipo, se si è in presenza di un paziente a rischio di sviluppare in futuro una forma di demenza come l'Alzheimer. L'analisi NfL misura in pratica i frammenti dei neuroni morti o in fine vita che vengono rigettati nel sangue, e il loro livello, analizzato con un test per calcolare le probabilità, indica con chiarezza matematica come e quando avverrà la possibilità di sviluppare l'Alzheimer, anni prima di quando fino ad ora sarebbe stato possibile fare diagnosi, ovvero quando la malattia è nel suo stadio iniziale e comincia ad agire silenziosa nella sua azione distruttiva, proprio nelle sue prime fasi di sviluppo, mentre il paziente ne è ancora totalmente ignaro. Ma qual è il vantaggio di conoscere in anticipo che ci si sta avviando verso la demenza? Intanto il test è un aiuto importante per i neurologi, i quali in molte situazioni iniziali incontrano difficoltà a distinguere se una persona soffre di un disturbo psichiatrico, come per esempio la depressione, oppure se sta mostrando i primi segni di una patologia neurodegenerativa cerebrale, ed è un vantaggio sapere se quel paziente è a rischio basso, moderato o alto di andare incontro alla demenza, ma soprattutto è vantaggioso escluderne la possibilità, con la successiva ricerca diagnostica, una volta esclusa la demenza, di altre patologie mentali che nulla hanno a che vedere con la morte dei neuroni nel cervello. Questo test in pratica predice l'Alzheimer ancora prima che i suoi segni tipici ed evidenti siano riscontrabili clinicamente, alla Tac od alla Risonanza Magnetica Nucleare, cioè quando ormai la malattia ha invaso il cervello in maniera massiva ed irreversibile. Una persona su tre con disturbo cognitivo lieve sviluppa negli anni l'Alzheimer, una sindrome neurologica devastante per la salute mentale, una malattia ancora orfana di una terapia mirata o di un trattamento che sia in grado di modificare o rallentare l'evoluzione e il decorso, e questa nuova scoperta può aiutare i medici specialisti a trovare nuovi strumenti, oltre che a consigliare comportamenti mirati prima che la patologia domini l'intero cervello cancellando memoria e coscienza, e può quindi permettere ai pazienti di discuterne con i familiari magari predisponendo il proprio futuro e i propri desideri.

Alzheimer, dopo il farmaco anche il vaccino. Alessandro Ferro il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Uno studio clinico in fase due dimostra come un potenziale vaccino contro l'Alzheimer riuscirebbe ad essere efficace contro la malattia lieve. "Una speranza che si riaccende", dicono gli esperti. Un'altra luce di speranza per i malati di Alzheimer: una settimana dopo l'annuncio dell'FDA americana del primo farmaco in grado di rallentare il corso degenerativo del morbo (qui il nostro pezzo), ecco il primo vaccino che sarebbe risultato efficace contro la malattia lieve.

Quali sono le evidenze. Lo studio clinico di fase due è stato appena pubblicato su Nature Aging: a darne annuncio sono stati gli scienziati della società biotecnologica Axon Neuroscience con sede in Slovacchia, a Bratislava. Il vaccino peptidico si chiama AADvac1 e, sebbene non abbia avuto un impatto importante sul declino cognitivo dei pazienti oggetti dello studio, gli autori hanno messo in evidenza alcuni benefici che le prossime indagini dovrebbero confermare. I ricercatori hanno spiegato che in alcuni pazienti con il morbo di Alzheimer si registrano livelli elevati della proteina tau, una sostanza nell'organo cerebrale probabilmente associata al declino dei neuroni. Il team, guidato da Petr Novak dell'Università tecnica di Braunschweig in Germania e ricercatore presso la Axon Neuroscience, ha coinvolto 196 partecipanti con Alzheimer in forma lieve ed età media di 71,4 anni. Alla metà dei volontari è stato somministrato l'AADvac1, mentre il gruppo di controllo ha ricevuto un placebo. Secondo i dati della squadra di ricerca, il profilo di sicurezza e tollerabilità del vaccino risultano molto promettenti e nei soggetti vaccinati sono stati riscontrati livelli elevati di anticorpi contro il peptide tau. L'AADvac1, però, non ha mostrato effetti molto significativi legati alla cognizione nell'intero campione di studio: le indagini mostrano che il vaccino ha rallentato l'accumulo della proteina responsabile neurodegenerazione ma non ha fatto compiere progressi cognitivi. Gli esperti ipotizzano che il basso numero di pazienti con patologia caratterizzata dalla proteina tau potrebbe aver influenzato il livello di efficacia riscontrato dall'indagine concludendo che saranno necessari studi più ampi e stratificati per valutare appieno l'efficacia clinica di AADvac nei pazienti con malattia di Alzheimer.

"Prospettive interessantissime". Nonostante serviranno nuovi risultati che saranno acquisiti con la fase 3, è un enorme passo in avanti sognare anche un vaccino per una malattia come questa. "Prospettive interessantissime" afferma Carlo Caltagirone, neurologo e direttore scientifico dell’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Santa Lucia, a Roma, “Una speranza che si riaccende” è la sintesi anche di Elio Scarpini, professore di neurologia all’università di Milano e direttore del centro Alzheimer del Policlinico, “anche se c’è bisogno di molta ricerca ancora”. "Il vaccino ha generato anticorpi e ha ridotto la presenza nel sangue di neurofilamenti che indicano che un processo di distruzione dei neuroni è in corso nel cervello” spiega Caltagirone intervistato da Repubblica. Ma i test cognitivi non hanno mostrato una risalita delle facoltà intellettive, o almeno un rallentamento del declino. “Probabilmente i volontari – spiega Scarpini – erano ormai in uno stato avanzato della malattia. Sappiamo che i danni ai neuroni si sviluppano anni prima che i sintomi siano eclatanti. E purtroppo i neuroni morti non ricrescono”. Nonostante il nome di vaccino, il farmaco che stimola gli anticorpi contro la tau viene usato a scopo curativo, non preventivo: ai volontari sono state fatte 11 somministrazioni ma non è ancora chiaro quanto duri l'efficacia.

Il primo farmaco contro l'Alzheimer. Come ricordato in apertura, però, c'è già un trattamento che sembra essere ancora più promettente, il primo approvato dal 2003 ed anche la prima terapia che mira alla fisiopatologia fondamentale della malattia. Il farmaco consiste in una terapia con anticorpi monoclonali che può essere iniettata per via endovenosa in pazienti con malattia di Alzheimer moderata. Le sostanze concorrenti alla composizione del medicinale si legano a molecole presenti nelle placche amiloidi (il cui accumulo nel cervello è associato alla malattia, ndr), riducendo così la corsa della patologia e consentendo alle persone di continuare a svolgere attività quotidiane come pulire casa e fare la spesa.

Da repubblica.it il 7 giugno 2021. Dopo vent'anni di silenzio la Fda americana ha approvato oggi il primo farmaco contro l'Alzheimer, l'Aducanumab, nome commerciale Aduhelm. Una approvazione non scontata, visti i dubbi di alcuni esperti e persino il parere contrario del Comitato indipendente dell'agenzia, secondo cui non ci sono evidenze sufficienti che il farmaco possa davvero aiutare i pazienti. Parlare dunque di svolta forse è ancora impossibile anche se è altrettanto vero che la Fda non approva certamente un farmaco a cuor leggero, soprattutto se ci sono dietro enormi aspettative di pazienti e familiari in tutto il mondo. Il farmaco, Aducanumab, è il primo approvato in modo specifico per contrastare il processo degenerativo della malattia e non i suoi sintomi. Qualche dettaglio: si somministra con una infusione mensile in vena e dovrebbe rallentare il declino cognitivo nei primi stadi della malattia, con ancora una memoria seppure non intatta e qualche problema cognitivo. E aggiungerebbe un tassello in più alla diagnosi precoce, che si sta mettendo a punto grazie ad alcuni biomarcatori ma che aveva poco senso in assenza di un qualunque intervento terapeutico. La Fda ha ammesso che gli studi presentati non hanno fornito prove di efficacia complete e per questo ha approvato il farmaco a condizione che l'azienda che l'ha messo a punto - la Biogen - conduca un nuovo studio clinico. Negli anni che serviranno perché lo studio sia completato il farmaco sarà comunque a disposizione dei pazienti, ha specificato l'agenzia. E se lo studio post mercato, quello di cosiddetta Fase 4, dovesse fallire nel dimostrare l'efficacia del farmaco, la Fda revocherà l'approvazione.

Alzheimer, il farmaco che rallenta la malattia: Aducanumab, come funziona e quanto costa la terapia. Libero Quotidiano il 7 giugno 2021. Svolta storica nella lotta all'Alzheimer. È stato approvato in Usa dall'Fda il primo trattamento contro la patologia dopo quasi 20 anni. Il farmaco è un anticorpo monoclonale (Aducanumab) di Biogen ed è indicato per chi ha forme lievi di deterioramento cognitivo o una demenza allo stadio iniziale, entrambe causate dall'Alzheimer. patologia neurodegenerativa a decorso cronico e progressivo e causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati (secondo le stime attuali, ne sarebbe colpito circa il 5% della popolazione al di sopra dei 65 anni e circa il 20% degli ultra-85enni, anche se in diversi casi può manifestarsi anche un esordio precoce intorno ai 50 anni). Questo anticorpo monoclonale è il primo farmaco progettato per influenzare il decorso della malattia rallentando il deterioramento delle funzioni cerebrali e non solo per alleviare i sintomi. Il farmaco è però controverso: secondo molti consulenti indipendenti, l'Aducanumab non ha dimostrato di aiutare a rallentare la malattia e anche per questo, nell'ottobre 2020, Biogen aveva deciso di interrompere i test. Un nuovo studio ha poi rilevato che con una somministrazione di dosi più elevate, l'efficacia aumentava. Le polemiche, però, non sono destinate a finire a breve. Non caso la Fda ha richiesto al produttore di condurre una nuova analisi per confermare i benefici del farmaco e se i risultati non saranno soddisfacenti, lo stesso farmaco potrebbe venire ritirato dal mercato. Dal 2003 - riporta il quotidiano americano Washington Post - nessun farmaco è stato approvato per l'Alzheimer. Ma non cura la malattia né può invertire i suoi drammatici effetti sulla condizione mentale dei pazienti. Secondo indiscrezioni il prezzo di questa terapia potrebbe arrivare a 50mila dollari l'anno.

Dagotraduzione dal DailyMail l'8 giugno 2021. Per la prima volta da più di vent’anni la Food and Drug Administration (Fda) statunitense ha approvato ieri un farmaco per curare il morbo di Alzheimer. Il farmaco fa parte di una lunga lista di medicinali che hanno lo scopo di rimuovere dal cervello i depositi di una proteina chiamata beta amiloide nelle prime fasi della malattia. Gli studi clinici sul farmaco, che sarà distribuito con il nome Aduhelm dalla Biogen Inc, realizzati negli Stati Uniti, hanno mostrato una riduzione delle placche che dovrebbe portare a migliorare il declino dei pazienti. Ma non tutti sono convinti dell’efficacia del farmaco e gli studi hanno offerto risultati constranti. L’approvazione è arrivata attraverso il percorso accelerato che fornisce un accesso anticipato ai pazienti che hanno poche terapie e che potrebbero avere beneficio dall’assuzione del farmaco nonostante le incertezze. Biogen dovrà eseguire adesso studi di conferma che dimostrino i «benefici clini». Se gli studi avranno risultati negativi, la Fda potrà revocare la sua autorizzazione. I due studi clinici portati avanti finora datano 2016 e sono stati entrambi interrotti a metà strada perché i ricercatori hanno concluso che nessuno dei due avrebbe raggiunto il suo obiettivo. Successivamente, la società ha mostrato dati aggiornati del secondo studio, dove emergeva una diminuzione del 22% del declino cognitivo nei pazienti sottoposti a cura. «Siamo ben consapevoli dell'attenzione che circonda questa approvazione», ha detto Patrizia Cavazzoni, direttrice del Centro per la valutazione e la ricerca sui farmaci della Fda. «Comprendiamo che Aduhelm ha attirato l'attenzione della stampa, della comunità dei malati di Alzheimer, dei nostri funzionari eletti e di altre parti interessate. Con un trattamento per una malattia grave e pericolosa, ha senso che così tante persone stiano seguendo l'esito di questa revisione».

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 23 aprile 2021. Spolverare, riordinare, pulire, ma anche cucinare, fare la spesa o giardinaggio, insomma dedicarsi ai lavori domestici, fa bene alla mente, amplia le capacità cognitive e aiuta perfino a prevenire patologie come la demenza senile. Ad affermarlo è uno studio condotto da scienziati del Rotman Research Institute del Baycrest Centre, a Toronto, in Canada, secondo cui i benefici per la salute derivanti dal fare le pulizie sarebbero decisamente sottovalutati.

IMPATTO SUL CERVELLO L'attenzione sarebbe concentrata sull' allenamento sportivo, senza tenere conto di attività più semplici, quotidiane, a basso rischio, come quelle di casa appunto, che potrebbero essere un toccasana per gli anziani. «Gli scienziati sanno già che l' esercizio fisico ha un impatto positivo sul cervello, ma il nostro studio è il primo a dimostrare che lo stesso può essere vero per le faccende domestiche», dice Noah Koblinsky, tra gli autori della ricerca. «Capire come le diverse forme di attività fisica contribuiscono alla salute del cervello è fondamentale per lo sviluppo di strategie per ridurre il rischio di declino cognitivo e demenza negli anziani».

I TEST DI VALUTAZIONE Lo studio, pubblicato su BMC Geriatrics, è stato condotto su sessantasei individui sani, tra i 65 e gli 85 anni, sottoposti a più test per la valutazione delle condizioni fisiche, mentali e cognitive. Ad ognuno è stato chiesto il tempo mediamente riservato a eseguire le faccende domestiche, da quelle ordinarie, come pulire, a quelle più pesanti, come la cura del giardino, fino a eventuali riparazioni. Dal confronto tra le ore investite in tali impegni e le condizioni dei singoli è emerso che, indipendentemente dall' attività sportiva svolta, gli anziani che dedicavano più tempo alle faccende, come, ad esempio, fare le pulizie, spazzare, cucinare e fare giardinaggio, avevano un volume cerebrale maggiore. Varie le ipotesi dei ricercatori. Svolgere tali mansioni corrisponderebbe a un' attività aerobica di bassa intensità, con vantaggi per la salute del cuore e, di conseguenza, per quella del cervello. L' organizzazione, inoltre, favorirebbe nuove connessioni neurali nel cervello, anche con l' avanzare dell' età. A ciò si aggiunge che, più semplicemente, chi svolge questi compiti conduce una vita meno sedentaria. «Si è sempre pensato che chi rimane in casa vada maggiormente incontro a depressione, ansia e simili - commenta Filippo Anelli, presidente Fnomceo-Federazione nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri - i lavori domestici, in tale visione, possono contribuire a rimettere in moto l' organismo e a prevenire eventuali patologie neurodegenerative. Fare le faccende potrebbe così diventare pure un esercizio utile per la riabilitazione, aprendo nuove possibilità per quanto riguarda i ricoveri in istituti, consentendo ad anziani, con supporto sociale, di restare in casa propria. In ottica di prevenzione, svolgere attività domestiche è una buona abitudine da prendere sin da giovani».

I VANTAGGI I benefici d' altronde sono numerosi. Stando a una ricerca della Oregon State University, su oltre seimila persone tra 18 e 65 anni, gli effetti sarebbero interessanti pure per il benessere fisico. E pari a quelli della palestra. I lavori domestici aiuterebbero a prevenire ipertensione, colesterolo, diabete, infarto. Chi svolge le faccende, avrebbe l' 89% delle possibilità di non sviluppare la sindrome metabolica. Per chi pratica palestra, la stima è dell' 87%. Vantaggi si vedono anche sulla bilancia. Lavare i vetri farebbe bruciare 334 calorie in un' ora. Pulire i pavimenti circa 145 in mezz' ora. E così via. Non solo. Da uno studio della McMaster University del Canada, su 130mila soggetti tra 35 e 70 anni, è emerso che fare i lavori di casa per trenta minuti al giorno, riposandosi sabato e domenica, ridurrebbe del 28% il rischio di mortalità, allungando la vita.

DAGONEWS il 12 aprile 2021. Secondo un nuovo studio, le persone con disturbi gengivali sarebbero maggiormente a rischio di demenza senile. Gli scienziati del New York University College of Dentistry hanno prelevato campioni di liquido cerebrospinale che circonda il cervello e il midollo spinale e hanno eseguito tamponi batterici sulle gengive dei volontari. La ricerca ha rivelato che le persone con cattiva igiene orale presentano livelli più elevati di beta amiloide, una proteina nociva trovata nel cervello dei pazienti malati di Alzheimer che forma placche intorno alle cellule nervose, inibendo la funzione cerebrale e portando al declino cognitivo. Mentre un legame tra la proteina e la demenza è già stato individuato in studi precedenti, il modo esatto in cui la beta amiloide causa la malattia rimane solo parzialmente compreso. Una delle teorie principali è che le malattie proinfiammatorie come le malattie gengivali impediscono al corpo di espellere l'amiloide dal cervello. Per studiare la connessione, i ricercatori hanno prelevato campioni di liquido cerebrospinale e di tessuto gengivale da 48 volontari sani, tutti di età superiore ai 65 anni. Le persone in questa fascia di età sono maggiormente a rischio di demenza e malattie gengivali, con il 70% degli over 65 che soffrono di problemi orali. La presenza dei batteri per tutte le 48 persone è stato confrontato con i livelli di beta amiloide e tau, un'altra proteina nota per essere presente nei pazienti con demenza. Gli scienziati hanno determinato il livello di batteri "buoni", come Corynebacterium e Actinomyces, e lo hanno confrontato con la presenza di batteri "cattivi", tra cui Prevotella e Porphyromonas gengivalis. I dati mostrano che le persone con più batteri buoni nelle gengive rispetto a quelli cattivi avevano livelli più bassi di amiloide nel liquido cerebrospinale, indicando un minor rischio di contrarre la demenza senile. «A nostra conoscenza, questo è il primo studio che mostra un'associazione tra la comunità batterica che si trova sotto il bordo gengivale e un biomarcatore del liquido cerebrospinale del morbo di Alzheimer nei pazienti anziani cognitivamente sani». Ha detto la dottoressa Angela Kamer del New York University College of Dentistry nonché autore principale dello studio. I ricercatori stanno ora organizzando una sperimentazione clinica per indagare se il miglioramento della salute delle gengive con pulizie profonde potrebbe modificare l'amiloide cerebrale e quindi prevenire il morbo di Alzheimer.

·        La linea piatta del fine vita.

Amanda Van Beinum e Sonny Dhanani per "it.businessinsider.com" il 14 marzo 2021. Quanto devono aspettare i dottori dopo che è apparsa la “linea piatta” prima di dichiarare la morte di una persona? Come fanno a essere certi che il cuore non riprenda a battere facendo circolare il sangue? Il modo più comune in cui muoiono le persone è in seguito a un arresto cardiaco. Però, non ci sono molte prove a supporto di quanto a lungo aspettare per determinare il decesso una volta che il cuore si è fermato. Questa informazione mancante ha ripercussioni sulla pratica clinica e sulla donazione di organi. Un principio fondamentale della donazione di organi è la regola del donatore morto: i donatori devono essere morti prima dell’espianto degli organi, e l’espianto degli organi non deve essere la causa della morte. Una mancanza di prove circa il tempo di attesa prima di dichiarare il decesso crea tensione: se i dottori aspettano troppo dopo che il cuore si è fermato, la qualità degli organi inizia a peggiorare. D’altro canto, non aspettare abbastanza introduce il rischio di procedere all’espianto degli organi prima che sia effettivamente avvenuto il decesso. Il nostro team interdisciplinare di dottori, bioingegneri ed esperti ricercatori clinici ha passato gli ultimi dieci anni studiando cosa succede quando una persona muore in seguito ad arresto cardiaco. Ci siamo concentrati sui pazienti dei reparti di terapia intensiva che sono morti in seguito allo spegnimento delle macchine, dato che questi pazienti possono essere anche idonei alla donazione di organi. In particolare, eravamo interessati a capire se è possibile che il cuore si riattiva da solo, senza alcun intervento quale rianimazione cardiopolmonare (RCP) o farmaci.

Uno sguardo più attento alla linea piatta di fine vita. Il nostro recente studio, pubblicato nel New England Journal of Medicine, presenta l’osservazione della morte di 631 pazienti tra Canada, Repubblica Ceca e Paesi Bassi, deceduti nei reparti di terapia intensiva. Le famiglie di tutti i pazienti avevano dato il consenso a partecipare alla ricerca. Oltre alla raccolta di informazioni mediche su ogni paziente, abbiamo realizzato un programma informatico per raccogliere e controllare battito cardiaco, pressione sanguigna, livello di ossigenazione del sangue e modelli respiratori direttamente dai monitor collegati alle macchine. Come risultato, siamo riusciti ad analizzare i modelli di linea piatta di fine vita di 480 pazienti su 631 — e anche a osservare se e quando ogni eventuale attività circolatoria o cardiaca riprendeva dopo essersi interrotta per almeno un minuto. Questo video mostra la pressione del sangue arterioso e i segnali dell’elettrocardiogramma fermarsi per 64 secondi prima di riprendere, e infine fermarsi dopo quasi tre minuti. Il video è accelerato otto volte.

Come si è capito, la classica linea piatta della morte non è così lineare. Abbiamo scoperto che l’attività cardiaca umana spesso s’interrompe per riprendere varie volte durante il processo che porta alla morte. Su 480 segnali di “linea piatta”, abbiamo scoperto uno schema di interruzione-e-riavvio in 67 (14 per cento). Il periodo più lungo in cui il cuore è rimasto inattivo prima di ripartire da solo è stato di quattro minuti e 20 secondi. Il periodo più lungo in cui l’attività cardiaca ha continuato in seguito alla ripresa è stato di 27 minuti, ma la maggior parte delle ripartenze è durata appena uno o due secondi. Nessuno dei pazienti che abbiamo seguito è sopravvissuto o ha riacquistato conoscenza. Abbiamo inoltre scoperto che era normale che il cuore continuasse a mostrare attività elettrica molto tempo dopo che il flusso sanguigno o i battiti si erano fermati. Il cuore umano funziona come risultato di una stimolazione elettrica dei nervi che provoca la contrazione del muscolo cardiaco e contribuisce alla circolazione del sangue — il battito che puoi sentire nelle tue arterie e nelle tue vene. Abbiamo scoperto che il ritmo cardiaco (la stimolazione elettrica causa il movimento del muscolo cardiaco) e il battito (movimento del sangue nelle vene) si fermavano insieme solo nel 19 per cento dei pazienti. In alcuni casi, l’attività elettrica del cuore proseguiva per oltre 30 minuti senza provocare alcuna circolazione del sangue.

Perché è importante capire la morte. I risultati del nostro studio sono importanti per alcune ragioni. Primo, l’osservazione che le interruzioni e le riprese dell’attività cardiaca e della circolazione fanno spesso parte del naturale processo di morte sarà rassicurante per dottori, infermieri e membri della famiglia al capezzale. A volte, segnali intermittenti sui monitor delle macchine possono allarmare se gli osservatori li interpretano come segnali di un inatteso ritorno della vita. Il nostro studio fornisce prove che interruzioni e riprese devono essere previste durante un normale processo di morte senza RCP (rianimazione cardio-polmonare), e che non portano a riprendere coscienza o alla sopravvivenza. Secondo, la nostra scoperta che la pausa più lunga prima della ripresa autonoma dell’attività cardiaca era di quattro minuti e 20 secondi supporta la pratica corrente di aspettare cinque minuti dopo che la circolazione si è fermata prima di dichiarare il decesso e procedere all’espianto degli organi. Ciò contribuisce a rassicurare le organizzazioni che si occupano di donazione degli organi su fatto che le pratiche volte a determinare il decesso sono sicure e adeguate. I nostri risultati saranno impiegati a livello internazionale per migliorare le pratiche informative e le linee guida per la pratica della donazione di organi. Affinché i sistemi di donazione funzionino, quando qualcuno è dichiarato morto, deve esserci la fiducia che la dichiarazione sia davvero veritiera. La fiducia permette alle famiglie di scegliere la donazione nel momento del dolore e consente alla comunità medica di assicurare cure di fine vita sicure e coerenti. Questo studio è importante anche perché migliora la nostra comprensione più ampia della storia naturale della morte. Abbiamo mostrato che forse non è così semplice capire quando un morto è davvero morto. Ci vogliono un’osservazione attenta e uno stretto monitoraggio fisiologico del paziente. È inoltre necessario comprendere che, proprio come la vita, il processo di morte può seguire molti schemi. Il nostro lavoro rappresenta un passo avanti verso l’apprezzamento della complessità del morire e indica che dobbiamo andare oltre l’idea di una semplice linea piatta che indichi quando è avvenuta la morte.

·        Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

IMU e ONLUS ad Avetrana. Comodato e Proprietà del Volontariato.

Disuguaglianza ed Estorsione tra i No Profit più deboli presso tutte le Avetrana d’Italia.

Il Possesso e l’Ipocrisia della Politica. La Violazione dei principi costituzionali nel silenzio dei media e del Volontariato d’Elite. Una questione non di poco conto.

La denuncia pubblica del saggista Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte Le Mafie ONLUS, già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura. Associazione che non riceve sovvenzionamenti pubblici o privati.

Ed a quanto pare nemmeno risposte dagli Uffici preposti dei Ministeri interpellati del Walfare e delle Finanze.

Oggetto: chiarimento ed interpretazione.

Riferimento: Il presidente di una associazione di volontariato - onlus – ente non commerciale deve pagare l’Imu-Tasi, essendo usufruttuario di un immobile dato in comodato gratuito, presso il quale si è eletta sede legale dell’associazione e per il quale locale l’associazione se ne fa uso gratuito?

La legge stabilisce il no. L’alta giurisprudenza e la burocrazia impone il sì.

Di questo si fa forte il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza, che ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione". 

Cosa è l’Imu? L'IMU, Imposta Municipale Propria, è il tributo istituito dal governo Monti nella manovra Salva-Italia del 2011 e si paga a livello comunale sul possesso dei beni immobiliari. È operativa a decorrere dal gennaio 2012, e fino al 2013 è stata valida anche sull'abitazione principale. L'ICI (Imposta comunale sugli immobili) era la vecchia tassa applicata al possesso dei beni immobiliari prima dell'arrivo dell'IMU, a partire dal gennaio 2012. L'IMU in buona sostanza ne ha replicato i regolamenti e i sistemi di calcolo. La tassa sulla proprietà della prima casa:

prima del 2012: non si pagava più dal 2007, quando si chiamava ICI

2012: IMU con 0,4% di aliquota standard. Detrazione di 200 euro + 50 euro per ogni figlio

2013: mini IMU di gennaio, la differenza fra l’IMU calcolata con aliquota allo 0,4% e con quella del comune. Niente detrazioni. In discussione l’eliminazione di questo conguaglio.

Dal 2014: Tasi con aliquota standard allo 0,1%, detrazioni 200 euro + 50 euro per ogni figlio.

Cos’è il Volontariato? Il Volontariato è quell’insieme di sodalizi che operano sussidiariamente nei vari campi dei servizi pubblici, laddove lo Stato non vuole o non può operare. A favore del Volontariato sono previste delle agevolazioni fiscali e dei sostegni economici a ristoro di progetti inclusivi ed accoglibili. Da questo quadro d’insieme, però, sono osteggiate le piccole realtà solidaristiche, spesso non incluse nel grande sistema della solidarietà partigiana, foraggiata dalla politica amica. I grandi nomi, sponsorizzati con partigianeria dai media e sostenuti economicamente dalla politica, non hanno difficoltà ad acquistare gli immobili dove hanno la sede locale o dove operano. Le miriadi piccole realtà, distribuite sul territorio e con maggior valore per l’intervento di prossimità, non hanno sostentamento e quindi si sorreggono con le liberalità degli associati. Gli immobili dove operano sono dati in comodato dagli stessi membri del sodalizio.

Qual è il sostegno al Volontariato? 5XMille; Finanziamento pubblico di progetti per ogni ramo di intervento; donazioni private

Quali sono e agevolazioni ed esenzioni fiscali al Volontariato? I benefici fiscali per le organizzazioni di volontariato e le onlus (Da ipfonlus.it). Oltre che dalla legge istitutiva, sono stati riconosciuti, a favore delle organizzazioni di volontariato, numerosi vantaggi anche da parte di una serie di altri provvedimenti legislativi, fra i quali assume particolare rilievo il decreto legislativo 460/97, relativo al riordino ed alla disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus). Tali vantaggi sono estesi alle organizzazioni di volontariato, in forza di esplicito rinvio con il quale vengono considerate Onlus le organizzazioni di volontariato, purché iscritte nei registri regionali. I benefici riconosciuti con il suddetto decreto possono essere suddivisi in due parti: agevolazioni ed esenzioni.

Agevolazioni. Le agevolazioni riguardano:

le imposte sui redditi;

le erogazioni liberali;

l’imposta sul valore aggiunto;

le ritenute alla fonte;

l’imposta di registro;

le lotterie, le tombole, le pesche e i banchi di beneficenza.

È il caso di fare qualche accenno su ognuna di esse. Le agevolazioni ai fini delle imposte sui redditi riguardano il solo reddito di impresa e non si riferiscono ad altre categorie reddituali che concorrono alla formazione del reddito complessivo.

Per le erogazioni liberali, il decreto legislativo pone, da una parte, le persone fisiche e gli enti non commerciali e, dall’altra, le imprese. I primi possono detrarre dall’imposta lorda le erogazioni liberali in denaro, fatte a favore delle organizzazioni di volontariato, per un importo fino a quattro milioni di lire.

Per le imprese è prevista una serie di deduzioni che riguardano:

– le erogazioni liberali in denaro per un importo non superiore a quattro milioni di lire o al due per cento del reddito di impresa dichiarato;

– le spese relative all’impiego dei lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato, utilizzati per prestazioni di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato, nel limite del cinque per mille dell’ammontare complessivo delle spese per prestazioni di lavoro dipendente;

– la cessione gratuita alle organizzazioni di volontariato, in alternativa alla usuale eliminazione dal circuito commerciale, di derrate alimentari, di prodotti farmaceutici e di beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa.

Le disposizioni relative all’imposta sul valore aggiunto (Iva) prevedono una serie di agevolazioni per prestazioni effettuate da organizzazioni di volontariato o a favore delle stesse organizzazioni. Esse attengono a:

– divulgazione pubblicitaria;

– cessioni di beni-merce;

– trasporto di malati o feriti con veicoli all’uopo equipaggiati;

– educazione dell’infanzia e della gioventù e didattica di ogni genere anche per la formazione, l’aggiornamento, la riqualificazione e la riconversione professionale. In esse sono comprese anche le prestazioni relative all’alloggio, al vitto ed alla fornitura di libri e materiali didattici come pure le lezioni relativi a materie scolastiche e universitarie impartite da insegnanti a titolo personale;

– attività socio sanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale, in comunità, in favore di persone svantaggiate, rese dalle organizzazioni di volontariato sia direttamente sia in esecuzione di appalti,

convenzioni e contratti in genere.

Le organizzazioni di volontariato inoltre, non sono soggette all’obbligo di certificazione dei corrispettivi mediante ricevuta o scontrino fiscale.

Per quanto riguarda la ritenuta alla fonte, non viene applicata la ritenuta del quattro per cento a titolo di acconto sui contributi corrisposti alle organizzazioni di volontariato dagli enti pubblici. Inoltre, la ritenuta sui redditi di capitale corrisposti alle organizzazioni di volontariato viene considerata a titolo di imposta anziché di acconto.

Relativamente all’imposta di registro, occorre distinguere fra Onlus e organizzazioni di volontariato. Per quanto riguarda le prime, è da sottolineare che tutti gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o contributi di diritti reali immobiliari di godimento, compresa la rinuncia ad essi, destinati ad essere utilizzati nell’ambito delle attività statutarie, deve essere corrisposta, per la registrazione, la cifra fissa di lire 250 mila.

Per quanto concerne le organizzazioni di volontariato, occorre fare riferimento alla legge-quadro la quale prevede la totale esenzione dall’imposta di registro. Con l’autorizzazione dell’Intendenza di finanza e previo nulla osta delle prefetture, le organizzazioni di volontariato possono effettuare lotterie, tombole, pesche e banchi di beneficenza, con le seguenti limitazioni:

per le lotterie è previsto che la vendita di biglietti deve riguardare il solo territorio della provincia. I biglietti vanno staccati da registri a matrice in numero determinato. L’importo complessivo di ogni lotteria non può superare i 100 milioni di lire;

per le pesche e i banchi di beneficenza, le operazioni sono limitate al territorio del comune in cui esse hanno luogo. Il ricavato complessivo non può superare i 100 milioni di lire.

Esenzioni. Le esenzioni riguardano:

l’imposta di bollo;

le tasse sulle concessioni governative;

l’imposta sulle successioni e sulle donazioni;

l’imposta sostitutiva;

l’imposta sull’incremento di valore degli immobili e della relativa imposta sostitutiva;

l’imposta sugli spettacoli;

le raccolte pubbliche occasionali di fondi;

i contributi per lo svolgimento convenzionato dell’attività.

Anche su ognuna di esse si ritiene utile fare qualche accenno.

Sono esenti dall’imposta di bollo:

gli atti, i documenti, le istanze, i contratti, le copie anche se dichiarate conformi, gli estratti, le certificazioni, le dichiarazioni e le attestazioni poste in essere oppure richieste dalle organizzazioni di volontariato.

Sono esenti dalle tasse sulle concessioni governative

tutti gli atti ed i provvedimenti concernenti le organizzazioni di volontariato.

Sono pure esenti dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni i trasferimenti a favore delle organizzazioni di volontariato.

Agli immobili acquistati a titolo gratuito, anche per causa di morte, non si applica l’imposta sull’incremento di valore. Lo stesso trattamento è riservato all’imposta sostitutiva di quella comunale sull’incremento di valore degli immobili.

L’imposta sugli spettacoli non è dovuta per le attività spettacolistiche svolte occasionalmente dalle organizzazioni di volontariato in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione. Per ottenere l’esenzione è necessario dare comunicazione, prima dell’inizio della manifestazione, all’ufficio accertatore territorialmente competente.

Sono da considerarsi attività spettacolistiche:

– gli spettacoli cinematografici e misti di cinema e avanspettacolo, comunque ed ovunque dati, anche se in circoli e sale private;

– gli spettacoli sportivi di ogni genere, ovunque si svolgano, nei quali si tengano o meno scommesse;

– gli spettacoli teatrali; le esecuzioni musicali di qualsiasi genere, escluse quelle effettuate a mezzo di elettrogrammofoni a gettone o a moneta; i balli, le lezioni di ballo collettive, i veglioni e altri trattenimenti di ogni natura ovunque si svolgano e da chiunque organizzati; i corsi mascherati e in costume, le rievocazioni storiche, le giostre e tutte le manifestazioni similari;

– gli spettacoli teatrali di opere liriche, balletto, prosa, operetta, commedia musicale, rivista, concerti vocali e strumentali; le attività circensi e dello spettacolo viaggiante;

– gli spettacoli di burattini e marionette ovunque tenuti;

– le mostre e le fiere campionarie;

– le esposizioni scientifiche, artistiche e industriali, rassegne cinematografiche riconosciute con decreto del Ministero per le finanze e altre manifestazioni similari di qualunque specie.

Il Ministro delle finanze può stabilire, con proprio decreto, quando le suddette attività sono da considerarsi occasionali.

Le raccolte pubbliche occasionali di fondi non concorrono alla formazione del reddito delle organizzazioni di volontariato anche se esse avvengono mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione.

Anche in questo caso, il Ministero delle finanze può stabilire, con proprio decreto, condizioni e limiti atti a definire occasionali le predette attività.

Non concorrono alla formazione del reddito i contributi corrisposti alle organizzazioni di volontario da amministrazioni pubbliche per lo svolgimento convenzionato di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali.

Altre agevolazioni

Tutti i vantaggi e le esenzioni finora segnalati sono riconosciuti dalla normativa nazionale. Ci sono, però, alcuni tributi che sono di pertinenza di comuni, provincia, regioni e province autonome. Per essi, i predetti enti possono prevedere la riduzione oppure, addirittura, l’esenzione. (Da ipfonlus.it)

IMU e ONLUS. Qual è la discrepanza tra Norme, Principi Costituzionali e pratica burocratica?

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai   compiti istituzionali;

(…)

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad ente non commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi istituzionali o statutari”.

Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

L’Intenzione del legislatore è chiara, ma racchiusa in quella deleteria delega agli enti locali, che sistematicamente disapplicano lo scopo ed i principi della legge.

Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da sè che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO. Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

A tal riguardo, di contro, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.

Giunte di destra e di sinistra si sono succedute. Ma ad Oggi le Avetrana di tutta Italia non hanno nessuna intenzione di allargare le magie dell’esenzione.

Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.

Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504.  Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.

La Corte di Cassazione, in più sentenze, ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.

Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla  Cass. 30.5.2005 n. 11427.

Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva. Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.

Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente. Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.

In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.

Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.

In condizioni normali, dopo l’istanza in autotutela, rigettato, e dopo il reclamo-ricorso, rigettato, si potrebbe agire in giudizio presso la Commissione Tributaria Provinciale, ove si ponesse fiducia nel giudice illuminato e preparato sicuri della vittoria. Però il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione". 

Ciò significa che trovato il giudice illuminato a Taranto, ritrovato un ulteriore giudice illuminato a Bari, per forza di cose ci ritroviamo a Roma dove gli ermellini si guarderebbero bene a rinnegare i loro precedenti.

Quindi il novello Davide “Antonio Giangrande”, pur in una famiglia di avvocati e con pochezza di risorse, contro il Golia “Comune di Avetrana”, con risorse comunali illimitate, pur nella ragione, soccomberebbe.

Gli avversari troppo forti, quali sono la burocrazia e la giurisprudenza.

Il legislatore inane, che in assenza di una politica rappresentativa degli interessi diffusi, che non afferma i suoi principi e metta fine a questa sperequazione,  favorisce l’intimazione, l’oppressione e l’omertà.

Ergo: Dr Antonio Giangrande, paga, subisci  e taci!

Dr Antonio Giangrande

Gennaio, tempo di notifica delle cartelle esattoriali inviate il 31 dicembre, per impedirne la prescrizione quinquennale. Gennaio tempo di scoperte e di sorprese.

Il “No Profit” paga Imu e Tasi dei locali dove svolge la sua attività.

Intervento del Sociologo storico,  dr Antonio Giangrande, autore, tra gli altri, anche del saggio UGUAGLIANZIOPOLI e relativi aggiornamenti annuali.

L’Italia è il Paese del foraggiamento a pioggia, dove tutti chiedono e dove tutti ottengono. Eppure si trascura quel mondo fatto di centinaia di migliaia di associazioni di volontariato: il cosiddetto “No Profit”.

Mondo che supplisce a tutte quelle mancanze statali a sostegno dei diritti inalienabili dei cittadini.

La Costituzione, appunto, prevede la tutela del Principio di solidarietà e di Uguaglianza, ma, come sempre in questa Italia, tutti i principi costituzionali vengono sempre calpestati. Per inciso con l’intercalare: vanno a farsi fottere.

Il “No Profit”, proprio per sua stessa definizione, non produce reddito. La sua attività si basa sull’opera di milioni di volontari che, gratuitamente, prestano la loro opera materiale ed intellettuale.

Il Volontariato, non producendo reddito, va da sé, logicamente, non può acquistare nulla per sé, né essere proprietario di alcunché.

La sede legale è spesso sita presso un locale messo a disposizione gratuitamente dal presidente dell’associazione, o da un suo componente, o da terzi benefattori.

Quindi di quel locale con il COMODATO si ha l’UTILIZZO e non il POSSESSO.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), in ossequio alla Costituzione prevedeva la dicotomia Utilizzo e Possesso, prevedendo l’esenzione dell’Imu/Tasi sia per i possessori sia per gli utilizzatori, se diversi dai proprietari. In questo caso viene premiato il COMODATO D’USO a fini solidaristici.

Invece, i Comuni hanno pensato bene di non distinguere i possessori dagli utilizzatori, inquadrando l’esentato in una sola figura: ossia il proprietario deve essere l’utilizzatore.

A tal riguardo si riporta, a titolo esemplare, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, che recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”. Regolamento adottato dai Consiglieri Mario De Marco, sindaco, Enzo Tarantini, assessore al ramo, Antonio Minò (presidente Onlus), Daniele Petarra, Antonio Baldari, Vito Maggiore, Pietro Giangrande e Cosimo Derinaldis, presidente del Consiglio (presidente Onlus). Il Funzionario del servizio ragioneria, Antonio Mazza, esprimeva parere favorevole.

La casistica riporta  i casi in cui vi sia l’utilizzo indiretto di un beneficiario. Prendendo in esame solo i casi in cui i beni ecclesiastici, di per sé esentati, vengono utilizzati da terzi, con le stesse finalità solidaristiche. Non si parla di possessori privati che prestano i loro beni gratuitamente alle associazioni di Volontariato.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell’Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992,  prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l’esenzione solo a quei “No Profit” che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA’ O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·          L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·          Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Degna di nota è la citazione del Comune di Falconara, in nome del vice sindaco Raimondo Mondaini, con delega al Bilancio. Comune che tra i primi, con merito, ha previsto l’esenzione IMU per quegli immobili ceduti gratuitamente alle associazioni di volontariato.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

Dr Antonio Giangrande

RICORSO PRESSO LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI TARANTO

seguente

Istanza in autotutela per l'annullamento dell'avviso di accertamento esecutivo

 

All'Ufficio Tributi – Contenzioso del Comune di Avetrana (TA)

Via Vittorio Emanuele - 74020 Avetrana (TA)

All'attenzione del Funzionario responsabile del servizio

Dr Antonio Mazza

All'attenzione del responsabile del procedimento

Sig.ra Maria Santo

 

Contribuente: Dr Antonio Giangrande, via Alessandro Manzoni n. 51, Avetrana (TA)

Oggetto: istanza in autotutela per l'annullamento  del:

-           Provvedimento n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           Provvedimento n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

 

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni n. 51, C.F. GNGNTN63H02A514Q, premesso

che i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

PREMESSO

In data 14 gennaio 2021 si presentava Istanza in autotutela per l’annullamento degli avvisi di accertamento esecutivo, che qui si intende integralmente trascritto, in quanto parte del presente ricorso.

In data 3 febbraio 2021 l’Ufficio Tributi, in persona del responsabile Dr Antonio Mazza rigettava l’Istanza adducendo le seguenti motivazioni:

“Ritenuto che non sussistano i motivi che consentono il relativo accoglimento in quanto:

Vale l’esenzione Imu per gli immobili appartenenti agli enti no profit, ma solo se questi li utilizzano direttamente.

L’articolo 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs 504/1992 stabilisce che sono esenti dall’ICI gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali per lo svolgimento di una serie di attività agevolate (assistenziali, previdenziali, culturali, eccetera), svolte con modalità non commerciali. L’esenzione si applica anche all’IMU e, di conseguenza alla Tasi, per effetto del richiamo operato alla norma sopra citata dall’art. 9, comma 8, del D.Lgs /23/2011.

La Corte Costituzionale ha affermato la necessità che l’immobile, per poter beneficiare dell’esenzione, deve essere utilizzato direttamente dall’ente proprietario (sentenze n. 429/2006 e n. 19/2007).

La Corte di Cassazione, inoltre, ha confermato questo orientamento (sentenze n. 22201/2008 e n. 2221/2014) anche recentemente ribadendo che la mancanza dell’utilizzazione diretta dell’immobile, perché concesso in comodato a un terzo, fa perdere il diritto all’esenzione dell’Ici.

Con l’ordinanza del 17 maggio 2017 n. 12301, infatti, la Suprema Corte ha respinto la richiesta di esenzione avanzata da una associazione per un immobile nel quale si svolgevano attività ricreative e ricettive, concesso in comodato a un privato cui era stata affidata la gestione di queste attività.

La Corte sottolinea che, per beneficiare dell’esenzione dall’Ici, è necessaria l’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente che ne abbia possesso e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito.

Occorre pertanto, che siano posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore, cioè che vi sia coincidenza tra ente proprietario ( o titolare di altro diritto reale sul bene) e quello che utilizza l’immobile.”

IN FATTO

In data 07/01/2021 il Dr. Giangrande riceveva notifica di avviso di accertamento (n. 550 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo all'Imposta Municipale Unica (IMU) per l'anno 2015, per un importo complessivo di Euro 220,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 1);

In data 07/01/2021 riceveva notifica dell'avviso di accertamento (n. 1240 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo alla Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) per l'anno 2015, per un importo complessivo di euro 89,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 2);

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è sede legale ed utilizzato esclusivamente dall'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS (allegato 5), sodalizio antimafia iscritto nell'anagrafe delle ONLUS (allegato 3) e già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura;

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è in possesso del dr Antonio Giangrande, quale usufruttuario (allegato 4), al fine della destinazione, svolgimento ed utilizzo esclusivo dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, di cui è presidente e della quale ha ivi stabilito la sede legale. Possessore ed utilizzatore, di fatto, è lo stesso soggetto esentabile.

IN DIRITTO

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane,  dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio,  industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai   compiti istituzionali;

(…)

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

SI NOTI NELLA PREVISIONE DEL LEGISLATORE LA SPECIFICA DICOTOMIA TRA POSSESSO ED UTILIZZO.

 Tale disposizione trova conferma nel:

-           Dlgs 23/2011 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) il quale, nell'art. 9 comma 8 (Applicazione dell'Imposta Municipale Propria) recita: “Sono esenti dall'imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), h) ed i) del citato decreto legislativo n. 504 del 1992”;

-           Dl 16/2014, il quale, nell'art. 1 (Disposizioni  in materia di TARI e TASI), comma 3 recita: “Sono esenti dal Tributo per i Servizi Indivisibili (TASI) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinanti esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'articolo 7 comma 1, lettere b), c), d), e), f) ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504; ai fini dell'applicazione  della lettera i) resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 91-bis del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni.

Ai fini IMU è prevista l'esenzione per i soli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali, di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive e delle attività di cui all'art. 16 co. 1 lett. a) della legge 222/1985. Inoltre è prevista, in caso di utilizzazione “mista”, il riconoscimento dell'esenzione pro quota limitato alla sola frazione di unità nella quale viene svolta l'attività non commerciale. L'art. 7 co. 1 lett. i) del Dlgs 504/1992 è stato oggetto di recenti modifiche che, nel complesso, hanno determinato un sensibile irrigidimento dei criteri di accesso all'esenzione. Per effetto delle modifiche apportate alla richiamata lett. i) dall'art. 91 bis co. 1 del Dl 1/2012 convertito L. 27/2012, ai fini dell'esenzione occorre che le attività siano svolte “con modalità non commerciali”.

Per il riconoscimento dell''esenzione IMU, la già richiamata lett. i) dell'art. 7 co. 1 del Dlgs 504/92 individua due requisiti:

Requisito soggettivo relativo al soggetto che utilizza l'immobile.

Come accennato in precedenza, ai fini dell’esenzione, gli immobili devono essere utilizzati dai soggetti di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR richiamato dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, vale a dire dagli “enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato”. Rientrano tra gli enti non commerciali privati:

– gli enti disciplinati dal codice civile, quali associazioni, fondazioni e comitati;

– gli enti disciplinati da specifiche leggi di settore, quali:

– organizzazioni di volontariato (L. 11.8.91 n. 266);

– organizzazioni non governative (art. 5 della L. 26.2.87 n. 49);

– associazioni di promozione sociale (L. 7.12.2000 n. 383);

– associazioni sportive dilettantistiche (art. 90 della L. 27.12.2002 n. 289);

– fondazioni risultanti dalla trasformazione degli enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche  assimilate (DLgs. 23.4.98 n. 134);

– ex IPAB privatizzate (a seguito, da ultimo, del DLgs. 4.5.2001 n. 207);

– enti che acquisiscono la qualifica fiscale di ONLUS (DLgs. 4.12.97 n.460);

– gli enti ecclesiastici.

Requisito oggettivo relativo al possesso dell'immobile.

Tale requisito riguarda la tipologia e la rilevanza dell'attività non profit svolta e alle modalità di svolgimento.

Come sopra accennato, attenendosi alla formulazione letterale della lett. i) dell’art.7 co. 1 del DLgs. 504/92, ai fini dell’esenzione l’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale pubblico o privato di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR.

Non è invece richiesto il requisito del possesso dell’immobile stesso da parte dell’ente non commerciale che lo utilizza. Di conseguenza, l’esenzione sembrerebbe spettare relativamente a tutti gli immobili utilizzati da parte di un ente non commerciale e destinati in via diretta ed esclusiva allo svolgimento delle attività individuate dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, a prescindere dalla circostanza che detti immobili siano:

– posseduti a titolo di proprietà, usufrutto o superficie dall’ente non commerciale;

- ovvero anche solo detenuti, ad esempio a titolo di locazione o comodato; in tal caso, ovviamente, l’esenzione IMU spetterà al dante causa (locatore o comodante) che ha concesso la detenzione dell’immobile all’ente non strumentale che lo utilizza.

A tal riguardo la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.

Il possesso può essere acquisito per derivazione, ovvero quando viene trasferito da un vecchio possessore a uno nuovo (traditio). Si può trasferire il possesso consegnando materialmente il bene al nuovo possessore oppure consegnando allo stesso qualcosa che con quel bene abbia un legame tale da permetterne di agire liberamente su di esso.

Nel caso in esame, in data 17/11/2004, davanti al notaio Vittoria Calvi di Manduria (TA), si costituiva l'Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede in Avetrana (TA), via Piave 127 (allegato 5). Il possesso dell'immobile, sito nella suddetta via, veniva trasferito dall'usufruttuario, nonché presidente dell'Associazione, dr Antonio Giangrande, all'Associazione Contro Tutte le Mafie, per svolgere in via esclusiva le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, come da proprio atto costitutivo e regolamento, così come già attestato nella Dichiarazione IMU-TASI 2015 (allegato 6).

Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.

Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504.  Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.

La Corte di Cassazione ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.

Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla  Cass. 30.5.2005 n. 11427.

Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva.

Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.

Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013.  Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.

In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.

Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.

COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Puglia sentenza n. 2332 sez. 3 depositata il 6 luglio 2017: Il Comune di Bari presentava appello avverso la sentenza n. 3204/2014 del 3.12.2014, avente ad oggetto l’imposta IMU gravante su immobili di un ente ecclesiastico e concessi in comodato gratuito ad enti aventi natura di Onlus e esercenti attività scolastica. La commissione di primo grado aveva accolto il ricorso dell’ente ecclesiastico affermando l’irrilevanza della circostanza che l’immobile si concesso in comodato gratuito ad altri enti che di fatto erano articolazioni dell’ente ecclesiastico e svolgevano per conto di questo una attività formativa, seppur a pagamento. La tesi sostenuta dal Comune di Bari nell’atto di appello si fonda sulla presunta necessità che sia lo stesso ente ecclesiastico proprietario del bene a svolgere l’attività commerciale non esclusiva per ottenere l’esenzione. Inoltre non vi sarebbe alcuna prova che gli enti comodatari siano strumentali dell’ente ecclesiastico resistente. Ad opinione di questa commissione, l’appello è infondato e va rigettato. In primo luogo va osservato che la norma tributaria in quanto incidente sul diritto di proprietà tutelata dalla Costituzione, va considerata norma di stretta interpretazione. Ne consegue che le norme tributarie, che prevedono esenzioni, non sono considerabili “eccezionali” e, quindi, di stretta interpretazione ma al contrario.

Ciò premesso, nel merito della vicenda va ripreso quanto affermato la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25508/2015 del 18 dicembre 2015.

La fattispecie posta all’attenzione della Suprema Corte era identica è quella de qua agitur; riguardava tre avvisi di accertamento, notificati per altrettante annualità d’imposta, relativi ad un immobile di proprietà di un Ente di culto con sede nello (omissis) e concesso in comodato d’uso gratuito a una Onlus, per perseguire le finalità di assistenza e formazione a favore di studenti universitari; tale finalità, sostenevano i ricorrenti, giustificava l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992.

In particolare, è stato messo in evidenza come non fosse rilevante il fatto che il bene in questione fosse utilizzato dal comodatario e non dal concedente, perché il comodatario utilizzava il bene in attuazione dei compiti istituzionali dell’ente concedente, al quale era legato da un vincolo di strumentalità: l’utilizzazione diretta del bene da parte dell’ente possessore, è condizione necessaria per l’esenzione, ma solo nelle ipotesi di locazione del bene o di “concessione di beni demaniali”.

Solo in questi casi, infatti, la ratio della limitazione è individuabile nell’effetto distorsivo che, in tali situazioni, si determina rispetto alle finalità tutelate dalla norma (l’esercizio di attività “protette”), in quanto il bene viene utilizzato dal possessore per “una finalità economica produttiva di reddito” e non per lo svolgimento dei compiti istituzionali.

Trattasi di fattispecie ben diverse da quella sottoposta all’attenzione di questa commissione regionale in cui, invece, sia l’Ente di culto che l’ente “concretamente utilizzatore” sono enti non commerciali e l’immobile è concesso in comodato gratuito e non in locazione onerosa.

La sussistenza del requisito, sia soggettivo che oggettivo, deve essere in sostanza accertata caso per caso, in considerazione del fatto che sarebbe ingiustificato che lo Stato gravasse quelle realtà, ecclesiali e non, che perseguono fini di interesse collettivo.

La tesi della Cassazione, che si condivide completamente, è avallata anche dalla risoluzione n. 4/DF del 4 marzo 2013, dell’Amministrazione finanziaria che ha ritenuto che l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992 spetti nell’ipotesi in cui l’immobile sia concesso in comodato a un altro ente non commerciale appartenente alla stessa struttura dell’ente concedente per lo svolgimento di un’attività meritevole prevista dalla norma agevolativa.

Nel caso di specie l’appartenenza degli enti comodatari all’ente ecclesiastico proprietario del bene è stato ben giustificato dal giudice di prime cure, la cui argomentazioni si condividono e richiamano interamente in questa sede.

L’immobile è stato affidato in comodato gratuito ad un’altra onlus che svolge attività culturale e didattica e, quindi, non commerciale.

Va a tal proposito rimarcato che l’attività scolastica primaria e secondaria, con esclusione di quella universitaria, è un diritto costituzionalmente protetto non solo per chi insegna ma anche per chi apprende ed espressione della libertà fondamentale ed inclinabile di manifestazione del pensiero oltre che del diritto di inclusione sociale di cui all’art. 2 della Carta Fondamentale.

Il pagamento delle rette da parte dei discenti non trasforma l’attività svolta in commerciale dovendosi rappresentare come una contribuzione al funzionamento della struttura educativa necessaria per l’esercizio effettivo del diritto costituzionale di insegnamento e di apprendimento.

Con la pronuncia della CTR Lombardia, sezione VIII, n. 4400 del 18.10.2018, i giudici di secondo grado hanno affermato che non può essere contestata l’esenzione Imu ad un ente non commerciale che svolge attività di scuola dell’infanzia sulla base di accordi con l’amministrazione comunale che prevedono l’erogazione di contributi in conto gestione, oltre a vincoli sulle tariffe in ragione delle fasce di reddito delle singole famiglie degli iscritti alla scuola. È proprio l’esistenza di tali vincoli ispirati ad un principio di solidarietà che impedirebbe all’ente una gestione concorrenziale, fatto che giustifica il riconoscimento dell’esenzione. Con riferimento ai contributi in convenzione, inoltre, secondo i giudici regionali, la loro erogazione contribuirebbe a realizzare i medesimi obiettivi perseguiti dall’amministrazione comunale con la gestione diretta della scuola. Nonostante le richiamate argomentazioni possano ritenersi condivisibili, occorre evidenziare come le stesse non siano state giudicate sufficienti a riconoscere l’esenzione in occasione di una altrettanto recente pronuncia dei giudici di legittimità.

In particolare, con la sentenza della CTP Reggio Emilia n. 271/2/2017 del 25.10.2017, i giudici emiliani hanno riconosciuto l’esenzione da Imu per un immobile di un ente ecclesiastico concesso in uso gratuito ad altro ente ecclesiastico per svolgervi attività didattica. Dal contenuto della sentenza emerge che, ai fini dell’esenzione, non deve sussistere la necessaria coincidenza tra chi “possiede” l’immobile e chi lo “utilizza” per attività istituzionali esenti dal tributo.

Più di recente la sezione XI della CTR Lazio, con la sentenza n. 2696 del 27.04.2018, ha sostenuto che va riconosciuta l’esenzione anche se un ente non commerciale titolare di un immobile lo concede in comodato a un altro ente non profit, qualora i due enti svolgano la stessa attività e perseguono le medesime finalità istituzionali e per il suo utilizzo non venga richiesto dal concedente il pagamento di alcun canone di locazione.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

La gratuità del comodato è motivo di esenzione.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 lettera i del D.Lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto. In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione. Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 19 novembre 2012 n. 200 ha individuato, all’articolo 3 e 4, rispettivamente i requisiti generali e di settore che gli enti non commerciali devono possedere per godere dell’esenzione IMU.

In particolare l’articolo 3 prevede che le attività istituzionali sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente (che deve essere redatto per atto pubblico, scrittura autenticata, ovvero semplicemente registrato all’agenzia delle entrate) prevedono:

a) il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione;

b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili o avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale;

c) l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga una analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta per legge.

Gli enti non commerciali devono tenere a disposizione dei comuni la documentazione utile allo svolgimento dell’attività di accertamento e controllo.

Sull'ampliamento della casistica dell'esenzione IMU e TASI, non limitandosi al solo possesso ma allargandosi anche al semplice utilizzo dell'immobile da parte di un ente non commerciale per attività senza scopo di lucro, oltre alla modifica dell'orientamento giurisprudenziale si sta assistendo al mutamento dell'orientamento da parte del nostro legislatore.  Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·           L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·           Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

In Conclusione si afferma che:

i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

Le motivazioni di rigetto sono riferite a sentenze richiamate che prendono in esame l’utilizzo dell’immobile da parte di un privato e non da parte di un ente non commerciale come la legge richiede. E quindi i richiami giurisprudenziali non possono essere applicati a questo caso, oggetto del presente ricorso. Nel presente ricorso si fa riferimento ad Ente utilizzatore che è un Ente non commerciale ed utilizza l’immobile senza fine di lucro ed il possessore, di fatto, è lo stesso ente in persona del suo presidente.

Il riferimento è sbagliato anche in virtù della logica giuridica.

Il regolamento comunale non può travalicare la volontà di una norma di rango superiore. Ogni interpretazione di una norma da parte di organi di rango costituzionale o istituzionale non può porsi in contrasto con la volontà popolare che ha emanato la stessa norma, tantomeno quando vi consegue l’interpretazione autentica della norma da parte del legislatore medesimo. Ove il contrasto succedesse vi si palesa un chiaro conflitto costituzionale tra Organi dello Stato. E vi si palesa una chiara lesione dei principi fondamentali della Costituzione di cui all’art. 1, in cui si riconosce l’esclusiva sovranità popolare e, quindi,  del legislatore quale suo rappresentante.

Dispositivo dell'art. 1 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto: Sono fonti del diritto : 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) [le norme corporative] ; 4) gli usi.

L'avvento della Costituzione Repubblicana ha innovato al previgente sistema delle fonti in un duplice senso: ha, innanzitutto, aggiunto ulteriori fonti a quelle già contemplate dalla disposizione in esame, rompendo il monopolio legislativo in ossequio alla sua vocazione pluralista; ha, quindi, modificato i criteri che regolano i rapporti tra le fonti. Nel primo senso, sono attualmente fonti di diritto (secondo un'elencazione non tassativa): la Costituzione; le leggi costituzionali di revisione ed integrazione della Costituzione nonché, in genere, le leggi di rango costituzionale (es.: gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale); le leggi ordinarie dello Stato; gli atti normativi del governo (decreti legge e decreti legislativi); il referendum popolare abrogativo; gli Statuti Regionali ordinari, le leggi regionali; le fonti comunitarie; i contratti collettivi di lavoro; i regolamenti governativi, regionali, provinciali, comunali e degli altri enti pubblici; la consuetudine etc. Nel secondo senso, il principio di gerarchia delle fonti (le fonti di grado superiore possono abrogare quelle inferiori ma non possono essere modificate da queste ultime) si è specificato nel senso imposto dalla rigidità della Costituzione attuale: la modificazione o l'abrogazione delle norme costituzionali non può più attuarsi a mezzo della legge ordinaria, ma soltanto secondo la procedura, aggravata da maggioranze qualificate, dettata dalla stessa Costituzione.

Dispositivo dell'art. 4 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto

I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi). I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell'art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.

Interpretazione della legge. Capo II - Dell'applicazione della legge in generale. Dispositivo dell'art. 12 Preleggi: Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società. Può confermare il tenore letterale della norma (i. dichiarativa), oppure può attribuirle un significato più ristretto, limitandone l’ambito di applicabilità (i. restrittiva), o viceversa estenderne il significato, rendendo la norma applicabile a casi che a prima vista non vi sembrano compresi (i. estensiva). Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione (Il legislatore espressamente contempla la possibilità che vi siano fattispecie non previste né risolte da norme giuridiche. Il legislatore prevede, cioè, l'esistenza di lacune le quali devono, tuttavia, essere colmate dal giudice che non può rifiutarsi di risolvere un caso pratico adducendo la mancanza di norme), si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (È questa la c.d. analogia legis, ammissibile soltanto se basata sui seguenti presupposti: a) il caso in questione non deve essere previsto da alcuna norma; b) devono ravvisarsi somiglianze tra la fattispecie disciplinata dalla legge e quella non prevista; c) il rapporto di somiglianza deve concernere gli elementi della fattispecie nei quali si ravvisa la giustificazione della disciplina dettata dal legislatore (eadem ratio); se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato (È questa la c.d. analogia iuris: nel richiamare i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, il legislatore ha inteso, innanzitutto, escludere il ricorso ai principi del diritto naturale. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi vadano identificati in norme ad alto grado di generalità) 

L'Interpretazione giudiziale: Proveniente dai giudici di ogni ordine e grado. Ha valore vincolante solo per il caso concreto ossia per le parti del processo perché è alla base della decisione che le riguarda e alla quale saranno obbligate ad attenersi. Non ha valore nei confronti degli altri giudici, in quanto ogni organo giudicante deve svolgere in piena indipendenza e autonomia la propria funzione.

Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

(È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.

CONSIDERATO CHE

Visto l'art. 7 comma 1 lett. I del DLgs 504/1992;

Visto l'art. 9 comma 8 del Dlgs 23/2011;

Visto l'art. 1 comma 3 del Dl 16/2014;

Visto l'art. 5 del Regolamento per l'applicazione dell'Imposta Municipale Propria, approvato con Delibera del Consiglio Comunale di Avetrana (TA);

Visto l'art. 1 comma 759 e comma 777 della legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019.

Visto l’articolo 1, comma 3 D.L. 16/2014.

Vista la giurisprudenza che sul tema si è pronunciata fissando, ai fini dell'esenzione dai tributi IMU e TASI, la condizione dell'esclusivo possesso e utilizzo del soggetto esente ed ha escluso l'applicabilità di IMU e TASI sugli immobili dati in comodato d'uso ad enti non commerciali;

Visto il mutamento dell'orientamento legislativo in ambito di esenzione IMU e TASI, allargandone i casi oltre al solo possesso degli immobili da parte dei soggetti esenti, estendendone gli ambiti anche ai casi di semplice comodato d'uso.

Accertati i principi previsti dal legislatore a tutela della solidarietà in attuazione dell’art. 2 della Costituzione (dovere di solidarietà) e 3 (principio di uguaglianza).

Vista la finalità sociale e senza fini di lucro dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, come da atto costitutivo, regolamento e iscrizione all'anagrafe delle ONLUS;

Visto il possesso nonché utilizzo esclusivo da parte dell'Associazione Contro Tutte le Mafie (di cui il dott. Antonio Giangrande è presidente) dell'immobile in via Piave 127 (di cui il dott. Antonio Giangrande è usufruttuario), ove ha sede legale e dove svolge le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, così come già attestato con Dichiarazione IMU-TASI del 27 aprile 2015, Prot. Comune Avetrana n. 9708396;

I provvedimenti

-           n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

sono illegittimi e/o infondati per la mancata applicazione dell'esenzione dal tributo IMU e TASI dell'immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA).

CHIEDE

ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, come modificato dall’art. 27 della Legge
18 febbraio 1999, n. 28, che codesto Ufficio riesamini le ragioni del proprio operato e provveda, in autotutela, all’annullamento degli avvisi di accertamento n. 550/2020 e 1240/2020, previa sospensione degli effetti dell'atto e consapevole che questa richiesta non sospende i termini per la proposizione  del ricorso alla Commissione Tributaria. Inoltre

DICHIARA

-           di essere informato che, ai sensi e per gli effetti del Dlgs 196/2003, i dati personali raccolti saranno trattati, anche con strumenti informatici, esclusivamente nell'ambito del procedimento per il quale la dichiarazione viene resa;

-           di essere consapevole che in caso di dichiarazioni false si rendono applicabili le sanzioni civili e penali previste per legge.

DELEGO

alla presentazione di tale richiesta l'Avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, con sede in Avetrana (TA) via Manzoni n. 51, cui allega fotocopia della carta d'identità n° AT1360879 rilasciata il 06/10/2011 dal Comune di Avetrana

 

Allegati:

1)         Avviso di accertamento IMU n. 550 del 17/11/2020;

2)         Avviso di accertamento TASI n. 1240 del 17/11/2020;

3)         Provvedimento iscrizione anagrafe ONLUS dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

4)         Nota di Trascrizione Agenzia del Territorio;

5)         Atto di costituzione dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

6)         Dichiarazione IMU – TASI 2015

7)         Fotocopia carta d'identità del dott. Antonio Giangrande

8)         Fotocopia carta d'identità dell'Avv. Mirko Giangrande

 

Avetrana, lì 12/01/2021

                                 Dott. Antonio Giangrande

 

Avv. Mirko Giangrande

Un calcio all'Imu. Report Rai PUNTATA DEL 18/01/2021di Giulia Presutti, Lorenzo Vendemiale. Coverciano ospita il centro tecnico della Federcalcio, dove si allena la nazionale italiana. Otto ettari tra campi sportivi, un auditorium, un albergo e un ristorante. Su questo gioiellino dal 2007 non viene pagata l'Imu. Federcalcio sostiene di avere diritto all'esenzione per gli enti non commerciali che esercitano attività sportiva e di promozione dello sport. Ma è così? Chi è il vero proprietario del centro tecnico di Coverciano e quali sono le attività che si svolgono all'interno?

“UN CALCIO ALL’IMU” Di Giulia Presutti e Lorenzo Vendemiale.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il 13 novembre 2020 la nazionale italiana è in ritiro. Prepara la partita contro la Polonia. I giocatori si allenano sui campi di Coverciano, la casa degli azzurri.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Il patrimonio di Coverciano è la sua storia, è tutto quello che raccoglie come testimonianze e come memoria storica.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Non è solo Museo del calcio. 8 ettari. 6 campi sportivi. Due da tennis, un auditorium appena inaugurato, un albergo e un ristorante. Su questo gioiellino dal 2007 la Federcalcio non paga l’IMU.

GIULIA PRESUTTI Quanto deve Federcalcio al Comune di Firenze?

GIACOMO PARENTI - DIRETTORE GENERALE COMUNE DI FIRENZE Il calcolo è di 836mila euro, a questo importo ovviamente devono essere aggiunti gli interessi dovuti al mancato pagamento e la cifra totale diciamo supera diciamo il milione di euro.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Essendo il nostro ente un ente non commerciale è evidente che abbiamo diritto a questa esenzione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il presidente Gravina è là dal 2018 e la situazione dell’Imu non versata l’ha ereditata. Anche i suoi predecessori, dal 2007, probabilmente si sono appellati alla legge 504 del ’92, che prevede che per chi esercita un’attività non commerciale ma prettamente sportiva l’ IMU non è dovuta. Ora in realtà l’Imu la paga chi è proprietario di un immobile; per questo il comune di Firenze ha chiesto un milione di euro di arretrati. Ora chi è il proprietario di Casa Italia e poi cosa accade dentro quella casa. La nostra Giulia Presutti e Lorenzo Vendemiale

SPOT LIDL Solo il meglio della frutta e verdura italiana, fresca, sicura. “Buona”.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Anche il ct Mancini si fa portare la spesa a casa. Solo che se la fa portare a casa azzurri. Questo è lo spot della LIDL, premium partner della Nazionale e sponsor della Federcalcio. Lo hanno girato a marzo 2019 proprio sui campi di Coverciano. Poi c’è la 500 X Sport: la Fiat l’ha presentata al centro federale. La Federcalcio negli anni non ha svolto solo attività sportive.

GIACOMO PARENTI - DIRETTORE GENERALE COMUNE DI FIRENZE Dalla verifica che abbiamo fatto la Federcalcio Servizi srl in realtà svolge delle attività di carattere commerciale. Gli immobili a Firenze non sono di proprietà della FIGC ma sono di proprietà di una società a responsabilità limitata che è la Federcalcio Servizi SRL. Poi la Federcalcio Servizi srl concede questi beni diciamo alla FIGC.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Quindi a dovere un milione di euro non è Federcalcio ma la sua SRL, partecipata al 100% e vera proprietaria di tutti gli immobili della Federazione.

RAFFAELLO LUPI - PROFESSORE DIRITTO TRIBUTARIO UNIVERSITÀ DI TOR VERGATA Hanno sdoppiato il titolare della proprietà dell’immobile rispetto all’utilizzatore quindi non c’è stato più l’esercizio diretto di attività sportiva.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Abbiamo costituito una società di capitali che è una società di servizi e tutta la parte patrimoniale noi la abbiamo appostata all’interno di una società di servizi.

GIULIA PRESUTTI I giudici dicono: essendo quella una srl dovete pagare l’IMU.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Per questo siamo andati in contenzioso e per questo ancora oggi non abbiamo una risposta. Aspettiamo la risposta.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il comune di Firenze ha già vinto tre volte in primo grado e due in appello. La motivazione? Nel centro “sono esercitate numerose attività commerciali”. C’è anche una società che gestisce l’accoglienza.

COVERCIANO SPORTLIVING Coverciano buongiorno.

LORENZO VENDEMIALE Vorrei avere informazioni sulla possibilità di prenotare il centro di Coverciano e magari anche l’hotel, per un congresso.

COVERCIANO SPORTLIVING Se lei deve organizzare un convegno qui dentro, se la Federcalcio autorizza poi riceverà, nel caso tutto vada in porto, una fattura per quanto riguarda i nostri servizi.

LORENZO VENDEMIALE Quindi a Coverciano è possibile organizzare eventi anche per esterni?

COVERCIANO SPORTLIVING Certo, sì sì, ne abbiamo fatti, anche diverse volte in passato.

LORENZO VENDEMIALE Lei mi saprebbe dire quali sono i costi?

COVERCIANO SPORTLIVING No, perché noi poi facciamo trattativa privata.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Per diventare allenatore, serve un corso ufficiale UEFA. Si tiene al centro federale e lo organizza la FIGC. All inclusive.

LUCA TONI – EX CALCIATORE – CAMPIONE DEL MONDO Ho fatto i corsi a Coverciano, perché se vuoi allenare in serie A devi fare il UEFA PRO, che per raggiungere il Uefa Pro prima devi fare Uefa B e Uefa A.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Tre anni di corsi obbligatori. Nel 2019 il Uefa PRO l’hanno frequentato calciatori del calibro di Andrea Pirlo e Luca Toni. Dura 12 mesi, con lezioni due volte al mese.

LUCA TONI – EX CALCIATORE – CAMPIONE DEL MONDO Loro ti mettevano a disposizione l’albergo. E tra le lezioni della mattina e del pomeriggio si poteva mangiare lì a Coverciano tutti insieme. GIULIA PRESUTTI E tutta questa organizzazione è gratuita?

LUCA TONI – EX CALCIATORE – CAMPIONE DEL MONDO No no, è a pagamento il corso. Penso che doveva essere sugli 8000 euro.

GIULIA PRESUTTI In cui è inclusa tutta la parte di vitto e alloggio?

LUCA TONI – EX CALCIATORE – CAMPIONE DEL MONDO No no. Ti fanno una convenzione che potevi scegliere solo se dormire oppure fare mezza pensione.

GIULIA PRESUTTI È come un albergo?

 LUCA TONI – EX CALCIATORE – CAMPIONE DEL MONDO Sì sì, è un albergo infatti, Coverciano è un albergo eh…

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Insomma, senza contare il vitto e l'alloggio il corso costa 8000 euro per la prima categoria e 2500 per la seconda. Poi ci sono i corsi per preparatori atletici, 2000 euro in totale; quelli per direttore sportivo, 5000 euro, quelli da osservatore calcistico e match analyst, 2000 euro. Nei bilanci, i ricavi dei corsi sono all’interno della voce “quote di iscrizione”, che nel 2019 ammonta a circa 6 milioni di euro.

GIULIA PRESUTTI Sembra che a Coverciano si svolgano attività commerciali, c’è tutta una struttura ricettiva, si fanno i convegni, vedo che comunque vengono fatti dei corsi.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Sono a pagamento perché i docenti che lavorano non li vogliamo pagare? Il mondo del volontariato sì, ma adesso non tiriamo fuori iniziative che non hanno nulla a che vedere col rispetto delle leggi di mercato. Io devo pensare che se andiamo a Villa Borghese a girare uno spot, Villa Borghese diventa un centro di riferimento commerciale? Cioè scusate…

GIULIA PRESUTTI Ma Villa Borghese non è di una SRL.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Qui il problema non è se l’ente è una società di capitali. Il problema è capire una volta per tutte se è un ente commerciale con fine di lucro o no. Punto. Voi volete capire la questione quando ancora la Cassazione non si è pronunciata?

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO In realtà la Cassazione si è pronunciata più volte. Non ancora su Coverciano, ma sulla sede regionale Figc di Ancona, dove ha obbligato Federcalcio al pagamento dell’IMU. Ed è successo lo stesso a Monza, Milano. La Federazione non voleva pagare nemmeno per il palazzo storico di Via Allegri a Roma, dove si trovano soltanto uffici.

GIULIA PRESUTTI Persino su questa sede dove lei viene a lavorare, c’è stato un contenzioso e la Cassazione vi ha dato sempre torto. Quindi perché insistete?

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Perché riteniamo che sia un principio sbagliato.

GIULIA PRESUTTI Volete sancire come principio il fatto che a Coverciano non dovete pagare.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO Nella maniera più assoluta. GIULIA PRESUTTI Quindi voi come la Chiesa non dovete pagare l’IMU.

GABRIELE GRAVINA - PRESIDENTE FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO No io non sono la Chiesa. Il contenzioso è in atto, noi ci difenderemo in tutte le sedi. Nel frattempo ci siamo garantiti, con il massimo rispetto delle norme italiane, abbiamo istituito un fondo rischi. Noi se dobbiamo pagare pagheremo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il presidente Gravina è un galantuomo. Siamo certi che se le sentenze confermeranno, sanerà il dovuto. Del resto ha accantonato anche lui per questo. E poi va dato merito che ha cercato comunque un accordo con il comune di Firenze. Per ora è andata a vuoto, ma insomma siamo alle schermaglie. Ma al di là di tutto questo la Federcalcio ha una ambizione, quella di sancire che gli impianti e i terreni sportivi, ad esercizio sportivo, dovrebbero essere esenti da imposte. Ambirebbe cioè a cambiare l’attuale classificazione al catasto D6 di Coverciano, che è “FABBRICATI E LOCALI PER ESERCIZI SPORTIVI” e che sottintende lo scopo di lucro. Ecco, se così fosse, però se dovesse passare questo principio, i corsi per gli allenatori a pagamento e tutti i servizi erogati, chi li gestirebbe, e soprattutto dove si svolgerebbero?