Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Insicurezza.

Da Sensi a Sirigu e Vidal: i calciatori derubati (mentre sono in campo). Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. L’ultima vittima in ordine di tempo è stata Stefano Sensi: il centrocampista dell’Inter e della Nazionale era in campo, domenica pomeriggio allo stadio Meazza di Milano, contro il Torino. E nel frattempo i ladri gli hanno svaligiato casa, in zona Gae Aulenti, non lontano dal complesso del «Bosco verticale». Bottino cospicuo: 700 mila euro tra gioielli, orologi e borse della compagna del calciatore, l’influencer Giulia Amodio, seguita passo passo su Instagram, anche mentre posta innocui «scatti» dal salotto, da circa 135 mila follower. Ma l’elenco dei calciatori bersagliati dai furti proprio mentre giocano è interminabile, sia in Italia che all’estero.

Per stare alla Serie A, quest’ultima giornata, la diciannovesima, ha visto addirittura, oltre a Sensi, altri due giocatori derubati, tra l’altro entrambi a Genova. Uno è Salvatore Sirigu, portiere del Genoa e — sia pure restando quasi sempre in panchina — fresco campione d’Europa. L’altro è lo svedese Albin Ekdal, centrocampista della Sampdoria. Sempre lo stesso, il «film» dei furti: domenica è stato il blucerchiato, al rientro dal match contro il Venezia finito 1-1 a Marassi, ad accorgersi che la sua villetta a Quarto era stata messa a soqquadro. I malfattori gli hanno portato via alcune migliaia di euro, tra gioielli e apparecchiature hi-tech per la cura del corpo. Due giorni prima i ladri sono entrati a casa di Sirigu, al quartiere di Albaro. Rincasato da Roma, dopo la sconfitta per 3-1 contro la Lazio, il «numero 1» rossoblù ha trovato gli armadi aperti e i cassetti rovesciati. I ladri «acrobati», noti a Genova per le decine di colpi messi a segno e forse gli stessi in azione da Ekdal, seguendo sempre lo stesso copione (l’arrampicata sulle tubature esterne per poi forzare infissi e porte), hanno portato via anelli e braccialetti, fuggendo senza lasciare traccia.

«È troppo facile colpire i giocatori, sono inevitabilmente sovraesposti: di loro, tutti sanno tutto» allarga le braccia Umberto Calcagno, genovese di Chiavari, 51 anni, laurea in Legge, un passato di centrocampista nella Samp scudettata di Vialli e Mancini e oggi presidente dell’Associazione Italiana Calciatori e vicepresidente Figc. Per svaligiare le case dei campioni, «ma anche quelle di giocatori che militano nelle serie minori, ugualmente presi di mira», osserva Calcagno, non c’è nemmeno bisogno di un basista: «Per sapere cosa fanno e dove sono basta sfogliare un qualunque calendario che riporta gli orari delle partite e attrezzarsi per il colpo». Ciò che probabilmente deve aver fatto la banda che lo scorso 9 dicembre ha svuotato la villa dell’atalantino Luis Muriel, quella sera impegnato in Champions contro il Villareal. Rientrando dopo la sconfitta e l’eliminazione ha trovato il suo appartamento, in Città Alta a Bergamo, messo sottosopra e i suoi dodici orologi (Rolex e Patek Philippe sempre ben messi in mostra nelle foto ufficiali) scomparsi.

Un mese prima, il 7 novembre, era successo lo stesso ad Arturo Vidal, centrocampista dell’Inter. Mentre il cileno era impegnato nel derby, i ladri — tra le 20.45 e le 21.15 — gli hanno portato via pure un fuoristrada Mercedes da 400 mila euro lasciato nel parco macchine assieme a una Ferrari rimasta lì solo perché non sono stati capaci di accenderla. Nella sua bella villa a Como tra l’altro aveva abitato anche l’ex bomber nerazzurro Adriano, pure lui vittima dei ladri nel 2008. All’estero la musica non cambia: a Reece James del Chelsea, impegnato contro i russi dello Zenit, a settembre hanno rubato tutti i trofei custoditi in cassaforte. Il caso peggiore ha riguardato, a Marzo, Angel Di Maria, argentino del Paris Saint-Germain: mentre era in campo contro il Nantes è stato il suo allenatore Mauricio Pochettino — ripreso in diretta dalle telecamere — a dirgli che i ladri gli erano piombati in casa sequestrando moglie e figli. «Corri da loro, subito» gli ha intimato il mister. E lo ha sostituito.

Sui calciatori rapinati e derubati leggi anche

Rapinato di nuovo il calciatore Totò Di Natale Napoli, rapinato Ounas. I ladri lo sorprendono sotto casa Ladri nella villa di Arturo Vidal durante il derby In 48 ore i ladri svaligiano le case di Sirigu (Genoa) e di Ekdal (Samp) Stefano Sensi, furto in casa del calciatore dell’Inter Parigi, furti e rapine in casa: il Psg paga guardie private per difendere i suoi campioni Atalanta, ladri a casa di Muriel durante la partita

Da leggo.it il 27 dicembre 2021. Era impossibile dalla cabina del mezzo agricolo che si potessero vedere o sentire persone nascoste dalle pannocchie di mais che, in quei giorni, erano diventate alte ben oltre 2 metri. Con questa motivazione, frutto delle consulenze disposte durante le indagini, la procura di Lodi ha chiesto l'archiviazione per il trattorista di 28 anni che, il 3 luglio scorso, investì e uccise, in un campo di mais di San Giuliano Milanese, Sara El Jaafari, 28 anni, e Hanan Nekhla, 32, due ragazze che vi avevano trascorso la nottata con alcuni amici. Il ventottenne era indagato per duplice omicidio colposo. Contestualmente, sono stati notificati gli avvisi di fine indagine a chi si ritiene si trovasse nel campo con le vittime prima della tragedia e che sarebbe poi fuggito, dopo l'investimento, senza chiedere aiuti o attivando soccorsi. Dagli accertamenti successivi al fatto, emerse infatti che le due giovani si trovavano in compagnia di altre persone, fuggite per la paura quando il mezzo agricolo, usato per spargere fitofarmaci, era loro improvvisamente piombato addosso. La più giovane delle due vittime, Sara El Jaafari, dopo essere stata investita la mattina del 2 luglio (e non il 3 come scritto in precedenza) era riuscita a lanciare un sos al 112 spiegando che entrambe erano state travolte da una mietitrebbia, ma morì prima che potessero essere rintracciate. Cosa che avvenne solo la sera del giorno dopo, sabato 3 luglio.

La tragedia del pescivendolo, la famiglia smentisce: "Nessuna raccolta fondi". Ucciso mentre bucava le ruote ai rapinatori, il dolore della madre di Tonio e il ricordo: “Eroe fino alla fine”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Dicembre 2021. “Guardatelo bene quest’uomo, se qualcuno fosse andato da lui e gli avrebbe detto non ho la possibilità di fare la spesa per il Natale lui gli avrebbe dato tutto il necessario. Non immaginate il grande cuore e la generosità che aveva”. E’ solo uno dei tanti messaggi che in questi tristi giorni natalizi ricordano Antonio Morione, per tutti ‘Tonio‘, il pescivendolo (marito e padre di tre figli, la più piccola ha 13 anni) ucciso la sera del 23 dicembre mentre bucava le ruote all’auto dei rapinatori entrati in azione nella sua pescheria, “Il Delfino”, a Boscoreale, comune dell’area vesuviana in provincia di Napoli.

Mentre proseguono senza sosta le indagini dei carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata per chiudere quanto prima il cerchio intorno ai tre banditi entrati in azioni a bordo di un’auto, ritrovata dopo alcune ore bruciata nei pressi delle case popolari della zona Piano Napoli, sempre a Boscoreale, la sera della vigilia è andata in scena una veglia all’esterno della pescheria in via Giovanni Della Rocca.

Numerosi i cittadini che hanno ricordato il pescivendolo ammazzato con un colpo al volto. Messaggi, fiori, lumini per ribadire che la parte sana è stanca dell’escalation di criminalità che da tempo affligge diverse aree della provincia e della città napoletana. Nei prossimi giorni ci sarà un vertice in Prefettura per fare il punto della situazione e trovare, si spera, nuove contromisure per presidiare nel miglior modo possibile il territorio.

Il dolore della mamma: “Mio figlio abbandonato dalla legge”

A parlare nelle scorse ore è stata anche la mamma di Tonio. “Mio figlio era un commerciante onesto che la legge ha abbandonato a se stesso” ha affermato la signora Ernesta ai microfoni di Rado Rai. “Mezz’ora prima del fatto l’altro mio figlio, Giovanni, aveva subito una rapina, lo stesso era stato rapinato anche l’anno scorso, sempre nel mese di dicembre”. Su un bigliettino lasciato accanto a un fascio di rose davanti alla serranda della pescheria c’è scritto: “Sei morto per difendere il frutto del tuo lavoro. Spero che chi ha fatto ciò, paghi”.

Smentita la raccolta fondi per la famiglia di Tonio: “Vergognatevi”

Intanto sempre sui social alcune persone vicine alla famiglia di Antonio precisano che non è stata organizzata alcuna raccolta fondi per aiutare la famiglia del commerciante. “Portate rispetto al dolore di questa famiglia ma soprattutto portate rispetto ad Antonio, vergognatevi” c’è scritto in un post che smentisce la raccolta lanciata sulla piattaforma GoFundMe e cancellata dopo alcune ore.

Il messaggio: “Eroe fino all’ultimo”

Struggente il messaggio di Ilaria: “Mi hai cresciuta come una figlia, perché per te ero un altra figlia. Non dimenticherò mai quando mi chiamavi “Loredà”, solo tu mi potevi chiamare così. È ora dove sei? Non ci sei più per colpa di merde (perché solo così possono essere chiamati, “animali per loro è troppo”), penserò sempre alle nostre chiacchierate nel furgone prima di andare a lavoro, a quando dicevi “s nun m fai u nupot maschij sient (se non mi fa un nipote maschia mi arrabbio, ndr)” e non dimenticherò mai le ultime parole che mi hai detto prima dell’accaduto. Sarai sempre nei nostri Tonio Morione. Eroe fino all’ultimo”.

La ricostruzione della notte di sangue delle pescherie

Hanno prima rapinato la pescheria del fratello, sempre a Boscoreale (Napoli), portando via un incasso cospicuo, poi dopo pochi minuti, intorno alle 21.45 di giovedì 23 dicembre, sono arrivati a bordo di un’auto all’esterno della pescheria “Il delfino” di Antonio Morione. Un uomo è sceso dall’auto armato di pistola mentre gli altri due complici sono rimasti all’interno del veicolo con il motore acceso e pronti alla fuga. Qualcosa però è andato storto perché mentre il bandito intimava la consegna dei soldi, Morione, 41enne originario di Torre Annunziata che probabilmente era già a conoscenza della rapina subita dal fratello, si trovava all’esterno della pescheria: ha impugnato un coltello e iniziato a squarciare una ruota dell’auto.

Il rapinatore armato di pistola per guadagnare la fuga ha esploso quattro colpi, uno ha centrato in pieno volto il pescivendolo stramazzato al suolo agonizzante tra le urla delle persone presenti, una decina in tutto tra clienti e familiari (presenti anche la moglie e i figli). Mentre il commando fuggiva, sono stati allertati i soccorsi e poco dopo in via Giovanni Della Rocca è arrivata un’ambulanza e una gazzella dei carabinieri della locale stazione di Boscoreale.

“Tonio“, così come veniva chiamato da parenti ed amici, è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia dove è deceduto poco dopo in seguito alle gravi ferite riportate.

Una cittadina sconvolta quella di Boscoreale, distrutta dal dolore per l’inspiegabile morte di un commerciante molto conosciuto e apprezzato. Insieme al papà, scomparso nel novembre 2020, gestiva la pescheria da anni. Il fratello, Giovanni Morione, gestiva invece un’altra pescheria, “La Rosa dei Venti” in via Armando Diaz dove i rapinatori (probabilmente gli stessi) hanno realizzato il primo colpo, sparando una volta probabilmente per guadagnare la fuga.

Gli inquirenti infatti non escludono che la banda entrata in azione in via Giovanni Della Rocca, possa essere la stessa che poco prima aveva preso di mira la pescheria del fratello di Tonio. Un elemento che fortifica questa ipotesi è il fatto che sul posto sia stato recuperato il bossolo di un colpo esploso dai malviventi durante la fuga è risultato dello stesso calibro 9×21 dei quattro sparati all’indirizzo di Antonio Morione. Le indagini sono affidate ai carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata e coordinate dalla procura oplontina guidata da Nunzio Fragliasso. Al vaglio anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona.

Le indagini si indirizzano nella zona delle case popolari del Piano Napoli dove nella notte è stata ritrovata un’auto bruciata, probabilmente quella utilizzata per effettuare le rapine in una notte, come quella del 23 dicembre, dove le pescherie lavorano fino a notte fonda perché l’afflusso di clienti in vista del cenone della vigilia e del pranzo di Natale è considerevole, così come l’incasso.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da napolitoday.it il 27 dicembre 2021. Tanta commozione nella veglia di Natale in memoria di Antonio Morione, il pescivendolo ucciso a Boscoreale nella serata tra il 23 e il 24 dicembre. Decine di persone hanno deposto fiori e lumini davanti alla pescheria dove è avvenuta la tragedia. Sgomento nel paese per la fine violenta del 41enne stimato e conosciuto da tutti come un grande lavoratore e padre di famiglia. I rapinatori, a volto coperto, lo hanno freddato con dei colpi di pistola alla testa, dopo che quest'ultimo aveva reagito. 

Indagini dei carabinieri e la reazione della madre della vittima

Proseguono le indagini dei carabinieri, che continuano a setacciare il territorio alla ricerca di indizi che possano far risalire ai tre rapinatori. "Mio figlio era un commerciante onesto che la legge ha abbandonato a se stesso", è stato lo sfogo al giornale radio Rai di Ernesta, madre della vittima. "Mezz'ora prima del fatto l'altro mio figlio, Giovanni, aveva subito una rapina ed era stato rapinato anche l'anno scorso, sempre nel mese di dicembre". Al momento le testimonianze dei presenti non hanno consentito di risalire agli autori del raid. I carabinieri hanno anche acquisito le immagini dei sistemi di videosorveglianza della zona. Ieri è stata ritrovata un'auto incendiata nel Piano Napoli di Boscoreale e si sospetta che possa essere quella utilizzata dai malviventi. 

Antonio Morione come Maurizio Cerrato, il pescivendolo ucciso per difendere figlia e nuora: “Pistola puntata in faccia”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 28 Dicembre 2021. Continua la caccia ai killer di Antonio Morione, il 41enne pescivendolo ucciso la sera del 23 dicembre scorso nel corso di una rapina all’esterno della sua attività commerciale a Boscoreale, comune in provincia di Napoli. Indagini serrata da parte dei carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata che stanno setacciando da giorni la zona, anche con l’aiuto di un elicottero, per rintracciare i tre occupati di una Fiat 500 di colore bianco utilizzata (e poi bruciata) per realizzare più colpi, a partire dalla rapina alla prima pescheria (“La rosa dei venti”) gestita da Giovanni, fratello di Morione.

Nelle scorse ore, attraverso le parole di Marco Izzo, legale della famiglia di “Tonio”, è emerso un ulteriore particolare su quei drammatici attimi. Il 41enne è stato ucciso perché colpito al volto da uno dei quattro proiettili esplosi da un rapinatore che lo aveva sorpreso a squarciare, armato di coltello, le ruote della vettura. Un gesto probabilmente nato per impedire la fuga.

Morione al momento della rapina si trovava all’esterno della pescheria. Ha visto scendere uno dei banditi e ha impugnato un coltello per bucare le ruote “dopo aver visto la pistola puntata in faccia alla figlia e alla nuora, due ragazze, entrambe minorenni, che stavano lavorando in pescheria. Voleva difendere loro, non l’incasso”. Queste le parole del legale Izzo riportate dal quotidiano Il Mattino. Difendere la sua famiglia e le persone che quella sera (il 23 dicembre è una delle giornate più proficue per le pescherie napoletane che lavorano fino a tarda notte in vista della vigilia e del pranzo natalizio) erano presenti, oltre una decina tra familiari e clienti.

“Eroe fino all’ultimo“. Così è stato definito il 41enne da diversi conoscenti. Un gesto per difendere la sua famiglia da quei banditi che poco prima, e probabilmente Tonio già ne era a conoscenza, avevano rapinato e portato via l’incasso della pescheria del fratello. Nelle prossime ore verrà effettuata l’autopsia, disposta dalla procura di Torre Annunziata guidata da Nunzio Fragliasso. Poi la salma verrà restituita ai familiari per i funerali che dovrebbero svolgersi entro la fine di questa settimana con i comuni di Torre Annunziata (città natale di Morione) e Boscoreale che hanno disposto il lutto cittadino.

Intanto oggi è previsto un incontro in Prefettura tra il prefetto Claudio Palomba e i rappresentanti del Comitato di liberazione dalla camorra e dal malaffare di Torre Annunziata, nato dopo un altro drammatico omicidio, quello di Maurizio Cerrato, il papà picchiato e ucciso con una coltellata dopo essere intervenuto, anche lui come Morione, per difendere la figlia per una questione relativa a un parcheggio in strada occupato con una sedia. 

Al prefetto verrà chiesta maggiore presenza delle forze dell’ordine sul territorio oltre alle telecamere pubbliche, assenti in molte zone. Basti pensare che per ricostruire il percorso dei tre rapinatori, i carabinieri hanno acquisito le immagini di videsorveglianza di diverse attività commerciali di Boscoreale.

La pescheria “Il Delfino” è stata aperta nella giornata di lunedì 27 dicembre per poche ore. Dopo la veglia dei giorni scorsi, con tanto di lumini, fiori e dediche per “Tonio“, la moglie e i tre figli del pescivendolo ucciso hanno rialzato la serranda dell’attività di famiglia, donando tutto il pesce ancora disponibile alla mensa dei poveri di Torre Annunziata.

Polemiche, superflue, per la scarsa partecipazione avvenuta a un flash mob organizzato nella giornata di lunedì in piazza Pace. Appena una ventina le persone presenti, tra cui l’attivista Daniela Lourdes Falanga (presidente di Arcigay Napoli). “Non c’è stata nessuna paura di ribellarsi a quanto accaduto” precisa numerosi cittadini di Boscoreale. “Non ne sapevamo nulla, l’evento è stato poco pubblicizzato” fanno sapere sui social. 

Una nuova iniziativa è in programma alle 16 di martedì 28 dicembre presso l’associazione “La Stazione – Stella Cometa” in via Giovanni della Rocca, luogo dove si trova la pescheria Il Delfino. “Stamattina (ieri, ndr) una delegazione del comitato cittadino è stata ricevuta dal sindaco, informando lo stesso che sul territorio si sta creando una rete tra associazioni e liberi cittadini per istituire un presidio di legalità” fa sapere l’associazione.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

La tragedia di Boscoreale. Pescivendolo ucciso, il messaggio del figlio: “Ultimo saluto a papà prima dei funerali davanti alla pescheria”. Fabio Calcagni su Il Riformista il  29 Dicembre 2021.

L’ultimo saluto a Antonio Morione. Si terranno oggi pomeriggio alle 16:30, presso il santuario dello Spirito Santo (conosciuto anche come chiesa del Carmine) a Torre Annunziata (Napoli) i funerali del titolare della pescheria ‘Il Delfino’ di Boscoreale ucciso la sera del 23 dicembre durante una sparatoria seguita ad un tentativo di rapina avvenuta nella sua attività commerciale.

In occasione dei funerali e “interpretando il sentimento dell’intera comunità e in segno di profondo cordoglio per la drammatica e prematura scomparsa” di Antonio, il sindaco di Torre Annunziata Vincenzo Ascione ha proclamato il lutto cittadino.

Funerali che, scrive Il Mattino, dovrebbero essere celebrati dall’arcivescovo di Napoli monsignor Domenico Battaglia, insieme a don Pasquale Paduano.

Ma prima dei funerali Antonio farà un ultimo passaggio davanti alla sua pescheria, lì dove ha perso la vita. Ad annunciarlo è  stato il figlio: “Per chi volesse salutare papà, passeremo davanti alla pescheria alle 14, dopodiché ci sarà il funerale alla Chiesa dello Spirito Santo. Io e la mia famiglia – è il messaggio del figlio di Antonio – ringraziamo tutte le persone che ci sono state accanto in questi giorni”.

L’INCHIESTA – Intanto non si fermano le indagini e la caccia ai killer di Morione. I carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata che stanno setacciando da giorni la zona, anche con l’aiuto di un elicottero, per rintracciare i tre occupati di una Fiat 500 di colore bianco utilizzata (e poi bruciata) per realizzare più colpi, a partire dalla rapina alla prima pescheria (“La rosa dei venti”) gestita da Giovanni, fratello di Morione.

Nelle scorse ore, attraverso le parole di Marco Izzo, legale della famiglia di “Tonio”, è emerso un ulteriore particolare su quei drammatici attimi. Il 41enne è stato ucciso perché colpito al volto da uno dei quattro proiettili esplosi da un rapinatore che lo aveva sorpreso a squarciare, armato di coltello, le ruote della vettura. Un gesto probabilmente nato per impedire la fuga.

Morione al momento della rapina si trovava all’esterno della pescheria. Ha visto scendere uno dei banditi e ha impugnato un coltello per bucare le ruote “dopo aver visto la pistola puntata in faccia alla figlia e alla nuora, due ragazze, entrambe minorenni, che stavano lavorando in pescheria. Voleva difendere loro, non l’incasso”. Queste le parole del legale Izzo riportate dal quotidiano Il Mattino.

Difendere la sua famiglia e le persone che quella sera (il 23 dicembre è una delle giornate più proficue per le pescherie napoletane che lavorano fino a tarda notte in vista della vigilia e del pranzo natalizio) erano presenti, oltre una decina tra familiari e clienti.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

 Il primo colpo nella pescheria del fratello: trovata un'auto bruciata nella notte. Pescivendolo ucciso, Tonio ammazzato da un colpo in faccia mentre bucava le ruote ai rapinatori. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 24 Dicembre 2021. Hanno prima rapinato la pescheria del fratello, sempre a Boscoreale (Napoli), portando via un incasso cospicuo, poi dopo pochi minuti, intorno alle 21.45 di giovedì 23 dicembre, sono arrivati a bordo di un’auto all’esterno della pescheria “Il delfino” di Antonio Morione. Un uomo è sceso dall’auto armato di pistola mentre gli altri due complici sono rimasti all’interno del veicolo con il motore acceso e pronti alla fuga. Qualcosa però è andato storto perché mentre il bandito intimava la consegna dei soldi, Morione, 41enne originario di Torre Annunziata che probabilmente era già a conoscenza della rapina subita dal fratello, si trovava all’esterno della pescheria: ha impugnato un coltello e iniziato a squarciare una ruota dell’auto.

Il rapinatore armato di pistola per guadagnare la fuga ha esploso quattro colpi, uno ha centrato in pieno volto il pescivendolo stramazzato al suolo agonizzante tra le urla delle persone presenti, una decina in tutto tra clienti e familiari (presenti anche la moglie e i figli). Mentre il commando fuggiva, sono stati allertati i soccorsi e poco dopo in via Giovanni Della Rocca è arrivata un’ambulanza e una gazzella dei carabinieri della locale stazione di Boscoreale.

“Tonio“, così come veniva chiamato da parenti ed amici, è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia dove è deceduto poco dopo in seguito alle gravi ferite riportate.

Una cittadina sconvolta quella di Boscoreale, distrutta dal dolore per l’inspiegabile morte di un commerciante molto conosciuto e apprezzato. Insieme al papà, scomparso nel novembre 2020, gestiva la pescheria da anni. Il fratello, Giovanni Morione, gestiva invece un’altra pescheria, “La Rosa dei Venti” in via Armando Diaz dove i rapinatori (probabilmente gli stessi) hanno realizzato il primo colpo, sparando una volta probabilmente per guadagnare la fuga.

Gli inquirenti infatti non escludono che la banda entrata in azione in via Giovanni Della Rocca, possa essere la stessa che poco prima aveva preso di mira la pescheria del fratello di Tonio. Un elemento che fortifica questa ipotesi è il fatto che sul posto sia stato recuperato il bossolo di un colpo esploso dai malviventi durante la fuga è risultato dello stesso calibro 9×21 dei quattro sparati all’indirizzo di Antonio Morione. Le indagini sono affidate ai carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata e coordinate dalla procura oplontina guidata da Nunzio Fragliasso. Al vaglio anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona.

Le indagini si indirizzano nella zona delle case popolari del Piano Napoli dove nella notte è stata ritrovata un’auto bruciata, probabilmente quella utilizzata per effettuare le rapine in una notte, come quella del 23 dicembre, dove le pescherie lavorano fino a notte fonda perché l’afflusso di clienti in vista del cenone della vigilia e del pranzo di Natale è considerevole, così come l’incasso.

“Voglio lanciare un appello a questi barbari: come potete guardare negli occhi le vostre mogli o fidanzate e i vostri figli, se li avete, sapendo di aver ucciso davanti ai figli e la moglie un onesto lavoratore nei giorni più belli dell’anno dedicati alla famiglia?”. E’ quanto dichiara il sindaco di Boscoreale, Antonio Diplomatico, rivolgendosi ai rapinatori che ieri sera hanno ucciso Antonio Morione. “Questi atti criminali – aggiunge Diplomatico – vanno condannati con la massima fermezza, e richiedono una vigorosa risposta delle istituzioni ad ogni livello. Per la comunità di Boscoreale questo Natale sarà molto triste, ed invito i miei concittadini ad un momento di riflessione e di preghiera in memoria di questa giovane vittima”. Diplomatico conclude esprimendo “a nome personale, di tutta l’amministrazione comunale e della comunità boschese profondo cordoglio e sentimenti di vicinanza alla famiglia di Antonio Morione” e “fiducia nell’operato della magistratura e delle forze dell’ordine, sicuro che sollecitamente assicureranno alla giustizia i delinquenti autori dello spietato omicidio”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Le fantastiche 4. Report Rai PUNTATA DEL 27/12/2021 di Roberto Persia 

Il business dietro la manutenzione delle scale mobili.

Nelle metropolitane di tutto il mondo, nei centri commerciali e negli aeroporti le scale mobili muovono 3 miliardi e mezzo di persone ogni giorno che si spostano su 800.000 impianti. Una volta installate, la partita che si gioca sui bandi delle pubbliche amministrazioni è quella della manutenzione: vale molti milioni di euro. Soldi che dovrebbero garantire la sicurezza dei passeggeri, ma che fanno i conti con la struttura oligopolistica di questo mercato. I ritardi nella fornitura di pezzi di ricambio sono soltanto la punta di un iceberg fatto di medie e grandi aziende che tendono ad assumere un atteggiamento autoprotettivo a discapito della clientela. Così i fermi degli impianti si prolungano e il disagio per l'utenza aumenta.

LE FANTASTICHE 4 di Roberto Persia ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Con 1 milione di unità l’Italia è il secondo paese al mondo per numero di ascensori dietro soltanto alla Cina, e abbiamo il record della scala mobile più lunga d’Europa, è a Potenza e misura 430 metri

MARIO GUARENTE- SINDACO DI POTENZA Nel 2010 sono state inaugurate e sono costate 14 milioni di euro Il costo complessivo di manutenzione in senso lato è di circa 2 milioni di euro l’anno.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO È proprio la manutenzione la gallina dalle uova d’oro delle multinazionali. Il mercato globale delle sale mobili vale oltre 63 miliardi di euro e con un fatturato di oltre 38 miliardi di euro nel 2020, Otis Elevator company, Schindler Group, Kone e Thyssenkrupp Elevator ne sono i leader; ma il vero business è nella manutenzione, secondo un report di Credit Swisse: infatti rappresenta il 47% delle vendite totali del settore e il 74% dei suoi profitti. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Con un milione di ascensori siamo secondi solo alla Cina. Non stiamo neppure messi male come scale mobili: 10.000. Buonasera, però abbiamo capito dalla piccola anticipazione che la vera gallina dalle uova d’oro è la manutenzione. Quali sono le problematiche connesse alla manutenzione lo abbiamo capito però nel 2018, quando alcuni tifosi di una squadra di calcio il CSKA di Mosca sono stati inghiottiti nel crollo della scala mobile nella metropolitana di Roma, quelle immagini hanno fatto il giro del mondo. Secondo la procura che ha indagato la causa è la manomissione dei dispositivi di sicurezza e anche una mancata manutenzione. A rincarare la dose è stata anche una relazione del ministero dei Trasporti, che analizzando proprio questo tema della manutenzione, ha detto ci sono poche aziende che vanno in modalità di autotutela, auto protezione, questo a discapito della clientela. Quello della manutenzione è un tema importante, è finito anche sul tavolo dell’antitrust europeo. Ma con quali conseguenze? Il nostro Roberto Persia.

ROBERTO PERSIA Come funziona il mercato dei pezzi di ricambio delle scale mobili?

DIPENDENTE ATAC Le 4 multinazionali che producono i pezzi di ricambio agiscono da una posizione di forza: ti possono dire che oggi i pezzi li paghi 10 o domani li paghi 20 più iva. E poi in caso di somma urgenza vengono chiamate sempre le stesse ditte. Se le 4 aziende produttrici di pezzi di ricambio decidono di non fornirteli, poi finisce che succede quello che è successo a Repubblica.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO La ricaduta della strategia delle multinazionali è duplice

FRANCESCO TRAMARIN- AMMINISTRATORE UNICO TFA ELEVATORI S.R.L. In primis a carico dell'utente, perché comunque si trova ad avere degli impianti meno sicuri e ad avere dei costi maggiori: un pezzo di un impianto di multinazionale può costare 2-3 volte di più.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Nella metropolitana di Roma dopo un anno ha riaperto la fermata di Castro Pretorio. Il 24 dicembre 2021 è toccato a Policlinico chiusa da Novembre 2020

MARGHERITA CANTELLI- COORDINATRICE NAZIONALE POTERE AL POPOLO La motivazione è stata per la manutenzione delle scale mobili. La domanda però che noi ci poniamo è: ci vuole così tanto tempo per effettivamente cambiare, sostituire queste scale mobili? ROBERTO PERSIA Ci sono stati problemi anche per la fornitura dei pezzi?

EUGENIO PATANÈ- ASSESSORE ALLA MOBILITA’ ROMA Guardi mi hanno raccontato che c’è stato anche questo. Io purtroppo è da 50 giorni che sono assessore quindi..

ROBERTO PERSIA A luglio 2021 Atac dichiara 173 impianti di traslazione fermi

EUGENIO PATANÈ- ASSESSORE ALLA MOBILITA’ ROMA Una cosa molto importante è che noi dovremo certamente migliorare, perché non è possibile che noi continuiamo con il 25% di impianti di traslazione fermi Tu sai quando un impianto di traslazione arriva a fine vita e non devi farlo arrivare a fine vita per programmare la sua manutenzione.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Nel 2007 la commissione europea ha condannato Otis, Schindler, Thyssenkrupp e Kone ad una multa di 992 milioni di euro: si tratta della seconda sanzione più pesante mai emessa per la fissazione dei prezzi. I paesi maggiormente colpiti dal cartello sono stati Belgio, Germania, Lussemburgo e Olanda. Le aziende formavano un cartello che si spartiva anche le quote per la manutenzione. Il commissario europeo alla concorrenza di allora, Neelie Kroes, disse che il danno sarebbe durato per molti anni.

DARIO DE LUCA SINDACO DI POTENZA DAL 2014-2019 Non c’è verso di avere questi materiali per canali ordinari, non esiste un mercato vero e proprio dei pezzi di ricambio.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO A Torino la Otis si è assicurata i suoi impianti nella metropolitana. Dal 2014 al 2020 ne ha gestito la manutenzione.

ROBERTO PERSIA A quali cifre?

ALDO CURATELLA CONSIGLIERE COMUNALE DAL 2016 AL 2021- TORINO il bando complessivamente sui 6 anni era intorno agli 8 milioni e tre.

ROBERTO PERSIA Il bando è scaduto nel 2020.

ALDO CURATELLA CONSIGLIERE COMUNALE DAL 2016 AL 2021- TORINO La città ha deciso di fare un nuovo bando questa volta il bando è stato vinto da una azienda che si chiama Marrocco.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO E non sono garantiti tempi certi di intervento per la mancanza di una scorta di pezzi di ricambio

ALDO CURATELLA CONSIGLIERE COMUNALE DAL 2016 AL 2021- TORINO La dilatazione dei tempi nasce in modo naturale nel momento in cui non ho un componente a disposizione perché nel precedente bando erano indicati anche i tempi di approvvigionamento dei componenti.

ROBERTO PERSIA Come può essere definita questa pratica di mercato?

MICHELE TAMPONI- PROF. DIRITTO COMMERCIALE LUISS GUIDO CARLI Fidelizzazione esasperata, che rende però il cliente prigioniero di una determinata tecnologia, oppure dell'impegno di approvvigionarsi dei prodotti di consumo da quel fornitore

FRANCESCO TRAMARIN- AMMINISTRATORE UNICO TFA ELEVATORI S.R.L. Il loro obiettivo è quello della concentrazione di mercato per non avere concorrenza, vanno ad acquisire le piccole e medie aziende. Tu magari sei proprietario di una scala mobile, dici voglio cambiare azienda, arriva magari la pinco pallino, però se ti vai a fare una visura camerale ROBERTO PERSIA Scopro che dentro c’è Otis, magari.

FRANCESCO TRAMARIN- AMMINISTRATORE UNICO TFA ELEVATORI S.R.L. Scopri che dentro c’è Otis, ma piuttosto che una azienda media.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO …e noi le visure le abbiamo fatte: Otis Italia è del gruppo Cypress che partecipa a numerose altre aziende del settore che si occupano di installazione e manutenzione di ascensori e scale mobili. Mentre la Schindler SPA direttamente o per il tramite di un’altra società partecipa a 23 aziende e la Kone SPA a 22. Attraverso queste partecipazioni a crescere non è solo il fatturato delle multinazionali, ma soprattutto il loro portafoglio di clienti in tutta Italia.

MICHELE TAMPONI- PROF. DIRITTO COMMERCIALE LUISS GUIDO CARLI L'acquisizione diventa killer nel momento in cui essa avviene allo scopo pressoché esclusivo di togliere quel potenziale concorrente dal mercato. In questo caso potrebbe finire sotto la lente dell'Antitrust.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Le scale mobili ad Assisi dove gli impianti collegano i parcheggi di Mojano e porta nuova con il centro della città, erano state costruite da una azienda italiana

STEFANIA PROIETTI- SINDACA ASSISI La scala mobile risale ad oltre, ad almeno 30 anni fa. E da quello che sappiamo le scale furono costruite dalla FIAM. ROBERTO PERSIA È ancora un’azienda italiana a tutti gli effetti?

STEFANIA PROIETTI- SINDACA ASSISI Da quello che sappiamo no, perché è stata acquisita dalla Kone

ROBERTO PERSIA Nel parcheggio di Mojano il comune di Assisi a chi si è affidato per la costruzione delle scale mobili?

STEFANIA PROIETTI- SINDACA ASSISI Le scale mobili, parte meccanica sono state costruite, fornite da Kone.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Nel quartiere del Vomero a Napoli le scale mobili intermodali, per un progetto di città obliqua, dovevano servire a creare un’alternativa all’utilizzo delle automobili.

GENNARO CAPODANNO- PRESIDENTE DEL COMITATO VALORI COLLINARI Vengono denominate scale immobili, perché in questi 19 anni quasi sono stati più i periodi che sono stati fermi per lavori di manutenzione.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Ferme, “ma non oltre il 90% medio di funzionamento annuo”, specifica il comune di Napoli, che queste scale le aveva fatte istallare a una ditta italiana la Paravia, poi acquisita dalla Otis Italia.

ROBERTO PERSIA È capitato che queste scale rimanessero ferme per mancanza di pezzi di ricambio.

GENNARO CAPODANNO- PRESIDENTE DEL COMITATO VALORI COLLINARI Questa scala che alle mie spalle va soggetta a frequenti fermi. È chiaro che in una situazione nella quale c'è una sorta di monopolio, poi dopo diventa difficile poter avere la disponibilità. ROBERTO PERSIA Come si potrebbe ovviare a questo problema?

GENNARO CAPODANNO- PRESIDENTE DEL COMITATO VALORI COLLINARI Si potrebbe ovviare attraverso un magazzino di pezzi di ricambio da avere a piè d'opera nel momento in cui c'è la manutenzione programmata.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Roma è tristemente famosa tra i turisti stranieri per le fermate chiuse della metropolitana. E purtroppo non è solo una questione d’immagine.

DARIO DONGO Ora noi vorremmo andare a Piazza del Popolo. Però qui non c’è un ascensore. e allora speriamo che funzioni il servoscala.

ROBERTO PERSIA …e in questo caso la scala mobile è anche ferma

DARIO DONGO Non funziona? In questo caso generalmente ci si affida a squadre di volontari che dopo aver smontato la sedia mi portano a spalle su per la gradinata.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Nella metro di Roma gran parte degli impianti sono a firma Otis, Schindler, Thyssenkrupp e Kone. Nel 2017 il bando per la loro manutenzione da 23 milioni di euro era stato vinto con un ribasso di quasi il 50% da un’associazione temporanea di imprese, la Metroroma Scarl, composta dalla Del Vecchio srl e dalla Grivan Group srl. Ettore Bucci, oggi indagato con altre 13 persone per il crollo della scala mobile nella fermata Repubblica. all’epoca dei fatti era il responsabile unico del procedimento di ATAC per l’appalto con Metroroma Scarl.

ROBERTO PERSIA Ma Metroroma S.c.a.r.l. ha mai avuto degli ostacoli nel reperire le parti di ricambio delle scale mobili?

ETTORE BUCCI- RESPONSABILE UNICO DEL PROCEDIMENTO Sì, loro hanno avuto ostruzionismo industriale sostanzialmente.

ROBERTO PERSIA Roma Capitale non sa di questa difficoltà nella gestione della manutenzione?

ETTORE BUCCI- RESPONSABILE UNICO DEL PROCEDIMENTO Sa tutto, sa tutto.

ROBERTO PERSIA FUORI CAMPO Il bando sarebbe dovuto durare 3 anni, ma il 25 marzo 2019, dopo i fatti della stazione di Repubblica, con un tweet, l’allora sindaca Raggi comunica di averlo ritirato valutando azioni risarcitorie nei confronti di Metroroma scarl: “per gravi e inconfutabili ragioni.

ROBERTO PERSIA Atac in un momento di emergenza si è affidata alla manutenzione delle ditte che erano costruttrici di quelle scale mobili e di quegli ascensori presenti nella metropolitana.

GIUSEPPE BUSIA- PRESIDENTE ANAC Questa procedura negoziata alla quale hanno invitato Schindler, Otis, Kone e Thyssenkrupp ha l’anomalia di essere un affidamento diretto a 4 operatori, invece di fare la gara aperta perché l’entità dell’appalto lo richiedeva in modo che questi operatori siano in concorrenza vera fra loro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cioè invece di stimolare la concorrenza, l’hanno riunita. E così invece di spendere 7 milioni e mezzo di euro in un anno, ne hanno spesi 8 e mezzo. Bel colpo. Ora il comune di Roma e Atac ci dicono che non sono a conoscenza di pratiche di ostruzionismo. Schindler e Otis ci dicono, invece che loro trattano tutti nella stessa maniera. Insomma è un po’ quello, se ci consentite quello di cui ci lamentiamo. Eppure la mobilità dovrebbe essere un diritto garantito, soprattutto per i diversamente abili. Quante scale mobili, quanti ascensori, quanti servoscala sono rotti? Dovrebbero pensarci gli enti locali ma in queste condizioni di monopolio resta sicuramente difficile. E nulla è valsa la multa comminata dalla commissione europea, salatissima, tra le più alte della storia, circa un miliardo di euro alle multinazionali. Quando invece il tema della manutenzione, che significa anche poi prevenzione, è un tema importantissimo e a volte può valere la vita o la morte.

Smart Tv: chi guarda chi? Report Rai PUNTATA DEL 27/12/2021 di Lucina Paternesi 

Siamo sicuri che siamo solo noi a guardare la tv o è lei a guardare noi?

In Italia ci sono quasi 120 milioni di televisioni, 15 milioni delle quali ormai hanno una connessione a internet. La pandemia ha fatto decollare dotazioni e connessioni digitali e la lunga permanenza in casa ha fatto sì che fosse maggiore anche il tempo trascorso davanti a uno schermo. Con l’arrivo del nuovo digitale terrestre e dei bonus stanziati dal Governo stiamo rottamando le vecchie tv affascinati dalle infinite possibilità offerte dalle piattaforme streaming. Film, serie televisive, documentari, cartoni animati, partite di calcio: l’obiettivo è non spegnere mai lo schermo. Nei laboratori dell’Imperial College, a Londra, Report ha testato ogni funzione e ogni piattaforma per scoprire che tra gli elettrodomestici intelligenti sono proprio le smart tv quelle che più di tutti contattano terze parti, condividono informazioni sensibili e, soprattutto, tracciano ogni nostra attività. Ma cosa sanno di noi queste piattaforme? Siamo sicuri che siamo solo noi a guardare la tv o è lei, ormai, a guardare noi?

SMART TV CHI GUARDA CHI? di Lucina Paternesi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. Il nuovo standard digitale, per quello che riguarda le televisioni, entrerà in vigore nel 2023 però, già adesso, voi potete fare un test. Sintonizzatevi sul canale 100 e vedete se vedete qualcosa, quello è un test perché se non vedete nulla, da qui al 2023 avete due possibilità, o buttate il televisore e ne comprate uno nuovo, oppure vi fornite di un bel decoder però intanto in questi anni, in questi mesi, c’è stato chi si è portato avanti con il lavoro, ha cominciato ad acquistare, anche grazie agli incentivi di governo le smart tv, cioè quelle televisioni intelligenti anche perché è sbocciata, è esplosa la passione per le piattaforme streaming e pensate che, solo nell’ultimo anno, sono incrementati gli utenti del 50%, oggi sono 24 milioni gli italiani che le utilizzano. Però; quando vengono utilizzate queste televisioni intelligenti, insomma, qual è il prezzo, il costo che dobbiamo pagare? La nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con l’arrivo del nuovo digitale terrestre, le vecchie tv vanno in pensione.

LUCINA PATERNESI Per continuare a vedere la televisione è proprio necessario acquistare una nuova tv?

FEDERICO CAVALLO - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE ALTROCONSUMO Se attualmente noi già vediamo i canali sul nostro dispositivo di casa i canali dal 500 in su, quelli in alta definizione, in questo momento non c’è nessuna urgenza. Cioè noi sappiamo già che saremo a posto almeno fino a gennaio 2023.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La trasformazione avverrà in due fasi: da ottobre 2021 alcuni canali sono passati in HD, mentre il nuovo standard digitale entrerà in funzione tra un anno e mezzo. Eppure, grazie ai 150 milioni stanziati dal Governo per bonus tv e bonus rottamazione è partita la corsa all’acquisto dei nuovi dispositivi.

LORENZO CORTONI - IMPRENDITORE Da quando è arrivato il bonus tv siamo intorno credo al 30% circa come aumento di vendite, la spesa media stiamo intorno a 300-400 euro circa.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per le vecchie tv basterebbe comprare un decoder, spesa media 30 euro. E invece oggi buttiamo via 20 milioni di apparecchi attratti dalla possibilità di navigare con la TV dal salotto di casa.

 ENEA SPINELLI - SPINELLI HOME ENTERTAINMENT Questi nuovi prodotti hanno a bordo una piattaforma Android che è del tutto simile a quella che è installata sui nostri telefonini e ci consente la visione di app gratuite e a pagamento.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Quando diamo il via alla prima installazione sulla Smart TV delle APP da Amazon a Netflix appaiono le informazioni sulla privacy. Sono talmente fitte che difficilmente vengono lette, e si procede con l’istallazione premendo OK.

HAMED HADDADI - DIRETTORE DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Dentro ci trovi già integrati tutti i grandi player: Amazon services, Netflix, Youtube, Google, Facebook systems. LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Qual è il segreto del successo di queste app. E, soprattutto, siamo sicuri che siamo solo noi a guardare la tv, o è anche lei a guardare noi?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora non è poi così proprio fuori luogo la domanda. Ora su 120 milioni di televisori, ben 15 milioni sono collegati ormai ad internet e ruotano su sistemi operativi Android o Google, i quali però memorizzano tutto quello che viene visto. In sostanza, vedono cosa vedi, memorizzano cosa vedi, per quanto tempo lo vedi e persino anche con chi lo vedi perché se io vedo dei cartoni animati perché ci sono i bambini, loro intuiscono che c’è una presenza di minori. Insomma, in altre parole, raccolgono dati, si chiamerebbe profilazione ma per conto di chi e per che cosa raccolgono i dati?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Produzioni milionarie, film, serie tv da divorare episodio dopo episodio. L’obiettivo non spegnere mai la tv. Qual è il segreto di Netflix?

GINA KEATING - GIORNALISTA E ANALISTA FINANZIARIA L’algoritmo di Netflix, Cinematch, è stato fondamentale per il suo successo. Si ispira al tipico commesso di Blockbuster, che ti consigliava il film successivo quando ne riconsegnavi uno.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Autrice di un libro e di un documentario, Gina Keating, ha seguito le vicende di Netflix sin dal principio, prima di rifugiarsi nel suo ranch in Texas.

GINA KEATING - GIORNALISTA E ANALISTA FINANZIARIA Hanno iniziato con il noleggio dei dvd per posta. Poi hanno capito che se, volevano far fuori la concorrenza, dovevano diversificarsi. Così è nato il concetto di abbonamento e la possibilità di fare tutto online è stata la ciliegina sulla torta. LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con 200 milioni di abbonati nel mondo oggi Netflix è il colosso dello streaming, con un fatturato da quasi 7 miliardi di dollari.

GINA KEATING - GIORNALISTA E ANALISTA FINANZIARIA Netflix conosce i gusti precisi del pubblico da più di vent’anni e queste informazioni servono per capire in quali produzioni investire, e come evitare che si disdica l’abbonamento.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Un algoritmo intelligente e la possibilità di seguire l’evoluzione del gusto e delle abitudini degli spettatori. Lui sa tutto su di noi, noi invece non siamo in grado di sapere quali informazioni sono in possesso di Netflix.

GINA KEATING - GIORNALISTA E ANALISTA FINANZIARIA Non sappiamo quali siano gli show più visti, da dove vengano i suoi abbonati e quanto tempo restino davanti allo schermo. La mancanza di trasparenza e l’attenzione alla riservatezza sono parte integrante del modello di business.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per capire quanta ingegneria c’è dietro uno schermo siamo andati a Londra, all’Imperial College. In questo laboratorio da anni il team del professor Haddadi studia il traffico internet generato dagli elettrodomestici intelligenti e le possibilità che vengano hackerati smart speaker, bollitori, intelligenti, friggitrici ad aria e smart tv.

HAMED HADDADI - DIRETTORE DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE In questo modo anche la televisione è diventato un device personale, proprio come uno smartphone, solo più grande. LUCINA PATERNESI Che tipo di informazioni possono avere su di noi?

HAMED HADDADI - DIRETTORE DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Che programmi guardi, a che ora del giorno ma anche chi sta guardando quel programma, se il pomeriggio la tv è sintonizzata sui cartoni possono sapere che in casa ci sono dei bambini. Tutte informazioni utilissime che finiscono in mano agli sviluppatori, cioè al produttore della tv, ma anche a terzi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Grazie a una partnership con l’americana Northeastern university, i ricercatori dell’Imperial College hanno scoperto che molte delle app che troviamo già preinstallate sulle nostre tv possono inviare dati sensibili a produttori e fornitori, nascondere tracker che spiano le nostre attività e connettersi a server e a indirizzi non richiesti e soprattutto non necessari per vedere la TV.

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE La cosa più semplice che mi aspetterei è che la mia televisione contatti soltanto il server di Netlifx nel momento in cui guardo Netflix, purtroppo non è così.

LUCINA PATERNESI Grazie a un codice elaborato dai ricercatori è possibile intercettare e filtrare gli indirizzi internet a cui la tv si connette appena accesa e, anche se non ci siamo registrati con un account su NETFLIX, la tv si connette ai suoi server e può inviare informazioni.

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Le destinazioni contattate sono Netflix.com, Netflix ancora, Netflix, un’altra destinazione di Netflix.

LUCINA PATERNESI Quindi anche se noi non abbiamo un account.

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Automaticamente la televisione si collega a Netflix.

LUCINA PATERNESI Ma che dati inviano a queste destinazioni?

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE L’informazione è criptata, significa che la possono vedere soltanto il server a cui sta arrivando e il client quindi la televisione.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ogni volta che l’accendiamo la nostra tv si collega a tantissime destinazioni che non sono necessarie per fornire il servizio. Che succede invece quando i nostri bambini guardano un cartone animato su Disney+?

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Netflix ancora contattato in background, analytics.disney+.com anche questa, analytics, potrebbe riguardare un utilizzo di analitica dell’app Disney+.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tra tutti gli elettrodomestici collegati ad internet, friggitrici, assistenti vocali e frigoriferi, sono proprio le tv quelle che più di tutti contattano le cosiddette terze parti.

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Le più pericolose riguardano la pubblicità e il tracking, sono tutti quei servizi che fanno una sorta di profilazione dell’utente.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Un esempio? Basta aprire l’applicazione DAZN, già preinstallata sul televisore.

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Si collega a terze parti anche senza avere alcun account. Dazn contatta Google analytics.com e doubleclick.net, altro profilo relativo a Google.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO DAZN fa capo al miliardario di origini ucraine Len Blavatnik. La sua holding Access Industries vanta partecipazioni dal petrolio all’acciaio fino a società come Zalando, Spotify e la casa discografica Warner Music. Tra i 60 uomini più ricchi del mondo ha strappato a Sky i diritti per la trasmissione delle partite di serie A mettendo sul piatto 840 milioni di euro l’anno per i prossimi tre anni e una partnership con Tim. Il costo dell’abbonamento è di 30 euro al mese, ma paghiamo anche un prezzo nascosto con i nostri dati che Dazn invia a Google che li userà per scopi pubblicitari. Una delle sue sedi inglesi è in questo grattacielo di Londra, quartiere Hammersmith.

LUCINA PATERNESI Salve, buongiorno. Sono una giornalista della tv pubblica italiana, posso fare qualche domanda? Volevamo chiarire alcuni aspetti relativi alla privacy della vostra applicazione…

DIPENDENTE DAZN No, no, non c’è nessuno, andate via.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con noi Dazn non parla. Ma come ci possiamo difendere?

ANNA MARIA MANDALARI - RICERCATRICE ASSOCIATA DYSON SCHOOL OF DESIGN ENGINEERING IMPERIAL COLLEGE Un modo per proteggerci dalla profilazione è quello di resettare spesso questo ID che ci permette di essere identificati univocamente nella rete. Su Impostazioni, termini e privacy, qui è possibile vedere dov’è il nostro ID per servizi di personalizzazione.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Resettare l’ID significa azzerare ogni nostra azione memorizzata. Ma non è l’unica arma a disposizione.

GUIDO SCORZA - COMPONENTE GARANTE PRIVACY Un utente curioso può fare la famosa istanza di accesso, può chiedere a uno o più fornitori di servizi state trattando i miei dati? Si o no e se sì, cosa ci state facendo?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Abbiamo provato a chiederlo direttamente al nostro produttore, LG. Ottenere i dati è più difficile che scalare una montagna. Prima di averli indietro LG ci ha chiesto di dimostrare di essere realmente noi i proprietari esclusivi dell’apparecchio. Abbiamo quindi dovuto fornire il nome del modello, l’indirizzo MAC della tv, la città da cui la utilizziamo, e altre informazioni legate in modo univoco al nostro apparecchio. E infine, scattarci una foto davanti alla tv con un cartello riportante il nostro indirizzo email. Il nostro impegno, però, è stato ripagato. E dalla Corea ci sono tornate indietro tutte le informazioni richieste: una serie infinita di dati relativa al nostro utilizzo. Cosa abbiamo guardato, in streaming o sul digitale, per quanto tempo, le ricerche sull’app, gli aggiornamenti. Tutto registrato, memorizzato e custodito in Corea.

LUCINA PATERNESI Quanto è importante per le nostre democrazie che ciò che noi guardiamo resti nel salotto di casa.

VINCENZO MARIA VITA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER LE COMUNICAZIONI 1996-2001 La democrazia viene lesa nelle sue fondamenta, non pensiate che quello che noi guardiamo in televisione non sia registrato da qualche parte. Cioè se io vedo Report, Presa diretta, i talk sapranno che io sono politicamente dentro un… no sto scherzando…ll rischio maggiore, come è venuto fuori abbondantemente, è che i nostri profili servano a influenzare l’opinione pubblica e noi stessi.

STEFANO ROSSETTI - AVVOCATO PER LA PROTEZIONE DEI DATI NOYB VIENNA Il sistema operativo della tv genera questi ID pubblicitari e li invia, esattamente come fa un cellulare. Se torni a casa e connetti il tuo cellulare allo stesso wi-fi, possono riconciliare queste due differenti esperienze e memorizzarle per un futuro utilizzo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Non c’è solo il produttore. Come abbiamo visto dentro alla tv girano tantissime applicazioni che generano un traffico Internet in codice, cifrato. A Vienna, il team di legali del NOYB, il centro europeo per i diritti digitali, ha analizzato in lungo e il largo le privacy policy di tutte queste piattaforme, per capire se rispettano la normativa europea.

LUCINA PATERNESI Quali sono le principali violazioni al Regolamento europeo sulla privacy che avete riscontrato?

STEFANO ROSSETTI - AVVOCATO PER LA PROTEZIONE DEI DATI NOYB VIENNA Prevalentemente una cattiva informazione sulle finalità del trattamento e sulle basi legali utilizzate.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Cioè le piattaforme non ci informano correttamente su quale uso fanno delle informazioni che prendono su di noi e distribuiscono a terzi. Come per LG, abbiamo quindi chiesto a tutte le piattaforme più importanti, la lista dei dati in loro possesso, le basi legali del trattamento e, soprattutto, una lista dei destinatari a cui finiscono in mano i nostri dati. Netflix, Disney+, Amazon Prime, Apple TV ci hanno risposto, in prima battuta, che è possibile scaricare online una copia dei dati in loro possesso.

STEFANO ROSSETTI - AVVOCATO PER LA PROTEZIONE DEI DATI NOYB VIENNA C’è una chiara violazione del diritto di accesso. Abbiamo presentato 11 reclami nei confronti di varie piattaforme di streaming proprio perché le soluzioni di download che avevano implementato a nostro avviso non contemplavano una copia perfetta di tutti i dati disponibili.

LUCINA PATERNESI Sono passati 3 anni che fine hanno fatto questi reclami?

STEFANO ROSSETTI - AVVOCATO PER LA PROTEZIONE DEI DATI NOYB VIENNA Niente, non ne sappiamo nulla.

LUCINA PATERNESI Ma è lecito, se io accendo la tv e non ho un abbonamento a Netflix, che venga contattata comunque la destinazione dei server di Netflix?

GUIDO SCORZA - COMPONENTE DEL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI Nella misura in cui questo accade la libertà di scelta non c’è. Quello che ci servirebbe sapere, per poter ipotizzare trattamenti illeciti di dati personali, è che prima che l’utente sia arrivato all’informativa sulla privacy di Netflix, ci sono già i suoi dati personali.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Abbiamo chiesto anche a Raiplay, la piattaforma streaming della Rai.

LUCINA PATERNESI Questa è la risposta che ci ha mandato la Rai.

STEFANO ROSSETTI - AVVOCATO PER LA PROTEZIONE DEI DATI NOYB VIENNA Rinviano alla loro privacy policy, in teoria, come utente, hai diritto a una risposta specifica sulle domande che hai fatto.

LUCINA PATERNESI È sufficiente ad esaudire la nostra curiosità?

GUIDO SCORZA - COMPONENTE DEL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI Non è sufficiente, nel senso che quale sia la finalità e quale sia la base giuridica del trattamento in ogni caso mi va dichiarato. Il problema vero è normalmente queste informative sono dei contenitori di una quantità industriale di informazioni che non consentono all’utente di capire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora abbiamo fatto, per completezza la due diligence, alla nostra piattaforma Raiplay che però si comporta correttamente. Insomma, loro dicono che utilizzano le informazioni esclusivamente per far funzionare, per collegarsi agli applicativi che consentono di fornire il servizio migliore. È un po' più tirchia quando si tratta di dare agli utenti le informazioni che li riguardano come previsto dalla normativa. Ecco ma per rendere questo, la risposta più intellegibile e facilmente accessibile, Raiplay rinvia all’informativa estesa pubblicata che si trova sul proprio sito internet ed è completa di tutti gli elementi utili. Ora la Rai si comporta correttamente ma il rischio, l’abbiamo capito, c’è. Quando accendi una smart tv è come se poi accettassi che un venditore, un rappresentante di aspirapolveri, a tua insaputa, si sedesse a fianco a te, sul, nel salotto di casa. E ascoltasse anche quelli che sono i tuoi bisogni, le tue necessità per poterti vendere poi il prodotto migliore. Abbiamo anche scoperto che, nel momento che tu accendi una tv, una smart tv LG, per esempio da Canicattì, le tue informazioni finiscono in Corea. Poi, puoi anche chiedere che cosa avete raccolto in tema di dati su di me? Loro, dopo un delirio, te li restituiscono, ti fanno veder cosa hanno raccolto su di te ma insomma ci si capisce poco perché molti sono dati criptici. Abbiamo anche scoperto che invece quando accendi semplicemente la televisione, anche se non accetti l’iscrizione, non ti iscrivi, non ti registri, non accetti le modalità della privacy a Netflix, Netflix raccoglie ugualmente delle informazioni e, su nostra richiesta, ci risponde che, quando l’app è inattiva, le informazioni che riceve sono però limitate, servono esclusivamente per migliorare la performance del servizio e, quelle informazioni che racchiudono l’IP della persona con la posizione, riguardano un’indicazione, una posizione generica per quello che riguarda l’identità dell’utente e poi dicono che non vengono ceduti dati a terzi e non raccolgono dati da altre applicazioni. Insomma, Netflix se le tiene per sé. Dazn invece le passa a Google, anche se dice, lo facciamo in base alle normative vigenti. Insomma, male che va, bene che va, è un boomerang che ti ritorna sotto qualche offerta di prodotto se, invece, va male si tratterebbe anche di una profilazione politica perché, memorizzando le trasmissioni che tu guardi, i talkshow, gli approfondimenti puoi anche avere un identikit delle passioni politiche dell’utente. Ecco, insomma, tutto questo poi, se si vuole far saltare o confondere le idee, basterebbe resettare l’ID personalizzato dell’utente. E come fai? Vai su impostazioni, sulla parte della privacy e resetti l’ID. Insomma, tutto questo per vedere un po' di televisione intelligente. Pensate quando sarà introdotto il 5G e verranno connesse friggitrici, bollitori, caffettiere… mamma mia…

Il ritorno del dragone. Report Rai PUNTATA DEL 20/12/2021 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini

Collaborazione di Norma Ferrara ed Eleonora Zocca

 Report torna ad analizzare le telecamere di sicurezza..

A maggio Report aveva svelato anomalie sulle telecamere di sicurezza di una nota marca cinese piazzate a sorvegliare una importantissima sede Rai. Dopo lo scoop abbiamo ricevuto numerose segnalazioni tra cui una inquietante: una simile anomalia ha colpito anche l’aeroporto di Fiumicino. Chi controlla gli occhi elettronici che ci sorvegliano ogni giorno? E cosa succederà alla gara Consip da ben 65 milioni di euro aggiudicata a ottobre che potrebbe aprire le porte degli edifici governativi italiani a decine di migliaia di dispositivi che in altri Paesi sono banditi?

IL RITORNO DEL DRAGONE di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione di Eleonora Zocca e Norma Ferrara Immagini Paolo Palermo – Fabio Martinelli Montaggio Riccardo Zoffoli

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Rai è un’azienda strategica del nostro paese. Il fornitore principale delle telecamere intelligenti è la Hikvision. Lo stato cinese ne ha il controllo societario con una quota del 42%. Abbiamo deciso di fare un esperimento: con un consulente esperto in cyber security siamo penetrati dentro il sistema di videosorveglianza della Rai per capire cosa accade ai dati catturati dalle telecamere ogni volta che riescono a connettersi alla rete.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Questi sono gli indirizzi IP locali che stanno comunicando sia in broadcast ma anche con l’esterno. Quelle che prima stavano provando a cercare di comunicare, adesso iniziano a comunicare.

GIULIO VALESINI Dove sono piazzati?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Questi sono quelli dove ci sono accessi praticamente delle persone, dunque sistemi di controllo dei badge piuttosto che tornelli.

GIULIO VALESINI Sono quelle telecamere che inquadrano i volti di chi entra e di chi esce?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Esatto. E trovano delle comunicazioni verso dei server che sono registrate in sostanza dalla Hikvision e sono di Zhejiang.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La scoperta è inquietante. Il sistema in teoria è chiuso, ma se lo si apre a internet, come ad esempio per una manutenzione, in pochi minuti vede migliaia di tentativi di comunicazione con l’esterno, delle telecamere che puntano gli ingressi del centro di produzione della Rai. I dati sensibili delle persone che entrano, quindi, sono accessibili dall’esterno e vengono inviati proprio in Cina.

FRANCESCO ZORZI –ESPERTO CYBERSICUREZZA Esatto, comunicano con i server che abbiamo rilevato essere registrato da Alibaba cloud computing in Cina.

GIULIO VALESINI Quindi queste telecamere dialogano con server in Cina.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Dialogano con server che alla fine il server primario è un server statunitense, seguono poi, sono riconducibili…

GIULIO VALESINI Il messaggio finale arriva in Cina?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Sì, sono registrate proprio da un ente collocato in Cina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dunque i nostri dati sensibili vengono inviati verso un server che è registrato negli Stati Uniti e poi finiscono in Cina, in una regione dove ha sede proprio la Hikvision, la casa madre delle telecamere. Avevamo all’epoca allertato subito la security Rai che aveva posto immediatamente rimedio. Però da quel momento in poi abbiamo ricevuto delle segnalazioni che ci hanno fatto capire che quello non era un caso isolato. E il tenore delle mail che sono arrivate in redazione era proprio questo: “avete colto nel segno, per quello che riguarda le telecamere di videosorveglianza, ogni tanto tentano di connettersi con dei server esterni al nostro paese e tentano di inviare informazioni”. Ora tra le segnalazioni ce ne è una che è forse la più inquietante: quella che riguarda l’aeroporto di Fiumicino, quando 140 telecamere tutte insieme all’improvviso hanno tentato di connettersi più volte ma non poche volte, in maniera intensa complessivamente oltre un milione e mezzo di volte – e hanno tentato di connettersi a un indirizzo IP fino a oggi sconosciuto. Hanno tentato di mandare dati sensibili oppure c’è stato qualcuno che da remoto ha tentato di controllare la rete di videosorveglianza di un luogo strategico per il Paese? Fatto sta che questo è un fatto che apre degli scenari abbastanza inquietanti e che è diventato oggetto di attenzione dei nostri apparati di sicurezza. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Aeroporto internazionale di Fiumicino. Il più grande d'Italia. Nel 2019, prima del Covid, da qui sono transitate quasi 45 milioni di persone che vengono videoriprese anche per prevenire attacchi terroristici. Ci sono telecamere ovunque, soprattutto di Hikvision. Pubblicità

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora parliamo di telecamere di siurezza. Un anno fa avevamo scoperto che le telecamere Hikvision montate in Rai, ogni tanto cercavano di dialogare all’esterno mandando informazioni su server che erano registrati negli Stati Uniti e poi andavano in Cina, proprio in quelle regioni dove c’era casa madre Hikvision. Poi avevamo avvisato la nostra security che aveva posto immediatamente rimedio ma successivamente abbiamo scoperto che non era un caso isolato. E’ successo anche a Fiumicino dove 140 telecamere Hikvision ad un certo punto hanno cominciato a tentare di collegarsi ad un sito che aveva un IP sconosciuto e lo hanno fatto anche con una certa insistenza, oltre 1 milione mezza di volte non sappiamo se per mandare informazioni o se era in corso un attacco informatico per controllare, gestire le telecamere di videosorveglianza di un luogo strategico per il nostro paese. In seguito proprio a questa nostra denuncia, Consip che è la centrale per gli acquisti della pubblica amministrazione prima dell’imminenza della chiusura di una gara da 65 milioni di euro che avrebbe comportato l’installazione di telecamere nelle nostre pubbliche amministrazioni, nei comuni, negli enti, negli immobili della pubblica amministrazione, visto che c’era una vulnerabilità ha chiesto come comportarsi al DIS, cioè ai nostri servizi di sicurezza. Questo perché le telecamere fabbricate in Cina hanno una vulnerabilità per legge se costrette, devono dare i dati a Pechino. Ora in questo periodo poi è successo anche che alcune telecamere fabbricate in Cina come Hikvision hanno sostanzialmente perso il certificato ONVIF che è un certificato che certifica la loro abilità a “dialogare” con telecamere di altri marchi. Ora questo comporta una grana in casa CONSIP tutta da gestire e poi come la mettiamo con le telecamere che sono state già installate?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il primo aprile del 2015, al sistema di videosorveglianza succede qualcosa di anomalo. Un responsabile della rete informatica si accorge di una grave anomalia nel funzionamento di oltre cento telecamere. Manda un alert interno di cui Report è entrato in possesso. È un’e-mail indirizzata alla Sigma spa. La società che aveva l’appalto per l’installazione delle telecamere che controllavano tutte le scale mobili di Fiumicino. Il documento avvisava: “C’è un problema urgente con le telecamere Hikvision”

MASSIMILIANO CESARONI – AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Mandavano richieste di connessione ad un particolare indirizzo IP la cui sigla mi sembra cominciasse per 192.

GIULIO VALESINI Corretto.

MASSIMILIANO CESARONI AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA La ripetizione di ricerca di questo indirizzo che fa pensare che questo indirizzo non fosse configurato nel sistema di videosorveglianza.

GIULIO VALESINI Cercavano di registrarsi presso un server esterno.

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Bisognerebbe capire chi aveva in carico sto indirizzo.

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Di chi è ‘sto indirizzo?

GIULIO VALESINI Ma se Fiumicino chiede a voi, evidentemente a Fiumicino non gli tornava.

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA è come se l’ufficio di urbanistica di Roma mi chiede qual è l’indirizzo tuo, suo.

GIULIO VALESINI Lei dice che ma ne so io.

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Lo dovreste sapere voi, insomma.

GIULIO VALESINI Esatto. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La richiesta di intervento partita da ADR TEL, la società che gestisce i sistemi informatici di Fiumicino, era urgente. Ognuna delle 140 telecamere Hikvision presenti nello scalo romano inviava quattro richieste di apertura di una connessione verso l’esterno. 11mila a telecamera ogni ora. Più di un milione e mezzo in totale. Un traffico enorme da bloccare che stava mettendo in difficoltà il sistema di sicurezza dell'aeroporto. La segnalazione in quelle ore fu girata anche alla GSG, la società italiana che gestiva i software del sistema di videosorveglianza.

GIULIO VALESINI A me è arrivata questa email. Aprile 2015. Circa 11 mila richieste l’ora di comunicazione con l’esterno di 140 telecamere.

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL (silenzio) mmh.

GIULIO VALESINI Lei che all’epoca lavorava lì all’aeroporto questa storia se la ricorda o no, la conosce o no?

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Effettivamente abbiamo visto che il problema era esistente ma che non dipendeva dal software, dipendeva da queste telecamere che cercavano di dialogare con un server esterno all’aeroporto. Per fare questa cosa cercavano di aprire una porta per uscire e giustamente il firewall dell’aeroporto diceva.

GIULIO VALESINI Dove vai?

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Dove stai andando? Lì è una rete chiusa.

GIULIO VALESINI Che tipo di messaggio era?

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Certamente non era un bug.

GIULIO VALESINI Secondo lei che cosa c’è dietro?

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Per la nostra conoscenza, quindi direi una cosa direi certa, la trasmissione che avvenne non mandavano immagini

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL La cosa potenzialmente possibile è che se io conosco l'indirizzo, ho tutta una serie di computer che rispondono a me, io gli posso aggiornare il software oppure gli posso dire: tu telecamera attacca i server dell'aeroporto.

GIULIO VALESINI E a quel punto che succede?

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Se 400, 500, 1000 telecamere all'interno di una rete, magari anche chiusa, protetta, iniziano a fare traffico anomalo.

GIULIO VALESINI Il sistema crasha.

ANTONMARIO CATANIA – PRESIDENTE GSG INTERNATIONAL Potenzialmente una telecamera che risponde ai miei comandi è come se fosse come dire una cellula dormiente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il sospetto è che la rete di telecamere possa essere usata come una botnet per attacchi informatici verso l’esterno. Significa che le camere vengono prima infettate e poi trasformate in un robot a comando di un malintenzionato che da remoto, all’insaputa del produttore e dell’utilizzatore, le userà per colpire altre reti o sistemi informatici, magari proprio dell’aeroporto, che saranno messi ko, colpiti da decine di migliaia di tentativi di comunicazione. A Roma incontriamo un importante operatore del settore della videosorveglianza. Conosce l’incidente di Fiumicino e, a quanto ci dice, la questione arrivò anche all’orecchio dei nostri servizi di intelligence. La spiegazione di un semplice bug delle telecamere non aveva convinto.

DIRIGENTE SOCIETA’ VIDEOSORVEGLIANZA Dopo gli eventi di Fiumicino ho avuto un colloquio con un esponente dei servizi di intelligence, e abbiamo parlato di Hikvision. Mi risulta che in seguito i servizi hanno fatto circolare una nota interna dicendo "state attenti, non usate quella roba là".

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo mostrato la mail interna di fiumicino anche a Francesco Zorzi, il consulente di diverse procure italiane, specialista in cyber intelligence, che ha scoperto per noi di Report le anomalie nelle telecamere di Hikvision all'interno del sistema di videosorveglianza della Rai. Che ci fornisce un'altra lettura dei fatti.

FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBERSICUREZZA Se io riesco a fare un attacco, ad esempio, di flooding interno alla rete e, ad esempio, saturare il traffico di una specifica videocamera, io impedisco a questa videocamera riesca in sostanza a comunicare, impedisco di far sì che quel dispositivo in quel momento registri.

GIULIO VALESINI Quindi se io avessi voluto in quel momento forse bucare il sistema, cioè quindi passare per Fiumicino.

FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBERSICUREZZA Con questo l’avrei fatto sicuramente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un attacco per far passare qualcuno senza che venisse registrato dalle telecamere. È una delle possibilità. Ma quello che è certo è pur se il misterioso incidente rilevato alle telecamere di sorveglianza di Fiumicino non sia mai stato mai reso noto, la questione non passò inosservata nell’ambiente della cybersicurezza. L’eco superò l’oceano, arrivò in Canada, al quartiere generale della Genetec, un gigante mondiale delle tecnologie per la sicurezza.

PIERRE RACZ – PRESIDENTE GENETEC Sono rimasto sorpreso da quell'incidente. Il dipartimento IT dell’aeroporto conta su persone capaci e ci hanno coinvolto per trovare una soluzione. Noi, dopo quell’incidente, abbiamo smesso di supportare Hikvision.

GIULIO VALESINI Se lei fosse il ministro dell'Interno italiano che sa che queste telecamere sono presenti nei tribunali, nelle questure, nelle forze di polizia, oggi sarebbe tranquillo?

PIERRE RACZ – PRESIDENTE GENETEC No, no. Non sarei affatto a mio agio. Quello che farei sarebbe adottare una strategia di gestione del rischio. Identificare dove si è più vulnerabili, e poi procedere con un piano di contenimento e progressiva sostituzione delle telecamere.

CATALDO CICCOLELLA Abbiamo visionato della documentazione che dimostra come il primo aprile del 2015 l'aeroporto di Fiumicino abbia visto circa 140 telecamere Hikvision aprire nel giro di un'ora più o meno un milione e mezzo di tentativi di comunicazione verso un IP sconosciuto.

ENRICO BORGHI – COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA - PARTITO DEMOCRATICO Le devo dire che non mi meraviglio. Grazie anche al vostro lavoro era emerso che una situazione analoga aveva addirittura coinvolto l'azienda di Stato sulle telecomunicazioni cioè la Rai. In Cina questo tipo di attività non solo è consentito. In Cina questo tipo di attività è pianificato, organizzato e messo in campo nell’ambito di una specifica organizzazione della società cinese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pochi giorni fa Borghi ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla sicurezza delle telecamere Hikvision. Ha usato Shodan, una specie di mappa di tutti gli oggetti connessi al web, facendo una scoperta preoccupante: migliaia di dispositivi Hikvision sono esposti in rete. Così, anche le telecamere che sorvegliano le nostre case sono rintracciabili e quelle con vulnerabilità perfino attaccabili. Un intruso potrebbe facilmente vedere a che ora usciamo di casa o con chi stiamo parlando in giardino.

ENRICO BORGHI – COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA - PARTITO DEMOCRATICO Noi abbiamo verificato che queste telecamere avevano un meccanismo di riversamento dati che non corrisponde agli standard e alle esigenze che si debbono garantire nel nostro Paese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È quello che è successo anche all’aeroporto di Fiumicino.

GIULIO VALESINI Il bando di gara imponeva Hikvision o voi avete scelto telecamere Hikvision in base ad una convenienza economica?

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Il listino esplicitava già dei modelli Hikvision con delle caratteristiche, ma reputo quasi impossibile trovare qualcosa con caratteristiche migliorative di Hikvision a un prezzo inferiore.

GIULIO VALESINI Quindi diciamo che fu una scelta obbligata, lo possiamo dire?

MASSIMILIANO CESARONI - AMMINISTRATORE DELEGATO SIGMA SPA Su alcuni modelli forse è quasi obbligata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora ci ha scritto ADR aeroporti di Roma e dice che “rispetta da sempre tutte le norme e regolamenti in materia di security e assicura le massime tutele previste dalla regolazione di settore in materia di gestione e tutela dei dati, utilizzando delle telecamere, scrivono, di sicurezza che rispettano i requisiti dettati dalla normativa e dagli Enti di riferimento”. Ora questo ci fa piacere, ma non spiegano che cosa effettivamente è successo quel giorno quando le 140 telecamere hanno cominciato a tentare di connettersi e mandare forse informazioni all’esterno. Ecco e quello che noi invece abbiamo scoperto, i nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella, è che non si tratta di un caso isolato neppure questo. Perché pochi giorni fa l’azienda di cybersecurity Fortinet ha scoperto che migliaia e migliaia di telecamere Hikvision stanno subendo un attacco informatico da una botnet, cioè da una rete robotica che viene utilizzata dagli hacker probabilmente per sottrarre delle informazioni sensibili oppure per attaccare dei siti strategici. Ora siccome questa cosa sta andando avanti già da un bel po’ di tempo, ed è tutt’ora in corso la domanda lecita è: questo attacco avviene perché c’è un bug che è stato scoperto nel settembre del 2021 su queste tipologie di telecamere. Quante ce ne sono nel nostro paese, quante ne ha la nostra pubblica amministrazione. Cioè quante di queste telecamere sono infette già o potrebbero essere infettate?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Con la pandemia anche i rilevatori di temperatura si sono moltiplicati, e con loro l’intelligenza artificiale che studia e analizza ogni immagine. Ma dietro quegli occhi, ci sono le leggi sulla sicurezza emanate da Pechino nel 2017. Impongono di rivelare informazioni sensibili qualora vengano richieste dal governo. In Italia Hikvision è leader del mercato. Negli anni ha piazzato le sue telecamere nei luoghi strategici per la sicurezza nazionale. Non solo aeroporti come Malpensa e Fiumicino ma anche i palazzi delle istituzioni politiche, tribunali, forze dell’ordine. Hikvision Italia è posseduta da una holding europea, a sua volta detenuta dalla casa madre cinese. Anche gli amministratori della Srl italiana sono cittadini cinesi. Il controllo di Hikvision è nelle mani del CETC, un’azienda dello stato cinese che sviluppa software militari, infrastrutture di difesa, armi elettroniche. Insomma, Hikvision è nelle mani di un gigante strettamente legato all’esercito cinese. L’amministratore è Chen Zong Nian, è un parlamentare del partito comunista cinese.

GIULIO VALESINI è vero che la Cina sono già 7,8 anni che invece a sua volta ha vietato per il controllo di aree sensibili, strategiche dal punto di vista militare, l’uso di telecamere che non siano cinesi?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Inghilterra, questa estate, un attivista per i diritti umani ha chiesto l’accesso agli atti all’ufficio del primo ministro inglese: voleva sapere se e dove il governo usava telecamere Hikvision. La risposta, rivelata poche settimane fa, è che non ne utilizzano e che anzi, l’indirizzo del ministero della Difesa, che decide l’installazione, è di non usare Hikvision”.

CHARLES ROLLET - IPVM Il Regno Unito, ma anche gli Stati Uniti, l’Australia e Taiwan hanno bandito Hikvision dalle loro infrastrutture militari.

CHARLES ROLLET - IPVM Sì, la Cina, nel 2012, ha deciso che le telecamere di sorveglianza straniere erano un rischio per la sicurezza cinese, e così hanno blindato tutti i network governativi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A giugno 2021, dopo che Report aveva mostrato le anomalie dei dispositivi di videosorveglianza Hikvision piazzati in Rai, Consip ha preso in mano lo scottante dossier. La prima gatta da pelare è la gara da 65 milioni di euro per la videosorveglianza, aggiudicata in modo quasi definitivo a ottobre. I vincitori si apprestavano a installare massicciamente prodotti Hikvision. Allora Consip si è rivolta ai servizi di intelligence e all’agenzia per la cybersicurezza.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Noi abbiamo avuto un'interlocuzione con questi soggetti preposti per la sicurezza nazionale. Ai soggetti aggiudicatari di questi dieci lotti gli chiederemo se rispetto a questi punti che ci sono stati sottoposti come condizione…

GIULIO VALESINI Ma quali sono queste condizioni?

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Le funzioni di comunicazione con l'esterno, il fatto di poter disabilitare l'amministratore di sistema, di disabilitare queste funzioni.

GIULIO VALESINI Sulle telecamere di Hikvision, Dahua, di una certa provenienza, avete alzato il livello di sorveglianza, di allerta?

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Assolutamente, i punti sono quelli che voi sapete bene che avete già evidenziato nei vostri servizi.

GIULIO VALESINI E se non li rispettano? CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Se non dovessero rispettarli, noi renderemo noto in sede di aggiudicazione quindi daremo pubblicità alle amministrazioni che così sanno cosa comprano. Quando lei su un pacchetto di sigarette legge nuoce gravemente alla salute, lei che fa?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gli obiettivi da proteggere del nostro paese sono dentro un perimetro che è segreto, ma anche molto ristretto. Lascia fuori migliaia di siti comunque sensibili come tribunali, caserme, aeroporti e le stazioni ferrovieri e molto altro ancora. Da questa estate tutto, però, passa per l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, voluta da Mario Draghi. Alla guida c’è Roberto Baldoni, uno dei massimi esperti italiani, viene dal DIS – il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza - il coordinamento dei nostri servizi segreti. Deve mettere in sicurezza un Paese che per anni ha trascurato i rischi informatici.

GIULIO VALESINI Se io poi mi guardo intorno vedo che in tutti i luoghi sensibili di sicurezza nazionale del nostro Paese ci sono le stesse telecamere che poi hanno dato nel tempo questo tipo di problemi qua e che negli altri paesi sono, come dire, guardate con una certa diffidenza…

ROBERTO BALDONI – DIRETTORE AGENZIA CYBERSICUREZZA NAZIONALE In particolare, per quanto riguarda gli Stati Uniti, la sicurezza nazionale permette per esempio di realizzare delle liste un po’ di proscritti all'interno diciamo dei settori in particolare dell'alta tecnologia. In Europa non esiste. Quello che si sta mettendo ora su in Europa è un contesto di certificazione di cybersecurity.

GIULIO VALESINI Queste telecamere hanno mostrato delle continue vulnerabilità, come pensate di proteggere gli obiettivi sensibili del nostro Paese?

ROBERTO BALDONI – DIRETTORE AGENZIA CYBERSICUREZZA NAZIONALE C'è una gestione del rischio che viene fatta rispetto a due cose fondamentali: l'oggetto che, diciamo, devo installare e due, dove lo vado a installare.

GIULIO VALESINI Al momento non c'è differenza tra un tribunale e un piccolo ente locale. cioè, la logica è quella commerciale?

ROBERTO BALDONI – DIRETTORE AGENZIA PER LA CYBERSICUREZZA NAZIONALE E’ una problematica che dovremo affrontare probabilmente nel futuro.

GIULIO VALESINI Lei conosce il fatto che queste società anche se operano in Italia sono soggette all'obbligo in caso di richiesta del governo cinese di passare informazioni acquisite nell'ambito delle loro funzioni anche con l'Italia.

ROBERTO BALDONI – DIRETTORE AGENZIA CYBERSICUREZZA NAZIONALE Se lei va a leggere il Dpcm che definisce le misure di sicurezza del perimetro noterà che ci sono, diciamo, delle misure di sicurezza molto chiare per quanto riguarda sia la gestione dei dati sia per quanto riguarda la supply chain dal punto di vista dei dispositivi. Dateci tempo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dal luglio 2020 le telecamere cinesi non hanno più la certificazione ONVIF: è il nome del consorzio che dà il bollino e che è, sulla base delle restrizioni decise dal governo americano, non assicura più che le telecamere Hikvision e di altri marchi, parlino la stessa lingua dei prodotti usati nella pubblica amministrazione italiana. Tra questi c’è la Dahua Technology. In Italia gli affari stanno andando a gonfie vele: un terzo delle telecamere vendute ha il loro brand. Sorvegliano la città del Vaticano. A settembre dello scorso anno hanno piazzato 19 termoscanner a riconoscimento facciale a Palazzo Chigi. Eravamo andati a trovarli.

GIULIO VALESINI Lei conosce le leggi sulla sicurezza in Cina?

PASQUALE TOTARO – GENERAL MANAGER DAHUA TECHNOLOGY ITALIA No. Conosco a malapena quelle italiane perché nessuno è venuto a dirmi “Pasquale tu devi far sì che devi dare informazioni o devi…”

GIULIO VALESINI Magari non gliel’hanno detto, ha capito.

PASQUALE TOTARO – GENERAL MANAGER DAHUA TECHNOLOGY ITALIA Eh, allora come faccio a rispettare una regola che non me l’hanno detta…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il presidente della Dahua italiana è Fu Liquan: è un cittadino cinese, principale azionista del gruppo. Difficile che possa disobbedire al governo mettendo a rischio libertà e miliardi. Oggi a distanza di un anno hanno perso la certificazione Onvif.

 PASQUALE TOTARO – GENERAL MANAGER DAHUA TECHNOLOGY ITALIA Abbiamo richiesto la certificazione alla Onvif che ci ha comunicato e confermato che fino a dicembre 2022 noi siamo membri dell’Onvif come full.

GIULIO VALESINI Perché a noi invece ci ha comunicato che voi, Hikvision, non avete più la possibilità di certificare i vostri prodotti ormai da circa luglio 2020, quindi.

PASQUALE TOTARO – GENERAL MANAGER DAHUA TECHNOLOGY ITALIA A noi ad oggi risulta l’esatto opposto, poi se così non dovesse essere… a questo punto comincio a vedere una certa discriminazione razziale di una forzatura del genere.

GIULIO VALESINI Quindi lei dice è una discriminazione in quanto siete un’azienda cinese.

PASQUALE TOTARO – GENERAL MANAGER DAHUA TECHNOLOGY ITALIA Sì, perché non c’è nessun termine tecnico che vada ad avvalorare l’esclusione dall’Onvif dal punto di vista di sicurezza. Se me la trovano io sarò il primo a dire “fate benissimo perché per me la sicurezza è importante, non solo per me ma per tutti quanti. Ma se non me la trovano allora ho ragione io.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C’è un piccolo dettaglio: nella mega gara Consip per il rinnovo delle telecamere di videosorveglianza nella pubblica amministrazione, ormai conclusa, la certificazione ONVIF è un requisito necessario e non averla è un problema.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Si chiama evoluzione tecnologica. Quando c’è l'evoluzione tecnologica, il fornitore ci dice “non ho più la certificazione” quindi non rispetta più i requisiti tecnici di gara.

GIULIO VALESINI Il contraente.

CRISTIANO CANNARSA – AMMINISTRATORE DELEGATO CONSIP Il contraente ti dice ti do un prodotto dello stesso vendor però certificato. Oppure se non riesce perché non ha più la certificazione ti da il prodotto di un altro vendor, quindi un’altra telecamera in questo caso, che avrà la certificazione.

GIULIO VALESINI Mr. Pierre Racz noi sappiamo che alcune società di proprietà cinese da luglio 2021 non hanno più certificati ONVIF. Secondo voi che tipo di problema ci può essere per chi utilizza questi prodotti?

PIERRE RACZ – PRESIDENTE GENETEC Avranno grandi difficoltà ad integrarli con altri dispositivi. E tutti i clienti che hanno ancora quelle telecamere non saranno in grado di aggiornare il firmware senza perdere la certificazione. Si crea una vulnerabilità enorme. Pochi giorni fa il direttore del MI6, i servizi segreti inglesi, ha dato un avvertimento: la strategia dell’intelligence di certi paesi è quella di rifilare trappole cattura-dati. L'Italia è una potenza mondiale del pensiero creativo, del design... se non difendete i dati su cui si basa tutto questo, sarà a rischio la vostra prosperità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E’ un problema che coinvolge tutta l’Europa tranne per i siti super sensibili, quelli strategici che sono tutelati da un perimetro della sicurezza cibernetica in base alle nuove disposizioni. Il cerino bollente però rimane in mano alla pubblica amministrazione perché in base ai regolamenti europei alle gare possono partecipare tutte le ditte cinesi compresi. Cosa diversa nella Gran Bretagna dove il ministero della Difesa ha un dipartimento ad hoc che si occupa di installare le telecamere e nei luoghi sensibili e hanno deciso di non installare telecamere Hikvision. Sono corsi ai ripari anche gli Stati Uniti e dal 2020 vietano praticamente di installare telecamere per quello che riguarda tutti i luoghi federali senza un’autorizzazione del ministero della Difesa nazionale. E hanno vietato l’installazione nei luoghi sensibili delle telecamere Dahua, Huawei e appunto Hikvision. Ora questo è un guaio che si prospetta in previsione del futuro digitale. Dove passa anche un pezzo della nostra salute.

Raffaele Ricciardi per repubblica.it il 15 dicembre 2021. In un mondo senza ladri e rapinatori, le imprese italiane del retail risparmierebbero 2,3 miliardi di euro all’anno di perdite (l'1,1% del fatturato del comparto) e non dovrebbero neanche preoccuparsi di spendere soldi in sistemi di sicurezza e affini: se si aggiunge questa voce a quella del valore dei beni sottratti, il conto sale a ben 3,4 miliardi, quasi 60 euro ad abitante. Ce ne sarebbe per molti bonus di una finanziaria. A mettere in fila le cifre è il nuovo studio realizzato da Crime&tech, spin-off company del centro Transcrime di Università Cattolica del Sacro Cuore, in collaborazione con il Laboratorio per la Sicurezza e il supporto di Checkpoint Systems, e presentato questa mattina a Milano. […] "Le regioni più colpite sono Campania, Puglia ed Emilia Romagna. Ma esistono alcune concentrazioni territoriali a maggior rischio, dalla bassa padana (tra Alessandria e Bologna), alle province di Bari e Brindisi, all’area compresa tra Napoli e Cosenza", dice lo studio. Ancora. "I punti vendita che soffrono maggiormente sono quelli localizzati nei comuni più piccoli e periferici, meno densamente popolati, con Pil pro-capite inferiore e tassi più alti di giovani e disoccupati registrano differenze inventariali maggiori. In media, le perdite sono più alte nei negozi in centri commerciali che in città". […] 

Da blitzquotidiano.it il 15 dicembre 2021. Una giovane ladra seriale ha accumulato una condanna a 30 anni di carcere per furti in abitazioni e altri reati, ma non ha mai scontato un solo giorno perché sempre incinta. Come domenica, quando è stata arrestata in flagranza di reato subito dopo aver rubato in un appartamento in via Giambellino, nella periferia sud-est a Milano. La donna, una giovane nomade di origine croata di 33 anni, è al settimo mese di gravidanza e ha già otto figli. Mentre si trovava a rubare nell’appartamento di Milano aveva con sé proprio una figlia di 13 anni, anche se la donna agli agenti ha detto che ne aveva 9. Gli agenti della polizia sono intervenuti chiamati da alcuni abitanti del palazzo in cui la donna stava effettuando il furto. Dopo averla bloccata, gli agenti hanno subito scoperto che su di lei già pendeva una condanna a 30 anni, ma l’autorità giudiziaria aveva deciso al momento per la sua non applicabilità. In particolare la donna era stata condannata dal Tribunale di Genova, per un gravoso cumulo pene e 18 condanne prevalentemente per furti in abitazioni nel centro e nord Italia, a 57 anni di carcere, poi ridotti dal Tribunale di sorveglianza di Milano a 30 anni, il massimo applicabile. L’ultimo arresto della donna risaliva allo scorso ottobre, per un colpo avvenuto sempre a Milano il mese prima, in un appartamento in via Luigi Anelli, in centro. Anche questa volta la pluripregiudicata ha evitato il carcere, anche se è stata portata in ospedale, alla Mangiagalli, per essere visitata in stato di arresto. La donna è stata processata ieri per direttissima: il giudice ha disposto per lei l’obbligo di firma. 

Ladre sempre incinte che evitano il carcere: i precedenti. Non è questo un caso isolato. Nell’anno dell’Expo, in particolare, due giovani donne nomadi vennero fermate dalla polizia locale dopo aver rapinato un turista in centro a Milano. Dai precedenti venne fuori che avevamo accumulato 192 denunce e 98 arresti, ma avevano sempre evitato il carcere perché incinte o con figli piccoli. 

Intimidazioni contro amministratori locali, una ogni 20 ore. Le regioni del Sud le più esposte. Il Quotidiano del Sud il 4 novembre 2021. NEL 2020 il 57,5% del totale dei 465 casi di intimidazioni ad amministratori locali e personale della Pubblica amministrazione censiti in tutta Italia si è registrato nel Mezzogiorno (267), in particolare il 41,1% dei casi al Sud e il 16,4% nelle Isole. Il restante 42,5% del totale (198 casi) si è verificato nel Centro-Nord, dove si riscontra un aumento del 3,5% dell’incidenza sul totale dei casi rispetto all’anno precedente. Sono alcuni dei dati contenuti in “Amministratori sotto tiro”, il rapporto curato da “Avviso Pubblico” giunto alla sua decima edizione. Il calo generalizzato dei casi ha colpito tutte le aree, ad eccezione del Nord-Est, che passa dai 59 atti censiti nel 2019 ai 68 del 2020.  Secondo i dati diffusi, in dieci anni si sono registrati 4.309 mila atti intimidatori contro amministratori locali, alla media di uno ogni 20 ore. Il 60% è avvenuto nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia), ma non ci sono territori immuni. Per il quarto anno consecutivo è la Campania a far registrare il maggior numero di intimidazioni a livello nazionale, con 85 casi censiti (furono 92 nel 2019). Seguono appaiate Puglia e Sicilia con 55 atti intimidatori, che fanno segnare un evidente calo rispetto al 2019, rispettivamente del 23 e del 17%.  In discesa anche la Calabria (38 casi rispetto ai 53 del 2019), conferma di un trend iniziato da alcuni anni. La Lombardia si conferma la regione più colpita del Nord Italia (37 casi, nove in meno del 2019), seguita dal Lazio (36 casi, stabile). Chiudono le prime 10 posizioni Veneto (30 casi, uno dei pochi territori in aumento), Emilia-Romagna (25), Toscana (23) e Sardegna (21). Conferme anche a livello provinciale: il territorio più colpito si conferma Napoli con 46 casi, con un incremento del 12% rispetto al 2019. Seguono Salerno (21 casi), Roma (20), Milano e Foggia (16), Cosenza (15), Padova e Lecce (14), Bari e Messina (13). 

Da trevisotoday.it il 6 novembre 2021. Fedez a terra sanguinante ed un sindaco, con indosso una fascia tricolore, che gli urina addosso stando in piedi su di lui in un gesto fortemente di sottomissione e spregio nei confronti del cantante. Questa l'immagine del videoclip "Morire morire", ultimo brano del noto cantante milanese, finito sotto la lente d'ingrandimento da parte della stampa nazionale, tanto che sul punto è voluto intervenire anche il sindaco di Treviso (oltre che presidente Anci Veneto), Mario Conte. «Fare il sindaco è ascoltare, mettersi a disposizione di una comunità dal comune di 30 abitanti alla metropoli da 3 milioni. E' tendere la mano, cercare una soluzione anche dove sembra improbabile se non impossibile. Fare il sindaco è dare risposte quando altre istituzioni non le danno, è asciugare le lacrime e talvolta esserci...in lacrime - dichiara il primo cittadino trevigiano - Fare il sindaco è aiutare i propri concittadini durante la tempesta, aprire le porte del Municipio e dell'Ufficio. Essere presenti. Fare il sindaco è, talvolta, non dormire di notte e avere neanche il tempo di farla, la pipì. Capisco la volontà di colpire, di far parlare sempre e comunque, di sfidare gli algoritmi. Capisco anche che l'arte di Fedez è la provocazione. Ma lasciamo perdere i sindaci. Loro, con le bagarre canore e politico-musicali, non ci vogliono avere nulla a che fare». Sul punto è poi intervenuta anche Katia Uberti, sindaco di Paese: «Caro Fedez, noi sindaci rappresentiamo i cittadini delle nostre comunità a prescindere dalla parte politica con la quale ci siamo candidati, rappresentiamo le istituzioni di questo Paese che sono espressione di libertà e democrazia. Indossiamo la fascia tricolore con orgoglio, con rispetto, con responsabilità. E tu che fai? Offendi tutte quelle persone che si dedicano al servizio delle piccole o delle grandi comunità! Ma quello che è ancor più grave è che ormai ci si senta legittimati a calpestare ogni cosa, mi chiedo che tipo di messaggio stiamo consegnando alle future generazioni». Due forti prese di posizione da parte di due importanti esponenti dell'amministrazione politica della Marca. Una scelta, quella di Conte ed Uberti, non solo politica ma anche, e soprattutto, morale ed etica. In ogni caso, però, la riposta di Fedez non si è fatta attendere, tanto che nel pomeriggio di oggi il cantante ha voluto rispondere proprio alla Uberti (in merito alla sua scelta provocatoria di farsi urinare addosso nel video) con una storia su Instagram: «Si, l’idea era quella».

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 17 ottobre 2021. Un trentottenne dell'Eur viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, ma una volta a processo la situazione si ribalta: l'ammanettato viene assolto e per i sei agenti intervenuti scatta la segnalazione alla Procura per abuso d'ufficio e calunnia. A inchiodarli, un video: non era stato il fermato a spintonare loro, come raccontato negli atti e in aula, ma, al contrario, erano stati loro a buttare a terra e a schiaffeggiare il fermato. Il caso risale alla serata del 31 maggio. Il trentottenne ha una lite in famiglia. È alterato, il padre e la sorella gli consigliano di lasciare in garage l'auto. Dalle insistenze si passa al battibecco, poi si arriva a una forte discussione. È il capofamiglia ad allertare la polizia: «Se non la finisci faccio intervenire le forze dell'ordine», avverte prima di telefonare. Arrivano tre volanti con sei agenti a bordo. L'uomo viene bloccato e portato via in manette e in stato di fermo con l'accusa di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Da quel momento le ricostruzioni divergono, come emergerà durante il processo per direttissima che si è chiuso due giorni fa. Gli agenti, appartenenti al commissariato Spinaceto, sentiti come testimoni subito dopo il fermo, avevano detto di aver subito offese ed aggressioni. Uno aveva specificato anche che l'uomo aveva tirato fuori una bottiglia da una tasca dei pantaloni, che si era rifiutato di consegnare i documenti e poi lo aveva spinto a terra. Alla fine dell'udienza, il colpo di scena. Il difensore dell'arrestato, l'avvocato Giuseppina Tenga, ha consegnato al giudice una pendrive con un video: le immagini sono ricavate dal sistema di videosorveglianza della villa dove vive il padre del fermato. E il filmato rivela altro: l'uomo non solo non sarebbe stato aggressivo, ma avrebbe consegnato i documenti prima di essere ammanettato e portato via di peso. Della bottiglia, almeno dalle immagini, nessuna traccia. I familiari dell'arrestato confermano: «Non ci aspettavamo che venisse arrestato senza motivo». Il procedimento, così, si è chiuso nell'udienza di mercoledì con la piena assoluzione dell'imputato e la trasmissione degli atti alla procura per i sei agenti. I reati ipotizzati sono abuso d'ufficio e calunnia. «Il mio assistito è un privilegiato perché ha avuto la possibilità di produrre un video - ha dichiarato l'avvocato Tenga - Senza quelle immagini non avrei potuto far sì che la verità trionfasse e adesso quello che era un imputato, probabilmente, diventerà parte offesa nell'eventuale processo a carico dei poliziotti». 

Voli aerei, i 17 peggiori atteggiamenti dei passeggeri: la lista di Caroline Mercedes. Ilaria Minucci il 09/09/2021 su Notizie.it. L’assistente di volo Caroline Mercedes ha stilato una lista dei 17 peggiori atteggiamenti messi in atto dai passeggeri a bordo degli aerei.

Voli aerei, i 17 peggiori atteggiamenti dei passeggeri: la lista di Caroline Mercedes

Voli aerei, i 17 peggiori atteggiamenti dei passeggeri: top tre

1. Ignorare gli assistenti di volo alla porta d’imbarco è scortese

2. Non chiedere se si riuscirà a non perdere una coincidenza troppo ravvicinata

3. Non punzecchiare l’assistente di volo

Voli aerei, i 17 peggiori atteggiamenti dei passeggeri: le altre posizioni

4. Togliersi le scarpe sull’aereo è volgare

5. Non chiedere coperte

6. Non suonare il campanello per consegnare la spazzatura

7. Togliere le cuffie quando si parla con un assistente di volo

8. Non andare in bagno appena ci si imbarca o si decolla

9. Non ascoltare musica o video ad alto volume

10. Non protestare per l’uso delle mascherine anti-Covid

11. Non usare il deposito per fare yoga

12. Non fare confronti con altre compagnie aeree, la politica aziendale non cambierà

13. Svegliare il vicino per dargli una bevanda o uno snack non è educato

14. Si può chiedere cosa si sta sorvolando ma non avere una risposta certa

15. Alzarsi durante una turbolenza è sbagliato

16. Non sorvegliare i propri figli genera pericolo per gli altri passeggeri e per l’equipaggio

17. Sfogare le proprie frustrazioni sugli assistenti di volo è scortese

L’assistente di volo americana, Caroline Mercedes, ha stilato una lista delle 17 cose che lei e i suoi colleghi vorrebbero che i passeggeri smettessero di fare. Caroline Mercedes, scrittrice freelance, travel blogger e social media influencer, ha passato gli ultimi 5 anni della sua vita a viaggiare per il mondo come assistente di volo. Dopo aver svolto il suo lavoro per un intero lustro, la donna ha ammesso di aver avuto la possibilità di osservare tutto ciò che può accadere su un aereo. A questo proposito, dialogando con alcuni dei suoi colleghi, ha deciso di fare una lista dei 17 atteggiamenti peggiori messi in pratica dai passeggeri.

1. Ignorare gli assistenti di volo alla porta d’imbarco è scortese

Caroline Mercedes ha spiegato che, nella maggior parte dei casi, i passeggeri non salutano gli assistenti di volo che li accolgono alla porta d’imbarco. Un simile atteggiamento è particolarmente sgradito: se gli assistenti di volo possono dire buongiorno o buonasera a più di 200 persone in fila, anche i passeggeri dovrebbero essere in grado di rispondere al saluto almeno una volta.

2. Non chiedere se si riuscirà a non perdere una coincidenza troppo ravvicinata

Volare può essere stressante e le coincidenze, talvolta, possono essere molto ravvicinate tra loro: tuttavia, sarebbe meglio prenotare voli che distino almeno un’ora l’uno dall’altro per non avere problemi durante il viaggio. “Non so dire quante volte un passeggero mi ha chiesto se riuscirà a rispettare la sua coincidenza quando il nostro volo sta atterrando in orario o in anticipo. Purtroppo, se bisogna chiederlo, la risposta è probabilmente no”, ha osservato la donna.

3. Non punzecchiare l’assistente di volo

Uno degli atteggiamenti più molesti dei passeggeri è rappresentato dal punzecchiare gli assistenti di volo. Sia Caroline Mercedes che i suoi colleghi reputano quest’abitudine estremamente fastidiosa e poco adatta a qualiasi contesto sociale, incluso l’aereo.

Per questo motivo, se si ha bisogno di rivolgersi a un assistente di volo, sarebbe preferibile usare la voce, alzare la mano o pigiare il pulsante di chiamata.

Voli aerei, i 17 peggiori atteggiamenti dei passeggeri: le altre posizioni

4. Togliersi le scarpe sull’aereo è volgare

Dopo essersi imbarcati sull’aereo, alcuni passeggeri si tolgono le scarpe e camminano a piedi nudi. Secondo Caroline Mercedes, questa usanza “è disgustosa” e certamente poco gradita ai vicini del passeggero che “probabilmente non apprezzano i piedi puzzolenti”.

5. Non chiedere coperte

Contrariamente a quanto si pensi, sugli aerei non esistono scorte extra di coperte. Pertanto, per contrastare eventuali sbalzi climatici durante gli spostamenti, Caroline Mercedes ha invitato i passeggeri a vestirsi a strati in modo tale da non dover patire il freddo e chiedere una coperta. Una simile richiesta, infatti, viene sistematicamente delusa in quanto sugli aerei non sono presenti scorte illimitate

6. Non suonare il campanello per consegnare la spazzatura

Concluso il servizio bevande, gli assistenti di volo passano tra i passeggeri per raccogliere la spazzatura. L’operazione viene fatta spesso e, per questo motivo, esiste sente un membro del personale tra i corridoi. Per questo motivo, quindi, Caroline Mercedes ha osservato: “È frustrante quando qualcuno suona il campanello di chiamata per raccogliere la spazzatura, perché probabilmente siamo appena stati lì, e potremmo non avere i guanti o un sacchetto della spazzatura con noi”.

7. Togliere le cuffie quando si parla con un assistente di volo

Per gli assistenti di volo, è difficile comunicare con i passeggeri che non si tolgono le cuffie. In una simile circostanza, infatti, è difficile farsi capire anche con l’audio in pausa mentre il passeggero non riesce a rendersi conto di quanto stia, in realtà, parlando a voce bassa.

8. Non andare in bagno appena ci si imbarca o si decolla

Buona parte dei passeggeri, in quasi tutti i voli, si dirigono alla toilette appena si imbarcano o subito dopo il decollo. Questi momenti condizionano negativamente il loro degli assistenti di volo che, proprio durante il livellamento, portano il carrello delle bevande nel corridoio dell’aereo e iniziano il proprio servizio. Pertanto, sarebbe più indicato usare il bagno del terminal prima di salire a bordo o aspettare che gli assistenti di volo porti a termine il loro servizio.

9. Non ascoltare musica o video ad alto volume

Ogni passeggero deve mettere le cuffie e non ascoltare musica o video a tutto volume per non infastidire gli altri passeggeri.

10. Non protestare per l’uso delle mascherine anti-Covid

Talvolta, i passeggeri contestano l’uso della mascherina anti-coronavirus sugli aerei. A questo proposito, Caroline Mercedes ha sottolineato: “Quando ho firmato il mio contratto di lavoro, non sono stata assunta per vigilare sulle mascherine. Ma, indipendentemente da qualsia si cosa, è il mio lavoro far rispettare la politica adottata sull’obbligatorietà delle mascherine sull’aereo finché il CDC e la Federal Aviation Administration lo richiedono durante il viaggio aereo”.

Non rispettare la politica delle compagnie aeree, potrebbe tradursi nell’impossibilità di continuare a viaggiare con una specifica compagnia in futuro.

11. Non usare il deposito per fare yoga

I passeggeri dovrebbero smettere di usare il deposito dell’aereo per fare yoga: la zona anteriore o posteriore dell’aereo è usata dagli assistenti di volo per posizionare i carrelli. Inoltre, non solo è frustrante per l’equipaggio, ma è una regola della FAA che vieta ai passeggeri di riunirsi in quelle aree.

12. Non fare confronti con altre compagnie aeree, la politica aziendale non cambierà

Riferire agli assistenti di volo le politiche messe in atto dalle altre compagnie aeree non modificherà la politica aziendale di quella con la quale si sta viaggiando.

13. Svegliare il vicino per dargli una bevanda o uno snack non è educato

Svegliare il proprio vicino per dargli uno snack o una bevanda non è educato come pensi, soprattutto se si tratta di uno sconosciuto. Se i passeggeri addormentati si sveglia dopo il passaggio dei carrelli, possono chiamare gli assistenti di volo e porre le loro richieste.

14. Si può chiedere cosa si sta sorvolando ma non avere una risposta certa

A volte, i passeggeri chiedono quali luoghi si stia sorvolando ma, nella maggior parte dei casi, gli assistenti di volo non lo sanno in quanto non hanno a disposizione una rotta prestabilita.

15. Alzarsi durante una turbolenza è sbagliato

Alzarsi durante una turbolenza è rischioso per se stessi e per tutti che vi sono intorno. Tuttavia, nel momento in cui la turbolenza sembra scemare, pare che ogni passeggero voglia alzarsi: un simile atteggiamento è tremendamente sbagliato e rischioso.

16. Non sorvegliare i propri figli genera pericolo per gli altri passeggeri e per l’equipaggio

Non sorvegliare i propri figli può essere pericoloso e scorretto sia nei confronti degli altri passeggeri che dell’equipaggio. Lasciare i propri bambini incustodito è un rischio ed è anche molto irrispettoso in considerazione del fatto che l’areo è uno spazio pubblico.

17. Sfogare le proprie frustrazioni sugli assistenti di volo è scortese

Gli assistenti di volo rappresentano la compagnia aerea ma non sono responsabili dei problemi che, di volta in volta, potrebbero verificarsi. Caroline Mercedes, infatti, ha spiegato: “Avere persone che ci urlano contro per cose che sono fuori dal nostro controllo è estenuante. Capisco che molte volte le persone hanno solo bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, ma dovete anche capire che gli assistenti di volo sono solo i dipendenti che vedete. C’è un’enorme azienda dietro di noi che comprende persone che fanno il possibile per svolgere al meglio il loro lavoro”.

Alessia Marani per “Il Messaggero” il 5 settembre 2021. Colpo gobbo nella villa dei Castelli del re delle porte blindate, l'industriale Benedetto Fedeli. L'uomo, oggi 77enne, subì nella stessa abitazione in via dei Laghi, in località Marino, nel 97 un tentativo di rapina in piena notte da parte di un gruppo di slavi. Allora, con l'intento di spaventarli, aprì il fuoco con la sua Smith & Wesson 357 regolarmente denunciata e sparò colpendo un 26enne, poi finito in coma e rimasto paralizzato. Un episodio per cui Fedeli fu chiamato a rispondere di tentato omicidio. La notte del primo settembre nella sua villa, a distanza di ventiquattro anni, ha fatto incursione un'altra banda. Più persone che, tra l'una e le due, hanno forzato il portone di ingresso, manomettendo il cilindro della serratura e utilizzando una macchina come auto-ariete per forzare i pistoni del freno motore del cancello automatico all'ingresso. Fino ad arrivare ad agguantare la cassaforte da terra che era in casa. Indisturbati, perché l'industriale non era presente e il guardiano, che vive in un'abitazione più in basso, credeva che i rumori che aveva sentito fossero i soliti schiamazzi provenienti da un ristorante vicino. Invece, erano i ladri. Bottino? Non ingente come sperato, evidentemente dal commando. Da quanto ricostruito dai carabinieri di Castelgandolfo che ieri sono tornati nella villa per un ulteriore sopralluogo, infatti, nella cassaforte vi era più che altro dell'argenteria, un fucile a piombini e la stessa pistola che sparò nel 97 e che ormai Fedeli teneva ben chiusa. Possibile che fosse l'arma l'obiettivo della banda? L'azione appare piuttosto eclatante rispetto al target, ma tutte le ipotesi restano aperte. Fedeli è domiciliato nel Centro di Roma ed è residente a Montecarlo. Nella villa dei Castelli va di tanto in tanto, trascorrendoci qualche week-end. Per questo all'interno non teneva più oggetti di eccessivo valore, né l'abitazione era presidiata da telecamere o altri accorgimenti particolari. Qualcuno che ha avuto accesso alla villa e ha avuto modo di scorgere la cassaforte, tuttavia, potrebbe avere pensato che dentro vi fossero valori o orologi di pregio. Quella notte del 97 Fedeli era nella villa con la moglie e il figlioletto di soli 15 giorni. Sentì dei rumori, scorse dalla finestra del primo piano due uomini che con una mazza ferrata stavano tentando di sfondare una vetrata blindata al piano terra e, in preda alla paura, sparò.

I superstiti italiani di Nizza: «Vivi per miracolo, lo Stato ci ha dimenticati». Cinque anni fa l’attentato sulla Promenade des Anglais che causò la morte di 86 persone. I sopravvissuti al tir scagliato sulla folla: “Non riusciamo a dimenticare l’orrore. Trattati come vittime di serie B”. Sabrina Pisu su L'Espresso il 13 luglio 2021. “Ricordo l’odore del ferro e il rumore dell’impatto del camion sulle persone. Ci siamo ritrovate nel mezzo della sparatoria della polizia, tutti correvano, c’erano corpi a terra, per scappare ci siamo dovute passare sopra”: la notte del 14 luglio di cinque anni fa a Nizza ha “segnato irrimediabilmente” Loredana Bonaventura e sua figlia Fabiana. Sono tra i superstiti dell’attentato terroristico commesso dal franco tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel, 31 anni, che ha scagliato il tir bianco di cui era alla guida sulla Promenade des Anglais, affollata per i fuochi d'artificio della festa nazionale francese.

Dietro i numeri, 86 persone uccise, di cui sei italiani – Mario Casati, Carla Gaveglio, Maria Grazia Ascoli, Gianna Muset, Angelo D'Agostino e il giovane italo americano Nicolas Leslie   – e 458 feriti, ci sono storie. Al dolore, si uniscono rabbia e delusione per il trattamento riservato dallo Stato italiano. Loredana Bonaventura, 56 anni, di San Maurizio Canavese, vicino Torino, era a Nizza per cure oncologiche: “Riprendevo con il cellulare un gruppo musicale, mi sono girata verso la folla e ho visto il camion, ho tirato via mia figlia, il camion l’ha sfiorata”. Ci sono ferite visibili e altre che restano sottopelle, non meno profonde. A Loredana Bonavenura e sua figlia Fabiana è stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress grave, entrambe sono in cura: “Io prendo anche degli psicofarmaci, solo per mia figlia spendiamo almeno 400 euro di neuropsichiatra al mese, non sono sufficienti i 600 euro che riceviamo”. Bonaventura si fa portavoce di problematiche condivise da superstiti e familiari di vittime anche di altri attentati: “Siamo arrabbiati perché siamo discriminati. È giusto che vengano concessi, a noi e a tutte le vittime italiane di atti di terrorismo compiuti al di fuori del territorio nazionale e ai superstiti, i benefici economici già dati con un provvedimento specifico, anche in assenza di una sentenza di terrorismo passata in giudicato, alle nove vittime italiane dell’attacco terroristico avvenuto a Dacca in Bangladesh nel luglio del 2016”. Un intervento normativo è necessario per garantire un equo trattamento alle vittime: “Su nostro impulso una proposta di legge era stata presentata nell’agosto del 2019 ma non ha avuto seguito. Il 29 ottobre del 2020 abbiamo rinnovato queste richieste alla deputata Marta Grande e al presidente della Camera Roberto Fico, stiamo ancora aspettando”. Loredana Bonaventura pone anche l’accento sui problemi degli indennizzi e della differenza di trattamento: “Gli indennizzi dovrebbero essere erogati dalla data dell’attentato e non da quando viene presentata la domanda, io l’ho fatta 18 mesi dopo perché non lo sapevo, in Italia nessuno ci ha contattato. Chi è riconosciuto, inoltre, come vittima dopo il 2004 non beneficia dello stesso riconoscimento sia sotto l’aspetto medico che economico”. Fabiana, 15 anni, si siede accanto alla madre, si copre gli occhi e sussurra: “Mi è rimasta tanta paura”. Va subito via. “Non ne parla”, dice sua madre mostrando un testo scritto a scuola in cui scrive che “è impossibile dimenticare e forse deve essere così nel rispetto di chi è stato sacrificato rimanendo su quell’asfalto”. Quella notte nel video girato da Bonaventura si vedono gli ultimi istanti di Angelo D'Agostino e Gianna Muset, una coppia di Voghera, in provincia di Pavia, di 71 e 68 anni. Erano a Nizza con gli amici Maria Grazia Ascoli e Mario Casati per festeggiare il pensionamento di Angelo D’Agostino. “Sono le ultime immagini dei miei suoceri vivi”, racconta Roberta Capelli. “Siamo andati avanti per i nostri bambini, dovevamo pensare a loro”, dice il figlio della coppia di Voghera, Eliano D’Agostino. Il 20 luglio del 2016 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha accolto all'Aeroporto di Milano Malpensa i feretri. “Dopo siamo stati dimenticati”, continua Eliano D’Agostino, “non siamo considerati il 9 maggio nella giornata dedicata alle vittime del terrorismo”. “Le commemorazioni sono solo un’iniziativa dei familiari, siamo risentiti, non siamo anche noi vittime come quelle degli anni di piombo?”, si chiede sua moglie Roberta Capelli.  “A Nizza ci invitano per commemorarci come vittime di un attentato terroristico che, nonostante sia un fatto conclamato, sarà riconosciuto come tale in Italia solo quando ci sarà in Francia una sentenza passata in giudicato, che chissà quando arriverà. Non ha senso”, dice Gaetano Moscato, 76 anni, a cui il tir quella notte ha tranciato una gamba. Il processo per l’attentato di Nizza, subito rivendicato dal cosiddetto “Stato Islamico”, si svolgerà davanti alla Corte d'assise speciale di Parigi dal 5 settembre al 15 novembre del 2022, al vaglio le responsabilità di altre otto persone, amici del franco tunisino, che è rimasto ucciso la sera del 14 luglio del 2016 dagli agenti di polizia, o intermediari coinvolti nel traffico di armi in suo possesso. Gaetano Moscato, che vive a Chiaverano, vicino Torino, quella notte a Nizza è riuscito a salvare la vita a sua figlia Silvia e a suo nipote Filippo, 12 anni, perdendo la gamba sinistra. “Stavamo per attraversare la Promenade des Anglais quando ci siamo ritrovati il camion addosso, ho spinto mio nipote e mia figlia e il tir mi è passato sulla gamba sinistra con la ruota anteriore”. Carla Gaveglio, che era con loro, è morta quasi sul colpo. “Mi sono seduto per terra e abbiamo fermato l’emorragia con la cintura di un ragazzo, accanto a me c’era la mia gamba a pezzi e il mio piede, ho raccolto tutti i pezzi nella speranza che un chirurgo potesse rimetterli insieme”, continua, commuovendosi. In ambulanza il medico gli ha detto subito che non c’era nulla fare, la gamba è stata amputata. Oltre all’operazione, alle protesi e alla riabilitazione, molte a sue spese, Gaetano Moscato è anche in cura per una sindrome post-traumatica da stress. E ha paura delle conseguenze per i suoi nipoti e gli adolescenti coinvolti, 12 bambini quella notte hanno perso la vita. “Filippo ha visto cose inenarrabili, mi ha visto perdere sangue come un maiale scannato. Mia nipote Aliyah, che aveva 18 anni, ha seri problemi ed è in cura da uno psicologo. Matilde, la figlia di Carla Gaveglio, aveva 14 anni e ha visto la madre morirle davanti.”

La "svastica sul Sole" e poi le fiamme: così l'Hindenburg trovò la fine. Davide Bartoccini il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel maggio del 1937 il più grande oggetto volante mai realizzato precipitò in fiamme davanti agli occhi increduli della stampa. Il disastro dell'Hindenburg segnerà la fine dell'era Zeppelin, ma le cause di quell'incidente restano ancora un mistero. Al temine della sua ennesima traversata oceanica, tranquilla e sicura, come lo erano state le altre trentaquattro che l’avevano preceduta, il dirigibile Hindenburg, gigante dei cieli argenteo sul quale spiccavano, nella coda, due enormi bandiere rosse fregiate dalla svastica, sta per approcciare la torre d’attracco della stazione aeronavale di Lakehurst, negli Stati Uniti. Era il 6 maggio del 1937. Decollato da Francoforte tre giorni prima, l'Hindenburg portava con sé 36 passeggeri che dalla vecchia Europa si apprestavano a sbarcare per raggiungere ognuno le coincidenze con aerei, navi e treni che li avrebbero condotti verso le rispettive destinazioni nel Nuovo Continente. Il personale dell’American Airlines era affaccendando nelle manovre d'attracco, quando d’improvviso le fiamme iniziarono ad avvolgere l’intera mastodontica struttura ovale, ricoperta di cotone e riempita d’idrogeno. Bastò appena un minuto per lasciare sul prato ancora umido di brina lo scheletro d’alluminio del gigantesco Zeppelin, che s’era tramutato d’un soffio in una palla di fuoco capace d'illuminare perfino il giorno. Tra i rottami incandescenti, giacevano trentacinque sfortunati. Vittime inattese di quel prodigio della tecnologia d'inizio secolo. Di quel che allora veniva considerato “il mezzo di trasporto più sicuro del mondo”.

Il Titano dei cieli

Lungo ben 246 metri - appena una ventina in meno del Titanic - il “Gigante dei Cieli” era considerato, oltre che “il più grande oggetto volante mai costruito”, anche il mezzo di trasporto più sicuro sul quale viaggiare. Intitolato al presidente tedesco, Paul von Hindenburg, l’ultimo della Repubblica di Weimar prima che l’ascesa irrefrenabile del Partito Nazionalsocialista portasse al potere Adolf Hitler, era il fiore all’occhiello della flotta di aeronavi rigide della Deutsche Zeppelin Reederei GmbH, compagnia fondata 1935 dal gerarca nazista Hermann Göring, delfino del Führer, asso da caccia della grande guerra e futuro bisbetico testardo comandante della forza aerea del Terzo Reich.

Spinto in volo da quattro motori a elica da 900 cavalli ciascuno - che gli consentivano una velocità massima di 135 chilometri all’ora - poteva raggiungere una quota di tangenza di 5.500 metri, grazie alle sue celle riempite di idrogeno, gas più leggero dell’aria, ma assai più pericoloso dell’elio: la sostanza aeriforme originariamente scelta per gli Zeppelin, ma irreperibile a causa di un embargo militare imposto dagli Stati Uniti. Benché esso fosse altamente infiammabile, rappresentava, almeno fino a quel momento, un falso problema. Poiché il carico d’idrogeno consentiva un ingombro di spazio minore, a vantaggio di una spinta maggiore. Consentendo quindi l’alloggiamento a bordo di un carico maggiore, e traducendosi in “più passeggeri”. L’Hindenburg così poteva portare fino a 72 passeggeri (50 nei voli transatlantici), alloggiati nelle cabine ricavate nella parte inferiore della sezione mediana. Mentre la gondola prua, e altre diverse gondole motori, trovavano il posto per i 61 membri d’equipaggio.

I venti del ritardo e lo strabilio di New York

Viaggiare su uno Zeppelin era come viaggiare su di una grande nuvola d’argento scintillante, sospinta da piccole e silenziose eliche nella placida troposfera. Riveriti da camerieri in livrea che servivano per l’aperitivo cocktail e cibi alla moda. Coccolati e rassicurati dall’equipaggio e dagli ufficiali in alta uniforme: proprio come avveniva nei grandi piroscafi, però nel cielo. 

Al comando dell’Hindenburg era il capitano Max Pruss, un prussiano dagli occhi piccoli che aveva servito nella Marina del Kaiser durante la Grande Guerra proprio sugli Zeppelin, e che aveva maturato una conoscenza profonda di quel pionieristico mezzo volante prestato al servizio civile. Fu lui a decidere, a causa del forte vento e della presenza di temporali sparsi nell’aerea intorno a New York, di ritardare l'arrivo dell'Hindenburg nel New Jersey, lasciando che la sua aeronave sorvolasse i cieli di Manhattan per il puro stupore dei newyorkesi. Che, sebbene avessero già osservato nel ’33 il loro dirigibile Goodyear Macon, rimasero comunque sbalorditi dal gigante argentato che sorvolano i loro altissimi grattacieli. Portando la "svastica sul Sole”, come avrebbe poi scritto Philip K. Dick nel suo distopico romanzo.

Un istante e poi le fiamme della "catastrofe"

“È andato in fiamme! È andato in fiamme e sta precipitando, si sta schiantando! Attenzione! Attenzione, voi! Toglietevi di mezzo! Toglietevi di mezzo! Riprendi, Charlie! Riprendi questo, Charlie! Il fuoco e si sta schiantando! Si schianta, è spaventoso! O mio Dio, toglietevi, ve ne prego! Brucia e divampa, e il… e sta precipitando sopra al pilone d’ormeggio e tutti si rendono conto che è terribile, questa è una delle peggiori catastrofi del mondo..”, furono queste parole di Herbert Morrison, che in lacrime raccontava un disastro che sarebbe rimasto per sempre impresse nella memoria del mondo, grazie anche alla copertura di cinegiornali e fotografi che attendevano l’arrivo dell’Hindenburg.

Sebbene la causa del disastro non sia mai stata del tutto chiarita, la tesi più avvalora fu quella che durante la fase di attracco una scintilla - si sospetta provocata dall’accumulo di elettricità statica - avrebbe dato luogo ad un piccolo incendio sul particolare rivestimento di cotone trattato, che in un batter d’occhio avrebbe innescato le celle d’idrogeno, propagando le fiamme istantaneamente in tutto il dirigibile. Delle 97 persone a bordo, ne muoiono 35, la maggior parte nel momento nell’incidente, altre, una ridotta parte, nelle ore seguenti a causa delle gravissime ustioni riportate. Delle vittime 13 erano passeggeri e 22 erano membri dell’equipaggio. La maggior parte dei passeggeri e dell’equipaggio riuscirono a mettersi in salvo saltando giù dal dirigibile che bruciando perdeva quota e concedeva un “salto” salvifico da un altezza sostenibile - tra i sei e i quattro metri. Singolare tra i superstiti il caso del capoelettricista Philipp Lenz, che sopravvisse, pur riportando gravi ustioni, poiché rimasto bloccato nella centrale elettrica che era pressurizzata e isolata da un rivestimento di alluminio. Lo stesso capitano Pruss, incastrato nella gondola di comando che essendo a prua raggiunse più tardi la terra, rimase gravemente ustionato e sfigurato. Seppur vivo.

Il sospetto sabotaggio e la fine dell’era degli Zeppelin 

Come detto, una delle cause che avrebbe potuto provocare l’incendio e la conseguente distruzione dell’Hindenburg sarebbe da ricondursi a una scintilla sprigionata da accumulo di elettricità statica. Una seconda ipotesi invece si fondò su una manovra "azzardata" da parte del comandate.

Il Dipartimento del Commercio Usa, al termine della sua inchiesta, stabilì che le fiamme erano senza dubbio divampate a causa del contatto tra idrogeno libero con l'aria. Ma quale fosse il motivo della presenza di questo “idrogeno libero” non è mai stata scoperta. Forse poteva essersi creato uno strappo nel rivestimento del dirigibile, e la scintilla accidentale - forse provocata dallo sfregamento di un cavo libero della torre di attracco - avrebbe pensato al resto. Una combinazione “letale” di fatalità, elettricità statica, e idrogeno libero fuggito dallo Zeppelin, che pure era ricoperto di tela di cotone rivestita di un particolare “composto di ossido di ferro e acetato butirrato di cellulosa, miscelati con polvere d’alluminio" per garantirne l’impermeabilità. Ma non eccellenti a livello ignifugo.

Per altri invece, si sarebbe trattato di sabotaggio. Un'azione determinata per infliggere un duro colpo mediatico al “signor Hitler” e ai dirigibili che erano considerati un simbolo della potenza nazista. Questo almeno secondo la dietrologia partorita dalla mente di Hugo Eckner, fervente nazionalsocialista e presidente dell’azienda Zeppelin. Un’ipotesi che rimane tutt’ora completamente infondata.

Dal momento che il regime nazista si era definito scettico circa l’impiego della tecnologia Zeppelin - si ricordi usati come prima piattaforma da bombardamento della storia bellica - per scopi civili, la rovinosa caduta dell’Hindenburg, quale che fosse la misteriosa causa di quel disastro, segnò profondamente il futuro dei dirigibili; considerati negli anni ’30 come una valida alternativa ai piroscafi e agli aeroplani, per le tratte transoceaniche. Oltre a rappresentare una piccola sconfitta per la fiera Germania Nazista, che già pianificava le sue oscure trame per conquistare il mondo e imporre in ogni latitudine del globo la svastica. Tre anni dopo il disastro dell’Hindenburg, gli hangar della Zeppelin di Francoforte saranno rasi al suolo, decretando una volta per tutte la fine dei viaggi in aeronave. Il mistero su quali siano state le vere cause dell’incidente, permane. E probabilmente, non verrà mai svelato.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Aereo precipitato a Linate, la famiglia distrutta del miliardario romeno che fuggì da Ceausescu.  Brunella Giovara su La Repubblica il 4 ottobre 2021. Ai comandi del Piper c’era l’immobiliarista con un patrimonio stimato in tre miliardi. Con lui la moglie, il figlio con il compagno e la famiglia italiana. "Mia moglie era lì. È lì". Nel buco annerito della palazzina semidistrutta, o polverizzata nell'aria che sa ancora di plastica bruciata, e anche di altro, e i cani al guinzaglio sono nervosi, i padroni che li portano a pascolare sull'erba li strattonano via. E poi ci sono questi due uomini stravolti, arrivati sgommando su una piccola macchina nera, "fatemi entrare, là c'è mia moglie, sono il marito di Lozinschi, c'è una Lozinschi tra i morti", ma il giovane agente di polizia li ferma, "non si può, c'è la Scientifica, stanno sollevando i teli".

Aereo caduto a San Donato, l’ultimo contatto radio: «Perché avete deviato?». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 3 Ottobre 2021. Il jet non ha segnalato anomalie o lanciato l’allarme. L’ipotesi stallo o disorientamento spaziale del pilota. I parametri anomali che hanno preceduto lo schianto. Cos’è successo alle 13.07 di ieri? È il momento in cui, tre minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Milano Linate, il Pilatus Pc-12 diretto a Olbia inizia non solo a discostarsi dalla rotta prestabilita, ma anche a inviare parametri anomali per chi li ha visti. «Perché avete deviato? Per evitare una turbolenza?», chiedono gli uomini-radar del Centro di controllo d’area di Linate che gestisce il traffico nei cieli del Nord-Ovest dell’Italia. Lo ricostruiscono al Corriere fonti dello scalo meneghino che chiedono l’anonimato perché non autorizzate a parlarne pubblicamente. «No», è l’unica parola che arriva in risposta dal pilota. Meno di un minuto dopo il velivolo sparisce dai monitor, senza alcun mayday, senza chiedere di rientrare d’urgenza in aeroporto. In quel momento, mostrano i bollettini meteo, nell’area pioviggina, il vento è leggero e le nuvole sono basse. Ed è tra le nuvole che il monomotore perde quota per sedici secondi fino a schiantarsi (l’incidente e il fumo hanno fatto chiudere Linate per 10 minuti). Saranno gli investigatori dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo a fare luce sulle cause. Una mano alle indagini la daranno i dati del «Lightweight Data Recorder», la scatola nera. Agli esperti toccherà anche chiarire cosa è successo tra la deviazione dalla rotta autorizzata, il breve dialogo con la torre di controllo e il momento in cui il Pilatus inizia a perdere 25-30 metri di quota al secondo. La lettura preliminare dei tracciati raccolti da tre diverse piattaforme specializzate mostra come sia successo qualcosa di così improvviso da non dare nemmeno il tempo di lanciare l’Sos. Il Pilatus Pc-12 romeno — con marche di identificazione Yr-Pdv — era arrivato a Milano da Bucarest il 30 settembre. Alle 12.52 di ieri si è mosso dal parcheggio di Linate Prime, il terminal dei voli privati, per dirigersi verso la pista 36. Alle 13.04:08 è decollato dirigendosi verso Nord, passando sopra l’Idroscalo di Milano, per poi virare a Sud dell’aeroporto. Una volta sopra le case di Metanopoli, frazione di San Donato Milanese, ha già deviato e mostra qualche problema. Alle 13:07:40 sta procedendo a 293 chilometri orari e 1.631 metri di quota, due secondi dopo la quota scende a 1.615 e la velocità balza a quasi 303. Altri due secondi ed è ulteriormente giù di 52 metri. Sette secondi prima dell’ultimo segnale il velivolo registra la velocità più alta: 319 chilometri orari. Chi ha dimestichezza con l’aeroporto sottolinea che nessuna procedura standard di partenza strumentale — che garantisce una separazione verticale e orizzontale dagli ostacoli e dal terreno in condizioni di bassa visibilità — prevede che i velivoli passino sulla traiettoria effettuata ieri dal jet privato. Cosa potrebbe aver portato all’impatto? Due esperti consultati dal Corriere spiegano il motore si potrebbe essere «piantato». Ma non si possono nemmeno escludere un malore di chi era ai comandi o il suo «disorientamento spaziale» una volta in mezzo alle nuvole. Uno degli interrogativi riguarda l’esperienza del pilota e le sue certificazioni. A leggere — e interpretare i parametri radar — poco dopo la prima virata si notano escursioni anomale nella salita: a un certo punto si toccano i 1.767 metri al minuto, valore inaccettabile per un Pc-12 e che porta allo stallo sicuro. Non a caso poi l’aereo precipita a 7.315 metri al minuto. Tutti elementi che andranno analizzati dagli investigatori. Per provare a rispondere alla domanda iniziale: perché l’aereo ha deviato?

Il misterioso Dan Petrescu, il miliardario romeno morto nell'incidente aereo di Milano. AGI il 3 ottobre 2021. Lo ricordano alla guida per anni di una vecchia Opel Vectra, con i vestiti stazzonati. Dan Petrescu, 68 anni, era considerato dalla stampa romena uno degli uomini più ricchi - e misteriosi - del Paese. Soprannome: "Il miliardario dell'ombra". Il suo patrimonio personale, a seconda dei media locali, varia fra uno e tre miliardi di euro. Calcolo approssimativo perché Petrescu, la cui parabola si è conclusa tragicamente alla cloche del Pilatus Pc-12 caduto oggi a San Donato Milanese, aveva spostato la residenza nel Principato di Monaco, con domicilio al Columbia Palace in Avenue Princesse Grace. Petrescu era partner in affari con il leggendario magnate ed ex tennista romeno Ion Tiriac, "il vampiro di Brasov", che cominciò a costruire la sua ricchezza in Germania al termine di una carriera sportiva ai vertici, quando si vantava di essere "il miglior giocatore di tennis che non sa giocare a tennis". Fondatore della prima banca privata romena del dopo Ceausescu, con business poi estesi al settore assicurativo, immobiliare, e indirettamente a tutti i rami dell'economia, Tiriac fu il primo romeno a entrare (2007) nella lista dei "Paperone" mondiali compilata da 'Forbes'. Collezionista maniacale di figli, stimati in oltre trenta, e di automobili di lusso, stimate in oltre 400. Petrescu, nella sua scia, aveva asceso le scale dorate del successo ma a differenza di Tiriac ostentando nulla o tutt'al più povertà. I giornali romeni collocano i suoi interessi in Unicredit iriac Bank, nell'holding Rocar e nel settore immobiliare quale proprietario tra l'altro di ipermercati e di centri commerciali nel Paese. Dai quindici ai venti secondo fonti citate dalla stampa romena. I rapporti di affari di Petrescu includevano anche quelli con l'ex azionista della squadra di calcio Dinamo di Bucarest Vova Cohn, con cui aveva acquistato nel 2015 il velivolo sul quale è morto oggi. Scarne assai le notizie su Petrescu in Italia. Soltanto il Ministero degli Affari Esteri romeno ha confermato in un comunicato il decesso, nel disastro aereo, "di due cittadini romeni con doppia cittadinanza". Il consolato generale di Romania a Milano si è attivato di propria iniziativa per fornire eventuale assistenza alle autorità italiane, per facilitare l'eventuale rimpatrio delle salme e agevolare le procedure legali. 

Che modello era l'aereo precipitato a Milano. AGI il 3 ottobre 2021. Il Pilatus PC12, il modello del velivolo caduto domenica a San Donato Milanese poco dopo il decollo da Linate, è un turboelica prodotto in Svizzera. Ci sono la versione per il trasporto merci e quella per uso militare per compiti che vanno dal pattugliamento marittimo a quelli di ricognizione e piattaforma di comando e controllo nelle missioni di Guerra elettronica, mediante l'installazione di radar, apparati elettronici e sistemi all'infrarosso. A seconda delle versioni il prezzo va dai 4,3 ai 5,4 milioni di dollari. Il costo per il noleggio varia a seconda della compagnia, ma si aggira intorno ai 2.000 dollari l'ora. La versione con due piloti a bordo può portare un totale di dieci persone, che scendono a 6 passeggeri nella versione executive, la più accessoriata. La velocità operativa è intorno ai 500 chilometri orari e il raggio di autonomia è di poco inferiore ai 3.000 chilometri. 

Il decollo, la picchiata, poi lo schianto: il volo di appena 3 minuti. Francesca Galici il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono bastati poco più di 180 secondi al volo YR-PDV per schiantarsi su una palazzina di Milano dopo il decollo da Linate. Solo 3 minuti: tanto è durato l'ultimo volo del Pilatus Pc-12 YR-PDV partito dall'aeroporto di Milano Linate, che poi si è schiantato nella periferia del capoluogo lombardo. Il decollo, stando ai dati finora noti, è avvenuto alle 13.04. Lo schianto alle 13.07. L'aereo, un velivolo privato, era diretto a Olbia e lo scorso 30 settembre, con un volo durato poco più di 3 ore, era arrivato a Milano da Bucarest. Il tracciato dell'aereo parla chiaro: il velivolo è caduto quasi in picchiata contro la palazzina nei pressi della stazione della metropolitana e dell'autosilo, sul confine con il comune di San Donato. Il tempo a Milano è quello tipico autunnale di queste parti, una giornata uggiosa con pioviggine, niente che possa creare particolari problemi a un aereo in fase di decollo. Ora saranno le autorità a far luce su quanto accaduto ma i tracciati preliminari del volo forniti da Flightaware, che segnano il percorso dal decollo allo schianto, possono già dare le prime informazioni su quanto sia accaduto in quei 180 secondi che hanno separato i passeggeri dalla morte. Il decollo è stato effettuato alle 13:04:12. Fino alle 13:07:29 l'aereo ha correttamente effettuato la salita anche se non in maniera regolare. Infatti, alle 13:06:53, l'aereo ha un'improvvisa variazione positiva dell'altitudine rispetto al tempo di 914, viaggia a 306 km/h e si trova a 1.295 metri. Da questo punto in poi sembra avere un rallentamento, alle 13:07:10 la velocità di salita (RoC) scende fino a 533 e anche la velocità rallenta, arrivando a 241 km/h, mentre la quota raggiunta è di 1.600 metri. Alle 13:07:29 il tasso di salita si inverte e diventa negativo, -65, mentre l'aereo sembra riprendere velocità fino a 315 km/h e la sua quota sale, ma solo fino a 1.615 metri. Questa sarà la massima altitudine raggiunta dal volo YR-PDV. Alle 13:07:45 il tasso di salita è di -200, la velocità è aumentata ancora fino a 365 km/h ma l'altitudine è scesa a 1.562. Quasi una picchiata per il volo. Da quel momento non ci sono più informazioni. L'aereo si è schiantato dopo aver percorso poco meno di 20 km, seguendo una rotta quasi ad anello. "Ha effettuato una virata rispetto al decollo, probabilmente si è accorto di una anomalia", ha Carlo Cardinali, funzionario dei vigili del fuoco di Milano. Un testimone ha dichiarato che l'aereo fosse a fuoco prima di schiantarsi: "Ho visto l'aereo in volo, aveva perso il controllo, c'era una scia e le fiamme sotto l'aereo". 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Aereo precipitato a Milano, l'ultimo contatto radio: "Perché avete deviato?". Dramma in 16 secondi, la sconcertante risposta del pilota. Libero Quotidiano il 04 ottobre 2021. "Perché avete deviato?: gli uomini del centro di controllo hanno fatto questa domanda poco prima che l'aereo privato diretto a Olbia si schiantasse a San Donato Milanese. E' successo alle 13.07 di ieri, tre minuti dopo il decollo dall'aeroporto di Milano Linate. In quella manciata di secondi il jet si sarebbe discostato dalla rotta prestabilita e avrebbe inviato pure dei parametri anomali. All'inizio si pensava a una deviazione dovuta a una turbolenza, salvo poi capire che non fosse quello il problema. Lo hanno riferito al Corriere della Sera fonti dello scalo meneghino, che hanno chiesto di rimanere anonime. "No", sarebbe stata l'unica risposta fornita dal pilota alla domanda su un'eventuale turbolenza. Pochi secondi dopo, il velivolo è sparito dai monitor, senza fare nessuna richiesta di aiuto e senza chiedere di rientrare d’urgenza in aeroporto. Alla fine il jet ha perso quota per sedici secondi fino a schiantarsi. A occuparsi del caso, adesso, saranno gli investigatori dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, che potranno capire meglio cosa sia successo anche grazie all'aiuto della scatola nera. Quale potrebbe essere stata la causa dello schianto? Secondo diversi esperti contattati dal Corriere, il motore si potrebbe essere "piantato". Ma non si escludono nemmeno un malore di chi era al comando o il suo "disorientamento spaziale" una volta in mezzo alle nuvole. Uno dei dubbi principali riguarda l’esperienza del pilota e le sue certificazioni. Stando ai parametri radar, infatti, pare ci siano state escursioni anomale nella salita. 

Chi sono le vittime dell'incidente aereo di Milano: due sono italiane. Francesca Galici il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sono in totale 8 le persone decedute nello schianto dell'aereo a Milano: tra loro la famiglia del miliardario rumeno Dan Petrescu e alcuni amici. Mentre gli investigatori sono a lavoro per capire come abbia fatto a cadere l'aereo Pilatus Pc-12, che poco dopo le 13 si è schiantato sul tetto di un palazzo disabitato nella periferia sud di Milano, nel pomeriggio è stata resa nota l'identità di parte delle vittime. A bordo erano presenti 8 persone e nessuna di loro è sopravvissuta all'impatto. Ai comandi c'era Dan Petrescu, immobiliarista miliardario con doppio passaporto tedesco e rumeno, proprietario del velivolo. Dan Petrescu era uno degli uomini più ricchi di Romania, dove risultava proprietario di catene di supermercati ma anche di gallerie commerciali e di altri immobili di prestigio. Era arrivato in Italia a bordo del suo aereo lo scorso 30 settembre e dopo una breve sosta a Milano era diretto in Sardegna, in Costa Smeralda, dove ad attenderlo c'era già sua madre. La donna, un'anziana signora di 98 anni, si trovava nella villa del magnate, dove Petrescu l'avrebbe raggiunta nel primo pomeriggio di oggi, se l'aereo non fosse improvvisamente precipitato per cause ancora da accertare. A bordo dell'aereo viaggiavano, insieme a Dan Petrescu, anche sua moglie, una donna di 65 anni nata in Romania ma con passaporto francese e suo figlio, Dan Stefan Petrescu di appena 30 anni, nato a Monaco di Baviera. Come riportano alcune fonti rumene, il giovane Petrescu sarebbe arrivato a Milano pochi giorni prima del padre, di rientro dal Canada dove lavora come ricercatore scientifico insieme a una coppia di amici, che ieri hanno battezzato il figlio e che erano a bordo dell'aereo. I vigili del fuoco, infatti, hanno confermato di aver trovato anche il corpo di un bambino. Loro sarebbero Filippo Nascimbene, nato nel 1988 a Pavia e manager, e la moglie Claire Stephanie Caroline Alexandrescou, 34 enne, nata in Francia e manager pubblicitaria. Il piccolo si chiamava Raphael e aveva quasi 2 anni. A bordo anche Miruna Anca Wanda Lozinschi, madre della ragazza. L'ultima vittima sarebbe Julien Brossard, amico di Petrescu jr. "L'impatto è stato molto violento e ci sono delle oggettive difficoltà nel recupero delle salme", ha detto il procuratore aggiunto di Milano, Tiziana Siciliano, dopo un sopralluogo. Le operazioni di identificazione sono ancora in corso e non c'è stata ancora l'ufficialità dell'identità di tutte le vittime dell'incidente. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

(ANSA il 4 ottobre 2021.) C'è anche lo "stallo del motore" tra le ipotesi al vaglio di inquirenti e investigatori che indagano sull'incidente aereo di ieri alle porte di Milano e nel quale sono morte otto persone tra cui un bimbo di nemmeno due anni. Da quanto apprende l''ANSA, a parlare di blocco è stato uno dei tecnici dell'Enav che si occupa del caso, sulla base dei filmati delle telecamere di sorveglianza della zona, in cui si vede il velivolo precipitare ad altissima velocità con il muso a 90 gradi e disintegrarsi sull'edificio. Da quel video, i cui fotogrammi dovranno essere analizzati dalla polizia scientifica, non risulta il motore in fiamme.

(ANSA il 4 ottobre 2021.) - Gli uomini della sala radar si sono accorti che, pochi minuti dopo la partenza da Linate, il Pilatus precipitato ieri, causando 8 morti, stava virando verso destra in modo anomalo invece di procedere verso sud e hanno ricevuto una comunicazione dal pilota, il quale pronunciò una frase del tipo "little deviation (piccola deviazione, ndr)", ma senza il motivo o allarmi specifici. Poco dopo avrebbe chiesto un "vettore", ossia uno spazio per rientrare verso l'aeroporto. Dopo meno di un minuto la traccia è sparita dal radar perché l'aereo ha iniziato a scendere in picchiata. Lo ha appreso l'ANSA da fonti qualificate. I pm di Milano Paolo Filippini e Mauro Clerici, che coordinano con l'aggiunto Tiziana Siciliano le indagini sull'incidente aereo di ieri alla periferia sud della città al confine con San Donato, si stanno recando sul luogo della tragedia. Stamane in Procura si è tenuto un vertice tra inquirenti e investigatori. Tra i prossimi passi dell'inchiesta per disastro colposo ci sarà l'acquisizione delle registrazioni delle comunicazioni tra il Piper e la sala radar di Linate e le analisi tecniche sulla scatola nera recuperata ieri. Nell'incidente sono morte 8 persone tra cui un bimbo di circa due anni. Si è lavorato tutta la notte, alla luce delle lampade fotoelettriche, sul luogo dello schianto dell'aereo da turismo che ieri, dopo il decollo da Linate, è precipitato su una palazzina in ristrutturazione in via Marignano, a Milano, al confine con San Donato Milanese (Milano). Gli ultimi vigili del fuoco sono tornati in sede stamani alle 7, mentre sul posto rimane la Polizia Scientifica per i rilievi e la Polizia Locale per impedire l'accesso alle aree coinvolte dall'incidente aereo, che ha provocato 8 morti. Secondo quanto riferito dalla Polizia Locale oltre a presidiare l'area dello schianto e dell'incendio, e a gestire la chiusura di un ampio tratto di via Marignano, al momento è vietato l'accesso a un parcheggio d'interscambio dell'Atm (la società dei trasporti milanese) e a parte del grande spiazzo dove si trovano le banchine dei mezzi di superficie, abitualmente affollate di viaggiatori, che sono state spostate. La palazzina su cui è precipitato il velivolo, infatti, si trova molto vicino al cosiddetto 'parcheggio dei bus' antistante alla metro MM3 San Donato. (ANSA).

S. Bet. per il “Corriere della Sera - ed. Milano” il 4 ottobre 2021. Operai, capicantiere, architetti. Tutte figure che avrebbero riempito la palazzina di San Donato in un giorno feriale. Invece ieri era vuoto l'edificio in via di costruzione contro cui si è schiantato un aereo privato, causando otto vittime. «Non c'era dentro nessuno - conferma Michele Pugliese, direttore dei lavori - ma domattina (oggi, ndr ) ci sarebbero stati dentro gli operai. In un altro momento l'impatto poteva causare più morti, soprattutto perché una volta completato ci sarebbe stata dentro la biglietteria, la foresteria degli autisti, gli uffici della stazione». A due passi dal capolinea San Donato della linea «gialla» della metropolitana si stava infatti realizzando un nuovo terminal per i bus a media e lunga distanza, sul modello di Lampugnano. Il cantiere, ricostruiscono dal Comune, è iniziato nel 2018 per poi bloccarsi a causa di un ricorso al Tar e di alcune questioni sollevate dalle aziende di trasporto. Dopo la vittoria di Palazzo Marino di fronte ai giudici amministrativi, i lavori sono ripartiti. Il progetto è stato affidato tramite una gara ad Autostazioni di Milano, che si impegna alla manutenzione per i dieci anni successivi al completamento dell'opera. Il piano di riqualificazione prevede di dare maggiore fruibilità e sicurezza all'hub. Nella palazzina su cui è caduto l'aereo si stavano realizzando una biglietteria, una sala d'attesa con servizi igienici per i viaggiatori, un bar e una foresteria per gli autisti. Previsti inoltre pannelli fotovoltaici a copertura delle pensiline e colonnine per la ricarica elettrica. Il progetto comprende poi un'area tecnica per il lavaggio e l'assistenza agli autobus, un parcheggio dedicato alla sosta dei mezzi e uno per le auto private con accesso controllato e recintato. Tra gli altri interventi, l'abbattimento delle barriere architettoniche, il miglioramento della viabilità delle vie limitrofe, l'installazione di un nuovo ascensore per collegare l'autostazione con il mezzanino della M3. Una volta conclusi i cantieri, il nuovo hub sarebbe stato videosorvegliato e coperto da wi-fi e attrezzato con pannelli per dare informazioni ai passeggeri. I lavori erano a buon punto e il taglio del nastro era in calendario per dicembre, ricorda l'architetto Pugliese. Ancora da valutare i danni dell'impatto del velivolo e di conseguenza il destino della nuova autostazione.

Leonard Berberi per il "Corriere della Sera" il 4 ottobre 2021. Cos' è successo alle 13.07 di ieri? È il momento in cui, tre minuti dopo il decollo dall'aeroporto di Milano Linate, il Pilatus Pc-12 diretto a Olbia inizia non solo a discostarsi dalla rotta prestabilita, ma anche a inviare parametri anomali per chi li ha visti. «Perché avete deviato? Per evitare una turbolenza?», chiedono gli uomini-radar del Centro di controllo d'area di Linate che gestisce il traffico nei cieli del Nord-Ovest dell'Italia. Lo ricostruiscono al Corriere fonti dello scalo meneghino che chiedono l'anonimato perché non autorizzate a parlarne pubblicamente. «No», è l'unica parola che arriva in risposta dal pilota. Meno di un minuto dopo il velivolo sparisce dai monitor, senza alcun mayday , senza chiedere di rientrare d'urgenza in aeroporto. In quel momento, mostrano i bollettini meteo, nell'area pioviggina, il vento è leggero e le nuvole sono basse. Ed è tra le nuvole che il monomotore perde quota per sedici secondi fino a schiantarsi (l'incidente e il fumo hanno fatto chiudere Linate per 10 minuti). Saranno gli investigatori dell'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo a fare luce sulle cause. Una mano alle indagini la daranno i dati del «Lightweight Data Recorder», la scatola nera. Agli esperti toccherà anche chiarire cosa è successo tra la deviazione dalla rotta autorizzata, il breve dialogo con la torre di controllo e il momento in cui il Pilatus inizia a perdere 25-30 metri di quota al secondo. La lettura preliminare dei tracciati raccolti da tre diverse piattaforme specializzate mostra come sia successo qualcosa di così improvviso da non dare nemmeno il tempo di lanciare l'Sos. Il Pilatus Pc-12 romeno - con marche di identificazione Yr-Pdv - era arrivato a Milano da Bucarest il 30 settembre. Alle 12.52 di ieri si è mosso dal parcheggio di Linate Prime, il terminal dei voli privati, per dirigersi verso la pista 36. Alle 13.04:08 è decollato dirigendosi verso Nord, passando sopra l'Idroscalo di Milano, per poi virare a Sud dell'aeroporto. Una volta sopra le case di Metanopoli, frazione di San Donato Milanese, ha già deviato e mostra qualche problema. Alle 13:07:40 sta procedendo a 293 chilometri orari e 1.631 metri di quota, due secondi dopo la quota scende a 1.615 e la velocità balza a quasi 303. Altri due secondi ed è ulteriormente giù di 52 metri. Sette secondi prima dell'ultimo segnale il velivolo registra la velocità più alta: 319 chilometri orari. Chi ha dimestichezza con l'aeroporto sottolinea che nessuna procedura standard di partenza strumentale - che garantisce una separazione verticale e orizzontale dagli ostacoli e dal terreno in condizioni di bassa visibilità - prevede che i velivoli passino sulla traiettoria effettuata ieri dal jet privato. Cosa potrebbe aver portato all'impatto? Due esperti consultati dal Corriere spiegano il motore si potrebbe essere «piantato». Ma non si possono nemmeno escludere un malore di chi era ai comandi o il suo «disorientamento spaziale» una volta in mezzo alle nuvole. Uno degli interrogativi riguarda l'esperienza del pilota e le sue certificazioni. A leggere - e interpretare i parametri radar - poco dopo la prima virata si notano escursioni anomale nella salita: a un certo punto si toccano i 1.767 metri al minuto, valore inaccettabile per un Pc-12 e che porta allo stallo sicuro. Non a caso poi l'aereo precipita a 7.315 metri al minuto. Tutti elementi che andranno analizzati dagli investigatori. Per provare a rispondere alla domanda iniziale: perché l'aereo ha deviato?

L’aereo caduto a Milano «era fuori controllo», forse un errore del pilota. Nei filmati sulla tragedia di Linate non si vedono fiamme prima dello schianto. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. Nei filmati sequestrati dagli investigatori non si vedono fiamme provenire dal motore Pratt & Whitney turbo-albero. Né dalla fusoliera o dalla carlinga del Pilatus Pc-12 del magnate rumeno Dan Petrescu. C’è però l’aereo che «proveniente da Est» perde quota «andando a impattare sulla struttura (la palazzina degli uffici Atm, ndr) perpendicolarmente». Totalmente fuori controllo. Se per un guasto al motore, agli strumenti o al sistema idraulico è ancora presto per dirlo. Ma sulla base dei tracciati radar del Pc-12 si fa largo anche l’ipotesi di un errore umano.

Il giallo delle fiammate. Domenica alle 13 quando il volo diretto a Olbia della compagnia «Sc Aviroms» è decollato da Linate con a bordo Petrescu, la moglie, il figlio Stefan, e il 32enne Filippo Nascimbene, la moglie, la suocera e il figlio Raphael di 20 mesi, le condizioni meteo non erano a rischio, ma neanche ideali. Perché intorno ai 1.800 piedi (quasi 600 metri) c’erano nuvole compatte e pioggia. È anche su questo aspetto che si concentrano le indagini dei pm Paolo Filippini, Mauro Clerici e dell’aggiunto Tiziana Siciliano, che hanno aperto un fascicolo per disastro aereo. Gli inquirenti per il momento, in attesa di prove documentali (nuovi filmati o analisi dei dati della scatola nera), vanno cauti sul racconto di alcuni testimoni che hanno detto di aver visto «fiammate» uscire dall’aereo in caduta. Il Pilatus Pc-12 potrebbe invece essere andato in «stallo» iniziando a precipitare verso il suolo.

L’ultimo contatto radio. Un fattore notevole potrebbero averlo giocato le nubi attraversate in fase di decollo e di allineamento alla rotta verso la Sardegna che potrebbero aver disorientato il 67enne Petrescu ai comandi. Il tutto unito a una valutazione errata di pesi (il Pc-12 era a pieno carico) e velocità. Questo potrebbe spiegare anche il dialogo tra il pilota e la torre di Linate che lo contatta poco prima della caduta per accertarsi di una anomalia nella rotta. Petrescu ha risposto solo «little deviation» ricevendo poi dai controllori di volo le istruzioni per rientrare nel corretto percorso. Cosa che però il Pc-12 non farà mai.

Il mancato Sos. Subito dopo l’incidente, i controllori avrebbero riferito alla polizia di una richiesta arrivata dal pilota «di fare rientro presso lo scalo, iniziando le relative manovre»: «Poco dopo il velivolo spariva dai radar senza che fosse comunicata l’emergenza a bordo, il cosiddetto mayday». Il mancato Sos è uno degli elementi che fa diffidare dell’ipotesi del guasto perché con fiamme o anomalie la prima cosa che si fa è assicurarsi di avere pista libera per il rientro. E Linate è uno scalo molto trafficato. Quanto accaduto sembra più legato a un fenomeno improvviso e che ha impegnato il pilota nel tentativo di tenere in assetto l’aereo senza poter lasciare i comandi. Al momento non è chiaro se il 67enne abbia effettivamente richiesto di tornare a Linate. La risposta arriverà dall’analisi delle comunicazioni, sequestrate dai poliziotti dell’Upg e della Scientifica, e messe a disposizione degli investigatori dell’Ente nazionale per la sicurezza del volo. Nelle prossime ore la Procura nominerà un ingegnere aerospaziale del Politecnico per le consulenze tecniche.

L’arrivo da Bucarest. L’aereo, gestito a Linate dalla «Signature flight support», era arrivato a Milano nel primo pomeriggio di giovedì scorso, proveniente da Bucarest. Nello scalo italiano non risultano interventi di manutenzione né di rifornimento di cherosene. L’aereo sarebbe rimasto tre giorni nel piazzale dello scalo Ata, l’aeroporto privato, dove intorno alle 12 sono arrivati i sette passeggeri accompagnati da Petrescu. Poi il lungo rullaggio sui tracciati Mike e November fino alla pista. Sequestrati i registri di volo e di manutenzione e documenti del costruttore svizzero, della società rumena proprietaria che fa sempre capo a Petrescu e del produttore canadese del motore.

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"La caduta a picco fa pensare a uno stallo". Manila Alfano il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'esperto: il pilota potrebbe essere andato nel panico dopo un guasto. «Sto deviando». Dan Petrescu voleva tornare indietro. Il pilota magnate aveva capito che qualcosa non andava. Tutto succede in una manciata di secondi, forse troppo pochi, lui e i suoi sette passeggeri avevano appena lasciato l'aeroporto di Linate, destinazione Olbia. Aveva comunicato una little deviation. Poi l'impatto. «Molto improbabile che abbia chiesto la deviazione per il maltempo». Christian Damian Yeates è tranchant. «Impossibile che il tempo sia stato il fattore scatenante che ha convinto il comandante a virare; le condizioni meteo non possono cambiare così velocemente». È sicuro del fatto suo Yeates, da anni direttore Flight Sim Center, il centro di simulazione di volo dove vengono addestrati i piloti di linea dopo ore e ore di volo certificate. In questa cabina virtuale si simulano le situazione peggiori che potrebbero capitare nella realtà. Ed è per questo che il direttore sa che il maltempo da solo non può bastare.

E allora direttore cosa può essere successo?

«Solo le indagini potranno stabilire con certezza quello che realmente è accaduto in quei terribili istanti, ma le procedure sono standard per tutti: quando un pilota richiede il piano di volo, il controllo del traffico aereo fornisce anche le condizioni meteo, in gergo si chiama il metar, breafing meteo. Dunque il comandante sapeva ancora prima di decollare che il tempo non era dei migliori. E comunque c'era pioggia, ma la visibilità era buona. Ma c'è dell'altro».

Cosa?

«Non mi tornano alcuni dettagli, che in una storia del genere fanno la differenza. Aveva chiesto l'autorizzazione a rientrare ma non aveva fatto in tempo a dire il perché: meno di un minuto più tardi, l'aereo si schiantava uccidendo tutti gli otto passeggeri. Il modo in cui si è schiantato, con il muso dentro la palazzina fa pensare che l'aereo sia andato in stallo e da lì la caduta a picco».

Un errore umano?

«Lo human factor nello stallo è altamente probabile, bisogna considerare anche la quota. L'aereo era ancora in salita, l'altezza che aveva raggiunto rimaneva ancora critica».

Potrebbe essere andato in panico?

«Non è da escludere. Purtroppo in situazioni così è tutto velocissimo. Un guasto meccanico, unito alle condizioni già non ottimali del meteo, l'imprevisto e la difficoltà, il panico, l'idea di rientrare alla base il prima possibile. Aveva l'aereo al completo, quindi con molto peso dato anche dai bagagli e dal carburante. Questi sono aerei in piena regola, ma hanno comunque un solo motore».

Quanto vale l'esperienza in questi casi?

«Ovviamente è importante come condizione di base. Per pilotarlo serve la licenza da pilota commerciale che non è poco ma è previsto un single pilot, un uomo solo al comando». Manila Alfano

Riccardo Pelliccetti per “il Giornale” il 4 ottobre 2021. Lo hanno battezzato «Suv aereo definitivo» perché il Pilatus PC-12, come la vettura, è un velivolo, detto banalmente, multiuso. Può infatti trasportare passeggeri ma anche merci o la combinazione dei due. L'aereo precipitato ieri a San Donato Milanese, causando la morte di otto persone, era un velivolo da turismo cioè per il trasporto passeggeri. È ancora presto per definire le cause dell'incidente, anche se si parla di un possibile guasto meccanico. Diversi testimoni, infatti, hanno affermato che «l'aereo aveva un motore in fiamme ed è venuto giù in picchiata, non si sono viste manovre, è proprio precipitato». Che sia stata poi un'avaria imprevista o una procedura di manutenzione ai limiti della sicurezza a stabilirlo saranno le indagini e le perizie tecniche. La manutenzione, ogni 100 ore di volo a secondo del tipo di velivolo, è di solito eseguita da tecnici di aziende specializzate, alle quali si rivolgono i proprietari privati degli aeromobili, come il miliardario Dan Petrescu. Si tratta comunque di un aereo affidabile, secondo il produttore svizzero Pilatus Aircraft, entrato in servizio nel 1994 e ancora in produzione. Sono circa 1.800 i velivoli consegnati nel mondo in diverse versioni, sei per l'esattezza, alle quali si aggiunge anche una militare. È un aereo utilizzato per il trasporto leggero e l'utenza d'affari, con la cabina pressurizzata, monomotore ad ala bassa. Quello che si è schiantato nell'hinterland milanese è un Pilatus PC-12/47E, immatricolato sei anni fa, che rispetto alla versione iniziale ha un peso al decollo aumentato e un motore turboelica Pratt & Whitney. Il fatto che sia un monomotore è stata una scelta dell'azienda produttrice che aveva l'obiettivo di consentire dei costi d'acquisto e di manutenzione abbastanza contenuti, se rapportati a velivoli bimotore della stessa categoria. Il prezzo di questo aereo parte da circa 4,4 milioni di dollari e aumenta a seconda della versione. Quella base può trasportare fino a 10 persone, pilota compreso, mentre in quella Vip è previsto un comfort maggiore con sei posti. Inoltre, la cabina può essere configurata in modalità conferenza. Il Pilatus PC-12 ha una velocità di crociera di circa 290 nodi (oltre 530 km/h) e può volare per circa 3.300 km, coprendo, dall'Italia per esempio, tutte le rotte europee e del Nord Africa. Non sono molti gli incidenti che hanno visto protagonista questo aereo. In Italia era già accaduto nel 2011, quando un Pilatus Pc-12 è precipitato subito dopo il decollo vicino all'aeroporto di La Spreta, alle porte di Ravenna, causando 11 feriti. Uno schianto più recente è avvenuto negli Stati Uniti, poco lontano dall'aeroporto di Chamberlain, nel South Dakota. Il 1° dicembre 2019, infatti, questo modello di aereo si è schiantato poco dopo il decollo, come a San Donato e a Ravenna, provocando nove morti. In quel caso, ci furono delle controversie legali che addebitavano all'azienda svizzera dei «progetti critici e difetti del sistema» ed elencavano 29 incidenti che vedevano coinvolto il PC-12. Resta tuttavia un dato di fatto: gli esperti del settore aeronautico statunitense hanno affermato che, dal 1994 al 2016, questi aerei «avevano accumulato oltre 5 milioni di ore di volo con zero incidenti mortali per guasti al motore». Ma negli ultimi 5 anni gli schianti mortali sono stati due con 18 vittime.

Quel "Suv dei cieli" e i due precedenti con morti e feriti. I controlli demandati a ditte specializzate.

Riccardo Pelliccetti il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il "Pilatus PC-12" è un aeromobile che può trasportare persone e merci. È ritenuto un mezzo affidabile, ma gli incidenti a Ravenna e negli Usa aprono interrogativi sulla sicurezza. Lo hanno battezzato «Suv aereo definitivo» perché il Pilatus PC-12, come la vettura, è un velivolo, detto banalmente, multiuso. Può infatti trasportare passeggeri ma anche merci o la combinazione dei due. L'aereo precipitato ieri a San Donato Milanese, causando la morte di otto persone, era un velivolo da turismo cioè per il trasporto passeggeri. È ancora presto per definire le cause dell'incidente, anche se si parla di un possibile guasto meccanico. Diversi testimoni, infatti, hanno affermato che «l'aereo aveva un motore in fiamme ed è venuto giù in picchiata, non si sono viste manovre, è proprio precipitato». Che sia stata poi un'avaria imprevista o una procedura di manutenzione ai limiti della sicurezza a stabilirlo saranno le indagini e le perizie tecniche. La manutenzione, ogni 100 ore di volo a secondo del tipo di velivolo, è di solito eseguita da tecnici di aziende specializzate, alle quali si rivolgono i proprietari privati degli aeromobili, come il miliardario Dan Petrescu. Si tratta comunque di un aereo affidabile, secondo il produttore svizzero Pilatus Aircraft, entrato in servizio nel 1994 e ancora in produzione. Sono circa 1.800 i velivoli consegnati nel mondo in diverse versioni, sei per l'esattezza, alle quali si aggiunge anche una militare. È un aereo utilizzato per il trasporto leggero e l'utenza d'affari, con la cabina pressurizzata, monomotore ad ala bassa. Quello che si è schiantato nell'hinterland milanese è un Pilatus PC-12/47E, immatricolato sei anni fa, che rispetto alla versione iniziale ha un peso al decollo aumentato e un motore turboelica Pratt & Whitney. Il fatto che sia un monomotore è stata una scelta dell'azienda produttrice che aveva l'obiettivo di consentire dei costi d'acquisto e di manutenzione abbastanza contenuti, se rapportati a velivoli bimotore della stessa categoria. Il prezzo di questo aereo parte da circa 4,4 milioni di dollari e aumenta a seconda della versione. Quella base può trasportare fino a 10 persone, pilota compreso, mentre in quella Vip è previsto un comfort maggiore con sei posti. Inoltre, la cabina può essere configurata in modalità conferenza. Il Pilatus PC-12 ha una velocità di crociera di circa 290 nodi (oltre 530 km/h) e può volare per circa 3.300 km, coprendo, dall'Italia per esempio, tutte le rotte europee e del Nord Africa. Non sono molti gli incidenti che hanno visto protagonista questo aereo. In Italia era già accaduto nel 2011, quando un Pilatus Pc-12 è precipitato subito dopo il decollo vicino all'aeroporto di La Spreta, alle porte di Ravenna, causando 11 feriti. Uno schianto più recente è avvenuto negli Stati Uniti, poco lontano dall'aeroporto di Chamberlain, nel South Dakota. Il 1° dicembre 2019, infatti, questo modello di aereo si è schiantato poco dopo il decollo, come a San Donato e a Ravenna, provocando nove morti. In quel caso, ci furono delle controversie legali che addebitavano all'azienda svizzera dei «progetti critici e difetti del sistema» ed elencavano 29 incidenti che vedevano coinvolto il PC-12. Resta tuttavia un dato di fatto: gli esperti del settore aeronautico statunitense hanno affermato che, dal 1994 al 2016, questi aerei «avevano accumulato oltre 5 milioni di ore di volo con zero incidenti mortali per guasti al motore». Ma negli ultimi 5 anni gli schianti mortali sono stati due con 18 vittime. Riccardo Pelliccetti 

Lo spettro della strage di Linate. Giannino della Frattina il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. Destino. Sette terribili lettere e otto morti nello schianto dell'aereo che ha terminato il suo volo in via 8 ottobre. Destino. Sette terribili lettere e otto morti nello schianto dell'aereo che ha terminato il suo volo in via 8 ottobre. Una data che i milanesi ricordano bene perché in quel giorno di nebbia la città fu scossa dalla strage di Linate nella quale a morire furono in 118. I 104 passeggeri e i 6 membri dell'equipaggio dell'aereo dell'MD-87 della Scandinavian airlines che centrò in pieno un Cessna entrato in pista (anche in quel caso un aereo privato) con quattro persone a bordo e quattro dipendenti della Sea, la società che gestisce lo scalo di Linate. Solo sopravvissuto l'operaio Pasquale Padovano trasformato in una torcia dal carburante, ma che riportò ustioni nell'85% del corpo che lo costrinsero a un calvario di oltre cento operazioni chirurgiche. Una ferita che la città non ha dimenticato e della quale proprio in questi giorni ricorderà i vent'anni. Ma c'è un altro disastro nella memoria dei milanesi con protagonista un altro aereo da turismo. Era il 18 aprile del 2002 e a infilarsi al 26esimo piano del Grattacielo Pirelli, uccidendo oltre al pilota Anna Maria Rapetti e Alessandra Santonocito, due dipendenti della Regione Lombardia che lì aveva la sede. Un orrore reso ancor più bruciante dalle immagini così simili e allora recentissime degli attentati alle Torri gemelle. Tutti fantasmi che sono tornati ieri quando ha cominciato a circolare la notizia della nuova tragedia. Un filo nero che ha agganciato anche le recenti immagini del grattacielo andato a fuoco in via Antonini il 29 agosto. Quello, almeno, senza vittime. Giannino della Frattina

Milano, l'areo precipitato a pochi passi dalla strada in memoria delle 118 vittime della strage di Linate. Libero Quotidiano il 3 ottobre 2021. L’incidente aereo di San Donato è avvenuto all’incrocio tra via 8 Ottobre 2001 e via Marignano, vicino al capolinea del metrò a San Donato, a pochi passi dalla sede dell’Eni. La strada è dedicata alla memoria delle 118 vittime della strage di Linate dell’8 Ottobre di vent’anni fa esatti, lo scontro sulla pista 36R tra un Md-87 e un Cessna Citation D-IEVX, poco dopo le 8 del mattino. Il più grave disastro aereo in Italia. Sulla pista di Linate si scontrarano un volo di linea SK686 della compagnia Scandinavian Airlines (aereo McDonnell-Douglas MD-87 marca Se-Dma), diretto a Copenaghen, e un jet privato diretto a Parigi, con a bordo quattro persone. Circa 18 secondi dopo aver staccato il carrello anteriore, l’aereo travolge e distrugge il jet, schiantandosi poi contro l’hub di smistamento bagagli dell’aeroporto. Morirono 104 passeggeri e i 6 membri dell’equipaggio, le quattro persone a bordo del Cessna e quattro dipendenti Sea, la società che gestisce lo scalo Forlanini. Nel disastro un solo sopravvissuto: Pasquale Padovano. Investito da un fiume di carburante infuocato, divorato dalle fiamme, ha subito oltre 100 interventi chirurgici. Aveva ustioni sull’85% del corpo. Intanto è stata ritrovata la scatola nera e emergono le prime ipotesi sulla tragedia. Il Pilatus sembra caduto in verticale, da circa 1.500 metri, e ci sono resti sparsi per circa 200 metri. Un lavoro tecnico certosino anche perché lo studio degli incidenti impedisce il ripetersi di errori, di mancati controlli, persino di quelle cose che, non sapendo come spiegarle, chiamiamo "fatalità".

Incidente di Linate, 20 anni dopo il disastro aereo.  Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2021. È un tipico lunedì per i pendolari dell’aria. Quando nella nebbia, all’improvviso, qualcuno nota una gigante palla di fuoco. Sono le 8.11 e 58 secondi dell’8 ottobre 2001 quando qualcuno dalla torre dell’aeroporto di Milano Linate chiama il Centro di controllo d’area. «Senti, mi riporti se lo scandinavo vi ha chiamato?», chiede l’addetto, con la voce calma. «Lo scandinavo quale?», rispondono dalla sala di controllo, non senza nascondere un po’ di sorpresa. «Il 686 in decollo», ribattono dalla torre. «No, non lo vedo sul radar». «Eh, neanche noi, è scomparso e non ci risponde più», dice — stavolta con tono più sommesso — il responsabile. «Veramente?». È un lunedì mattina. Nello scalo cittadino c’è il solito via vai. Fuori ci sono 17 gradi e una nebbia fitta. Non si vede nulla oltre i 50-100 metri, a seconda dei momenti. Nonostante questo gli spostamenti vanno avanti. Il volo SK686 sull’Md-87 di Scandinavian Airlines (Sas) diretto a Copenhagen, Danimarca, con 110 persone a bordo (104 passeggeri, 2 piloti, 4 assistenti di volo) è partito alle 8:10, quasi due minuti prima quella telefonata.

Il dramma non visto. Ma né la torre di controllo dello scalo né la sala radar che gestisce l’intero Nord-Est Italia ricevono segnali dal bimotore sui loro monitor. E nessuno di loro si è ancora accorto che a poche centinaia di metri, in fondo alla pista, l’Md-87 è andato a disintegrarsi contro un edificio, mentre lungo la striscia d’asfalto un velivolo privato — un Cessna 525 Citation CJ2 — è diventato una palla di fuoco.Un aereo nell’autunno 2001 all’aeroporto di Linate in un giorno di nebbia. È il peggior disastro aereo in Italia con 118 morti (i 110 del volo Sas, 4 su quello privato, 4 nell’edificio di fianco al terminal dove si registra anche un ferito grave). È anche il secondo, a livello mondiale, tra le collisioni in fase di decollo dopo l’incidente di Tenerife nel 1977 (583 morti). La lettura di centinaia di pagine tra rapporto finale d’inchiesta e allegati tecnici mostra come ci siano voluti diversi minuti prima di accorgersi del dramma. E come nonostante di fianco i vigili del fuoco fossero impegnati a recuperare i corpi tra i rottami, altre compagnie aeree cercavano di capire quando sarebbero partiti i loro voli. Ignorando i contorni del dramma in corso. (sotto la ricostruzione tratta dal materiale allegato al rapporto finale dell’Ansv sull’incidente)

I preparativi. «Imbarco completato», annuncia alle 7.41 e 20 secondi la capo cabina del volo SK686, Lise Lott Andersen, danese di 57 anni. «Ora chiudo la porta», spiega questa donna che è in Sas dal 1971 (trent’anni) e che aveva deciso di andare avanti ancora un pochino prima della pensione. «Mi sembra un’ottima idea», risponde il comandante Joakim Gustafsson, svedese di 36 anni, 5.624 ore di volo alle spalle. Alla sua destra, come primo ufficiale, c’è Anders Hyllander, connazionale e coetaneo, con 2.370 ore di servizio. In cabina, assieme ad Andersen ci sono Olaf Jakobsoon, svedese 49enne e ben 15.143 ore di lavoro in Sas, Janne Penttinen, danese 30enne e Eiler S. Danielsen, connazionale 27enne.McDonnell Douglas Md-87Lunghezza: 39,75 metriAltezza:9,25 metriApertura alare: 32,87 metriPersone a bordo al momento dell’incidente110Velocità massima: 870 km/hAutonomia: 8.890 chilometriPosti a sedere: 120. Il volo per la Danimarca sarebbe dovuto decollare alle 7.35. Alle 7.41 e 26 secondi le scatole nere registrano la chiusura delle porte. Iniziano i contatti con la torre di controllo mentre in cabina gli assistenti di volo impiegano circa tre minuti per le istruzioni di sicurezza. L’Md-87 si avvicina lentamente alla pista 36. La nebbia rallenta un pochino le procedure e in quel momento c’è traffico. da sinistra: Joakim Gustafsson, comandante; Anders Hyllander, primo ufficiale; Lise Lott Andersen, capo cabina.

L’errore. Dall’altra parte dell’aeroporto, al terminal dei voli privati, c’è un Cessna che si prepara. A bordo si trova Luca Fossati, proprietario dell’industria alimentare Star. È diretto a Parigi-Le Bourget con rientro previsto lo stesso giorno. Fossati è seduto vicino a Stefano Romanello, dirigente di Cessna. Il volo privato è operato da Air Evex, società tedesca (oggi chiusa) e la partenza è programmata per le 8.19. Le due tipologie di traffico — i voli commerciali e quelli di aviazione generale — a Linate condividono la stessa pista, come avviene in quasi tutti gli scali nel mondo. Il Cessna accende i motori davanti al piccolo terminal. Il controllore dei movimenti a terra indica al velivolo di rullare a Nord attraverso il raccordo R5 e poi fa una richiesta: «Richiamatemi al punto di attesa del prolungamento della pista principale». «Ok, richiameremo prima di raggiungere la pista principale», replicano dal Cessna. Una ripetizione non precisa, tant’è vero che qui si innesca la catena di eventi che porta al disastro. L’aereo privato una volta al bivio invece di prendere il raccordo R5 gira a destra verso l’R6. Un po’ — come confermerà l’inchiesta — per la nebbia, un po’ per la segnaletica logora che rende difficile distinguere il 5 dal 6.Cessna 525 Citation JetLunghezza: 12,98 metriAltezza:4,19 metriApertura alare:14,30 metriPersone a bordo al momento dell’incidente4Velocità massima: 720 km/hAutonomia: 2.408 chilometriPosti a sedere: 5Luca Fossati era a bordo del Cessna. A contribuire alla confusione sono anche le mappe non aggiornate: dopo alcuni metri il Cessna arriva al punto di attesa S4 ma piloti e controllori ne ignorano l’esistenza. Per questo quando il jet annuncia la sua posizione S4 dalla torre sono convinti che sia un errore di comunicazione e così autorizzano a proseguire il rullaggio. In quel momento il radar di terra è spento. Il 17 agosto — meno di due mesi prima — sul Corriere il controllore di volo Mauro Iannucci aveva denunciato che senza quello strumento «ogni attraversamento in pista corrisponde a un rischio collisione» (leggi nell’Archivio tutti gli articoli di quei giorni). Con il radar di terra fuori uso nessuno può accorgersi che il Cessna è entrato in pista e contromano, avvolto dalla nebbia. Sono le 8.10.

Senza scampo. Intanto qualche secondo prima, alle 8.09 e 24 secondi, il controllore dà il via libera al volo Sas. «Scandinavian 686, qui Linate, avete l’ok al decollo. Il vento è calmo. Avvisate quando avete preso la rincorsa», è l’indicazione. Tredici secondi dopo il primo ufficiale Hyllander ripete le istruzioni fornite, come da prassi. Il velivolo accelera verso le 8.10. Alle 8.10 e 18 secondi si sente l’inizio del distacco dalla pista a 270,5 chilometri orari. Due secondi dopo i nastri registrano un «Ma cosa...?» attribuito a Hyllander. L’equipaggio scandinavo ha visto qualcosa. Ma è troppo tardi. Mezzo secondo dopo il jet urta contro un oggetto. È il Cessna fermo in pista che si spezza in tre tronconi ritrovati a una decina di metri tra loro. Le fiamme subito dopo l’impatto con il fabbricato di Linate. L’Md-87 perde la gamba del carrello destro e il motore destro, ma riesce comunque a volare per una dozzina di secondi, sollevandosi fino a poco meno di undici metri: il comandante — giustamente — cerca di dare potenza al motore sinistro, l’unico rimasto, per poter comunque risalire, fare il giro attorno allo scalo e rientrare. Ma la manovra non riesce perché centinaia di detriti finiscono tra le pale. Il velivolo perde quota, il comandante a quel punto prova a fare l’opposto — riducendo la potenza del motore —, ma l’aeromobile procede fino a fermarsi e a prendere fuoco quando sbatte a 257,6 chilometri orari contro il fabbricato dello smistamento bagagli, a 460 metri dalla fine della pista. Sono le 8.10 e 36 secondi.

Nessuna risposta. La nebbia nasconde il dramma. Le finestre insonorizzate non aiutano a capire subito cosa accade. Alle 8.11 dalla gestione del traffico telefonano alla torre: «Ascolta, abbiamo sentito tutta una serie di colpi, come di un motore che stesse...». «Eh, li abbiamo sentiti anche noi ma non sappiamo cos’è?», chiedono dalla torre. E aggiungono: «Perché qua sembrava come qualcuno che salisse pesantemente le scale». «No qua sembrava un motore che perdeva colpi, però con una potenza...», è la replica. «Non hai niente di strano? Perché io qua, cioè visibilità zero, non riesco a vedere niente», dicono dalla gestione del traffico. «Anche noi qui», confermano dalla torre.La coda dell’Md-87 quasi disintegrata. La stessa torre, alle 8.11 e 26 secondi — un minuto e sei secondi dopo l’incidente — inizia a chiamare il volo Sas. «Scandinavian 686 qui Linate». Dall’altra parte non risponde nessuno. Il controllore fa altri due tentativi a distanza di dieci secondi. È a quel punto, alle 8.11:58 che chiama il centro di controllo d’area per chiedere se almeno loro hanno un contatto con l’Md-87. Ricevendo però risposta negativa.

«Vediamo delle fiamme». Alle 8.12:40 è il volo Alitalia AZ2023 che chiama. «Senta, noi siamo qua all’A15 (il gate, ndr), dietro di noi abbiamo sentito, un paio di minuti fa, tre colpi in sequenza... la rampista riferisce di aver visto nella parte terminale della pista una scia rossa di fuoco». La torre di controllo continua a chiamare l’Md-87. Sette minuti dopo l’incidente riceve la telefonata del responsabile di scalo di Scandinavian Airlines. «Volevo sapere se si tratta di un volo Sas», chiede. «Sì — è la risposta —, c’è un volo Sas che è scomparso dal radar, era stato autorizzato al decollo ma non l’abbiamo più visto». «Dall’aerostazione vediamo delle fiamme», comunica il responsabile. «Ma che succede», chiedono da un altro volo Alitalia. «Se vuole la verità non lo sappiamo», ammettono dalla torre. Le informazioni non sono ancora certe. Alle 8.22:36 — dodici minuti dopo l’incidente — dal centro di controllo chiedono alla torre: «Mi confermi che l’aeromobile che ha preso fuoco è sulla pista?». «Non lo so se è sulla pista — taglia corto il controllore —, non so se si è scontrato, non so niente. C’è una nebbia totale, io vedo al massimo Air One parcheggiato sotto di me». C’è anche chi, in questo clima caotico e senza notizie certe, inizia a temere un attacco terroristico. Del resto dall’11 settembre è passato meno di un mese e il mondo è ancora scosso. Ma è un’ipotesi che dura poco, pochissimo. Un controllore nella torre dell’aeroporto di Linate nell’ottobre 2001.

Quel che resta di un jet. In questo scambio di comunicazioni manca il Cessna. Fino a quando alle 8.25:21 — un quarto d’ora dopo l’impatto — la torre viene contattata da Ata, l’aeroporto privato di Linate. «Scusate chiediamo di un aereo che aveva iniziato il rullaggio e non sappiamo più dov’è», esordisce l’addetto. «E quindi manca all’appello anche questo — sostengono dalla torre —, non vorrei che avesse preso anche questo qua nell’uscita». Su un’altra linea si cerca di capire che fine abbia fatto il Cessna. Viene contattato un altro aereo privato, un Learjet 60, che avrebbe dovuto averlo davanti. «Quando abbiamo iniziato il rullaggio non c’era nessun aereo», rispondono i piloti. Sono le 8.33:18. Una quarantina di secondi dopo viene chiesto a una delle macchine dei Vigili del fuoco di controllare se in pista c’è un piccolo aereo. La scoperta avviene alle 8.36:50, oltre ventisei minuti dall’impatto. «C’è un aereo in pista... quello che resta di un aereo», è l’annuncio alla torre.

L’unico sopravvissuto. Alle 8.44 l’agenzia Ansa pubblica il primo flash d’agenzia con il massimo dell’urgenza. «+++Aerei: incidente a Linate, feriti+++». Un testimone a Radio Popolare spiega che un aereo della Sas si è alzato in volo ed è ricaduto, incendiandosi, su una palazzina utilizzata per lo smistamento dei bagagli. Alle 9.11 sempre l’Ansa aggiunge con un altro lancio: «Ci sono morti e feriti». Vittime non soltanto sul Md-87 e sul Cessna, ma anche nel capannone dove quattro dei cinque addetti perdono la vita, mentre un quinto, Pasquale Padovano, si riesce a salvare ma è gravemente ustionato su gran parte del corpo. È l’unico sopravvissuto. I nomi iniziano a comparire sui siti dei giornali prima degli annunci ufficiali. Cosa che spinge Sas a pubblicare la lista «prima che la polizia abbia informato i parenti delle vittime». I pompieri impiegano più di un giorno e mezzo a estrarre tutti i corpi dall’aereo scandinavo. Gli ultimi vengono portati via alle 18.20 del 9 ottobre. Il bilancio finale conta 64 vittime italiane, 20 svedesi, 18 danesi, 7 finlandesi, 3 norvegesi, 2 tedesche, una romena, una sudafricana, una britannica e una americana.

Una catena di cause. Le cause del disastro sono tante e tutte elencate nelle 200 pagine della relazione d’inchiesta del gennaio 2004. C’è una causa «immediata» rappresentata dall’ingresso in pista, senza autorizzazione, del Cessna e quindi all’errore umano. In realtà nei giorni successivi altri piloti raccontano che quella deviazione veniva usata spesso per accorciare i tempi di rullaggio di una decina di minuti. Ma la scorciatoia veniva sempre seguita da un paio di controllori di torre. Come spiegano sempre gli esperti un incidente è sempre frutto di più fattori che si registrano contemporaneamente. Per questo gli esperti dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo parlano di dinamica dell’evento «maturata in condizioni meteo caratterizzata da bassissima visibilità e in una situazione strutturale particolarmente carente, aggravata da procedure inadeguate e tali da non consentire una rilevazione tempestiva e in grado di correggere sempre possibili errori umani». In quel momento, viene messo nero su bianco, «c’era un elevato numero dei movimenti dei velivoli, mancavano gli ausili tecnici adeguati, l’equipaggio del Cessna non è stato aiutato da una corretta documentazione, dal sistema di luci, dalla segnaletica orizzontale (non conforme o non conosciuta) e verticale (inesistente)». E ancora: «Comunicazioni radio effettuate non sempre nel rispetto della fraseologia standard, in lingua inglese e italiana», errori dei controllori di terra e altre carenze aeroportuali. Tutte cose poi corrette e rimesse a posto. A partire dal radar di terra — non operativo quel giorno — e acceso il 19 dicembre 2001. Il processo agli imputati per strage colposa si chiude in Cassazione nel 2008 con cinque condanne e due assoluzioni.

118. Alle 8.10 del mattino, l’8 ottobre 2021, per un minuto tutti gli aeroporti nazionali sono rimasti in silenzio, come chiesto dell’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) «per rendere omaggio alle 118 vittime e stringersi idealmente ai loro familiari». A ricordare tutti i morti c’è un bosco con 118 faggi dentro il Parco Forlanini — di fianco all’aeroporto di Linate — con al centro «Dolore infinito», l’opera in granito donata da Sas e realizzata dallo scultore svedese Christer Bording. Il Comitato 8 ottobre — nato per ricordare le vittime del disastro, ma anche per chiedere giustizia — ospita sul sito ufficiale anche una pagina di pensieri per ciascuna persona che ha perso la vita. Alcuni nomi sono pieni di messaggi. Altri contengono le sintesi vere e proprie di questi vent’anni tra figli cresciuti, vite ricreate, mogli e mariti deceduti, parenti e amici e colleghi di lavoro e vicini di casa passare ogni tanto a dire un «ciao» digitale. C’è anche chi, in questa distesa di volti, dedica una frase dolce a chi di dediche fino a quel momento non ne aveva ricevuti. «Mi dispiace tanto che per te non ci sia nessun messaggio, quindi ho deciso di scriverti io», è il primo testo il 16 maggio 2003 sulla pagina di Gunilla Fristedt che ha lasciato due figli di 7 e 14 anni. «Non ci conosciamo. Sono una ragazza di 17 anni di un piccolo paesino in provincia di Lecce — si legge —. Non so cosa dirti, ma sono sicura che tutti i tuoi conoscenti ti pensano ogni giorno, e che tu li guardi da lassù per proteggerli». I messaggi sulla pagina di Gunilla sono poi saliti a cinque.

Sos disperato del pilota del Pilatus. Cristina Bassi il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le parole di Petrescu alla sala radar: "Faccio una deviazione, chiedo di rientrare". «Sto facendo una piccola deviazione. Chiedo di poter rientrare». Sono queste le ultime parole alla torre di controllo di Linate di Dan Petrescu, ai comandi dell'aereo precipitato domenica tra l'aeroporto milanese e San Donato. Nel disastro sono morti tutti gli occupanti dell'aereo privato, otto persone tra cui un bambino di meno di due anni. Gli uomini del Centro di controllo radar hanno subito notato che circa tre minuti dopo il decollo il Pilatus Pc-12 stava virando a destra in modo anomalo invece di seguire la rotta prevista (era diretto a Olbia) e hanno sentito il pilota che pronunciava la frase «little deviation», ma che non ha spiegato il motivo né ha parlato di allarmi specifici. Non ha segnalato alcuna emergenza, relativa al motore o al maltempo. Poi Petrescu ha chiesto un «vettore», cioè uno spazio e le coordinate per rientrare a Linate. La sala controllo li ha subito forniti, ma dopo meno di un minuto da questo scambio il tracciato del velivolo è sparito dal radar: l'aereo stava precipitando. Emerge inoltre, riporta l'agenzia Ansa, che tra le ipotesi sulle cause del disastro c'è lo «stallo del motore». A parlare di blocco sarebbe stato uno dei tecnici dell'Enac che si occupa del caso sulla base dei filmati delle telecamere di sorveglianza della zona. Si vede infatti il piccolo aereo privato che precipita a forte velocità con il muso a 90 gradi rivolto verso terra. L'impatto è stato violentissimo, il velivolo si è «disintegrato» e gli inquirenti hanno trovato sul terreno solo pezzi «molto piccoli». Da quel video, che verrà analizzato dalla polizia scientifica, non risulterebbe quindi che il motore fosse in fiamme come hanno invece dichiarato alcuni testimoni subito dopo l'incidente. Ieri i pm Paolo Filippini e Mauro Clerici, che coordinano con l'aggiunto Tiziana Siciliano l'inchiesta per disastro colposo, hanno effettuato un nuovo sopralluogo sull'area alla periferia sud della città al confine con San Donato. In mattinata c'è stato un vertice tra inquirenti e investigatori. Al più presto saranno acquisiti le registrazioni delle comunicazioni tra il Pilatus e la sala radar e le analisi tecniche sulla scatola nera, che è già stata recuperata. Intanto gli investigatori della polizia giudiziaria hanno organizzato all'aeroporto di Linate uno spazio dove poter ricevere i parenti delle vittime. Per procedere con i riconoscimenti ufficiali, saranno necessarie le comparizioni del Dna. Ieri si è lavorato ancora per cercare di recuperare i resti dei passeggeri. Oltre a Petrescu, magnate romeno 67enne, la moglie Regina Dorotea Petrescu Balzat,il figlio Dan Stefan Petrescu e un amico canadese di questo, Julien Brossard. Con loro il giovane manager pavese Filippo Nascimbene, sua moglie Claire Stephanie Caroline Alexandrescou, la madre di lei Miruna Anca Wanda Lozinschi e il figlioletto Raphael. La Procura, una volta ricostruita l'esatta dinamica, punta a stabilire eventuali responsabilità nel disastro. Del pilota, del costruttore o degli addetti alla manutenzione. Il Pilatus era arrivato a Linate il 30 settembre da Bucarest. Durante i giorni di sosta, nella parte dello scalo riservata ai voli privati, non ha fatto rifornimento e non è stato sottoposto a interventi di manutenzione. Alle indagini collaborerà l'Ansv, Agenzia nazionale sicurezza di volo, che si occuperà anche all'analisi della scatola nera per la quale è necessario uno specifico software di decriptazione dei dati e per cui serviranno alcuni giorni. L'agenzia potrà acquisire informazioni e dati dalla società svizzera che ha fabbricato l'aereo e da quella canadese che ha realizzato il motore. Oltre che documenti dalla Romania sulla proprietà della società che era in capo allo stesso Petrescu. Cristina Bassi

Eleonora Lanzetti e Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2021. Due famiglie di amici partite da Linate e dirette a Olbia, in Sardegna, per una vacanza al mare fuori stagione: quella del magnate Dan Petrescu, e quella del giovane manager milanese Filippo Nascimbene. Sono loro le otto vittime dell'incidente aereo di San Donato milanese. Nello schianto del Pilatus Pc-12, precipitato quasi 4 minuti dopo il decollo, ha perso la vita l'imprenditore immobiliare romeno Dan Petrescu, 67 anni, pilota e proprietario del «suv degli ultraleggeri». Uno degli uomini più ricchi (e invisibili) della Romania, un imprenditore dal patrimonio miliardario ma dallo stile di vita opposto a quello del suo grande socio d'affari Ion Tiriac, grande tennista e businessman conosciuto anche per i suoi eccessi. Dan Petrescu invece passava inosservato e l'aereo privato era uno dei suoi veri pochi lussi. Si era trasferito in Germania per sfuggire al regime di Nicolae Ceausescu ed era rientrato in Romania dopo il 1989. Lì aveva costruito la sua fortuna, un impero da 3 miliardi di euro fatto di palazzi di pregio, ipermercati e centri commerciali, come Metro e Real. Con lui, sull'aereo da turismo, c'era la moglie Regina Dorotea Petrescu Balzat, 65 anni, nata in Romania con cittadinanza francese, e il figlio di 30 anni, Dan Stefan Petrescu, nato a Monaco di Baviera e anche lui con doppia cittadinanza, che viaggiava con un amico di origini canadesi, Julien Brossard, 36 anni tra pochi giorni. Stavano raggiungendo la madre 98enne di Dan Petrescu, nella villa di famiglia in Costa Smeralda dove erano attesi altri ospiti per una festa. L'aereo di Petrescu, era arrivato da Bucarest il 30 settembre. Quindi alla vacanza si era unita una famiglia di amici: Filippo Nascimbene, pavese di 33 anni, manager di una start up milanese, la Start Hub Consulting, era partito assieme alla moglie francese ma di origini romene, Claire Stephanie Caroline Alexandrescou, 34enne manager pubblicitaria per il Sud Europa della Pernod Ricard. C'era anche il loro bimbo, Raphael, che ha compiuto un anno il 16 gennaio e c'era Miruna Anca Wanda Lozinschi, romena, classe 1956, madre di Claire Stephanie Caroline e nonna di Raphael. Sarebbe stato il fratello del manager milanese, una volta appresa la notizia della sciagura, a contattare le forze dell'ordine per avere la dolorosa conferma della presenza di Filippo Nascimbene e della sua famiglia a bordo dell'aereo e quindi tra le vittime. La notizia ha fatto presto il giro tra gli amici a Pavia, dove era nato e cresciuto. In tarda serata, soltanto la sorella Mariasole, al telefono conferma con un filo di voce: «Sì, purtroppo su quell'aereo c'era mio fratello Filippo. Non riesco a dire nulla in questo momento».

Leonard Berberi e Cesare Giuzzi per corriere.it il 5 ottobre 2021. Poco più di due secondi. Il video girato da un’auto che viaggia sulla Tangenziale Est. Sono le 13.07 di domenica 3 ottobre 2021. Dalla parte alta dello schermo, a qualche centinaio di metri d’altezza, all’improvviso spunta la sagoma di un aereo. E’ il Pilatus Pc-12 pilotato da Dan Petrescu totalmente fuori controllo. L’aereo cade a piombo verso il capolinea della metropolitana gialla di San Donato che si vede in lontananza oltre i palazzi di Metanopoli. Solo negli ultimi metri la traiettoria si fa più parabolica, forse nel tentativo del pilota di riprendere quota. Ma il velivolo è troppo basso e non c’è speranza. Pochi istanti dopo si vede l’esplosione e una palla di fuoco. Dalle immagini però non si vedono segni di possibili incendi a bordo del velivolo o di fiamme uscire dal motore. Anche se la distanza è molta e la risoluzione non perfetta. Intanto gli inquirenti che indagano sul disastro hanno acquisito i filmati di nuove telecamere che potrebbero aver ripreso parte del volo e la caduta del Pilatus Pc-12. Si tratta di telecamere posizionate in prossimità dello scalo di Linate. Le immagini sono ora al vaglio della Scientifica che sta cercando di «ripulire» i fotogrammi per verificare l’eventualità di un incendio al motore come riferito da alcuni testimoni oculari. I magistrati Mauro Clerici e Paolo Filippini, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, rimangono cauti sull’ipotesi di un incendio a bordo in attesa di trovarne riscontro documentale dalle immagini o dalle analisi della scatola nera. Anche perché nelle sue comunicazioni alla Torre di controllo il pilota Dan Petrescu, magnate romeno, non ne fa cenno né lancia alcun mayday. Peraltro gli inquirenti considerano complesso pensare a un incendio a bordo che si sia protratto così a lungo (quasi un minuto) considerato che il velivolo era carico di carburante. In simili casi gli esperti considerano davvero remoto che l’aereo riesca a raggiungere il suolo integro senza una esplosione in quota. I magistrati hanno nominato il professor Marco Borri, ex docente del Politecnico e già responsabile del dipartimento di ingegneria Aerospaziale, consulente per le indagini tecniche. Nella mattinata di martedì 5 settembre i vigili del fuoco e gli investigatori dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, hanno effettuato un ulteriore sopralluogo per le analisi del cratere lasciato dai resti del Pilatus Pc-12 sul pavimento dell’edificio Atm di via 8 ottobre a Milano dove è avvenuto lo schianto che ha portato alla morte del pilota e dei sette passeggeri.

Leonard Berberi per corriere.it il 5 ottobre 2021. Chi conosce il modello di aereo caduto domenica ripete un aspetto: se l’unico motore del Pilatus Pc-12/47E va in avaria non precipita in picchiatacom’è accaduto al velivolo del miliardario romeno-tedesco Dan Petrescu. Semplicemente, spiega chi l’ha portato per centinaia di ore, «perché ha le caratteristiche strutturali di un aliante, quindi tende a planare». Il team investigativo dell’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo dovrà chiarire anche questo aspetto. I Pilatus — confermano tre piloti esperti consultati dal Corriere — «sono aerei tecnologicamente avanzati».  L’avaria al motore «è da ritenersi un evento raro». Ma anche se succedesse ci sono procedure che aiutano a scendere abbastanza in sicurezza. Come? Il pilota «deve mettere l’elica “a bandiera” — spiegano — per evitare di fare resistenza all’aria: le pale ruotano e vanno “a coltello” contro il vento per aumentare il raggio di planata». Ma questo richiede anche altri accorgimenti: «Bisogna impostare la velocità a 110 nodi (circa 204 chilometri orari, ndr) con carrello e flaps retratti». Ma prima chi è ai comandi deve fare una cosa: «Lanciare il mayday» alla torre di controllo. Cosa che non è avvenuta domenica scorsa. Il Pilatus una volta a 5 mila piedi (1.524 metri, ndr) «disponeva di 12 miglia nautiche (22,2 chilometri, ndr) prima di toccare terra». Il pilota, «vista la posizione rispetto alla testata pista 36 aveva ampio spazio per tornare all’atterraggio se davvero fosse stata avaria motore». Ma così, a leggere i tracciati dei quattro minuti di volo, non sembra essere stato. «L’unica cosa che giustifica quella perdita di quota», fino a 7.315 metri al minuto, «è lo stallo», sottolineano. Ma anche in questo caso è presente una tecnologia a bordo che aiuta. «Il Pilatus è dotato di un anti-stallo “stick pusher” e “stick shaker”», spiegano i piloti. «Se il muso dell’aeroplano va troppo su, rischiando lo stallo, lo strumento lo porta ai valori corretti e allo stesso tempo fa vibrare la cloche per avvertire il pilota e invitarlo a rimettere in assetto l’aereo». Ma, è il sospetto degli esperti, se scatta il disorientamento spaziale — nel quale si finiscono per perdere i riferimenti geografici — l’aereo non si recupera più. L’altro mistero da risolvere è relativo alla modalità di pilotaggio: chi era ai comandi seguiva le regole del volo a vista («Vfr») o strumentale («Ifr»)? Nel caso di Linate una volta decollato si sarebbe dovuto procedere con la modalità «Ifr» per una maggiore sicurezza. Se uno vola basandosi sulla propria vista bisogna anche essere addestrati perché, spiegano gli esperti, «appena ci si trova all’interno di una nube la situazione può sfuggire di mano in tre secondi finendo persino per ribaltarsi». C’è poi il tema del pilota automatico. Se era inserito si può staccare soltanto se il velivolo finisce in una perturbazione — come un nembostrato, nube spessa e scura —: a quel punto si hanno pochi secondi per reinserirlo oppure si procede manualmente. Se non era inserito allora in mezzo a una perturbazione è facile essere vittima del disorientamento spaziale. Altro elemento che fa molto discutere è la «piccola deviazione» dalla rotta autorizzata. Secondo gli esperti non c’era alcun motivo per discostarsi dal tragitto previsto. «L’unica possibile spiegazione — concordano — è che sia andato in confusione».

Disastro aereo a Milano, "senza benzina né controlli": conferme agghiaccianti, strage annunciata? Chi finisce nel mirino. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 05 ottobre 2021. Ipotesi su ipotesi, il giorno dopo la strage ci si interroga: quella virata improvvisa, forse un malore, magari il maltempo, e poi la soluzione all'enigma potrebbe essere la più banale e per certi versi la più atroce, perché al piper parcheggiato nell'hangar di Linate non era mai stato fatto rifornimento carburante né alcuna manutenzione dal 30 settembre, giorno del suo atterraggio a Milano in arrivo da Bucarest. Gli investigatori continuano a indagare, analizzando video, file audio e carte a disposizione della Procura di Milano, mentre si fa largo la pista dello «stallo al motore», come spiega uno degli ingegneri delegati alle indagini sulla base di quanto si vede nei filmati registrati dalle telecamere di videosorveglianza della zona. Le eliche avrebbero smesso di girare provocando l'impatto fatale, col muso del velivolo a 90 gradi, prima di sbriciolarsi contro la palazzina in ristrutturazione. Un guasto meccanico o non aveva davvero carburante in pancia?

SCATOLA NERA - La verità arriverà dalla scatola nera, recuperata a decine di metri dal luogo dell'incidente, che verrà analizzata dall'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo che sta collaborando alle indagini coi pm Paolo Filippini e Mauro Clerici, oltre al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. Non sarà uno processo immediato, serviranno alcuni giorni per permettere al software di decriptare i dati tecnici dal cervello del piper. Che passeranno al vaglio di un consulente esperto di disastri aerei per mettere nero su bianco le cause dell'incidente e le eventuali responsabilità che hanno portato alle morte degli otto passeggeri a bordo del Pilatus Pc-12. Emergono, intanto, altri dettagli dai nastri delle comunicazioni tra il centro di controllo radar di Linate e Dan Petrescu, il miliardario rumeno che stava pilotando l'ultraleggero, svizzero di costruzione e canadese di motore. È decollato da poco, quando dall'altezza di 3.500/4.000 piedi continua la virata verso destra anziché procedere verso sud per sorvolare Piacenza. Dalla sala dello scalo milanese si accorgono che c'è qualcosa che non va e si mettono subito in contatto con il piper. «Little deviation», dice il pilota-imprenditore senza aggiunger nient' altro. Può essere per la pioggia o per le nuvole basse, anche se il cielo non è così cattivo. Passa pochissimo tempo e Petrescu chiede un «vettore», uno spazio per rientrare verso l'aeroporto. La torre di controllo glielo fornisce ma dal piccolo velivolo non arriva più nessuna segnalazione d'allarme e per precauzione da Linate scatta il blocco momentaneo del traffico aereo. 

GIRO D'OROLOGIO - Nemmeno un giro d'orologio e la traccia del Pilatus sparisce nel nulla: sta scendendo in picchiata verso un macabro destino, in quella porzione di confine tra Milano e San Donato intitolata all'8 ottobre del 2001, il giorno della strage di Linate che strappò alla vita 118 persone. E anche ieri è giornata di sopralluoghi, tra magistrati, team investigativo dell'Agenzia per la sicurezza del volo, tecnici, ingegneri dei Vigili del Fuoco, polizia scientifica, Protezione Civile, funzionari di Atm (azienda dei trasporti milanesi).

ESAMI - «Per le vittime si tratta di fare comparazioni genetiche per avere la certezza delle identità ricostruite, dato che tutti i cadaveri erano irriconoscibili», spiega Giuseppe Schettino, dirigente dell'ufficio prevenzione generale della Questura di Milano. C'è anche il corpicino di Raphael, neanche due anni. Stavano volando tutti insieme verso la Sardegna dove avrebbero festeggiato il suo battesimo. Uno strazio. In attesa di nuovi particolari, per un'indagine che si prospetta lunga, affiorano i commoventi ricordi di chi conosceva le vittime. I colleghi della Start Hub consulting hanno salutato Filippo Nascimbene con un post su facebook: «Era con noi da poco meno di due anni. Aveva iniziato a lavorare in Start Hub subito prima del lockdown del 2020. L'inizio di un lavoro in una nuova realtà, si sa, è sempre molto complicato. Serve tempo per capire le dinamiche e affinare le alchimie. I primi mesi con il distanziamento forzato e i meet come unico contatto con tutti noi, tuttavia, non erano stati un ostacolo per Filippo: con le sue grandi capacità si era inserito subito a meraviglia e già dopo poco tempo sembrava essere da sempre uno starthubber. Ciao Filippo, non dimenticheremo mai la tua gentilezza e il tuo sorriso». 

Quei resti carbonizzati sono ancora sull'asfalto. Nino Materi il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il day after in via "8 Ottobre 2001" (proprio la strada che ricorda la data della tragedia aerea di Linate dove persero la vita 118 persone) ha l'odore respingente del materiale bruciato. Il day after in via «8 Ottobre 2001» (proprio la strada che ricorda la data della tragedia aerea di Linate dove persero la vita 118 persone) ha l'odore respingente del materiale bruciato. Oggetti anneriti sull'asfalto. Esci dalla stazione del metrò «San Donato», il monumento alla tragedia è lì. L'edificio sul quale l'altro ieri, poco dopo le 13, si è schiantato il «Pilatus» guidato dal magnate rumeno Dan Petrescu sembra una scultura carbonizzata del francese Bernard Aubertin, «l'artista del fuoco». Attorno al padiglione della tragedia il fumo si è diradato. Resta invece la cappa dei brutti ricordi: otto morti, due famiglie distrutte nel crollo di un aereo da turismo. Le fiamme sono state spente, ma gli scheletri anneriti delle sette automobili parcheggiate davanti al capannone restano lì a dimostrare come, 48 ore fa, su questo fazzoletto di strada - disteso tra via Marignano e via Impastato -, sia andato in scena l'inferno. La palazzina cubica su cui si è abbattuto in picchiata il piper in avaria era vuota perché in ristrutturazione. Gremita era invece la vicinissima metrò della «linea Tre» milanese che nella sua diramazione «gialla» ha proprio nella fermata di San Donato il suo capolinea. Se domenica pomeriggio il velivolo fosse finito nell'area della stazione, sarebbe stata un'ecatombe; stesso discorso se avesse centrato uno dei depositi di idrocarburi dell'Eni dislocati nella zona. Senza contare che, a meno di centro metri in linea d'aria dal punto della tragedia, c'è un alveare residenziale di finestre e balconi. Da dietro quei vetri due giorni fa centina di testimoni hanno sentito un sibilo strano, si sono affacciati e hanno visto un enorme uccello metallico volare a capofitto verso terra, con corpo e ali in posizione innaturale; poi il boato e il bagliore dell'esplosione che inonda l'anima di orrore. I numeri di emergenza vengo presi d'assalto. Tutto inutile. Ormai il male è già compito. Milano avrà un'altra strada per ricordare una data funesta: «3 ottobre 2021». Nino Materi

Gli avvoltoi sul luogo dell'incidente: ecco cosa hanno rubato. Francesca Galici il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Disavventura a San Donato per la troupe Sky inviata sul luogo dell'incidente aereo: rubato lo zaino alla giornalista e l'attrezzatura degli operatori. La caduta del volo privato sul tetto di un edificio della periferia di Milano ha sconvolto la domenica elettorale del capoluogo lombardo. Sono 8 in totale le vittime dello schianto e tra loro risulta esserci anche un bambino. Ai comandi dell'aereo pare ci fosse il miliardario rumeno Dan Petrescu, immobiliarista, che viaggiava insieme alla sua famiglia e ad altre persone. Tra loro non risulta esserci nessun superstite. Tanti i giornalisti che si sono riversati in loco per garantire la copertura della notizia per tv, radio e giornali. Tuttavia, la troupe inviata da Sky per il suo telegiornale è stata vittima di una rapina. Non certo una novità per chi conosce la periferia di Milano, dove il tasso di criminalità è piuttosto elevato. Il degrado e l'abbandono delle aree decentrate della città ha fatto sì che in queste zone proliferassero comportamenti spesso al di là della legge e delle regole. Il quartiere in cui è caduto l'aereo si trova nel quadrante meridionale di Milano, poco più a sud rispetto al quartiere di Rogoredo, noto per essere una delle roccaforti italiane della droga. In questa parte della città i piccoli reati come i furti, ma anche le rapine, sono pressoché all'ordine del giorno, spesso compiuti per racimolare i soldi necessari per acquistare gli stupefacenti. Non stupisce quanto accaduto alla troupe di Sky, rapinata mentre si preparava a effettuare il collegamento con il telegiornale dell'emittente satellitare. Un contrattempo che ha rallentato i piani della redazione, che ha dovuto differire di qualche minuto la live con la giornalista sul posto, Monica Napoli. "Zaino rubato a San Donato. Mi accaduto a casa mia. Mai", ha scritto su Twitter la giornalista, che in un tweet successivo ha spiegato di essere stata vittima per la seconda volta nella sua carriera di un furto. Un inconveniente spiacevole, che ha coinvolto anche gli altri membri della troupe, come rivelato dalla stessa Monica Napoli in un terzo tweet. "Vorrei pubblicamente ringraziare e fare i complimenti ai colleghi operatori che erano con me (e che hanno subito il furto di diverso materiale), siamo riusciti a fare live anche dopo essere stati derubati. L'unione fa la forza", ha concluso la giornalista con amarezza.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Milano, pomeriggio da incubo dopo lo schianto dell'aereo a San Donato: troupe Rai rapinata sul luogo della tragedia. Libero Quotidiano il 03 ottobre 2021. La troupe di Rai News che stava andando a San Donato sul luogo della tragedia aerea è stata rapinata e il collegamento in diretta, con lo studio di Roma, è stato rimandato a dopo le 16 di oggi domenica 3 ottobre. I giornalisti e i tecnici dell'azienda di Stato non potevano materialmente effettuare il collegamento. Avrebbero dovuto raccontare delle otto persone morte, tutte quelle che si trovavano a bordo dell’ultraleggero partito dall’aeroporto di Milano Linate e diretto in Sardegna. “A seguito di ulteriori verifiche le persone decedute a bordo del velivolo risultano otto (un pilota e 7 passeggeri)”, si è letto nella prima nota che ha dato notizia del disastroso incidente. Il velivolo si è schiantato su un palazzo vicino alla stazione della Metropolitana. Sul posto elisoccorso, un’automedica, quattro ambulanze, vigili del fuoco, carabinieri, polizia e vigili urbani. Nella palazzina su cui l’aereo è caduto, adibita a parcheggio, non c’erano per fortuna persone. L’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha subito aperto un’inchiesta e disposto l’invio di un investigatore sul posto. “A quanto risulta attualmente – si legge in una nota dell’Ansv -, il velivolo PC-12 marche di identificazione YR-PDV, decollato da Linate alle 13:04 locali con destinazione Olbia, ha impattato contro uno stabile, a San Donato milanese, incendiandosi”. La scatola nera non è stata ancora recuperata. "Stiamo aspettando i tecnici di Enac per questo tipo di indagini", ha spiegato Carlo Cardinali, funzionario dei Vigili del Fuoco di Milano.

Aereo precipitato a San Donato, i dati della scatola nera erano fermi ad aprile. Felice Emmanuele e Paolo De Chiara il 16/11/2021 su Notizie.it. Non sarà possibile risalire alle cause del crollo dell'aereo avvenuto a San Donato Milanese attraverso la scatola nera. Continua in maniera inarrestata il dramma dell’aereo precipitato a San Donato Milanese il 3 ottobre 2021. Sembra che dalla scatola nera analizzata non vi sia memoria dell’incidente e per procedere nelle indagini bisognerà quindi utilizzare solo gli altri strumenti che si hanno a disposizione. La scatola nera del Pilatus ha dei dati che sono fermi all’aprile 2021. Risulta quindi impossibile procedere con le indagini attraverso la scatola nera. Il problema di questi velivoli è che non hanno l’obbligo di montare una determinata scatola nera. In questo caso, risulta solo non aggiornata. Si complicano dunque le indagini coordinate dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dai Filippini e Clerici. Bisognerà muoversi attraverso ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto. Si procederà analizzando i video della caduta dell’aereo, i dialoghi tra il pilota e la sala radar di Linate e gli accertamenti medico-legali sui resti delle vittime e in particolare del pilota. La prima cosa che si può ipotizzare è l’errore umano, il pilota romeno Dan Petrescu potrebbe aver compiuto una manovra errata o azzardata che ha causato l’incidente. Non si esclude comunque la pista che faccia pensare ad un’avaria del motore, ma ad ogni modo resta un’evidenza: il pilota nell’ultima comunicazione non aveva lanciato nessun allarme. 

"Volava senza scatola nera". Il giallo dell'aereo caduto. Valentina Dardari il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Senza scatola nera funzionante non è stato possibile avere dati utili a capire la causa dell’incidente. Si dovranno analizzare i resti del propulsore. L’aereo precipitato lo scorso ottobre in via Marignano, al confine con San Donato Milanese, nei pressi della fermata della metropolitana, poteva volare senza scatola nera funzionante a bordo. Come riporta Il Giorno, per quel tipo di velivolo il dispositivo LDR in questione in condizioni di efficienza “non risulta obbligatorio”.

Gli ultimi dati risalivano a 6 mesi prima

Nella giornata di ieri la notizia è stata confermata anche dall’Ansv, l'Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, che ha spiegato che per il modello di quel tipo di aereo ultraleggero il funzionamento della scatola nera non sia necessario. L’Agenzia ha quindi confermato quanto era già emerso dagli accertamenti tecnici disposti dalla Procura di Milano, ovvero che dalla scatola nera del Pilatus PC-12/47, l’aereo precipitato pochi minuti dopo essere decollato dall’aeroporto milanese di Linate, non era stato possibile ricavare elementi utili a spiegare l'incidente. Gli ultimi dati registrati risalgono allo scorso mese di aprile, circa sei mesi prima del tragico impatto costato la vita al pilota del velivolo e ai 7 passeggeri che erano con lui. Il PC-12 è un aereo executive, monomotore, monoplano ad ala bassa, progettato e prodotto dall'azienda aeronautica svizzera Pilatus Aircraft.

È bene precisare che la scatola nera si trovava a bordo del velivolo ma non funzionava da sei mesi. In una nota si legge: “Purtroppo, l'approfondita ed estesa analisi effettuata dall'Ansv dei dati recuperati ha evidenziato la indisponibilità di dati di volo, o registrazioni riferibili al volo conclusosi con l'incidente. Nessuno dei file presenti nel citato LDR è infatti compatibile con l'evento occorso, quelli presenti sono sostanzialmente riconducibili a periodi durante i quali il velivolo era in manutenzione in Svizzera. Dalla documentazione manutentiva acquisita è infatti emerso che il citato LDR fosse inefficiente già prima del volo dell'incidente”.

Gli aspetti che verranno approfonditi

Come anticipato dalla stessa Agenzia dovranno quindi essere effettuati altri tipi di accertamenti sui resti del propulsore del Pilatus PC-12/47,“che avverranno in coordinamento con l'Autorità giudiziaria”. Si tratta del procedimento di routine contemplato per le inchieste aeronautiche. Il propulsore è il dispositivo che ha lo scopo di imprimere al mezzo la forza che ne produce e mantiene il moto. Verranno anche approfonditi altri aspetti, come per esempio l’esperienza e la formazione del pilota, anche proprietario dell’aereo, il magnate romeno Dan Petrescu. Inoltre verranno analizzate le condizioni meteo che c’erano al momento del grave incidente. Quest’ultimo aspetto servirà a capire, come precisato dall’Ansv, “se le stesse possano aver costituito un fattore contributivo all'accadimento dell'incidente”.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou

"È la fine", la decompressione fatale del Japan Airlines 123. Paolo Mauri il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. I piloti del volo Japan Airlines 123 lottarono strenuamente, ma invano, per cercare di evitare lo schianto. Ogni agosto milioni di persone in Giappone celebrano la festa di Obon, un momento in cui le famiglie tornano alle loro dimore ancestrali per radunarsi in onore dei loro antenati. La festività, che dura tre giorni, è particolarmente sentita, ed è seconda per importanza nel calendario giapponese solo rispetto a quella del primo dell'anno. Nel 1985 Obon cadeva intorno al 15 agosto, e nei giorni precedenti nella maggior parte del Giappone, come di consueto, si è assistito a un vero e proprio boom dei viaggi per le vacanze. Al fine di far fronte al vasto numero di viaggiatori, la compagnia di bandiera giapponese Japan Airlines (Jal) utilizzava aerei nati per voli a lungo raggio, come il Boeing 747, su voli nazionali molto brevi. In particolare aveva in linea una serie di 747SR (Short Range), concepiti appositamente dalla Boeing per le rotte nazionali della Jal. Una di queste andava dalla capitale, Tokyo, a Osaka, la seconda città più grande del Giappone: una tratta che vede un gran numero di passeggeri anche al di fuori delle festività nazionali. Il 12 agosto 1985 il volo Jal 123 era uno dei tanti della compagnia di bandiera nipponica in servizio su quella tratta, operata tutto l'anno utilizzando proprio il 747SR, che rispetto al velivolo originale è leggermente più corto e con carrello e cellula irrobustiti per poter resistere meglio all'usura dei numerosi voli interni della Jal. Il 747 di quel tardo pomeriggio di agosto era quasi al completo: dei 520 posti dell'aereo ne erano stati occupati 509, che oltre ai tre piloti e alle dodici assistenti di volo portavano il totale delle persone a bordo a 524. Al comando del velivolo c'era il capitano Masami Takahama, 49 anni, un ufficiale istruttore esperto con 12400 ore di volo al suo attivo. Quel giorno però Takahama si era seduto al posto del secondo pilota, perché stava assistendo il primo ufficiale, Yutaka Sasaki, 39 anni, nel suo iter per diventare lui stesso capitano, pertanto Sasaki era seduto in quello che normalmente sarebbe il posto di comando principale. Infine, a completare l'equipaggio della cabina di pilotaggio, c'era l'ingegnere di volo di 46 anni Hiroshi Fukuda.

Il decollo e poi un boato. Con il primo ufficiale Sasaki ai comandi, il volo 123 decollò dall'aeroporto Haneda di Tokyo alle 18.12 ora locale per il suo viaggio di 54 minuti verso Osaka. Il breve volo richiedeva un'altitudine di crociera di soli 24mila piedi (7300 metri circa), ben al di sotto dei livelli a cui normalmente volano i Boeing 747, ma abbastanza alta da creare una grande differenza di pressione tra l'interno e l'esterno dell'aereo. In salita costante dopo il decollo, il velivolo si diresse verso Sud-Ovest sorvolando la baia di Sagami, per poi virare verso Ovest sull'isola di Oshima. Quando il volo 123 era in prossimità della sua quota di crociera, circa 12 minuti dopo il decollo, alle 18.24,34 mentre stava per livellarsi in avvicinamento alla costa orientale della penisole di Izu, un sordo boato scosse la cabina del 747. Un forte vento strappò via tutto ciò che non era legato, spingendo carta, tovaglioli e riviste verso la coda, mentre la pressione interna ed esterna si equalizzava violentemente. Vicino alla cucina posteriore, i pannelli del soffitto si staccarono dai loro supporti scomparendo all'indietro e una nebbia bianca riempì improvvisamente la cabina, mentre il vapore acqueo nell'aria si condensava istantaneamente. Il panico si diffuse istantaneamente tra i passeggeri, e le maschere di ossigeno scesero automaticamente dai loro vani al di sopra dei posti a sedere. Il Boeing aveva subito, per qualche ragione, una rapida decompressione, sicuramente distruttiva. In cabina, l'avvisatore acustico legato alla pressione cominciò a suonare e nel frattempo una spia color ambra si accese avvisando l'ingegnere di volo che vi era una perdita nel circuito idraulico. Il comandante Takahama ordinò di squawkare 7700 sul transponder, comunicando così al controllo del traffico aereo “emergenza generale”, e poi disse a Sasaki di effettuare una virata a destra per poter ritornare all'aeroporto di Tokyo. “L'ho fatto”, rispose il secondo ufficiale, ma volantino e pedaliera erano come morti, non rispondendo ai comandi. In cabina non c'era modo di capire cosa esattamente fosse successo, ma i tre membri dell'equipaggio si trovarono con un velivolo privo di tutti e quattro i circuiti idraulici, e quindi praticamente ingovernabile.

Una lotta impari. “Tokyo... JAL 123. Richiesta di immed... e... problemi. Richiesta di ritorno a Haneda. Discesa e mantenere due due zero. Chiudo”. Il comandante Takahama chiamò il controllo del traffico aereo della capitale giapponese, che ancora non aveva idea di cosa stesse succedendo a bordo del 747, limitandosi a dare la precedenza al volo in emergenza. “Roger, approvato come richiesto”, comunicò la torre. Takahama richiese un “vettore” (una direzione di rotta) per Oshima, avvisando che l'impianto idraulico era fuori uso. “Ma ora non controllo”, avvisò ancora il comandante. Con la pressione idraulica in esaurimento, il primo ufficiale Sasaki si stava trovando sempre più in difficoltà a mantenere l'angolo di inclinazione corretto durante la virata verso l'aeroporto. “Non virare così tanto, è manuale! - disse il capitano Takahama - Riportalo indietro!”. “Non torna indietro!”, esclamò Sasaki. “Idro tutto out?”, chiese ancora Takahama. “Sì!”, gli rispose Fukuda. I controllori del traffico aereo videro che il volo 123 era arrivato solo a metà della virata di 180 gradi verso Haneda, e ora stava volando verso Nord. Il controllore chiese all'equipaggio la natura della loro emergenza, ma non ci fu risposta. Nella concitazione del momento, i tre nella cabina di pilotaggio si erano dimenticati di indossare le maschere di ossigeno, e lentamente stavano andando in ipossia. La perdita di pressione idraulica ai comandi fece entrare l'aereo in un “ciclo fugoide”, ovvero un volo incontrollato in cui un aeroplano in discesa guadagna velocità fino a quando non inizia a rialzarsi da solo, entrando in una cabrata che a sua volta gli fa perdere velocità fino a quando non sbanda ed entra di nuovo in discesa. Nel caso del 747 della Jal, l'aereo entrò in un volo incontrollato di questo tipo con un periodo di 90 secondi e un'ampiezza variabile da 900 a 1500 metri, con un angolo di beccheggio compreso tra 15 gradi con muso in alto e cinque gradi con muso in basso. Contemporaneamente si innescò una componente di “rollio olandese” in cima al ciclo fugoide, ovvero si determinò una rotazione contemporanea lungo gli assi di rollio, beccheggio e imbardata. Il fugoide, combinato col rollio olandese, fece volare l'aereo come una nave in un mare in tempesta, alzandosi e abbassandosi, rotolando e precipitando, oscillando avanti e indietro mentre barcollava in avanti, instabile su ogni asse. L'equipaggio cercò disperatamente di smorzare questi movimenti, ma con tutto il fluido idraulico ormai perso, i loro controlli erano completamente inefficaci. Allora si fece ricorso all'unica cosa che si poteva ancora controllare: i motori, variandone la spinta per cercare, almeno di recuperare una direzione di rotta. Un compito arduo: è possibile far virare l'aereo utilizzando la spinta asimmetrica sulle manette, ovvero accelerando i motori da un lato e decelerando i motori dall'altro, ed è anche teoricamente possibile moderare il ciclo fugoide accelerando quando l'aereo inizia a tuffarsi e decelerando quando l'aereo inizia a salire. Fare entrambe le cose, però, era impossibile, perché i cambiamenti di potenza del motore, soprattutto asimmetrici, tendevano a esacerbare il rollio olandese, e se la potenza del motore fosse mantenuta costante per smorzare il rollio olandese, questo avrebbe esacerbato il movimento fugoide. Il problema successivo era quello della velocità: abbassare i flap non bastava e per ridurla senza intervenire troppo sulle manette – quindi compromettendo l'assetto – vennero sganciati i blocchi del carrello che scese per gravità. I piloti, dopo 10 minuti dall'inizio dell'emergenza, si misero le maschere ma alle 18.41 persero comunque il controllo del 747 a un'altitudine di 6mila metri. L'aereo effettuò una virata completa, in discesa, a 360 gradi di 2,5 miglia di raggio sopra la città di Otsuki durata tre lunghissimi minuti, poi, in qualche modo, il comandante e il secondo riuscirono a livellare il velivolo in direzione Est. Alle 18.47 si presentò un altro problema. La perdita di quota aveva portato l'aereo pericolosamente a livello delle montagne: davanti al muso del 747 si parò quello che sembrava un ostacolo insormontabile. Takahama ordinò: “Vira a destra! Montagna! Prendi il controllo, vira a destra! Colpiremo una montagna! Massima potenza!”, e applicando tutta manetta il velivolo, entrato ancora una volta in un ciclo fugoide, guadagnò quota quel tanto che bastò a sollevarlo al di sopra delle montagne, raggiungendo i 3350 metri di altitudine.

Lo schianto. L'aereo nella cabrata perse così tanta velocità che lo shaker del volantino si attivò, avvertendo di uno stallo imminente. “Oh no!”, gridò il comandante, “Stallo! Potenza massima, potenza massima!”. Ne seguì una battaglia disperata per impedire all'aereo di scendere sulle montagne. Takahama fece del suo meglio per cercare di mantenere il 747 in volo, agendo sulle manette e sui flap insieme a Sasaki mentre l'aereo saliva ripetutamente, si fermava, si tuffava e saliva di nuovo. Ma i motori di un aereo civile non rispondono istantaneamente ai comandi e fu impossibile coordinare le variazioni di spinta in modo sufficientemente preciso da riprendere il controllo. I piloti provarono ripetutamente a estendere e ritrarre i flap per aumentare e diminuire la resistenza, e quindi la velocità, ma i flap risposero anche più lentamente dei motori. Per diversi minuti la cabina di pilotaggio si riempì delle grida di Takahama e Sasaki. “Muso in su!”, “Muso in giù!”, “Solleva i flap!”, “Flap giù!”, “Potenza!”, ma fu tutto inutile. Il 747 si trovava ora a circa 102 chilometri a Nord-Ovest di Tokyo, nell'entroterra giapponese, avendo seguito una rotta casuale dovuta all'impossibilità di controllarne la traiettoria. Ore 18.56. L'allarme del Gpws (Ground Proximty Warning System) risuonò in cabina insieme a una voce registrata "Pull up! Pull up! Pull up!" (Tira su!). La scatola nera registrò le ultime parole del comandate Takahama: “È la fine...”. Il 747 del volo Jal 123 precipitò al suolo. L'aereo dapprima sfiorò la cresta di una montagna, tagliandone gli alberi, poi colpì la cima di un'altra a una quota di 1610 metri e a circa mezzo chilometro di distanza dalla prima. Infine, dopo aver volato per altri 570 metri, si schiantò a 1565 metri di altezza, poco sotto una terza cresta, posta circa 2,5 chilometri a Nord-Nord-Ovest del monte Mikuni, situato al confine tra le prefetture di Nagano e Saitama. Rottami fiammeggianti scavarono le foreste lungo il fianco della montagna, sparpagliandosi in forre e burroni. Al calar delle tenebre cominciò a piovere, e gli elicotteri della Jasdf (Japan Air Self Defence Force), non potendo atterrare a causa della ripidità delle pendici e della presenza degli alberi, circuitarono sul luogo del disastro senza riuscire a scorgere segni di vita. Per tutta la notte squadre di soccorso formate da vigili del fuoco e paracadutisti si arrampicarono lungo la montagna per cercare di raggiungere il luogo dello schianto e cercare superstiti. Dopo 14 ore, proprio un vigile del fuoco, mentre stava ispezionando un burrone, si accorse di un movimento tra i rottami e con sua grande sorpresa trovò la hostess fuori servizio Yumi Ochiai ancora viva. Poco più in là trovò altre tre superstiti: Hiroko Yoshizaki, sua figlia di 8 anni Mikiko e la dodicenne Keiko Kawakami. Quattro donne che erano sedute, l'una di fianco all'altra, nelle fila 56 del 747. Intorno a loro giacevano i poveri resti di altre 520 persone, compresi quelli dei 15 membri dell'equipaggio. Uno degli incidenti più sanguinosi della storia dell'aviazione civile, secondo solo a quello di Tenerife, e il peggiore, per numero di morti, che ha coinvolto un singolo velivolo.

Cos'era successo? La commissione di inchiesta ha stabilito che, durante la salita a quota di crociera, il differenziale di pressione tra l'interno della cabina e l'esterno aumentò al punto che la paratia di pressione di poppa, già compromessa, cedette in modo catastrofico. In pochi millisecondi l'aria pressurizzata della cabina esplose attraverso lo spazio vuoto con una forza tremenda, la paratia si ruppe in diversi pezzi quando un muro d'aria si precipitò all'indietro nella sezione di coda non pressurizzata, che non era progettata per resistere a un tale picco di pressione. Pochi istanti dopo il cedimento, l'onda di pressione fece esplodere un'enorme sezione della coda dell'aereo, compreso il cono di coda, la maggior parte dello stabilizzatore verticale compreso il timone, l'unità di alimentazione ausiliaria (Apu) e molti altri componenti strutturali critici e sistemi di controllo. Il 747 stava quindi volando, oltre che senza impianto idraulico, senza deriva di coda, cosa che spiega il suo ingresso in rollio olandese durante il volo incontrollato. La paratia aveva improvvisamente ceduto non per difetto di fabbrica, ma per errore umano. Il 747, infatti, il 2 giugno 1978, mentre stava atterrando a Osaka come volo 115 della Jal, colpì la pista con la coda quando il pilota richiamò troppo bruscamente durante l'atterraggio, causando gravi danni alla fusoliera, alla paratia a pressione di poppa, al sistema di controllo dello stabilizzatore orizzontale, alle porte e al gruppo dell'Apu, al cono di coda e a diversi elementi strutturali, tanto che il velivolo dovette essere riparato da tecnici della Boeing giunti dagli Stati Uniti. La riparazione della paratia a pressione venne effettuata in modo errato, perché venne posizionata una fila sola di rivetti sul suo rivestimento quando avrebbero dovuto essercene due, riducendone così la resistenza del 70%. Pertanto, a ogni ciclo di pressurizzazione, si trovò a dover subire uno stress per il quale non era progettato determinando l'insorgere di piccole cricche da fatica che, nel corso del tempo, hanno causato l'improvviso e catastrofico cedimento strutturale.

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo (Anupsa). Attualmente scrivo per Gli Occhi della Guerra e ilGiornale.it. Appassionato di fotografia, storia e forze armate pratico la scherma a livello agonistico e sono anche istruttore regionale presso il Circolo della Scherma Lecco dove ricopro la carica di dirigente e addetto stampa

"Costretti a mangiare carne umana", il disastro aereo della Ande. Davide Bartoccini il 5 Settembre 2021 su Il Giornale. Nell'autunno del '72 un aereo militare affittato come charter precipita sulle Ande a causa di errore di calcolo dei piloti. Sarà l'inizio di una delle più sconcertanti storie di sopravvivenza dei nostri tempi, nota come "El milagro de los Andes". Un piccolo bimotore a elica dell'impoverita Fuerza Aérea Uruguaya, un Fokker F27 che in assenza di frequenti bellicismi delle Americhe meridionali viene impiegato come charter per passeggeri civili, è impegnato a fare lo slalom tra le altissime cime della Cordigliera andina. È il 13 ottobre del 1972, e il piccolo aereo da trasporto di fabbricazione olandese, che misura appena venticinque metri di lunghezza, ospita a bordo quaranta passeggeri civili - la metà sono giocatori di Rugby della Old Christians Club - oltre a cinque membri d'equipaggio militare: il colonnello Ferradas, il copilota, tenente colonnello Lagurara, un tenente impiegato come ufficiale di rotta, e due sergenti, rispettivamente un assistente di volo e un motorista. Non è progettato per sostenere elevate altitudini in condizione atmosferiche sfavorevoli. Per quanto possa raggiungere una quota di tangenza di oltre ottomila metri, è per questo il Fokker vola basso, seguendo una rotta minuziosa che, per portare l'aereo a destinazione a Santiago del Cile (dopo uno scalo imprevisto per le condizioni meteorologiche a Mendoza, Argentina), cerca e trova i passi e valichi tra le alte montagne innevate. Volare bassi tra le montagne è la scelta più prudente, ma anche la rotta più complessa da seguire sulle mappe, per un aereo che, oltre ad avere la quasi totalità di comandi interamente manuali, offriva all'equipaggio una strumentazione di bordo "essenziale". L'equipaggio commette alcuni errori di calcolo nel tracciare, o seguire, la rotta. E quando il comandante è certo di trovarsi a una mezz'ora di volo circa da Santiago, approccia una graduale discesa verso terra, mentre una turbolenza sorprende il piccolo bimotore che cade in un vuoto d'aria e perdendo un centinaio di metri di altitudine in pochi secondi, si ritrova a volare alla cieca, avvolto nella fitta nebbia e nelle nuvole basse, in prossimità delle alture rocciose. Ferradas e Lagurara tentano di recuperare quota spingendo i motori Rolls-Royce Dart alla massima potenza. Ma prima di uscirne, l'ala destra del Fokker tocca una parete rocciosa. Staccandosi completamente e privando l'aereo di uno dei due motori. Il Fokker carambola tra le rocce, perdendo l'ala sinistra e la coda, che si trancia di netto e porta via con sé alcuni passeggeri. L'ufficiale di rotta e il sergente addetto all'accoglienza dei passeggeri vengono risucchiati dall'abitacolo. Volano via. La carlinga del Fokker precipita come un siluro lanciato da un aereo su una spianata. Scivola veloce sulla neve fresca, per due chilometri, tra le urla dei passeggeri terrorizzati, come fosse un grosso bob. Si ferma solo dopo aver impattato con cumulo di neve solidificata dalle rigide temperature. Il velivolo, registrato come 571, si ferma a una quota di 3.657 metri nei pressi del vulcano Tinguiririca. Ancora in territorio argentino. I superstiti invece, vittime dell'errore di calcolo e della strumentazione sfasata a causa dell'impatto, si convinceranno di essere a un'altitudine di 2.133 metri in territorio cileno. Il tenente colonnello Lagurara infatti, prima di morire sosterrà di aver "superato Curicò". Solo in seguito verrà supposto un errore umano dovuto e alla negligenza dei piloti, che non calcolarono i tempi di volo, oppure a un possibile malfunzionamento del sistema Vor (impiegato prima dell'avvento del Gps, ndr) originato da interferenze magnetiche provocate dalle perturbazioni. Queste avrebbero fatto scattare "erroneamente" la segnalazione dell'avvenuto passaggio sulla verticale di Curicó - come avrebbe più volte ripetuto il secondo pilota prima di morire poco dopo l'impatto per le lesioni riportate. Tra l'impatto e la discesa muoiono dodici persone, compreso il comandante. Dei trentotto superstiti, alcuni moriranno a causa delle ferite riportate durante l'impatto. Altri in seguito a una valanga. Altri per denutrizione e fatica - che a oltre tremila metri di altitudine con temperature inferiori a meno 30 gradi centigradi la notte si fa sentire sul corpo umano, anche il più atletico e preparato.

I soccorsi così "vicini" e l'odissea sfociata nel cannibalismo. Non appena la torre di controllo di Santiago perse ogni contatto con il Fokker, venne messo in allerta il Servicio Aereo de Rescate (Sar) dell'aeroporto di Los Cerrillos. Analizzate le registrazioni delle ultime comunicazioni avvenute tra la torre di controllo cilena e il velivolo uruguaiano, i comandanti del Sar ipotizzarono immediatamente un errore di rotta e, ampliando l'area delle ricerche a una vasta zona sulle Ande a nord del passo del Planchón, fecero decollare gli elicotteri nel tentativo di localizzare il relitto e recuperare eventuali superstiti. Sebbene la zona delle ricerche fosse esatta, la visibilità ridotta e la livrea chiara del velivolo che si mimetizzava perfettamente nella neve, impedirono alle squadre di soccorso aeree e alle guide alpine del corpo dei Carabineros cileni di localizzare il relitto, nel quale vissero tra atroci stenti e sofferenze quei superstiti che dopo aver terminato le povere razioni di cioccolata e marmellata, furono costretti all'atto estremo di nutrirsi della carne umana dei loro compagni morti. Il 21 ottobre le autorità cilene decisero di interrompere ufficialmente le ricerche. Mentre quelle finanziate privatamente dai familiari proseguirono, e si spinsero a pochi chilometri dalla reale posizione dei superstiti, che sopravvissero ben 72 giorni. Fino al 23 dicembre, quando la spedizione di due passeggeri che decisero di attraversare le Ande per cercare aiuto, allertò una seconda volta il Servicio Aereo de Rescate che inviò due elicotteri Bell Uh-1 Iroquois a San Fernando, dove erano giunti - dopo una marcia di 10 giorni per una distanza di 50 chilometri nella neve - Fernando Parrado e Roberto Canessa. Grazie alle indicazioni di Parrado, che decise di salire sull'elicottero per guidare i soccorsi, quello stesso giorno i resti del Fokker vennero individuati e i primi soccorsi portati ai 14 sopravvissuti. Non essendo possibile il trasporto di tutti quanti i passeggeri, alpinisti e un infermiere vennero lasciati sul posto per prestare un primo soccorso a chi era costretto a passare l'ultima notte nella "carlinga" che aveva chiamato casa per oltre due mesi. Ricoverati in ospedale con "sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione", alcuni mostrarono una perdita di anche 40 chili.

Un sasso e una palla ovale per la salvezza. Quando Parrado e Canessa incontrarono sul loro cammino il "primo uomo" al quale chiedere aiuto, sfiniti, al limite della loro capacità fisica, fu un sasso a salvarli. Quello lanciato da un mandriano, Sergio Catalán, che non udendo le flebili parole dall'altra riva del fiume che li separava, scrisse su un foglio di carta un messaggio, lo avvolse intorno al sasso, e lo lanciò a quei due uomini evidentemente provati da un viaggio massacrante. Fu allora che Parrado scrisse con un rossetto per signora che aveva curiosamente con sé: "Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?". Erano nei pressi di Los Maitenes, in Cile. La corsa del mandriano per raggiungere la prima caserma di Carabineros per avvertirli del suo straordinario incontro e l'intervento di altri mandriani incontrati sulla via, che si affrettarono a raggiungere i due viandanti per rifocillarli e prestar loro il primo soccorso, fu decisivo. Nel 2012 i superstiti di questa straordinaria avventura si riunirono sul campo di rugby per la famosa partita che avrebbero dovuto giocare contro cileni dell’Old Grangonian Club quaranta anni prima. In quella, e in molte altre occasione, portando omaggio ai compagni che persero la vita su quella montagna, ricordarono quanto fu importante lo spirito di squadra in quei terribili 72 giorni di sopravvivenza. 

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con

"Tiralo su", "No". E il volo 404 si schiantò sulla collina. Angela Leucci l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. Il 14 novembre 1990 il volo 404 di Alitalia si schiantò contro le colline svizzere: a bordo c'era un attore di "Mery per sempre" e tanti pendolari. Aveva passato l’ispezione 10 giorni prima, ma il 14 novembre 1990 il volo Alitalia Az 404 si schiantò sulla collina di Stadelberg in Svizzera, causando la morte di 46 persone, tra cui 6 membri dell’equipaggio, mentre il resto erano passeggeri, in gran parte operai pendolari tra la Svizzera e l’Italia. Tra loro uno degli interpreti del film “Mery per sempre”. La tragedia, come spesso accade in questi casi, modificò qualcosa nelle procedure di atterraggio, al fine di rendere i voli più sicuri.

L’incidente. Sono le 19.11 del 14 novembre 1990, un McDonnell-Douglas Dc9 di Alitalia, in servizio dal 1974 deve fare scalo in Svizzera, all'aeroporto di Zurigo, dopo essere partito da Linate alle 18.36. Il volo è proceduto nella massima tranquillità, ma al momento dell’atterraggio qualcosa non va. C’era stato solo qualche problema di poco conto con le condizioni meteo, per cui il personale di bordo si era dovuto affidare esclusivamente alla strumentazione. Ci si avvalse infatti del sistema Ils, chiamato anche “atterraggio strumentale”, che consiste in una serie di strumenti da terra che permettono al velivolo di allinearsi orizzontalmente e verticalmente alla pista.

Nella fase di discesa ci fu tuttavia un malfunzionamento degli strumenti per via di un corto circuito, cosa che compromise la percezione dell’altezza del pilota: il velivolo procedeva per una traiettoria 350 metri più in basso di quanto avrebbe dovuto. L’aereo si schiantò inevitabilmente sulle colline svizzere.

L’indagine. Le indagini sull’accaduto furono condotte dall’Ufficio d'inchiesta sugli infortuni aeronautici e l’Ufficio federale dell'aviazione civile, entrambi enti elvetici. Sull’inchiesta ebbe un grosso ruolo il contenuto del voice recorder della scatola nera, che fu tra l’altro mandato in onda in una trasmissione svizzera poco dopo l’incidente. Nella registrazione si sente, come riporta Repubblica, il co-pilota Massimo De Fraia, da un anno in Alitalia ma con un curriculum ragguardevole, chiedere al comandante Raffaele Liberti, che aveva invece oltre 20 anni di esperienza ed era un ex aviere militare, di abortire la manovra di atterraggio, urlando: “Tiralo, su, tiralo su”. Ma gli strumenti danno in quel momento ragione a Liberti e al suo “No, no, no, no”: la probabile causa dell’incidente fu, come in effetti risulta dall’inchiesta, questo malfunzionamento che incise sulla percezione umana. Alitalia risarcì i famigliari delle vittime, come riporta SwissInfo, e modificò il proprio regolamento: da quel momento, il pilota al comando non può essere interrotto nelle sue manovre neppure dal comandante. La storia del disastro aereo è stata raccontata nella serie “Indagini ad alta quota” del National Geographic, nell’episodio “Una tragedia italiana”. Il documentario presenta la figura di Hans Peter-Graf, chiamato a indagare, che subito accorse alla torre di controllo elvetica, notando come in realtà il volo 404 stesse compiendo una sorta di traiettoria parallela più bassa del dovuto. “Avevo notato che l’aereo stava volando 1200 piedi rispetto all’effettiva rotta di volo”, dice nel filmato. Il documentario mette inoltre in evidenza alcune criticità che hanno concorso al disastro. Tra esse la presenza di altimetro a tamburo con lancetta, “noto per generare confusione”, perché la lancetta, spostandosi, può oscurare i numeri sul tamburo. Lo strumento era in progressiva dismissione nel 1990, ma c’era ancora su modelli di aerei degli anni ’70 com’era il Dc9 dell’incidente. Inoltre il Gpws non allertò il comandante e il co-pilota della prossimità al suolo prima dell’impatto. E infine c’è la questione degli indicatori di rotta Hsi che davano valori diversi al comandante e al co-pilota, tra i quali nella serie del National Geographic sembra esserci un rapporto mentore-studente, nonostante la vasta esperienza di volo di De Fraia.

I ragazzi di “Mery per sempre”. Come detto, furono 46 le vittime del volo 404, di cui 40 passeggeri e 6 membri dell’equipaggio. Tra i passeggeri c’era Roberto Mariano, all’epoca 21 anni, attore noto per aver partecipato a due film di Marco Risi “Mery per sempre” e il suo sequel “Ragazzi fuori”. Mariano era andato in Svizzera a trovare lavoro: desiderava un impiego stabile, come muratore o meccanico scrive Repubblica, tuttavia stava anche per firmare con un’emittente privata svizzera per una trasmissione sugli emigrati italiani. Purtroppo la morte lo trovò prima di coronare il suo sogno, prima di poter invecchiare e vivere tanti giorni felici con la sua famiglia. Su Instagram, una delle due figlie dell’attore, Emanuela Mariano, avuta dall’amore con Giulia Corrao, pubblica spesso foto e pensieri del padre che non ha mai conosciuto, perché quando avvenne il tragico incidente Emanuela aveva solo 5 mesi. Lo scorso 14 novembre, nell’anniversario dei 30 anni dal disastro, la figlia di Mariano ha pubblicato un reel con scatti dei suoi genitori e dai set cinematografici cui papà Roberto prese parte, con la didascalia: “E con oggi soni 30 anni che non ci sei più... 30 anni che ci hai lasciate senza te... tu che sei rimasto un bambino mentre tutto è cambiato... sei nei nostri cuori papà”. Sul volo 404 ci sarebbe dovuto essere un altro attore di “Mery per sempre” e “Ragazzi fuori”, ossia Maurizio Prollo, che però perse il volo a causa di un ritardo. Prollo ha successivamente continuato a fare il caratterista nel cinema e spesso anche nelle fiction tv. Alcune fonti riportano che invece a dover prendere il volo fosse un altro loro collega, Salvatore Termini, che l’avrebbe perso sempre a causa di un ritardo. L’intero cast dei due film è ancora oggi legato da grande amicizia: può essersi generata così la confusione sul pericolo scampato del "passeggero mancante" al volo 404.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Un "arrivederci" nella nebbia. Poi il disastro "da manuale". Davide Bartoccini l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. L'8 ottobre del 2001 l'aeroporto di Milano Linate fu teatro del più tragico incidente aereo della storia d'Italia. A causarlo una catena di errori umani che porterà alla morte di 118 persone. Sono appena scoccate le 8 del mattino sulla pista principale dell’aeroscalo milanese di Linate, quando un volo di linea operato dalla compagnia scandinava Sas, in procinto di decollare, incontra sulla sua strada un jet privato diretto a Parigi. La 36R, pista di decollo e atterraggio del piccolo aeroporto intitolato al pioniere dell’aviazione Forlanini - che pure è ben noto nel Paese per essere lo scalo più vicino alla “seconda capitale" italiana - è completamente avvolta nella nebbia. La visibilità è estremamente ridotta. Non si vede più in là di un centinaio di metri. A causa delle condizioni meteorologiche decisamente avverse, il McDonnell Douglas Md-87 della compagnia scandinava, volo Sk686, ha ricevuto il permesso al decollo con ben 41 minuti di ritardo. È diretto a Copenaghen. A bordo sono 110 anime tra passeggeri e membri dell’equipaggio. In attesa sul piazzale nord, alle 7.54 riceve dalla torre di controllo l'autorizzazione al rullaggio fino al punto d’attesa "Cat 3". Non sa che è in prossimità di un pericoloso raccordo, che si rivelerà fatale. Poco distante, sul piazzale ovest, il piccolo Cessna Citation CJ2 con a bordo due membri d’equipaggio e due passeggeri, uno dei quali è Luca Fossati, noto industriale italiano, ha ricevuto per parte sua un nuovo “orario calcolato di decollo”, posticipato dalle 07.45 (dieci minuti dopo il decollo dell’Md-87) alle 08.19. Solo tre minuti di scarto dall'orario di decollo fissato per il volo della Scandinavian Airlines. Che sulle frequenze radio viene rinominato Scandinavian 686, e allo scoccare delle 8 del mattino riceve un “arrivederci” via radio dalla torre. Alle 08.01 Scandinavian 686 è in prossimità della pista principale di decollo con il muso rivolto a Nord. Mentre nel piazzale ovest, le comunicazioni tra il jet privato e la torre rilevano una piccola incongruenza, che tuttavia non darà luogo a ulteriori controlli, notifiche e nuovi ordini. Il pilota del Cessna, rinominato DeltaVictoryXray, riceve l’autorizzazione al rullaggio verso il piazzale nord, per poi seguire lo stesso allineamento che sta seguendo Scandinavian 686. Ma invece di imboccare il raccordo R5 - tratto in inganno dalla nebbia e dalle indicazioni dipinte sull’asfalto che risulteranno essere fuori norma - imbocca il raccordo R6, che porta dritto in mezzo alla pista di decollo in direzione sud. Sarà un errore fatale. In assenza di nuove comunicazioni, riferimenti visibili sul territorio per via della nebbia fitta, o indicazioni utili sulla pista, il pilota del jet privato non ha alcun modo di accorgersi dell’errore appena commesso, mentre si dirige dritto e in direzione contraria verso il volo di linea, che ormai si prepara a impostare la velocità di decisione V1. Scandinavian 686 è allineato sulla pista e inizia la sua corsa di decollo, quando si ritrova davanti il Cessna che è entrato sulla 36R in direzione opposta. Sono ormai le 08.10. Il volo scandinavo è con il muso già alzato e in procinto di staccarsi dal suolo, quando impatta a una velocità 146 nodi (circa 270 chilometri orari), con il piccolo jet privato - che si spezza in tre tronconi e uccide sul colpo piloti e passeggeri - facendogli perdere uno dei due motori, il destro, e la gamba destra del carrello principale. A questo punto c’è solo una cosa da fare, a quella velocità, con i serbatoi pieni, in corsa di decollo sulla pista. Dare manetta al massimo, superate velocità di rotazione e cercare di portarsi in quota a ogni costo per svuotare i serbatoi e ricalcolare tutte le opzioni per tentare di riportare al sicuro i passeggeri. Scandinavian 686 riesce a decollare ma non a prendere quota come sperava. Vola per pochi secondi, ad appena dodici metri dal suolo. Poi il calo di potenza, causato dalla completa perdita del motore destro e dell’assenza di spinta di quello restante, che ha risucchiato alcuni detriti del Cessna, lo riporta precipitosamente a terra. Poggiando su un carrello solo e sull’ala destra che struscia sul terreno in assenza del sostegno perso nella collisione, l’unica chance è quella di portare la manetta al minimo, attivare gli inversori di spinta e i freni, per tentare disperatamente di governare a terra, in attesa che i 45 metri della carlinga con un’apertura alare di trentacinque ancora saldamente attaccata, perdano velocità e facciano fermare quel che resta dell’aereo in mezzo alla pista. In attesa delle squadre di soccorso. Tutto questo si rivela impossibile. Il sistema idraulico è rimasto così danneggiato nell’impatto che l’aereo risulterà ingovernabile. A una velocità di 250 chilometri orari, l’Md-87 scivola sulla via de fuga e finisce per schiantarsi su edificio adibito a deposito bagagli. Non ci sarà nessuno superstite a bordo. L’incendio provocato dallo schianto mieterà altre quattro vittime nel personale di terra che era impiegato nell’edificio. Se ne salverà un quinto, gravemente ustionato. È il più grave incidente aereo mai verificatosi in Italia e la seconda collisione a terra tra due aerei con più vittime della storia, dopo il disastro di Tenerife del ‘77. La causa non sarà difficile da indagare: una catena di errori umani che ha provocato la morte di 118 persone. Errori da parte dei piloti del Cessna, dell’operatore della torre di controllo e di coloro che hanno applicato una segnaletica inadeguata in uno scalo aereo tanto trafficato come era Linate. La sequenza di manovre eseguita dal comandante svedese Joakim Gustafsson, pilota del volo Scandinavian 686, verrà invece giudicata in seguito talmente appropriata da venir inserita nei manuali tecnici della compagnia aerea che suggeriscono le procedure da seguire in caso di collisione a terra. L'anno seguente, in ricordo delle vittime di quel tragico 8 ottobre 2001, nel Parco Forlanini, adiacente l'aeroporto, verranno piantanti 118 piccoli faggi. Che oggi ancora prosperano in memoria delle vittime. 

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

"I piloti non lo sapevano", così persero la vita i 189 passeggeri. Mariangela Garofano il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. A ottobre 2018 il volo Lion Air 610 partito da Giacarta precipita dopo solo 13 minuti di volo, provocando il decesso di 189 persone, a causa di un nuovo sistema di controllo installato sui Boeing 737 Max. Il 29 ottobre 2018 un Boeing 737 Max 8 della compagnia low cost Lion Air decolla dall’aeroporto di Giacarta, direzione Pangkal Pinang. Dopo pochi minuti dal decollo il velivolo precipita, inabissandosi nelle acque indonesiane. L'incidente causa il decesso di 189 persone, tra cui Andrea Manfredi, un ragazzo italiano di soli 26 anni. Dopo cinque mesi, il 10 marzo 2019 un altro Boeing 737 Max, della compagnia Ethiopian Airlines precipita, causando la morte di 157 persone.

L’incidente. Ma che cosa portò l’aereo a perdere il controllo e a schiantarsi senza possibilità di salvezza per le vittime, a soli 13 minuti dal decollo? Alle 6.20 del 29 ottobre il volo 610 di Lion Air decolla da Giacarta, con condizioni meteo buone. Partito verso ovest, poco dopo il velivolo compie un'inaspettata virata verso sud-est, rotta che l’aereo manterrà fino al suo schianto. Durante quei fatidici minuti l'equipaggio aveva chiesto ai controllori del traffico aereo a terra di poter ritornare indietro e atterrare all’aeroporto di Giacarta per dei problemi. Ma alle 6.33 le comunicazioni con la torre di controllo si interrompono improvvisamente. Immediatamente la National Indonesian Search and Rescue Agency invia tre navi e un elicottero alla ricerca dell’aereo e dei suoi passeggeri. Ma purtroppo alle 7.30 arriva la notizia che la squadra di ricerca temeva di più: alcuni lavoratori su una piattaforma petrolifera riferiscono di aver visto un aereo precipitare a picco nel mare. I soccorritori arrivati sul posto dell’impatto intravedono chiazze d’olio, i detriti del velivolo e alcuni effetti personali dei passeggeri, che ormai sono da considerarsi vittime. Vengono recuperati i primi passeggeri purtroppo deceduti, mentre gli altri si ritiene siano ancora intrappolati nella fusoliera. Finalmente, il 1 novembre la squadra di soccorso annuncia di aver trovato il registratore dei dati di volo a una profondità di 32 metri sul fondo del mare. Il 3 novembre viene rinvenuta la fusoliera dell’aereo, e lo stesso giorno vengono captati segnali provenienti da una delle scatole nere. Nei giorni successivi i soccorritori si adoperano per recuperare il maggior numero di vittime possibile, grazie anche agli sforzi di circa 1400 tra sommozzatori e soccorritori, che riescono a recuperare 125 vittime su 189.

Le indagini. Dopo altri due mesi di ricerche, il 14 gennaio 2019 viene rinvenuto il registratore vocale di cabina. La prima bozza del rapporto del Comitato nazionale per la sicurezza dei trasporti dell'Indonesia (Ntcs) arriva soltanto ad agosto dello stesso anno. Nella bozza si legge che a contribuire al disastro furono una serie di errori di pilotaggio e cattiva manutenzione. Ma dopo attente analisi, il rapporto definitivo evidenzia difetti nel sistema di controllo di volo dell’aereo. Secondo le indagini svolte, la causa scatenante della tragedia fu da attribuire al Manoeuvring Characteristics Augmentation System, abbreviato Mcas, ovvero un nuovo meccanismo automatico di gestione del volo, installato sui Boeing 737 Max. Il Mcas aveva comandato ai trim (le alette che si trovano sull’equilibratore, e che servono a mantenere l'aereo nella direzione desiderata) un assetto verso il basso, portando il velivolo in picchiata. A seguito della tragedia, furono revisionati quasi 400 aeroplani Boeing 737 Max, a scopo cautelativo. Il rapporto finale evidenziò inoltre un'"assenza di istruzioni” adeguata ai piloti, riguardo al nuovo sistema introdotto nei 737 Max, oltre a difficoltà di comunicazione con l’equipaggio. E sulla mancanza di istruzioni si fonda la causa che la famiglia di Andrea Manfredi ha intentato contro la Boeing nel 2019, come riportato da Il Fatto Quotidiano.“I piloti non erano stati formati - annunciarono i legali della famiglia Manfredi, e ancora - Lottavano contro un sistema che non sapevano esistesse e che non sapevano disabilitare“.

L’incidente del volo precedente. A preoccupare gli inquirenti inoltre si aggiunse anche un altro incidente che coinvolse il Boeing 737 Max 8. Il giorno precedente lo stesso aeromobile aveva avuto seri problemi durante il volo. I passeggeri del volo da Bali a Giacarta raccontarono di aver avvertito un forte odore di bruciato e che il velivolo aveva sbandato pesantemente per tutto la fase di crociera. “Era come un giro sulle montagne russe", affermarono i passeggeri. Per fortuna a bordo vi era un pilota fuori sevizio, il quale identificò in tempo il problema, disattivando il sistema di controllo di volo e portando in salvo i passeggeri. Da una prima ricostruzione della scatola nera le indagini stabilirono che anche lo sciagurato volo 610 ebbe lo stesso problema del precedente. Un’anomalia al sistema di bordo avrebbe impedito al pilota di mantenere la rotta, cosa che tentò di fare svariate volte negli ultimi dieci minuti di volo.

La conclusione delle indagini. A ottobre 2019, a un anno esatto dalla tragedia che portò al decesso delle 189 persone a bordo del Boeing 737 Max 8 della Lion Air, si conclusero le indagini. Secondo gli inquirenti la Boeing sarebbe responsabile degli errori di progettazione dei 737 Max. Per mesi dopo il disastro la Boeing sostenne di non essere stata a conoscenza che il nuovo sistema automatico non fosse sicuro. Questo nonostante a marzo 2019, pochi mesi dopo l’incidente del volo indonesiano, un altro Boeing 737 Max della Ethiopian Airlines perse il controllo e si schiantò al suolo. Anche la compagnia Lion Air fu ritenuta colpevole per aver fatto partire il velivolo, pur essendo stata informata dei problemi che l’aeromobile aveva riscontrato nel volo precedente. In seguito alla conclusione delle indagini, i parenti del primo ufficiale e di molte delle vittime dell’incidente intentarono una causa contro la Boeing. A causa dei gravi incidenti occorsi ai velivoli, a marzo 2019 i Boeing 737 Max vennero ritirati. La Boeing, già incolpata di insabbiamento, ha in seguito riprogettato il sistema Mcas e dopo una serie di indagini per verificare che gli aerei fossero sicuri, il 737 Max ha ripreso a volare a gennaio 2021. 

"Aggrappati, ma cadevano nel vuoto": la "trappola d'acqua" dell'Estonia. Mariangela Garofano il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. La notte tra il 27 e il 28 settembre 1994 il traghetto Estonia, partito da Tallin e diretto a Stoccolma, affonda nel Mar Baltico causando uno dei naufragi più gravi della storia d'Europa. “Dentro sembrava di essere in trappola. Chi si faceva prendere dal panico continuava ad arrampicarsi e a ricadere indietro”. A raccontare i tragici momenti vissuti nel documentario L'Ultima ora - L'affondamento dell'Estonia, è Anneli Konrad, ballerina a bordo dell'Estonia, scampata per miracolo al naufragio della nave in cui morirono 852 persone. L’Estonia salpa da Tallin diretta a Stoccolma il 27 settembre 1994. La traversata è considerata un evento molto prestigioso per il paese del Baltico dato il momento storico: l’Estonia ha infatti ottenuto l’indipendenza da pochi anni, nel 1991, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Il viaggio in Svezia deve svolgersi nel miglior modo possibile, per dimostrare che il Paese è all’altezza dei vicini scandinavi.

Il naufragio. Verso sera le condizioni meteo non sono delle migliori, il mare è agitato e le onde sfiorano i 4 metri, rendendo la navigazione alquanto movimentata. Molti passeggeri si sono già ritirati in cabina a causa del dondolio insopportabile, mentre altri sono ancora al bar per un drink, per trascorrere in compagnia la nottata burrascosa. Ma all’una di notte la cosiddetta celata di prua, ovvero il portellone, cede sotto il peso delle violente onde, si stacca completamente e lascia entrare un’enorme quantità d’acqua nei garage. L’inondazione causa una brusca inclinazione della nave verso dritta, che porterà l'Estonia ad affondare in pochissimo tempo negli abissi marini. I passeggeri che dormono vengono svegliati dall'intensità dell'impatto, mentre quelli svegli finiscono catapultati con violenza da una parte all’altra nave. Inizia a diffondersi il panico. I passeggeri si rendono immediatamente conto che la situazione è grave, e dai ponti inferiori si riversano verso le uscite, per assicurarsi una scialuppa e salvarsi. “Era come un film muto”, racconta Anneli. “Non sentivo nulla, ma vedevo tutto. Ero come ipnotizzata, poi ho visto una donna con una ferita in testa, ho pensato fosse morta, e una voce nella mia testa mi diceva di uscire subito. Restavo aggrappata e vedevo gli altri che non ce la facevano più a reggersi. Poi c’era altra gente in un angolo che aveva rinunciato a combattere. È stato traumatizzante”, conclude Anneli tra le lacrime. All’1.20 del mattino viene dato l’allarme e due minuti più tardi il comandante lancia il primo dei tre Mayday. Dopo una serie di messaggi confusi, la prima nave a raggiungere il luogo del naufragio è la Mariella alle 2.12, seguita dalla Silja Europa, il cui comandante assume l’incarico di coordinare i soccorsi. La nave continua a inclinarsi e a imbarcare acqua. Il caos regna sovrano a bordo dell’Estonia. I testimoni raccontano scene raccapriccianti: alcune persone volano in acqua con le scialuppe, altre vengono trascinate all’interno della nave, diventata una trappola d’acqua, senza via di scampo. Gli elicotteri arrivano sul posto della tragedia intorno alle 3 del mattino per prestare soccorso ai superstiti, il cui recupero continua fino alle 9 del mattino. Vengono salvati 138 passeggeri, ma uno di loro non ce la fa e muore in ospedale. Ma per i sopravvissuti alla sciagura la salvezza arriva dopo una serie di peripezie nelle gelide acque del Baltico, perché essendo molte scialuppe cadute in mare, alcuni di loro sono costretti a resistere fino all’arrivo dei soccorsi in balia delle spaventose onde. Il mare è un cimitero di vittime che galleggiano con il giubbotto di salvataggio ancora indosso. Dei passeggeri deceduti solo 94 vengono recuperati. Dei rimanenti 757 tra equipaggio e passeggeri, 650 probabilmente intrappolati nel relitto, non vennero mai rinvenuti.

Le cause dell’incidente. Le indagini per scoprire cosa causò il più grave naufragio in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale attribuirono la rottura del portellone di prua alla scarsa manutenzione della nave nei mesi precedenti la traversata. Gli inquirenti stabilirono che la responsabilità è da imputare a Finlandia, Svezia ed Estonia. Le autorità finlandesi avevano infatti assegnato all’Estonia la classe A1 di idoneità, eppure la prua evidentemente non possedeva quei requisiti. Svezia ed Estonia furono ritenute responsabili di negligenza nella manutenzione e revisione della nave. I superstiti raccontarono in seguito che a bordo riscontrarono diversi malfunzionamenti: porte sbarrate, giubbotti di salvataggio rotti ed equipaggio non addestrato correttamente a un’eventuale evacuazione della nave. A settembre 2020, ovvero 26 anni dopo il disastroso naufragio, il caso venne però riaperto, dopo un’inchiesta condotta durante un documentario di Discovery Network. Come si legge su Agi.it, durante le riprese i documentaristi scoprirono uno squarcio di quattro metri nello scafo. La nuova scoperta confuterebbe le conclusioni investigative ufficiali, secondo le quali il portellone di prua si sarebbe aperto a causa di un malfunzionamento. A luglio di quest’anno le Autorità svedesi di Investigazione sugli incidenti hanno iniziato a revisionare nuovamente il relitto, per stabilire con certezza cosa accadde quella sciagurata notte del 28 settembre 1994.

Le teorie alternative. Parallelamente al rapporto ufficiale, negli anni presero piede una serie di teorie alternative su cosa fece affondare l'Estonia. In particolare la giornalista tedesca Jutta Rabe portò avanti una serie di indagini, sostenendo che lo squarcio trovato nello scafo del traghetto fu causato da un'esplosione e che la nave stesse trasportando materiale militare. Tuttavia l'ipotesi di una bomba a bordo dell'Estonia venne esclusa dalla commissione investigativa, la quale appurò che pochi giorni prima del naufragio la nave aveva effettivamente trasportato materiale militare, ma di natura non esplosiva.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

"Abbiamo perso i motori". E l'aereo si inabissò nel mare di Palermo. Mariangela Garofano il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il 6 agosto 2005 il volo Tuninter, decollato da Bari e diretto a Gerba, è costretto ad ammarare a causa dello spegnimento improvviso dei motori. Quel giorno persero la vita 16 dei 39 passeggeri diretti in Tunisia. “Non siamo in grado di raggiungere la terra… abbiamo perso entrambi i motori! Mandateci degli elicotteri… veloce, veloce!”. La voce concitata che i controllori di volo ricevono è quella del comandante del volo 1153 della compagnia charter Tuninter, che il 6 agosto alle ore 12.32 decolla dall’aeroporto di Bari con destinazione Gerba, nota meta turistica tunisina. L’aereo, un Atr-72, dopo aver constatato una serie di gravi anomalie ai motori, è costretto a effettuare un ammaraggio al largo dell’aeroporto Punta Raisi di Palermo. A seguito dell’incidente perdono la vita 16 delle 39 persone a bordo, mentre 11 sopravvivono all'impatto.

L’incidente

Il volo Tuninter 1153 decolla senza problemi da Bari e continua il suo volo in modo regolare per altri 50 minuti, quando improvvisamente si spegne il motore destro. Immediatamente i piloti contattano il traffico aereo, chiedendo di portare il velivolo da 23.000 piedi a 17.000, ma alle 13.23 si spegne anche il motore sinistro. A questo punto il comandante del volo 1153, nel panico, chiede di poter atterrare all’aeroporto di Palermo, comunicando di avere entrambi i motori in avaria e 1800 chilogrammi di carburante. L'Atr diretto a Gerba inizia così la sua corsa contro il tempo, ma alle 13.33 l’aereo, che si trovava a 20 chilometri da Punta Raisi, a 1200 metri di altitudine, comunica di non essere in grado di raggiungere la terraferma. Sono le 13.37 quando si interrompono le comunicazioni con i controllori di volo e si arresta così la corsa del Tuninter per raggiungere in tempo l'aeroporto di Palermo. "Stiamo per toccare il mare, in nome di Dio!”. Queste sono le ultime parole del comandante, catturate dal registratore di volo, prima dello schianto in mare costretto a un ammaraggio d’emergenza: a causa dell’impatto muoiono 16 persone e 11 rimangono ferite.

Le cause dell’incidente e le indagini

Ma cosa causò l’avaria di entrambi i motori di un velivolo che al decollo non presentava alcun problema? L’Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo, che si occupò di effettuare lei indagini, rilevò che la strumentazione utilizzata per verificare la quantità di carburante presente sull’aereo era errata: si trattava infatti della strumentazione che si usa per gli Atr-42, non per gli Atr-72. Gli strumenti di misurazione del livello di carburante per i due modelli sono identici, per dimensione e capacità, ma i serbatoti di un Atr-72 sono diversi da quelli di un Atr-42, che è un modello più piccolo. Pertanto, a seguito delle prove condotte dall’Ansv, venne determinato che il livello di carburante rilevato dalla strumentazione utilizzata, risultava essere superiore a quella effettiva, che era di circa 1800 chilogrammi. Dopo l’incidente l'Agenzia Europea per la Sicurezza Aerea effettuò delle modifiche nel protocollo, affinché i due serbatoi non potessero più essere scambiati. Inoltre l’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) dispose il divieto di volo a tutti i voli della compagnia Tuninter e la verifica di tutti gli Atr presenti in Italia, che terminò senza anomalie. Ma quella del carburante non risultò essere l’unica causa che provocò il disastro: dalla perizia effettuata dopo l’incidente venne fuori che l’aereo presentava diversi elementi non perfettamente funzionanti. Le scatole nere erano obsolete, per questo motivo non si riuscirono ad ascoltare gli ultimi secondi prima dello schianto in mare. Ma non è tutto: da ciò che emerge dalla perizia un pilota si era rifiutato di salire a bordo in un volo precedente, perché il carrello anteriore presentava dei problemi e, nonostante ciò, non era ancora stato sostituito.

La conclusione delle indagini

Le indagini, che si conclusero a gennaio 2008, determinarono che la causa primaria dell’incidente occorso al volo Tuninter fu l'esaurimento del carburante. Rimase però da stabilire se ci fossero altre cause che scatenarono la tragedia. Gli inquirenti stabilirono che furono commessi errori da parte dell’equipaggio, il quale non rispettò le procedure operative per la verifica del combustibile presente a bordo. Venne appurato inoltre che contribuì all’incidente anche lo scarso addestramento del personale di terra e l’insufficiente controllo del livello del combustibile da parte della compagnia Tuninter. Infine anche i piloti che sopravvissero all’incidente furono ritenuti responsabili dell'accaduto. Se questi avessero eseguito le procedure previste, sarebbero potuti atterrare a Palermo in planata.

Il processo 

L’udienza preliminare si aprì il 28 febbraio 2008 e vide imputate nove persone per i reati di disastro colposo, omicidio plurimo colposo e lesioni colpose gravissime. Il 23 marzo 2009 fu emessa la sentenza che condannò a 10 anni di reclusione il comandante del volo Chafik Gharby e il pilota Ali Kebaier e 9 anni per il direttore generale della Tuninter Moncef Zouari e il direttore tecnico Zoueir Chetouane. Condannati a 8 anni il responsabile del reparto di manutenzione Siala Zouehir, il meccanico Nebil Chaed e il responsabile della squadra manutenzioni Rhouma Bal Haj. Come si legge su Bari Today, a seguito dell’appello, ad aprile 2013 le pene vennero ridotte. Le condanne più pesanti sono andate al comandante Chafik Gharby (6 anni e 8 mesi) e al pilota Ali Kebaier (6 anni).

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho

"Ehi, è volato via il motore". E l'aereo della morte si è schiantato. Mariangela Garofano l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. Nel maggio 1979 gli Stati Uniti assisterono al più grave incidente aereo mai accaduto nel Paese. Un volo dell'American Airlines partito da Chicago, diretto a Los Angeles, precipitò dopo pochi minuti dal decollo per la perdita di uno dei motori. Sono le 14.50 del 25 maggio 1979 e dall’aeroporto O’Hare di Chicago il volo American Airlines 191 diretto a Los Angeles inizia l’accelerazione sulla pista, pronto a decollare. Il velivolo è un McDonnell Douglas DC-10, considerato moderno e affidabile, risalente a otto prima, con soli sette anni di servizio. A bordo ci sono 258 passeggeri, più 13 membri dell’equipaggio. Le condizioni meteo sono buone ma, mentre il velivolo ha già coperto una distanza sul rettilineo di 1800 metri, un controllore del traffico aereo si accorge che il motore numero uno si è staccato dall’ala sinistra, per precipitare a terra.

L’incidente. “Guardate là! Gli è volato via un motore!”, si sente urlare dalle registrazioni della torre di controllo, dove gli operatori assistono impotenti al tragico evento, il più grave incidente aereo mai avvenuto negli Stati Uniti, secondo solo a quello delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. In cabina di pilotaggio i piloti non si accorgono di nulla poiché dai finestrini la visuale non permette di vedere le ali. Il distacco del motore ha causato la perdita del propulsore e ingenti danni al sistema elettrico e idraulico. Mentre i piloti sono all’oscuro di ciò che sta accadendo al velivolo, i passeggeri molto probabilmente vedono dai finestrini il motore staccarsi dall’aereo, rendendosi conto della sciagura che si sta abbattendo su di loro. La perdita di un motore per un Dc-10 non è fatale, pertanto il velivolo continua il decollo fino a staccarsi dal suolo. La torre di controllo avvisa immediatamente l’equipaggio del grave problema e di tornare a terra, mentre i piloti concentrano tutte le forze sul controllo del velivolo, con l’obiettivo di farlo atterrare il prima possibile. Il motore ormai perso però controllava anche il sistema idraulico ed elettrico, pertanto in cabina di pilotaggio non si accorgono che sono stati danneggiati anche i flap, gli alettoni posizionati sulle ali che aumentando l’attrito con l’aria, riducono la velocità del velivolo. A questo punto i piloti cercano di ridurre la velocità da 306 a 283 chilometri all'ora, ma i flap si ritirano e la velocità invece di diminuire, aumenta da 230 a 300 chilometri all'ora. Ma i guai non sono finiti: l’ala sinistra entra in stallo, mentre quella destra continua a fornire portanza, ovvero la forza responsabile del sostentamento di un velivolo. La situazione di squilibrio che ne deriva porta l’aereo a una violenta virata e al conseguente schianto del velivolo contro un hangar collocato vicino all’aeroporto. A seguito dell’impatto moriranno sul colpo tutti i passeggeri, l’intero equipaggio e due lavoratori dell’hangar, portando il bilancio delle vittime a un totale di 273. Una cortina di fumo si innalza dalla zona in cui è precipitato il Dc-10, e appena arrivati sul posto lo spettacolo che si trovano davanti i soccorritori è apocalittico. Al posto dell’hangar ora vi sono fiamme e pezzi di lamiera e i resti dei passeggeri sono sparsi dappertutto.

Le indagini. La portata dell’incidente è chiara fin da subito e viene aperta un’indagine a riguardo, per capire le cause che hanno portato il volo American Airlines 191 a perdere un motore in fase di decollo. Gli inquirenti sono preoccupati, in quanto in passato altri Dc-10 avevano subito incidenti di quel tipo. Cosa c’era che non andava in questi aerei? Tra le teorie plausibili c’è quella di un attacco terroristico. Il controllore di volo che per primo si accorse della perdita del motore riferì agli investigatori del National Transportation Safety Board di aver notato una scintilla, ma in seguito altri testimoni affermarono di aver visto il propulsore scivolare in avanti e rovesciarsi sull’ala. Scartata dunque la pista terroristica, gli investigatori si concentrarono sul cedimento strutturale. Purtroppo dal registratore di volo si sentiva solo un membro dell’equipaggio pronunciare la parola “maledizione”, perché questo era alimentato dal propulsore che si era staccato. Dopo mesi di indagini, il 21 dicembre 1979 viene trovato il colpevole del disastro: l’American Airlines. Otto settimane prima l’aereo venne revisionato a Tulsa, Oklahoma. I tecnici avevano sostituito il propulsore, ma invece di rimuovere il motore pezzo per pezzo, era stato ordinato loro dalla compagnia aerea di rimuoverlo in blocco, procedura considerata errata e soprattutto, pericolosa. Per scongiurare altri disastri della portata del volo 191, in seguito furono controllate anche le flotte di Dc-10 di altre compagnie portando alla luce un’amara scoperta: anche United Airlines e Continental Airlines utilizzavano lo stesso metodo di sostituzione dei componenti dei Dc-10, che in gran parte vennero trovati con il pilone danneggiato. Per anni queste compagnie aeree misero a rischio la vita di migliaia e migliaia di persone, per una loro imperdonabile negligenza, fino al più grave incidente, quando 273 innocenti morirono dopo pochi minuti di volo. A seguito delle indagini, American Airlines dovette pagare mezzo milione di dollari di multa per manutenzione impropria.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna...

"Che diavolo sta succedendo". E in 132 si schiantarono sulla collina. Mariangela Garofano il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. L'8 settembre 1994 il volo UsAir 427 diretto a Palm Beach, Florida, si schianterà improvvisamente a pochi minuti dalla pista d'atterraggio di Pittsburgh, provocando la morte di 132 persone. L’8 settembre 1994 il volo UsAir 427 della compagnia aerea Us Airways decollò dall’aeroporto O’Hare di Chicago diretto a Pittsburgh. Fu un volo di breve di durata che si concluse con una tragedia: il velivolo precipitò un’ora più tardi, uccidendo le 132 persone a bordo.

L’incidente

Il Boeing 737-300, consegnato alla Us Airways nel 1977, decolla dall’aeroporto di Chicago l’8 settembre 1994 alle 18.10, con destinazione finale Palm Beach, Florida. Il velivolo avrebbe dovuto effettuare una fermata intermedia a Pittsburgh meno di un’ora dopo. Alle 18.58 l’equipaggio si prepara a effettuare la check-list in vista dell’atterraggio ma, mentre sta virando a sinistra con un'inclinazione di circa 8 gradi, all’improvviso il velivolo porta la virata a 20 gradi.

I controllori di volo, da quel momento e per i pochi minuti a venire, ascolteranno impotenti le esclamazioni di panico e i tentativi dei piloti di stabilizzare l’aereo e salvare i passeggeri. “Stai su!”, esclama il comandante Peter Germano. “Che diavolo sta succedendo?!”, continua Germano, che comunicherà alla torre di controllo che il velivolo si trova nel mezzo di una grave emergenza. I due piloti riescono a stabilizzare l’aereo, ma il problema si ripresenta e, meno di un secondo dopo, il velivolo si inclina di nuovo senza che i piloti tocchino i comandi. Alle 19.02 il Cockpit Voice Recorder smette di registrare mentre il velivolo si schianta contro una collina.

La causa del disastro e le indagini

Subito dopo il disastro il National Transportation Board aprì un’indagine per stabilire cosa provocò l’incidente al volo 427, indagine che durò quattro anni, e fu una delle più lunghe nella storia dei disastri aerei. Come prima cosa gli investigatori si concentrarono su un incidente accaduto al velivolo quello stesso giorno, durante la tratta da Windsor Locks in Connecticut a Jacksonville. Il volo atterrò regolarmente ma alcuni passeggeri riportarono che l’aereo effettuò delle “brusche manovre” durante il volo. Esaminando la scatola nera, gli inquirenti scoprirono che anche in quel caso il velivolo aveva effettuato delle virate non controllate dai piloti, passando da 9 gradi di inclinazione a sinistra, a 12 gradi di inclinazione a destra in circa 20 secondi. L’Ntsb venne inoltre informato di strani rumori rilevati dai passeggeri del volo per Jacksonville nella parte posteriore del velivolo. Le indagini effettuate ai componenti del sistema dei controlli di volo rilevarono che c’era un problema al timone di direzione, i cui meccanismi di controllo avevano subito delle sollecitazioni da sovraccarico. Negli anni a venire furono effettuati alcuni test ai componenti del timone, al fine di stabilire le cause del disastro. Nell’agosto del 1996 gli ingegneri della Boeing indicarono come possibile causa dell’incidente un surriscaldamento del liquido del sistema idraulico del timone di direzione. Ciò che andarono ad analizzare gli esperti fu il Power Control Unit del timone di direzione, che controlla il timone sui Boeing. Vennero effettuati ben 12 test, 4 su Pcu nuovi, e 8 sul Pcu del volo UsAir 427. Dopo svariati test che non evidenziarono nulla di anomalo, la temperatura del Pcu fu portata a -40 gradi centigradi e quella del liquido idraulico a 76 gradi centigradi. Nei Pcu nuovi non risultò nulla di strano, mentre il Pcu del volo 427 si bloccò a sinistra al quarto comando per qualche secondo, prima di tornare in posizione neutra. Nuovi test rilevarono inoltre che mentre il Pcu del volo 427 era bloccato, la pressione dell’olio idraulico aumentava. Dopo anni di indagini, test e analisi, si giunse alla conclusione che l’incidente del Boeing 737-300 della UsAirways fu causato dalla perdita di controllo del velivolo da parte dei piloti, provocata dal guasto al timone di direzione, che si bloccò. Secondo le indagini, il Pcu quel giorno si arrestò a causa delle condizioni climatiche definite “sfavorevoli”. La differenza di temperatura tra il Pcu e l’olio idraulico che lo aveva attraversato per un intervento del pilota, aveva provocato il bloccaggio del meccanismo, facendo precipitare il velivolo. A seguito delle lunghe indagini sul volo UsAir 427 l’Ntsb riaprì circa 100 inchieste rimaste irrisolte, che vedevano coinvolti dei Boeing 737, dagli anni '80 in avanti. Come riporta il Post Gazette, durante le interminabili indagini che seguirono l'incidente i familiari delle vittime fondarono la Flight 427 Air Disaster Support League, un gruppo di supporto che i parenti decisero di istituire in memoria dei loro cari. L'associazione fu creata anche per scambiarsi informazioni, visto che i parenti delle vittime accusarono le autorità di averli messi da parte e di aver comunicato loro in ritardo gli sviluppi del caso.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

Tutti gli incredibili disastri di cui non impariamo mai. Matteo Sacchi il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. Da Pompei all'Ebola: l'umanità lotta sempre contro "Re dragoni" e "Cigni neri". «La storia dei disastri è la storia di uno zoo mal gestito pieno di rinoceronti grigi, cigni neri e re dragoni, nonché di moltissimi eventi sfortunati ma privi di conseguenze e di un'infinità di eventi del tutto insignificanti o nemmeno verificatisi». Parole dello storico di Harvard (ma insegna anche a Oxford e a Stanford) Niall Ferguson che nel suo nuovo saggio prende in esame la maggior parte delle catastrofi che hanno colpito il genere umano. Conscio del fatto che uno storico alla fine in qualche modo parla sempre del presente e memore di un vecchio motto latino citato da Cicerone, ovvero historia magistra vitae, Ferguson ha ripercorso i secoli per vergare Catastrofi (Mondadori, pagg. 506, euro 35) il cui sottotitolo recita «Lezioni di storia per l'Occidente». Come molti di noi ha preso atto di come una pandemia in un certo senso annunciata abbia colto alla sprovvista i governi e le popolazioni: «A quanto pare mai, nel nostro tempo, vi è stata maggiore incertezza sul futuro e maggiore ignoranza del passato. All'inizio del 2020 ben pochi hanno saputo comprendere il significato delle notizie che giungevano da Wuhan a proposito di un nuovo Coronavirus». Ed ecco che si torna agli strani animali citati all'inizio di questo articolo. Ferguson nei primi capitoli fornisce al lettore i capisaldi della cliodinamica ovvero la scienza che cerca di prevedere i cicli della storia collegandoli proprio ad eventi climatici o socioeconomici. La correlazione ovviamente esiste ma non c'è legge che tenga e consenta previsioni esatte. Studiosi come Jared Diamond hanno dimostrato che il collasso delle civiltà spesso è rapido e che ci sono dei meccanismi tipici che, purtroppo, tendono ad offuscare la mente di chi ne è coinvolto. Esiste poi un variegato «serraglio della catastrofe». Il matematico Nassim Taleb dimostra che gli esseri umani non sono quasi mai pronti ad affrontare i «cigni neri». Ovvero eventi che sulla base della nostra limitata esperienza ci sembrino improbabili. Questi cigni neri, quando sono catastrofici, come lo tsunami del 2004 nell'Oceano Indiano, si abbattono su vittime ignare. Se la loro entità è tale da mettere a rischio un'intera civiltà c'è chi, sulla scia del fisico francese Didier Sornette li definisce «Re Dragone». Delle sorte di apocalissi. Invece lo scrittore americano Michele Wucker ci mette in guardia dai così detti «Rinoceronti grigi». Ovvero eventi che chiaramente tutti dovrebbero intendere come pericolosi e invece... vengono ignorati. Col senno del poi la Prima guerra mondiale e il Covid-19 dovrebbero ad esempio essere catastrofi di questo tipo (nella speranza che il Covid non evolva in Re Dragone). E a questo punto Ferguson compie una lunghissima disamina di disastri di tutti i tipi, dalla distruzione di Pompei sino alle crisi economiche seguite alla Prima guerra mondiale passando per i disastri militari di Napoleone e all'autodistruzione (se davvero lo fu) della popolazione indigena dell'Isola di Pasqua. Largo spazio è dato ovviamente alle pandemie, dalla peste alla spagnola. Anche perché alla fine, tolta la peste nera spesso nei libri di storia, almeno nei manuali compaiono poco. Anche questa una lezione per l'oggi. C'è chi ha scritto che «La pandemia del 1918... non ebbe molta influenza sui cambiamenti politici e sociali già apportati dalla guerra». Ferguson dimostra quanto sia falso e ci fa capire quanto sia alto il rischio che anche oggi si possa cercare di mettere il problema sotto il tappeto. Tanto per dire, probabilmente il presidente Woodrow Wilson capitolò su punti importanti del trattato di pace di Versailles perché gravemente debilitato dalla malattia. Ma non solo rimozione, anche un senso di superiorità decisamente fuori luogo ci accompagna nel guardare il passato. Uno dei moniti del libro è proprio questo, poiché facilmente studiando i disastri del passato ci si sente di dire: «Ma come hanno fatto a fare cose così stupide?». Chi riempirebbe un dirigibile come l'Hindenburg (che compare sulla copertina del libro) con idrogeno infiammabile al posto che con elio? Eppure sino all'incidente, che fece tramontare per sempre il volo con mezzi più leggeri dell'aria, gli Zeppelin avevano percorso migliaia e migliaia di chilometri senza incidenti. Il rinoceronte grigio sembrava anche in quel caso un cigno nero. Facendo tutti i dovuti paragoni sia col Covid sia con il montante scontro con la Cina non sembriamo particolarmente più avveduti dei nostri antenati. Anzi. L'illusione di contenere la pandemia attraverso il blocco della città di Wuhan o con il controllo dei voli provenienti dalla Cina risulta imperdonabilmente ingenua. Per dirla con le parole di Ferguson: «La storia della mutevole esposizione dell'umanità alle malattie infettive tende a essere scritta come una storia degli agenti patogeni... Si potrebbe altrettanto bene raccontare questa storia come la storia delle nostre reti sociali in costante evoluzione». Ogni episodio di crescita esponenziale dei contatti umani è causa di crisi sanitarie molto di più di quanto lo sia la semplice evoluzione dei virus. E questo era un dato che non sarebbe dovuto sfuggire a nessun governo. Dal 1817 al 1923 nel mondo vi furono ben sei epidemie di colera. Bastò la rete di commerci dell'epoca vittoriana per far partire il virus da Calcutta, nel 1829 e farlo arrivare negli Stati Uniti. Se l'erano cavata meglio i veneziani, che dal 1377 avevano iniziato ad utilizzare la quarantena. Non particolarmente brillante la reazione anche di fronte al vaccino. Nel Settecento e nell'Ottocento ci volle del bello e del buono a convincere le persone ad utilizzare la allora rivoluzionaria variolizzazione prima e la vera e propria vaccinazione poi. Tra i primi a inocularsi Maria Teresa d'Austria con figli e nipoti, Luigi XVII, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Ma le resistenze in alcune zone del mondo e tra alcuni strati della popolazione furono violentissime. Stessa cosa per i tentativi di utilizzare sistematicamente la quarantena contro il tifo e il colera. Vedendo la situazione attuale anche in questo caso, nonostante una educazione scientifica che dovrebbe essere una colonna del nostro sistema scolastico, è cambiato davvero poco. Insomma, i comportamenti umani sono cambiati poco ma «a ogni progresso nelle tecnologie, a quanto pare, cresce la scala potenziale dei singoli disastri». Per carità, in generale la società migliora, Ferguson prova, dati alla mano, che il numero di disastri e incidenti in quasi tutti i settori tende proporzionalmente a scendere. Però errori attivi e latenti nella gestione delle crisi sono sempre in agguato e le loro conseguenze accresciute. E spesso le conseguenze non le si vuole vedere e in questo caso Ferguson mette il dito negli incidenti sugli Shuttle, incidenti che dimostrano che anche un personale, come quello della Nasa, ad alta preparazione scientifica può cedere alle pressioni politiche o alla tentazione di indorare la pillola. Tanto che alla fine Ferguson conclude che: «La storia ci insegna che non dobbiamo attenderci i grandi segni premonitori del disastro in un ordine prevedibile. I quattro cavalieri dell'apocalisse escono al galoppo a intervalli apparentemente casuali per ricordarci che nessuna innovazione tecnologica può renderci invulnerabili». Dovrebbe restarci però almeno la capacità di essere più antifragili, come direbbe Nassim Taleb, che il passato può regalarci.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Kanun, cos'è il codice di vendetta albanese e perché se ne parla per il pestaggio mortale di Mantova. Le Iene News il 07 luglio 2021. Due ragazzi picchiati selvaggiamente: uno è morto, l’altro è in coma farmacologico. Sono le vittime di un pestaggio avvenuto a Mantova fuori da un centro commerciale. Lì poi è comparso un cartello anonimo che potrebbe alludere al Kanun. Con Luigi Pelazza abbiamo conosciuto le vittime e il significato di parte di parte di questo codice non scritto che arriva dall’Albania. "Il sangue si lava con il sangue". È il messaggio comparso fuori da un centro commerciale di Mantova. Qui pochi giorni fa è avvenuto un pestaggio finito nel sangue: un ragazzo di 23 anni di nazionalità albanese è morto mentre un 35enne si trova in coma farmacologico. Quelle parole richiamano quelle di parte del Kanun, un codice consuetudinario non scritto diffuso in alcune zone montane dell’Albania di cui ci ha parlato Luigi Pelazza nel servizio che potete vedere qui sopra. Dopo la comparsa a Mantova di quel cartello anonimo scritto a computer, c’è il sospetto che possa alludere alla vendetta prevista dal Kanun dell’Albania, da cui proveniva il ragazzo morto. Secondo la prima ricostruzione degli inquirenti, i due ragazzi sono stati colpiti selvaggiamente con mazze da baseball. Sarebbero stati attirati in una trappola intorno alle 3 di notte nel piazzale del centro commerciale. Poco distante sono stati trovati alcuni abiti insanguinati che non apparterrebbero alle due vittime: gli inquirenti sperano di ricavare tracce di dna per risalire agli aggressori. Si teme tra l’altro che ora possano essere raggiunti da qualcuno che vuole applicare le regole d'onore e di sangue del Kanun, vendicando omicidio con omicidio. Luigi Pelazza ci ha parlato di questa “legge” che consiste nel vendicare l'uccisione di un membro della propria famiglia uccidendo un membro dell'altra. Non c'è scappatoia, il cerchio si chiude solo quando “il sangue è lavato con il sangue”, le stesse parole scritte nero su bianco e comparse sul luogo della tragedia. Nel servizio che potete rivedere qui sopra, abbiamo incontrato delle famiglie a cui è stata giurata vendetta assieme a uno dei negoziatori che prova ad arginare il diffondersi di queste tragedie. Le persone minacciate finiscono costrette a vivere segregate in casa senza poter più uscire nel timore di essere uccisi. In questo antico codice orale ci sono anche dei “cavilli”: per esempio, se la persona minacciata ha bisogno di uscire di casa per andare in ospedale, i mediatori delle due famiglie si accordano su un periodo di tregua per permettere le cure.

Monte Rosa, si poteva evitare la morte di Paola e Martina? Il rimpallo di chiamate, i 30 minuti decisivi. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Paola Viscardi e Martina Svilpo sono le due ragazze, rispettivamente di 28 e 29 anni, che sono morte assiderate nella tarda serata di sabato sul Monte Rosa. Per loro non c’è stato nulla da fare, mentre il loro amico Valerio Zolla si è salvato ed è ricoverato in un ospedale svizzero, dove non è in pericolo di vita. Questa tragedia dipesa da circostanze sfortunatissime si poteva evitare? Difficile dirlo, ma forse le cose sarebbero potute andare diversamente, stando almeno alla ricostruzione de La Stampa. “Una telefonata di aiuto che s’insegue per quattro città fa da sfondo alla morte delle due giovani piemontesi”, ha scritto Enrico Martinet, che ha riportato il fatto che la chiamata effettuata da Valerio alle 14.30 al numero unico di emergenza è stata inoltrata a Novara, rimbalzata a Torino e per competenza è finita ad Aosta. In questo modo si è persa mezz’ora e soprattutto la preziosa possibilità di avere informazioni più precise dai ragazzi: per le guide alpine anche un solo dettaglio può fare la differenza in interventi di questo tipo. “Uno dei problemi sollevati dal soccorso alpino con il numero unico di emergenza - si legge su La Stampa - è proprio l’impossibilità di poter parlare subito con chi è in difficoltà”. Soltanto alle 19.30, quando Valerio è riuscito a chiamare di nuovo, le guide sono state in grado di comprendere dove fossero i tre alpinisti dispersi. Un caso che testimonia l’importanza che avrebbe poter chiamare direttamente il soccorso alpino e non solo il 112, che deve fare da filtro.

Monte Rosa, Paola e Martina morte assiderate: in che posizione le hanno trovate e l'ultimo straziante messaggio, i dettagli che fanno male. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Una tragedia sfortunata quanto terribile, quella che ha colpito Paola Viscardi e Martina Svilpo. Le due ragazze di 28 e 29 anni non sono sopravvissute a un’escursione sul Monte Rosa che è improvvisamente degenerata tra bufera, temporale e neve. Stando a quanto riportato dall’inviato de La Stampa, le hanno trovate abbracciate nella neve intorno alle 21.30, sulla cresta Vincent. Una di loro è anche riuscita a pronunciare il suo nome e a dire “non riesco ad alzarmi, non posso camminare”. L’unico che ne era ancora capace era Valerio Zolla, il loro amico 27enne, che aveva anche dato i suoi guanti alle ragazze: a permettergli di sopravvivere è il fatto di non essersi mai seduto troppo a lungo, nel tentativo continuo di cercare campo per contattare i soccorsi. “Abbiamo capito subito che la situazione era molto grave - ha dichiarato uno dei soccorritori a La Stampa - una ragazza aveva perso conoscenza, l’altra non riusciva a muoversi”. “Solo Valerio Zolla era in grado di camminare - ha aggiunto - ci siamo legati tutti, e abbiamo iniziato la discesa mentre veniva buio”. Ci sono volute sedici persone per portare a termine i soccorsi, poi al rifugio Mantova i medici hanno provato a salvare la vita alle due ragazze per circa due ore, ma purtroppo non ce l’hanno fatta. I soccorritori hanno parlato di “circostanze tremende e sfortunatissime”.

Enrico Martinet per “La Stampa” il 6 luglio 2021. Una telefonata di aiuto che s'insegue per quattro città fa da sfondo alla morte delle due giovani piemontesi assiderate nella tarda serata di sabato sul Monte Rosa. Paola Viscardi, 28 anni, Martina Svilpo, 29 e il loro compagno Valerio Zolla, 27, ora ricoverato nell'ospedale di Sion, capitale del cantone svizzero del Valais, sono state raggiunte a 4.115 metri, immersi nella bufera, alle 21,30, sette ore dopo la prima telefonata al 112 fatta da Valerio. La notte è giunta nel pomeriggio con una bufera, prima con il temporale, poi con la neve, che ha limitato a pochi metri la visibilità e ha sviato i tre amici. La chiamata di Valerio delle 14,30 è stata rapita dal numero unico di emergenza di Saluzzo. Il tempo di dirsi in difficoltà per vento e nebbia e di indicare una meta, Balmehorn, poi soltanto confusione, linea interrotta. La chiamata è stata geolocalizzata, registrata e inoltrata a Novara (il Monte Rosa ha radici in due valli valdostane, due piemontesi e una svizzera), di qui rimbalzata a Torino dove ha sede il soccorso alpino piemontese e quindi, per competenza, finita ad Aosta. Erano le 15. Si è persa mezz' ora e anche la possibilità di avere dati più precisi. Uno dei problemi sollevati dal soccorso alpino con il numero unico di emergenza è proprio l'impossibilità di poter parlare subito con chi è in difficoltà. Le guide alpine ricordano come «anche un piccolo dettaglio per chi conosce la montagna può indirizzare l'intervento». Valerio non ha più chiamato fino alle 19,30, quando ormai i tre amici erano allo stremo delle forze. E proprio con questa seconda telefonata le guide hanno potuto comprendere dove fossero i tre alpinisti dispersi perché Valerio ha detto: «C' è una schiarita, vedo il Cristo delle vette». È la statua sulla cima del Balmehorn. Ciò indicava che i tre erano di fronte, sulla Pyramide Vincent. E lì sono stati trovati alle 21,30: le ragazze in agonia, il giovane sotto choc e con le mani congelate (aveva dato i suoi guanti a Paola). Le squadre di soccorso avevano raggiunto a piedi il Balmehorn nel pomeriggio. Si erano organizzate subito dopo l'arrivo della chiamata delle 15. Non avevano trovato tracce. I ragazzi, invece di scendere, confusi dalla bufera, sono saliti sulla Pyramide pensando forse di raggiungere il rifugio del Balmehorn. Proprio le ultime indicazioni date da Valerio indicano quanto sia importante per un soccorritore poter parlare con chi è in difficoltà. Il 112, che ha l'indubbio vantaggio di offrire celerità e evitare che forze dell'ordine e sanitari perdano tempo per falsi allarmi, ha lo svantaggio del filtro iniziale. Tutto viene registrato, ma mancano le domande che una guida può porre all' alpinista in difficoltà, così come i consigli. L' operatore del 112 che prende la chiamata deve trasferirla alla centrale operativa di secondo livello che decide il da farsi. Non così in altri paesi: non in Svizzera e neppure in Francia, dove, oltre al 112 permane la possibilità di chiamare il soccorso alpino. Nel giro di pochi giorni, soltanto in Valle d' Aosta, sono tre i casi di comunicazioni imperfette. Nello stesso giorno in cui Paolo, Martina e Valerio venivano avvolti dalla bufera, un altro intervento di soccorso è stato fatto nel gruppo del Gran Paradiso, ma ci sono stati problemi e soltanto per un'intuizione le squadre hanno raggiunto il punto giusto, tra Piccolo e Gran Paradiso. Un giro di telefonate, alcuni giorni fa, sempre per un incidente sul Monte Rosa, è passato da Aosta a Novara, quindi ad Alagna e di nuovo ad Aosta.

Niccolò Zancan per “La Stampa” il 6 luglio 2021. Non è vero che fossero vestite in modo inadatto per la montagna, così come non è vero che non avessero i guanti. Paola Viscardi e Martina Svilpo, li avevano eccome: sabato mattina erano partite per l'escursione sul Monte Rosa con le giacche a vento, i pantaloni da sci, avevano i ramponi da ghiaccio e le funi con i moschettoni per proteggersi in cordata. Le hanno trovate abbracciate, nella neve fresca, alle 21,30, sulla cresta Vincent. Una di loro è riuscita ancora a pronunciare il suo nome: «Non riesco a alzarmi, non posso camminare». Accanto c' era Valerio Zolla, 27 anni, l'unico superstite, che aveva dato anche i suoi guanti alle due ragazze. Si è salvato nel tentativo continuo di cercare campo per chiamare i soccorsi, cioè grazie al fatto di non essersi mai seduto troppo a lungo. La temperatura in quel momento era di 5 gradi sotto zero, e prima la pioggia e poi raffiche di vento ghiacciato e una nebbia densa avevano trasformato quel posto meraviglioso in un angolo di inferno. «Ogni estate riceviamo in media quattro richieste d' aiuto da parte di escursionisti smarriti nella nebbia, il più delle volte si risolvono nel giro di mezz' ora», dice con tristezza il capo del soccorso alpino valdostano Paolo Comune. «Sabato si sono concentrate circostanze tremende e sfortunatissime». Da qui, Gressoney, sono partite le ricerche dei tre amici. Da questa montagna verde e pacificante, che in cima resta bianca di ghiaccio anche in piena estate. Erano le 14,30 quando è arrivata la chiamata. «Non abbiamo parlato direttamente con i ragazzi. Nemmeno sapevamo quanti fossero. L' intervento ci è stato girato dal 112 piemontese. Diceva così: "Persone in difficoltà per la nebbia nella zona del Cristo delle vette. A 3900 metri di altitudine". Siamo partiti immediatamente». Ma l'elicottero nella nebbia non poteva avvicinarsi troppo. La prima squadra per le ricerche è stata lasciata al Rifugio Mantova alle 15: quota 3600. Bisognava salire ancora. Mentre la tempesta si stava avvicinando. «Sono passaggi di roccia e neve, poi c' è il ghiacciaio Indren, con crepacci profondi anche 60 metri. I nostri soccorritori hanno fatto tutto l'anello intorno al bivacco Balmen Horn. Urlavano nel vento, fino a quando hanno sentito altre urla, ma erano le persone dentro il bivacco. Così hanno chiesto silenzio per evitare confusione. È un ambiente glaciale. Non si vedeva nulla. I nostri si muovano grazie al Gps». Ovviamente continuavano a chiamare il numero da cui era partita la richiesta d' aiuto. Ma era sempre scollegato. Il direttore del soccorso alpino ha chiesto ai carabinieri di provare a localizzarlo. A quel punto, c'era una nebbia che non lasciava vedere oltre tre metri: bianco su bianco. Il vento disperdeva le grida in una sola direzione. Poi ha incominciato a piovere: grandine e neve. «I primi soccorritori sono tornati al rifugio alle 19. Non avevano trovato nessuno nella zona indicata». Alle 19,20 Valerio Zolla è riuscito a chiamare per la seconda volta il numero unico dell'emergenza. Erano frasi concitate, disturbatissime. Ha detto: «Vedo punta Giordani». Ma una vetta si può vedere da diverse prospettive. L' elicottero del soccorso alpino si è alzato nuovamente in volo, mentre i carabinieri hanno spiegato: «Quel telefono si collega a un cella della Svizzera». Quindi molto oltre. Più su ancora. Verso il confine. E finalmente, in un attimo di schiarita, li hanno visti: una macchia di giacche a vento colorate sul bianco. Erano 50 metri sotto la vetta della Piramide. «Cresta Vincent!», hanno detto gli ospiti del bivacco. Anche loro li avevano avvistati. Così i soccorritori sono partiti nuovamente. Un' ora con le funi e i moschettoni e gli arpioni per non scivolare sul ghiaccio. I primi due sono arrivati nel punto esatto alle 21,30: le giacche erano ghiacciate. Anche i capelli delle ragazze erano bande dure sotto i cappucci. Oltre quel punto in salita c'era un precipizio, indietro in discesa c'era la salvezza: a venti minuti. Ma non si vedeva niente: né l'uno, né l'altra. «Abbiamo capito subito che la situazione era molto grave. Una ragazza aveva perso conoscenza, l'altra non riusciva a muoversi. Solo Valerio Zolla era in grado di camminare. Ci siamo legati tutti, e abbiamo iniziato la discesa mentre veniva buio». Mezz' ora più tardi l'elicottero chiamato dalla Svizzera li ha raggiunti. «Sentivamo il rotore sulle nostre teste». Ma è stato impossibile atterrare. Così hanno dovuto proseguire nella neve, a piedi, legati stretti, poi con le barelle. Sedici persone impegnate nei soccorsi. Al rifugio Mantova era già tutto pronto. C'era il medico rianimatore. Un tavolaccio era stato trasformato in branda. C' era l'adrenalina sottocutanea, il defibrillatore, c' era l'ossigeno. Sono arrivati anche i medici svizzeri scesi dall' elicottero. E tutti insieme, per due ore, hanno provato a richiamare in vita Paola Viscardi e Martina Svilpo prima di arrendersi.

Anna Campaniello per il Corriere della Sera il 26 giugno 2021. Prendevano il sole, fermi al largo sul motoscafo noleggiato poche ore prima per trascorrere un pomeriggio sul lago di Como. All'improvviso tre amici, studenti universitari comaschi, sono stati travolti da un'imbarcazione con a bordo una comitiva di turisti belgi in vacanza a Tremezzina. Il natante avrebbe colpito e scavalcato la barca dei ragazzi, danneggiandola da una parte all'altra e uccidendo uno dei giovani a bordo, 22 anni. Feriti in modo non grave, anche se sotto choc, i due coetanei che erano con lui. Lo scontro tra i due motoscafi è avvenuto poco dopo le 16.30 nello specchio d'acqua davanti a Lenno. La dinamica è al vaglio degli agenti della Guardia di finanza: il motoscafo con a bordo la comitiva di amici, undici belgi tra i 20 e i 25 anni, avrebbe colpito in pieno la barca dei tre amici. La vittima, Luca Fusi, 22 anni, studente di Economia alla Bocconi, che viveva con la famiglia a Guanzate, nel Comasco, sarebbe stata ferita in modo fatale, probabilmente dall'elica dell'altro natante. Purtroppo per lui non c'è stato nulla da fare: i tentativi di salvarlo si sono rivelati vani. Gli amici che erano a poca distanza dal 22enne sono stati solo sfiorati dal mezzo che li ha investiti e hanno riportato ferite e contusioni non gravi, ma hanno visto l'amico morire senza poter fare nulla per aiutarlo. Illesi invece gli undici belgi, che erano condotti al timone da una ragazza: non avrebbe visto la barca dei tre, travolgendola in pieno. È risultata negativa al test dell'etilometro. Il gruppo di turisti sta trascorrendo le vacanze a Lenno, in un'abitazione in località Campo che sarebbe di proprietà proprio della famiglia di uno dei giovani coinvolti nell'incidente. I ragazzi sono noti in paese perché da tempo trascorrono le vacanze sul lago di Como e sono presenze fisse nella zona durante il periodo estivo. Anche il motoscafo sul quale viaggiavano sarebbe di loro proprietà e lo avrebbero utilizzato spesso per gite sul Lario. Dopo l'impatto, i primi a intervenire sono stati gli agenti della polizia locale di Tremezzina, con il comandante Massimo Castelli, che si è fatto accompagnare sul punto dell'incidente e ha raccolto le prime informazioni. «Mi sono trovato davanti a una situazione drammatica - ha raccontato -. Per il ragazzo ferito purtroppo non c'era nulla da fare, gli amici gridavano disperati ed erano feriti a loro volta. Mi sono preoccupato subito di attivare i soccorsi ma anche di fare in modo che l'altra imbarcazione e gli occupanti non si allontanassero. C'erano alcuni testimoni oculari che mi hanno dato qualche informazione, ma a loro volta erano in stato di choc per quello che avevano visto». A Tremezzina sono arrivati i Vigili del fuoco con i sommozzatori, i mezzi di soccorso e l'elicottero del 118, i carabinieri della compagnia di Menaggio e la motovedetta della Guardia di finanza. La Procura di Como, con il magistrato Antonia Pavan, ha aperto un'inchiesta. Le Fiamme gialle hanno avviato le indagini per ricostruire la dinamica dell'accaduto. I mezzi coinvolti sono stati sequestrati e sono stati sentiti due testimoni oculari dello scontro. Poche invece le informazioni che sono riusciti a fornire gli amici della vittima, traumatizzati. Sono stati trasportati fino al lido di Lenno dai Vigili del fuoco e poi accompagnati in ospedale per accertamenti. Potranno essere risentiti nei prossimi giorni. Sembra comunque accertato che il motoscafo dei tre ragazzi fosse fermo nel lago e che i giovani studenti si stessero rilassando al sole quando sono stati travolti dai turisti belgi.

C.Gu per il Messaggero il 27 giugno 2021. Chi ha visto sfrecciare il Mastercraft da 7 metri sulle acque del lago di Como racconta che correva così veloce da avere la prua alzata. E forse proprio per questo Clea Wuttke, la ventunenne belga alla guida, non si è accorta della barca ancorata a una manciata di metri da punta del Balbianello, uno dei luoghi più suggestivi del Lago di Como, vicino all' Isola Comacina. Il Sea Roy 240 noleggiato dai tre amici per trascorrere una giornata al sole è stato squarciato in due punti, il boato causato dall' urto è stato sentito a centinaia di metri di distanza, Luca Fusi, 22 anni, è morto nell' impatto. E la giovane ai comandi del Mastercraft è stata arrestata. Nei suoi confronti la Procura di Como ha disposto i domiciliari, in una casa di conoscenti a Lenno, per evitare il ritorno in patria della ragazza.

GLI INTERROGATORI Gli investigatori hanno ascoltato per tutta la notte gli undici giovani belgi, tutti tra i venti e i venticinque anni, noti a Tremezzina perché qui trascorrono ogni anno le vacanze. Un punto è acclarato: alla guida c'era Clea Wuttke, accusata di omicidio colposo aggravato e naufragio colposo. A differenza dell'incidente accaduto la scorsa settimana a Salò, nel quale hanno perso la vita Umberto Garzarella e Greta Nedrotti con i due turisti tedeschi accusati di omicidio colposo fermati solo la mattina dopo, in questo caso gli inquirenti hanno ravvisato una sostanziale flagranza di reato. Ci sono due testimoni oculari che hanno assistito allo schianto, raccontando che la barca della comitiva andava molto veloce, aveva la prua alzata ed è planata su quella di Luca Fusi e dei suoi amici. Tre studenti che si sono presi un giorno di vacanza: Luca, che viveva con la famiglia a Guanzate, un anno fa ha conseguito la laurea triennale in economia e continuava il suo percorso di studi alla Bocconi. Pochi minuti dopo l'impatto sono arrivati gli agenti della polizia locale di Tremezzina, con il comandante Massimo Castelli che ha raggiunto il luogo dell'incidente. «Una situazione drammatica - racconta - per il ragazzo non c'era più niente da fare, gli amici caduti in acqua erano feriti e gridavano disperati. Mi sono preoccupato subito di attivare i soccorsi, ma anche di fare in modo che l'altra imbarcazione e i diportisti non si allontanassero». La ragazza arrestata è stata sottoposta all' alcol test e il risultato è negativo. La pm Antonia Pavan, titolare dell'inchiesta, ha disposto l'autopsia sul corpo della vittima e affiderà una consulenza tecnica per ricostruire la dinamica.

IN TROPPI A BORDO A cominciare dal fatto che sul quel modello di Mastercraft possono salire al massimo otto persone, mentre i belgi erano undici. È escluso, riferiscono gli investigatori, che la loro barca, seppure attrezzata per lo sci nautico, stesse trainando qualcuno al momento dell'impatto. Per ora sul tavolo del magistrato ci sono la relazione del comandante della polizia locale e le audizioni della compagnia di belgi, su cui si sta cercando di chiarire alcune discrepanze in merito a ciò che è accaduto. In corso di verifica anche se la giovane ai comandi del motoscafo sia in possesso della patente nautica. La barca, stando ai primi accertamenti, sarebbe di proprietà dell'ex compagno della madre, e batte bandiera belga: da stabilire se in base alle norme sulla navigazione da diporto possa essere condotta anche senza permesso.

Mara Rodella per corriere.it il 26 giugno 2021. Ora è arrivata la conferma: Greta Nedrotti — la seconda vittima dell’incidente nautico di Salò, sul lago di Garda — è morta per annegamento. La ragazza ha riportato numerose fratture, ma il decesso è avvenuto per annegamento. Lo confermano gli esami condotti dal medico legale: fratture scomposte alle gambe (già notate al momento in cui il corpo è stato recuperato dal lago), ma nei polmoni c’era acqua e la Tac al collo è risultata di fatto negativa. Tradotto, non si può escludere che la ragazza di Toscolano, seppur ferita, avrebbe potuto essere salvata. Certo presupponendo che i due tedeschi, alla guida del Riva che ha investito la barca di Umberto e Greta, fossero tornati indietro subito dopo l’impatto per prestarle aiuto. E invece no: i due alla guida del motoscafo hanno tirato dritto, come se niente fosse. Non a caso, la Procura indaga anche per «omissione di soccorso». Intanto spunta un video in bianco e nero. Sono frame provenienti dalle telecamere di sicurezza del rimessaggio nautico di Salò. Che riprendono il motoscafo Riva che rientra dopo l’incidente avvenuto nella notte di sabato 19 giugno al largo di Portese, sul lago di Garda, che è costato la vita a due giovani gardesani, falciati dall’imbarcazione di lusso guidata da due turisti tedeschi (leggi qui la dinamica dell’incidente). Il video è esplicito: uno dei due tedeschi barcolla e cade in acqua. Era ubriaco? La telecamera mostra un uomo in evidente difficoltà: il tedesco non riesce a reggersi in piedi. Non si tratta del proprietario del Riva, ma del suo amico, il 52enne che il giorno seguente ha accettato di sottoporsi all’alcol test. Nel frattempo il lavoro degli inquirenti prosegue. Servono esami approfonditi: per capire se Greta Nedrotti — studentessa di casa a Toscolano Maderno — sia morta all’istante o per annegamento. Il suo corpo è stato recuperato domenica pomeriggio, a cento metri di profondità nel lago di Garda, a circa 110 metri dal porto di Portese. Dodici ore prima, il gozzo di legno di Umberto Garzarella — imprenditore 37enne di Salò — che viaggiava con lei, era stato avvistato poco distante da un pescatore di San Felice: il corpo del ragazzo, esanime, ancora a bordo. Torace e addome dilaniati dallo scontro con un Riva aquamara di due turisti tedeschi verso le 23 di sabato sera: le lacerazioni compatibili con l’impatto delle eliche, l’aorta addominale recisa, stando all’autopsia è morto sul colpo. Per Greta invece non è così facile ricostruire i suoi ultimi istanti. Iniziato ieri mattina, l’esame autoptico — condotto dal medico legale Maria Cristina Russo, presenti i consulenti incaricati da procura, difesa e parti offese — è stato sospeso per essere ripreso oggi alle 8.30: in programma una tac toracica e all’altezza della gola della ragazza per capire se anche lei sia deceduta all’istante o se invece la causa della morte sia successiva allo scontro, pur di poco, e dovuta all’annegamento. Gli approfondimenti si sono resi necessari dopo il riscontro di un’«anomalia»: un segno e una tumefazione sul collo di Greta, oltre a una corda incastrata fra i suoi capelli. Profonde le ferite sulle gambe, un piede semi-amputato. I due turisti a bordo del Riva, P.K. e C.T, manager e finanziere di 52 anni già rientrati a Monaco, sono indagati (titolare del fascicolo il pm Maria Cristina Bonomo) per omicidio colposo e omissione di soccorso. Chi li ha visti rientrare al rimessaggio, quella notte, sostiene fossero alterati, che avessero bevuto (e il video lo potrebbe ora confermare). Il Riva aveva imbarcato acqua. «Abbiamo sbattuto contro qualcosa, ma non sappiamo cosa», dicevano. Uno è risultato negativo all’alcoltest, l’altro, come detto, si è rifiutato di farlo.

Da ansa.it il 9 luglio 2021. Il TG1 ha mostrato in esclusiva il video dell'incidente nautico avvenuto il 19 giugno scorso a Salò, nel Bresciano, e in cui hanno perso la vita Greta Nedrotti e Umberto Garzarella. Il video è stato registrato dalle telecamere di un'abitazione privata di San Felice e mostra l'impatto tra il motoscafo sui cui viaggiavano due turisti tedeschi, uno dei quali - Patrick Kassen - è ora in carcere, e il gozzo delle due vittime bresciane. "Nel filmato si scorge una piccola barca alla fonda in acque aperte, segnalata - in conformità con la normativa di settore - da una luce bianca di coronamento. Ad un certo punto e più precisamente alle 23.24 si nota un'altra unità di dimensioni maggiori sopraggiungere a forte velocità e in planata con direzione da Portese a Salò. Chiarissimo appare il momento dello scontro tra i due natanti, con il motoscafo che, dopo aver violentemente colpito la piccola barca, è letteralmente saltato sopra di essa, sollevandosi in modo vistoso dalla superficie del lago per poi proseguire la propria corsa, senza alcuna percepibile decelerazione e solo con un lievissimo scarto di rotta, in direzione Salò" scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Patrick Kassen, in carcere per duplice omicidio colposo e omissione di soccorso. Il tedesco ha detto sia al pm il giorno dopo l'incidente che ieri nell'interrogatorio davanti al gip che a guidare al momento dello scontro tra barche era lui e "il video dello schianto non permette di dimostrare chi era ai comandi" riferiscono gli inquirenti che si sono rifatti alle dichiarazioni dei due tedeschi. 

I tedeschi barcollano e cadono: video choc del motoscafo. Gabriele Laganà il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Un nuovo elemento potrebbe far luce sulla tragedia avvenuta sul lago di Garda. Rinviata l’autopsia sul corpo di Greta Nedrotti. Forse potrebbe esserci una svolta sulla tragedia avvenuta nella notte dello scorso sabato al largo di Portese, sul lago di Garda, che è costata la vita a due giovani gardesani, Greta Nedrotti di 25 anni e Umberto Garzarella di 37, falciati da una imbarcazione guidata da due turisti tedeschi. È, infatti, spuntato un video in bianco e nero delle telecamere di sicurezza del rimessaggio nautico di Salò: il filmato dura pochi secondi ma potrebbe consentire di fare luce su quanto accaduto in quella drammatica notte. Nelle immagini si vede il motoscafo Riva che rientra dopo l’incidente. A bordo uno dei due tedeschi che, in evidenza difficoltà, prima barcolla e poi cade in acqua. Viene da chiedersi se l'uomo abbia perso l’equilibrio perché ubriaco o per altri motivi. Come spiega il Corriere della Sera non si tratta del proprietario del mezzo ma del suo amico, il 52enne che il giorno seguente ha accettato di sottoporsi all’alcoltest. Discorso diverso per l’altra persona che, invece, ha rifiutato l’esame. Non si sa chi fosse alla guida del motoscafo al momento dell'incidente. Ai carabinieri i due hanno dichiarato di essersi alternati al timone e di non essersi accorti dell'impatto. Entrambi, indagati per omicidio colposo e omissione di soccorso, sono già rientrati a Monaco. Fatto che ha scatenato polemiche in Italia. Chi ha visto i tedeschi rientrare al rimessaggio quella notte sostiene fossero alterati. "Abbiamo sbattuto contro qualcosa, ma non sappiamo cosa", hanno raccontato i due agli inquirenti che indagano sul caso. Una versione, questa, che però, non convince gli investigatori, che adesso stanno aspettando gli esami sul corpo della ragazza deceduta. Non è stata ancora eseguita l'autopsia sulla salma in quanto i medici hanno dovuto effettuato prima una tac toracica. Si vuole verificare se la giovane, forse morta annegata, si sarebbe salvata se fosse stata soccorsa in tempo. Il suo corpo è stato recuperato solo la domenica pomeriggio, a cento metri di profondità. I nuovi esami si sono resi necessari dopo il riscontro di un’anomalia: sul collo di Greta, infatti, c’erano un segno e una tumefazione, oltre a una corda incastrata fra i suoi capelli. Inoltre il corpo della ragazza presentava profonde le ferite sulle gambe e un piede semi-amputato. Terribile anche la sorte toccata ad Umberto Garzarella, l’imprenditore 37enne di Salò che viaggiava con la giovane. Alle 5 del mattino successivo un pescatore ha notato il gozzo completamente sventrato sulla fiancata destra. Subito è partita la segnalazione dapprima alla Guardia Costiera e poi ai carabinieri di Salò che si sono messi subito sulle tracce dei due turisti. Il corpo senza vita del 37enne è stato rinvenuto sul gozzo e presentava torace e addome dilaniati e aorta addominale recisa. Le lacerazioni sono compatibili con l’impatto delle eliche. Secondo i risultati dell’autopsia, l’uomo è morto sul colpo. È possibile che i ragazzi italiani stessero dormendo quando sono stati presi in pieno dal motoscafo. La prua è stata sventrata dal Riva e alcune parti del gozzo sono rimaste incastrate nel mezzo sul quale viaggiavano i tedeschi.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

La scoperta choc: Greta poteva essere salvata. Ma i tedeschi...Valentina Dardari il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. La ragazza è morta annegata e se fosse stata subito recuperata adesso sarebbe viva, ma i due turisti hanno tirato dritto. Umberto Garzarella è morto sul colpo, ma Greta Nedrotti, la studentessa 25enne che si trovava a bordo con lui quando il motoscafo dei due turisti tedeschi li ha investiti in pieno nella tarda serata di sabato 19 giugno sul Garda nelle acque di Potese dal Riva Acquarama, si sarebbe potuta salvare. Se solo i tedeschi si fossero buttati in acqua per aiutarla e trarla in salvo, invece hanno tirato dritto. I due turisti Patrick Kassen e Cristian Teismann, entrambi 52enni, tornati in Germania, per ora sono accusati dalla procura di Brescia di omicidio colposo e omissione di soccorso.

Greta è morta per annegamento. I primi esiti delle autopsie effettuate sul corpo dei ragazzi parlano chiaro, il 37enne è morto sul colpo, l’impatto con l’imbarcazione gli aveva reciso l’aorta di netto e prodotto altre ferite addominali, ma Greta è morta annegata, dopo essere stata scaraventata in acqua. I due turisti tedeschi hanno proseguito la serata come se niente fosse successo e, a loro dire, non si sarebbero neanche accorti di aver falciato e ucciso delle persone. Quasi 5 ore di esame autoptico per capire la causa del decesso di Greta, durante il quale è stata eseguita anche una Tac al collo. Il suo corpo è stato recuperato dopo 12 ore di ricerche, a 98 metri di profondità, con importanti ferite, non ritenute però letali dal medico legale. La ragazza presentava lesioni alle gambe e un piede semi-amputato, ma per Maria Cristina Russo, il medico legale nominato dalla Procura, si sarebbe potuta salvare. Quello che ha ucciso Greta è stata la grande quantità di acqua ingerita e finita nei polmoni. La 25enne è morta per annegamento. Se i due tedeschi si fossero tuffati in acqua subito per aiutarla, si sarebbe probabilmente salvata. Ma, come sottolineato anche dal titolo della Bild: “Nach diesem champagner rasten sie swei menschen tot”. Traduzione: “Dopo questo champagne hanno ammazzato due persone”.

Nel video i tedeschi barcollano. Il Giornale ha ripercorso quanto avvenuto subito dopo il tragico incidente, sottolineando che in un video agli atti dell’inchiesta, registrato dopo l’incidente, si vede la coppia di tedeschi rientrare al porto con il motoscafo pirata. Nelle immagini, i due non si reggono bene sulle proprie gambe, e uno di loro finisce perfino in acqua dopo aver perso l’equilibrio. Erano forse ubriachi fradici a causa della quantità di alcol bevuta prima del violento impatto? Uno solo di loro, dopo 15 ore dalla tragedia, ha accettato di sottoporsi all’alcoltest, risultato negativo, proprio colui che stranamente ha detto di essere alla guida della potente imbarcazione. Il proprietario del mezzo si è invece rifiutato. Entrambi sono subito rientrati in Germania, a Monaco di Baviera, con due morti sulla coscienza. Loro hanno negato, ma alcuni testimoni asseriscono di aver visto i due manager tedeschi 52enni pasteggiare a Champagne durante la giornata e di averli visti ubriachi dopo lo schianto. Secondo la ricostruzione, i due avrebbero bevuto champagne nel pomeriggio poi, dopo la partita Portogallo-Germania, avrebbero assistito al passaggio della gara automobilistica Mille Miglia a bordo del motoscafo, e dopo cena sarebbero tornati al Centro Nautico per attraccare. Durante la perquisizione della barca non sono state rinvenute bottiglie, ma certo non sarebbe stato difficile sbarazzarsene. Il dubbio comunque rimane: se i due tedeschi si fossero tuffati subito in acqua e avessero raggiunto Greta portandola in salvo, la ragazza sarebbe ancora viva?

Due pesi, due misure. Su quanto avvenuto è intervenuto l'avvocato Domenico Musicco, presidente di Avisl Onlus, Associazione vittime incidenti stradali, sul lavoro e malasanità. A IlGiornale, ha ricordato come inizialmente sul caso di Salò non si siano potuti disporre gli arresti domiciliari, cosa invece avvenuta in un altro caso simile, e forse meno grave perché la ragazza coinvolta non era sotto l'effetto dell'alcol. "Invece ai tedeschi reticenti, con versioni non credibili e non collaborativi (rifiutato il test alcolemico da parte di uno dei 2), è stato consentito di tornare a casa come se non avessero fatto nulla. Il loro legale dice che nei loro piani c'era di rientrare in Germania. Peccato che nei piani dei due ragazzi italiani non era previsto di essere travolti dal Riva ma di passare una serata romantica. Tra l'altro dal video almeno uno dei 2 è risultato ubriaco fradicio. E dall'autopsia è emerso che se si fossero fermati avrebbero potuto salvare la ragazza. Due pesi due misure. Oltre a equiparare i 2 reati, omicidio stradale e omicidio nautico, bisognerebbe sensibilizzare quei giudici che sono sempre protettivi con i colpevoli e poco solidali con le vittime" ha spiegato Musicco.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Da il Messaggero il 27 giugno 2021. Domenica mattina, nei confronti del proprietario del Riva, i carabinieri hanno emesso l'arresto ma dopo l'interrogatorio Patrick Kassen e Cristian Teismann hanno fatto le valigie e sono tornati a Monaco. Nei loro confronti non c' è alcuna restrizione: indagati a piede libero, ha deciso la pm Maria Cristina Bonomo, poiché non sussistevano i requisiti per il fermo. Non il pericolo di fuga, dato che sono stati trovati in albergo a Salò, né l'inquinamento probatorio e la reiterazione del reato. Ma ora, dopo l'autopsia di Greta, la loro posizione si aggrava: se non avessero tirato dritto, la ragazza morta per annegamento poteva essere soccorsa. Nel caso dell'incidente costato la vita a Luca Fusi, invece, la pm di Como Antonia Pavan ha disposto gli arresti domiciliari per evitare un ritorno in patria della ragazza. Ora il fermo dovrà essere convalidato dal gip. Lui è morto sul colpo, martoriato dall' impatto con le eliche e il timone del motoscafo che gli è passato sopra. Ma Greta Nedrotti, venticinque anni, si poteva salvare. Se solo i due turisti tedeschi sul lago di Garda, indagati a piede libero per duplice omicidio colposo e omissione di soccorso, si fossero fermati. E invece, hanno raccontato Patrick Kassen e Cristian Teismann nel loro interrogatorio, hanno giusto rallentato un po', cercando di capire cosa fosse successo: «Pensavamo di aver centrato un ramo o una boa». Così sono tornati al rimessaggio del cantiere Arcangeli, dove un video delle telecamere di sicurezza li riprende all' apparenza così ubriachi che uno dei due perde l'equilibrio e cade in acqua. A Salò, dove le notizie circolano ben prima dei canali ufficiali, lo sgomento è grande. «Se avessero spento il motore avrebbero salvato almeno la ragazza, perché lei è morta annegata», si diceva in paese nei giorni scorsi. E ieri è arrivata la conferma dall' autopsia: Greta ha riportato fratture scomposte a gambe, braccia, bacino e cranio, ma il decesso è avvenuto per annegamento come ha rivelato una tac all' altezza del torace e della gola. Il suo corpo è stato recuperato domenica pomeriggio, a cento metri di profondità al largo di Portese. Di mattina il gozzo di legno di Umberto Garzarella era stato avvistato poco distante da un pescatore di San Felice: a bordo c'era il giovane con il torace dilaniato e l'aorta addominale tranciata di netto. «La prua era sventrata. Da come era conciata, si capisce che il Riva andava veloce. Probabilmente molto più dei 3-5 nodi di massima obbligatori all' interno del golfo. E la barca dei ragazzi aveva la luce di posizione accesa, quindi era visibile», riferisce il sindaco di Salò Giampiero Cipani. Tant' è che quando il manager e il finanziere tedeschi, entrambi di 52 anni, tornano al rimessaggio, il loro Aquarama stava affondando. Un altro diportista rientrato in quel momento li vede, chiede aiuto ai titolari e insieme mettono il motoscafo in sicurezza. Alla domanda: «Cosa è successo?». I due hanno risposto: «Abbiamo sbattuto contro qualcosa, ma non sappiamo di cosa si tratta». Era il gozzo di Umberto e forse Greta in quel momento era ancora viva. Ma nessuno immagina un'incidente, Patrick Kassen e Cristian Teismann non forniscono dettagli e forse avevano bevuto troppo per farlo. Al rimessaggio li hanno visti alterati, in paese raccontano delle loro libagioni già nel pomeriggio, mentre assistevano alla parata della Mille miglia e poi durante la partita della Germania. Agli atti dell'inchiesta ci sono foto e video che lo dimostrerebbero. C' è lo scatto pubblicato dal quotidiano tedesco Bild: i due amici sono immortalati a bordo del Riva, verso le quattro del pomeriggio, con una bottiglia di champagne e due bicchieri pieni. E poi ci sono le immagini riprese alle 23.35 di sabato dalla telecamera del rimessaggio. I diportisti si sono appena avvicinati alla banchina, stanno ormeggiando, ma il compagno del proprietario dell'Aquarama fatica a stare in piedi, barcolla e finisce in acqua. Dopo quindici ore accetta di sottoporsi al test dell'etilometro che risulterà negativo. Gli studi sull' organismo hanno stabilito che un individuo smaltisce 6 grammi di alcol ogni ora e quindi un bicchiere, che ne contiene circa 12 grammi, non è più rintracciabile nel sangue in due ore. Il tempo intercorso tra i brindisi e l'alcol test, secondo gli investigatori, è compatibile con l'esito negativo. Patrick Kassen e Cristian Teismann, dopo gli interrogatori, sono tornati a casa, a Monaco di Baviera. «Ma non è una fuga. Nei loro confronti non c' è alcun divieto e seguiranno il processo», assicura il loro avvocato Guido Sola.

Incidente sul Lago di Garda: chiesto l’arresto di uno dei due turisti tedeschi. Debora Faravelli il 03/07/2021 su Notizie.it. La magistratura di Brescia ha emesso un mandato di arresto nei confronti di uno dei due turisti tedeschi coinvolti nell'incidente sul Garda. La magistratura di Brescia ha emesso un mandato di arresto europeo nei confronti di uno dei due turisti tedeschi coinvolti dell’incidente avvenuto nelle acque del Lado di Garda la sera del 19 giugno 2021 costato la vita a due ragazzi. Il procuratore capo Francesco Prete e il sostituto Maria Cristina Bonomo hanno chiesto l’arresto in carcere per colui che, per sua stessa ammissione, comandava il motoscafo al momento dello scontro con l’imbarcazione dei due giovani. Si tratta dell’uomo ripreso mentre barcollava e cadeva in acqua e che, sottopostosi all’alcol test, è risultato negativo. Il gip Andrea Gaboardi ha già accolto la richiesta, ma l’ultima parola spetta al tribunale di Monaco dato che i due turisti, indagati in Italia per omicidio colposo e omissione di soccorso, sono tornati in patria. Entro la prossima settimana i colleghi tedeschi dovrebbero fornire una risposta alla richiesta di misura cautelare resasi necessaria, per i magistrati bresciani, dal pericolo di fuga e per il rischio di reiterazione del reato. Alla base del mandato d’arresto europeo c’è la questione della doppia incriminazione: il fatto per il quale si procede (omicidio colposo e omissione di soccorso), deve essere considerato reato sia dallo Stato membro di emissione, in questo caso l’Italia, che da quello di esecuzione, la Germania.

Incidente sul Garda: per indagato conclamata ubriachezza. (ANSA il 5 luglio 2021) È stato portato in carcere a Brescia Patrick Kassen, il 52enne tedesco accusato di omicidio colposo e omissione di soccorso per l'incidente sul Garda costato la vita a Umberto Garzarella e Greta Nedrotti. "È stato documentato il conclamato stato di ubriachezza di Kassen, infatti sono state raccolte plurime e convergenti testimonianze, riscontrate da documentazione video e certificazioni sanitarie che non lasciano spazio a dubbi" , fanno sapere gli inquirenti La velocità del mezzo, ricostruita tramite una simulazione notturna della Guardia Costiera, risulterebbe di circa 20 nodi, ben quattro volte superiore rispetto al limite.

Da tgcom24.mediaset.it il 5 luglio 2021. E' stato arrestato Patrick Kassen, il 52enne tedesco che era alla guida del motoscafo che, sabato 19 giugno, ha travolto sul lago di Garda la barca con a bordo Umberto Garzarella e Greta Nedrotti, entrambi morti nell'impatto. Il tribunale di Monaco ha convalidato l'arresto chiesto dalla procura di Brescia. Kassen, indagato con l'amico per omicidio colposo e omissione di soccorso, è stato fermato al Brennero. In attesa che la vicenda processuale faccia il suo corso, le famiglie delle vittime non si danno pace. "Tutto quello che stiamo vivendo in questi giorni ci sembra un film, un sogno, un brutto sogno al quale non riusciamo a credere, a dare una ragione", fanno sapere attraverso un comunicato i genitori di Greta Nedrotti. "Greta era, è perfetta. Sia fuori che dentro. Non potevi non amarla. Lei riusciva a trovare il lato positivo di ogni persona ed a stabilire un contatto con tutti. La nostra vita non sarà più la stessa". "Hanno ucciso mio figlio e si sono scusati per lettera"Il padre di Umberto Garzarella non riesce a dimenticare quei drammatici momenti in cui ha scoperto che il suo Umberto era morto. Ma c'è un aspetto che lo tormenta. "Non nutro odio nei confronti dei due tedeschi, lo voglio dire chiaramente, ma una cosa non mi va giù", racconta a Il Messaggero. "La barchetta di Umberto è stata trovata a cento metri al largo del loro albergo, hanno visto tutto, non dovevano partire. Dovevano restare qui, andare in chiesa ad accendere due candele e poi venire da me, guardarmi negli occhi e chiedermi scusa. Non farci arrivare una lettera dalla Germania, tramite il loro avvocato, in cui non si firmano nemmeno con nome e cognome ma con le iniziali".

Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 12 luglio 2021. La sera del 19 giugno, sul lago di Garda, era mite e serena. Per questo il video della telecamera di sicurezza di un'abitazione a San Felice del Benaco «è particolarmente nitido», rileva il gip Andrea Gaboardi nell'ordinanza di arresto. Nelle immagini si scorge il gozzo di Umberto Garzarella, 37 anni, e Greta Nedrotti, venticinquenne, cullato dall'acqua e «correttamente segnalato dalle luci di coronamento». Alle 23.24 sulla barca dei due ragazzi plana a una velocità di venti nodi, contro i cinque consentiti, il Riva dei due manager tedeschi Christian Teismann e Patrick Kassen. Il primo è il proprietario, ma è Kassen che ha detto sia al pm il giorno dopo l'incidente, sia mercoledì scorso nell'interrogatorio davanti al gip di essere stato alla guida al momento dell'incidente. «Il video dello schianto non permette di dimostrare chi era ai comandi», affermano gli inquirenti, che si sono basati sulle dichiarazioni dei due tedeschi. Il dubbio rimane e non è da poco, visto che Kassen è in carcere a Brescia e Teismann a casa sua a Monaco di Baviera. Entrambi sono indagati per omicidio colposo e omissione di soccorso, tuttavia è proprio «alla condotta di navigazione di Kassen, al timone al momento del fatto, che si ravvisano gravissimi profili di colpa generica e specifica». Eppure, osservando in successione le immagini del loro ritorno sul Riva a Salò, alla guida c'è sempre Teismann. È lui che fa manovra lasciando il ristornate Il Sogno, sempre lui che procede all'attracco dopo l'impatto contro il gozzo di Umberto, con l'amico ubriaco che barcolla e cade in acqua. «Ci siamo passati i comandi per il tragitto. Le manovre sono l'aspetto più delicato e Christian, che è il proprietario del motoscafo, preferisce incaricarsene», ha messo a verbale Kassen. Però Kassen è un «navigatore esperto», scrive il gip, titolare di una patente nautica rilasciata dalle autorità tedesche già nel 90 e «discreto conoscitore del lago di Garda». L'amico Teismann ha inoltre dichiarato che «possiede una barca simile al Riva coinvolto nel sinistro e, prima di allora, aveva guidato di notte nel lago (facendo il medesimo tragitto) almeno dieci volte». Il cambio al timone per inesperienza dunque è poco plausibile e nella ricostruzione fitta di testimonianze e video prima e dopo la tragedia c'è un buco nero: alla guida dell'Aquarama c'era Kassen, arrestato, o l'amico Teismann che il giorno dopo l'incidente si è rifiutato di sottoporsi all'alcoltest? Per i legali della famiglia di Greta poco cambia. Una settimana fa hanno scritto alla Procura di Brescia, chiedendo che fosse «immediatamente disposta ogni idonea misura cautelare restrittiva o almeno alternativa personale e patrimoniale, nei confronti dei due turisti tedeschi» affinché si assumessero «le proprie responsabilità». Nel frattempo è arrivato il mandato di cattura internazionale nei confronti di Kassen, ma per gli avvocati Patrizia Scalvi e Caterina Braga, che assistono la famiglia Nedrotti, non è sufficiente: hanno scritto di nuovo ai pm sollecitando provvedimenti restrittivi anche per Teismann, vicepresidente di una multinazionale dell'informatica e indagato a piede libero, evidenziando anche verso di lui «profili di colpa e responsabilità pesanti, che derivano da una condotta a sua volta gravissima». Perché, se davvero non era lui alla guida, non ha impedito a Patrick Kassen di mettersi al comando in «conclamato stato di ebbrezza», come ha ricostruito il giudice. La «smodata e irresponsabile assunzione di alcol da parte dei due amici», rimarca il gip, inizia alle tre del pomeriggio di quel sabato, quando i due vengono immortalati in foto «intenti a consumare, con mal riposta soddisfazione, una bottiglia di champagne». Poi altro prosecco, limoncello e vodka, «in un crescendo etilico terminato ben oltre il momento della sciagura». Entrambi ubriachi e nessuna certezza su chi conducesse il Riva che ha ucciso Umberto e Greta. La verità può lenire il dolore ed è ciò in cui sperano i genitori dei due giovani. Mentre le amiche di Greta chiederanno al rettore dell'Università di Brescia di completare per lei il ciclo di studi. Le mancavano due esami, uno avrebbe dovuto sostenerlo cinque giorni fa.

Claudia Guasco per "Il Messaggero" l'11 novembre 2021. I genitori di Greta e la zia Sandra arrivano con un mazzo di rose bianche: «Sono venticinque. Greta aveva compiuto venticinque anni ad aprile, questa è la sua presenza in aula con noi». C'è il papà di Umberto che dallo scorso 19 giugno vive con l'immagine del piede del figlio morto che spunta da sotto il lenzuolo, accanto a lui tanti amici e amiche delle due vittime. Gli affetti di Umberto Garzarella, 36 anni, e di Greta Nedrotti sono tutti in quest'aula del Tribunale di Brescia dove Patrick Kassen e Christian Teismann vengono processati per omicidio colposo, omissione di soccorso e naufragio. Dopo una giornata ad altissimo tasso alcolico i due turisti sono saliti a bordo del potente motoscafo Riva con il quale scorrazzavano sulle acque del lago di Garda e hanno travolto il gozzo dei giovani ormeggiato al largo di Salò, uccidendoli. Nell'udienza di apertura le famiglie dei ragazzi e l'uomo che guidava l'imbarcazione si guardano per la prima volta negli occhi. Kassen è ai domiciliari in Italia, mentre il compagno di vacanza indagato a piede libero è tornato in Germania. Ha accanto la moglie, che piange a dirotto e lo tiene a braccetto. È il giudice che fa da mediatore: invita i genitori dei giovani ad avvicinarsi, domanda loro se vogliano parlare con l'imputato. Acconsentono e Kassen, come non è mai accaduto da quella drammatica notte di giugno, china il capo: «Chiedo scusa, accetto la critica. Volevamo già dal primo giorno venire a dire qualcosa a voi familiari e scrivere una lettera ma ci è stato detto che il momento non era giusto. Certo che ho un'anima. Non dormo da mesi. Eravamo tanto insicuri in quella situazione». I familiari ascoltano educatamente, ma la ferita è troppo grande per essere risanata e le parole sono tardive per lenire il dolore. Enzo Garzarella si avvicina a Kassen con un impeto liberatorio: «Sono il papà di Umberto - si presenta - Queste scuse dovevate porgerle prima, dirmi qualcosa quando è avvenuto l'incidente». Bastavano pochi passi. «La mattina dopo lo schianto Kassen era in un albergo a venti metri dal luogo in cui c'era la barca con mio figlio ormai morto. Doveva venire a parlarci e invece non lo ha fatto ed è tornato in Germania», afferma. Qualche settimana dopo per mail arriva una missiva mal tradotta dal tedesco, con la sigla dei due indagati in calce: non citano nemmeno i nomi di Umberto e Greta, dicono che «al mattino ci guardiamo allo specchio perché sappiamo di non esserci accorti di nulla, pensavamo di aver colpito un tronco». Intanto l'assicurazione della barca di Kassen e Teismann ha risarcito i parenti di Greta con una cifra attorno ai 2 milioni e mezzo di euro e quelli di Umberto con circa 1,3 milioni. Entrambe le famiglie parteciperanno alle udienze come parti offese, ma non come parti civili. «Nessun risarcimento ci ridarà più nostra figlia. Siamo gente semplice, lavoriamo e a Greta non mancava nulla. Avremmo voluto che oggi nostra figlia fosse con noi, altro che avere quei soldi in tasca», riflettono tristi la madre e il padre della ragazza. Enzo Garzarella è ancora amareggiato per la gragnuola di critiche che si è visto piovere addosso. «Il grandissimo dolore che provo, e del quale solo i due imputati si sono disinteressati, non ha prezzo. Trovo squallido e umiliante che una parte dell'opinione pubblica ritenga che il denaro possa alleviarlo. Senza Umberto non ho più nulla, sono morto anch'io. Semplicemente, studiando le carte con il mio avvocato, siamo giunti alla conclusione che le parti civili sarebbero divenute un elemento inutile all'interno del processo». 

Da lalaziosiamonoi.it l'11 novembre 2021. Mai più 11 novembre. Quattordici anni fa oggi Gabriele Sandri perdeva la vita. La sua unica colpa? Trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Gabbo si stava recando a Milano, il pomeriggio si sarebbe dovuta giocare Inter - Lazio. La partita alla fine venne rimandata a dicembre per onorare la memoria del giovane tifoso (tutte le altre gare della giornata, all'arrivo della notizia, vennero interrotte per le varie insurrezioni delle tifoserie). Ad ucciderlo un colpo di pistola esploso dal poliziotto Luigi Spaccarotella nell'area di servizio toscana di Badia al Pino. L'agente si trovava dall'altra parte della carreggiata quando un gruppo di ultras laziali e juventini sono arrivati allo scontro. Gabriele era in macchina. Il resto lo conosciamo tutti troppo bene. È passato del tempo da quel maledetto 11 novembre 2007, eppure il ricordo di Gabriele è vivo. In tutti gli stadi d'Italia si sente cantare il suo nome, in Curva Nord sventola fiera la bandiera con il suo volto e i muri di Roma sono pieni di murales e scritte in suo onore. Il fratello, Cristiano Sandri, è intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni nel giorno più doloroso. 

Oggi è sicuramente una data che squarcia il suo cuore e della sua famiglia, ma anche quello di tutti i laziali. Si aspettava tutto questo affetto a distanza di anni?

"Il percorso che abbiamo fatto è stato molto complesso e faticoso, sia a livello emotivo che razionale. La cosa più difficile è stata unire cuore e ragione. Ero convinto che Gabriele, per come era venuto a mancare, sarebbe stato ricordato quantomeno dai tifosi della Lazio. Per come è avvenuta la dinamica è ovvio che tutti i tifosi, di ogni squadra, si sono rivisti in mio fratello e c'è stato questo afflato comune che ancora oggi fa sì che venga ricordato in tutta Italia. E' pur vero che ciò che è accaduto alla nostra famiglia penso non si sia mai verificato in Italia, salvo il bambino ucciso sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria (Nicholas Green, ndr)". 

Sono passati 14 anni dal tragico evento. Luigi Spaccarotella si è mai fatto sentire?

"Ai tempi lui disse di aver inviato un messaggio al Vescovo di Arezzo per il nostro sacerdote. Come ho sempre detto, non è arrivato nessun messaggio. Figuriamoci se il nostro sacerdote avesse ricevuto qualcosa dal Vescovo e non ce lo avesse quantomeno detto. Ad ogni modo, in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito nessuno: né lui, né la sua famiglia. Ci interessa molto poco. Non mi importa ricevere cordoglio postumo dopo anni. Capisco perfettamente che lui si sia dovuto difendere in un processo prima da indagato e poi da imputato, ma era acclarato che il colpo, che purtroppo ha colpito mio fratello, lo avesse sparato lui. Fossi stato in lui sarei stato dalla madre della vittima ogni giorno in ginocchio a scusarmi". 

Gabriele fa parte dei fiori di Roma, insieme a Vincenzo Paparelli e Antonio De Falchi, a cui è stato dedicato da poco un murale. Secondo lei si è riuscita a sradicare la violenza dal mondo del calcio?

"Prima di tutto devo fare i complimenti a chi lo ha realizzato perché sono tre immagini bellissime e ritraggono, almeno per quanto riguarda Gabriele (posso essere testimone diretto), in modo fedele i soggetti. Quell'opera ha un significato molto bello perché tra Vincenzo e Gabriele c'è anche Antonio: lo sfottò tra squadre rivali ci deve essere e anche in modo pungente, ma la vita è troppo importante. Dev'essere un monito anche a rispettarla, a preservarla. Per quanto riguarda la violenza negli stadi vi posso dire che Gabriele sicuramente non può essere catalogato tra le morti da stadio, chi ha sparato non sapeva assolutamente fosse un tifoso. Su questo argomento si spendono parole al vento da parte di chi non conosce determinate dinamiche. Sono fenomeni che risalgono forse agli anni '50, se non prima. Ovvio che una manifestazione sportiva non ha motivo di avere violenza al suo interno, ma risolvere tutto con discussioni sterili quando avvengono fatti di cronaca nera è riduttivo. In concreto si fa poco, giusto qualche strategia "difensiva" con norme restrittive e invasive. Reprimendo non si risolve il problema. Bisognerebbe prevenire. Anche le strutture dovrebbero essere messe sotto la lente d'ingrandimento: non dimentichiamoci cosa è stata Italia '90". 

Suo figlio si chiama Gabriele proprio come lo zio. Si somigliano?

"Io colgo in mio figlio tante piccole cose di mio fratello. È incredibile come anche la posizione che assume nel sonno sia la stessa dello zio. Il sangue è lo stesso, quindi è ovvio che ci sia una parte di Gabriele dentro di lui". 

Con la Fondazione Gabriele Sandri siete molto attivi nel sociale. Ci sono progetti in cantiere?

"In realtà la Fondazione si sta esaurendo, ahimè. Per 2-3 anni è stata abbastanza seguita con un contributo da parte di tutti, poi sono rimasto da solo. Vivendo della mia professione e non essendo un filantropo, è complicato per me portare avanti questo progetto".

Giulio De Santis per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 13 luglio 2021. Si è fatto inviare foto intime da minorenni adescati su internet e poi li ha convinti ad avere rapporti sessuali in cambio di soldi o della promessa di acquistare uno smartphone. Tentativo che A. C. - ex capitano dei carabinieri condannato in primo grado a sette anni di carcere - non ha portato a termine per contrattempi dell'ultimo minuto. C., 39 anni, è stato sospeso dall'Arma in via precauzionale in attesa dell'esito del procedimento davanti alla Cassazione. I reati per cui il militare è imputato, sono pornografia e prostituzione minorile. Il tribunale, oltre alla condanna, ha stabilito inoltre che sia interdetto per il resto della vita da ogni struttura pubblica o privata, come le scuole, frequentata da minorenni. Il pubblico ministero Delio Spagnolo aveva chiesto nove anni di carcere. I ragazzi adescati all'epoca dei fatti sono tre maschi, tutti minorenni, ma mai di eta inferiore ai 16 anni. Tuttavia non è stato possibile risalire al l'identità di alcuni giovani conosciuti su internet dall'imputato. «Siamo soddisfatti dell'esito del processo», ha sottolineato l'avvocato Vincenzo Perticaro, legale di una delle parti civile. La vicenda risale al periodo compreso tra il 2013 e il 2015. Il momento preferito dall'ufficiale per cercare le prede è sempre stato la sera. Talvolta è andato nei locali notturni. Più spesso, arrivato a casa, ha acceso il pc e ha iniziato a navigare tra i social network, creando dei profili fake per nascondere la sua identità. In alcune occasioni, come ha ricostruito l'accusa, si è celato dietro identità femminili, svelando chi fosse solo in un secondo momento. In altre, in cui è riuscito a carpire la fiducia dei ragazzi, ha proposto loro lo scambio di foto hard, invitandoli a fare degli scatti proprio al momento della conversazione. L'invio di immagini intime è avvenuto senza il pagamento di somme di denaro. Ad alcuni di loro è arrivato a offrire soldi o smartphone, condizionando il pagamento a una prestazione sessuale. Qualcuno non viveva a Roma e a questi C. ha pagato le spese del viaggio. Poi però, in tre occasioni, qualcosa è andata storto, e l'accordo tra il militare e i minorenni è saltato all'ultimo istante. In particolare a far andare all'aria gli appuntamenti è stato il ripensamento dei ragazzi. Il militare era accusato anche di aver avuto dei rapporti intimi con due sedicenni. Ma in entrambi i casi l'imputato è stato assolto dalla quinta sezione collegiale del Tribunale «perché il fatto non sussiste». Il militare è stato assolto anche dall'accusa di aver ceduto droga a uno dei ragazzi.

G8: RITORNO A GENOVA___________ 2001-2021 ___________ La Repubblica il 17 luglio 2021. Dal 19 al 22 luglio 2001 i leader dei paesi più industrializzati al mondo si incontrarono a Genova. E centinaia di migliaia di persone da tutto il pianeta arrivarono nel capoluogo ligure per chiedere agli “otto grandi” una globalizzazione più equa e sostenibile. Sono passati vent’anni dalle giornate del G8: torniamo nelle strade di Genova con i giornalisti che le raccontarono, i manifestanti che le hanno vissute nei cortei, i magistrati che hanno indagato nei processi, i rappresentanti delle forze dell’ordine. Cosa rimane di quella esperienza? Gli scontri, certo, le violenze, pagine tragiche e buie della nostra storia. Ma anche le proposte portate in piazza, i dibattiti, le discussioni di chi credeva che "un altro mondo" fosse possibile. Dove sono finite oggi quelle idee? Il nostro è un ritorno a Genova per ricordare, ma anche per capire cosa è rimasto, cosa è successo in questi venti anni

PALAZZO DUCALE

La tensione prima del G8. Pericu: “A Genova idee, non solo scontri”

Palazzo Ducale ospitò gli incontri dei leader politici più importanti del pianeta: in quelle sale l’allora sindaco di Genova Giuseppe Pericu ripercorre i mesi di tensione crescente, ma anche di dibattiti, che portarono all’appuntamento di luglio in una città blindata

PUNTA VAGNO

Il Public Forum: “Lavoro, ecologia, salute: le nostre sfide pericolose”

Attivisti e intellettuali di tutto il mondo si incontrarono per una settimana per parlare di cancellazione del debito dei paesi poveri, lavoro precario, privatizzazione della salute e dei beni pubblici. Quei temi e quelle proposte sono ancora attuali?

STADIO CARLINI

Nello stadio delle “tute bianche”: chi erano (e dove sono ora) i disobbedienti

Nel punto di ritrovo delle “tute bianche” che qui dormirono, fecero assemblee e partirono per i cortei. Cosa resta delle loro idee? E dove sono leader e simpatizzanti, da Casarini a Tsipras? Con gli interventi di Beppe Caccia e Giovanni Favia

PIAZZA SARZANO

Il corteo dei migranti: “La scoperta: eravamo un movimento globale”

In questa piazza è partito giovedì 19 luglio il primo grande corteo no global di quei giorni: quello per i diritti dei migranti. Da qui ci spostiamo nella sede della Comunità di San Benedetto per sfogliare l’agenda di Don Andrea Gallo: cosa scriveva in quei giorni?

PIAZZA PAOLO DA NOVI

I Black Bloc “rubano” la piazza dei Cobas: violenza al posto delle proposte

Piero Bernocchi, leader dei Cobas, torna per la prima volta dal 2001 nella piazza tematica che era stata assegnata ai sindacati di base. Venerdì 20 luglio però qui arrivarono i Black Bloc: cominciano le violenze

VIA TOLEMAIDE

La manifestante: “Una nube infinita di lacrimogeni, poi vidi i primi feriti”

Venerdì 20 luglio il corteo delle tute bianche viene caricato in via Tolemaide: partono ore di guerriglia che avranno esiti drammatici. Laura Tartarini, avvocato, nel 2001 manifestava con i disobbedienti

PIAZZA ALIMONDA

La tragedia di Carlo Giuliani. Il padre: “La mia ricerca della verità”

In piazza Alimonda le manifestazioni contro il G8 non sarebbero dovute arrivare. Qui si consuma il momento più tragico: la morte di Carlo Giuliani. Il padre, Giuliano Giuliani, racconta il punto di vista della sua famiglia, che non crede alle verità ufficiali

CORSO ITALIA

Il paradosso dell’ultimo grande corteo: quelle idee “bastonate” nel 2001 ma attuali nel 2021

Tobin Tax, aiuto ai paesi in via di sviluppo, l’ambientalismo di Julia Butterfly Hill, questioni di genere: sabato 21 luglio 300mila persone portano sul lungomare temi che sarebbero negli anni entrati nell’agenda politica, ma a un prezzo molto alto

Il segretario Silp Cgil: “Andavano accertate responsabilità di sistema”

Daniele Tissone, segretario generale Silp (Sindacato italiano lavoratori polizia) Cgil, era a Genova nella Polstrada nei giorni del G8. La sua analisi di quell’esperienza e dei diversi approcci in occasione di manifestazioni di piazza

SCUOLA DIAZ

“Non lavate questo sangue”

Entriamo nella palestra della scuola Diaz per ripercorrere l’irruzione della polizia nella notte tra il 21 e il 22 luglio. Le forze dell’ordine trovano ragazze e ragazzi, attivisti, giornalisti: vengono tutti picchiati con ferocia

Il pm Zucca: “In quei giorni tortura e falsificazione delle prove”

Il magistrato Enrico Zucca era il pm del processo Diaz. Lo incontriamo nell’aula del tribunale di Genova dove quel processo si svolse. Dopo la giustizia italiana arrivò a Corte europea dei diritti dell’uomo. “Ma resta – dice Zucca – un interrogativo inquietante”

Il questore Salvo: “Il G8 ha lasciato in me un segno pesantissimo. Oggi nuove strategie”

Sebastiano Salvo, oggi questore di Asti, genovese, nel 2001 era vicequestore a Genova, addetto all’ordine pubblico. Ricorda quei giorni e ripercorre l’autocritica e il percorso fatto da allora dalla polizia nella gestione dell’ordine pubblico

Il regista Vicari: “Se la democrazia rinuncia a se stessa: un film testimonianza”

“La sospensione dei diritti delle persone fa ormai parte delle nostre vite e non ce ne siamo resi conto”. Daniele Vicari ha realizzato nel 2012 il film “Diaz – Don’t clean up this blood”: “Ma ascoltando le vittime ho pensato di non farcela”

SCUOLA PASCOLI

Vittorio Agnoletto: “La storia ci ha dato ragione. Purtroppo.”

Queste aule erano la sede del Genoa Social Forum. Agnoletto, medico e docente, ne era il portavoce: vent’anni dopo fa un bilancio: “Già gli interventi di apertura del forum del 16 luglio anticipavano la crisi economica del 2008 e quella climatica”

CASERMA BOLZANETO

I pm: “Le indagini: poca collaborazione e tanta incredulità”

Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati sono i pm che hanno condotto l’inchiesta su quanto accaduto all’interno della caserma Nino Bixio di Bolzaneto, dove centinaia di fermati furono picchiati e umiliati per ore: “Fu tortura”.

Coordinamento editoriale Francesco Fasiolo 

Regia Leonardo Sorregotti 

Interviste e servizi Massimo Calandri - Arianna Finos - Jacopo Iacoboni - Matteo Indice

Matteo Macor - Giovanni Mari - Francesca Paci - Alberto Puppo - Massimiliano Salvo 

Riprese Leonardo Meuti - Luca Santagata - Alberto Maria Vedova 

Produzione Roberta Mosca - Anna Rutolo

Diaz. su La Repubblica il 17 luglio 2021. È la sera del 21 luglio 2001, a Genova. I giorni delle manifestazioni in occasione del G8 sono stati durissimi e quella sera centinaia di poliziotti assaltano l'istituto scolastico Diaz alla ricerca di black bloc. Trovano due bombe molotov, la dimostrazione della presenza dei violenti. Decine di ragazze e ragazzi vengono portati in Questura. Ma i magistrati, invece di convalidare gli arresti, li ascoltano e ricostruiscono quell'operazione di polizia: le violenze arbitrarie, la perquisizione e - soprattutto - la storia legata alle molotov, usate come prova regina per giustificare l'irruzione. E scoprono un'altra verità. Diaz è un podcast Gedi Visual, scritto e letto da Antonio Iovane - Supervisione editoriale di Anna Silvia Zippel - Musiche, sound design e montaggio: Gipo Gurrado - Indiehub studio.

Finse accoltellamento alla Diaz, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo respinge il ricorso contro la condanna.

di Alberto Puppo 

G8 RITORNO A GENOVA 2001-2021. La Repubblica il 15 luglio 2021. Gli scontri di via Tolemaide. La manifestante: "Una nube infinita di lacrimogeni, poi i feriti". Il corteo autorizzato delle tute bianche viene caricato in via Tolemaide: partono ore di guerriglia che avranno esiti drammatici. Laura Tartarini, avvocato, nel 2001 manifestava con i disobbedienti: "All’improvviso una nube di lacrimogeni, non si respirava. Poi ho visto gente che vomitava, verde in faccia, e arrivavano i primi feriti. Non avevamo avuto nessuna avvisaglia di questo scontro: pensavamo ci fermassero molto più in là, fin dove il corteo era consentito". "Abbiamo poi avuto conferma dell’utilizzo da parte delle forze dell’ordine di manganelli al contrario e sbarre di ferro, abbiamo visto le cariche con i blindati – ricorda – Da un punto di vista legale noi avvocati abbiamo fatto il possibile in questi anni. E’ la politica che deve ancora pronunciarsi seriamente su quello che è successo nel 2001".

A 20 anni dal G8 di Genova: l’inferno di un’intera generazione. A cura di Massimiliano Loizzi il 20 luglio 2021 su Fanpage.it. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, in quel maledetto 20 luglio del 2001 sentivo ovunque una canzone che mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica, dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, in quel maledetto 20 luglio del 2001 sentivo ovunque una canzone che mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica, dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, terrorizzato, pensando che forse non ne sarei uscito vivo, ricordo che in quel maledetto pomeriggio da cani del 20 luglio del 2001 sentivo in lontananza una canzone che, in quell’estate, mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Immotivato, cruento, disperato. E anche se qualche giornalista con il prurito alle mani ci ha voluto definire la generazione che ha perso la voce, la verità è un’altra.

Voi G8, noi sei miliardi. Vent’anni fa un'intera generazione è stata presa e chiusa in una gabbia per topi fatta di vicoli e stradine, il luogo ideale per massacrare indiscriminatamente: come ha detto Amnesty International, “la più grave sospensione dei diritti dell'uomo in un paese occidentale”. Un disegno chiaro che si realizza sotto gli occhi di tutti: la distruzione del Movimento antiglobalizzazione, il Social Forum, il totale schiacciamento dei diritti fisici e intellettuali. Un movimento troppo pericoloso per la sua stessa natura, perché per la prima volta insieme protestavano anime totalmente differenti: Pax Christi e antagonisti, pacifisti e anarchici, cattolici e radicali. Voi g8, noi sei miliardi come recitava uno degli striscioni più noti di quei giorni. Un altro mondo appariva davvero possibile e forse per questo andava fermato.

Piazza Alimonda h 17.27. Ed è questo uno fra i più grandi rammarici della mia generazione: quelli del Social forum sono stati fra i giorni più belli della mia vita, persone totalmente differenti fra di loro che dialogavano e parlavano non per migliorare la propria condizione ma per creare le condizioni per l’esistenza di un mondo diverso, sostenibile, condiviso, umano. Ma alle 17.27 cambia tutto: vengono sparati due colpi di pistola e un ragazzo viene ucciso in piazza Alimonda. E per molti Genova, il Social Forum, il Movimento si ferma per sempre lì, in quel pomeriggio, in quella piazza, cristallizzato in quella foto che ritraeva un ragazzo in canotta bianca e passamontagna scaraventare un estintore contro un defender dei carabinieri. Un “atto di violenza individuale” come continua a dire, ancora dopo vent’anni, chi non c’era e chi non vuole conoscere la verità o piuttosto non vuole che venga conosciuta.

Le verità nascoste. Da svariate ore venivano massacrate, indiscriminatamente, persone inermi e indifese di ogni età che manifestavano pacificamente: ragazzi, ragazze, anziani, uomini, donne, ragazzini e ragazzine con meno di 16 anni; da circa 2 ore venivano sparati di continuo lacrimogeni ad altezza uomo, per questo motivo molti di loro si coprivano il volto per proteggere naso, occhi e bocca alla "men peggio" e con mezzi di fortuna dai gas nocivi che procuravano orticaria, problemi respiratori, forti bruciori agli occhi; da più di 2 ore vengono fotografati diversi carabinieri intenti a sparare ad altezza uomo colpi che, per puro caso, non feriscono nessuno; da più di 2 ore svariate camionette passavano a tutta velocità tra la folla che manifestava, zigzagando fra coloro i quali cercavo di sfuggire; da qualche minuto in Piazza Alimonda un defender dei CC è fermo seppur avesse dietro di sé una via di fuga di sette metri dal muro più vicino (come dimostrano svariate foto e video) e i manifestanti, fra i quali Carlo Giuliani, si trovano a circa 5 metri di distanza dalla stessa; da svariati secondi un carabiniere all'interno di quella stessa jeep impugna una pistola, puntandola ad altezza uomo verso i manifestanti; è soltanto allora che Carlo si china per prendere un estintore vuoto con l'intento forse di lanciarlo verso il carabiniere che avrebbe potuto sparare verso qualche manifestante; alle 17.21 viene esploso un colpo che colpisce al volto Carlo Giuliani, un ragazzo di 23 anni con l'unica colpa di voler cercare di difendersi; da svariate ore, ovunque, manifestanti come Carlo venivano massacrati da carabinieri e poliziotti. Da 20 anni la maggior parte degli italiani e delle italiane parla a sproposito di Carlo Giuliani ignorando la montagna di prove foto e video che documentano i fatti, ma attenendosi a quell'unica ingannevole foto proposta da tutti i mass media per raccontare un'unica, sola versione distorta dei fatti.

Chi non sa nulla di Genova, taccia per favore. Ed è per questo che anch’io in quel pomeriggio mentre correvo disperato e mi fermavo terrorizzato perché mi accorgevo che la mia maglietta era zuppa di sangue e non volevo guardare perché avevo paura che fosse mio; mentre cercavo di telefonare alla mia mamma perché pensavo che sarei morto sicuramente, o mi avrebbero arrestato e non l’avrei più rivista e non avrei più potuto chiederle scusa per essere andato via senza tornare; mentre credevo di svenire ma cercavo di non farlo perché avevo paura che poi non mi sarei più svegliato; mentre mi domandavo perché tutto questo stesse accadendo, e mentre tutto questo accadeva, pensavo solo che, se avessi avuto una pistola, un fucile o un qualcosa di grosso, lo avrei raccolto e avrei cercato di difendermi o difendere quella povera ragazzina che stavano tirando per i piedi facendole sbattere la testa per terra, quella che non smetteva di sanguinare e urlare di terrore, pensavo che l’avrei raccolto, quell’oggetto, e l’avrei tirato con tutta la mia forza contro quegli animali. Perché in momenti come quelli puoi fare soltanto due cose: o scappi o ti difendi e non c’è giudizio su nessuna delle due. O scappi o ti difendi. Quindi, chi non sa nulla di Carlo Giuliani è meglio che taccia, per favore. Solo chi è stato a Genova può capire cosa vuol dire essere stato a Genova. Solo chi è stato a Genova sa cosa vuol dire mettersi a piangere senza motivo perché ti trovi in mezzo alla folla. Solo chi è stato a Genova può capire cosa vuol dire, anni dopo, sudare freddo, sentirsi male, avere nausea e vomito, solo perché dei carabinieri ti fermano di notte per un normale controllo di routine. Solo chi è stato a Genova conosce la differenza fra una mano che offende e la resistenza. Solo chi è stato a Genova sa cosa vuol dire Genova.

Vent’anni dopo. Sono passati vent’anni da quel 20 luglio del 2001, ho una ragazza, una bimba e un bimbo bellissimi, che sono un piccolo pezzo di quell’altro mondo che credevo e continuo a credere possibile, ma non c’è stato giorno in cui non abbia pensato anche solo per un istante che, se ci fossi stato io quel pomeriggio in piazza Alimonda forse non sarei scappato. Forse. Se ci fossi stato io quel giorno al posto di Carlo oggi non sarei qui a raccontare del mio piccolino grande e della mia piccolina piccola. Sono passati 20 anni e molti dei bambini e delle bambine che in quel luglio avevano pochissime primavere e in quell’estate giocavano a costruire castelli di sabbia, ora sono adulti, hanno poco di più vent’anni, l’età che avevo io durante i fatti di Genova, che aveva Carlo in quel 20 luglio. E la cosa che più mi ha commosso ed emozionato in questi giorni in cui ho riportato in scena il mio monologo sui fatti di quei giorni, è stato vedere tantissimi e tantissime giovani, applaudire in piedi a fine spettacolo ed aspettarmi per parlare ancora e abbracciarmi e ringraziarmi e parlare ancora. Perché alla fine, è vero, sono tantissime le persone che dopo quel pomeriggio non hanno mai più partecipato ad alcuna manifestazione, non hanno mai più preso parte ad alcuna attività politica o di piazza di nessun genere, ma che lo vogliate o no, nonostante tutto, siamo in tantissimi e tantissime a credere ancora che un altro mondo sia davvero possibile, anzi necessario. Non è vero che i ribelli muoiono a vent’anni anche quando non muoiono: non siamo la generazione che perso la voce, ci hanno strappato le corde vocali a mani nude. È vero, hanno ammazzato i nostri vent’anni e li hanno buttati per terra… ma un altro mondo è ancora possibile, cazzo se è possibile. Dammi tre parole: sole, cuore e amore. 

Il carabiniere che sparò al manifestante: "Non sono un carnefice". G8 di Genova, il padre di Carlo Giuliani: “Anche il carabiniere Placanica è una vittima”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Luglio 2021. A vent’anni dal G8, dai fatti di Genova, dalla morte di Carlo Giuliani, parlano il padre del manifestante ucciso e l’uomo, il carabiniere che ha esploso due colpi verso il 23enne. Una sorta di incontro a distanza, quello proposto da AdnKronos in due diverse interviste. Giuliano Giuliani in qualche modo racconta come anche Placanica sia stato una vittima di quel caos, di quella tragedia. Però non ha intenzione né desidera incontrare l’ex militare Mario Placanica. Quest’ultimo invece vorrebbe. “Vorrei incontrare il papà di Carlo – ha confessato – per dirgli che mi dispiace, che io li sostengo. Anche se molti mi criticano dicendo che non posso sostenere chi ha cercato di ammazzarmi. Ma io sostengo la famiglia, perché nessuno sa che significa perdere un figlio”. Dal 20 al 22 luglio capi di Stato e di governo delle maggiori potenze mondiali si incontrarono a Genova. Furono giorni di manifestazioni e contestazioni, in maggioranza pacifiche, che finirono però nel sangue. Un luogo e una data nella storia della Repubblica Italiana con la quale il Paese non ha mai smesso di fare i conti. A 20 anni quel bagno di sangue è ricordato soprattutto per tre tragedie: le irruzioni alla scuola Diaz, le violenze alla caserma di Bolzaneto e la morte di Carlo Giuliani. Un manifestante che aveva 23 anni. Una foto lo riprese con il volto coperto da un passamontagna mentre solleva un estintore davanti a una Land Rover Defender dei carabinieri. Piazza Alimonda. Era il 20 luglio ed era puro caos. Placanica aprì il fuoco. Giuliani non ebbe scampo. Il carabiniere è stato prosciolto sia dalla giustizia italiana che da quella europea: legittima difesa.

Il dolore di Giuliano Giuliani. “In qualche modo sono entrambi delle vittime – ha detto Giuliano Giuliani all’AdnKronos – anche perché io, se devo fare l’elenco dei responsabili dell’omicidio di Carlo, Placanica lo colloco all’ultimo posto. Al primo ci sono quelli che comandavano quel reparto, i due carabinieri ufficiali, che poi hanno fatto una carriera spettacolosa, e il vicequestore che per la polizia ‘associava’ il reparto. Perché la domanda ovvia è questa: se la camionetta viene assaltata, per usare una parolona, da cinque, sei, sette ragazzi, è possibile che a nessuno di quelli che comandavano sia venuto in mente di dire ai cento carabinieri che stavano a 10 o 15 metri di distanza, ‘andiamo a difenderla’? E allora i primi responsabili dell’omicidio di Carlo sono proprio coloro che comandavano quel reparto”. Per il padre del manifestante morto “é una stupidaggine” che i fatti della Diaz e di Bolzaneto e la morte di Giuliani abbiano causato una rimozione del ricordo delle violenze dei manifestanti. “La città è stata messa a ferro e fuoco da gruppetti di due o tre persone alla volta, i cosiddetti Black Bloc, che vengono lasciati liberi di farlo. Ci sono le telefonate, non soltanto della polizia e dei carabinieri, ma di moltissimi cittadini che denunciano questa cosa e che allarmati e anche un po’ arrabbiati indicano dove si trovano i violenti, ma poliziotti e carabinieri, a poca distanza, non intervengono. L’ordine era di lasciarli fare perché così aumentava nella popolazione, molto ingenua e in qualche caso persino stupida, la convinzione che quelli fossero i violenti che avevano organizzato le manifestazioni. E a nessuno è venuto in mente di dire che un indegno reparto che attaccò senza nessuna ragione il corteo delle Tute bianche, che era autorizzato e non aveva fatto assolutamente nulla di illecito. Un chilometro prima che arrivasse a Brignole venne assaltato, e lì cominciarono i disastri che portarono all’assassinio di Carlo”. A Mario Placanica Giuliano Giuliani non direbbe assolutamente niente, neanche oggi. “Per carità, non voglio fare questi incontri, la cosa non mi interessa. Io vorrei soltanto che i responsabili rispondessero finalmente delle loro colpe, e invece non è così. Sono tutti stati promossi. C’è persino un ufficiale che in un processo ai manifestanti è venuto a testimoniare parlando di ‘guerra’. L’avvocato lo ha interrotto facendogli notare che non si parla di guerra, ma di ordine pubblico, e l’ufficiale è arrivato a dire che ‘guerra’ e “ordine pubblico” sono la stessa cosa e cambiano solo gli strumenti dell’offesa. Ecco, quest’ufficiale non è stato sottoposto a un esame psichiatrico, no, è stato promosso. Così come molti dei condannati. Voglio ricordare che uno dei presidenti del Consiglio che passò per essere una delle persone più sobrie, parlo di Mario Monti, nominò uno di quelli responsabile all’interno del ministero. Robe penose, molto penose, che testimoniano di uno Stato che deve fare ancora tanta strada per essere uno Stato degno di questo nome”.

La versione di Placanica. “Quel giorno per me resta un trauma, trauma per la morte di un ragazzo come me, anche lui vittima in quel giorno tragico. Io non sono un carnefice, non sono un giustiziere. Quel giorno io non avevo la pistola per Mario Placanica, ce l’avevo per l’Arma dei carabinieri, per lo Stato italiano”, ha detto all’AdnKronos l’ex carabiniere ausiliario che ha appena pubblicato un libro – Mario Placanica, il carabiniere distrutto dall’ “atto dovuto” –  scritto con il carabiniere in congedo Andrea di Lazzaro (che ne è anche l’editore). “Quel giorno le cose si erano messe male – racconta Placanica all’AdnKronos – l’unico mezzo che avevo per allontanare chi ci stava aggredendo era la pistola. Io mi ritengo assolto, perché non ho sparato prendendo la mira. Io sono un bravo ragazzo, non un giustiziere. E forse lo era anche Carlo Giuliani. Io non ho colpe, non me le sento addosso, ma sono stato trattato peggio di Riina. Ma io ero un appartenente allo Stato, non ero Riina. Mi sono sentito abbandonato, nessun superiore ha salvaguardato il mio essere carabiniere, c’è stato solo silenzio. Mi sono sentito una pedina”. Placanica, poi, si commuove: “Io provo dolore, provo dolore perché quella divisa ancora sogno di portarla addosso. Ero gli ultimi degli ausiliari, ma quella fiamma me la sento accesa, ero motivatissimo”.

20 anni dopo. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha ieri dichiarato inammissibili i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. Dopo la morte di Carlo Giuliani il G8 non si fermò e fu portato a termine tra altri disordini. Il 21 luglio le irruzioni alle scuole Diaz e Pascoli. Violenze e arresti che sarebbero stati condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo come tortura. Solo dieci i manifestanti condannati dopo i tre gradi di giudizio per devastazione e saccheggio per un totale di 98 anni e 9 mesi di carcere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da tg24.sky.it il 19 luglio 2021. Se avessi voluto uccidere, dalla mia pistola sarebbero volati almeno 15 colpi. Invece ne ho sparati solo due per difendermi, per allontanare i manifestanti e perché ho avuto paura". A vent'anni dai tragici fatti del G8 di Genova, Mario Placanica, nell'intervista rilasciata a Ketty Riga, ricorda la guerriglia urbana che il pomeriggio del 21 luglio 2001 culminò poi nella morte di Carlo Giuliani. Oggi Placanica è un uomo di 40 anni, segnato profondamente da quel terribile evento: esonerato dall'Arma dei Carabinieri, nel processo che lo vedeva indagato per omicidio è stato prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. "Il mio più grande rammarico - aggiunge -  è non aver saputo subito cosa fosse successo". "Altrimenti mi sarei messo il casco, sarei sceso dal Defender e avrei prestato soccorso a Carlo Giuliani: io ero lì non solo con la pistola, ma anche come volontario della Croce Rossa e avrei potuto fare qualcosa". Poi rivolgendosi ai genitori di Carlo Giuliani, dice: "Starò sempre dalla loro parte, comprendo il loro dolore, ma io non sono un assassino".

Placanica, il carabiniere che sparò a Giuliani: «Ho stretto la mano al padre di Carlo». Il Quotidiano del Sud il 20 luglio 2021. Ne’ CHI ha sparato, né chi manifestava contro il G8 con un estintore in mano a sei metri da lui, è mai stato in carcere. Né Mario Placanica, carabiniere ausiliario prosciolto dall’accusa di omicidio, né Carlo Giuliani, ragazzo rimasto ragazzo perché il 20 luglio del 2001 morì. Ma uno dei due dice di essere finito dentro lo stesso. In una prigione più solitaria e più scura.

“Vivo buttato come una cosa abbandonata”. “Io sono morto da quel giorno come Giuliani. Sono un uomo di 40 anni che vive buttato come una cosa abbandonata. Senza amici, li cerco su Facebook ma i loro nomi non li trovo più. Senza lavoro. Senza sbocchi”. Raggiunto al telefono dall’AGI nella sua abitazione di Catanzaro, Placanica si scusa per la voce roca, che, quando parla della sua condizione attuale, si tramuta in pianto: “Ho fumato tutta la notte perché non riuscivo a dormire. Sono giorni ancora più difficili, questi”. Stride il racconto di una vita immobile e “muta” rispetto alle sirene di piazza Alimonda, ai colpi che esplodono, alle immagini che atterrirono il mondo, preludio al rumore dei manganelli sulle ossa della notte alla Diaz. L’ex carabiniere, poi impiegato al catasto per qualche anno, è in sedia a rotelle, dopo un incidente d’auto. “L’unica distrazione che ho è guardare mio zio che annaffia le piante alle 4 e 30 del mattino. Che devo fare? Non lavoro dal 2014. Ero in graduatoria per un posto al Ministero dell’Interno ma poi sono stato dichiarato inabile. E da inabile, a differenza che da invalido civile, non posso avere un impiego pubblico. Sono bravino col computer, anche se ora pure la vista mi sta lasciando. Mi bruciano gli occhi perché sto troppo tempo davanti allo schermo”.

“Al papà di Carlo ho stretto la mano”. Per un periodo è stato in comunità, “i miei genitori mi hanno messo lì per aiutarmi a uscire dalla depressione, mi sentivo un po’ meglio”. Poi la prigione si è riaperta, c’è entrato anche il dolore per la scomparsa del padre: “E’ morto l’anno scorso, giovanissimo. Nei giorni successivi ho aspettato che si presentasse un rappresentante dello Stato, uno qualsiasi. A dirmi: “Signor Placanica, non si preoccupi, siamo con lei”. Bastava che suonasse anche un vigile del Comune. Ho sofferto tantissimo che nessuno abbia bussato”. Su Carlo Giuliani, sulla sua famiglia, sul loro di dolore Placanica si esprime in modo chiaro, netto: “Quello che è successo al G8 è stata una cosa molto brutta, eravamo due ragazzi che portavamo ideali diversi, ma due ragazzi. Io servivo lo Stato, Giuliani manifestava. Soffro pensando a Carlo, aveva 20 anni come me. Ho incontrato Giuliano (il padre di Carlo, lo chiama per nome, ndr) due volte, per caso o forse perché aveva organizzato la moglie, alla stazione Termini. Ci siamo stretti la mano. Ma sento di avere il dovere di incontrare anche la mamma”. “Per chiedere scusa, ma non perché sono un assassino – sottolinea – io non lo sono. Ho creduto che fosse impossibile difendermi e ho sparato due colpi in aria. Non mi rendevo conto di quello che stava accadendo, avevo 20 anni”.

“Vorrei tanto tornare a lavorare”. Una perizia ha stabilito che uno di quei due proiettili sarebbe stato deviato da un calcinaccio trafiggendo Carlo Giuliani. L’indagine su di lui si è chiusa presto, non è mai diventata processo. “Sono stati celebrati tanti processi sul G8 ma ci sono dei colpevoli mai scovati e mai andati a giudizio e nemmeno individuati in tutte le commissioni d’inchiesta in Parlamento. Sono persone ancora nell’Arma, sono quelli che sapevano e stanno in silenzio da 20 anni”. La versione di Placanica è contenuta in un libro appena uscito scritto dal suo collega Andrea Di Lazzaro. Si intitola “Distrutto dall’atto dovuto”. In fondo alla sua prigione l’ex ragazzo che sparò, e che ora dice “non mi va bene un giorno che sia uno, nella mia vita”, si nutre ancora di un velo di speranze. “Vorrei girare un po’ per parlare di questo libro e vorrei lavorare. Vorrei tanto che qualcuno mi aiuti a uscire da qui dandomi una possibilità”. 

La maglia del papà: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato". Morte Carlo Giuliani, blitz di Manu Chao in piazza Alimonda: “Mai smettere di denunciare barbarie polizia”. Redazione su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Bandiere rosse e oltre mille persone per ricordare alle 17.27 in piazza Alimonda a Genova il 23enne Carlo Giuliani, ucciso dall’ex carabiniere Mario Placanica, all’epoca dei fatti 21enne, nel corso delle manifestazioni contro il G8. A distanza di venti anni da quel drammatico 20 luglio 2001, il papà di Carlo, Giuliano Giuliani ha preso la parola per ricostruire la dinamica di quel giorno e chiedere quindi a tutti un minuto di silenzio seguito da applausi e commozione. Il genitore indossa una maglietta con la scritta “beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato” e nel corso del suo discorso ha ricordato che il figlio Carlo “ha visto la pistola puntata e caricata (da parte di Placanica che si trovava a bordo del defender) raccoglie l’estintore da terra per cercare di disarmare. Compie, secondo me, un gesto di difesa, ma non fa a tempo perché dalla pistola partono due colpi e il primo proiettile s’infila nella faccia di Carlo, sotto l’occhio”. Poi è partito il coro “Carlo è vivo e lotta insieme a noi”. Uno striscione chiede la “libertà per Luca” (Finotti), ultimo ancora in carcere perché condannato per i reati di “devastazione e saccheggio”. Un altro striscione, in inglese, richiama la parola d’ordine di vent’anni fa “un altro mondo è ancora possibile”. Poco prima delle 16 sul palco era salito per un breve saluto per Carlo, anche Manu Chao, che a vent’anni dal celebre concerto che fece il 19 luglio 2001 ha replicato ieri sera ai Giardini Luzzati di Genova. C’è un anche lunghissimo striscione a ricordare le tante “vittime dello Stato”, da Carlo Giuliani a Federico Aldrovandi, da Stefano Cucchi a Giuseppe Pinelli, da Giorgiana Masi a Serena Mollicone.

Il blitz di Manu Chao. Sul palco allestito in piazza Alimonda si sono alternati Malasuerte, Cisco (ex voce dei Modena City Ramblers), Alessio Lega e l’Orchestrina del Suonatore Jones. Ma alle 15.30 ecco il blitz che non t’aspetti: a sbucare dal retro è l’artista francese (con origini spagnole) Manu Chao che sale sul palco, saluta la famiglia di Carlo Giuliani e il suo maestro storico, Don Andrea Gallo, poi intona Clandestino così come accaduto 20 anni fa e la piazza si scatena. “In questo giorno speciale, continuiamo a ricordare e a denunciare le barbarie della polizia a Genova nel 2001. Un abbraccio forte alla famiglia di Carlo Giuliani e al mio grande amico e professore di lotta Don Andrea Gallo. Sempre grato di averti conosciuto” scrive l’artista sui social.

La tragedia di Piazza Alimonda. Chi era Carlo Giuliani, il manifestante 23enne ucciso al G8 di Genova nel 2001. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Luglio 2021. “Carlo Giuliani Ragazzo” recita il cippo in un’aiuola in Piazza Alimonda a Genova. E una data: 20 luglio 2001. È l’unica traccia in città del G8 del 2001, un luogo verso il quale la storia d’Italia continua a fare i conti anche dopo vent’anni. “Genova”, per tanti, per una generazione almeno, è diventata soprattutto quei giorni. Giuliani morì, colpito da un colpo di pistola esploso dal carabiniere Mario Placanica. Fu il picco ma non il culmine delle violenze di quel G8: nei giorni seguenti vennero i fatti della Scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Il G8 era previsto dal 19 al 22 luglio del 2001. Quattro giorni di riunione dei capi dei maggiori Paesi industrializzati. Il Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. I manifestanti arrivarono da tutta Italia, da tutta Europa, da tutto il mondo. La sigla Genoa Social Forum riuniva associazioni anche molto diverse che operavano in campi diversi. Ambientalismo, anticapitalismo, anarchismo, sinistra radicale, no-global, organizzazioni contro le multinazionali e la grande finanza mondiale. “Un altro mondo è possibile”, uno slogan per tutti. Il movimento no-global era noto anche come “popolo di Seattle” dopo il G8 di due anni prima negli Stati Uniti. Anche in quel caso si erano verificati scontri. C’era anche il Blocco Nero, più noto come “Black Bloc”: più che manifestanti agitatori, che prendono nome da una tattica di protesta violenta. E quindi il clima era molto teso già prima che cominciasse il vertice. I primi cortei la mattina del 20 luglio. Pacifici. La situazione però cambiò rapidamente. Fecero il giro del mondo le immagini di manifestanti in fuga, insanguinati, e delle cariche violente delle forze dell’ordine. Lanci di oggetti e lacrimogeni. I Black Bloc cominciarono quasi subito con atti di vandalismo, attaccando banche e supermercati, picconando l’asfalto e i marciapiedi per fare scorta di pietre e sassi. Poliziotti e carabinieri sono stati accusati di aver lasciato fare i gruppi violenti e di aver attaccato duramente i cortei pacifici. Una delle cariche più violente dell’Arma si abbatté sul corteo di circa 45mila persone su via Tolemaide. Due ore di guerriglia. Un gruppo di carabinieri si trovò in piazza Alimonda muovendosi da una strada laterale, via Caffa, verso il fianco di uno dei cortei più grandi che era stato autorizzato dalle autorità. I militari erano pochi, indietreggiarono, mentre i manifestanti li inseguivano. Piazza Alimonda divenne un vicolo cieco. Due fuoristrada non blindati restarono bloccati. Tafferugli, barricate, lancio di oggetti. I defender non avrebbero dovuto trovarsi lì – avevano solo funzione di supporto – e furono presi d’assalto. Uno dei due restò intrappolato tra un cassonetto della spazzatura e la folla. All’interno il carabiniere Mario Placanica, 20 anni. Raccontò di essere andato nel panico, di aver estratto la pistola d’ordinanza e di aver minacciato i manifestanti che circondavano il veicolo. Una foto fece il giro del mondo: Carlo Giuliani, con il volto coperto da un passamontagna, che solleva un estintore verso la camionetta e sullo sfondo Placanica con l’arma in mano. Il militare sparò due colpi. Erano le 17:27. Giuliani era figlio di Giuliano Giuliani e Adelaide Cristina Gaggio. Entrambi militanti, insegnante e sindacalista. Era nato a Roma nel 1978. Si era diplomato al liceo scientifico e si era iscritto alla facoltà di storia. Aveva svolto il servizio civile presso Amnesty International a Genova ed era volontario dell’Anlaids, l’Associazione Nazionale per la lotta contro l’Aids. Aveva un costume sotto i pantaloni perché inizialmente il 20 luglio doveva andare al mare. “Intorno alle 15:00 del pomeriggio era a Piazza Manin – ha raccontato la sorella Giuliani a Limoni, podcast di Internazionale di Annalisa Camilli – Dove c’era il presidio pacifico della Rete Lilliput, che viene caricata a manganellate dalla polizia. Carlo presumibilmente prende lì le prime botte. Poi scende in zona Brignole e via Tolemaide e si incrocia con il corteo che già da ore è stato caricato da carabinieri e polizia”. Il primo dei proiettili esplosi da Placanica colpì Giuliani alla testa. La camionetta passò due volte sul corpo del manifestante, in retromarcia e poi per ripartire. Il 23enne era già morto quando l’ambulanza arrivò sul posto. Alle 18:00, nella prima conferenza stampa delle forze dell’ordine, la polizia parlò di un manifestante spagnolo probabilmente ucciso da un sasso. Si sarebbero inseguite e arricchite negli anni anche teorie alternative, depistaggi. Il frammento di proiettile che attraversò il cranio di Giuliani per uscire dall’altra parte non fu mai recuperato. Neanche la traiettoria del proiettile è mai stata chiarita del tutto. La famiglia ha sostenuto per anni che il colpo era stato esplicitamente mirato. La versione processuale parla di un sasso che intercetta il proiettile e lo devia sul volto del 23enne. Un’altra teoria solleva l’ipotesi del manifestante ferito con una pietra, appositamente, quando è già a terra, per mettere in atto un depistaggio. “Non so se sia stato colpito con un sasso – raccontò Bruno Abile, fotoreporter francese, collaboratore dell’agenzia Sipa Press, a Repubblica, presente in Piazza Alimonda – Di sicuro, perché l’ho visto con i miei occhi, un poliziotto o un carabiniere lo colpì con un calcio in testa quando era già morto. Ho fotografato l’ufficiale nell’istante di ‘caricare’ la gamba, come quando si sta per tirare un calcio di rigore”. Le sue due macchine fotografiche sarebbero state distrutte dagli agenti.

Il processo. Nessun agente è stato indagato o processato per la conduzione dell’azione in piazza Alimonda o per il presunto depistaggio. Mario Placanica è stato prosciolto in fase istruttoria dall’accusa di omicidio colposo: legittima difesa. L’archiviazione cita la perizia che sostiene che il proiettile, prima di colpire Giuliani, venne deviato da un calcinaccio tirato in aria. “Il carabiniere non poteva agire diversamente perché l’aggressione al defender era violenta e virulenta, quindi Placanica aveva la giustificata percezione di essere in pericolo di vita”, recita la richiesta di archiviazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso, ha accolto la ricostruzione italiana in merito ai fatti specifici della morte, ma ha criticato la gestione dei sistemi di sicurezza attorno al vertice da parte dell’Italia. La Corte ha disposto un risarcimento di 40.000 euro ai familiari di Giuliani a carico dello Stato italiano e ha assolto lo stato italiano con sentenza definitiva nel 2011. Placanica è stato dimesso dall’arma dei carabinieri nell’aprile 2005, perché valutato non idoneo al servizio, “per infermità dipendente da causa di servizio”, e per tale ragione “reimpiegabile nei ruoli civili dello Stato”. Placanica fece ricorso al TAR chiedendo una nuova perizia che lo dichiarò mentalmente sano. L’ex militare negli anni ha offerto versioni contrastanti, tra le quali quella secondo la quale non fu l’unico a sparare. “Quel giorno per me resta un trauma, trauma per la morte di un ragazzo come me, anche lui vittima in quel giorno tragico. Io non sono un carnefice, non sono un giustiziere. Quel giorno io non avevo la pistola per Mario Placanica, ce l’avevo per l’Arma dei carabinieri, per lo Stato italiano”, ha detto all’AdnKronos aggiungendo di essersi sentito “una pedina” e di voler incontrare la famiglia di Giuliani.

La famiglia. La famiglia non ha mai creduto alla versione ufficiale. “Un perito inventa lo sparo per aria deviato dal calcinacci – ha detto Giuliano Giuliani, padre di Carlo, a La Repubblica – La pistola è assolutamente parallela al suolo. Due foto dimostrano una pietra distante tre metri da Carlo moribondo ancora, e una successiva la pietra sporca di sangue vicino alla testa di sangue. È la chiara pietrata sulla fronte di Carlo per mettere in atto quello sporco tentativo di depistaggio che avviene un attimo dopo”. La giudice Daniela Canepa ha respinto questa tesi come “una pura congettura senza nessun elemento probatorio a suo sostegno”. Giuliano Giuliani ha detto quindi all’AdnKronos: “In qualche modo sono entrambi delle vittime anche perché io, se devo fare l’elenco dei responsabili dell’omicidio di Carlo, Placanica lo colloco all’ultimo posto. Al primo ci sono quelli che comandavano quel reparto, i due carabinieri ufficiali, che poi hanno fatto una carriera spettacolosa, e il vicequestore che per la polizia ‘associava’ il reparto. Perché la domanda ovvia è questa: se la camionetta viene assaltata, per usare una parolona, da cinque, sei, sette ragazzi, è possibile che a nessuno di quelli che comandavano sia venuto in mente di dire ai cento carabinieri che stavano a 10 o 15 metri di distanza, ‘andiamo a difenderla’? E allora i primi responsabili dell’omicidio di Carlo sono proprio coloro che comandavano quel reparto”. Giuliano Giuliani ha detto di non essere interessato a incontrare l’ex carabiniere Placanica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Parla il leader dei Cobas. “Al G8 di Genova esplose un nuovo ‘68, poi la truffa 5S ha rovinato tutto”, intervista a Piero Bernocchi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Vent’anni fa, 20 luglio 2001, Genova. La Diaz. Piazza Alimonda, con l’omicidio di Carlo Giuliani. Ma soprattutto 250.000 persone che sfidano un po’ tutti, i partiti, i sindacati, la polizia. E invocano per la prima volta nell’era digitale un mondo unito nella lotta alle diseguaglianze. Ne parla con il Riformista il portavoce nazionale della Confederazione Cobas Piero Bernocchi, che torna a organizzare la piazza e prepara per ottobre la ripartenza di un movimento unitario della sinistra antagonista.

Come è nata la passione politica?

Nel 1968, ma ho iniziato prima: nel 1965 feci un giro d’Europa in autostop ed entrai in contatto con i primi movimenti anticapitalisti. Gli algerini che protestavano in Francia, il movimento alternativo in Olanda che occupava le case.

La scintilla?

Alla Sapienza, quando Paolo Rossi, militante socialista della lista Gogliardi e autonomi, venne spintonato dai fascisti mentre distribuiva volantini all’ingresso di Lettere. Cadde giù dai quattro metri di scalinata e morì. Io decisi in quel momento di dovermi impegnare.

E poi il mito di Che Guevara.

Una storia unica: un rivoluzionario che vince. E prima ancora: un medico argentino che veste i panni del rivoluzionario e si dedica alla guerriglia non perché costretto, ma perché decide che quello è giusto. E dunque lascia il suo appartamento, il suo lavoro, le abitudini borghesi per dedicarsi alla difesa di un ideale e degli oppressi.

Lei è stato un leader di una stagione allergica ai leader, il Sessantotto?

Di seconda fila. Ma ero un punto di riferimento perché guidavo la rivolta nella facoltà di ingegneria, che era la più controllata. C’era una quadratura su tutto, l’obbligo di frequenza, la distanza dai temi politici. Io rovesciai il quadro.

Gliela fecero pagare?

Eccome, appena i professori ripresero il comando me ne sono dovuto andare a Matematica. Poi capii che andare a insegnare mi avrebbe consentito anche di fare politica.

Come definirebbe il 1968?

La novità assoluta del mettere insieme pubblico e privato e che ti fa vivere come mai prima le cose del mondo.

Sembra la definizione dei social network.

Fu una illuminazione. La sensazione di poter toccare con mano un mondo che prima sembrava più distante. Ma c’è un senso nella sua provocazione: una volta si tolga la curiosità di andare a vedere i giornali dal 1967 in poi, dipingevano quei giovani che noi oggi raccontiamo con tanto impegno come dei perdigiorno, come delle anime perse dedicate alla musica, alle distrazioni, alla droga. La puzza sotto al naso che sempre le generazioni precedenti hanno verso le successive.

Fu soprattutto la sinistra a capire con ritardo l’essenza dei movimenti.

C’erano stati fino ad allora solo militanti ortodossi, che vivevano L’Unità, la festa de L’Unità, i riti di partito, i congressi come espressione unica della politica. Ritualità estranea ai giovani del 1968. E la stessa cosa è successa nel 2001. Quando è arrivata la rivolta di Genova nessuno ne aveva saputo cogliere i segnali.

Ci sono momenti in cui la storia prende a correre.

E quello fu il periodo 1965-1969, che noi riassumiamo con ’68. Accadevano contemporaneamente i più grandi sconvolgimenti: la decolonizzazione e le lotte di liberazione in Africa e Asia, la guerra del Vietnam, le tensioni razziali negli Stati Uniti… il mondo intero era in ebollizione. E uno da solo non ci avrebbe capito niente. Per quello si cercava di immergersi in un flusso di idee, di persone, di emozioni che era appunto il movimento che aiutava anche a comporre una visione organica, strutturale dell’enorme mole di eventi che vedevamo prodursi sotto ai nostri occhi.

La visione creava uniformità, forse anche settarismo, o no?

Questo è un paradosso vero. Si finiva per essere schiavi della collettività, si leggeva per forza il mondo in un certo modo. Si era anticonformisti fuori e conformisti dentro. Abbiamo iniziato il movimento come evoluzione della tradizione anarchica e l’abbiamo ricondotto al socialismo reale, con le stesse dinamiche di gruppo, di gerarchia, di organizzazione. Ci siamo messi infine in competizione con il Pci per fare a gara a chi era più comunista.

Quanto è durato davvero il ’68?

L’eterogeneità, la partecipazione, la diffusione è stata vasta. È partito tutto nel 1965, è finito nel 1977 e poi con il rapimento Moro. Solo a quel punto si può dire finito il movimento iniziato dieci anni prima. E poi è riemerso nel 2001…

Un attimo, i fatti di Genova non sono un movimento storico.

Vanno però inseriti in un flusso. C’è chi dice che Genova è stata un ’68 durato 48 ore. In realtà la traccia internazionale di Genova è che sull’onda di quel movimento, e dunque di Porto Alegre, si costruisce un movimento internazionale coordinato stabilmente. Nel ’68 non c’era un collegamento tra i movimenti dei diversi Paesi. Da Genova in poi c’è.

E dunque da piazza Alimonda alle piazze del mondo?

Esattamente. Da settembre successivo si riprende con più energia di prima, con tanta rabbia. A gennaio 2002 andiamo a Porto Alegre, per il Forum mondiale e vediamo esaltare l’esperienza italiana. Si decide di partire con un Forum Europeo che doveva essere assegnato alla Francia e invece viene assegnato all’Italia, lo organizziamo a Firenze. E lì convogliamo tutti, portiamo 700.000 persone vere, cioè il triplo di Genova, e soprattutto con un clima completamente cambiato. A febbraio 2003 il New York Times assegna al Social Forum il titolo di seconda potenza mondiale, ovvero di contraltare naturale dell’imperialismo americano. Naturalmente una iperbole, ma non priva di realtà.

C’è qualche successo che rivendica per i Forum mondiali?

Abbiamo fatto un lavoro unico sulla pace, sul disarmo, sullo sviluppo dei paesi emergenti. La conquista di cambiamenti di governo importanti in America Latina (penso a Maduro, anche se poi non ci ha più convinto) e le Primavere arabe sono figlie di questo processo di contaminazione globale.

A proposito di contaminazione globale, ha scritto un libro anche sulla pandemia.

Dove dico che non ne usciremo migliori: l’uomo è un animale sociale, isolare gli individui e regnare con la paura non ha mai reso migliore una società.

Perché sono nati i Cobas?

Siamo nati per dare una risposta ai conflitti sociali, per stare sulla tutela del lavoro e sulla missione educativa in modo organico e per provare ad alimentare una sinistra lontana dalla tentazione, incarnata da Fausto Bertinotti, di “portare il movimento operaio nella stanza dei bottoni”. Si era illuso Nenni molto prima, Bertinotti trent’anni fa. Crediamo piuttosto di dover agire con una iniziativa sociale e culturale, fatta di informazione, formazione, tutela dei diritti a partire da quelli dei lavoratori e dei più fragili.

Il Movimento 5 Stelle nasce anch’esso dalle delusioni a sinistra?

Nasce dal fallimento del governo Prodi e dall’incapacità della sinistra italiana di dare risposte nuove a problemi nuovi. Grillo si inserisce in un vuoto di rappresentanza e pesca a piene mani anche da ex sessantottini delusi e disorientati. Ma non nasce per caso.

Cosa intende dire?

Noi celebriamo il decennale dei fatti di Genova nel 2011 e portiamo in piazza 300 mila persone, tutte coalizzate contro Berlusconi e per una nuova sinistra. Arrivati a Genova, c’è chi spacca l’unità in nome di vecchie diatribe. E dal giorno dopo dilagano i Cinque Stelle. Berlusconi era già alla fine, il centrosinistra era impantanato. E abbiamo visto questo movimento sorgere dal nulla con una piattaforma informatica fortissima e un programma studiato a tavolino per inglobare pezzi di sinistra e di destra: la sovranità alimentare, l’acqua pubblica, le questioni dell’agricoltura biologica erano estranee alla sinistra tradizionale, combinate sapientemente con i temi legalitari e in qualche caso securitari.

Un cavallo di Troia per prendere a sinistra e portare a destra?

Sì, assolutamente. In realtà erano già di destra, hanno cavalcato un impianto ibrido per portare il nuovo Qualunquismo sulle piattaforme social e mescolare le carte di destra e sinistra.

Sulla giustizia hanno fatto strame di ogni valore garantista della Costituzione.

Ne hanno stravolto il senso. Hanno ereditato una visione antipolitica di destra e l’hanno data in pasto alla gente, come dicevo.

Gli ultimi degli ultimi in Italia sono i detenuti, sono un suo tema?

Centrale. Dobbiamo far ripartire una battaglia sulla giustizia per gli ultimi. Lo facciamo con il Centro Studi Scuola Pubblica, Cesp, che noi abbiamo iniziato a far lavorare nelle carceri. Nelle case di detenzione ci rendiamo conto della repressione vera. Abbiamo una rete di 62 scuole nelle carceri. In alcune carceri riusciamo a lavorare nelle biblioteche e nelle palestre. Veniamo a conoscenza di notizie non molto diverse da quelle di Santa Maria Capua Vetere; se avessi un video per ogni volta che un carcerato mi ha raccontato di pestaggi, avrei potuto far aprire non so quante inchieste.

Da dove riparte la mobilitazione?

Oggi vogliamo riproporre un nuovo appuntamento per il Forum mondiale con la premessa che la pandemia ha creato nuove povertà e maggiori diseguaglianze. C’è una sensazione di impotenza che ci mette davanti al dato che nessuno da solo può fare cose significative. Diamo un appuntamento alla mobilitazione internazionale per il 30 ottobre a Genova. Abbiamo creato una alleanza globale che abbiamo chiamato Recovery Planet, che ha presentato una piattaforma per il XXI secolo. Diamo un segnale quel giorno, con attenzione. Iniziamo insieme, e se decidiamo di fare percorsi diversi facciamolo senza farci la guerra. È un lavoro complicato per l’Italia, dove c’è il modello del partito unico e del sindacato unico, a sinistra. Invece manteniamo le diversità, le peculiarità, e proviamo a unirci nel momento giusto.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

“Al G8 di Genova. Genova 2001, dopo vent'anni parla Paolo Cremonesi: "Io, medico in prima linea, ho visto il massacro. Quel G8 fu una follia”. Massimo Calandri il 19 luglio 2021 su La Repubblica. Nella scuola Diaz ha tamponato il sangue e steccato le fratture di quei poveretti. Per tutto questo tempo ha scelto il silenzio perché non voleva "essere usato". Oggi racconta: "Raccolsi il bossolo che uccise Giuliani, ma nessuno mi ascoltò". Il dottore c'era. Sempre. Ha visto tutto, durante il G8. In piazza Alimonda ha raccolto il bossolo del proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani. Nella scuola Diaz ha tamponato il sangue, steccato le fratture di quei poveretti: "Non andranno in carcere". Aveva soccorso i pacifisti caricati dalle forze dell'ordine nel corteo di corso Italia: "C'erano anche delle suore, delle nonne".

Massimo Nucera, agente del Reparto Mobile raccontò di essere stato assalito. Ma quegli squarci sul giubbotto erano opera sua. La Repubblica il 17 luglio 2021. Quello squarcio sul giubbotto avrebbe dovuto rappresentare la prova dell'aggressione, violenta e feroce, subita all'interno della scuola Diaz. Tale da giustificare una reazione ancora più brutale. Ma Massimo Nucera, agente scelto del Nucleo speciale del VII Reparto Mobile di Roma, quella coltellata alla giacca se l'era inferta da solo. E Maurizio Panzieri, allora Ispettore capo dello stesso Nucleo speciale, aveva firmato un verbale chiaramente fasullo, per avvalorarne la tesi. Entrambi erano stati condannati a 3 anni e 5 mesi di cui tre condonati. E avevano deciso di presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Istanza respinta proprio in queste ore, a vent'anni dal massacro con cui si chiuse il G8 genovese, Stessa sorte anche per i ricorsi presentati da Angelo Cenni, uno dei sette capisquadra del VII Nucleo del Reparto Mobile di Roma e da due suoi colleghi, capisquadra anch'essi. Nel ricorso presentato dal legale di Nucera e Panzieri si sottolineava che "l'esame condotto dalla Cassazione non è stato effettivo ed equo" e si accusa la Corte di non avere tenuto in considerazione la controversa perizia di Carlo Torre, Professore di Medicina Legale a Torino (lo stesso che si occupò della morte di Carlo Giuliani), che giudicò i tagli compatibili con l'ultima ricostruzione effettuata da Nucera davanti ai giudici.  Il difensore di Cenni sosteneva anche che l'intero processo fosse "basato su un materiale probatorio carente e lacunoso". Per Nucera e Panzieri la Corte europea dei Diritti dell'Uomo ha ritenuto che gli imputati abbiano "potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate" e quindi ha dichiarato il ricorso irricevibile". Per il caposquadra Cenni e i suoi due colleghi, la Corte Cedu "ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi protocolli". Accuse "manifestamente infondate" e quindi la Corte "dichiara il ricorso irricevibile". Restano ancora pendenti, e già dichiarati ammissibili, i ricorsi di alcuni dirigenti di polizia condannati sempre per l'irruzione alla Diaz come l'ex capo dello Servizio Centrale Operativo, Francesco Gratteri e Filppo Ferri, ex capo della Squadra mobile di Firenze.

 Claudio Del Frate per il Corriere della Sera il 17 luglio 2021. A venti anni esatti dal G8 di Genova e nel giorno in cui le violenze di quei giorni tornano a essere al centro di discussioni e rievocazioni, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha chiuso definitivamente il capitolo processuale: è stato infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz, uno degli episodi più sanguinosi legato alle manifestazioni del 2001. Gli agenti si erano appellati alla Cedu ritenendo che il processo a cui erano stati sottoposti sia stato ingiusto per aver violato alcune norme contenute nella Convenzione per i diritti umani. «Alla luce di tutte le prove di cui dispone - si legge nella sentenza -, la Corte ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli». Ne consegue che le «accuse» mosse dai ricorrenti «sono manifestamente infondate» e il ricorso è «irricevibile». Le motivazioni dei giudici europei sono molto tecniche e in sostanza affermano che la Cedu non può funzionare come «quarta istanza» rispetto ai tre gradi di giudizio dei tribunali nazionali. «La parte ricorrente - ecco un altro passaggio della sentenza - ha potuto presentare le sue ragioni davanti ai tribunali che hanno risposto con decisioni che non sembrano essere né arbitrarie né manifestamente irragionevoli, e non ci sono elementi per dire che il procedimento sia stato iniquo per altre ragioni». La decisione della Corte in composizione di giudice unico è definitiva e non può essere oggetto di ricorsi davanti a un comitato, a una camera o alla Grande Camera. Il fascicolo in questione sarà distrutto entro un anno dalla data della decisione, conformemente alle direttive della Corte in materia di archiviazione. La Corte di Cassazione italiana aveva confermato in via definitiva le condanne per l’irruzione alla scuola Diaz nel luglio del 2012: la sentenza aveva riguardato 25 appartenenti alla Polizia, dai piani più alti della catena di comando (a partire dal comandante del reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini) fino agli agenti ritenuti responsabili dei pestaggi ai danni delle persone che si trovavano all’interno della scuola (che in quei giorni funzionava come centro di accoglienza per i partecipanti alle manifestazioni no global). Gli episodi della scuola Diaz seguirono di poche ore la morte di Carlo Giuliani. Gli agenti entrarono nella scuola ritenendola un covo di «black bloc», arrestarono una novantina di persone (tutte poi prosciolte) e ne ferirono 60. La Corte europea dei diritti dell’uomo si era già dovuta occupare dei fatti legati al G8 di Genova, ma in seguito a un ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, uno dei manifestanti vittima delle violenze delle forze dell’ordine nel 2001. Nel 2015 la Cedu aveva condannato lo Stato italiano a risarcire Cestaro (che a causa dei pestaggi aveva subito la frattura di un braccio e di alcune costole) con 45.000 euro per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo («Nessuno può essere sottoposto a trattamenti degradanti»). In seguito alla sentenza Cestaro altre 29 vittime delle violenze alla scuola Diaz avevano presentato ricorso alla Cedu, ottenendo tutti risarcimenti tra i 40 e i 55mila euro.

La ricorrenza. Venti anni fa il G8 di Genova: la critica alla globalizzazione, i pestaggi, gli errori di Rifondazione. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 21 Luglio 2021. A Genova si è prodotto il punto più alto di un movimento che da Seattle ha invaso il mondo e che, passando per tutte le capitali occidentali e orientali, aveva messo in discussione in modo radicale il pensiero unico che si era formato sulla globalizzazione. All’epoca, le classi dirigenti consideravano la globalizzazione come una cornucopia che avrebbe distribuito ricchezze e progresso tecnico-scientifico a cascata e si apprestavano su questo a realizzare la loro egemonia politica e culturale. Contro questo pensiero unico, e il processo che lo animava, è nata una contestazione, soprattutto la contestazione di una generazione che associava soggetti critici assai diversi tra loro. Era una novità straordinaria che segnò uno spartiacque. La globalizzazione prendeva, attraverso la critica di fatto, la sua forma reale, sociale, ecologica, di potere dominante, a partire dalla definizione che le veniva finalmente attribuita: capitalistica. Genova è stata, sull’altro versante, un passaggio d’epoca. Finisce il Novecento, il secolo del Movimento operaio e comincia un’altra storia, un post, non meglio definito. Il movimento recupera, pur nella radicale discontinuità, un elemento decisivo di quella storia: l’idea della rivoluzione. Non è più la conquista del Palazzo d’Inverno, è invece l’idea di un processo senza la guida del partito e senza un centro motore, però un processo conflittuale che propone la trasformazione radicale della società: “Un altro mondo è possibile”, scandisce il movimento. Prende corpo una moltitudine innervata su soggetti forti, su luoghi di ricerca condivisi e su una diffusa pratica di democrazia diretta e partecipata. Genova è uno snodo cruciale, decisivo, in questo percorso. Lo decidono i potenti del mondo. A Genova viene messo in scena l’orrore, viene messa in atto una repressione sistemica e senza limiti, i suoi atti furono terribili: l’uccisione di Carlo Giuliani, la tortura alla Diaz e a Bolzaneto, le violenze continue e i pestaggi contro i manifestanti. Le forze dell’ordine furono chiamate alla guerra contro una mobilitazione pacifica e di massa, la direzione di quelle forze dell’ordine porta una colpa storica nei confronti della repubblica. Da Napoli a Genova era riaffiorata qualcosa di molto simile a ciò che denunciava la teoria del doppio Stato. Per supporlo, basta rifarsi al campionario delle frasi usate dai torturatori della Diaz nei confronti dei torturati, soprattutto delle donne, come di un anziano disabile. Quegli insulti hanno messo in luce la fascistizzazione di parti importanti delle forze dell’ordine praticata in funzione della repressione. Non solo, hanno mostrato anche che non si è mai realizzata una vera e compiuta bonifica democratica tra quegli uomini. L’idea di fondo che guidava i manganelli era che quando si è chiamati alla repressione bisogna rispondere “presente!” a un ordine che non è quello repubblicano e costituzionale, ma solo quello costituito, quando non peggio ancora. Si può aggiungere che questa stessa linea nera dentro le forze dell’ordine italiane rischia di non finire mai, come si vede quando si considera che da Genova può arrivare fino ai pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dei nostri giorni. Continuo a credere che quella repressione sistemica venne ordita a livello internazionale con le forze dell’ordine italiane che ne furono il braccio armato e non improvvisato. Non penso a un complotto, bensì proprio a una strategia preordinata. Si pensò che quel movimento era troppo minaccioso per l’ordine costituito, per il destino della stessa globalizzazione capitalistica e per i suoi poteri. Quell’ascesa del movimento dei movimenti sarebbe potuta diventare incontrollabile, si decise allora che essa doveva essere schiantata e lo si mise in pratica cinicamente contro qualsiasi idea di stato democratico e di paese civile. I suoi produttori sbagliarono però su un punto, avevano pensato di spingere il movimento in una spirale distruttiva, repressione violenta, replica con una risposta violenta, nuova repressione, questa volta demolitrice. Invece, il movimento reagì in modo sorprendente, per quanto aveva incorporato, nel suo percorso e nei nuovi soggetti che ne erano protagonisti, una pratica pacifista e non violenta. Ancora oggi, la cosa risulta sorprendente. Quante volte ho pensato che se le forze dell’ordine avessero reagito così nei confronti del movimento nato nel ’68-’69, negli anni Settanta, nella mia generazione, questo avrebbe innescato le tracce di una guerra civile e Genova sarebbe stata una strage. Ma il colpo risulta pesante e pesante sono le sue conseguenze politiche sulle stesse soggettività dei movimenti. Dopo la tragedia, il movimento regge ancora, però cambia la sua prospettiva. L’urto ha lasciato il segno. Ci sarà ancora la grande manifestazione di Firenze e da una sua costola nascerà quell’enorme movimento pacifista che nel 2003 porterà 110milioni di persone nello stesso giorno nelle piazze del mondo contro la guerra. Ci saranno ancora lotte sociali importanti, anche da noi in Italia, ma è la scena che cambia nel profondo, anche per come cambiano i suoi protagonisti principali. Entrambi i contendenti perdono qualcosa di importante. Il movimento non ce la fa, non riesce a mettere in discussione il paradigma della globalizzazione capitalistica né quello della guerra, ma questa e quella non vincono, mentre già si intravedono i segni della crisi della modernizzazione capitalistica, la tesi della guerra preventiva messa in atto dagli Usa si rivela tragica e fallace. Si affacciano le due perdite. Al movimento viene rubata l’innocenza dei giovanissimi che l’avevano caratterizzato e il movimento intero perde la potenza di una forza in ascesa in ogni parte del mondo e capace di riconoscersi unitario nelle proprie diversità. Il movimento perde la potenza. La globalizzazione capitalistica perde invece il futuro annunciato delle sue magnifiche sorti progressive e entra nel nuovo tempo che lo caratterizzerà fino ad ora, quello dell’instabilità e delle crisi. Quell’esito ci porterà al mondo della terza guerra mondiale a pezzi, delle ripetute crisi economiche e sociali, del venire al pettine della crisi ecologica. Viene di fronte a noi il capitalismo della crisi. L’incertezza prende il posto della presunzione di un futuro ininterrotto di crescita, i potenti del mondo conservano il potere, ma perdono l’egemonia. Ma i grandi sconfitti sono stati le istituzioni democratiche e la politica. Il movimento altromondista ha provato a cercare, dopo il rovesciamento del conflitto di classe della fine del secolo, un nuovo e fecondo rapporto tra il conflitto, la democrazia rappresentativa e la politica, per poter attraversare, con questo nuovo rapporto, proprio il cambiamento. Ma qui, si è registrata la défaillance. Le istituzioni stavano già subendo una duplice delegittimazione. Per un verso, Genova ne aveva rivelato tutta la distanza e l’avversità nei confronti del popolo; per un altro, dal basso stava nascendo una nuova e diversa contestazione delle istituzioni della politica. Ma l’occasione è mancata soprattutto dalle sinistre che subiscono due, seppur molto diverse tra loro, sconfitte. Una è stata quella bruciante della sinistra riformista, che proprio lì si è definitivamente persa. Essa si è separata, in quel frangente, del tutto dai movimenti e con ciò dalle ragioni della sua stessa nascita, così è finita sussunta dalle classi dirigenti della globalizzazione. È diventata, con il completamento di una vera e propria mutazione genetica, una pura forza governativista, tanto da vantare una migliore attitudine a governare la globalizzazione capitalistica persino rispetto alle destre. Ma anche la sinistra radicale, che pure aveva provato a innovarsi nel profondo, immergendosi nel movimento, non osò farlo fino in fondo. Per onestà intellettuale, non posso tacere della nostra Rifondazione comunista. Rifondazione comunista fu l’unico partito che sottoscrisse il Manifesto di Porto Alegre, tentò di stare nel movimento, non facendo mai prevalere una logica di partito. Eppure, a vent’anni di distanza, sento di portare una responsabilità. Anche noi perdemmo perché non osammo ciò che sembrava allora impossibile, cioè aderire a una nuova idea secondo cui “il movimento è tutto”. Avremmo potuto tentare di sciogliere il partito nel movimento, per provare a far nascere dal suo interno una nuova soggettività critica anticapitalistica, ma post-novecentesca, invece perdemmo l’occasione e tutto il resto. Forse, se insieme a Rifondazione comunista i soggetti politici e sociali organizzati che costituivano il telaio del movimento avessero insieme compiuto quella scelta, l’insorgente conflitto tra il basso e l’alto della società avrebbe potuto avere un corso diverso e la stessa storia di ciò che sono diventati i populismi in Europa sarebbe potuta essere del tutto diversa. Eppure, di quella storia non tutto è andato perduto. Oggi, la rivolta è accogliere la sfida del potere e lo sono anche le cento, mille esperienze sociali, ambientali, di solidarietà, di nuova e diversa economia, di conquista della qualità della vita, così come le nuove forme di lotta sul lavoro. Manca la potenza in campo, ma non sono del tutto scomparsi gli eredi di quella potenza critica. Anche se è sempre improprio parlare di eredi, si possono vedere le tracce nel movimento Black lives matter e in un certo senso anche in quello me-too, perché entrambi i movimenti, come altri che vivono nella nostra stagione, portano dentro essenzialmente una mozione critica dell’ordine esistente. Nel 2001, il G8 era il simbolo del potere costituito, della globalizzazione, e veniva contestato in radice. Oggi, quella critica non vive in potenza, ma vive in forme inedite nella pluralità delle esperienze critiche che cercano le loro strade. Vivono e ci parlano perché hanno capito anche vent’anni dopo quel grande conflitto, in un mondo del tutto cambiato, che senza la forza del contro e del fuori non c’è che l’adagiamento in un sistema che resta un pessimo sistema.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Marco Giusti per Dagospia il 21 luglio 2021. Il film che avrei voluto farvi vedere ieri e che non avete potuto trovare su nessuna rete è “Bella ciao”, il documentario sul G8 di Genova realizzato da me, Carlo Freccero e Roberto Torelli giusto vent’anni fa. Prodotto da Rai Due e mai andato in onda su Rai Due, ho cercato di farlo programmare sia dalla 7 che da Rai Play. Ho chiamato, ho scritto. Nessuna risposta. Poco elegante, ma va bene così. Censurato allora e censurato oggi. Vuol dire che ancora può dare noia. O magari è vecchio. Peccato, perché, come mi scrive Freccero e come penso anch’io, era “un vero servizio pubblico, una memorabile pagina di tv”, inoltre fatto a caldo, con tutto il materiale degli operatori Rai della sede di Genova che non andarono in onda nei tiggì per precisa scelta diciamo editoriale, e con tutto il materiale girato dai movimenti. Inoltre era il primo evento che venne filmato per strada dalla gente con le telecamerine (non c’erano ancora gli smartphone), come controinformazione. Per questo era una precisa ricostruzione di quei giorni e di cosa successe con immagini allora totalmente inedite. Chi l’ha visto, perché è molto girato allora, alla faccia della censura della Rai, lo sa bene. Ma non riuscimmo né a farlo uscire in sala né a farlo vedere in tv. Provammo Venezia. Ma Barbera, allora direttore della Mostra del Cinema, ci disse che non era il caso. Perse lo stesso il posto allora, tanto valeva farlo vedere. Ci dette una mano invece Steve Della Casa a Torino per una primissima proiezione e poi lo portammo come produzione di Rai Due, un meccanismo legato alle reti Rai che da allora, guarda un po’, venne abolito, a Cannes nel 2002 alla Sémaine de la Critique, dove fece il giusto scandalo con Sgarbi in sala e gli uomini di Rai Cinema che facevano finta di non vederci e non ci offrirono neanche un caffè. Ancora mi domando perché l’evento G8 di Genova non venne coperto da Santoro, che era ancora a Rai Due. Disse che era in vacanza, e mandò in onda in replica due giorni dopo una speciale sul sushi di Corrado Formigli. Magari era interessante. Provò a farlo, credo, anche Sara Scalia, ma non ce la fece. Così alla fine coprimmo l’evento noi che volevamo solo fare uno speciale di Stracult sul G8. E quando dicemmo, bleffando un po’, che avevamo molte immagini, ricordo, al Tg1 fecero uscire un quarto d’ora di macelleria perché non potevano nascondere oltre quello che era accaduto non sapendo quello che avevamo. Ma l’idea era stata da subito quella di insabbiare tutto. Inutile dire che quel che è accaduto a Genova ha cambiato radicalmente questo paese e chi aveva vent’anni allora. 

L'inferno di Bolzaneto. I pm: "Eravamo increduli: in un luogo democratico davvero è successo tutto questo?". Intervista di Massimo Calandri su La Repubblica il 21 luglio 2021. I magistrati Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati sono i pm che hanno condotto l'inchiesta su quanto accaduto all'interno della caserma Nino Bixio di Bolzaneto, dove centinaia di fermati sono stati picchiati e umiliati per ore. "La difficoltà consisteva anche nel fatto che il codice italiano non prevedeva all'epoca il reato di tortura – spiegano – e non c'è stata grande collaborazione da parte della polizia nel corso delle indagini. Ci siamo trovati a dover indagare anche su persone con cui avevamo lavorato. Quel processo ha messo in discussione il rapporto tra cittadino e istituzioni ma ha anche contribuito a riaccendere in Italia il dibattito sull'introduzione del reato di tortura".

A.P. per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. Il sindaco di Genova all'epoca del G8 era Giuseppe Pericu, avvocato e docente universitario oggi in pensione. Avvocato, che cosa ricorda di quel G8? «Ricordo un anno e mezzo di lavoro per preparalo, cantieri, dibattiti. Il primo giorno filò tutto liscio, sfilarono per la città i manifestanti in modo pacifico. A cambiare le cose fu la tragedia di Carlo Giuliani». 

Batterie antimissili, spazio aereo chiuso, acquedotti sorvegliati. Temeva l'evento?

«Ero un po' preoccupato ma non pensavo all'apocalisse. Erano filtrate delle notizie, credo dai servizi segreti tedeschi, sulla possibile presenza di Bin Laden. Da qui la misura antiaerea. Ma nessuno ci credeva. Sembrava una cosa assurda. E invece non lo era, visto cos' è successo due mesi dopo alle Torri gemelle».

I Black bloc hanno messo a ferro e fuoco la città.

«Mi chiedo ancora adesso come mai non fosse stato impedito il loro arrivo in città. Evidentemente i nostri servizi non avevano funzionato ben e». 

Pensa che sia stata fatta giustizia?

«Non del tutto. Le condanne penali non hanno accertato responsabilità individuali. Non si è mai capito però il perché dei Black bloc e della violenta repressione. Fu spontanea o ordinata da qualcuno? Noi come avevamo chiesto una commissione d'inchiesta che però non fu accolta». 

Perché non vi siete costituiti parte civile?

«Non c'erano i presupposti. Il danno fatto alla Diaz era nei confronti dell'umanità, non della città». 

Cosa le è dispiaciuto di più?

«Che si ricordi il G8 per le violenze e non per i grandi temi in discussione».

Giovanni M. Jacobazzi per “Il Riformista” il 23 luglio 2021. «Il capo della polizia, il prefetto Gianni De Gennaro, all'indomani dell'irruzione nella scuola Diaz, mi presentò le sue dimissioni. Io, però, le respinsi». Claudio Scajola, forzista della prima ora, a luglio del 2001 era il ministro dell'Interno del governo Berlusconi. Attualmente è sindaco di Imperia. Il Viminale è stato accusato di aver preventivamente pianificato la repressione del movimento no global che, vent' anni fa, si diede appuntamento a Genova in occasione del vertice del G8.

Onorevole Scajola, cosa risponde a chi dice che ci fu una volontà "politica" di punire i manifestanti a Genova, anche sulla scia di quanto accaduto in occasione di precedenti vertici internazionali, come quello di Seattle e Goteborg?

Ma quale volontà politica! Pensi che stanziammo risorse importanti, a favore del Comune e della Provincia di Genova, per contribuire all'ospitalità dei manifestanti che erano venuti da tutto il mondo. Parlano le carte dell'epoca, quelle dei giorni precedenti al summit. Nel pochissimo tempo a mia disposizione prima del vertice, ho dedicato i maggiori sforzi a dialogare con tutte le sigle della protesta. Consegnammo anche un vademecum alle Forze dell'ordine, alla vigilia del vertice, nel quale spiegavamo che i manifestanti non erano nemici, bensì persone che esprimevano il loro dissenso in un contesto democratico e che dovevano essere messe nelle migliori condizioni di sicurezza per poterlo fare.

Le cose andarono diversamente....

Purtroppo, come era successo nei vertici precedenti, si infilarono tra i manifestanti dei violenti e dei sovversivi con l'unica intenzione di devastare tutto. In questo senso, devo dire con rammarico che cadde nel vuoto la mia richiesta ai rappresentanti del dissenso pacifico di dividere maggiormente i cortei per evitare il rischio di infiltrati.

Veniamo alla gestione dell'ordine pubblico che definire fallimentare è poco.

Il governo Berlusconi, voglio ricordarlo, era in carica da solo tre settimane. C'erano i piani di sicurezza già pronti, era stato già fatto tutto, e stravolgerli in così breve tempo non sarebbe stato saggio. Manifestammo a più riprese dubbi anche sulla scelta di Genova, troppo complessa per garantire la gestione dell'ordine pubblico. C'erano grandi timori a livello internazionale, non dimentichiamo che soltanto due mesi dopo ci sarebbero stati gli attentati alle Torri Gemelle. 

Non potevate annullare il vertice allora?

Pensammo ad un annullamento del summit, ma la strada è risultata poi non percorribile. Da ministro dell'Interno, ripeto, scelta più infelice di Genova non poteva esserci. 

Torniamo alla gestione dell'ordine pubblico.

 Come ho detto, il governo era in carica da pochi giorni e dovemmo fare affidamento sugli uomini (il capo della polizia Gianni De Gennaro ed il comandante generale dell'Arma Sergio Siracusa, ndr) nominati dal precedente governo di sinistra. 

Ed era un problema?

Su mia proposta il Consiglio dei Ministri deliberò il comando del vice capo della polizia, il prefetto Ansoino Andreassi, presso la Presidenza del Consiglio, quale componente per la sicurezza della struttura di missione per l'organizzazione del G8. 

Ciò non toglie che la gestione dell'ordine pubblico fu un disastro.

Dopo poche ora la fine del vertice, convocai nel mio ufficio al Viminale, Andreassi, insieme al capo dell'antiterrorismo il prefetto Arnaldo La Barbera e il questore di Genova Francesco Colucci. Condivisero con me la necessità che si facessero da parte, anche per lasciare alla magistratura la più ampia libertà di movimento, senza rischi di interferenze, nell'accertare gli errori commessi nella gestione dell'ordine pubblico, nella quale ciascuno di loro aveva precise responsabilità. Lo feci con angoscia dal momento che avevo servito lo Stato con dedizione contribuendo ad infliggere duri colpi alla criminalità. Non so se la stessa cosa sia stata fatta, pochi giorni fa, dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. 

In attesa che la magistratura facesse gli accertamenti, una domanda, ad esempio, sulla mattanza della Diaz se la sarà fatta? Decine di manifestanti picchiati selvaggiamente senza motivo.

Io fui avvisato da De Gennaro dopo il blitz e dopo che i giornalisti avevano dato la notizia dell'accaduto. 

Cosa chiese a De Gennaro?

Come mai non era stato avvertito e chi aveva deciso il blitz. 

Risposta di De Gennaro?

Che l'operazione era stata decisa perché dentro la Diaz, da informazioni precise, si trovavano gli elementi più pericolosi dei black bloc, e che quando si fanno le operazioni non vengono comunicate prima. 

Replicò che questi pericolosi black bloc non c'erano?

Si. E la risposta fu molto imbarazzata, con la disponibilità di De Gennaro a lasciare l'incarico di capo della polizia. 

Che lei, però, rifiutò?

Si. Non volevo creare ulteriori "scossoni" che potevano destabilizzare la polizia di Stato. Tenga presente che avevamo allarmanti rapporti informativi sul terrorismo. Si faceva il nome di Bin Laden che allora non conosceva nessuno.

In conclusione si può dire che l'esordio del governo Berlusconi nel 2001 non è stato dei migliori?

A parte il clima di pressione per la presenza dei capi di Stato esteri e gli allarmi dell'antiterrorismo, erano in molti a fare il tifo perché il vertice fallisse.

Vent'anni dal G8. La cultura della tortura, Genova 2001 è ancora qui. Riccardo De Vito su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Luglio 2021, vent’anni dopo. Genova non è ancora una città intera, a dispetto delle parole che rivolgeva, all’inizio della sua Litania, Giorgio Caproni: Genova mia città intera. I nomi dei luoghi, delle strade, delle piazze – Bolzaneto, Diaz, via Tolemaide, Piazza Alimonda (piazza Carlo Giuliani, ragazzo) – stanno lì a testimoniare un’espropriazione della democrazia subita dalla città medaglia d’oro della Resistenza e da tutta la Repubblica italiana ad opera dello stesso Stato che la dirige, di un suo apparato. Un’amputazione, prima di tutto, di vita, di salute, di dignità patita dalle vittime delle violenze, per le quali la toponomastica della città rimarrà la mappa mentale di un martirio, del risveglio sulla loro pelle – contro la barriera della loro pelle – del cuore di tenebra del Novecento annidato dentro le istituzioni democratiche. La “sospensione della democrazia” si manifesta prima di tutto nei loro denti rotti, nei polmoni perforati, nelle ossa fracassate dai manganelli. Ferite – hanno scandito i magistrati della Giunta ANM della Liguria davanti alla Diaz il 21 luglio (un gesto che vale più di un congresso per ricostruire la credibilità di tutta la magistratura) – che non basta l’attività giudiziaria a riparare. Non basta perché, come ci raccontano le frasi di Jean Améry custodite da Primo Levi, “la fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più”. Lo scrittore austriaco, per ritrovare un posto nel mondo dopo le torture dei campi di concentramento, aveva cambiato nome, anagrammando il tedesco Mayer nel francese Améry. Mark Covell, giornalista quasi ucciso dalla polizia la notte della “macelleria messicana”, di nomi è ancora in cerca. Sa quelli dei dirigenti condannati per i falsi e i depistaggi, sa quelli dei vertici della catena di comando – tutti regolarmente promossi nella scala delle loro carriere, nonostante gli accertamenti giudiziari –, ma non conosce ancora i nomi di tutti coloro che hanno infierito su di lui. Non li può sapere, dal momento che è mancata una leale collaborazione delle forze di polizia nell’identificazione dei responsabili e che la fedeltà allo spirito di corpo ha prevalso sulla fedeltà alla democrazia. “Lack of cooperation”, è questo il termine utilizzato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per stigmatizzare la condotta. Non è una novità. C’è una sentina nella storia d’Italia nella quale sono depositate le scorie delle vicende di violenza degli apparati di polizia accompagnate da falsi, depistaggi, ripudio dell’identificazione dei responsabili, rifiuto di avviare indagini e promuovere accertamenti interni: Padova, ai tempi della cattura del generale Dozier, il reparto “Agrippa” di Pianosa poco dopo l’arrivo dei 41-bis (alcuni dei quali indagati poi assolti con formula piena), Sassari nel 2000. E poi il carcere di Asti, la caserma dei carabinieri di Roma Casilina, la Raniero a Napoli, Genova. E ora Santa Maria Capua Vetere. A quasi tutte quelle vicende corrispondono sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non tutte le pronunce hanno condannato il nostro Paese per violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU – la norma che pone il divieto di trattamenti inumani o degradanti e tortura –, ma è stata sempre accertata e sanzionata l’assenza di “un’effettiva indagine ufficiale”. Indagine effettiva impedita da quella intenzionale mancanza di cooperazione di cui si possono inanellare esempi: a Genova, per l’identificazione dei responsabili, le amministrazioni di appartenenza avevano messo a disposizione dell’autorità giudiziaria foto degli agenti risalenti addirittura all’arruolamento; a Pianosa, chi si era dichiarato vittima di tortura aveva affermato di poter riconoscere il proprio aguzzino, ma ebbe la possibilità di effettuare la ricognizione fotografica soltanto su fotocopie sbiadite delle fotografie dei pubblici ufficiali denunciati. Nonostante questo a Genova, pur tra contrasti e qualche ostilità dei vertici degli uffici giudiziari, c’erano Pm indipendenti (all’interno del loro ufficio, prima di tutto) e giudici soggetti soltanto alla legge, ancora forti di un principio di obbligatorietà dell’azione penale tutto intero, non inciso da una maggioranza parlamentare che potesse dire con forza di legge di indirizzare l’azione verso altre priorità. È grazie a questo statuto costituzionale di garanzie che si è arrivati alle verità consacrate nelle sentenze sui casi Diaz e Bolzaneto. I rischi di attività giudiziarie sgretolate, non tempestive, scarsamente efficaci, tuttavia, sono sempre dietro l’angolo. Se vogliamo davvero sanare il debito nei confronti della città e della Repubblica, se vogliamo provare a ricostruire quell’interezza persa, occorre almeno che la politica assuma definitivamente la responsabilità di implementare l’imperfetta legge sul reato di tortura (l. 110/2017) con meccanismi che siano in grado di consentire quelle indagini: imprescrittibilità del reato, sospensione obbligatoria degli indagati e rimozione dei condannati, identificativi sui caschi e sulle divise. Sono prescrizioni messe nero su bianco in tutte le condanne e gli accertamenti europei nei confronti del nostro Paese. Sono dispositivi, peraltro, la cui necessità è confermata, proprio nell’anniversario del G8 ligure, dai fatti del carcere Santa Maria Capua Vetere. Quei pestaggi, nella loro tragicità, testimoniano anche un’altra esigenza ancora più profonda: fare i conti con una cultura, quella della tortura, che proprio a Genova ha messo definitivamente le sue radici e che si è sottratta anche alle prassi di addomesticamento linguistico (M. Menegatto) del vocabolo. Per comprendere appieno questo concetto bisogna spostarsi poco nello spazio e tanto nel tempo. Sempre a Genova: piazza Corvetto, ma nel 2019. Durante gli scontri tra estrema destra e antifascisti seguiti a un comizio di Casapound, il giornalista di Repubblica Stefano Origone, caduto a terra mentre era intento a svolgere il suo lavoro di cronista, viene accerchiato dagli agenti e colpito per circa venti secondi con i manganelli e gli scarponi in ogni parte del corpo. È bene chiarire che i responsabili sono stati condannati, in primo grado, a quaranta giorni di reclusione per eccesso colposo, non per reati dolosi (anche se pende appello della Procura). La vicenda, però, interessa qui per un altro aspetto, decisivo. Nel corso dell’interrogazione parlamentare richiesta da una parlamentare ligure, il sottosegratario all’Interno, dopo aver fornito qualche dettaglio dei fatti, ha espresso rammarico perché “i cronisti non erano riconoscibili”. Quella frase, ascoltata dopo i video che riprendono l’episodio, restituisce l’esatta misura di quella cultura per cui la tortura contro un cronista no; contro un cittadino onesto neppure; ma contro un terrorista, contro un devastatore, contro un mafioso, contro un nemico, allora sì. Poco importa se quel nemico sia una minaccia reale o, come accaduto a Genova in danno dei movimenti e come spesso accade in danno di chi agisce il conflitto sociale, sia una minaccia costruita, magari con l’aiuto di un’informazione rimasta nelle mani di troppo pochi proprietari. Conta il fatto che per il nemico valgono regole diverse, diverse soglie di accettabilità della violenza, sempre più sistematica, metodica e giustificata. Un diverso statuto di umanità, in fin dei conti, legittima che il ripristino dell’ordine comporti qualche sacrificio nei confronti di chi sta fuori dal recinto della cittadinanza. Sta qui il pericolo che la democrazia cova al suo interno e da qui sgorga il dovere – gravante su tutti, sulla parte sana delle agenzie di polizia e sulla magistratura (non immune da episodi di concorso nella costruzione di quell’ordine simbolico) – di ribadire che invece no, che è quella violenza a essere contro la democrazia e a metterne a nudo la precarietà della conquista. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo lo ha chiaro: il divieto di tortura non è mai derogabile, neppure in stato di guerra. Vale anche per la nostra Costituzione. Non c’è nemico che giustifichi la tortura, strumento con il quale la democrazia tradisce prima di tutto sé stessa. Riccardo De Vito

Diaz, il sangue e l’impunità. Dalle molotov sequestrate altrove e comparse a scuola al finto accoltellamento. Il piano della polizia di De Gennaro per legittimare la “macelleria messicana” tra prescrizioni, promozioni, e condanne europee per tortura. Ecco il secondo capitolo di una ferita che non dobbiamo dimenticare. Simone Pieranni su L'Espresso il 14 luglio 2021. Il 21 luglio, a Genova, la scena se la prende la polizia: i carabinieri vengono tenuti ai margini, c’è un morto e si sono fatti pochi arresti, bisogna rimediare. La polizia deve rimediare. Inizia il piano della scuola Diaz, che in realtà ben presto, in sede di indagine, si rivelerà improvvisato in riunioni cariche di tensioni, cui seguiranno anche accuse incrociate tra gli stessi appartenenti alle forze dell’ordine. Esaminando le relazioni di servizio dei poliziotti di turno quella sera del 21 luglio a Genova le omissioni sono incredibili: in alcuni casi mancano addirittura le firme. Alla richiesta della Procura di avere le foto dei poliziotti impegnati nell’irruzione, il pm Enrico Zucca riceve immagini prelevate dagli album dell’infanzia degli agenti. E soprattutto: ai procuratori non sfugge un particolare. Scartabellando tra le migliaia di pagine dei faldoni si accorgono di una cosa: Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) in servizio a Genova per il G8, riferisce di aver consegnato a un reparto della polizia due bottiglie molotov rinvenute in corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Guaglione lo scrive nella relazione di servizio, ma manca una cosa: il verbale di sequestro delle due molotov. L’assenza di questo documento insospettisce i pm che chiamano Guaglione. I pm gli mostrano le due molotov sequestrate alla Diaz ma omettono di dirgli che fossero proprio quelle provenienti dalla scuola. Guaglione ovviamente le riconosce subito: le aveva trovate lui in corso Italia. Lo può dire con certezza (ed è uno dei pochi a cui la memoria pare funzionare e infatti non sa di inguaiare i suoi colleghi) perché la marca delle bottiglie la ricorda bene. Disinnescare le molotov, significa abbattere l’intera operazione della Diaz, motivata dalla presenza dei black bloc e dalla presenza di armi da guerra (come sono considerate le molotov). Significa non avere più giustificazioni, se mai fosse possibile trovare giustificazioni alla mattanza, per motivare botte, violenze, arresti. Ma servivano arresti, a tutti i costi. Le molotov (che poi spariranno nel corso dei procedimenti dalla sezione reperti del tribunale di Genova) non sono l’unico “falso” della Diaz: ci fu anche un agente che inscenò un’aggressione subita, a colpi di coltello, rivelatasi poi un’invenzione. Si tratta di uno degli agenti del VII nucleo Massimo Nucera; nel rinvio a giudizio del 2004 fu accusato di falso e calunnia perché «falsamente attestava di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all’altezza del torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo interno, così avvalorando quanto descritto negli atti di arresto e di perquisizione e sequestro circa il comportamento di resistenza armata posta in essere dagli arrestati». Anche nel caso del procedimento per l’irruzione alla scuola Diaz, nelle aule di tribunali genovesi la catena di comando della polizia finisce sotto la lente di ingrandimento di procura e parti civili, perché i poliziotti che materialmente fecero l’irruzione sono irriconoscibili e ancora meno possono essere riconosciuti partendo dalle foto della prima comunione mandate in procura. Per questo verranno puniti i livelli apicali, poliziotti riveriti e considerati integerrimi: come i loro colleghi carabinieri anche i poliziotti inviati a Genova a gestire la situazione avevano curriculum importanti, anni di lotta alla criminalità organizzata, alla mafia, quasi intoccabili. E infatti è l’impunità l’elemento che più forte emerge da tutti i processi, dal loro procedere in aula dimentichi di ogni cosa, elemento piuttosto inquietante se associato a persone che, al di là del G8, dovrebbero garantire la nostra sicurezza. In primo luogo il capo, Gianni De Gennaro: l’uomo che aveva riportato Tommaso Buscetta dal Brasile in Italia e che con Giovanni Falcone aveva contribuito a istituire il maxi processo che per la prima volta conclamerà l’esistenza di una struttura criminale ramificata dal nome Cosa Nostra, il capo della polizia dai mille dossier e dalla capacità di muoversi tra partiti e correnti politiche (non a caso, in seguito sarà Luciano Violante in commissione d’inchiesta a indicare a De Gennaro una strada per la sua difesa, basata sull’impossibilità per il capo di sapere i dettagli di certe operazioni; bizzarro considerato che qualche anno dopo De Gennaro sarà incriminato per aver tentato di depistare il processo). Le indagini della procura di Genova portano al rinvio a giudizio alcuni esponenti di spicco della polizia italiana (e molto vicini a De Gennaro): Francesco Gratteri (all’epoca a capo dello Sco, il servizio centrale operativo anti crimine), il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Giovanni Luperi, Gilberto Calderozzi (che in seguito prenderà il posto di Gratteri), Filippo Ferri (allora  capo della squadra mobile di La Spezia, uno dei tanti che successivamente sarà promosso) e Fabio Ciccimarra (che era già imputato a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme a loro ci sono gli altri firmatari dei verbali, l’allora questore di Genova Spartaco Mortola, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini, il vicequestore Pietro Troiani e l’agente Alberto Burgio. Tutti chiamati a rispondere per abuso di ufficio per la gestione dell’intera operazione nonché dei reati di falso e calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov. Per i pestaggi all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone. Il primo a finire sotto accusa è proprio Canterini, a capo del Settimo nucleo e chiamato per partecipare all’azione. L’intervento, infatti, era stato deciso in Questura a seguito di un episodio poco chiaro e dai contorni piuttosto fumosi, ovvero un presunto agguato a una pattuglia nella zona vicina al complesso Diaz-Pertini. Grazie agli atti del processo sappiamo che nella riunione in questura viene deciso l’intervento presso la Diaz. Secondo la testimonianza di Ansoino Andreassi (deceduto nel gennaio 2021), «la riunione si chiuse con la decisione circa i reparti da impiegare: si telefonò a Donnini che ci disse che era disponibile la squadra speciale del reparto mobile di Roma. Tale squadra era stata costituita in occasione del G8 di Genova con una selezione dei volontari; una commissione aveva scelto i membri, accertandone la loro lucidità, capacità ed assenza di precedenti negativi. Io quindi, proprio per tali motivi, ritenni tale squadra adatta al compito. Non doveva procedere alla perquisizione, ma soltanto essere utilizzata in caso di necessità per ordine pubblico. Io non ipotizzavo la necessità di un’irruzione». Canterini ha idee diverse, come emerge dalla sua testimonianza: «Mi venne detto che vi era stata l’aggressione di una pattuglia da un edificio scolastico in cui si riteneva che vi fossero i black bloc. Da parte mia ritenevo che la cosa non fosse particolarmente semplice perché si sarebbe dovuto fare un cordone intorno alla scuola, avere una planimetria ecc. Dissi quindi che a mio parere poteva essere più idoneo utilizzare alcune bombe lacrimogene per far uscire tutti dall’edificio senza che nessuno si facesse male; La Barbera (Arnaldo La Barbera all’epoca era a capo dell’ex Ucigos, deceduto nel dicembre 2002, ndr) escluse subito tale possibilità. Scesi e davanti alla Questura vidi con un certo stupore un apparato immenso formato da diversi corpi, una macedonia di reparti mobili». Di sicuro i Canterini boys sono tra i primi a entrare: peccato che non si sappia, ancora oggi, chi fossero i singoli agenti protagonisti dell’irruzione. Non bastassero i racconti fumosi, le omissioni, lo scaricabarile, ci sono poi le testimonianze delle vittime, terribili nel raccontare quei momenti concitati e di vero terrore. «Sentii rompersi vetri e quindi colpi sulla porta!, ha raccontato in aula una vittima, «finché non si aprì. Entrano quindi alcuni poliziotti in uniforme che si dirigono verso di noi, che alziamo le braccia e indietreggiamo contro il muro; un poliziotto ci lancia contro una sedia; ci circondano e iniziano a colpirci con manganelli e calci. Ho visto due poliziotti che colpivano una persona che peraltro non si stava proteggendo la testa con il manico del manganello che aveva la forma di “T”. Il manganello veniva impugnato dalla parte lunga e questo è il particolare che mi ha colpito». Se non bastassero le deposizioni delle vittime, il 13 giugno 2007 in aula a Genova arriva Michelangelo Fournier, all’epoca del G8 del 2001 a Genova vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma. La sua deposizione in tribunale è importante per diversi motivi: intanto perché Fournier riconosce che durante le indagini non aveva avuto il coraggio di denunciare comportamenti così gravi da parte dei poliziotti «per spirito di appartenenza» e poi perché parlerà chiaramente di «macelleria messicana», raccontando ai giudici un particolare fondamentale: «Non ho visto comportamenti di resistenza da parte degli occupanti, non ho visto lanci di oggetti». Si tratta di una smentita in piena regola dell’impianto difensivo degli agenti a processo (che accusarono i manifestanti, tra l’altro, di avere già ferite pregresse). Sappiamo come è andata, alla fine: condanne in prescrizione, promozioni, carriere che non si sono fermate, sentenze europee di condanna per la tortura e gli abusi. Ma le parole dei processi – per fortuna – sono lì a ricordarci cosa successe: dovrebbero essere un monito perché certe cose non accadano più. E come capita spesso ai moniti, anche quello uscito dal processo per l’irruzione alla scuola Diaz, viste le sequenze dei fatti di cronaca con protagonisti agenti avvenute dal 2001 in avanti, pare sia rimasto piuttosto inascoltato.

Chiedi cos’era la Diaz. Marco Damilano su L'Espresso il 2 luglio 2021. Vent’anni fa i fatti del G8 di Genova: le violenze e la menzogna di stato, la sospensione della Costituzione. E una generazione che ha perso per sempre fede nella politica e nelle istituzioni. Allora si è aperto il vuoto che dura ancora oggi. Chiedi cos’era la Diaz, chiedi che cosa è successo a Genova. Chiedilo a un ragazzo di venti anni che nel 2001 era appena nato. Cosa successe in quell’estate breve durata due mesi. Dal pomeriggio del 20 luglio, quando Carlo Giuliani cadde in una pozza di sangue, al pomeriggio dell’11 settembre a New York. «L’intero mondo abitato cambiò», sono le parole che lo storico Ibn Khaldun scrisse quasi sette secoli fa a proposito dell’epidemia di peste nera del 1348 che gli aveva strappato i genitori, tornate tragicamente attuali nell’ultimo anno con la pandemia di Covid-19. Ma il mondo intero era già cambiato venti anni fa, all’alba del secolo e del nuovo millennio. Quando la globalizzazione lucente degli anni Novanta - la caduta dei muri, la Rete nuova agorà democratica - aveva mostrato il suo volto violento. A New York. E prima ancora per le strade di Genova. Un’intera generazione ha vissuto un Sessantotto accelerato, durato 48 ore: la spinta al cambiamento di massa, che coinvolgeva la società civile, i centri sociali, le reti cattoliche, le organizzazioni giovanili dei partiti, le manifestazioni popolari e pacifiche devastate con l’uso feroce delle violenze di piazza, quei black bloc venuti dal nulla e nel nulla tornati. L’omicidio, il massacro, la sospensione delle garanzie costituzionali in una scuola e in una caserma, sotto gli occhi di ministri della Repubblica. La menzogna di Stato che mise al riparo i responsabili di vertice della macelleria messicana, primo fra tutti il capo della Polizia dell’epoca Gianni De Gennaro che non ha mai trovato il modo di dire una parola almeno di scuse, a differenza di quanto fece undici anni dopo il suo successore Antonio Manganelli e poi quattro anni fa con nettezza Franco Gabrielli, oggi sottosegretario: «Se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia». E infine il riflusso di chi aveva allora venti o trenta anni e che non ha più voluto sapere di un’impresa collettiva dopo l’incontro con la politica e con le istituzioni violento e bugiardo. Genova è anche questo: l’occasione perduta, la fine dell’impegno, la voragine. Il buco nero in cui è precipitato tutto. «Ho cominciato a scavare nella memoria e mi sono ricordato di qualcosa che non ho mai tirato fuori. Quando dico che quelle giornate hanno cambiato il mio rapporto con l’autorità e con le divise non penso al fatto soltanto che ci hanno menato, e di più e più duramente, ma ci sono due fatti specifici che su me ragazzino ebbero un effetto devastante. La sera, dopo la morte di Carlo Giuliani, i cori delle forze dell’ordine: siete uno di meno. E sul corpo di Carlo Giuliani c’erano i segni delle sigarette spente su di lui», mi ha detto qualche mese fa Michele Rech Zerocalcare che firma la sconvolgente copertina di questo numero dell’Espresso. «Quello che è scomparso dopo Genova è stata la società civile. Quando succedeva qualcosa c’erano l’Arci, i cattolici e i centri sociali, assemblee cittadine, ognuno con le sue modalità declinava lo stesso tema. Gli unici che hanno resistito sono quelli che non avevano un approccio naif alla violenza. Tutti gli altri sono stati spazzati via». La Repubblica italiana, con gli uomini che oggi sono ai vertici delle istituzioni, ha il dovere di fare verità su quelle giornate di venti anni fa, anche a questo servono le ricorrenze. Soprattutto se le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rilanciano l’orrore di funzionari dello Stato in divisa che picchiano, oltraggiano, sputano, fanno inginocchiare detenuti a loro affidati. Lo Stato ha il dovere di ricucire la ferita di quelle giornate di sospensione della democrazia. E noi in questo e nei prossimi due numeri ripercorriamo con la memoria e il rigore di Simone Pieranni quelle giornate di Genova 2001: Piazza Alimonda e Carlo Giuliani, la scuola Diaz, la caserma Bolzaneto. Le sevizie, gli insulti, le umiliazioni, ancora il sangue. La tortura che ha portato l’Italia fuori dall’Europa. Ma quello che non si può recuperare è la generazione rimasta senza politica. E finita nell’anti-politica. «Il giorno prima dell’ultimo grande Flash del G8 a Genova, ero a Pegli con Gino Paoli: un bancomat finto, una macchina da demolire e Gino con una tuta bianca e una mazza che lo sfasciava, mentre dal palco io cantavo “Senza fine”. Il consiglio che davo a tutti era di stare alla larga dal G8, sarebbe stato pericoloso, ed è stato inutilmente terribile. È stato l’ultimo fenomeno spontaneo di massa che prevedesse il futuro prossimo in cui erano rappresentati tutti. C’era la rappresentazione di come sarebbe diventato il mondo da li a breve». Lo scrisse Beppe Grillo sul suo blog il 10 aprile 2017. Lui, genovese, al G8 non c’era, era sul palco dell’arena estiva di villa Doria a Pegli con l’amico Gino Paoli, faceva ancora l’uomo di spettacolo, nessuno avrebbe mai immaginato la sua metamorfosi in capo politico. Ma parlò, anche in quei giorni, un mese dopo il G8, in un’intervista alla Stampa. «Avrei voluto che quelli del Social Forum avessero finto di andare a Genova a manifestare e poi trasferirci tutti al mare lasciando migliaia di poliziotti schierati a controllare strade e piazze vuote. Ma io sono un privilegiato: guardo a distanza. Gli altri, e sono ormai centinaia di migliaia di persone, hanno bisogno di rendersi visibili. E hanno ragione... In che cosa consiste la differenza tra oggi e il ’68? La differenza è che questo è un movimento che ha mille anime: Greenpeace, Lilliput, il commercio equo-solidale, i cattolici, le tute bianche. La sua forza sta nella frammentazione. E nel volere cambiare qualcosa subito, non tutto domani. Per questo temo molto che qualcuno possa mettersi alla sua testa e modificarlo imponendo una strategia comune. Ho paura di un leader. E ne ho più paura ancora se va a parlare da Costanzo». È lo stesso Grillo che oggi, venti anni dopo, ha fondato il primo partito italiano e ha distrutto la figura dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo averlo creato. La paura del leader è anche la paura di dover lasciare la creatura Movimento 5 Stelle e il potere a un altro. In mezzo ci sono questi due decenni. In cui è stata sconfitto il sogno di un altro mondo possibile, di un’altra politica, come la chiamò Stefano Rodotà, all’indomani della vittoria referendaria su nucleare, acqua pubblica e giustizia quando la sera del 13 giugno 2011 ventisette milioni di persone escono di casa per votare sui referendum sull’acqua pubblica, sull’energia, sulla giustizia uguale per tutti. «Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla... Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri» (Repubblica”, 16 giugno 2011). Non una rivolta anti-politica, ma la richiesta di politica, di un’altra politica. Sconfitta in questi anni, dopo essere stata violentata a Genova. Lo si vede nelle classi dirigenti dei partiti del centro-sinistra, lontane da quelle esperienze, a differenza di quanto successo in altri paesi mediterranei, in Spagna, in Grecia, dove Pablo Iglesias e Alexis Tsipras, comunque si voglia giudicare la loro parabola, sono arrivati al governo dei loro paesi partendo dalle strade di Genova. Lo si vede nella società civile che si è tenuta lontana dalla politica. E dalla qualità delle battaglie e delle campagne. Oggi le piazze si riempiono dei ragazzi e delle ragazze dei Gay Pride che manifestano in modo collettivo per i loro diritti individuali, a partire da quello di non essere discriminati. E poi la libertà di scegliere la propria identità, il genere, la felicità personale. È come se l’altro mondo possibile si fosse ristretto per ognuno nei confini della propria esistenza. I cortei giovanissimi dei Fridays for Future sono evaporati durante la pandemia: forse proprio per l’impossibilità di un rapporto con la politica. E in Italia, da ultimo, il movimento delle Sardine è stato un sintomo della malattia, la separazione tra la società e la politica, ma anche la dimostrazione di una impossibilità di rapporto. Perché l’altra politica è l’aspirazione a un cambiamento, ma anche costruzione di politica: le regole del conflitto, una generazione che si scontra con l’altra, la conquista del potere, non un pranzo di gala. L’altra politica è la politica. Senza la politica c’è la pura gestione, l’affidamento a sedi decisionali estranee ai meccanismi democratici, o l’inseguimento del popolo di cui parla lo storico Giovanni Orsina con David Allegranti in un libro appena uscito per Luiss University Press: «Se l’antipolitica si regge sulla politica, finisce anche per collocarsi allo stesso livello. Se scende la qualità dell’una, cala di conseguenza pure quella dell’altra». È la storia di questi ultimi anni e degli ultimi giorni. Tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, il vero anti-politico è stato il secondo, l’ex premier che ha preteso di farsi capopartito in virtù del fatto di aver guidato il governo. Una leadership calata dall’alto, artificiale, plasmata dagli strateghi della comunicazione e dagli adulatori che l’hanno costruita sui giornali, ma senza radice nel reale. Mentre Beppe Grillo, ancora una volta, ha dimostrato di aver del capo politico carismatico il senso del tempismo, la ferocia e il cinismo, la difesa strenua di quanto costruito. La tempesta che agita il Movimento 5 Stelle, il centro dello schieramento politico, minaccia di investire tutto il sistema, quando partirà il semestre bianco di Sergio Mattarella e si potranno rovesciare i tavoli senza pagare il prezzo del voto anticipato. Ma il vuoto di politica è cominciato da lì, da quelle strade di Genova venti anni fa. E da quella domanda di cambiamento stroncata con la violenza dagli uomini che indossavano la divisa dello Stato democratico.

“Io, pestato nella caserma di Bolzaneto. Tra le risate dei poliziotti e le urla di dolore degli altri ragazzi”. Valerio Callieri su L'Espresso il 7 luglio 2021. Il racconto delle violenze subite nei giorni del G8 di Genova del 2001. “La cosa peggiore è sentire quello che stavano subendo gli altri arrestati”. Il 21 luglio 2001 vengo arrestato dalla polizia e portato nella caserma di Bolzaneto. È mezzogiorno e nell’aria sono svanite le nuvole di lacrimogeni del giorno precedente, quando un colpo di pistola sullo zigomo ha ucciso Carlo Giuliani. (…). Confesso che non conoscevo bene la storia del G8, prima di andare a Genova a protestare contro il suo ventisettesimo vertice. Se guardo le facce dei leader di allora, oltre a Berlusconi mi appare il suo amico, il sempiterno Putin, gli sconosciuti (a me tuttora) Koizumi e Chrétien (rappresentanti rispettivamente del Giappone e del Canada), il francese Chirac e il suo centro-destra lontanissimo dagli standard estremi della destra europea attuale, Gerhard Schröder e Tony Blair, simili a souvenir di una sinistra vincente che non ha più vinto forse proprio a causa della loro eredità (tutto ciò è volutamente ambiguo, anche perché ci vorrebbero diverse centinaia di pagine per gettare luce sull’argomento), e poi George W. Bush che da lì a poco traghetterà gli Stati Uniti nel terzo millennio privando milioni di uomini, donne e bambini di scuola, sanità e sicurezza – oltre a ucciderne centinaia di migliaia, alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq e Afghanistan (a proposito: in compagnia del leader della sinistra della terza via, Tony Blair). Sembra incredibile a raccontarla così, ma per giustificare l’invasione militare inventarono la presenza di armi chimiche o batteriologiche in Iraq e in molti credettero veramente a questa storia, e con “molti” intendo politici, giornalisti, professori, persone che in teoria dovrebbero avere dimestichezza con certi giochini di guerra governativi. Gli Stati Uniti non crearono un casus belli iconico come la defenestrazione di Praga, né romantico quanto il ratto di Elena, ma nemmeno tentarono di infilare di soppiatto un paio di bombe sporche nella cantina di Saddam Hussein. Le forze dell’ordine italiane a Genova, invece, cercarono di fare proprio così. La scuola Diaz era un edificio che il comune di Genova aveva dato in gestione ai manifestanti. La sera del 21 luglio alcuni di loro lo usarono per farsi una dormita prima di tornare a casa. Quando la polizia irruppe, piazzò delle bottiglie molotov per mostrare che coloro che poi massacrò erano individui violenti, famigerati black bloc che per due giorni si erano dedicati alla meticolosa distruzione di vetrine e simboli multinazionali. Quando ci penso, mi appare sempre una scena del genere: i poliziotti entrano alla chetichella nell’edificio con una busta della spesa contenente due molotov e si domandano dove piazzarle esattamente per far sì che la busta risulti proprietà legittima dei manifestanti; uno di loro ha la vocina petulante di Steve Buscemi nel film “Fargo” e avanza tutte ipotesi improbabili – «Le mettiamo qua nel sacco a pelo? Nella tasca della tizia tedesca? Ci scriviamo sopra il nome con il pennarello, tipo festa della scuola media? Ma se poi riconoscono la mia calligrafia?» –, mentre l’altro ha la faccia ottusamente feroce del suo collega criminale Peter Stormare e dice solo «No!» e fuma, ed entrambi hanno la barba ben rasata, gli occhi stanchi e la convinzione – giustissima, tra l’altro – di essere abbastanza intoccabili. Chissà se osservano o partecipano al pestaggio collettivo in atto? Non lo descriverò. Mi torna sempre in mente la foto del termosifone giallastro sporco di sangue con ciuffi di capelli appiccicati. (…). Io ho preso diversi colpi, calci e pugni, sono stato costretto a stare in piedi con le mani sopra la testa e appoggiate al muro per diverse ore – quasi un giorno – senza mangiare né bere, ho ricevuto insulti abbastanza prevedibili (l’immancabile zecca, tua madre fa questo e quello, sfasciavetrine) e ascoltato canzoncine che inneggiavano alla morte degli ebrei e dei negri e alla grandezza di Pinochet e del duuu-ce (...). Credo di essere stato fortunato: non mi hanno spaccato i denti a calci, non mi hanno fratturato un braccio, non mi hanno inondato gli occhi di spray al peperoncino, non ho riportato un’emorragia cerebrale o toracica, non mi hanno minacciato di stupro, non mi hanno lanciato per le scale a testa in giù, non mi hanno spento sigarette sulla pelle, non sono andato in coma e non mi hanno sventolato un cazzo a pochi centimetri dal naso. In realtà, se devo dirla tutta, la cosa che più mi ha terrorizzato della mia permanenza a Bolzaneto non è stato quello che ho subìto, ma quello che sentivo stavano subendo gli altri. Nella nostra cella arrivavano le urla terribili di altri manifestanti, urla che sono rimaste per diverso tempo aggrappate ai ricordi delle settimane successive. Devo anche ammettere il sollievo codardo di non essere là e la paura tremenda che sarebbe presto toccato a noi, cosa che in parte accadde, e poi l’arrivo improvviso dell’elemento che più di tutti mi spinge a chiedermi cos’è un essere umano: le risate. Insieme alle urla di dolore, sentivo le risate. È qualcosa che non t’aspetti, perché le grida di dolore di tante persone in qualche strage o film le abbiamo sentite, però le risate, le risate no. Ovviamente la scena de Le iene con lo psicopatico che tortura ridendo il poliziotto l’abbiamo vista, ma le urla provenivano da una persona sola e lo psicopatico era caratterizzato come psicopatico appunto, perfino gli altri rapinatori lo schifavano. Poi ci sono il pestaggio del barbone e lo stupro di gruppo di “Arancia meccanica”, però, anche lì, gli autori erano ragazzotti iperstimolati e violenti, non propriamente forze dell’ordine. A mia memoria, ma potrebbe essere soltanto uno stereotipo del mio immaginario, i film con nazisti mostravano sempre personaggi molto freddi che ascoltavano Beethoven durante o dopo lo svolgimento delle loro mansioni. Anche se la realtà delle foto sbucate dal carcere di Abu Ghraib con i sorrisi dei militari americani davanti a corpi umani accatastati e abusati in maniera orripilante ha raccontato altro. Come per le armi di distruzione di massa e le molotov, quelle foto sembrano essere la versione pornografica proiettata su un maxischermo di ciò che accadde a Genova due anni prima. E poi: sono risate di scherno verso la vittima o sono risate di reale divertimento per il dolore inflitto alla zecca-negro-puttana-nano-frocio? Sono risate per cementare una relazione tra duri, tra uomini in divisa che ne hanno viste così tante che questi ragazzini fanno semplicemente ridere? Sono risate del bambino che può permettersi il piacere di fare ciò che vuole? Davvero, mi fa impazzire: non riesco a capire come è possibile ridere mentre si infligge dolore e si vede il dolore negli occhi di un’altra persona immobile. (...)

LA RICOSTRUZIONE. Genova, 20 luglio 2001.

“Massacrateli”: vent’anni fa, nei giorni del G8, la carica dei Carabinieri al corteo No Global in via Tolemaide e la morte senza giustizia di Carlo Giuliani. L’inizio di una guerra dentro le forze dell’ordine in cui furono stroncati i movimenti democratici. Simone Pieranni su L'Espresso il 2 luglio 2021. «Di Furia, quanti siete? Siamo 72 incazzati come bombe. Ok va bene signor maggiore. Mandateci a lavorare per Dio. Va bene». Il maggiore Di Furia scalpita. È fermo da ore, senza ricevere ordini, mentre i suoi «colleghi» stanno affrontando quella che poi verrà descritta alla stregua di una guerra. Il 20 luglio 2001 Di Furia ha un problema: «Io ho già tutto il personale sui mezzi, i mezzi accesi, mi basta solo un via libera da parte vostra quando volete. Dobbiamo ricattare la questura per farci liberare. Perché io lo ammazzo questo funzionario, odio più lui dei no global, se dessero fuoco alla questura farei festa». Hanno voglia di buttarsi nella bolgia, lui e i suoi uomini. Le sue dichiarazioni passano inosservate all'interno di processi che proveranno a dipanare – con l'utilizzo di oltre 300 ore di video e 15 mila fotografie, perché il G8 di Genova fu anche un evento mediatico benché in un mondo senza ancora i social - quanto successo in quei tre maledetti giorni, a Genova, nel 2001; dinamiche via via sporcate da testimonianze reticenti, da un'omertà di corpo e da ben più congegnati tentativi di depistare alcuni rivoli dei procedimenti. Mentre Di Furia cerca un modo per partecipare, finendo per lanciare un augurio ai suoi colleghi, «massacrateli», si consuma la carica più terribile del 20 luglio (il giorno dopo ce ne sarà un'altra in corso Italia, con il corteo spezzato in due e i manifestanti rincorsi perfino sulla spiaggia). Il corteo autorizzato dei Disobbedienti sta attraversando via Tolemaide: è la trappola perfetta perché da una parte c'è il muro della stazione, dall'altra c'è il reticolo di piccole vie e cortili interni di palazzi. Più avanti c'è un tunnel, che porta verso lo stadio (e il carcere). Ma soprattutto il problema è dietro: migliaia di persone ammassate. I carabinieri incrociano il corteo; in teoria dovrebbero andare oltre, le comunicazioni dalla questura sono chiarissime. Nell'ordine pubblico comandano i poliziotti e l'invito ai carabinieri è esplicito: attraversate il tunnel e andate verso Marassi dove c'è un gruppo di manifestanti che sta assaltando il carcere. Ma i carabinieri girano a sinistra e poi a destra e caricano. «Sò da Rai», è l'urlo di un giornalista, uno dei primi a essere colpiti, lì accanto al plotone. La carica è durissima, così come la risposta del corteo: da lì, gruppi di manifestanti e carabinieri cominceranno una danza macabra tra le vie di Genova che avrà il suo epilogo in piazza Alimonda. Carlo Giuliani muore a seguito della carica di via Tolemaide. I manifestanti sotto processo per devastazione e saccheggio verranno condannati con centinaia di anni di pene, ma i procedimenti hanno avuto se non altro il merito di svelare le tante guerre che in quei giorni si sono svolte all'interno delle forze dell'ordine, un mondo chiuso, i cui movimenti democratici hanno finito per soccombere all'interno di una «organizzazione» che non prevedeva altro che un vero e proprio scenario di battaglia a Genova. E durante i processi, carabinieri e poliziotti hanno testimoniato tra una miriade di «non ricordo», contraddizioni rispetto a relazioni di servizio incomplete, affannate, talvolta palesemente differenti da quanto, in aula, mostreranno i video. La sfilata di uomini delle forze dell'ordine – con personale della Digos sempre presente nel tribunale di Genova, pronto a registrare qualsiasi presenza e comportamento, tanto della difesa quanto degli spettatori – ha caricato di tensione uno degli aspetti più indagati dalla difesa dei manifestanti, ovvero la formazione di reparti speciali dei carabinieri, creati ad hoc per Genova. Il curriculum dei capi di queste formazioni era di tutto rispetto. Dalla Fiera, a Genova comandava il generale Leonardo Leso. Si trattava di un'autorità: fondatore e capo in Bosnia e Kosovo delle Msu, Multinational specialized unit, la polizia internazionale finanziata dalla Nato, era anche a capo della seconda brigata mobile dell'Arma che aveva lo scopo di addestrare e coordinare i reparti in missione di guerra. Tra i suoi uomini, parà Tuscania, teste di cuoio dei Gis e Ros. Con Leso ci sono Claudio Cappello, poi maggiore, e Giovanni Truglio: nel 1994 sono tutti insieme in Somalia e vengono citati nel memoriale dell'ex parà Aloi fra «gli autori o persone informate delle violenze perpetrate contro la popolazione somala». L'inchiesta fu archiviata. Cappello, dopo Genova, venne mandato a comandare l'unità militare a Nassiriya (si salvò dalla strage perché era in bagno) e ad addestrare la nuova polizia irachena. A Genova c'erano i capi delle missioni italiane all'estero. Era lecito dunque presupporre una certa esperienza nel gestire una piazza ribollente, ma sono proprio i carabinieri a fare il disastro: uccidono un manifestante. Non solo, perché il 16 novembre 2004 nelle aule genovesi c'è una piccola svolta. A testimoniare arriva il capitano dei carabinieri Antonio Bruno; di fronte al materiale video e fotografico, Bruno non può far altro che confermare una cosa mai emersa prima: i carabinieri che hanno caricato il corteo delle tute bianche oltre ai normali manganelli in dotazione all'Arma, hanno utilizzato oggetti contundenti «fuori ordinanza», tra cui mazze di ferro. Un altro elemento che conferma certe intenzioni, emerse da tutto il materiale agli atti dei processi genovesi, nonché particolare rilevante pensando a quanto succederà da lì a poco. La dinamica dei fatti da via Tolemaide a piazza Alimonda è stata al centro del processo contro i manifestanti: gli avvocati difensori hanno provato a scardinare il blocco di carabinieri e polizia al riguardo, per aprire uno squarcio dal grande anello mancante dei processi genovesi, quello per la morte di Carlo Giuliani le cui indagini partirono subito con l'avviso di garanzia a per omicidio volontario ai carabinieri Mario Placanica (ausiliario, in quel momento al sesto mese di servizio) e Filippo Cavataio (l'autista del Defender). Nel dicembre 2002, però, il procuratore Silvio Franz avanza la richiesta di archiviazione per Mario Placanica (per legittima difesa) e per Filippo Cavataio (nel referto dell'autopsia di Carlo Giuliani, i medici legali Marcello Canale e Marco Salvi escludono che il doppio passaggio del Defender sul corpo di Carlo gli abbia potuto procurare lesioni mortali). Il procedimento per l'omicidio di Carlo Giuliani viene infine archiviato il 5 maggio 2003 dal giudice per le indagini preliminari Elena Daloiso che accoglie la richiesta del pm per legittima difesa, ma anche per «uso legittimo delle armi in manifestazione». Questo vuoto processuale viene colmato, in parte, dal procedimento contro i manifestanti. A sfilare nelle aule di Genova, infatti, sono i video e le foto dei momenti precedenti a piazza Alimonda: proprio quella girandola di movimenti di plotoni e Defender che nella sentenza di archiviazione di Daloisio non sono presi in considerazioni. I momenti del processo nelle aule genovesi sono drammatici, specie quando è il momento dei principali protagonisti. Mario Placanica, chiamato a deporre nel 2005 si avvale della facoltà di non rispondere; la seconda volta, nel giugno 2007, decide di parlare. Racconta che «praticamente io dovevo lanciare dei lacrimogeni e il capitano Cappello non ha voluto che li lanciassi, si è preso dalle mie mani il lanciagranate e ha iniziato a sparare lui con il lanciagranate; la granata vera e propria si divide in due con un nastro, io dovevo togliere quel nastro e darglielo al capitano Cappello, in questo caso io mi sono sentito male e mi hanno fatto andare sulla camionetta». È così che Placanica finisce sul Defender: in stato confusionale, nel mezzo delle cariche. La percezione, dalla sua testimonianza e da quella di altri carabinieri, è quella di una totale perdita del controllo sulla situazione. Riavvolgiamo rapidamente il nastro: i carabinieri caricano un corteo autorizzato, da lì si entra in una serie di scontri tra manifestanti e carabinieri. I Defender si muovono in modo goffo e complicato, fino ad arrivare a «piantarsi» in piazza Alimonda. Come ci arrivano? La deposizione di Placanica a questo punto si fa più interessante: «Noi eravamo dietro, seguivamo… non capisco perché a noi che eravamo feriti… non feriti, eravamo feriti, sì, perché io ero allucinato, non mi hanno soccorso, non capisco perché non mi hanno soccorso e invece hanno continuato a seguire il plotone». Il racconto di Placanica in pratica conferma una sua deposizione del settembre 2001 secondo la quale a un certo punto il plotone che stavano seguendo con il Defender, scappa, se ne va e lascia isolato «il mezzo». E chi c'è dentro. La situazione secondo Placanica era la seguente: «Ero allucinato io dai gas, non è che potevo… non avevo nemmeno acqua da mettere agli occhi per poter asciugarli, per poter lavarli, come facevo, ho intuito tutto quel casino, però non… non so nemmeno chi sono i no global». A quel punto l'autista decide di fare retromarcia, per scappare. Ma non ci riesce; Placanica a proposito usa il termine «incagliato». C'era un cassonetto, dice al pm, «però non lo so che manovra abbia fatto l'autista, non ero davanti seduto con lui». Quindi il Defender si è fermato?, chiede il magistrato. «Sì, si è fermato, si è spento». Poi arrivano i due spari, in aria, dice Placanica. Dopo gli spari, entrano in scena il sasso, la ferita «a stella» che compare sulla fronte di Carlo e soprattutto la confusionaria e a tratti dilettantesca «cristallizzazione» della piazza da parte di carabinieri e polizia (si scoprirà poi, anni dopo, che presente in piazza nell'immediatezza dei fatti c'era Renato Farina, la fonte "Betulla" del Sismi smascherata dall'indagine su Abu Omar). Il famoso sasso appare vicino a Carlo solo dopo che le forze dell'ordine hanno «bonificato» la piazza. Poi scompare, per riapparire, insanguinato, a fianco al corpo nelle foto della scientifica. Durante il suo esame nelle aule genovesi il vicequestore aggiunto Adriano Lauro ha riconosciuto la pietra: l'avrebbe vista al fianco di Carlo, mentre i sanitari toglievano il passamontagna. Peccato che le foto mostrate dalla difesa in aula abbiano dimostrato che invece, in quel momento, il sasso non c'era. Ma attenzione a Lauro: è lui che urlò ai manifestanti «lo hai ammazzato tu, sei stato tu con il sasso, pezzo di merda». Ma è lo stesso Lauro che in aula di tribunale si riconosce in un video mostrato dalla difesa. A quel punto l'avvocato Emanuele Tambuscio sfodera un piccolo colpo di scena: Lauro viene ripreso mentre scaglia pietre contro i manifestanti. È uno dei tanti momenti imbarazzanti per le forze dell'ordine nelle aule genovesi. L'ipotesi del sasso che devia il proiettile fu inoltre smentita dal medico legale della procura genovese Marco Salvi, che fece l'autopsia: «Lo sparo apparve diretto e non deviato». Lo stesso Salvi lo confermò in aula di tribunale, specificando che la Tac cui fu sottoposto il corpo di Carlo Giuliani «evidenziò un frammento radio-opaco nel cranio del ragazzo», frammento «assolutamente metallico» che però non venne trovato in sede di autopsia. Ma su tutto questo, sui tanti dubbi, sulle contraddizioni, non si è potuto fare di più: Carlo Giuliani muore e la sua morte rimane senza un processo. E secondo tanti, senza giustizia.

Il ricordo. Genova fu premeditata, dopo 20 anni ne restano le macerie che nessuno vuole toccare…Nicola Biondo su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Entrare al Viminale due giorni dopo la mattanza di Genova fu una lezione indimenticabile. Era lunedì 23 luglio, passai i controlli e con qualche centinaia di passi raggiunsi la palazzina della DCPP – Dipartimento Centrale di Polizia di Prevenzione – l’ex-Digos, la polizia “politica”, il sancta sanctorum di mille storie italiane. Tutti, dalla portineria agli uffici dei dirigenti, avevano letteralmente i visi segnati, lividi. E no, non erano i segni della battaglia genovese. Perché nessuno di quei poliziotti a Genova ci aveva messo piede. E i loro visi lo testimoniavano: nessun graffio, solo tracce evidenti di furia e vergogna. Questo è uno dei segreti di Stato che tutti conoscono, che pochi hanno raccontato ma con il quale la politica e la stessa polizia non hanno mai voluto fare i conti. Genova fu premeditata. Una gigantesca esercitazione senza regole. E a rivederla adesso dopo un ventennio non salva nessuno: forze dell’ordine, politica, magistratura e media. Fu premeditata da una parte, quella assai minoritaria dei black block ma soprattutto dall’altra, quella che avrebbe dovuto garantire due diritti fondamentali: sicurezza e libera espressione. Facendoli a brandelli entrambi. “Nessuno di noi va a Genova, nessuno di noi che conosce la piazza, che lavora a stretto contatto con l’attivismo politico andrà a Genova. Chiediti il perché. Perché sarà un’esercitazione, senza alcuna regola”. Queste furono le parole precise che pubblicai poco dopo i fatti e che da vent’anni si sono conficcate nella mia testa. Alle quali si aggiunsero queste. “Rimaniamo tutti a casa e in compenso acquistano 300 sacchi da morto e mandano plotoni di ragazzini della celere ideologicamente schierati”. Appartengono ad un alto dirigente della Polizia di Prevenzione, scandite una settimana prima del 19 luglio 2001. Prevenzione se si parla di Genova è una parola che sa di beffa. Perché tutto era previsto e tutto si fece per evitare di prevenire. Tutti giocarono alla guerra simulata finché la guerra diventò reale. Genova per la sua morfologia urbana fu il campo di battaglia perfetto e l’esercitazione iniziò settimane prima, con un obiettivo: intrappolare l’avversario. Le due parti in campo, gli stati maggiori delle forze dell’ordine e del Social Forum che trattarono percorsi, logistica e una serie di azioni simboliche, provarono ad irretire l’avversario, a mostrarlo come un trofeo conquistato. Giocarono alla politica, costruendosi ognuno un alibi se le cose fossero deragliate. Perché un patto tra le due parti c’era, chiaro e sottoscritto. Percorsi stabiliti con un simbolico “sfondamento controllato” della zona rossa da parte di pochi manifestanti autorizzati in favore di telecamere. Il Fort Apache dei potenti della Terra sarebbe stato violato in mondovisione e poi tutti sarebbero tornati nella loro bolla. La domanda a cui nessuno dei vertici delle forze dell’ordine ha mai voluto rispondere è questa: perché l’accordo è saltato? Il retro-pensiero lo avevano entrambi i protagonisti. Gli organizzatori non avevano previsto un servizio d’ordine per possibili infiltrazioni violente (è un problema di ordine pubblico in capo alla polizia, spiegavano) e forti di quell’accordo mantenevano la sicurezza data dalla presenza di migliaia di telecamere che avrebbero documentato ogni possibile violazione da parte degli apparati. Questa semplice dicotomia ovviamente franò da ogni parte. A distanza di venti anni sono dieci le cose che vanno ricordate, dieci gli avvenimenti principali della storia della più lunga sospensione dei diritti costituzionali avvenuta sotto il regime repubblicano. Eccoli.

1) Il livello della tensione fu fatto salire artificiosamente attraverso i media: rischio attentati, sacche di sangue infetto da tirare contro gli agenti, allarmi bombe. Per oltre un mese si apparecchiò la tavola. Ovviamente non successe nulla di questo.

2) Gli apparati di sicurezza si lasciarono “sfuggire” centinaia di contestatori violenti che misero a ferro e fuoco Genova. Indisturbati. Nessuno del blocco nero venne mai arrestato in flagranza di reato, chi in primo grado venne condannato fu assolto perché non c’erano prove. Non vi fu, notate bene, alcun contatto tra black block e forze dell’ordine.

3) Il corteo autorizzato delle Tute Bianche, quello che secondo i patti sarebbe dovuto sfociare in una breve invasione simbolica nella zona rossa, venne caricato con una violenza mai vista. Il motivo non è mai stato spiegato. Senza la carica di Via Tolemaide la storia di quei giorni sarebbe stata diversa. Piccolo particolare: su quella via alla fine di ore di scontri si conteranno decine di bossoli a terra. Un unicum nella storia degli scontri di piazza, una scena degna di Bava Beccaris.

4) L’esercitazione senza regole, prevista da alti dirigenti del Viminale, si dispiegò domenica 22 luglio. Avendo schierato “l’artiglieria pesante” le forze di polizia non potevano proteggere Genova e i manifestanti dalla velocità da guerriglieri di strada dei black block. Incassato il fallimento del giorno prima e lo sdegno per la morte di Carlo Giuliani, si videro agenti armati e bardati in modo non legale picchiare selvaggiamente adolescenti, signori di mezza età, finanche portatori di handicap. La macchina mediatica fu dispiegata a pieno regime: nelle redazioni dei giornali mentre andava in scena la mattanza genovese arrivò la notizia che il leader delle Tute Bianche, Luca Casarini, si trovava placidamente assiso in un ristorante di Genova altezzosamente lontano dai lacrimogeni e dalle mazzate.

5) Le centinaia di arresti di cui ci si vantava nella sala globale della questura di Genova prevedevano il reato di saccheggio e devastazione, pena massima quindici anni. Centinaia di persone vennero picchiate e torturate nelle carceri secondo un protocollo parallelo. Ad ogni visita dell’inviato del Dap Alfonso Sabella nei luoghi di detenzione gli agenti tiravano su il sipario celando l’orrore. Quando Sabella provò a dimostrare di non aver mai messo piede nei luoghi delle torture si scoprì che i tabulati del suo telefono erano stati cancellati.

6) La mattanza del 22 luglio aveva fatto breccia nell’opinione pubblica. Pur con la lentezza dei modem di allora foto e video invasero internet arrivando ovunque nel mondo bucando la cortina dei media. Bisognava correre ai ripari. La scuola Diaz, il quartier generale degli attivisti e dei media del Social forum fu letteralmente presa d’assalto. Con una semplice scusa: lì ci sono le prove che la devastazione di Genova era un loro disegno. Ma era un depistaggio, fatto pure male. Che se non ci fossero di mezzo sangue, ossa rotte e disturbi da stress durati anni verrebbe in mente Totò-truffa: alla Diaz la polizia lascia bombe molotov e si inventa che un agente sarebbe stato accoltellato. Mezza Italia tira un sospiro di sollievo: i soliti facinorosi, se la sono cercata.

7) Non serve tirare le fila. Basti ricordare che i vertici della Polizia erano rispettivamente Gianni De Gennaro e Arnaldo La Barbera, responsabile della Polizia di Prevenzione. Nel 2001 erano due eroi della lotta alla mafia. La Barbera non si era mai occupato di ordine pubblico, era un “mobiliere”, una vita passata alla Squadra mobile. Non solo: di lì a poco si scoprì che aveva “storto”, depistato le indagini sulla strage palermitana di via D’Amelio obbedendo ad ordini rimasti senza padrone e senza un perché. Anche per Genova La Barbera obbedirà ad ordini superiori e lascerà a casa i suoi uomini più capaci: come per via D’Amelio serviva “vestire il pupo” e spiattellare il colpevole perfetto. Serviva il caos per l’esercitazione senza regole contro migliaia di civili. De Gennaro ha una mente politica, dove La Barbera era un semplice esecutore. Chi conosce l’ex-capo della Polizia sa bene che non è uso prendere ordini dalla politica, semmai è il contrario. Il fallimento della strategia di ordine pubblico rimane ancora adesso una macchia indelebile. Con una semplice domanda come conseguenza: nel 2001 avevamo una polizia composta da dilettanti?

A Genova non ha sbagliato qualcuno. Genova doveva andare così. Si è fatta politica con la violenza e sospendendo le leggi. Risultato? Dopo il 2001 non si è mai più vista in Italia una mobilitazione di massa simile, scollegata dai partiti e di natura internazionale. La lezione di Genova spiega molte cose avvenute in questo inizio millennio.

8) La macchia indelebile è rimasta anche sulla magistratura. Il procuratore di Genova mise a punto, prima del G8, un provvedimento illegale che, preventivamente, vietava i colloqui tra arrestati e difensori. Ne consigliamo la lettura al Ministro Marta Cartabia. Dei 280 arresti del 22 luglio 2001 nessuno venne convalidato, la procura di Genova chiese per tutti la conferma del fermo senza prove e non emise alcun decreto di liberazione. Per tutta la durata del G8 furono sospesi i più elementari diritti, fatto che permise le torture sistematiche nelle carceri. Il caso fu sollevato fino al Csm che stese il suo velo pietoso.

9) La politica di qualcosa si accorse. Rimasero inascoltate le parole di Giancarlo Galan, centro destra, allora presidente del Veneto come quelle del sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, centro sinistra: amministratori capaci di governare il dissenso. Ma la sinistra istituzionale lasciò che tutto venisse gestito “manu militari” quando invece Genova era politica. Sempre per l’insano vizio di scegliere l’accreditamento politico invece che la tenuta del sistema dei diritti. Lo ha fatto negli anni ’70, nei ’90 con Mani Pulite, a Genova nel 2001. Mai stare a sinistra degli eredi del Pci, la prendono come un’offesa personale.

10) Nessuna di queste domande ha avuto soddisfazione nelle aule di tribunale perché era compito della politica, farle e ottenere risposta. E se questo non è avvenuto è per un semplice motivo che si chiama Antonio Di Pietro, proprio lui, il giudice che sognava di ripulire l’Italia. Nel 2006 si oppose, con la sponda di Luciano Violante, alla commissione d’inchiesta sui fatti di Genova che promise nel suo programma di governo. La politica delle questure e delle toghe vinse su quella del Parlamento. E’ così che le macerie di Genova sono ancora tutte lì e nessuno le ha mai volute toccare. Nicola Biondo 

La guerriglia urbana. Chi sono i Black Block, le azioni del “Blocco Nero” e le devastazioni al G8 di Genova del 2001. Vito Califano su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Qualsiasi persona indossasse abiti neri, e spesso (strumentalmente) qualsiasi persona manifestasse, diventò un membro del “Black Bloc”. Erano i giorni del G8 del 2001 e Genova era totalmente nel caos e l’Italia guardava in televisione gli scontri di un evento con il quale il Paese deve fare ancora i conti, dopo vent’anni. Il “Blocco Nero” era raccontato come una sorta di organizzazione, anche se un’organizzazione non è. Più una tattica di guerriglia urbana che cerca lo scontro e il vandalismo. “Un altro mondo è possibile”, era lo slogan del movimento riunitosi a manifestare sotto l’egida del Genoa Social Forum che riuniva realtà diverse tra loro: anarchici, sinistra, ambientalisti, anticapitalisti, no-global, contestatori della grande finanza mondiale. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, degenerarono rapidamente per via dell’impostazione disastrosa e violenta delle forze dell’ordine e dell’apporto di frange estreme della contestazione. Genova era divisa in tre zone, in quei giorni: la Zona Rossa, interdetta; quella Gialla, dove i movimenti erano limitati; quella Verde, dove le manifestazioni erano state permesse e autorizzate. Il vertice tra gli otto Grandi della Terra – George W. Bush, Vladimir Putin, Tony Blair, Jacques Chirac, Gerhard Schröder, Junichiro Koizumi, Jean Chrétien e Silvio Berlusconi – iniziò ufficialmente venerdì 20 luglio. Scoppiò comunque il caos: manganellate, molotov, negozi saccheggiati, auto distrutte, cassonetti divelti, lacrimogeni e sangue. Il termine “Black Bloc” divenne rapidamente popolare. Era nato in Germania (Schwazer Block) all’inizio degli anni ’80: la polizia tedesca usava il termine per indicare gli Autonomen, estremisti di sinistra che alle manifestazioni indossavano maschere e abiti nere. Il termine fu quindi adottato nelle manifestazioni contro il Pentagono nel 1988, contro la Prima Guerra del Golfo nel 1991 e in occasione del G8 di Seattle nel 1999, tutte negli Stati Uniti. E quindi a Praga durante la riunione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale nel 1999; in Québec, Canada, contro il vertice delle Amercihe; a Goteborg, in Svezia, contro il Consiglio Europeo dell’Unione Europea. Più che un movimento, una vera e propria organizzazione, si tratta (o almeno così sono sempre stati considerati) come singoli individui che agiscono in gruppo ma uniti nelle intenzioni. Le manifestazioni diventano occasione di guerriglia urbana per il Blocco, che cerca lo scontro violento con le forze dell’ordine. La strategia definita come quella principale del blocco: infiltrarsi nei cortei pacifici e quindi dividersi per agire. Il “Blocco” si è ispirato anche al gruppo anarchico DAN (Direct Action Network) attivo negli USA negli anni ’90. Sono vestiti di nero, per l’appunto, e in maniera da celare l’identità. Spesso armati: spranghe, bastoni, molotov. Di solito il “Blocco” viene agitato da un piccolo gruppo iniziale che si compatta e comincia l’azione. A questo si uniscono spontaneamente altri in seguito. Gli obiettivi dei Black Bloc sono di solito le istituzioni, le banche e i negozi delle multinazionali. A Genova cominciarono puntellando i marciapiedi e l’asfalto fino a staccarne pezzi da usare negli scontri, nel lancio di oggetti. Poliziotti e carabinieri, in occasione del G8 di vent’anni fa, sono stati accusati di aver lasciato fare i gruppi violenti – anche per ore e prima dell’inizio delle manifestazioni e nonostante le telefonate dei cittadini – e di essere invece intervenuti duramente (i processi dimostreranno con violenza e perfino con armi improprie) contro i cortei pacifici. I “Black Bloc” sono diventati famigerati dopo i fatti di Genova 2001 che degenerarono con la morte del 23enne Carlo Giuliani e l’irruzione e le violenze della scuola Diaz. Altre occasioni nelle quali è stata riportata la loro azione in Italia sono state in particolare il corteo degli Indignados a Roma dell’ottobre 2011 e le proteste in occasione dell’inaugurazione dell’Expo nel maggio 2015 a Milano, nella zona di Corso Magenta, con una cinquantina di automobili incendiate e una trentina tra negozi, vetrine e abitazioni private devastate. Repubblica scrisse che furono circa 800 i Black Bloc che accesero gli scontri. 10 i fermati dalla polizia e 11 feriti tra gli agenti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 19 luglio 2021. A guardare nei ricordi, viene in mente l'ultimo momento di quiete prima della tempesta. Erano le nove del mattino di un venerdì soleggiato. Il colonnello dei Carabinieri Giorgio Tesser e il questore di Genova Francesco Colucci si erano presentati nella hall dell'hotel di Genova che raccoglieva i giornalisti venuti da tutto il mondo. Per «un caffè tranquillizzante», questa la frase che resta su un taccuino ormai scolorito, che doveva fugare i timori e le ansie che i media diffondevano «con inspiegabile esagerazione». Parlò solo il militare, ex giocatore di rugby. «Fidatevi, non succederà nulla». Strizzando l'occhio, spiegò che era recita, che i Black bloc avrebbero fatto un po' di casino, ma con gli altri, gli organizzatori del grande corteo che sarebbe sceso nel centro della città partendo dallo stadio Carlini, c'era un accordo. Li avrebbero fatti sfilare, avrebbero consentito a qualcuno di violare la zona rossa che proteggeva gli otto grandi della terra giunti nel capoluogo ligure per discutere tra loro. Dietro di lui, il questore che non aveva pronunciato parola, si mise la mano nella tasca dei pantaloni e procedette a un gesto scaramantico che rivelava i suoi dubbi. Appena fuori dall'hotel, i Black bloc stavano cominciando a picconare l'asfalto per fare scorta di pietre e sassi. Sono passati vent' anni, da quei giorni. Il G8 di Genova fu il punto d'arrivo e l'inizio della fine del movimento no global, chiamato così perché si batteva contro la globalizzazione. Era così grande che aveva molte anime, forse troppe. All'interno della sigla del Genoa Social Forum (GSF) confluirono associazioni che operavano in campi molto diversi l'uno dall'altro, unite però da una visione condivisa, ecologista, anticapitalista, contro il potere delle multinazionali e la perdita di controllo del singolo individuo rispetto ai meccanismi spesso oscuri della grande finanza mondiale. Lo slogan valido per tutti era che «un altro mondo è possibile». Ci arrivarono male, i no global, a quell'appuntamento così in anticipo sui tempi di una esperienza fatta di embrioni che ancora dovevano coagularsi in una sola entità. Nell'anno precedente il G8 di Genova, divenne chiaro che il movimento era diventato veicolo anche di soggetti indesiderati, come il cosiddetto Blocco nero, termine che in origine indica una tattica di protesta violenta. I segni che qualcosa di brutto sarebbe potuto accadere erano ovunque. Ma il G8, la riunione annuale dei grandi della terra, era ormai diventato una ossessione. Bisognava esserci, anche se ormai si parlava quasi solo di ordine pubblico. I capi del GSF caddero nella trappola, che era anche mediatica. Dichiararono guerra, in senso figurato, imposero condizioni, esercitando un potere che non avevano. Se questa è la premessa, quel che accadde dopo non ha alcuna giustificazione. Esistono i torti di una parte, lo Stato italiano, e le ragioni delle vittime, al netto dei loro peccati di presunzione. Ma quella mattina, le manifestazioni sembravano andare come previsto dal colonnello dei Carabinieri. I Black bloc avanzavano devastando ogni cosa sul loro percorso. Le pattuglie li accompagnavano scansandosi al loro passaggio. Tutto cambia all'improvviso nel primo pomeriggio. Come se il copione fosse stato riscritto senza avvisare la maggior parte degli attori. A poca distanza dai Black bloc, le quarantacinquemila persone che stanno scendendo dallo stadio Carlini vengono attaccate da una carica laterale dell'Arma che spezza il corteo. È un attacco violentissimo, che ancora oggi non trova alcuna spiegazione plausibile. Cosa è successo per giustificare un tale cambio di strategia? L'unica cosa certa è che mentre venivano trasmesse in mondovisione le immagini delle devastazioni dei Black bloc, l'allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini si presenta alla caserma San Giuliano dei Carabinieri, una visita non prevista. Alle 14.58 dalla centrale operativa dei «cugini» della Polizia si sentono le bestemmie del dirigente genovese che doveva coordinare le varie mosse delle pattuglie. «Noo... hanno caricato l'altro corteo... I Carabinieri non dovevano andare in via Tolemaide, che c... ci fanno lì, ma perché attaccano?». La domanda non ha ancora trovato risposta. Muore un ragazzo di 23 anni, ucciso in piazza Alimonda da un colpo di pistola sparato da una giovane recluta rimasto intrappolato in una Jeep assediata dai manifestanti inferociti. Aveva 23 anni, si chiamava Carlo Giuliani. In quello che ormai è diventato un delirio di violenza, anche lui lancia pietre, raccoglie un estintore, sta per scagliarlo verso la Jeep blu. Muore sul colpo. Il suo corpo verrà sfregiato da alcuni ufficiali desiderosi di dissimularne la causa della morte. La faccia che talvolta riaffiora sui muri delle città italiane è la sua. Carlo non era un no global, ne sapeva poco di quella storia. Ma ne diventerà un simbolo. Il peggio è accaduto, il peggio deve ancora accadere. Il giorno seguente, durante la manifestazione di chiusura del GSF i Black bloc infiltrano il corteo. La Polizia, alla quale è stato affidato il compito di sostituire i Carabinieri, li insegue e non fa distinzioni tra manifestanti pacifici e infiltrati. A sera, sembra finita. Invece no. All'interno della scuola Diaz ci sono un centinaio di no global che stanno trascorrendo la loro ultima notte a Genova. L'irruzione del reparto mobile di Roma guidato da Vincenzo Canterini verrà ricordata con la definizione data al processo da uno dei suoi uomini, una macelleria messicana. Una spedizione punitiva, una vendetta. Il tentativo maldestro di giustificare quell'intervento fabbricando prove false sarà oggetto di una lunga vicenda processuale che si concluderà con la condanna dell'intera catena gerarchica della Polizia per falso, mentre le accuse di lesioni sono andate prescritte. Per le violenze della Diaz e per le sevizie accadute nella caserma di Bolzaneto, dove venivano portati i manifestanti arrestati, pagheranno in pochi. A quell'epoca non esisteva ancora nel nostro Codice penale il reato di tortura, l'unico adatto a definire ciò che accadde. Sono passati vent' anni, e non è vero che non sappiamo nulla. Almeno esiste una percezione chiara di chi fu l'aggredito e di chi era l'aggressore. Il movimento no global sopravvisse alla ferita cambiando pelle. Fu obbligato a farlo, perché due mesi dopo ci fu l'undici settembre di New York. Iniziò la stagione delle grandi mobilitazioni contro la guerra. Poi ognuno andò per la sua strada, disperdendosi in mille rivoli. L'eredità di quei giorni è nella legge che introduce il reato di tortura, approvata nel luglio del 2017, sedici anni dopo. Genova 2001 non è stato l'inizio di nulla, anche se qualcuno sostiene che quei fatti hanno aperto la strada al populismo. Al massimo, ha segnato l'inizio di un modo di fare politica, o di un modo della politica di commentare ogni vicenda, dove i fatti vengono ignorati e si può dire ogni cosa e il suo contrario. E allora, perché raccontare questa storia un'altra volta? Forse, per quell'esercizio necessario della memoria che in Italia viene quasi sempre trascurato. Perché fu una pagina ignobile della democrazia, che allontanò dalla partecipazione alla vita pubblica una intera generazione. E perché ricordare è l'unico modo possibile per dire che non deve accadere mai più.

Nel lager di Bolzaneto. Violenze, torture, umiliazioni, minacce. Per i fermati ai cortei una prigione in stile cileno, in balia delle squadre Gom della penitenziaria. L’omertà dei responsabili: «Non sapevamo nulla». Le testimonianze: «Alle donne urlavano “Vi stupriamo come in Bosnia”». Simone Pieranni su l'Espresso il 19 luglio 2021. Prima di Bolzaneto, prima di arrivare alla caserma di Bolzaneto, c’era il viaggio. Durante questo tragitto «venivamo insultati ripetutamente, ci dicevano che andavamo in un posto dove ci avrebbero fatto morire e che eravamo delle zecche, comunisti, cioè insulti sopra la famiglia, cose così. E cose tipo zecche comunisti, vostra madre è una puttana. Cosa cazzo ci facevate qua? Vi porteremo in un posto dove morirete! Ve la faremo pagare». Con particolari più o meno simili si sono espressi in tanti che al termine delle giornate del G8 si ritrovarono a Bolzaneto, squarcio periferico genovese, nella Valpolcevera profonda e distante tanto dai luoghi degli scontri, quanto dalla scuola Diaz.

G8, 20 ANNI DOPO: IL DOSSIER. Arrivati alla caserma quasi tutti i testimoni hanno raccontato del benvenuto, il «comitato d’accoglienza» in un corridoio. «Vuole descriverci la situazione del corridoio come la ricorda?», chiede il Pm a un teste. «La situazione», risponde, «è che era appunto un corridoio, da quando si superavano i primi tre gradini si iniziavano a subire percosse e violenze dalla prima stanza». Dopo il «comitato d’accoglienza» era il turno delle «ali di corvo», un’altra espressione che abbiamo imparato a conoscere udienza dopo udienza, strazio dopo strazio. «Ci facevano stare a gambe larghe e fronte al muro. Mani alzate, sopra la testa, appoggiate contro il muro». A un testimone il pm chiede quanto tempo sia stato costretto in questa posizione. «So che sono rimasto in questa posizione», risponde in aula una vittima, «a lungo ed anche fuori dalla cella prima della…, della visita medica. Tanto da farmi svenire prima della visita medica». Altri frammenti di testimonianza sul clima respirato nella caserma, il cui scopo originario doveva essere quello di «smistamento» degli arrestati, prelevati a grappolo dalle manifestazioni: «Mi ricordo che è arrivata una ragazza che era molto spaventata, era molto impaurita, non capiva cosa stava succedendo e s’è sentita male, tipo le è venuta nausea, penso, aveva… le veniva da vomitare, ha chiesto più volte “posso andare in bagno, sto male, posso andare in bagno?”, le hanno sempre detto di no, finché non ha vomitato poco più… cioè lì vicino a dove stava inginocchiata, al che ha chiesto uno straccio, ha chiesto qualcosa per pulire, e le han detto no più volte, le han detto pure “ora pulisci con la lingua, a noi non ce ne frega se tu hai sporcato, ti tin ta ta” e… niente, alla fine non so, qualcuno le ha dato un fazzoletto, probabilmente qualcuna delle ragazze che stava nella cella, e ha pulito con quello. Poi dopo so che l’hanno fatta andare in bagno, ma dopo». Bolzaneto arriva nella storia italiana dopo la morte di Carlo Giuliani e l’irruzione alla scuola Diaz. Arriva dopo, ma arriva perché, al contrario di altri procedimenti, qualcuno che era lì e ha visto tutto, parla. Agenti e personale medico consentono ai pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati di allargare il campo nel procedimento sulle torture all’interno della caserma. In precedenza, nei 43 avvisi di chiusura indagini, i reati ipotizzati erano soltanto quelli di abuso d’autorità sui detenuti, abuso d’ufficio e falso ideologico; le rivelazioni di chi decise di parlare portano a nuove richieste di rinvio a giudizio. Questa volta sono indirizzate a 47 persone con accuse ben più pesanti: abuso d’ufficio, abuso d’autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico (perché nei verbali si dava conto di avere informato dei loro diritti gli arrestati e che rinunciavano ad avvisare parenti e consolati). Secondo la memoria depositata a marzo del 2005 dai procuratori, nelle stanze della caserma di Bolzaneto fu violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti (ipotesi poi confermata dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2017). Di fronte ai giudici alla fine finiscono in 45: quattordici sono agenti della polizia penitenziaria, poi ci sono dodici carabinieri, quattordici tra agenti e dirigenti della polizia e cinque medici e paramedici, tra i quali Giacomo Toccafondi che delle strutture mediche della caserma era il responsabile. Riconosciuto da molti testimoni, il «medico in divisa», come racconteranno anche persone all’epoca impiegate come personale medico, era accusato anche di «aver effettuato e aver comunque consentito che altri medici effettuassero i controlli e il cosiddetto “triage” e le visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata, così sottoponendo le persone ad un trattamento penitenziario, anche sotto il profilo sanitario, inumano e degradante». Una delle vittime ha raccontato in aula che di fronte alla sua mano gonfia e insensibile, il dottore «la strinse ancora più forte». L’infermeria era quasi peggio delle celle: flessioni, insulti, umiliazioni e il dottor Toccafondi a collezionare ricordi, ciocche di capelli ad esempio, o a ricordare, una volta in aula, l’origine napoleonica del «triage». Le testimonianze delle vittime rendono bene l’idea di impunità presente nella caserma, compreso l’utilizzo di spray al peperoncino nelle celle, e un clima generale che le cronache quotidiane delle ultime settimane ci hanno straordinariamente riconsegnato, riportando alla mente quanto accaduto ormai venti anni fa. Come accaduto con gli altri procedimenti, per i testimoni appartenenti alle forze dell’ordine a Bolzaneto non sarebbe successo niente, in realtà. Molti di loro «dimenticarono» quanto accaduto, altri provarono a minimizzare, altri mentirono a tal punto da passare dall’altra parte: da testimoni a indagati. Eppure dai procedimenti è emerso di tutto: l’obbligo di cantare canzonette fasciste («un due tre via Pinochet»), insulti e minacce nei confronti delle donne presenti nella struttura: alle ragazze all’interno di una cella, secondo il racconto di un testimone, gli agenti urlavano «che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia», oltre a insulti ripetuti: troie, puttane. Le minacce di stupro furono talmente tante che i pm nella loro memoria sottolinearono come questi e altri atteggiamenti «come in ogni caso di tortura» avvennero grazie a «quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti». L’accanimento avvenne con chiunque, anche contro un uomo di 52 anni, poliomielitico e con una protesi alla gamba, che nella sua testimonianza ha ricordato i pestaggi, prima e dopo essere stato costretto a stare in piedi al muro per tutta la notte. Crollato a terra, ha raccontato - confermato poi da altri testi - di essere stato di nuovo picchiato, inerme, accovacciato sul pavimento. Ci sono alcune particolarità, naturalmente, anche nel procedimento di Bolzaneto. Una prima ha a che fare con la presenza di un corpo speciale (ne avevamo già visti alcuni creati ad hoc per il G8 nelle strade di Genova) all’interno della caserma. Si tratta dei Gom, un corpo nato nel 1997 «per fare fronte alle esigenze derivanti dalla gestione dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, concorrere alla sicurezza delle traduzioni di detenuti ad elevato indice di pericolosità e adottare misure idonee a prevenire e impedire fatti o situazioni pregiudizievoli per l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari». I Gom, anziché rimanere fuori, furono invece protagonisti di quanto accaduto nei corridoi; per mancanza di prove sufficienti però, nessuno dei Gom è finito tra gli imputati. Una seconda particolarità è che in quelle giornate a Bolzaneto passarono persone importanti, ma che a quanto pare non si accorsero di niente: si tratta dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli e del magistrato Alfonso Sabella. Il ministro, ovviamente, non vide nulla, niente. Anni dopo, nel 2015, al Messaggero dirà: «A Bolzaneto arrivai alle tre di notte, a sorpresa. Il massimo che vidi erano alcuni ragazzi tenuti in piedi con la faccia contro il muro. Non c’era sangue né altro. Se quella è tortura che cosa dovrebbero dire i metalmeccanici che stanno in piedi per otto ore?». Più o meno simili furono le dichiarazioni di Sabella (la cui posizione venne archiviata), all’epoca dirigente del Dap, ovvero «coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria in occasione del G8 in Genova», comprese dunque le due carceri provvisorie del G8, Forte San Giuliano, dove nella giornata del 20 luglio era presente Gianfranco Fini, leader di An e allora vice presidente del Consiglio) e Bolzaneto. Sabella anni dopo accennerà al fatto che non gli fecero vedere nulla: ipotesi sostenuta anche dalla procura nella richiesta di archiviazione, perché secondo i pm gli agenti occultarono quanto stava accadendo di fronte e un superiore.

Ma proprio quell’archiviazione costituisce ancora oggi il tarlo del magistrato che di recente al Domani, ha spiegato che il giudice «mi infama gratuitamente scrivendo che ero responsabile delle violenze per colpa e non per dolo». C’è una verità storica e c’è una verità giudiziaria: non sempre combaciano, specie quando le violenze rendono le vittime quasi incapaci di credere a quello che si è subito e soprattutto completamente incerte circa la possibilità di essere credute. Una vergogna, altro colpo alla dignità, squarciata da testimonianze in grado di consegnare ai traumi patiti una goccia di splendore, di umanità, di verità. La verità di chi c’era, di chi ha visto, di chi ricorda.

Quando l'Italia divenne per due giorni stato di polizia. G8 di Genova, cosa successe e di chi sono le responsabilità del massacro di 20 anni fa. David Romoli su Il Riformista il 20 Luglio 2021. I più sbigottiti di tutti, il 21 luglio 2001 a Genova, furono i manifestanti già di una certa età, con esperienza diretta degli scontri anche violentissimi con la polizia degli anni ‘70. Un simile comportamento da parte delle forze dell’ordine non lo avevano mai visto: poliziotti e carabinieri provocavano a freddo, cercavano lo scontro, attaccavano all’improvviso e senza ragione una manifestazione neppure troppo bellicosa. A ogni traversa partivano una carica violenta o un lancio a pioggia di micidiali candelotti lacrimogeni urticanti, dagli effetti più brevi ma molto più sconvolgenti di quelli usati nei decenni precedenti. Era come assistere al capovolgimento della logica abituale, in base alla quale le forze dell’ordine cercano per principio, e di solito anche per precisa disposizione, di evitare lo scontro o almeno di impedire che si trasformi in battaglia. L’assioma, stracciato dalla polizia quel giorno, è di solito tanto più imperativo in situazioni potenzialmente esplosive, e in particolare all’indomani di una tragedia come l’uccisione di Carlo Giuliani nel corso dei durissimi scontri del giorno precedente. Quel 20 luglio, era la data centrale nella tre giorni di manifestazioni organizzate dal Genoa Social Forum in occasione della riunione del G8 nella città ligure. Giovedì 19 c’era stata la prima manifestazione, quella dei migranti. Colorata, festosa, pacifica: tutto era filato liscio ma non c’erano mai state preoccupazioni in proposito. La data cerchiata in rosso era quella di venerdì 20. Le Tute bianche si erano erano concentrate allo stadio Carlini, tra i pochi spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Da lì sarebbe partito il corteo che prometteva di sfondare la “zona rossa”, chiusa, blindata e presidiata in forze. La “zona rossa” comprendeva praticamente il cuore del centro storico di Genova. Era stata interamente ingabbiata con sbarre e inferriate pesantissime e tornelli stretti stretti. Imprendibile. Era una vera dichiarazione di guerra? Negli anni successivi, con la dovuta discrezione, alcuni alti funzionari della polizia hanno parlato di un accordo con le Tute bianche per mettere in scena una sorta di scontro mimato. I manifestanti avrebbero dovuto violare simbolicamente la zona rossa per pochi metri, la polizia avrebbe risposto caricando e respingendo “gli invasori” ma senza calcare troppo la mano. Sia i leader delle Tute bianche che i vertici delle forze dell’ordine hanno sempre smentito quell’intesa. Si trattava però di una pratica all’epoca diffusa. Gli scontri avevano spesso valenza più simbolica e spettacolare che reale e rispondevano all’esigenza avvertita sia dagli organizzatori che dalla polizia di lasciare il meno spazio possibile alle frange più bellicose. Comunque, che l’accordo ci fosse come è in definitiva probabile o meno, a Genova non funzionò e non poteva funzionare. Troppa la tensione accumulatasi e montata in modo dissennato per settimane dai media. Troppo forte la decisione, da parte di tutti i governi, di stroncare a ogni costo quel movimento internazionale. Nelle settimane e nei mesi precedenti un po’ in tutte le parti del mondo, anche forze di polizia tra le più “gentili”, come quella svedese, avevano adoperato una brutalità inaudita. Gli scontri, venerdì 20 luglio, iniziarono ancora prima che il corteo principale partisse dal Carlini, con le Tute bianche in assetto da combattimento nelle prime file. Gruppi incontrollati di manifestanti avevano lanciato sassi contro la polizia, bruciato alcune macchine, distrutto vetrine e bancomat intorno alla stazione di Brignole, poi intorno al carcere di Marassi. Erano i famosi “Black bloc”, sui quali i media avrebbero poi favoleggiato per anni anche se, come area organizzata, il Blocco nero non è probabilmente mai esistito. Il corteo principale tentò di forzare i cancelli della zona rossa in piazza Dante. Ci riuscì, aprì uno spiraglio attraverso il quale passarono quattro manifestanti: la violazione simbolica della “zona rossa”. Ma le cariche continuarono anche quando il corteo si era ormai allontanato dai cancelli della zona rossa. I video girati quel giorno mostrano cariche della polizia lanciate a freddo, senza che ce ne fosse reale bisogno, e gestite, per imperizia o per calcolo, nel modo peggiore, senza lasciare ai manifestanti via di fuga e costringendoli quindi comunque allo scontro frontale. In piazza Alimonda i dimostranti contrattaccarono, costrinsero la polizia a ripiegare, trasformarono quelle che sino a quel momento erano state cariche e scaramucce in una vera battaglia di strada. Le forze dell’ordine persero completamente il controllo. I contatti con la sala di comando centrale saltarono, due Land Rover dei carabinieri finirono isolate. I carabinieri schierati a pochi metri, non intervennero. L’autista di uno dei due automezzi perse la testa, spense involontariamente il motore, il Defender fu circondato e assaltato. Un carabiniere di 20 anni, Mario Placanica, in preda al panico sparò uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni, il ragazzo che lo minacciava con un estintore. Negli anni si sono moltiplicate ipotesi più o meno fantasiose secondo cui a sparare non fu il terrorizzato Placanica ma sembra improbabile che questa versione vada oltre la perenne passione italiana per il complotto e il mistero. La notizia della morte di Carlo Giuliani raggelò tutti e caricò di ulteriore minaccia le manifestazioni previste per il giorno seguente, sabato 21, alle quali presero parte centinaia di migliaia di persone. Fu in quel sabato che la parabola di Genova diventò un evento unico nella storia repubblicana. La tragedia del giorno precedente poteva ancora essere vista solo come conseguenza di una manifestazione particolarmente tesa e di una gestione dilettantesca della piazza da parte delle forze dell’ordine. Ma il 21 polizia e carabinieri fecero il possibile per impedire che la tensione calasse e per massimizzare il rischio di una nuova battaglia. Si comportarono cioè all’opposto esatto della prassi consolidata. Dopo tragedie come quella del 20 luglio, le forze dell’ordine cercano di solito di mantenere un profilo per quanto possibile basso, mirano a contenere la rabbia dei manifestanti. Il 21 luglio, al contrario, polizia e carabinieri fecero di tutto per far esplodere quella rabbia. A differenza del giorno precedente non ci fu nessuna battaglia di strada. Solo una serie interminabile di cariche a freddo, rastrellamenti nei bar e per le strade anche a manifestazione conclusa, lancio continuo di lacrimogeni urticanti, con centinaia di feriti e di arresti. Ci furono macchine messe di traverso e a volte bruciate ma solo per frenare e rallentare gli attacchi immotivati della polizia. Nel pomeriggio, secondo la versione ufficiale, furono trovate nascoste dietro un cespuglio due bottiglie molotov, la cui consegna non fu verbalizzata. Quelle due Molotov, portate dalla polizia stessa nel cortile della scuola Diaz, furono poi usate per giustificare l’irruzione, i pestaggi senza precedenti, la “macelleria messicana” della notte. La Diaz era uno degli spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Tra il 21 e il 22 luglio nei locali e in quelli dell’adiacente scuola Pascoli si trovavano 93 persone che non avevano potuto o voluto lasciare Genova. Nella notte circa 500 tra poliziotti e carabinieri irruppero nei locali letteralmente massacrando gli ospiti inerti e addormentati. Arrestati senza motivo e senza diritto, dal momento che le Molotov senza le quali gli arresti sarebbero stati illegali le aveva piazzate lì proprio la polizia, furono trasportati nella caserma di Bolzaneto. Le torture nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto arrivarono molto al di là dell’immaginabile in un Paese democratico. Non furono solo botte, ossa fratturate, denti rotti ma anche vessazioni di ogni tipo: persone denudate, degradate, costrette ai comportamenti più umilianti e intanto picchiate sbattute contro il muro pestate senza requie, tra cori e slogan fascisti, inni razzisti, esaltazioni dei lager nazisti. Le “spiegazioni” delle forze dell’ordine – per l’assalto alla Diaz – furono la classica toppa quasi peggiore del buco. Dissero che si trattava di una perquisizione alla ricerca dei fantomatici “black bloc”, senza dettagliare perché si fossero presentati bardati di tutto punto con scudi e manganelli. Giustificarono le botte, parlando di sassi e bottiglie tirati contro le volanti nel cuore della notte, senza fornire il minimo riscontro e furono sbugiardate. Brandirono le Molotov da loro stessi depositate nella scuola come prova della pericolosità dei ragazzi massacrati nel sonno. Fu senza dubbio un’azione decisa ai massimi livelli. Nella notte, il direttore di un quotidiano avvertito della mattanza ancora in corso, telefonò al portavoce del capo della polizia De Gennaro, per avvertirlo di cosa stava succedendo. Si sentì rispondere che in effetti anche lui si trovava alla Diaz in quel momento. Dagli attacchi indiscriminati del pomeriggio sino alla folle macelleria della notte, il 21 luglio di Genova non fu una situazione “sfuggita di mano”. Fu una scelta precisa, arrivata dall’alto, che però, a distanza di vent’anni resta ancora inspiegata. Anche perché la nessuno ha mai voluto individuare la catena di comando e presentare il conto di quegli ordini. Per cercare una spiegazione di quella “sospensione della democrazia”, bisogna inserire Genova nel suo appropriato contesto. Tutti, ancora oggi, ricordano quel che successe il 20 e il 21 luglio. Quasi nessuno, invece, rammenta i fatti di Napoli del 17 marzo dello stesso anno, in occasione del vertice del Global Forum. Da un anno e mezzo, a partire dalle manifestazioni e dagli scontri del novembre 1999 a Seattle, dove era riunito il vertice del WTO, ogni riunione degli organismi sovranazionali era accompagnata da controvertici, manifestazioni di massa, proteste e spesso scontri anche molto duri tra la polizia e il “popolo di Seattle”, ribattezzato dai media “movimento no global” anche se in realtà protestava non contro la globalizzazione ma contro la sua gestione neoliberista. A Napoli, con al potere un governo di centrosinistra, Giuliano Amato presidente del consiglio ed Enzo Bianco ministro degli Interni, la repressione fu durissima. Anticipò nei particolari, sia pur in forma meno estrema, quel che sarebbe successo quattro mesi dopo a Genova: i pestaggi indiscriminati, le retate e le botte a manifestazione già conclusa, la brutalità nelle caserme. Genova non arrivò per caso e non fu conseguenza della vittoria della destra nelle elezioni politiche del maggio 2001. I piani per la gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 erano stati messi a punto dal governo precedente e collaudati a Napoli. È molto probabile che la presenza di un governo di destra abbia aggravato la situazione ma sia la scelta di reprimere con inaudita violenza sia i numerosi errori tecnici erano parto dell’esecutivo Amato. La scelta di Genova come città ospite del vertice era di per sé insensata. Napoli era stata scartata perché considerata logisticamente troppo pericolosa. Il capoluogo ligure presentava gli stessi inconvenienti. Roma, città più facilmente governabile in termini di ordine pubblico, era stata considerata “troppo calda”. La temperatura era in realtà identica. Il tentativo di impedire l’afflusso dei manifestanti, sospendendo dal 14 al 21 luglio le regole di Schengen, fu un fallimento totale. La divisione della città in zone, con la “zona rossa” e quella “gialla” proibite ai manifestanti, salvo poi ripensarci all’ultimo momento e aprire quella “gialla”, si rivelò controproducente, anzi disastrosa. Ma non si trattò solo di errori e imperizie dei governi italiani succedutisi nel 2001. C’era senza dubbio una disposizione internazionale, a stroncare con ogni mezzo un movimento che stava montando in tutto il mondo occidentale con una rapidità e una potenza che ricordava la fine degli anni ‘60 del secolo precedente. Tra il 14 e il 16 giugno del 2001, a Gothenborg, la solitamente pacifica polizia svedese attaccò le manifestazioni contro la riunione del Consiglio europeo della Ue con una violenza unica nella storia del Paese: attacchi indiscriminati, cariche a cavallo, uso delle armi da fuoco. Un ragazzo di 19 anni fu gravemente ferito dai colpi sparati dalla polizia. Per prudenza la Banca Mondiale annullò il vertice già fissato a Barcellona dal 25 al 27 giugno. Da Seattle a Genova fu un crescendo assurdo di violenze, di solito con l’alibi dei “Black bloc”. In Italia l’informazione ci mise parecchio di suo. Per tutto giugno, con raro senso d’irresponsabilità, i media italiani soffiarono sul fuoco, contribuendo in modo d terminate a creare il clima parossistico che avrebbe portato alla tragedia. Scrissero che i manifestati si preparavano a lanciare palloni pieni di sangue infetto dal virus dell’Aids sulla polizia, che Bin Laden aveva inviato i suoi uomini per portare lo scontro alle estreme conseguenze, che manipoli di neofascisti si erano infiltrati per provocare inimmaginabili violenze. Le forze dell’ordine ma anche i manifestanti arrivarono all’appuntamento con Genova aspettandosi due giorni di guerra e in un contesto così teso sperare di poter limitare lo scontro a poco più di uno spettacolo mediatico e simbolico non poteva che rivelarsi illusorio. Gli errori dei governi italiani e l’irresponsabilità dei media possono spiegare la tragedia del 20 luglio. Non lo stupro della democrazia del giorno seguente. Ma quella spiegazione non è mai stata cercata. In settembre fu istituita una “indagine conoscitiva” del Parlamento ma, senza veri poteri di inchiesta, non servì a niente. Dopo il 2006 la maggioranza di centrosinistra provò a istituire una vera commissione d’inchiesta ma la proposta fu respinta dalla destra a cui si unirono i parlamentari di Antonio Di Pietro. Sotto processo sono finiti molti degli esecutori ma pochi sono stati condannati e nessuno ha mai scontato un solo giorno di prigione. Al processo per le torture di Bolzaneto i condannati furono 7: tutti gli altri imputati erano in prescrizione. I vertici della polizia, a cominciare da De Gennaro, hanno proseguito una brillante carriera. In galera ci sono finiti solo i manifestanti arrestati durante gli scontri. I quali hanno scontato molti anni. È un altro esempio di come funziona da noi la giustizia: la polizia e i carabinieri violando la Costituzione e le leggi aggrediscono, provocano, bastonano e persino uccidono. la magistratura interviene e spedisce in galera le vittime. David Romoli

Ma io dico, da quei processi sulla macelleria messicana del G8 arrivò anche un po’ di luce. Genova raccontata da un avvocato. Dal processo per la morte di Carlo Giuliani a quelli per i pestaggi alla Diaz e a Bolzaneto. Tra giustizia negata e i pronunciamenti della Cedu: su tutti quello che impose all’Italia l’introduzione del reato di tortura. Ezio Menzione su Il Dubbio il 20 luglio 2021. I processi del G8, per noi del Genoa Legal Forum (così si era chiamato quel gruppo di avvocati che avevano tentato, nei giorni della manifestazione di arginare gli abusi delle forze dell’ordine) sono cominciati il martedì successivo, un giorno solo di pausa per fare la doccia, tirare il fiato e mettersi la giacca, e poi di corsa nelle carceri di Alessandria, Voghera e Pavia dove i Gip genovesi dovevano convalidare gli arresti effettuati il venerdì e, soprattutto, il sabato, in piazza e alla Diaz. Difficile dire cosa provammo a vedere sfilare occhi tumefatti, ecchimosi su tutto il corpo, qualche osso rotto, ma soprattutto la paura e lo sgomento nello sguardo di quel centinaio di giovani. Anche i Gip, dopo le prime disattente convalide, cominciarono a vedere le ferite, e le contusioni e a chiederne ragione: i ragazzi, quasi esitando, iniziarono a narrare il trattamento ricevuto a Bolzaneto, alcuni piangendo, altri senza riuscire ad articolare un discorso. Anche i verbali di arresto, tutti uguali e stereotipati, iniziarono ad apparire sospetti e i Gip si convinsero che ciò che vi stava scritto era una falsità e non convalidarono più niente. Ci vollero due giorni, ma poi tutti furono liberi. Anche quel povero gruppo di teatranti tedeschi, fermati sulle montagne intorno a Genova che se ne stavano tornando in Germania con i loro vestiti di scena, guarda caso neri: tedeschi, con abiti neri, dunque black bloc, arrestati. I processi del G8 di Genova ci misero molto di più a decollare: mesi ed alcuni (Diaz e Bolzaneto) anni e furono sostanzialmente tre: quello contro 25 manifestanti, quello sull’irruzione alla Diaz e quello sulla detenzione a Bolzaneto. Molti altri contro singoli manifestanti si snocciolarono nel corso degli anni, furono per lo più seguiti dai colleghi genovesi e si conclusero tutti con assoluzioni. Il processo contro i manifestanti, etichettati frettolosamente black bloc, aveva tre punti giuridici di rilievo: la maniera in cui erano stati fatti i riconoscimenti, la contestazione di devastazione e saccheggio, l’applicazione dell’esimente della risposta all’atto arbitrario del pubblico ufficiale. Nessuno degli imputati era in vincoli né era passato per l’arresto; molti erano stati individuati sulla base di video, magari inviati alle singole questure per scovare a chi somigliassero quei dimostranti: in genere non erano individuati per avere commesso qualcosa di specifico e di grave, ma per lo più per essere stati presenti mentre i black bloc erano in azione. Ma apparve subito chiaro che essi non appartenevano ai veri e propri black bloc. Quanto alla devastazione e saccheggio – art. 519 del codice penale, con un minimo altissimo (8 anni) e un massimo spropositato (15 anni, quasi un omicidio) – la difesa sostenne a spada tratta che il reato non c’era. Era un’ipotesi delittuosa che era stata introdotta soprattutto per colpire il saccheggio di interi borghi durante lo sfollamento bellico e postbellico, e non poteva adattarsi a una città che già era stata messa a soqquadro dall’organizzazione del G8 e dove gli episodi di “spesa proletaria” (furto collettivo al supermercato) era stato uno solo e i molti danneggiamenti non assurgevano certo a devastazione. Quanto all’esimente del decreto luogotenenziale della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, fu il tema che occupò di più l’istruttoria dibattimentale. Il collegio giudicante era molto attento e curioso della prospettazione difensiva su questo punto. Il Presidente ebbe a dirmi un giorno, chiacchierando durante una pausa, che lui non aveva mai letto e mai visto nulla di ciò che riguardava quelle giornate, per non essere influenzato nel caso, poi verificatosi, che avesse dovuto condurre un processo su di quei fatti: chapeau! verrebbe da dire. Ma sapevamo bene quanto rigido era se si fosse giunti a delle condanne. Invocare l’esimente in quel contesto sembrava azzardato: sappiamo tutti con quanta parsimonia essa venga riconosciuta anche nelle dinamiche testa a testa, uno a uno. Figuriamoci un’intera manifestazione contro una carica dei carabinieri, come era avvenuto il venerdì pomeriggio in via Tolemaide. Eppure noi difensori eravamo convinti che il processo poteva avere un esito in tutto o in parte positivo se avessimo dimostrato che “tutto era cominciato per colpa dei carabinieri”. E così facemmo e il Tribunale ci venne dietro, solo in parte e solo coprendo gli episodi immediatamente circoscritti a via Tolemaide e adiacenze, non per i fatti di Piazza Alimonda, purtroppo, ma fu abbastanza per alleggerire o mandare indenni 15 posizioni. Con le altre dieci fu durissimo: del resto la sanzione prevista dal 519 non lasciava scampo: furono irrogate pene da 8 a 13 anni. Ed alcuni le stanno scontando ancora adesso. La nostra ricostruzione del reato non fu accolta. E così pure non fu riconosciuto che essere presenti a ciò che combinavano i black bloc non poteva essere considerato partecipazione, ma il Tribunale, in certi casi, si spinse a dire che lo stare lì in strada in più punti del percorso a guardare mentre i black bloc compivano le loro scorribande andava a rafforzare la volontà di questi e se ne doveva rispondere. Concorso morale, a prescindere da ciò che avevi fatto in quei giorni: una sorta di presunzione di colpevolezza per chi era anche solo nelle adiacenze dei fatti criminosi, ma non vi aveva materialmente partecipato. Appello e Cassazione sostanzialmente avallarono il primo grado, per il bene e per il male. Giunsero al dibattimento più tardi i processi sulla Diaz e su Bolzaneto, quando l’eco delle imprese dei black blokc era ormai scemato, l’opinione pubblica riconosceva ormai che la massa dei manifestanti era stata pacifica, ma soprattutto quando erano ormai emerse le nefandezze perpetrate nelle due occasioni dalle forze dell’ordine sia alla Diaz che a Bolzaneto. Ma un conto era far emergere la verità sui giornali e in tv, altro in un’aula di Tribunale, specialmente quando la polizia non collabora affatto per individuare i responsabili dei macelli. Eppure la tenacia dei Pm e dei difensori delle parti civili la ebbe vinta. Ma erano le accuse di semplici lesioni che comportavano pene non adeguate ai fatti, tant’è che questi reati andarono in prescrizione nei gradi successivi del giudizio e rimasero i falsi, ben dimostrati nell’istruttoria: i verbali d’arresto falsi, le molotov messe apposta alla Diaz dai funzionari di polizia per accusare chi era dentro alla scuola e “giustificare” il massacro compiuto, le attestazioni dei medici ed infermieri di Bolzaneto e tanto altro.Fu nel processo di Bolzaneto che la difesa degli agenti propose, dopo che qualche vittima era stata sentita, di non acquisire i verbali delle dichiarazioni di decine di altri, per evitare l’impatto psicologico e giuridico che i racconti avrebbero avuto sul Tribunale. La difesa delle vittime non diede il consenso, nella convinzione che almeno il “risarcimento” del potere raccontare ciò che avevano subìto era dovuto a quei giovani picchiati e torturati. Era il primo piccolo passo verso una “giustizia riparativa” che altre esperienze, ben più gravi, ci avevano insegnato. Mancava, all’evidenza, la possibilità di invocare l’accusa di tortura, perché il nostro Paese, pur avendo firmato la relativa convenzione, non aveva mai introdotto il reato specifico. Non restava che rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e così fecero i difensori di quello che era stato più di una dozzina di anni prima il Genoa Legal Forum, con l’aiuto di validi avvocati specializzati in diritto internazionale. E la spuntammo, rifiutando le offerte governative per comporre la vertenza ed esigendo che il reato fosse introdotto. E lo fu nel 2017, anche se in maniera non del tutto soddisfacente. L’intera vicenda processuale, vista nel suo complesso, dalle convalide del 24 luglio fino alla pronuncia della Cedu, presenta molte ombre, ma anche qualche luce. Non solo era doveroso sostenere la battaglia, ma fu anche interessante e qualche esito positivo lo ebbe. Certo, riguardando indietro ai processi, non può soddisfarci constatare come per i reati contro le persone siano state comminate pene inferiori a quelle per i reati contro le cose, quale in fin dei conti è il 519. Là dove la giustizia fu proprio negata, fu per l’omicidio di Carlo Giuliani: negata nel vero senso della parola, perché il dibattimento, cioè un vero giudizio, non vi fu mai e la vicenda fu chiusa con un non luogo a procedere per avere il carabiniere Placanica sparato facendo uso legittimo dell’arma e per legittima difesa, pur avendo puntato dritto al volto di Carlo, ma il Gip sostenne che aveva sparato in aria e la pallottola era rimbalzata su un sasso volante, andando a colpire dritto dritto il povero Carlo. Anche questa vicenda fu portata alla Cedu, ottenendo una sentenza di primo grado che riconosceva le responsabilità statuali nell’intera vicenda; ma in secondo grado, davanti alla Grand Chambre, sia pure 6 a 5 e con una bellissima dissenting opinion, la decisione fu malamente rovesciata. Peccato.

L'aria che tira, Toni Capuozzo: "Con tutto il rispetto per il papà di Carlo Giuliani". La verità sul G8 di Genova 2001: quello che la sinistra ha sempre nascosto. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. "Con tutto il rispetto per il padre di Carlo Giuliani". In collegamento con L'aria che tira Estate su La7, Toni Capuozzo ricordo con dolore ma con l'obiettività del grande giornalista i fatti di Genova 2001, 20 anni dopo. Lo storico inviato del Tg5 c'era, in piazza, per il G8. Prima di lui ha parlato il padre del no global ucciso durante gli scontri con le forze dell'ordine in piazza Alimonda. Fu l'unica vittima di quel weekend di guerriglia urbana, quasi un miracolo. Ma Capuozzo ricorda quei giorni di drammatica follia collettiva distinguendo i piani. "Una cosa furono gli scontri di piazza, un'altra cosa fu la vergognosa irruzione alla scuola Diaz, la vendetta della polizia in un posto dove dovevano dormire centinaia di ragazzi innocenti, altra cosa ancora fu Bolzaneto, la peggiore, un luogo dello Stato dove per si verificarono i fatti di Santa Maria Capua Vetere con 20 anni di anticipo". Queste tre situazioni, spiega Capuozzo, "vanno analizzate separatamente senza nessuna bandiera, come la vidi da cronista". "Credo che ci fu un concorso di colpa politico di tutti. Del centrodestra appena salito al governo, che voleva dimostrare di sapere gestire l'ordine pubblico. Del centrosinistra a cui non dispiaceva rovinare la festa e che scelse di lasciare tutto in mano al Genoa Social Forum. Se ci fosse stato il Partito comunista, o non si sarebbe fatto il G8 a Genova o ci sarebbe stata una grande manifestazione di piazza ma senza incidenti, perché il cordone di sicurezza dei metalmeccanici avrebbero tenuto a bada tutti. Fu una sconfitta per tutti, per l'intero Paese". E non solo della Polizia, dei Carabinieri e del centrodestra, come per due decenni ha cercato di far passare chi di quei tragici fatti vuole ostinatamente ricordare solo una parte della verità.

Maurizio Belpietro per "la Verità" il 20 luglio 2021. Confesso: mi fanno orrore le celebrazioni del ventennale del G8. Nel luglio del 2001, Genova fu messa a ferro e fuoco e un ragazzo venne ucciso mentre stava lanciando un estintore contro un carabiniere, dopo che i suoi compagni erano riusciti a far schiantare contro un muro l'auto delle forze dell'ordine. Che c'è da celebrare, dunque? Che cosa bisogna ricordare, se non la vergogna di un movimento che, sfruttando l'ingenuità di tanti giovani che volevano cambiare il mondo, li portò a una manifestazione che si rivelò violenta ed eversiva? Che dopo una giornata di scontri, la polizia arrestò centinaia di giovani e, commettendo dei reati, provò a incastrare i manifestanti mettendo le molotov nell'edificio in cui i manifestanti avevano trovato riparo? Che cosa c'è da ricordare, se non il fatto che gli organizzatori di quel corteo avevano torto e che riuscirono, grazie al contributo di vari sfascisti, a trascinare nel fango anche le forze dell'ordine? A leggere in questi giorni le rievocazioni di ciò che accadde vent' anni fa, pare che un gruppo di bravi ragazzi si fosse dato appuntamento a Genova per manifestare il proprio punto di vista sulla globalizzazione. E gli apparati di uno Stato simil-cileno mobilitarono una polizia simil-golpista per manganellare i partecipanti al corteo, costruendo poi prove false contro di loro. So che ci sono sentenze e anche che vari dirigenti della polizia sono stati riconosciuti colpevoli di vari reati, depistaggi compresi. Tuttavia, la verità dei tribunali è una cosa e quella dei fatti un'altra. A Genova si diedero appuntamento i peggiori contestatori d'Europa, i quali non avevano altro obiettivo se non di distruggere tutto ciò che avrebbero incontrato sulla loro strada. Auto, vetrine, uffici: tutto. Un saccheggio in nome di un movimento che si opponeva alla globalizzazione, ritenendola il simbolo dello sfruttamento dei Paesi poveri da parte delle multinazionali. Come la storia ha dimostrato, i No global non avevano capito niente, perché grazie alla globalizzazione i Paesi ricchi non si sono arricchiti ancora di più alle spalle di quelli poveri, semmai è successo il contrario. Il Terzo mondo ha fatto piccoli passi avanti sulla via dell'emancipazione e l'Occidente ha fatto dei grandi passi indietro sulla via della decrescita infelice. Dunque, quei giovani che sfilavano ritenendo di essere i buoni, avevano torto. Se il mondo avesse dato retta a loro, oggi milioni di persone avrebbero un reddito inferiore a quello attuale, perché i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, a causa del blocco della globalizzazione, non avrebbero visto aumentare il loro Pil e dunque i redditi dei loro cittadini. Chiarito questo, e cioè da che parte stessero gli interessi dei Paesi deboli, a Genova si radunarono gruppi di casseur, cioè di teppisti, con l'obiettivo di sfasciare tutto e di accodarsi a chi aveva intenzione di violare la zona rossa, ossia il perimetro dichiarato inviolabile dalle autorità, in quanto ritenuta area di sicurezza per i capi di Stato riuniti sotto la Lanterna. Ma gli sfascisti non avevano alcuna intenzione di rispettare gli stop imposti dall'autorità: volevano solo rompere vetrine, distruggere bancomat, sradicare cartelli segnaletici, incendiare auto. Tradotto: volevano lo scontro per lo scontro, per poter dire che l'Italia è una dittatura e la sua polizia è uguale a quella di Augusto Pinochet. Ovviamente tutto ciò è falso. Le forze dell'ordine commisero vari errori e alcuni dirigenti anche reati, ma lo sbaglio più grande è essere cascati nel tranello dei black bloc, dei teppisti rossi, della marmaglia di contestatori con il sanpietrino. Il risultato è che a vent'anni di distanza, celebriamo Carlo Giuliani come fosse un eroe e non un hooligan con la bandiera rossa. A lui è dedicata una stanza del Parlamento e non si capisce perché il Parlamento non ne abbia dedicate altre alle vittime delle Br o dei Nar. La realtà è che il G8 di vent' anni fa è stato un fallimento da ogni punto di vista. Prima perché ha consentito che una città fosse messa a ferro e fuoco e poi perché purtroppo - anche a causa degli errori commessi dalle forze dell'ordine - ha consentito e consente alla sinistra di raccontare la favola bella di un Paese che si è schierato contro uno Stato autoritario. No, l'Italia di quegli anni non era un Paese autoritario, semmai senza autorità. E la sinistra che oggi celebra il ventennale del G8 è una sinistra di reduci: un po' come quei compagni di classe che a distanza di tempo si ritrovano per raccontarsi quanto erano giovani e quanto erano forti, ma soprattutto per dirsi quanto sono invecchiati oggi. Ecco perché, tra i reduci e i poliziotti, io starò sempre con questi ultimi.

G8 a Genova, la verità 20 anni dopo su Carlo Giuliani e i no global: ecco chi cercava lo scontro a ogni costo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Vent' anni fa ci fu il G8 di Genova. Le rievocazioni di quei giorni tendono a sacralizzare le manifestazioni, identificano gli eroi nelle schiere degli antagonisti e i carnefici tra le forze dell'ordine. Non andò così. Chi incendiò la città, organizzò assalti, programmò feriti e magari il morto stava dalla parte dei rivoltosi, che seppero sfruttare come marsupio accogliente la massa convogliata lì dai Democratici di sinistra e dalle sigle dell'ingenuo volontariato cattolico. Poi ci fu una pessima strategia da parte del ministero degli Interni e dal capo della Polizia, e lo scrivemmo su Libero immediatamente. Ma il peso dell'orrore spetta ai capi della sinistra parlamentare che, dopo i primi scontri provocati dagli anarchici -terroristi greci, insistette nell'invitare il loro popolo ad accodarsi ai vari Luca Casarini e don Della Sala, detto don Pistola, che insistevano nel grido di guerra, spezzandola linea rossa in difesa della cittadella dei potenti, da Bush a Putin, e specialmente Berlusconi. Ah, farla pagare a Berlusconi! Durante tutti questi vent' anni una martellante campagna di stampa, una serie di film e documentari diffusi soprattutto dalla Rai, ha occultato mandanti e killer degli eventi di quei giorni di manifestazione nella fosca luce dei crudeli pestaggi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, ingiustificabili da qualsiasi angolo li si giudichi, ma quella fu un'altra storia. Non da occultare, per carità, è stata una macelleria, condanne definitive hanno sanzionato dirigenti della Pubblica sicurezza e hanno sfiorato i massimi vertici della polizia. Ma l'infamia della Diaz non può coprire l'orrore dei giorni precedenti, il cui colore è il rosso di chi ha voluto porre le premesse del sangue. 

LA TRAGEDIA - Invece delle analisi, ripropongo quello che ho visto da cronista. Insieme a Toni Capuozzo di Mediaset, fui il primo ad arrivare a piazza Alimonda. Carlo Giuliani giaceva a terra, aveva il nero passamontagna immerso nel sangue. Mi spostai vicino a lui, e a un passo da quel corpo dissi un requiem. C'era un silenzio tremendo alle 17 e 35 di quel venerdì. Poi tornarono le urla. Ma quei minuti furono di ghiaccio. Era il naturale epilogo di quei giorni. Fin dal giovedì era chiaro quel che sarebbe accaduto. Lo scrissi su Libero: sarà il giorno del morto. Non c'erano bambini in giro per Genova, non una sola carrozzina. Sul mio taccuino: «Questa città è un imbuto desolato, la vita è stata prosciugata, le strade sono ridotte a set cinematografico, dove non ci saranno controfigure il sangue non sarà sugo di pomodoro». Mi avvicinai a Vittorio Agnoletto per dirgli: come dice Umberto Eco avete già vinto la battaglia dei media, è inutile insistere, una massa così grande, dove la grande maggioranza dei contestatori dei potenti del mondo non farebbe male a una mosca, funzionerà come l'acqua per i pescecani. Agnoletto rispose: «Mano, oggi stiamo dimostrando che il movimento del Genova Social Forum è una festa. Certo c'è un po' di tensione, ma poi passa...». C'erano nella folla patetici dinosauri di altre battaglie, insieme a quelli che si provavano le tute imbottite per resistere ai colpi. Erano tutti meccanismi dell'orrendo orologio a cucù caricato in vista dell'ora x. Ed eccoci al venerdì. Genova sin dal primo mattino, come facilmente prevedibile, era diventata una terra in mano alla follia anarchica. Le tute bianche (gli antagonisti buoni di Casarin, Venezia; Agnoletto e Farina, Milano; Caruso, Napoli) avanzavano con i loro marchingegni da guerra di Troia in quattro punti per forzare la famosa zona rossa. Ma la loro schiera fintamente brancaleonesca serviva da filtro di protezione per le scorrerie dei Black Bloc (italiani, tedeschi, greci, serbi). Costoro avevano campo libero. Incendi, saccheggi. Genova era diventata loro. I vecchi appunti di allora sono precisi. In via Piasacane le tute nere assaltano i carabinieri. Sassi per ammazzare. Prendono di mira Capuozzo e me che non abbiamo scudi. Sfondano una vetrina della Banca nazionale del lavoro. Sradicano computer, appiccano fiamme. Sono italiani. Ci gridano: «Bastardi». Tre molotov. Macchine incendiate. Dalle finestre la gente grida ai carabinieri: «Sparategli, sono assassini». Il commando riesce a rifugiarsi nel seno dei cinquemila dei Cobas. Sono la loro mamma. Che li sgrida, ma li protegge. Dalla parte della stazione di Brignole, oltre il sottopasso, ci imbattiamo in un altro manipolo, svaligiano un negozietto, portano via ridendo liquori, vino, prosciutti. Disegnano stelle a cinque punte, scrivono "Fuck the police". 

SCENE DI GUERRIGLIA - Un balzo di qualche ora. Da vecchi arnesi da corteo, sappiamo, Toni più di me, che gli scontri più gravi non sono mai alla testa del corteo, il cozzare può essere duro e spettacolare, ci si mena. Ma le viscere della violenza bisogna andarle a trovare oltre il fumo dei lacrimogeni. Un segnale pauroso: c'è una camionetta bruciata. L'odore della morte è orribilmente attraente. Corriamo. Un gruppo di ragazzi in fuga, vedono la telecamera, dicono: «Correte là, c'è un morto». Piazza Alimonda. Immobilità assoluta. Poi, ecco. Due gambe inerti, innaturalmente larghe. Una canottiera bianca, la testa stretta dal passamontagna adagiata nel sangue bruno. C'è un sasso, un estintore rosso. Grida di ragazzi e di carabinieri. Arriva una inutile ambulanza. Cercano di rianimarlo. Gli applicano una specie di cerotto sul petto. Il volto, finalmente lo vediamo. È un ragazzo, ha il volto candido come quello di tutti iragazzi coi capelli rossi. Scrivo: «Viene in mente sua madre. Vengono in mente i furbi che hanno messo su questa baraonda». Libero titolerà quel giorno l'editoriale di Vittorio Feltri: "È legittima difesa". Il carabiniere Placanica ha sparato per non venire ammazzato da Giuliani. Il giorno dopo è prevista la seconda, ancor più grande manifestazione. Il buon senso, una certa idea di umanità, consiglierebbe di fermarsi. Non c'è da abbattere una tirannia. Anzi forse sì, ad ascoltare la sinistra, occorre sputtanare davanti al mondo intero il dittatore Berlusconi. I dirigenti dei Democratici di sinistra (segretario Piero Fassino) non disdicono l'adesione, non intendono fermare l'afflusso. Tanti bravi figlioli e figliole dell'oratorio. Ci sono state provocazioni di scalmanati e violenti, che si sganciavano e si rifugiavano tra di loro, ma duole dirlo ho assistito a pestaggi gratuiti di ragazzini da una polizia mal governata. E poi la Diaz. 

LA BOMBA DELLA RIVOLTA - Alla fine di quel mese di luglio, Berlusconi mi telefonò alle 7 del mattino: «Ha visto che ho liquidato i capi della polizia incapaci?». A che gioco avevano giocato quel sabato sulle strade e poi alla Diaz? L'idea ce l'ho chiara: fottere Berlusconi, mostrare un volto del centrodestra speculare a quello degli antagonisti. Occhio per occhio. Non funziona così, la democrazia. Ma, diciamolo, la bomba della rivolta l'ha piazzata coscientemente la sinistra. C'è da dire che da allora gli organizzatori dei G8 hanno appreso la lezione. Tengono i summit in luoghi inaccessibili. E la stampa adesso, chissà perché, invece di attaccare questi assembramenti di potenti, li venera.

G8 di Genova, parla l’allora Questore: «Il blitz alla Diaz fu deciso per riscattarci». Fabrizio Capecelatro il 19/07/2021 su Notizie.it. A 20 anni dal G8 di Genova parla a Notizie.it l'allora Questore Francesco Colucci: «Mi sono comportato da funzionario dello Stato, ma il blitz alla Diaz fu deciso per riscattare l'immagine della Polizia e si è rivelato un autogol». Quando il dottor Francesco Colucci è stato nominato Questore di Genova non sapeva che lì, poi, si sarebbe svolto il “G8 di Genova”. «Ma – dice – avrei accettato anche se lo avessi saputo, come poi, 2 anni dopo il G8 di Genova, ho accettato di fare il Questore di Trento sapendo che a Riva del Garda si sarebbe svolto il “G8” dei Ministri degli Esteri». Dopo essere stato rimosso da Questore di Genova, proprio a causa dei fatti del G8 del 2001, non ne ha praticamente più parlato con nessuno. Prima di ora. Dopo 20 anni esatti da quegli avvenimenti, infatti, il dottor Francesco Colucci, diventato poi Prefetto e oggi in pensione, accetta di fare una chiacchierata e raccontare dal suo punto di vista, assolutamente preferenziale per la ricostruzione dei fatti, quello che successe fra il 19 e il 22 luglio 2001. «Mentre ero Questore di Genova, – racconta – venne in visita Massimo D’Alema, che era presidente del Consiglio dei Ministri, e annunciò che lì si sarebbe svolto il G8. Iniziammo a organizzarlo e spesso venivano alcuni funzionari ministeriali da Roma per aiutarci nell’organizzazione. È chiaro che nell’organizzazione di una manifestazione così importante il Dipartimento e il Ministero mettessero non uno ma 100 sguardi. Per questo non mi sentivo commissariato». «Forse un po’ meno spesso mi invitavano a Roma, soprattutto quando facevano gli incontri preliminari con i capi dei manifestanti. Mentre – spiega il dottor Colucci, che in seguito è stato nominato anche Prefetto – a Trento gli incontri preliminari con i manifestanti li organizzai e gestii direttamente io e non ci fu alcun disordine in piazza». Probabilmente, però, da Roma non furono inviate le persone giuste, visto che durante i giorni del G8 c’erano, oltre al vicecapo vicario della Polizia, Ansoino Andreassi, il capo dello SCO Francesco Gratteri, che però è un organo di polizia giudiziaria e quindi non esperto di ordine pubblico, e lo stesso capo dell’Ucigos aveva in realtà svolto la maggior parte della propria carriera presso la Squadra Mobile. «Immagino – dice Colucci – che ci fossero contatti diretti fra l’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, e il suo vice Andreassi, così come con Gratteri e La Barbera. Contatti che, in qualche modo, mi scavalcavano». Nonostante gli aiuti da Roma, i rinforzi da tutta Italia e i “100 sguardi” dei funzionari Ministero al G8 di Genova le cosE vanno male sin dall’inizio e la Polizia mostrò il suo lato peggiore. «Quello che hanno fatto i nostri uomini in piazza non ha giustificazioni – ammette – e, secondo me, è frutto di come erano stati esaltati prima dell’inizio del G8. Nei mesi precedenti erano, infatti, avvenuti alcuni atti di intimidazione nei nostri confronti che contribuirono a creare una situazione di tensione». «Si diceva anche – racconta Colucci – che i manifestanti avrebbero buttato contro di noi sacche di sangue infetto; si parlò addirittura di sale refrigerate per conservare le salme di quelli di noi che non ce l’avrebbero fatta. La maggior parte di queste voci erano delle stupidaggini, ma sicuramente contribuirono a diffondere un senso di paura e agitazione per quello che sarebbe potuto succedere». «Un altro problema – conclude l’ex Questore – era che moltissimi funzionari non erano di Genova, ma provenivano da altre Questure e quindi non avevano una conoscenza diretta del territorio. Un territorio per di più difficile, dove ci incasinavamo anche noi che conoscevano la città. Infatti per ogni reparto c’era un equipaggio del posto, ma l’assenza di via di fughe complicò ugualmente la situazione». La situazione degenera però con la morte di Carlo Giuliani. «Quando seppi della morte di Carlo Giuliani rimasi molto amareggiato. Il Carabiniere era rimasto isolato e ha perso la calma». Il problema fu che, probabilmente anche per riscattarsi da quel fatto e dai tanti scontri di piazza avvenuti nei giorni precedenti, fu deciso di entrare alla scuola Diaz. «E, così facendo, – spiega Francesco Colucci – abbiamo fatto ancora peggio». «Il G8 era ormai finito – racconta Colucci – quando un equipaggio riferì di essere stato aggredito davanti alla scuola Diaz da alcune persone vestite con le tute nere. È da lì che fu decisa l’irruzione». «L’allora dirigente della Digos di Genova, prima dell’irruzione e a ulteriore conferma, telefonò a uno dei rappresentanti dei No Global per chiedergli se loro avessero lasciato l’istituto e quello rispose che ormai non erano più lì. Subito dopo quel dirigente mi disse che ci saremmo andati a mettere in un casino e, in effetti, aveva ragione». Ma c’erano troppe pressioni affinché si facesse quel blitz. «Che l’obiettivo fosse quello di riscattare l’immagine della Polizia – spiega il Prefetto – è confermato dal fatto che Roberto Sgalla, che era il Responsabile dell’Ufficio Relazioni esterne, avvisò i giornalisti, e lì ce n’erano da tutto il mondo, del blitz e lì portò perfino sul posto». «Ma mai – aggiunge – mi sarei aspettato quello che poi è successo e ho avuto conferma della nostra vigliaccheria quando, tempo dopo, ho scoperto che le molotov sequestrate all’interno della Diaz erano in realtà state sequestrate nei giorni precedenti. Così come venni a sapere il poliziotto che mi fece vedere il giubbotto con le coltellate in realtà se l’era procurate da solo». «Alcuni oggi, con il senno del poi, mi dicono che non avrei dovuto accettare alcune ingerenze di Roma. Queste sono cose che si dicono, ma che in realtà non si fanno: io mi sono comportato da funzionario dello Stato», conclude il Prefetto Francesco Colucci.

DOPO 20 ANNI STESSA SOLFA.

I Black Bloc oggi diventano hacker. E il web dei Grandi “zona rossa” da violare. Paolo Berizzi su La Repubblica il 23 luglio 2021. Da Genova a Milano e Roma, gli ex violenti delle piazze si sono trasformati in guastatori, “Riciclati”, “Anonymous". Martine arrivò a Genova da Liegi: oggi ha 42 anni e fa parte di Anonymous. Johann, tecnico informatico di Amburgo, vive in una città dei Paesi Bassi, ha messo su famiglia e ha abbracciato la causa ambientalista. Dice che «la violenza non è più la via per cambiare le cose». Dice. Stefano e Tommaso, sulla cinquantina, sono ancora in contatto con Albéric che da Lione o forse da Nantes, a metà luglio 2001, scese con un Van e passò a prenderli in Piemonte per poi raggiungere la città della Lanterna.

Proteste e traffico paralizzato in città. G20, gli attivisti bloccano lo svincolo dell’A3 Napoli est: fermata anche raffineria Q8. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Nelle ore in cui è iniziato il G20 Ambiente, Clima ed Energia a Napoli, attiviste, attivisti, comitati territoriali hanno bloccato gli ingressi delle raffinerie di S. Giovanni a Teduccio, della zona est di Napoli e lo svincolo autostradale A3. “È esattamente questa la nostra idea di transizione ecologica: fuoriuscita dal fossile, senza compromessi, al di fuori di ogni operazione di greenwashing. Le multinazionali sono alleate dei governi, ma decisamente nemiche dell’ambiente e della nostra salute” tuonano i manifestanti, che danno appuntamento alle 16 per un grande corteo a piazza Dante. Gli attivisti di Beesagainstg20 hanno l’obiettivo di contestare la riunione del G20. Bloccata anche la raffineria Q8 di via Galileo Ferraris da un centinaio di attivisti ambientali per dire “no all’ipocrisia del G20 e delle politiche di greenwashing” e per dire “basta ai combustibili fossili”. “Il continuo rinvio nel tempo degli obiettivi minimi sulla riduzione di Co2 e dei combustibili fossili – spiegano alla Dire -, la costruzione ovunque di nuovi gasdotti, l’imperversare senza regole di attività e impianti inquinanti, il potere delle compagnie petrolifere e delle elite che grazie a esse costruiscono ricchezze senza fondo, il cinismo delle multinazionali e delle compagnie di trasporto che usano i paesi più poveri del mondo come discarica tossica ci racconta come quelle di cui ci parla in questo momento a palazzo reale siano semplicemente politiche di greenwashing, il tentativo di utilizzare l’allarme climatico e ambientale e strumentalizzare la domanda di cambiamento solo per specularci sopra”. “La biografia del ministro Cingolani, una carriera nell’industria degli armamenti, è – proseguono – una perfetta fotografia dell’ipocrisia di questo consesso. È urgente mettere in discussione questo modello di sviluppo per non lasciare alle nuove generazioni un mondo sempre più tossico e invivibile come ci dicono i disastri climatici che si riproducono in questi giorni e l’emergere di nuove pandemie legate proprio alla distruzione degli ecosistemi. Giustizia ambientale e giustizia sociale sono due lati della stessa medaglia”. Si aspettano due giorni davvero infernali per la mobilità e il traffico in città.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

G20 Ambiente: da antagonisti lancio oggetti contro Ps. (ANSA il 22 luglio 2021) Momenti di tensione si sono avuti poco fa all' arrivo del corteo degli antagonisti - in corso a Napoli contro il G20 - in piazza Bovio. La testa del corteo ha cercato di spostarsi verso via Depretis, con l'obiettivo di raggiungere piazza Municipio e di qui entrare facilmente nella zona rossa. La Polizia li ha fronteggiati con un doppio cordone di agenti del reparto mobile in assetto antisommossa, che avevano alle spalle furgoni cellulari messi di traverso sulla carreggiata. Dai manifestanti sono stati lanciate buste d'acqua, sacchetti dell'immondizia e altri oggetti contro i poliziotti, che si sono protetti con gli scudi. (ANSA).

AGI il 22 luglio 2021. Si apre in una Napoli blindata la prima giornata del G20 su Ambiente, Clima ed Energia sotto la presidenza italiana. Una due giorni in cui la sostenibilità del Pianeta e la transizione ecologica saranno centrali. E protagonista sarà anche l’economia circolare. La riunione ministeriale oggi si focalizzerà sul tema ambiente mentre domani il focus sarà su clima ed energia che per la prima volta marceranno insieme.

Napoli blindata per l'evento e le proteste. Ma non mancano le proteste. Un gruppo di attivisti dei movimenti ambientalisti e dei centri sociali, che partecipano al controforum in coincidenza con il summit che si svolge a Palazzo Reale, stamattina ha bloccato il traffico nella zona del porto. Tutto l'area che va da piazza Trieste e Trento a piazza del Plebiscito e dintorni è transennata ed è bloccato l’accesso al traffico e ai pedoni.

Cingolani incontra Kerry e il ministro francese. A fare gli onori di casa e ad accogliere i colleghi dell’Ambiente del G20 è stato il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Prima dell’avvio dei lavori Cingolani ha avuto due incontri bilaterali: un colloquio con l’inviato speciale Usa per il clima John Kerry e uno con il ministro della Transizione ecologica francese, Barbara Pompili.  "Italia e Usa insieme per un'alta ambizione e per azioni stringenti in questa decade per tenere la temperatura del pianeta a 1,5 gradi", ha scritto il ministro su Twitter al termine dell’incontro con Kerry. “Difendendo l'ambiente abbiamo la possibilità reale di migliorare la vita delle persone e siamo alla vigilia del maggior cambiamento dalla rivoluzione industriale", ha detto in un'intervista a Repubblica l'inviato speciale Usa sul clima la cui impressione è' che i singoli Paesi vogliono fare meglio nella protezione dell'ambiente e vogliono riuscirci adesso". Secondo Kerry, "siamo di fronte alla possibilità della più grande trasformazione dalla rivoluzione industriale”.

Cingolani, "Ruolo chiave dell'ambiente per il post-pandemia". Aprendo i lavori, dal canto suo, Cingolani ha sottolineato che "Il ruolo dell'ambiente non è mai stato così importante". "Siamo qui riuniti oggi in un contesto che sottolinea il ruolo chiave svolto dai ministeri dell'Ambiente di tutto il mondo nel garantire le basi della società post-pandemia", ha aggiunto il ministro. La ministeriale del G20 su Ambiente, Clima ed Energia, ha proseguito, si svolge "in circostanze senza precedenti che hanno richiesto e richiedono ancora un'azione globale coraggiosa, congiunta e immediata". "Impossibile ignorare le prove scientifiche delle relazioni Ipcc e Ipbes (i due organi intergovernativi che si occupano di biodiversità e di cambiamenti climatici ndr) sui cambiamenti climatici. I tragici eventi meteorologici cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi e, persino giorni - ha evidenziato ancora Cingolani - dimostrano che il nostro sistema climatico sta subendo gravi perturbazioni. Lo stesso vale per gli ecosistemi naturali e la biodiversità, dove i nostri sforzi finora non sono stati in grado di rallentare lo scivolone verso l'estinzione di massa delle specie e la ripartizione dei principali servizi ecosistemici". Secondo il ministro, "è fondamentale resistere alla tentazione di ricostruire le nostre economie sul modello pre-pandemia. In effetti – ha osservato il ministro - come possibile unico aspetto positivo, la pandemia ci ha offerto l'opportunità di ripensare le nostre vite, immaginare nuovi, migliori, modi di organizzare le nostre società ed economie, costruirle meglio e su basi e valori diversi. Questo nuovo approccio richiede economie robuste che operino ancora entro i limiti imposti dai confini planetari e dal fondo sociale, e garantiscano la cura del nostro Pianeta sempre al centro dello sviluppo umano". Cingolani ha quindi ribadito che "soluzioni basate sulla natura e approcci ecosistemici per affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e la povertà sono "uno strumento permanentemente cruciale, ma non dovrebbero sostituire l'urgente e prioritaria necessità di decarbonizzazione e riduzione di tutte le emissioni di gas serra".  "Attenzione prioritaria - ha osservato il ministro - dovrebbe anche essere prestata alla protezione, alla conservazione, alla gestione sostenibile e al ripristino delle terre degradate, alla gestione sostenibile delle risorse idriche, gli oceani e i mari. Inoltre, è fondamentale riconoscere il grave impatto dei rifiuti marini – e in particolare dei rifiuti di plastica marini – sugli ecosistemi marini, le zone costiere, la pesca e il turismo". “La sfida centrale – ha quindi ammonito - riguarda il funzionamento del sistema finanziario e la misura in cui si allinea alle esigenze di sviluppo sostenibile. In parole povere, se il sistema finanziario può essere allineato a queste esigenze, la transizione verso uno sviluppo sostenibile può essere raggiunta. Senza tale allineamento, lo sviluppo sostenibile rimarrà al di fuori della nostra portata, con conseguenze catastrofiche che lasceremo alle generazioni future”. 

Al centro del summit il cambiamento climatico e la transizione ecologica. Alla ministeriale spetterà il compito di esprimere la sintesi di questi lunghi mesi di incontri, confronti e discussioni tra le delegazioni e i tecnici internazionali impegnati nella ricerca di risposte coordinate, eque ed efficaci, capaci di porre le basi per un futuro migliore e sostenibile. La Presidenza italiana del G20 ha presentato proposte importanti sul piano globale per stimolare la comunità internazionale verso “obiettivi ambiziosi”. I temi centrali della discussione saranno il contrasto al cambiamento climatico, l’accelerazione della transizione ecologica, le azioni necessarie per rendere i flussi finanziari coerenti con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, una ripresa economica sostenibile ed inclusiva grazie alle opportunità offerte in campo energetico da soluzioni tecnologiche innovative, l’implementazione delle città intelligenti, resilienti e sostenibili. Le delegazioni stanno lavorando per produrre, al termine di ogni giornata, un comunicato condiviso tra i venti Paesi che contenga la traccia di visioni e impegni comuni. Al termine dei lavori oggi è prevista una conferenza stampa di Cingolani.

Da metropolisweb.it il 5 agosto 2021. Avrebbero favorito il clan Cutolo che fa affari illeciti nel quartiere Fuorigrotta di Napoli: è una delle accuse che la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli contesta a due carabinieri, arrestati dai colleghi del comando provinciale stamattina al termine di un’indagine più ampia, coordinata dal procuratore aggiunto Rosa Volpe. I militari hanno eseguito un arresto in carcere e un altro ai domiciliari. Ai due rappresentanti delle forze dell’ordine viene anche contestato il reato di falso. Le conversazioni intercettate dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli, che hanno condotto le indagini sui due colleghi infedeli arrestati oggi anche con l’accusa di avere favorito la camorra, trovano riscontro nelle dichiarazioni “convergenti” rese da ben otto collaboratori di giustizia. Tutti riferiscono, scrive il gip, “di rapporti "opachi", se non propriamente corruttivi, tra l’appuntato scelto Mario Cinque e alcuni appartenenti alla organizzazioni camorristiche…”. Il giudice, ma anche la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli che ha coordinato l’inchiesta, definisce “trasversale” il contributo di Cinque, rivolto in favore “di chiunque potesse garantirgli un tornaconto personale”. La circostanza, sottolinea ancora il giudice, “non esclude la consapevolezza e la volontà dell’indagato – anche in virtù del ruolo istituzionale da lui ricoperto – di operare a vantaggio dell’uno o dell’altro clan”.

Il pentito: controlli light per le sere del poker. Uno degli otto collaboratori di giustizia che riferiscono alla DDA dei rapporti ‘opachi’ tra uno dei carabinieri infedeli arrestati oggi dal Nucleo Investigativo di Napoli, l’appuntato Mario Cinque, e diversi esponenti della criminalità organizzata, è Roberto Perrone, ritenuto affiliato storico del clan Nuvoletta. Perrone riferisce di avere ottenuto da Cinque parecchi favori, per se stesso ma anche per altri componenti il clan, omettendo di effettuare i dovuti controlli quando era sorvegliato speciale, e informandolo riguardo eventuali provvedimenti a suo carico. Perrone, tra le altre cose, parla anche dei favori che Cinque gli faceva quando, nel periodo in cui era sotto sorveglianza, aveva preso l’abitudine di giocare a poker con un gruppo di persone, tra cui figurano anche degli imprenditori: “… le partite venivano organizzate una volta a settimana da… il quale si informava prima quando era di turno Cinque, che veniva a effettuare il controllo presso la mia abitazione e, diversamente dagli altri controlli, si limitava a bussare al citofono e andava via”.

Cenzio Di Zanni e Chiara Spagnolo per repubblica.it il 6 novembre 2021. Avrebbe accusato di corruzione, associazione per delinquere e truffa alcuni ufficiali dei carabinieri. Il tutto, megafono alla mano, nel corso di due sit-in organizzati il 31 maggio scorso: prima davanti al Palagiustizia in via Dioguardi a Bari e poi davanti al comando regionale dei militari sul lungomare della città, nonostante i divieti messi nero su bianco dal questore. Di quelle manifestazioni aveva anche diffuso i video su Internet, poi rimossi: ora Antonio Savino è finito agli arresti domiciliari e dovrà difendersi dalle accuse di calunnia e violenza o minaccia a un pubblico ufficiale. Le indagini sono state effettuate dagli stessi carabinieri del Nucleo investigativo e della szione di polizia giudiziaria di Bari e l'arresto è stato disposto dalla gip Paola Angela De Santis. È il presidente dell'Unac, Unione nazionale arma dei carabinieri - "un'associazione autodefinitasi sindacato, ma non riconosciuta come tale dal ministero della Difesa e non riconducibile in alcun modo all'Arma", si legge in una nota della procura barese - e in quella veste aveva citato l'esistenza "di una cerchia di generali corrotti che avrebbe truffato lo Stato attraverso una gara d'appalto truccati, gara - ricordano gli inquirenti - finalizzata all'assegnazione di veicoli dell'Arma in cambio di tangenti". E tra le accuse rivolte da Savino ai militari c'è anche la simulazione di reato, "per aver redatto note attraverso le quali si erano evidenziate violazioni del codice penale da parte dello stesso Savino". Le sue affermazioni, ricorda il gip nella sua ordinanza, sono rivolte rivolte nei confronti di militari contro i quali l'indagato nutre sentimenti di acredine in conseguenza di  vicende giudiziarie personali, anche legate al proprio precedente status di carabiniere, poi decaduto a seguito della perdita del grado e alla sua cancellazione dal ruolo d'onore dei sottufficiali. Di molte delle stesse accuse, fra l'altro, c'era traccia nelle denunce-querele depositate da Savino. Le stesse che, presentate in diversi uffici giudiziari, "sono risultate prive di fondatezza e già archiviate", rimarcano gli inquirenti baresi. Prima dell'arresto, i carabinieri avevano sequestrato tutti i computer trovati nell'abitazione dell'ex collega e nella sede dell'Unac. L'ex sottufficiale risponde anche di diffamazione di alcuni magistrati e di suoi superiori. Diversi post e video considerati diffamatori sono stati oscurati dai social network.

Due milioni di euro spariti dalla Legione Carabinieri di Napoli: sospettato un ex militare. Giampiero Casoni il 27/10/2021 su Notizie.it. Due milioni di euro spariti dalla Legione Carabinieri di Napoli: sospettato un ex militare, probabilmente un sottufficiale amministrativo in pensione. Ben due milioni di euro spariti dalla Legione Carabinieri di Napoli, dalla mitica caserma Salvo D’Acquisto: per quel reato di peculato aggravato sarebbe sospettato un ex militare. Le indagini della Procura militare porterebbero ad un carabiniere in stato di quiescenza, in pensione. E ad accorgersi dell’ammanco milionario sarebbe stato un collega, un carabiniere subentrato al sospettato: il militare aveva notato che qualcosa proprio non quadrava nei conti. Perciò aveva segnalato ai vertici che dalle casse del Comando Legione Carabinieri “Campania” mancava una cifra monstre. La stima iniziale parlerebbe infatti di circa due milioni di euro. Sull’ammanco di quella somma sono concentrate le attenzioni della Procura militare partenopea. Non ci sono ancora atti ufficiali pubblici ma si starebbe indagando proprio su quel militare in quiescenza. Militare nei confronti del quale viene ipotizzato il reato di peculato militare, non di furto, a contare la sua posizione di pubblico dipendente che aveva disponibilità di pubblica risorsa.  Il carabiniere in questione era matricolato con ruolo amministrativo. Quel ruolo è potenzialmente affidabile a carabinieri di diverso grado ma pare che l’indiziato “numero uno” sarebbe al massimo un sottufficiale. 

(ANSA l'1 luglio 2021) Dodici anni di reclusione per Giuseppe Montella, l'appuntato dei carabinieri considerato il leader del gruppo della caserma Levante di Piacenza che l'anno scorso, in pieno lockdown, venne chiusa dopo che emersero spaccio di droga e tortura. E' la sentenza pronunciata in abbreviato dal tribunale, dopo che la pm aveva chiesto una condanna a 16 anni. Condannati anche gli altri componenti del gruppo: 8 anni all'appuntato Salvatore Cappellano, sei all'appuntato Giacomo Falanga, tre anni e quattro mesi al carabiniere Daniele Spagnolo e quattro all'ex comandante di stazione Marco Orlando. Sono stati tutti condannati — a pene che vanno dai 12 ai 3 anni e 4 mesi — i 5 carabinieri della caserma Levante di Piacenza, a processo con rito abbreviato (che garantisce la riduzione di un terzo della pena) per le torture, le violenze e i traffici di droga, le estorsioni e le rapine che hanno infangato la divisa gloriosa dell’Arma. Il gup, Fiammetta Modica, ha accolto sostanzialmente le richieste dei sostituti procuratori Matteo Centini e Antonio Colonna, che hanno svolto le indagini coordinati dal procuratore Grazia Pradella.

TUTTI CONDANNATI I CARABINIERI DI PIACENZA INDAGATI. 12 ANNI A MONTELLA. Il Corriere del Giorno l'1 Luglio 2021. Il gup Fiammetta Modica ha ridotto le richieste della Procura nei confronti dei carabinieri della caserma Levante di Piacenza, accusati di torture e traffici di droga. Indagini ancora aperte su eventuali omissioni della catena di comando. Giuseppe Montella, l’appuntato della caserma Levante dei Carabinieri di Piacenza, è stato condannato a 12 anni di reclusione, dopo essere crollato durante l’interrogatorio di garanzia nel luglio 2020, ammettendo tutto. Il giudice delle udienze preliminari Fiammetta Modica, ha sostanzialmente condiviso ed accolto le richieste dei pm Matteo Centini e Antonio Colonna, che hanno condotto le indagini coordinati dal procuratore Grazia Pradella. La procura aveva chiesto 16 anni e 10 mesi. La sentenza con rito abbreviato, che riduce di un terzo la pena prevista dal Codice, è stata pronunciata oggi, condannando sempre a pene inferiori alle richieste dell’accusa i seguenti imputati: l’appuntato scelto Salvatore Cappellano a 8 anni (la richiesta era di 14 anni, 5 mesi e 10 giorni), 6 anni per il collega Giacomo Falanga (13 anni la richiesta di pena), 4 anni per Marco Orlando (5 anni la richiesta) all’epoca comandante della stazione Levante di via Caccialupo a Piacenza. Per Daniele Spagnolo la pena più bassa a 3 anni e 4 mesi (richiesta della procura 7 anni e 8 mesi). Un sesto carabiniere ha scelto di proseguire il processo con il rito immediato, mentre un’altra decina di persone, spacciatori e complici dei carabinieri, hanno patteggiato. Montella si era detto dispiaciuto, pur negando che dietro i fattacci di spaccio e violenze da parte dei militari non c’era “una regia anche se tutti sapevano. Non ho fatto tutto io”.  L’appuntato dei Carabinieri tra le diverse ammissioni, ha cercato di contenere le sue responsabilità sul traffico di droga confermando che la sua attività illegale era cominciata a gennaio 2020, e il guadagno era stato di appena 5 mila euro, denaro necessario per ripagare le rate di un prestito e il mutuo della casa. La caserma nella quale prestavano servizio sino all’anno scorso i carabinieri infedeli, era stata chiusa senza alcun senso dalla Procura peraltro in pieno lockdown, a seguito di episodi legati allo spaccio di droga e di tortura. Il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri all’indomani dello scandalo che travolse la stazione Levante dei Carabinieri di Piacenza, intervenne immediatamente azzerando tutti i vertici della catena di comando. A guidare il comando provinciale di Piacenza venne chiamato il colonnello Paolo Abrate, ex comandante del Gruppo di Milano. Il tenente colonnello Alfredo Beveroni, già comandante di corso della scuola marescialli di Firenze, nominato comandante del reparto operativo. Il maggiore Lorenzo Provenzano, ufficiale addetto della prima sezione del Ros di Milano, venne chiamato a sostituire il capitano Giuseppe Pischedda come comandante del Nucleo investigativo.

Ma le indagini restano ancora aperte. Torture in caserma a Piacenza, tutti condannati i carabinieri "infedeli": 12 anni a Montella. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Condanne per tutti i cinque carabinieri di Piacenza a processo per con rito abbreviato, che garantisce la riduzione di un terzo della pena, per le torture, le violenze e i traffici di droga, le estorsioni e le rapine avvenute nella caserma Levante. Un caso "storico", con la caserma che lo scorso anno venne sequestrata in pieno lockdown dopo che emersero le storie di tortura e spaccio al suo interno. Sostanzialmente accolte dunque le richieste avanzate dai sostituti procuratori Matteo Centini e Antonio Colonna, che hanno svolto le indagini coordinati dal procuratore Grazia Pradella. Il gup Fiammetta Modica ha condannato a 12 anni di reclusione Giuseppe Montella, l’appuntato dei carabinieri considerato il leader del gruppo, con la procura che aveva chiesto 16 anni e 10 mesi. Condanne sono arrivate anche per gli altri componenti: 8 anni all’appuntato Salvatore Cappellano, sei all’appuntato Giacomo Falanga, tre anni e quattro mesi al carabiniere Daniele Spagnolo e quattro all’ex comandante di stazione Marco Orlando. Montella, sottolinea l’AdnKronos, ha ammesso le sue responsabilità ammettendo di aver preso parte a gran parte dei circa 60 episodi contenuti nel capo di imputazione (per fatti avvenuti dall’ottobre 2018 al giugno 2020), ma ha sempre sostenuto di non aver agito da solo. Un sesto carabiniere ha invece scelto il processo con rito immediato, mentre altri indagati, tra spacciatori e complici dei carabinieri, hanno patteggiato. Le indagini sui fatti della caserma Levante sono ancora aperte per appurare eventuali omissioni da parte della catena di comando dei Carabinieri.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Michela Allegri per “Il Messaggero” il 2 luglio 2021. Una caserma dei carabinieri era diventata, in pieno lockdown e in una tranquilla città di provincia come Piacenza, una centrale criminale dove passavano lo spaccio di droga, le estorsioni, la ricettazione, dove si picchiavano le persone, le si torturavano, le si ammanettavano senza ragione. Un anno fa la storia della caserma Levante e dei carabinieri arrestati, scosse non solo la città emiliana, ma tutto il Paese. Ieri per cinque carabinieri finiti sul banco degli imputati è arrivata la condanna al termine del rito abbreviato, che prevede uno sconto di pena. Per un sesto militare, invece, il processo è ancora in corso. Durissima la sentenza emessa dal gup Fiammetta Modica a carico dell'appuntato Giuseppe Montella, considerato il leader della banda criminale in divisa: 12 anni di reclusione. L'accusa aveva chiesto 16 anni, un mese e 10 giorni. Montella ha ammesso di aver preso parte a gran parte dei 60 episodi contestati nel capo di imputazione e avvenuti tra l'ottobre 2018 e il giugno 2020, ma ha sostenuto di non aver agito da solo. Secondo l'accusa avrebbe picchiato pusher per ottenere informazioni che gli garantivano arresti certi ed encomi. E avrebbe anche inflitto torture, prodotto verbali falsi e gestito un giro di spaccio. Non era solo alla sbarra. Per l'appuntato scelto Salvatore Cappellano il giudice ha disposto 8 anni di reclusione, mentre per Giacomo Falanga 6 anni. E ancora: 4 anni per Marco Orlando, all'epoca comandante della stazione di via Caccialupo; 3 anni e 4 mesi per Daniele Spagnolo. L'accusa aveva avanzato per tutti e cinque i militari richieste di condanna più severe. È trascorso meno di un anno dall'operazione Odysseus, coordinata dalla procura di Piacenza, scattata dopo le rivelazioni di un carabiniere. A svolgere le indagini, la Guardia di finanza e la Polizia locale. Era il 22 luglio 2020 quando furono emesse 22 ordinanze di custodia cautelare e fu deciso il sequestro della caserma Levante. Nella requisitoria dell'aprile scorso, il procuratore capo Grazia Pradella aveva parlato di comportamenti di «eccezionale gravità» che hanno «offeso i carabinieri che lavorano in silenzio e con spirito servizio». Nell'aula di Piacenza Expo, trasformata in tribunale per rispettare le norme anti Covid, è stato il pm Antonio Colonna a ricostruire «il sistema Levante» e a spiegare le responsabilità di tutti gli imputati «accecati dall'arroganza di chi si crede al di sopra delle regole», capaci di tenere in piedi un sistema parallelo «fatto di menzogne, di sequestri di droga rivenduta attraverso pusher di fiducia, di arresti architettati per aumentare le statistiche, di pestaggi con modalità tali da configurare la tortura». Il pm è stato rigoroso nell'elencare i reati commessi dai cinque carabinieri che hanno scelto l'abbreviato: le contestazioni spaziano dallo spaccio di droga al peculato, dal falso alle lesioni, fino alla tortura. L'ultima accusa è rimasta a carico di Montella, Cappellano e Falanga e solo per uno dei due episodi contestati, che riguarda un giovane egiziano la cui aggressione in caserma, da parte dei militari, venne registrata in un'intercettazione. «C'è gente che indossa la divisa con onore, perciò leggere questi fatti è motivo di umiliazione e vergogna. Dedico il mio intervento a queste donne e a questi uomini valorosi», è uno dei passaggi della requisitoria davanti agli imputati e alle parti civili, tra le quali alcune associazioni di carabinieri e, naturalmente, l'Arma, che ha ottenuto una provvisionale da 150mila euro. Ha commentato il procuratore Pradella dopo la sentenza: «L'impianto accusatorio ha retto in pieno». Tutti gli imputati erano presenti in aula, tranne Montella.

La vicenda del colonnello Carlo Calcagni, vittima dell'uranio impoverito. Le Iene News il 24 maggio 2021. Luigi Pelazza si occupa della vicenda del colonnello Carlo Calcagni, ex pilota dell’Esercito e oggi anche paraolimpico, rimasto vittima di inalazioni di uranio impoverito, durante una missione di pace del 1996 in Bosnia. Non perdetevi il servizio, martedì dalle 21.10 su Italia1. Luigi Pelazza si occupa della vicenda del colonnello Carlo Calcagni, ex pilota dell’Esercito e oggi anche paraolimpico, rimasto vittima di inalazioni di uranio impoverito, durante una missione di pace del 1996 in Bosnia. Oggi Calcagni, che da quegli anni soffre di patologie croniche degenerative e irreversibili, chiede al Ministero della Difesa un risarcimento di un solo euro, simbolico, unito però a delle scuse pubbliche, per lui e per i tanti che come lui hanno subito lo stesso calvario. La vicenda: l’esercito americano, che durante i combattimenti utilizzava bombe e proiettili contenenti metallo pesante, tossico e cancerogeno, mandava, prima dell’utilizzo, delle indicazioni precise su come comportarsi in determinate zone e su come proteggersi in caso di esposizioni. Non tutti i militari mandati nei Balcani furono informati dai vertici di allora e in molti si ammalarono o morirono perché sottoposti a continue esalazioni di aria contenente polvere di uranio. Tra questi anche Carlo Calcagni, che per la sua “Sensibilità chimica multipla” affronta quotidianamente terapie estenuanti che servono solo a ridurre gli effetti dell’uranio sul suo sistema renale, respiratorio, cardiaco ed endocrino e a rallentarne il decorso. Nel 2007 il Ministero della Difesa gli ha riconosciuto un’indennità e una pensione di invalidità al 100%. Ma dieci anni dopo venne negata al militare la richiesta di un risarcimento. Secondo lui, lo Stato italiano “non lo avrebbe protetto e gli avrebbe nascosto i pericoli dell’uranio impoverito”. Calcagni volle quindi accedere agli atti per conoscere le motivazioni del diniego, ma il Ministero della Difesa si oppose per “Segreto di Stato sulla documentazione”. Nel 2019 il Tar condannò il Governo a esibire la documentazione e dalle carte si scoprì che il risarcimento venne negato perché “Calcagni non avrebbe svolto attività di volo nei Balcani”, nonostante il suo ruolo fosse proprio quello di arrivare dal cielo con l’elicottero e proteggere la vita di feriti e sfollati, portandoli in salvo. Cosa riscontrabile anche guardando il suo libretto di volo e il suo fascicolo sanitario, dove sono riportati con precisione tutti quelli effettuati nella ex Jugoslavia. L’inviato affronta la questione con l’ex Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, che durante il suo impegno governativo ha approfondito le carte che hanno supportato la tesi del Colonnello, e con l’attuale vertice sottosegretario, l’on. Giorgio Mulè: sentirete le loro risposte nel servizio Luigi Pelazza, martedì dalle 21.10 su Italia1.

Interviste. «Rinuncio al risarcimento milionario, ma lo Stato mi chieda scusa». Paola Carella il 24 Ottobre 2021 su culturaidentita.it su Il Giornale. Il Colonnello Carlo Calcagni si è ammalato gravemente durante la missione di pace nei Balcani nel 1996. La vita della maggior parte di noi è fatta di code al lunedì mattina per andare al lavoro, problemi con la scuola dei figli, in ufficio con un capo da mandare al diavolo, il TG della sera, il centro commerciale del sabato pomeriggio e così via. Poi esistono quelli come Carlo Calcagni, paracadutista e pilota istruttore di volo di elicotteri: lui, durante la missione di pace in Bosnia, si è imbattuto in un nemico invisibile, l’uranio impoverito. Quelle polveri altamente tossiche hanno invaso e avvelenato ogni cellula del suo corpo, generando una grave malattia neurologica cronica degenerativa ed irreversibile, che combatte con tanti medicinali e tantissima forza di volontà, divenendo un esempio di incoraggiamento per gli altri, tanto da candidarsi come Garante regionale per la disabilità per la Regione Puglia, a sostenerlo il consigliere regionale Paolo Pagliaro. La sua vicenda è raccontata in un libro autobiografico, Pedalando su un filo d’acciaio, (Edizioni G.A.) e anche UNAVI Unione Nazionale Vittime vuole dare il proprio sostegno al colonnello Calcagni.

Se potesse tornare indietro rifarebbe la scelta di arruolarsi?

«Chi è stato un militare, lo è e lo sarà per sempre, non è una professione ma una vera e propria passione, sono stato impegnato in più Missioni Internazionali di Pace, sono un convinto Patriota, “SIAM PRONTI ALLA MORTE…” recita il nostro Inno Nazionale. Sono le parole più belle e le scriviamo sul nostro cuore, sulla nostra pelle, prima ancora che inizi l’addestramento! Ubbidiamo ai nostri superiori, sempre. Per quelli come me, ubbidire ai superiori è un modo di riverire la nostra Patria. Nessuno pensi che si possa andare in quei teatri di guerra a prestare soccorso a corpi dilaniati dalle bombe, solo per un salario, anche se di tutto rispetto, senza una fervida fede, non affronti tanto dolore, tante privazioni, tanto disagio. Io c’ero in quei teatri di sangue e proprio per la mia professionalità mi è stato conferito, persino, un ENCOMIO: “…chiaro esempio di soldato che ha dato lustro all’Esercito Italiano e che ha riscosso unanime ammirazione anche dalle Forze Armate internazionali impegnate in Bosnia-Herzegovina” (Sarajevo 02.07.1996). Ho portato a termine tutte le missioni di volo che mi sono state assegnate, svolgendo il più nobile dei servizi per la collettività: salvare vite umane! Scendevo dall’elicottero abbracciando quei fratelli feriti e li portavo via da quei campi di morte. Questa consapevolezza ti rende solo più orgoglioso e ancor più determinato nel fare il tuo dovere. MAI avrei potuto immaginare che qualcuno fosse a conoscenza, senza informarci, di un altro nemico, più subdolo, più crudele, più vigliacco, un nemico invisibile che ha nome e cognome: uranio impoverito. Un nemico che non ho potuto affrontare faccia a faccia, nè guardare negli occhi, ma è la causa di indescrivibili sofferenze, soprattutto quando il dolore si accumula alla rabbia, perché ti rendi conto che il tuo corpo si sta distruggendo non per un colpo di fucile, non per l’esplosione di una mina, ma per un vile attentato alla tua vita da parte di chi avrebbe dovuto proteggerla: la tua Patria».

Quale è la giustizia che cerca?

«Nella missione in Bosnia vedevamo in azione militari USA attrezzati con tute speciali, maschere e, addirittura, respiratori a circuito chiuso, perché loro erano stati avvisati dei rischi ambientali e di contaminazione, noi no! I vertici militari e politici sapevano, ma hanno volutamente taciuto. Io desidero il rispetto, per la profonda considerazione che ho per i valori che incarno ed il forte senso del dovere sono disposto a rinunciare persino ad un risarcimento milionario in cambio di un euro simbolico con le scuse pubbliche delle Istituzioni nei miei confronti, della mia famiglia e di tutti coloro che hanno subìto la stessa indifferenza. Per questo motivo vado nelle scuole a raccontare la mia storia, perché sia di stimolo ed esempio ai nostri figli, che hanno bisogno di riferimenti positivi. Bisogna instillare nei giovani valori come il coraggio e la lealtà verso il proprio Paese, trasmettergli gli strumenti per costruire un futuro in cui la società possa essere dominata da uomini generosi e sempre disponibili ad aiutare gli altri, specialmente i più deboli. La giustizia forse farà luce su questa crudeltà, ma intanto si contano i morti, purtroppo tanti».

Nello sport, in particolare nel ciclismo, Carlo ha trovato un valido alleato che lo aiuta giorno per giorno a ricostruire l’equilibrio psicofisico messo a dura prova; grande atleta fin da piccolo, che aveva già all’attivo oltre 300 gare ciclistiche.

«La mia passione, la bicicletta, l’ho dovuta adattare alla mia nuova tormentata situazione sanitaria – racconta il colonnello – adesso è un triciclo! Che dolore, che vergogna i primi giorni che la Commissione Medica della Federazione Ciclistica Italiana, già nel 2015, ha sentenziato questa necessità. Il mio stato di salute è grave. Anzi, i medici che mi seguono e che si prendono cura del sottoscritto lo definiscono “gravissimo”. Il mio corpo e tutti i miei organi sono minati. La mia vita la trascorro girando da un ospedale all’altro, assumendo quintali di medicine, palliativi che non potranno mai guarire ma solo tentare di preservare e rallentare la malattia autoimmune, conica, degenerativa ed irreversibile. Fare sport per me costituisce carburante con cui alimentare la mia motivazione per la vita, per onorarla come merita, e seppur sia stato ostacolato, respinto e penalizzato dal “Sistema” in diverse occasioni, credo comunque nel valore dello sport. Io sono e sarò sempre un soldato, un italiano che ha prestato giuramento alla bandiera, che ha deciso di dedicare la propria vita agli altri, che ha indossato con orgoglio l’uniforme e che crede fermamente in tutti quei valori che uno Stato democratico dovrebbe sostenere e incarnare, come quelli di lealtà, giustizia, legalità e condivisione».

Ma si sa che la vita spesso oltre al danno presenta anche la beffa e così il colonnello Carlo Calcagni, con il 100% di invalidità permanente, accertata e riconosciuta “malattia professionale” dipendente da fatti e cause di servizio dalle Commissioni Mediche Ospedaliere Militari, viene escluso dalle Paralimpiadi di Tokyo 2020, perché secondo la commissione tecnica classificatrice non soddisfa i criteri minimi per il ciclismo paralimpico, la stessa commissione che nel 2015 aveva valutato “molto grave” la sua malattia neurodegenerativa con Parkinson e gli aveva imposto il triciclo».

Perché è stato escluso secondo lei?

«Il vero problema è che sono un malato apparentemente “in formissima”, ma pochi capiscono che io sono così non perché le mie patologie non siano invalidanti, ma perché ho una tempra ed una resilienza fuori dal comune, sono esageratamente ostinato ed ho una straordinaria capacità di adattarmi al cambiamento. Non voglio darla vinta alla malattia, che sfido ogni giorno, costi quel che costi. Sono pienamente consapevole del fatto che i danni arrecati dai metalli pesanti al mio organismo, durante la Missione nei Balcani, e che hanno determinato diverse patologie degenerative, mi condurranno alla morte, ma nonostante queste mie patologie siano invisibili, perché devastano il mio corpo dall’interno, il messaggio che ho sempre cercato di trasmettere e che desidero continuare a dare, attraverso il mio esempio di vita, è quello che non dobbiamo ARRENDERCI, MAI, che non dobbiamo limitarci a SOPRAVVIVERE, curando esclusivamente la malattia, ma bisogna affrontarla e cercare di batterla, VIVENDO MEGLIO, coltivando le proprie passioni e praticando sport, perché è solo attraverso lo sport che è possibile spingere il nostro corpo a dare il massimo, a reagire alla malattia stessa, rallentandola e arrestandola. Non a caso il Ministero della Difesa, proprio per le mie numerose patologie, oltre ad aver riconosciuto una invalidità permanente del 100% dipendente da cause e fatti di servizio, mi ha concesso il Distintivo d’Onore di FERITO e di MUTILATO in servizio, pur in assenza di mutilazioni apparenti, proprio per la gravità delle patologie, ma tanti non comprendono che la mia sofferenza va’ ben oltre quella fisica. La mia anima è stata devastata, così com’è stato distrutto il futuro di un pilota istruttore di volo dell’Aviazione dell’Esercito e la mia carriera. Ho dovuto fare tante rinunce, ho dovuto sopportare dolore e sofferenza, ma grazie anche e soprattutto alla mia bicicletta e all’amore per i miei figli, ho potuto ricostruire la mia vita dalle ceneri di quella che oramai non esisteva più, rendendola unica ed eccezionale nella sua straordinarietà».

Chi ha avuto modo di vedere il docu-film “IO SONO IL COLONNELLO” realizzato da Michelangelo Gratton, ha visto soltanto una piccola parte della quotidiana lotta di quest’uomo: dalle notti attaccato al ventilatore polmonare, alle 300 pastiglie al giorno, dalle flebo quotidiane ai numerosi interventi chirurgici, senza parlare delle rinunce di tutte quelle cose che nella nostra quotidianità sono normali, la pizza al sabato sera, le vacanze, un bagno al mare, una fetta di torta, una serata con gli amici. Ciò che la maggior parte di noi vede, esternamente, è già di per sé un miracolo ed è solo una piccola parte dei sacrifici che Carlo deve affrontare quotidianamente, e nonostante tutte le innumerevoli prove a cui la vita lo ha sottoposto trova la forza e la voglia di poter vivere la sua vera, unica e grande passione: lo sport, il ciclismo.

Nella sua vita lo sport è diventato vitale, nel vero senso della parola. C’è una sostanziale differenza tra il “sopravvivere” grazie alle terapie ed alle cure quotidiane ed il “vivere” nel vero senso della parola, io vivo grazie allo sport e grazie all’amore che mi circonda. Come l’acqua deve essere in costante movimento per non andare in putrefazione così devo muovermi costantemente io per non permettere al Parkinson di prendere il sopravvento, bloccando i miei muscoli. Per me è fondamentale allenarmi quotidianamente, perché è proprio lo sport che mi tiene in vita e fa parte integrante della terapia, quasi fosse un farmaco per me. Ogni malattia dovrebbe essere affrontata su due piani: quello terapeutico e quello umano. Maggiore è la motivazione a guarire, maggiori saranno le possibilità di guarigione o regressione della malattia. Quando mi vietano di gareggiare, mi stanno privando di parte della terapia, come togliere l’insulina a un diabetico.

L’esempio del Colonnello Calcagni è una grande dimostrazione di fermezza e determinazione, quando si è portatori sani di luce, tutto diventa davvero possibile, ogni ostacolo può essere abbattuto e vinto, ed essere degno testimone di quei profondi valori che indirizzano la vita nella direzione del bene comune e dell’amore per il prossimo. Un uomo che merita il rispetto e l’ammirazione di un’intera Nazione, una delle tante storie di sport e passione che ci ricordano che solo chi sogna può imparare a volare.

Quarta Repubblica, Carlo Nordio: "Doveva restare un segreto". Spara al senegalese, agente indagato: svelata la vergogna delle toghe. Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Si parla del poliziotto indagato per aver fermato, sparando alle gambe, l'immigrato che ha terrorizzato i passanti alla Stazione Termini a Roma da Nicola Porro, a Quarta Repubblica, su Rete 4, nella puntata del 28 giugno. Tra gli ospiti c'è l'ex magistrato Carlo Nordio che difende le forze dell'ordine e osserva: "Il fatto che il poliziotto era indagato doveva rimanere segreto perché così si perde la fiducia nelle forze dell’ordine". Di più, aggiunge il leghista Nicola Molteni, anche lui ospite di Porro: "Questo poliziotto andava ringraziato e non indagato". "I cittadini chiedono sicurezza e controllo del territorio", prosegue Molteni, "e per fare questo dobbiamo rafforzare le forze dell'ordine sul territorio. Il poliziotto va rispettato, dobbiamo dare ai poliziotti le dotazioni necessarie". A questo proposito Piero Sansonetti spiega che "noi ormai consideriamo le indagini come una dichiarazione di colpevolezza, se qualcuno ha sparato ci deve essere l'indagine. Se fai un mestiere così difficile devi essere pagato almeno 5.000 euro al mese".  Peccato che i poliziotti vengano pagati meno di duemila euro al mese. Il 20 giugno, nei pressi della Stazione Termini, si aggirava un immigrato di origine ghanese di 42 anni, con un coltello in mano, in evidente stato di alterazione. Per questo alcuni passeggeri hanno avvisato le forze dell'ordine. Gli agenti della Polfer hanno così cercato di fermarlo, ma l'uomo ha opposto resistenza e anzi li ha aggrediti. Quindi è fuggito seminando il terrore tra i passanti e tentando la fuga verso via Marsala. Quando ha poi cercato di accoltellare un agente, il poliziotto ha risposto con un colpo di pistola dissuasivo che ha colpito l'uomo all'inguine. E ora è indagato.

Un altro schiaffo al poliziotto. La toga "grazia" il ghanese. Alessandra Benignetti il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Per il gip non ci sarebbero le condizioni per accusare il migrante di tentato omicidio. Resta indagato per "eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi" il poliziotto che ha sparato per disarmarlo. Alla fine, con tutta probabilità, il poliziotto che venerdì scorso ha sparato ad Ahmed Brahim, verrà sollevato da ogni accusa. Anche la procura, che ieri ha iscritto l’assistente capo della Polfer nel registro degli indagati per "eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi", ha parlato di "atto dovuto". Intanto, però, oltre a subire l’umiliazione di finire alla sbarra al pari del 44enne ghanese che armato di coltello ha seminato il panico attorno alla Stazione Termini, minacciando i passanti, dovrà anche farsi carico delle spese legali. Per il migrante pluripregiudicato che la sera del 19 giugno si è scagliato contro i passanti prima di affrontare, lama in pugno, una decina di agenti della Ferroviaria intervenuti per placarlo, invece, è già caduta l’accusa di tentato omicidio. Inizialmente la pm Nadia Plastina e il procuratore aggiunto Nunzia D’Elia avevano ipotizzato tre reati, quello di porto illegale di armi, di resistenza a pubblico ufficiale e di tentato omicidio, appunto. Per questo il ghanese, ricoverato al Policlinico Umberto I in codice rosso dopo essere stato reso inoffensivo dall’agente con un colpo indirizzato all’inguine, è stato subito posto in stato di arresto. La giudice per le indagini preliminari Bernadette Nicotra, però, dissente rispetto all’impostazione dei pm e, come riferisce Repubblica, avrebbe già fatto cadere quest’ultima accusa. Insomma, lo straniero, per il gip, non sarebbe stato intenzionato ad uccidere. Eppure le immagini, che hanno fatto il giro del web, lo ritraggono come uno tutt’altro che remissivo. Brahim, che indossa una felpa rossa e un paio di pantaloni neri, è a via Marsala circondato da almeno una decina di poliziotti con i manganelli in pugno. Si muove convulsamente da una parte all’altra, tiene il coltello con la mano destra e la lama rivolta verso il basso e cerca in almeno due occasioni di ferire gli agenti. Sale su un motorino e saltando giù muove il braccio con cui impugna il coltello dall’alto verso il basso, per cercare di infliggere il fendente ai suoi avversari. Fa lo stesso gesto almeno un altro paio di volte. Non un minimo cenno di resa. Per questo si sente uno degli uomini in divisa che ad un certo punto grida: "Spara oh, spara!". La ripete almeno tre volte, quella parola. L’assistente capo ha già estratto la pistola. È puntata alle gambe del migrante esagitato. Dopo qualche secondo di attesa, l'agente si decide ad esplodere il colpo. Il ghanese cade a terra e viene soccorso immediatamente dai sanitari. La questura di Roma, nei giorni scorsi, ha fatto sapere che l’uomo ha già diversi precedenti per il danneggiamento di statue in alcune chiese della Capitale, per una sassaiola contro un centro islamico in cui ha ferito l'imam, e per una tentata rapina. Per questo rimarrà comunque agli arresti, oltre ad essere sottoposto ad una perizia psichiatrica. Ieri il sindacato di polizia Coisp aveva contestato l’incriminazione dell’agente. "È penalizzante”, aveva detto al Giornale.it, Domenico Pianese, presidente dell’organizzazione. "Il cittadino ghanese, armato di coltello, avrebbe potuto compiere una strage", accusava il sindacalista, invocando una legge che obblighi "lo Stato ad assumersi gli oneri della difesa del poliziotto". Lui, contestava Pianese, "a fronte di uno stipendio di 1.500 euro al mese, dovrà nominare una propria difesa, un perito di parte e avvocato, mentre il migrante, per la sua di difesa, avrà il gratuito patrocinio a spese dei contribuenti". La norma sulla base della quale l’agente è stato iscritto nel registro degli indagati, ha spiegato a Stefano Zurlo sul Giornale in edicola il giudice del tribunale di Roma, Valerio De Gioia, è "figlia dell'eccesso colposo di legittima difesa". La stessa toga spiega di ritenere opportuna una revisione "dell'impianto normativo valorizzando l'elemento soggettivo, il grave turbamento dell'agente che magari sbaglia in buonafede". "Non vuole dire – chiarisce - dare licenza di sparare o peggio di uccidere". La vicenda ha riaperto anche il dibattito sull’opportunità di dotare gli agenti di strumenti come il taser. "Oggi è più che mai una priorità", ha commentato il sottosegretario all’Interno della Lega, Nicola Molteni. Intanto, dopo la solidarietà espressa al poliziotto da tutto il centrodestra, oggi il leader leghista Matteo Salvini ha annunciato di voler fare il possibile per "andarlo a trovare e sostenerlo in ogni modo". "Si complica la posizione dell'agente indagato e cade l'accusa di tentato omicidio per il delinquente che ha seminato il panico con il coltello, è vergognoso, senza parole", ha commentato Salvini su Twitter.

Alessandra Benignetti. Nata nel 1987, vivo da sempre a Roma, città che amo. Sono laureata cum laude in Scienze Politiche all'Università La Sapienza, giornalista pubblicista, moglie e mamma. Appassionata di geopolitica e relazioni internazionali, per il Giornale.it realizzo video reportage e inchieste seguendo da vicino i fatti di cronaca e l'attu

Aperta indagine interna: "Comportamenti inconciliabili con i valori fondanti dell'Arma". Carabiniere insulta e prende a calci ragazzo in strada: “Marescià non ho niente”, il video virale. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'11 Maggio 2021. “Marescià non ho niente, scusate”. Si prova a giustificare così un ragazzo fermato in strada a Terzigno, comune in provincia di Napoli, da una pattuglia dei carabinieri presumibilmente dopo l’orario in cui vige il coprifuoco. Il militare scende dall’auto e, senza un motivo apparente, inizia a prendere a calci il giovane invitandolo a tornare a casa. Quest’ultimo prova a giustificarsi ma il pubblico ufficiale incalza e gli rifila in totale tre calci continuando ad insultarlo con epiteti irriguardosi. Il video, che dura circa 20 secondi ed è diventato virale sui social nel giro di poche ore, è stato girato da un residente affacciato al balcone di un’abitazione poco distante. Non è ancora chiaro quando l’episodio sia accaduto. E’ notte, probabilmente dopo l’orario del coprifuoco (22), e i militari presumibilmente stavano effettuando un servizio di controllo del territorio. Il filmato è stato acquisito dagli stessi carabinieri che stanno ricostruendo i fatti e svolgendo approfondimenti sull’increscioso atteggiamento del collega. In una nota la posizione del Comando Provinciale dei carabinieri di Napoli: “Con riferimento al video diffuso in rete dal gruppo denominato “Welcome to Favelas“, attivo sui social e sulle app di messaggistica istantanea, il Comando Provinciale Carabinieri di Napoli ha immediatamente avviato autonomi accertamenti finalizzati a perseguire, con il massimo rigore e convinta inflessibilità, comportamenti inconciliabili con i valori fondanti dell’Arma, valori di umanità e vicinanza, a cui si ispira quotidianamente l’agire dei tanti Carabinieri che, con sacrificio e dedizione, operano per garantire i diritti e la sicurezza dei cittadini, spesso mettendo a rischio anche la propria vita”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Umberto Rapetto per infosec.news il 7 novembre 2021. Michele è l’ultimo di una lunga e interminabile serie, il secondo di questa settimana. La mattina del 4 novembre si è alzato presto. Giornata importante quella della Festa delle Forze Armate, piena di cerimonie e pubbliche celebrazioni. Lo sanno tutti. Michele però sa qualcosa di più. Qualcosa che forse non ha confidato, che non ha saputo spiegare, che non ha avuto il coraggio di tirare fuori, di cui nessuno è stato capace di accorgersi e di domandargli il banale e spesso di rito “Tutto bene?” Giornata drammatica il 4 novembre. Per lui, per la famiglia, per chi lo conosceva, per chi gli voleva bene. Michele deve partecipare ad uno degli eventi commemorativi ma ha ben chiaro che lo schieramento avrà un posto vuoto. Arriva al Ponte di San Vito a Ragusa e lì spicca il volo verso il cielo. Non si conoscono le ragioni di quel gesto estremo e qualunque ne sia stata la radice non bastano le lacrime a sedare la rabbia che istintivamente fa urlare un tanto naturale quanto inutile “perché?”. A dire il vero i “perché” sono più di uno. Non interessa soltanto la ragione del disperato salto nel vuoto, ma anche e soprattutto il motivo per il quale nessuno in ufficio (colleghi e superiori) si sia reso conto del disagio che stava tracimando e si accingeva a travolgere Michele…Nel 1993 Michele è stato uno dei miei collaboratori. Faceva l’autista al Segretariato Generale del Ministero delle Finanze, quando io ero nello staff dell’indimenticabile Gianni Billia. Fresco di corso alla Scuola Allievi Finanzieri, era solerte e disciplinato, forse poco espansivo (la poca esperienza fa esser timidi) ma certo non imperscrutabile. Era la mascotte di quella piccola unità “in divisa” nella pancia “civile” del Ministero, coccolato e simpaticamente sfottuto con l’affettuoso nomignolo di “Posalaquaglia” per la sua disponibilità a svolgere qualunque incarico gli venisse assegnato. Mi è difficile credere che Michele sia riuscito a blindare il suo malessere al punto che nessuno lo potesse percepire. Ho fatto il comandante, l’ho fatto pretendendo dai miei “ragazzi” l’impossibile, facendo per loro tutto quel che era nelle mie possibilità e qualche volta pure di più. Mi bastava guardarli negli occhi per capire se qualcosa non andava e non potevo assolutamente permettermi che ci fossero preoccupazioni o problemi, quasi mi pesasse la responsabilità di esser capace di dar loro una mano. Ero convinto (e lo sono tuttora) che il sentirsi chiamare “Comandante” fosse la più onerosa delle soddisfazioni. E’ una parola che – a mia volta – ho riservato ad una striminzita manciata di miei superiori meritevoli di un così gravoso appellativo, chiamando tutti gli altri con il “signor” seguito dal grado da loro rivestito. “Comandante” bisogna meritarselo e pochi ne hanno davvero diritto. Comprendo sia difficile farsi carico dei “casini” degli altri, ma è proprio lì che sta la differenza tra un “Comandante” e un “superiore”. I superiori si dimenticano al primo cambio di incarico, i Comandanti – quei pochi – restano impressi nell’anima perché il loro cuore era capace di ospitare le paure, le difficoltà e i dolori di chi è alle dipendenze. Michele è morto a due giorni di distanza di Francesco Saverio, maresciallo ordinario eufemisticamente “trovato senza vita” a Lodi. In comune non solo il doloroso epilogo, ma anche il 1991. Era l’anno di arruolamento di Michele, quello di nascita del giovane collega sottufficiale suicidatosi in Lombardia. In comune hanno anche il messaggio a ciclostile con cui il Comando di appartenenza introduce con il consueto “A preliminare informazione si rende noto che…” e si conclude con la frase di rito “Sono in corso le procedure per attivare il supporto psicologico nei confronti dei familiari”. In alcuni casi la solerzia degli incaricati alla redazione del “radiomessaggio” è tale da far sì che siano informate le “Superiori Gerarchie” prima dei genitori, come è successo con Francesco Saverio dove si legge che il Comandante Provinciale “sta contattando la famiglia del militare che risulta vivere a Napoli”…Quel messaggio rimbalza spesso sulle chat dei gruppi di finanzieri che adoperano WhatsApp e il poveretto di turno ottiene finalmente quei 30 secondi di attenzione che magari avrebbe voluto nei giorni precedenti il drammatico togliersi la vita. Il suo nome, accompagnato al numero di matricola, per un istante diventa famigliare anche a chi non lo ha mai conosciuto, nome che chi lo aveva di fronte tutti i giorni probabilmente non abbinava ad un volto, ad una vita o ad un problema che meritava un briciolo di attenzione. Ad ottobre del 2018 scrissi di queste cose in un mio pezzo su Il Fatto Quotidiano a ridosso della tragica scomparsa di un mio amico, il Colonnello Massimiliano Giua. Il titolo conteneva una domanda: “Suicidi in Guardia di Finanza, il malessere è diffuso. Perché?” A distanza di tre anni quel quesito non ha trovato risposta. A quel “perché” vorrei aggiungere “cosa è stato fatto nel frattempo” oltre al roboante “supporto psicologico nei confronti dei famigliari”? 

Da blitzquotidiano.it il 16 dicembre 2021. Dal primo gennaio l‘Arma dei carabinieri attiverà un servizio di ascolto e assistenza per prevenire i suicidi. Servizio curato da psicologi specializzati, raggiungibile da tutti i militari in servizio con un numero verde gratuito, operativo anche di notte e nei giorni festivi, con tutela della privacy. È uno strumento di prevenzione al fenomeno dei suicidi, di cui dà notizia il CoCeR (Consiglio Centrale di Rappresentanza Militare), che ha inviato una lettera aperta al comandante generale, generale di corpo d’armata Teo Luzi, esprimendo “il proprio plauso all’iniziativa”. 

I suicidi dei carabinieri in Italia

Da inizio anno sono stati oltre venti i carabinieri suicidi in Italia. Il fenomeno, scrivono i delegati Cocer al comandante “continua a interessare tragicamente il comparto Difesa-Sicurezza e, sin dal nostro primo incontro, lei si è sempre dimostrato disponibile ad ascoltarci, nonché fortemente interessato a prendersi cura della delicata tematica”. Per il servizio di ascolto è stato siglato un accordo tra il Fondo assistenza previdenza e premi dell’Arma dei Carabinieri, presieduto da Luzi, nel cui cda ci sono anche delegati del Cocer, e l’azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma.

Come funzionerà

“Costituisce piena testimonianza di quell’impegno costante che l’Arma ha sempre riservato ai propri carabinieri e dimostra, qualora ce ne fosse stato bisogno, la sua sensibilità di uomo e comandante. Con il servizio si crea “un’area ‘protetta’ per la prevenzione del ‘disagio psico-emotivo’, alla quale il Carabiniere in stato di bisogno potrà avvicinarsi serenamente, con la garanzia di parlare riservatamente con psicologi professionisti di pluriennale esperienza nel campo del supporto e delle devianze”, aggiunge il Cocer.

Biella, il mistero del questore Gianni Triolo suicida: due bigliettini per moglie e figlio. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2021. Il dirigente di polizia, 60 anni, ha scritto i messaggi e si è tolto la vita nel suo ufficio con la pistola d’ordinanza. Il cordoglio di chi lo conosceva: «Un servitore dello Stato». Due bigliettini sulla scrivania scritti a mano. Uno di addio alla moglie. Uno invece per spiegare le motivazioni del suo gesto estremo al figlio. Parole pensate e scritte a penna qualche minuto prima di decidere di premere il grilletto della pistola d’ordinanza e togliersi la vita. Niente altro è stato trovato sulla scrivania dell’ufficio di Gianni Triolo, 60 anni, questore di Biella che ieri mattina si è ucciso nella stanza della questura biellese di via Sant’Eusebio. Era arrivato presto, come faceva tutte le mattine. Con tutta probabilità aveva già l’intenzione di togliersi la vita. Una verità nascosta in quei due fogli di carta a cui ha affidato tutto il suo dolore per quel momento difficile che, con ogni probabilità, stava attraversando. Parole che si era tenuto dentro per non si sa quanto tempo. Non si era confidato con nessuno. A nessuno aveva raccontato che cosa lo preoccupava da qualche settimana. A tutti, perfino ai suoi uomini, si era mostrato tranquillo. Sorridente. Gentile nei modi. Invece, con ogni probabilità, dietro quei sorrisi aveva già maturato la sua scelta. Ieri mattina non ce l’ha più fatta. E ha deciso di mettere fine alla sua esistenza. A scoprire il corpo la donna delle pulizie, arrivata poco dopo di lui in questura. Erano appena le 7. Quando è entrata lo ha perfino salutato. Pensava stesse lavorando, a testa bassa sulla sua scrivania. Ma quando si è avvicinata ha invece visto il sangue. È stata lei a dare l’allarme e avvertire prima gli altri poliziotti e poi i carabinieri. Triolo era arrivato a Biella con l’inizio della pandemia ed era al primo incarico da questore. Originario di Pescara, era entrato in polizia nel 1987 dopo la laurea in Giurisprudenza. In servizio fino al 1991 al Reparto Mobile di Torino, era poi stato Dirigente dell’Ufficio Personale e quindi Capo di Gabinetto della Questura di La Spezia, dove vive la sua famiglia, per poi dirigere l’anticrimine della città ed essere nominato vicario, ruolo che aveva ricoperto anche a Pisa. Era stato lui, una volta arrivato a Biella ad introdurre il daspo urbano. «L’ho visto venerdì per l’ultima volta — dice il sindaco Claudio Corradino —. Era all’incontro del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico. Non riesco a credere a ciò che è accaduto. Abbiamo sempre lavorato insieme. Era una persona gentile e piacevole. E, da figlio di poliziotto sono particolarmente toccato da questa notizia». Triolo è stato «un servitore dello Stato» ha commentato il viceministro biellese all’Economia, Gilberto Pichetto. «La sua morte lascia un incolmabile vuoto in tutti quelli che lo hanno conosciuto e hanno avuto l’onore e il privilegio di lavorare con lui». Cordoglio arrivato anche da Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera. «La giornata si è aperta con una triste notizia, il suicidio del questore di Biella — ha dichiarato il parlamentare del Movimento 5 Stelle —. Un’occasione che ci fa riflettere sulla necessità di un costante supporto psicologico agli operatori del comparto sicurezza».

 A ritrovare il corpo la donna addetta alle pulizie. Il questore Gianni Triolo suicida negli uffici di polizia a Biella: lasciato un biglietto. Giovanni Pisano su Il Riformista il 18 Dicembre 2021. Ha lasciato un biglietto in cui spiega le ragioni del suo gesto Gianni Triolo, il questore di Biella trovato sabato mattina, 18 dicembre, senza vita nella sala riunioni degli uffici della polizia nella cittadina piemontese. A ritrovare il corpo del 60enne è stata una donna addetta alle pulizie. Secondo quanto emerso, Triolo si sarebbe tolto la vita sparandosi con la pistola d’ordinanza. Il Questore avrebbe lasciato un messaggio per spiegare le ragioni del suo gesto, al momento ignote. Nella giornata di ieri, venerdì 17 dicembre, aveva partecipato al Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi per coordinare le attività di controllo in occasione delle prossime festività natalizie. Era arrivato a Biella nel febbraio 2020. Originario di Pescara, Triolo era entrato in polizia nel 1987 dopo la laurea in Giurisprudenza. In servizio fino al 1991 al Reparto Mobile di Torino, è stato Dirigente dell’Ufficio Personale e quindi come Capo di Gabinetto della Questura di La Spezia. Ha diretto la Divisione Anticrimine della Questura di Massa Carrara, per poi tornare a La Spezia con lo stesso ruolo e diventare vicario del Questore, incarico ricoperto anche a Pisa. Sconcertato per la notizia il sindaco di Biella Claudio Corradino: “Sono davvero incredulo e colpito dolorosamente. Ero seduto accanto a lui ieri per il comitato di ordine e sicurezza pubblica. Era normale, o almeno sembrava, ora non so cosa dire. La città perde una grande persona a livello umano, credo solo il silenzio possa servire in questo momento, sono senza parole”.

“Triolo aveva preso in mano le sorti di Biella con grande delicatezza, dimostrando professionalità, fermezza e sensibilità per la nostra città. Siamo tutti colpiti dall’evento” aggiunge il primo cittadino. “Era una persona molto riservata, ci si incontrava solo nelle occasioni ufficiali”

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute. 

  Biella, il questore Gianni Triolo si suicida nel suo ufficio. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera  il 18 Dicembre 2021. Si è ucciso sparandosi con la pistola di ordinanza. A trovare il corpo la donna delle pulizie. Avrebbe lasciato un biglietto. Si è ucciso sparandosi con la pistola di ordinanza. A ritrovare senza vita il questore di Biella Gianni Triolo, la donna delle pulizie che questa mattina è entrata nel suo studio per rassettarlo. Lo ha trovato seduto sulla sua sedia e pensava stesse lavorando. Ma quando si è avvicinata ha scoperto che l’uomo era morto. Sessant’anni, Triolo era arrivato a Biella con l’inizio della pandemia, al primo incarico da questore. In precedenza aveva lavorato molto in Liguria, a La Spezia, dirigendo l’anticrimine ed era stato poi vicario, ruolo che aveva ricoperto anche a Pisa. A La Spezia era rimasta la famiglia. Per spiegare il suo gesto avrebbe anche lasciato un messaggio. «L’ho visto ieri per l’ultima volta - dice il sindaco Claudio Corradino-. Era all’incontro del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico. Non riesco a credere a ciò che è accaduto. Abbiamo sempre lavorato insieme. Era una persona gentile e piacevole. Non mi capacito proprio di quanto accaduto. E, da figlio di poliziotto sono particolarmente toccato da questa notizia». Restano ancora senza motivo le cause che hanno spinto il questore a togliersi la vita.

I suicidi in divisa sono un tabù di cui nessuno vuole parlare. Sara Lucaroni su L'Espresso il 10 maggio 2021. Sono decine ogni anno i membri delle forze dell'ordine che decidono di farla finita. Ma intorno alle loro storie si crea spesso una coltre di silenzi e omertà. Ora il libro “Il buio sotto la divisa” racconta sei storie di uomini in divisa che hanno scelto di non farcela. Nel linguaggio tecnico si chiamano «eventi suicidari». Da gennaio ad aprile se ne contano già 18. Il più anziano aveva 59 anni. Nel 2020 i suicidi sono stati invece cinquantuno: sei nella Guardia di Finanza, quindici tra i Carabinieri, nove agenti della Polizia di Stato, cinque della Polizia locale, sette della Penitenziaria, tre nella Marina Militare, uno nella Capitaneria di Porto, uno nell’Aeronautica, uno nell’Esercito e tre guardie giurate. Nel 2019 l’Osd, l’Osservatorio Suicidi in Divisa, ne ha registrati sessantanove. L’analisi del fenomeno dei suicidi nelle forze dell’ordine e nelle forze armate va incontro a incongruenze sui dati stessi: le amministrazioni e il ministero degli Interni e il ministero della Difesa non registrano gli eventi avvenuti fuori dalle caserme e dai comandi. Altrettanto incompleti sono quelli raccolti da associazioni private e gruppi sui social come l’autorevole Osd, basati su segnalazioni, ma può avvenire che di alcuni di questi casi non si abbia notizia per volontà della famiglia stessa. Negli ultimi anni il fenomeno è uscito dalla sua nicchia fatta di psicologi e sindacati militari quando le tragedie hanno assunto contorni inusuali o hanno coinvolto altre persone, come nel caso di un femminicidio, o quando sono stati particolarmente drammatici. Ma spenti i riflettori, i suicidi in divisa tornano a popolare convegni, blog, saggi, webinar, osservatori istituzionali, tavoli tecnici per addetti ai lavori e soprattutto a sconvolgere il solo privato di chi vive queste esperienze e di chi la divisa la vive ogni giorno. Il motivo è anche la stessa percezione che i cittadini hanno della divisa: “Chi la indossa non deve avere debolezze”. E a volte, certe derive di questo assunto: “Chi la indossa è un "nemico"”. Il “vietato avere debolezze” è una realtà dentro la caserma e il comando: se un agente o un militare ha bisogno di sostegno psicologico, è “pazzo”. È il nodo, culturale e strutturale, di cui si discute da tempo ai tavoli tecnici di Polizia e Interforze ma anche nei sindacati. Burnout, stress correlato, ma anche mancanza di mezzi, strutture inidonee, carichi di lavoro superiori dovuti alla mancanza di organico, stipendi inadeguati, scarsa collaborazione tra colleghi o situazioni di mobbing e tutte le derive della gerarchizzazione di un ambiente come quello militare si possono sommare a dimensioni private che, come spesso accade nella vita, possono essere estremamente problematiche. Il suicidio non è arginabile, nessuno è in grado di fermarlo: ha a che fare con sfere intime e dimensioni esistenziali su cui nessuno può intervenire. Si può intervenire invece nella dimensione lavorativa di chi indossa la divisa attraverso una “prevenzione” a tre livelli: abbattimento del “tabù” del sostegno psicologico per trasformarlo da “stigma” a routine, potenziare la formazione, eliminare pericolose derive della gerarchizzazione specie in ambito militare. “Nessuno voleva occuparsi di questi ‘caduti senza gloria’. L’argomento era un tabù, una specie di segreto militare”, spiega Cleto Iafrate, membro del direttivo nazionale del Sibas-Finanzieri, ideatore della pagina Facebook dell’Osservatorio e tra i primi studiosi del sindacalismo militare. Sette anni fa, come membro della rappresentanza militare, ha iniziato a studiare il benessere del personale militare. Renato Scalia è un ex ispettore della Polizia di Stato, per vent’anni alla Digos e per sette alla Dia, oggi è un consulente della Commissione parlamentare antimafia e consigliere della Fondazione Antonino Caponnetto. Nella sua carriera ha vissuto per cinque volte l’esperienza di avere colleghi morti suicidi. Nel 2012 ha deciso di rassegnare le sue dimissioni, dopo aver militato anche nel sindacato Silp Cgil: “Bisogna mettere da parte il fatto che un poliziotto non possa andare dallo psicologo. Non esiste, lo fanno negli Stati Uniti, è normale anche per molte altre polizie nel mondo. Da noi chi ha problemi di questo tipo è terrorizzato dal fatto che se ne fa menzione o altri lo vengono a sapere gli viene tolta la pistola e subito viene definito pazzo”, spiega. In Polizia gli psicologi sono impegnati in particolare a Roma nella somministrazione dei test nei concorsi, che sono di due tipologie: la valutazione medico-neurologica e quella psico-attitudinale. Su un totale di centodieci questure in Italia, solo undici hanno in organico uno psicologo.

Il secondino e il detenuto. Nell’aprile 2020, a seguito dell’emergenza Covid-19, è partito invece il progetto “Insieme Possiamo”, uno sportello che fornisce supporto anche psicologico online e in presenza. (…) “L’Amministrazione penitenziaria ha istituito un numero verde da chiamare in caso di necessità in forma anonima ma sembra non avere alcun successo - spiega Pasquale Salemme, commissario e Segretario Nazionale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. E in ogni regione sono state attivate convenzioni con psicologi e psichiatri a cui il personale può rivolgersi. Ma è nomale che i punti di riferimento dentro un istituto penitenziario siano sempre il comandante e il direttore. Ci sono anche figure esterne come i cappellani, i medici, gli assistenti sociali, gli psicologi con i quali talvolta si può instaurare un rapporto interpersonale”. Vitantonio Morani era un giovane agente della Polizia Penitenziaria, in organico al carcere di Ranza, nel comune di San Gimignano (Siena). L’amico e collega Guido racconta la loro amicizia, i loro progetti, le difficoltà del mestiere e i suoi ultimi giorni: Vitantonio si uccide con un colpo di pistola nella sua auto il 13 agosto 2018, nel parcheggio del carcere. Era poco più che trentenne. “Lo sbirro, il secondino. Insulti inutili, non esistono gli sbirri e i secondini. A Vitantonio poi la divisa piaceva così tanto che ci si era voluto sposare. Il suo lavoro e il suo amore insieme, nel giorno del matrimonio a Palese, il paesone di lei, nell’area metropolitana di Bari, a nord, verso Bitonto, Giovinazzo e il mare bello di Trani. Lui invece è del quartiere Japigia, a sud. Strade semplici, famiglie perbene. E poi ogni città sul mare ha un’anima lunga, di quelle che conoscono l’umanità e non la giudicano mai. Anche in carcere bisogna essere anime lunghe e non giudicare. L’umanità è come il mare: per quanto le sue regole siano dure, è generosa, ascolta, ci tira sopra una brezza che ti fa respirare. “Lui su tante cose era un po’ giocherellone, questo suo modo di essere se lo portava anche sul lavoro. Io invece sul lavoro sono serio: quello che spetta ai detenuti, se lo possono avere, glielo do, il resto no. E se hai qualche problema chiami i superiori. Io sono un po’ più quadrato. Lui era più giocherellone. E delle volte pure loro, i detenuti, la buttavano sul gioco con lui”. (Estratto dal capitolo: “Chiedimi se sono felice”, la storia di Vitantonio Morani).

Perché i suicidi delle divise. Secondo Iafrate, il numero dei suicidi ha una percentuale fisiologica (la causa sono fattori stressanti tipici del lavoro svolto ma anche problemi di natura personale) e una componente patologica, sintomo di storture del mondo militare e delle forze di polizia. Tra queste, la specificità militare come negazione del principio di legalità: “Se prendiamo i quattro momenti della vita di ogni militare che più di qualsiasi altro incidono sul benessere professionale e personale, il trasferimento di sede, i giudizi annuali caratteristici, le sanzioni disciplinari e le benemerenze di servizio, ci rendiamo conto che in ciascuno di questi momenti la volontà del capo costituisce, e ancor più, sostituisce il principio di legalità”, spiega Iafrate, secondo il quale questi elementi combinati sinergicamente riducono il militare “in docile esecutore di un’altrui volontà alla quale egli è costretto a piegarsi. Se in guerra costituisce un punto di forza, perché è nell’interesse della nazione rendere incontestabili gli ordini ricevuti, in tempo di pace e di democrazia l’interesse all’obbedienza gerarchica non può prevalere sul superiore interesse all’osservanza delle leggi e della Costituzione”. Santino Tuzi era il brigadiere dell’Arma dei Carabinieri che riferì di aver visto entrare nella caserma di Arce, dove prestava servizio, una ragazza che con ogni probabilità era Serena Mollicone, nel giorno della sua scomparsa, il primo giugno 2001 e di non averla vista uscire almeno fino alla fine del suo turno, molte ore dopo. Tuzi muore suicida l’11 aprile 2008, pochi giorni dopo essere stato sentito dai magistrati. Nel 2017 è stata aperta un’inchiesta per “istigazione al suicidio”, reato contestato ad uno degli imputati al nuovo processo in corso per l’omicidio di Serena. La figlia Maria racconta lo shock del momento in cui viene informata della morte del padre. “Arriviamo. Casa dei miei era piena di carabinieri. Mi parla il colonnello Sparagna, è un uomo molto grande e mi dice: “Lei è la figlia? Guardi, suo padre si è suicidato per amore”. Ma mio padre non l’avrebbe mai fatto. Mai! Il tempo di entrare in casa, mi hanno chiuso dietro il portone e lui mi disse questa cosa. “Ma mio padre è diventato nonno da poco, per come stava bene non avrei mai pensato...”. “Non vi siete accorti”. “Ma mio padre era diventato nonno...”.“No, lei signora forse non lo sa ma un uomo di quasi 60 anni, in prossimità della pensione... ha deciso di cambiare vita e di cambiare famiglia”. “No, ma dopo la nascita di mio figlio non può mai aver preso una decisione del genere, non può cambiare famiglia... non può essere come dice lei”. “Forse non vi siete accorti”. Lui insisteva, io insistevo. È stato come se mi si spegnesse qualcosa dentro. Ho accettato questa cosa e tutto quello che poi hanno fatto. Forse io non avevo capito che mio padre non ci voleva bene. E poi i Carabinieri non possono tradirci e mio padre era uno di loro, un carabiniere. (Estratto dal capitolo: “Mio padre”, la storia di Santino Tuzi)

Il libro. Sei storie, sei uomini divisa la cui morte è raccontata da madri, figli, amici. Un viaggio intimo e doloroso per fare luce su un fenomeno sottaciuto, minimizzato: i suicidi tra le forze dell’ordine e le forze armate. Si intitola “Il buio sotto la divisa. Morti misteriose tra i servitori dello Stato”, pubblicato da Robin Robin Editrice, ed è il libro che nasce dall’omonima inchiesta pubblicata sul nostro settimanale nel luglio 2019. Tra i protagonisti c’è Bruno Fortunato, il poliziotto che arrestò la brigatista Nadia Desdemona Lioce. Il capitano della Guardia di Finanza Fedele Conti, che arrivò a Fondi dopo aver indagato sui “furbetti del quartierino”. Daniele da Col, ispettore della Polizia Municipale, dalla cui vicenda è nata una prime associazioni in Italia che si occupano di mobbing. Santino Tuzi, brigadiere dell’Arma dei Carabinieri la cui testimonia ha riaperto le indagini sulla morte di Serena Mollicone. Un’inchiesta sotto forma di racconto per abbattere la barriera dei numeri e delle statistiche ed entrare nel quotidiano, nelle contraddizioni e nelle difficoltà di chi indossa l’uniforme ogni giorno, perché “la divisa non rende eroi, eroi sono le donne e gli uomini che la indossano. E la loro forza o fragilità è responsabilità di tutti”.

Alberto Francavilla per "blitzquotidiano.it" il 16 giugno 2021. Karen Bergami è stata esclusa dalla Scuola superiore di Polizia per un tatuaggio sul dorso di un piede. Un tatuaggio fatto a 16 anni e nel frattempo rimosso. Lo ha deciso il Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso del ministero dell’Interno. Il Tar del Lazio aveva inizialmente dato ragione al commissario. 

Karen Bergami esclusa dalla Scuola di Polizia per un tatuaggio. Karen, 32 anni, originaria di Bologna, è stata dimessa dal corso, dopo aver frequentato 16 su 18 mesi complessivi. E rischia di veder svanire il suo sogno di una carriera in Polizia. La giovane a dicembre 2018 partecipò al concorso per 80 posti, ma la commissione medica l’aveva dichiarata inidonea per il tatuaggio “in zona non coperta dall’uniforme”. Nonostante la candidata avesse già iniziato la procedura di cancellazione, con il laser, con l’ultima seduta circa un mese prima. 

Il Tar aveva accolto il ricorso di Karen. Il Tar prima accolse il ricorso cautelare (e venne riammessa con riserva al concorso e poi ai corsi) poi anche nel merito, a febbraio 2020. Nel frattempo Karen Bergami aveva prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica. E la Scuola l’aveva scelta come rappresentante delle donne della Polizia di Stato in un calendario benefico. Otto mesi dopo la decisione del Tar, con i termini prorogati dal Covid, il Viminale ha fatto ricorso e il Consiglio di Stato ha accolto la sospensiva, a novembre e poi si è pronunciato nel merito, l’8 giugno, dopo un’udienza a marzo. La bolognese aveva presentato una perizia medico legale per dimostrare che già all’epoca il tatuaggio era rimosso e ha chiesto un’ulteriore valutazione all’ospedale militare di Roma, come accaduto in altri casi. Ma per i giudici “non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale”.

Karen Bergami farà ricorso. A nulla sono valse le obiezioni di poter coprire la zona in questione con un collant. Ora Karen Bergami, difesa dall’avvocato Silva Gotti sta valutando di fare ricorso in Cassazione, di chiedere la revocazione del giudizio amministrativo, o di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Alberto Mattioli per "la Stampa" il 9 agosto 2021. C'è una donna tenace che vuole, fortissimamente vuole fare la poliziotta, anzi per la verità aveva già iniziato. Ma è stata buttata fuori per via di un tatuaggio sul polso, che peraltro aveva cancellato prima di entrare in servizio. Si chiama Arianna Virgolino e della sua storia molto si parlò, quando quello dell'agente tatuata (anzi, ex tatuata) diventò un «caso» giornalistico mentre è tuttora un caso legale, fra sentenze del Consiglio di Stato, ricorsi e così via.  Adesso Virgolino ha visto in tivù Marcell Jacobs vincere le due medaglie d'oro più insperate e gloriose della storia patria. Ora, Jacobs corre per le Fiamme Oro, dunque è un poliziotto, benché non abbia mai arrestato nessuno e sia molto improbabile che lo faccia in futuro. Ed è anche, incontestabilmente, tatuato. Anzi, tatuatissimo: sulla montagna di muscoli dell'agente più veloce del mondo ce ne sono pochi non istoriati. Così Virgolino gli ha lanciato un appello: «Visto che andrai da Draghi, buttagli lì la storia dei tuoi sei colleghi poliziotti, tra cui la sottoscritta, esclusi dalla polizia per un tatuaggio inesistente e che per la divisa avrebbero fatto di tutto» (in effetti, Virgolino condivide la sua battaglia con cinque colleghi, quattro donne e un uomo, un commissario).  Cosa superMarcell ne pensi, non si sa. Ma nel frattempo ha risposto la mamma del nuovo eroe nazionale, Viviana Mancini, dicendosi sicura che il figlio se ne interesserà: «Ero molto contraria ai tatuaggi - ha spiegato al Corriere del Veneto - perché è una cosa che resta per sempre ma la natura dell'uomo è di cambiare. A un certo punto, però, un figlio raggiunge la maggiore età e deve fare le sue scelte. Non credo che avere tatuaggi infici la credibilità. Marcell per sua natura è sempre disponibile a risolvere i problemi, ad aiutare gli altri». Promettente, anche se forse c'è anche un pizzico di solidarietà, come dire?, geografica, perché mamma Jacobs è di Desenzano sul Garda e Virgolino di Peschiera, stesso lago e pochi chilometri di distanza. Comunque vada a finire, tutta la vicenda è un esempio tipico ma allo stesso tempo incredibile di pasticcio burocratico-legale. Arianna aveva cancellato con il laser il famigerato cuoricino sormontato da una coroncina che a 18 anni si era tatuato all'interno del polso addirittura prima di vincere il concorso. «Ma il giorno della visita medica mi dichiararono "non idonea" - racconta - per via della cicatrice che era rimasta. Con un ricorso al Tar ottenni di terminare il concorso dove mi sono piazzata benissimo. Infatti io la poliziotta l'ho anche fatta, nella Stradale a Guardamiglio, provincia di Lodi». E l'avevano pure proposta per un riconoscimento dopo che aveva sedato una rissa. Invece del premio, è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato che per leso decoro l'ha buttata fuori dalla polizia. Dove invece lei vuole assolutamente restare. «È una passione che mi ha trasmesso il mio compagno, che è ispettore. Per fare il concorso mi ero pure licenziata, perché un lavoro l'avevo. Però il giudice ha scritto che il mio tatuaggio, anzi l'ex tatuaggio, è «un nocumento all'immagine della polizia di Stato». Ma io di agenti tatuati ne vedo tanti, non solo Jacobs. Sia chiaro: non ce l'ho con loro, anzi continuo a considerarli più che colleghi: fratelli. Ce l'ho con una norma che va abolita perché nessuno la rispetta e perché oggi è chiaramente anacronistica. Ormai i tatuaggi li hanno tutti, chi li collega più alla malavita o ai galeotti?». San Marcell, pensaci tu. Nell'attesa, lei ha lanciato una petizione sui social, decisa a battersi fino all'ultima carta bollata «perché io mi sento una poliziotta e voglio fare la poliziotta», anche se per il momento ha ripiegato su un lavoro stagionale in una piscina. Adesso gioca la carta Jacobs. In fin dei conti, un tempo agli eroi si chiedeva quale desiderio volessero esaudire. «Per me sarebbe bellissimo che un'icona planetaria come lui si prendesse a cuore la mia battaglia». Libero tattoo in libero Stato. 

La polizia italiana? Ha il meglio look del mondo. Parola di Gardner ex ambasciatore Usa. Alessandra Paolini su La Repubblica il 6 novembre 2021. Il diplomatico ha twittato una foto con due agenti in alta uniforme, con cappa e sciabola, commentando che sono i più eleganti di tutti. E che non c'è gara per nessuno al mondo. E adesso non è solo Alessandro Michele e la sua collezione Gucci, fresca di sfilata a Los Angeles su Hollywood boulevard, a conquistare l'America. Senza andare in passerella, ora è quell'elegantona della polizia italiana a incassare gli applausi per il suo look. A dirlo non è di un fashion blogger dell'ultima ora, ma l'ex ambasciatore americano presso la Ue, Anthony Gardner che su Twitter. ha pubblicato la foto di due poliziotti in uniforme di gala, con tanto di sciabola e una lunga cappa blu. E sopra il commento: "L'italia ha la polizia meglio vestita al mondo. Non c'è gara". E giù con i commenti: "Ma riescono a catturare i cattivi con quei mantelli?", scrive uno. E un altro risponde: " I super eroi indossano sempre i mantelli!". Ok, gli agenti quando si mettono in ghingheri non saranno forse Batman e Superman, ma a indossarla sono sempre agenti con una certa prestanza fisica. E più alti della media nazionale. Comprese le donne. E comunque si sa, i complimenti fanno sempre piacere... Così la polizia sotto il commento di Gardner ha piazzato un bel like di ringraziamento. Consapevole che quella divisa, con tanto di cappa blu notte, è da sempre il suo fiore all'occhiello in fatto di outfit: gli agenti la indossano durante le cerimonie e nei servizi di alta rappresentanza. La mettono nei funerali solenni e, volendo, anche nel giorno del matrimonio. Giacca e calzoni sono fatti su misura, con tanto di cordelline (sorta di alamari sulle spalle) a dare un tocco un  po' rétro. Il pantalone, a differenza del completo d'ordinanza che è più comodo e informale, ha la doppia striscia color cremisi. Ovvero, una nuance tra il rosso e il viola. Bardati così, di agenti se ne sono visti parecchi anche durante il G20. E ogni giorno un paio di baldi poliziotti con mantella e sciabola vengono piazzati davanti a palazzo Chigi. "E' la nostra uniforme migliore - spiegano orgogliosi dalla Polizia di Stato - è stata inaugurata nel '56 reinterpretando la divisa fino a quel momento indossata dai poliziotti a cavallo. Considerati fino a quel momento i più" chicchettosi", all'epoca, guadagnavano persino più dei loro colleghi". La cappa però si mette solo in inverno. "E' molto pesante - spiegano  - perciò in estate si sta senza". La sciabola invece è una "quattro stagioni". E mai e poi mai viene deposta.

Addio alle stellette: così la Polizia puntò sulla democrazia. Giuliano Foschini su La Repubblica il 31 marzo 2021. Cade oggi il quarantesimo anniversario della legge di riforma della pubblica di sicurezza. Il presidente Mattarella: "La Polizia grazie a quella norma oggi è un corpo che i cittadini riconoscono come amico". Il capo della Polizia Giannini: "Sono figlio di questa riforma: il nostro compito è rispondere ai bisogni dei cittadini". Per capire gli ultimi 40 anni di storia d'Italia è necessario passare da qui: legge 121 del 1981, la trasformazione del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza nella Polizia di Stato. È necessario farlo perché un pezzo della crescita della nostra democrazia transita, inevitabilmente, nella smilitarizzazione di un corpo che diventa, le parole sono del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una missione non solamente votata al presidio della Sicurezza, "ma proiettata verso la cura dell'ordine democratico e che concorre a rendere la libertà di esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione". Aver costruito in questi quarant'anni una Polizia più democratica ha significato, in sostanza, aver costruito un Paese più democratico. Il racconto di questo percorso sono la spina dorsale de "La riforma dell'Amministrazione della pubblica sicurezza", il volume che verrà pubblicato oggi, nel quarantesimo anniversario della legge, giorno scelto anche per festeggiare il corpo di Polizia. In quello che si è trasformato però in un avversario venato di grande tristezza: a curare il volume (in collaborazione con l'Ufficio relazioni esterne e cerimoniale) è stato il prefetto e Consigliere di Stato, Carlo Mosca, uno degli ideatori della legge 121. Che proprio in queste ore, a 75 anni, è scomparso, vittima del Covid. A curare la prefazione del volume è stato il presidente della Repubblica. Che ricorda come "i quarant'anni della legge di riforma dell'Amministrazione della pubblica sicurezza coincidono con un altro anniversario che il 2021 ci consegna: i 160 anni dell'Unità d'Italia. Sono ricorrenze tra loro intimamente collegate. Perché la Polizia è uno dei volti dello Stato. E la storia della Polizia è parte del racconto della edificazione dello Stato unitario". La legge dell'81, ricorda Mattarella, ha segnato una linea d'ombra. La Polizia ha assunto un aspetto di modernità diventando "un corpo dello Stato che i cittadini riconoscono come amico, accessibile ed aperto, elemento di coesione. Una "empatia democratica" la definisce il Capo dello Stato, "guadagnata sul campo anche nei giorni durissimi di questo annus horribilis appena trascorso, ma nata negli anni difficili del terrorismo, nutrita, nei lunghi 40 anni dall'introduzione della riforma, dal lavoro e dal sacrificio dei suoi componenti. Un impegno lungo che ha prodotto così i suoi effetti". La 121 portò effettivamente alla Polizia, e dunque al Paese, dei cambiamenti militari: la "smilitarizzazione" ha significato aprire alla parità di genere (soltanto allora fu infatti garantita alle donne pari modalità di accesso e di carriera), al mondo sindacale, furono creati ruoli tecnici e sanitari e si aprì agli ispettori interni. Ma è stata introdotto, anche, con forza, una parole cruciale: quella della prevenzione. Lo scrive proprio il prefetto Mosca, in quello che oggi bisogna leggere come un testamento del suo lavoro: "Il rinnovamento e il rinascimento culturale hanno accreditato una nuova teoria, quella della sicurezza condivisa e partecipata, che ha rideterminato il rapporto tra comunità e forze di polizia, le quali si avvalgono della collaborazione attiva della cittadinanza, come efficace strumento di prevenzione dei reati". "Ma smilitarizzazione, sindacalizzazione, parificazione del ruolo delle donne, creazione del ruolo degli ispettori, tutte le istanze di democratizzazione e modernizzazione che trovarono finalmente una risposta sistemica in quell'aprile del 1981 non sono l'unico merito di quella legge" dice Franco Gabrielli, che dopo aver guidato la Polizia dal 2016, è oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. "La Polizia di Stato - dice Gabrielli - ha scelto di festeggiare la ricorrenza della propria fondazione, risalente al 1852, proprio il 10 aprile, per sottolineare il vincolo indissolubile che lega l'Istituzione a quel provvedimento normativo: la 121 è stata la legge che ha definito e disciplinato l'architettura dell'Amministrazione della pubblica sicurezza nel nostro Paese fissando alcuni principi cardine nel nostro sistema. Primo fra tutti, l'unicità dell'Autorità nazionale di pubblica sicurezza, identificata nel ministro dell'Interno". "La sicurezza genera certamente un potere", dice un altro dei padri di questa legge, il vice presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che contribuì a pensare la norma con Mosca. "Ma è anche e deve essere garantita come un diritto. Dalla 121 non è uscito un mondo perfetto, certo - dice Amato - non sono totalmente scomparse disfunzioni che già conoscevamo, ma oggi, più ci sia avvicina a quel sapiente equilibrio fra unificazione e coordinamento che la legge ha adottato come modello, tanto più le cose funzionano". Ci sono poliziotti che sono nati con questa legge. "Io, entrato in servizio alla fine degli anni ottanta, sono figlio di questa riforma. Che mi ha messo davanti a una sfida: coniugare l'antica sapienza con le moderne conoscenze e competenze per saper rispondere alle necessità e ai bisogni dei cittadini" dice Lamberto Giannini. Il nuovo capo della Polizia.

La Polizia moderna fa 40 anni "La sicurezza è un patrimonio". La riforma 121 che smilitarizzò il corpo celebrata in un volume che ne ripercorre il travagliato iter. Redazione - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale.  Oggi la polizia moderna compie 40 anni. Con l'approvazione della Legge 121 del 1981 si compì infatti la trasformazione del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza nella Polizia di Stato. Nasceva allora una polizia moderna, «smilitarizzata» e caratterizzata da una forte identità civile, votata al servizio della comunità. Il ministro dell'Interno diviene Autorità nazionale di pubblica sicurezza, mentre a livello territoriale il prefetto diviene l'Autorità provinciale, con la responsabilità generale dell'ordine e della sicurezza pubblica, il questore non è più alle dipendenze del prefetto e assume la veste di Autorità provinciale «tecnica» di pubblica sicurezza. Si afferma anche il ruolo di guida e coordinamento delle forze di Polizia da parte del capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza. La legge 121 è divenuta nel tempo un caposaldo fondamentale della nostra società e ancora oggi straordinariamente attuale perché «proiettata verso la cura dell'ordine democratico e che concorre a rendere vera la libertà di esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione», come ha commentato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella prefazione del libro La riforma dell'Amministrazione della pubblica sicurezza, (di cui riportiamo ampi stralci), volume a cura di Carlo Mosca, Consigliere di stato, prefetto e tra i principali ideatori della riforma, purtroppo tristemente scomparso a 75 anni proprio alla vigilia della ricorrenza. La sua riforma ha ridisegnato l'intero assetto dell'Amministrazione, rendendola più moderna e dinamica anche a livello internazionale, creando quella che Mosca definiva «un'alleanza democratica non subito compresa nel suo significato, che nel tempo si è sviluppata con i protocolli, le intese, i contratti e i patti per la sicurezza», come l'alleanza per il programma Operazione Risorgimento Digitale di Tim per la sicurezza su internet. Un'idea «vincente» come «la concezione di una sicurezza condivisa e partecipata», come diceva ancora Mosca. «È un progetto normativo complesso commenta nel volume il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese che ha anticipato, quella visione del bene sicurezza, divenuta patrimonio condiviso del nostro vivere sociale». Nel libro non poteva mancare il contributo dell'ex capo della Polizia Franco Gabrielli, oggi sottosegretario di Stato (di cui pubblichiamo ampi stralci), che ha sottolineato la complessità del lungo iter parlamentare che portò a una riforma «che tocca i gangli vitali di una democrazia». Il volume raccoglie i contributi di autorevoli figure istituzionali, del mondo ecclesiastico, della cultura e della società civile: da Gianfranco Ravasi a Giuliano Amato, da Marta Cartabia a Giovanni Salvi, da Gianni Letta a Gaetano Manfredi, da Maurizio Viroli a Michele Ainis, da Eugenio Gaudio ad Antonio Romano, da Anna Maria Giannini a Marino Bartoletti, che illustrano alcuni tra i temi più significativi per i quali questa straordinaria legge ebbe riflessi riformatori. «Sono particolarmente grato a coloro che 40 anni fa ebbero il coraggio e la felice intuizione di attuare la riforma dell'amministrazione della pubblica sicurezza - dice al Giornale il capo della Polizia, direttore generale della pubblica sicurezza Prefetto Lamberto Giannini (nella foto) - Anche io, entrato in servizio alla fine degli anni Ottanta, sono figlio di questa riforma. Oggi sento forte l'impegno di aggiungere nuovi tasselli al percorso riformatore tracciato dalla legge, lavorando per una Polizia di Stato che possa sempre meglio coniugare l'antica sapienza con le moderne conoscenze e competenze per saper rispondere alle necessità e ai bisogni dei cittadini».

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 23 novembre 2021. Il loro compito di poliziotti sarebbe stato di identificare e multare chi si era tuffato nella fontana dei Quattro Fiumi. Ma invece di procedere come previsto dalle norme, quattro agenti - secondo il Tribunale che li ha condannati a pene tra i 36 e i 39 mesi di carcere - si sono accaniti contro il turista italo-americano, Giuseppe Mercadante, imprenditore, che li aveva sollecitati a intervenire. Prima lasciando che uno di loro lo afferrasse per il collo. Poi che venisse preso a pugni. E infine che gli fosse schiacciata con un ginocchio la testa sui sampietrini. Le pene più severe, a tre anni e tre mesi, i giudici le hanno inflitte a Stefano Ciuffetelli e Raffaele Ricciardone. Il primo è il poliziotto che, secondo l'accusa, avrebbe premuto con il ginocchio il volto del turista sulla pavimentazione della piazza. L'altro è un agente della stessa pattuglia richiamata dall'italo-americano. Il Tribunale ha poi condannato a tre anni di carcere Gianluca Mazzara e Franco De Angelis, giunti in piazza Navona durante l'intervento di Ciuffetelli e Ricciardone. Il reato contestato ai poliziotti per il trattamento a cui avrebbero sottoposto il turista è abuso d'ufficio. A Ciuffetelli e Ricciardone è contestata anche l'omissione d'atti d'ufficio per la mancata identificazione degli stranieri, protagonisti in quei momenti dei bagni della fontana. I quattro imputati appartengono al commissariato Trevi Campo Marzio. Nei loro confronti ancora non è stata avviato alcun procedimento disciplinare. L'episodio risale alla notte del 2 luglio del 2015. Mercadante è a Roma per trascorrere del tempo insieme al fratello e al resto dei parenti. Quella sera è in giro per il centro storico quando rimane sorpreso che dei turisti stiano facendo il bagno nella fontana, senza che qualcuno li riprenda. Si avvicina a una pattuglia, invitandola a intervenire. Ne nasce una discussione. Allora Ciuffetelli e Ricciardone gli chiedono i documenti e l'imprenditore mostra loro la patente rilasciata dallo Stato della Virginia. Documento con cui, secondo l'accusa, è difficile l'identificazione della persona. I due poliziotti chiedono a Mercadante - costituitosi parte civile con l'avvocato Gloria Testa - di seguirli nella volante. Lui si oppone. Ciuffetelli - per il pm - reagisce «ricorrendo a modi non consentiti dalla legge». A quel punto Mercadante si far condurre in commissariato, dove rimarrà fino alle nove del mattino. 

Da ilgiorno.it il 25 novembre 2021. Il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo ha chiesto il rinvio a giudizio per Maria Josè Falcicchia, l’ex primo dirigente dell’Upg, cioè della sezione Volanti della Questura, alla quale è stato contestato un peculato per 7.500 euro circa. Il peculato è l’unica contestazione rimasta in piedi nell’ambito di una indagine più ampia sulle irregolarità nella gestione di oltre 40mila euro provenienti da donazioni in favore della stessa Questura milanese e di cui in gran parte è stata chiesta l’archiviazione. Per l’accusa contestata il gup Roberto Crepaldi ha fissato l’udienza preliminare per il 18 febbraio. Come si legge nel capo di imputazione il dirigente di polizia, difesa dall’avvocato Domenico Aiello, tra il marzo 2014 e il maggio 2017, in qualità di responsabile dell’Ufficio Prevenzione Generale di via Fatebenefratelli si sarebbe appropriata di "somme di denaro per un importo complessivo non inferiore a circa 7.500 euro (...) pervenute alla Questura di Milano per liberalità di soggetti privati o di personale della stessa Questura (...) delle quali aveva la disponibilità materiale per ragione del suo ufficio". L’inchiesta nel marzo 2019 è stata avocata dalla Procura Generale dopo che la Procura si era vista rigettare dal gip l’istanza di archiviazione del caso. Il nodo della indagine, delicata e molto riservata, era cominciata con un’ispezione all’Upg. L’ispezione era così riservata da essere stata negata, in un primo momento, anche dalla stessa Questura: si è trattato di una “tre giorni” diretta ad acquisire documenti riguardanti la gestione del fondo cassa, con tanto di conto corrente e carta di credito, in uso alla Settima sezione, frutto per lo più di donazioni di benefattori, avevano spiegato in un comunicato. Il periodo messo sotto esame dai pm riguarda il biennio 2015-2017, a quell’epoca il questore era Luigi Savina. Maria José Falcicchia era stata nominata capo a partire dalla fine del 2014. A dare il via a questa inchiesta interna sarebbe stato un documento molto dettagliato sulla gestione della cassa negli anni di Expo e dopo Expo, fino al 2018, una sorta di dossier contenuto in una manciata di fogli Excel. Il ragioniere che lo aveva compilato avrebbe segnato con estremo scrupolo entrate, uscite, ammanchi, alcuni dei quali già ripianati e stranezze nei movimenti della cassa. Dalla stessa fonte, dalle stesse informazioni, era partita quindi anche una indagine parallela, finita sul tavolo dell’aggiunto Ilda Boccassini, oggi in pensione. Intanto Maria José Falcicchia, che prima di arrivare all’Upg, nel 2014, aveva diretto la sezione criminalità organizzata della Mobile, è stata trasferita a Roma. Prima del nuovo incarico a Roma la superpoliziotta, che vanta una brillante carriera, era stata messa a dirigere il commissariato Monforte Vittoria. 

Carlotta Rocci per repubblica.it il 30 novembre 2021. Un carabiniere che ha cercato di sventare una rapina in farmacia è stato accoltellato da uno dei banditi. Il militare, un brigadiere della Sezione antidroga della vicina compagnia carabinieri Oltredora, colpito da tre fendenti al fegato e a un polmone, è in gravi condizioni all'ospedale Giovanni Bosco, dove si è recato per sincerarsi delle sue condizioni il comandante provinciale dell'Arma, generale Claudio Lunardo. È successo intorno alle 19 alla farmacia comunale 12 di corso Vercelli 236, all'angolo con via Lemmi.

I rilievi all'interno della farmacia

Il carabiniere, da 10 anni in servizio nella compagnia Oltredora e prima ancora nel Nucleo Radiomobile, era fuori servizio e stava acquistando dei farmaci quando sono entrati due rapinatori con il volto coperto, uno armato di una pistola poi rivelatasi una scacciacani: il brigadiere, dopo aver lanciato contro i due alcuni prodotti in esposizione, ha subito affrontato quello che impugnava la pistola, riuscendo a disarmarlo, ma il complice gli si è avventato contro sferrando tre fendenti con un coltello. I due, arraffati i soldi in cassa, sono riusciti a fuggire in sella a uno scooter. Il militare è stato soccorso da un’ambulanza della Croce verde di Villastellone che lo ha trasportato, intubato, all’ospedale Giovanni Bosco, dove è entrato in sala operatoria per ridurre in particolare una lesione sanguinante del fegato e una al polmone. Sul posto sono intervenute altre pattuglie dei carabinieri. I rilievi sono in corso. “Esprimo la piena solidarietà all’Arma dei carabinieri e la mia profonda vicinanza al brigadiere ferito durante una rapina - commenta il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo - È un fatto gravissimo: chiederò al comandante provinciale dell’Arma aggiornamenti sulla salute dell’eroico carabiniere, intervenuto con grande spirito di servizio anche se non operativo. Va quindi - conclude - un grande ringraziamento all’Arma dei carabinieri, mi auguro che il brigadiere possa rimettersi presto”.  "L'augurio è che il collega possa farcela e a lui va il nostro primo pensiero. Ma non possiamo non sottolineare, per l'ennesima volta, che non disponiamo di mezzi e nome idonei a fronteggiare i delinquenti. Se usiamo l'arma in dotazione ci indagano, urlando all'abuso. Se non la usiamo, finiamo morti ammazzati. Adesso basta, la misura è colma". E' il commento di Fabio Conestà, segretario generale del Mosap, Movimento sindacale autonomo di polizia (Mosap), che aggiunge: "Poteva accadere, come già successo, anche con colleghi in servizio. Per questo ribadiamo la necessità di essere dotati di taser quanto prima e di ricevere protocolli operativi idonei che ci permettano di fronteggiare al meglio queste situazioni senza dover scegliere tra la barella e il banco degli imputati". 

Non ha esitato ad affrontare i banditi armati. Carabiniere eroe tenta di sventare rapina in farmacia, ferito con tre coltellate: gravissimo. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2021. Torino violenta. Nel tardo pomeriggio un carabiniere ha cercato di sventare una rapina in farmacia. È stato accoltellato da uno dei banditi. Il militare, un brigadiere della Sezione antidroga della vicina compagnia carabinieri Oltredora, colpito da tre fendenti al fegato e a un polmone, è in gravi condizioni all’ospedale Giovanni Bosco, dove si è recato per sincerarsi delle sue condizioni il comandante provinciale dell’Arma, generale Claudio Lunardo. È successo intorno alle 19 alla farmacia comunale 12 di corso Vercelli 236, all’angolo con via Lemmi. Da 10 anni nella compagnia Oltredora e prima ancora nel Nucleo Radiomobile, il carabiniere era fuori servizio e stava acquistando dei farmaci quando sono entrati due rapinatori con il volto coperto, uno armato di una pistola poi rivelatasi una scacciacani: il brigadiere, dopo aver lanciato contro i due alcuni prodotti in esposizione, ha subito affrontato quello che impugnava la pistola, riuscendo a disarmarlo, ma il complice gli si è avventato contro sferrando tre fendenti con un coltello. Presi i soldi i due sono riusciti a fuggire in sella a uno scooter. Il militare è stato soccorso da un’ambulanza della Croce verde di Villastellone che lo ha trasportato, intubato, all’ospedale Giovanni Bosco, dove è entrato in sala operatoria per ridurre in particolare una lesione sanguinante del fegato e una al polmone. Sul posto sono intervenute altre pattuglie dei carabinieri. I rilievi sono in corso. “Esprimo la piena solidarietà all’Arma dei carabinieri e la mia profonda vicinanza al brigadiere ferito durante una rapina – commenta il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo – È un fatto gravissimo: chiederò al comandante provinciale dell’Arma aggiornamenti sulla salute dell’eroico carabiniere, intervenuto con grande spirito di servizio anche se non operativo. Va quindi – conclude – un grande ringraziamento all’Arma dei carabinieri, mi auguro che il brigadiere possa rimettersi presto”. “L’augurio è che il collega possa farcela e a lui va il nostro primo pensiero. Ma non possiamo non sottolineare, per l’ennesima volta, che non disponiamo di mezzi e nome idonei a fronteggiare i delinquenti. Se usiamo l’arma in dotazione ci indagano, urlando all’abuso. Se non la usiamo, finiamo morti ammazzati. Adesso basta, la misura è colma”. E’ il commento di Fabio Conestà, segretario generale del Mosap, Movimento sindacale autonomo di polizia , che aggiunge: “Poteva accadere, come già successo, anche con colleghi in servizio. Per questo ribadiamo la necessità di essere dotati di taser quanto prima e di ricevere protocolli operativi idonei che ci permettano di fronteggiare al meglio queste situazioni senza dover scegliere tra la barella e il banco degli imputati”.

La rapina finita nel sangue a Torino. Carabiniere accoltellato, si costituiscono i due rapinatori. Il padre del 16enne: “Un bravo ragazzo, ha fatto una cavolata”. Redazione su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Si sono entrambi costituiti i due giovanissimi, uno di 16 e l’altro di 18 anni, che ieri sera intorno alle 19 hanno accoltellato un carabiniere fuori servizio durante una rapina in farmacia a Torino. Il primo a costituirsi è stato il 16enne Filippo, già nella notte, recandosi presso il commissariato Madonna di Campagna. Una decisione arrivata probabilmente a causa della pressione investigativa dei carabinieri su tutta la provincia con posti di blocco e lampeggianti ovunque. Il secondo rapinatore, il 18enenne Francesco, si è presentato invece in mattinata, recandosi spontaneamente alla stazione di Falchera. LA RAPINA FINITA NEL SANGUE – I due complici intorno alle 19 di lunedì hanno tentato il colpo presso la farmacia comunale 12 di corso Vercelli 236, all’angolo con via Lemmi, a Torino. I giovanissimi rapinatori non avevano fatto i conti però con l’intervento del brigadiere Maurizio Sabbatino, 53enne, da 10 anni nella compagnia Oltredora e prima ancora nel Nucleo Radiomobile. Fuori servizio e senza pistola, Sabbatino ha scagliato diversi farmaci contro i due rapinatori, col volto coperto da mascherina e cappello. In un primo momento i due giovanissimi sembrano arrendersi e inginocchiarsi a terra di fronte a Sabbatino, che si qualifica come carabiniere, ma all’improvviso uno dei due spara con una pistola (poi rivelatasi una scacciacani) all’indirizzo del militare. I due tentano la fuga, tra i rapinatori e il brigadiere c’è una colluttazione durante la quale Filippo estrae un coltello e colpisce con più fendenti Sabbatino. Francesco e Filippo quindi, in sella ad uno scooter, fuggono via dalla farmacia lasciando Sabbatino a terra. Il carabiniere, operato nella notte all’ospedale San Giovanni Bosco, dov’è stato trasportato per le lesioni riportate al fegato e ai polmoni, è stato trasferito in Rianimazione ma è fuori pericolo. 

LA DIFESA DEL 16ENNE – Ora il 16enne, scrive l’Ansa, è accusato di tentato omicidio e rapina aggravata. Il giovane, studente incensurato, si è presentato davanti alla procuratrice dei minori Emma Avezzù accompagnato dal padre e assistito dall’avvocato Marco Marchio. “Ho cercato solo di divincolarmi per scappare”, si è difeso Filippo, che ha quindi ammesso di aver colpito il brigadiere.

Attualmente il 16enne si trova in stato di fermo in un Centro di Prima Accoglienza.

IL PADRE: “HA FATTO UNA CAVOLATA” – Al Corriere della Sera ha invece parlato il padre di Filippo. “Mio figlio ha fatto una cavolata. Ma è un bravo ragazzo, siamo una famiglia perbene”, ha spiegato il genitore.

“Siamo sconvolti, non è il momento di parlare. E comunque non l’ho costretto io a costituirsi è stato lui a dirmi che voleva consegnarsi. Io l’ho solo accompagnato”, ha aggiunto il padre del giovane rapinatore.

LA SOLIDARIETA’ DEL MINISTRO LAMORGESE – Il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha espresso oggi la sua sentita “vicinanza al Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri rimasto gravemente ferito a Torino nel corso di un intervento, fuori servizio, per sventare una rapina ad una farmacia“.

Nell’augurarsi che il brigadiere possa prontamente guarire e nell’esprimere la sua partecipazione ai familiari, la titolare del Viminale ha sottolineato come il gesto compiuto dal militare dell’Arma sia l’ennesima testimonianza “dell’altruismo e della generosità delle donne e degli uomini delle Forze di polizia sempre disposti a mettere a rischio la loro incolumità per garantire la sicurezza dei cittadini“.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'1 dicembre 2021. «Mio figlio ha fatto una cavolata, ma è un bravo ragazzo e noi siamo una famiglia perbene». Questa frase è ormai un piccolo classico e si indossa su quasi tutto: risse, truffe, minacce, molestie, atti di bullismo, scippi con destrezza, pirateria stradale. Solo che stavolta a pronunciarla è stato il padre di un adolescente torinese che ha rapinato una farmacia e accoltellato un carabiniere. Da oggi il concetto di «cavolata del bravo ragazzo di famiglia perbene» va dunque esteso alle rapine con accoltellamento, quantomeno. Per adesso rimangono ancora fuori l'aggressione a mano armata e la tentata strage con lancio di granate, ma c'è da scommettere che si troverà facilmente un padre disposto a coprire tale lacuna. «Figlio mio, rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità e soprattutto non mi considerare un mito, ma un fallimento». Questa invece è una frase pressoché inedita e l'ha scritta un boss catanese dal carcere duro, in una lettera inviata al primogenito per esortarlo a non seguire le sue orme e a resistere al fascino delle scorciatoie criminali. Può darsi che sia una trovata del suo avvocato e in ogni caso non mi permetterei mai di paragonare il padre del bravo ragazzo di una famiglia perbene a un famigerato capoclan, né tantomeno di ergere il secondo a modello del primo. Però, quando leggo certe notizie e le metto a confronto, mi ritrovo a dare ragione a Ennio Flaiano: «A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido».

Torino, carabiniere accoltellato. Un amico del 16enne: «Mi proposero la rapina, ma io l’ho detto a mamma». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2021. Parla uno dei ragazzi della zona dov’è avvenuto il colpo in farmacia. Le sue dichiarazioni al vaglio degli inquirenti. Seduto su una delle «panche», nei giardinetti alle spalle dei palazzoni popolari di via Paolo Veronese, Giorgio (nome di fantasia), non riesce ancora a credere che il suo amico Filippo abbia accettato di prendere parte alla rapina in farmacia di corso Vercelli, a 900 metri dal portone di casa. Durante l’assalto, avvenuto nella serata di lunedì 29 novembre, è rimasto gravemente ferito il brigadiere capo dei carabinieri Maurizio Sabbatino. Era fuori servizio, è stato accoltellato mentre cercava di bloccare i due giovanissimi banditi e a sferrare i 4 fendenti che lo hanno raggiunto alle gambe, all’addome e al torace sarebbe stato proprio Filippo, appena 16enne, studente di un istituto alberghiero: «Si è fatto trascinare, lui è un bravo ragazzo – racconta Giorgio, che sostiene di aver visto Filippo prima e dopo la rapina – Quell’altro lo conosco, abita lì alle “bianche” (le case più eleganti, che si stagliano alla fine dell’area verde, ndr). Aveva un motorino e ha detto a Filippo “vieni alle farmacia con me se no ti ammazzo di botte”. Ha proposto anche a me di fare la rapina, ma io ho rifiutato e lui mi ha spinto. Poi sono andato da mia madre, mi ha visto spaventato e le ho raccontato tutto». Dichiarazioni sulla cui attendibilità i carabinieri stanno ancora facendo verifiche. Ma Giorgio si dice sicuro: «Ho visto Filippo nel pomeriggio, quando è arrivato da scuola e ci siamo seduti sulla panchina, abbiamo chiacchierato e scherzato un po’. Poi è arrivato questo qui con la moto, l’ha preso e sono andati via. Non l’ho rivisto fino a sera, quando è arrivato qui sporgo di sangue, piangeva e tremava. Era sconvolto». Tutti nel quartiere conoscono Filippo e Francesco, il secondo rapinatore, di soli 18 anni: «Sono due ragazzi tranquilli, anche Francesco ha combinato qualche casino in passato – raccontano alcuni residenti – Li vediamo con gli altri sempre seduti su quelle panchine è il loro posto. Abbiamo visto anche una moto ieri pomeriggio, che è partita sgommando. Ma chi si poteva immaginare una cosa del genere?».

Da lastampa.it l'1 dicembre 2021. Due ragazzi, due amici dei giardinetti. Uno di 18 anni, muratore apprendista che, tra altalene e panchine del quartiere, si spaccia per criminale navigato, attribuendosi rapine mai commesse. L’altro ha 16 anni, non brillante a scuola, prende ceffoni dalla mamma quando viene scoperto a fumare uno spinello in cortile, che per sembrare più grande delle foto pubblicate su Instagram cede all’invito di fare qualcosa di molto proibito. Come fare una rapina vera. Su uno scooter sgangherato, con delle pistole finte e un coltello. Dove? Nella farmacia del quartiere o da qualche altra parte. Ecco l’identikit desolante dei due banditi, ma in questo caso è solo un’enfasi lessicale da cronaca, che l’altra sera, durante l’assalto alla farmacia comunale di corso Vercelli 236, alla periferia Nord di Torino, hanno ferito gravemente con quattro coltellate un brigadiere dei carabinieri, senza divisa né pistola, entrato per caso a comprare dei medicinali. Come avrebbe fatto qualsiasi altro militare dell’Arma o poliziotto, il sottufficiale non è rimasto a guardare, ma si è qualificato ed ha cercato di sventare la rapina. Fuggiti con un bottino di 900 euro e la paura nel cuore, si sono costituiti poche ore dopo il fatto. Già nella notte Filippo, il sedicenne, che ha materialmente inferto le coltellate: tornato a casa per la cena, ha confessato tutto ai genitori, scoppiando in lacrime. Nella mattinata di ieri si è consegnato ai carabinieri anche l’amico, Francesco Farace, appena maggiorenne, sospettato di aver «ideato» il colpo andando in cerca di complici ai giardinetti del quartiere, alle spalle dei palazzi popolari di via Paolo Veronese, a 500 metri dalla farmacia. Per paura non è tornato a casa a dormire, ma ha trascorso la notte in un luogo di fortuna. Entrambi sono stati sottoposti a fermo per tentato omicidio e rapina aggravata. Per Filippo, data la sua età, il procedimento compete al tribunale dei Minori. Il brigadiere Maurizio Sabbatino, 53 anni, conosciuto con il nome di Elvis per via della sua passione per le esibizioni canore e i classici del rock, è ancora ricoverato in prognosi riservata al San Giovanni Bosco. «Condizioni stazionarie» spiegano i medici. Gravi ma non critiche. Oggi sarà sottoposto a un nuovo intervento chirurgico, al fegato. Ha due figli, anche loro poco più che maggiorenni. Vive nei pressi nella farmacia rapinata e lavora da anni al nucleo operativo della compagnia Oltre Dora, la caserma dei carabinieri competente per quella porzione di Torino: quartieri difficili, in bilico tra microcriminalità e spaccio. «Sono orgogliosa di mio marito» dice la moglie Ornella, uscendo dall’ospedale, dopo aver passato la notte nell’atrio del pronto soccorso. «Mio marito è fiero di indossare la divisa dei carabinieri, e io sono fiera di lui, anche se avremmo preferito vivere questo episodio di coraggio in modo diverso». Accanto a lei i vertici dell’Arma, il generale Aldo Iacobelli, comandante della Legione, il generale Claudio Lunardo, cui è affiato il comando provinciale di Torino, e tutti i colleghi. L’assalto alla farmacia è stato ripreso dalle telecamere interne. La sequenza è eloquente. I due giovani entrano con le pistole scacciacani in pugno, comprate su internet. Francesco con il passamontagna, Filippo con mascherina e cappuccio della felpa. Il brigadiere, entrando, cerca di bloccarli. In un primo momento li fa inginocchiare, ma poi i due capiscono che è disarmato e reagiscono. Scoppia una colluttazione a ridosso dell’uscita: partono dei colpi a salve. Il brigadiere afferra il più giovane e cade a terra, tenendogli il braccio. Filippo prende il coltello e lo colpisce.

Massimiliano Peggio per “La Stampa” l'1 dicembre 2021. «Ho preso il coltello pensando di tagliare la manica del giubbotto, perché lui mi teneva il braccio. In quel momento ero spaventato, volevo solo scappare, mi sentivo tirare. Non so spiegare il motivo perché l'ho fatto. Sono distrutto, disperato, chiedo scusa a quel carabiniere, non volevo finire in questo casino». Filippo, 16 anni, è stato il primo a crollare. La rapina è avvenuta intorno alle 19 di lunedì: tre minuti di adrenalina e follia. Cinque ore dopo era già negli uffici del comando provinciale dei carabinieri, di fronte al procuratore per i minorenni, Emma Avezzù, pronto a raccontare i retroscena di quel colpo nato tra i giardinetti del quartiere. Con lui il suo avvocato, Marco Marchio. «Francesco da giorni parlava di fare una rapina. L'ha chiesto anche ad altri» ha detto, divorato dal senso di colpa per aver assecondato Francesco. Circostanza che troverebbe conferma anche dai racconti di altri coetanei, incrociati nel quartiere. Come Cristian, amico del cuore di Filippo. Anche lui si ritrova ogni giorno negli stessi giardinetti. «È tutta colpa di Francesco, è lui che ha trascinato il mio amico in questa storia». L'altro ieri il gruppetto di giovani ha trascorso il pomeriggio sulle panchine. C'era Francesco, il più grande, che voleva impressionare la platea di sedicenni parlando di rapine fatte. Nella sua fantasia di spaccone. «Sono uno esperto» avrebbe detto. Sì, ma di messa alla prova. Beccato a rubare quando era minorenne, era stato sottoposto a un provvedimento del tribunale. Prima della rapina, si è divertito l'altro ieri a sgommare con lo scooter tra i viali delle case popolari. «Portava in giro le ragazzine. Per poco non mi ha investito mentre gettavo l'immondizia. Li ho rimproverati e mi hanno guardato male» racconta una donna. Il piano è nato per caso. «Volevamo andare in una farmacia di Cafasse. Arrivati lì, abbiamo trovato un gazebo con molta gente in coda per fare i tamponi, così siamo tornati indietro» ha raccontato ieri pomeriggio Francesco, interrogato in procura dal pm Marco Sanini. A quel punto la scelta è ricaduta sulla farmacia della zona. Le due pistole finte e il resto dell'attrezzatura, come i passamontagna e gli zainetti erano stati acquistata mesi fa su Internet. A riprova che l'idea del colpo era già nell'aria, mancava solo l'occasione. E lo scooter Honda nero? «Comprato su Facebook». Fatta la rapina fuggono verso l'esterno città. Fanno poche centinaia di metri e si infilano nel boschetto lungo il fiume Stura. Lì abbandonano lo scooter, una delle pistole - l'altra è rimasta nella farmacia - i caschi, il coltello e decidono di spartirsi il bottino, in parte raccolto tra le casse, il resto dalla cassaforte sul retro. Novecento euro. «Io però mi sono rifiutato di prendere la mia parte» ha spiegato Filippo nell'interrogatorio. Tra gli oggetti sequestrati dai carabinieri, dopo aver individuato il boschetto, trovano anche 350 euro. Dopo il colpo, entrambi tornano verso casa a piedi, passando non lontano dalla farmacia, ormai circondata dalle pattuglie dell'Arma. Filippo va a casa. Francesco si rifugia altrove. Sono entrambi spaventati. Entrando in casa, i genitori del sedicenne capiscono subito che è successo qualcosa. Lo fanno parlare. Così lo accompagnano a costituirsi, dopo aver chiesto aiuto a dei parenti. «Siamo sconvolti» dice il papà. «Vorremmo incontrare la famiglia del carabiniere e chiedere scusa. Filippo è un bravo ragazzo si è fatto trascinare. Non si è reso conto di quello che stava facendo». Vincenzo, il papà di Francesco, uscendo ieri sera dagli uffici della procura, si mostra in lacrime. «Non smetto di piangere».

Polizia amica. Un'empatia conquistata sul campo. Sergio Mattarella Presidente della Repubblica - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. I quarant'anni della legge di riforma dell'Amministrazione della pubblica sicurezza coincidono con un altro anniversario che il 2021 ci consegna: i 160 anni dell'Unità d'Italia. Sono ricorrenze tra loro intimamente collegate. La Polizia è uno dei volti dello Stato. La storia della Polizia è parte del racconto della edificazione dello Stato unitario, ne ha seguito l'evoluzione costituzionale garantendo lealtà nello svolgimento dei suoi compiti di autorità preposta al mantenimento dell'ordine pubblico. La legge 121 del 1981 è caposaldo vivo e vitale dei nostri tempi: ha rapportato l'agire della Polizia nella società ai valori della Costituzione repubblicana, affidandole una missione non dissipata in un compito meramente securitario, bensì proiettata esplicitamente verso la cura dell'ordine democratico del Paese. La Polizia nel contesto costituzionale si pone come presidio di sicurezza che concorre a rendere vera la libertà di esercizio dei diritti garantiti dalla Carta fondamentale. La polizia moderna nella logica costituzionale propria della riforma dell'81, è oggi un corpo dello Stato che i cittadini riconoscono come amico, accessibile ed aperto, elemento di coesione. Una «empatia democratica» guadagnata sul campo anche nei giorni durissimi di questo annus horribilis appena trascorso, ma nata negli anni difficili del terrorismo, nutrita, nei lunghi 40 anni dall'introduzione della riforma, dal lavoro e dal sacrificio dei suoi componenti. Un impegno lungo che ha prodotto così i suoi effetti. Uno dei caratteri più significativi di quella riforma è rappresentato dalla attuazione del fondamento pluralistico. La parola pluralismo fa parte di una endiadi indissolubile con la parola democrazia e richiama il lemma latino plus, che evoca l'idea di «incremento». Il pluralismo implica incremento di democrazia e la Polizia di Stato recepisce questo principio facendolo elemento costitutivo. Una struttura inclusiva, con il pluralismo delle voci sindacali, il metodo meritocratico, la parità di genere sancita per la prima volta nell'impianto normativo delle amministrazioni pubbliche. Per i tanti fronti di impegno, memori dei sacrifici e del prezzo di vite pagato nell'assolvimento dei compiti, rinnovo la riconoscenza della Repubblica a tutti gli operatori della Polizia chiamati a vivificare ogni giorno la missione loro assegnata dalla Legge perché, come recita il loro motto: Sub lege libertas.

Così la Polizia si conferma presidio della legalità. Franco Gabrielli *Sottosegretario alla presidenza del Consiglio già capo della Polizia, - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. «La riforma non si esaurisce nella smilitarizzazione, nella sindacalizzazione, nel riconoscimento dei diritti civili e politici, ma investe il sistema complessivo dell'Amministrazione della pubblica sicurezza». Con queste parole, l'allora ministro dell'Interno, Virginio Rognoni, nella seduta della Camera del 25 marzo 1981, accompagnò, verso la conclusione, un dibattito parlamentare iniziato l'8 novembre 1979, che condurrà alla promulgazione della legge 1 aprile 1981, n. 121, recante il «Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza». Smilitarizzazione, sindacalizzazione, parificazione del ruolo delle donne, creazione del ruolo degli ispettori. Tutte istanze di democratizzazione e modernizzazione che, emerse sin dall'inizio degli Anni '70, trovarono finalmente una risposta sistemica in quell'aprile del 1981. Ma con la 121 furono fissati alcuni principi cardine nel nostro sistema come l'unicità dell'Autorità nazionale di pubblica sicurezza, identificata nel ministro dell'Interno. Perché in uno stato democratico la direzione degli apparati deputati alla sicurezza deve necessariamente far capo a un vertice politico, espressione di un Parlamento, sintesi della volontà popolare. Questa è la democrazia. Nel contempo fu fissato un corollario fondamentale: l'Autorità nazionale si avvale per la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, di un'amministrazione «civile» della pubblica sicurezza, composta dalle Forze di polizia, dai prefetti, dai questori, dai sindaci e anche dai cittadini che rivestono la qualifica di agenti di pubblica sicurezza. Questa amministrazione civile della pubblica sicurezza, così strutturata, è presidio di legalità e di sicurezza nel nostro Paese. Nella difficile ricerca di una conversione necessaria, il dibattito coinvolse non solo il Parlamento e le forze politiche e sociali del Paese, ma impegnò la stessa platea dei poliziotti, l'opinione pubblica, la stampa. Questo faticoso procedere, come sottolineò il relatore della legge alla Camera, l'onorevole Oscar Mammì, contribuì a «evitare quanto il terrorismo e la criminalità si proponevano, evitare cioè che si realizzasse il fine di dissaldare, in un Paese a democrazia piuttosto giovane, le istituzioni dai cittadini, i poliziotti dai lavoratori». A quarant'anni dal suo varo, abbiamo voluto celebrare questo architrave del nostro sistema di sicurezza, che tocca un topos di ogni democrazia: il rapporto tra libertà e autorità, tra libertà e coloro che sono chiamati a tutelarla.

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 20 marzo 2021. L' 8 agosto un tweet il ministero della Difesa rassicurava il popolo del web, sceso in campo per sostenere la tenente di Vascello della Marina militare finita nei guai per avere organizzato, sulle note di Jerusalema, un ballo di gruppo in divisa nella Scuola sottufficiali di Taranto, con i giovani volontari che avevano appena prestato giuramento. Una scenografia perfetta, ripresa in un video e postata sulla rete. «Nessun trasferimento dell' ufficiale. Inchiesta in corso. L' episodio non ha aspetti di particolare gravità», rassicuravano, ma adesso il procedimento disciplinare è sospeso ed è la procura militare di Napoli (che nulla ha a che vedere con il ministero) a intervenire. L' ufficiale è indagata per «concorso in disobbedienza continuata pluriaggravata», reato previsto dal codice penale militare di pace. Un atto quasi dovuto ma dall' esito incerto. Nei prossimi giorni sarà interrogata e tornerà a difendersi: «Non ho fatto nulla - ha sempre detto attraverso il suo legale, Giorgio Carta - volevo solo rinfrancare i ragazzi perché era stato un periodo molto duro e per la prima volta il giuramento, a causa del covid, avveniva a porte chiuse, senza amici né famiglie».

LE ACCUSE. Il tenente di vascello è indagata per non avere obbedito agli ordini del comandante di reparto. In particolare, «senza autorizzazione dei superiori gerarchici e in violazione delle disposizioni, ordinava dapprima agli allievi» di «effettuare un balletto sul brano Jerusalema, di Master KG» e, mentre i marinai «ballavano rimanendo inquadrati», la tenente di vascello ordinava a un sottufficiale di riprendere tutto con il cellulare e di inviarglielo - «sempre senza autorizzazione dei superiori gerarchici» - via Whatsapp.

LA VICENDA. Il video dello scorso 6 agosto era diventato virale e la giovane ufficiale era finita sotto procedimento disciplinare dalla Marina con l' accusa di aver gettato discredito sulla Forza armata. Nel filmato, che ha spopolato sul web, si vedono le reclute inquadrate in plotoni nel piazzale della caserma. Quindi la comandante entra in scena - con la sua uniforme bianca, sciabola e sciarpa azzurra - e, sulle note di Jerusalema, il tormentone dell' estate, comincia a ballare. La tenente di vascello dà il ritmo e tutti seguono i suoi passi. Il clamore suscitato dal filmato non era piaciuto alla Marina che qualche giorno aveva avviato il procedimento disciplinare suscitando l' ira della rete e una pioggia di post e messaggi in difesa della donna ora in servizio nelle Marche. Nonostante le rassicurazioni su Twitter da parte del ministero e accuse disciplinari, al omento congelate sono pesanti: violazione delle consegne e di uso improprio delle armi del reparto, imbracciate dai marinai durante il ballo con fare disinvolto. L' ufficiale è stata ritenuta responsabile di un comportamento «altamente lesivo dell' immagine» della Forza armata, per il «messaggio di grave superficialità» che verrebbe trasmesso. Un «pessimo esempio» per i giovani che avevano appena prestato giuramento e che sono stati coinvolti in un balletto «deplorevole nella forma e nella sostanza». Al procedimento disciplinare la marinaia aveva risposto con un ricorso al Tar, ma ora è tutto fermo, in attesa che il procedimento penale per Disobbedienza si concluda.

LA DIFESA. «Sono certo che la procura militare di Napoli presto si renderà conto del fatto che la mia assistita non ha commesso alcun reato, anzi, ha fatto sì che la Marina militare entrasse ancor più nei cuori degli italiani». Già in occasione del procedimento disciplinare, il legale aveva sottolineato: «L' ufficiale, madre di un bambino piccolo e mossa dalle migliori intenzioni, ha solo cercato di rinfrancare lo spirito di tante giovani reclute sottoposte a eccezionali precauzioni e ad isolamento dal resto del mondo. È stato solo un modo per far scaricare la tensione. L' adunata si è protratta soltanto tre minuti, non c'è stata nessuna violata consegna». E tanto meno, un reato, aggiunge adesso.

Roma-Fiumicino, gli volano banconote dal finestrino: si ferma in autostrada, falciato e muore. Il sospetto: non un semplice incidente stradale? Libero Quotidiano il 14 marzo 2021. Una morte terribile: investito sulla Roma-Fiumicino mentre raccoglieva i soldi che gli erano volati dal finestrino. È morto così, come racconta Il Messaggero, Marco Querini, 56 anni, travolto da un' auto sull'A91 sabato 13 marzo all'ora di pranzo dopo che dal finestrino erano volate alcune banconote con cui viaggiava e intorno a cui si sta creando un vero e proprio mistero. Come spiega il quotidiano capitolino, erano da poco passate le 13 quando sulla strada che collega l' aeroporto Leonardo da Vinci alla Capitale, all' altezza dello svincolo di Magliana per il Raccordo, è accaduta la tragedia. Querini era alla guida di una Opel Corsa, quando improvvisamente ha accostato ed è sceso dall' auto per recuperare il denaro che gli era volato. Un vortice che gli avrebbe portato via un' ingente somma. La vittima ha anche invaso la carreggiata dove erano in transito le auto, in direzione opposta. Che infatti lo hanno travolto. Querini è stato falciato da un'utilitaria guidata da un'anziana signora di 84 anni, A.M. La vittima è stata sbalzata, ha riportato gravissime ferite: inutili i tentativi disperati di rianmarlo. Dunque l'elisoccorso, atterrato sulla carreggiata, con la A91 bloccata. "Abbiamo visto quest' uomo sbucare all' improvviso dal nulla - ha spiegato un automobilista - sia io che mia moglie accanto a me, non c' eravamo accorti di nulla. Ma sono riuscito a frenare in tempo. L' auto che era davanti a noi invece lo ha centrato in pieno, purtroppo". Ma non solo: "Molti automobilisti si sono fermati subito dopo l' impatto e hanno raccolto i soldi, intascandoseli", aggiunge un secondo testimone, che si è presentato in caserma dei carabinieri per restituire 450 euro in contanti raccolti sul luogo dell'incidente. Il punto è che ora l'inchiesta punta sui soldi: stando alle prime evidenze, l'uomo stava viaggiando almeno con mille euro, ma si ipotizza qualcosa in più. Alla somma recuperata dal testimone che li ha consegnati ai militari, si è aggiunta infatti anche quella raccolta dai poliziotti intervenuti sul posto poco dopo l' investimento. Resta da accertare cosa sia accaduto all' interno dell' abitacolo della macchina della vittima. Un giallo, appunto: con quanti soldi viaggiava? E perché non erano stati sistemati in un luogo sicuro? Forse ne era entrato in possesso pochi istanti prima del dramma e li aveva appoggiati sul cruscotto. Una serie di domande alle quali gli investigatori cercano risposta: il sospetto è che non si tratti di un semplice incidente stradale.

Romina Marceca per "la Repubblica - Edizione Roma" il 10 marzo 2021. Due auto accartocciate. Una, la Punto di colore grigio metallizzato, finita con la parte posteriore su un albero. L' altra, la volante della polizia stradale, con il muso contro l' utilitaria. È questa la scena davanti alla quale si sono trovati i primi soccorritori dell' incidente dello scorso primo marzo in cui è morta Sheina Lossetto, l' adolescente di 14 anni che si trovava in macchina con la sua famiglia. I primi rilievi sul luogo dell' incidente fissano a circa 100 chilometri orari l' andatura della volante della polizia stradale. Lo sostengono i consulenti dei Lossetto: Fabrizio Ceramponi e Francesco Di Gennaro. I due ingegneri hanno eseguito un sopralluogo sulla strada in cui è morta Sheina, via di Salone, a Settecamini. Insieme a loro anche l' avvocato Roberto Pacini, legale della famiglia. Una versione quella dell' alta velocità che, ovviamente, dovrà essere confortata dalla ricostruzione cinematica dello scontro. «Su quel tratto di strada si poteva andare a 30 all' ora e lo indica un cartello sulla corsia che stava percorrendo la volante. A determinare quella possibile velocità ci si arriva dai danni provocati alle auto che abbiamo potuto vedere in un video. La volante ha invaso la corsia dei Lossetto. I Lossetto hanno raccontato che la loro velocità era bassa » , dice Fabrizio Ceramponi. La violenza dello scontro risulta anche da un video che mostra i minuti successivi all' impatto, in cui sono rimasti feriti gravemente il padre e il fratello di Sheina, ancora ricoverati ma non più in pericolo di vita. Fratture in tutto il corpo anche per i poliziotti e per la mamma di Sheina che dovrà essere operata al setto nasale. Nel video si vedono le due auto schiacciate una contro l' altra. La volante ha perso aderenza e ha invaso la corsia opposta, in curva. Attorno ai mezzi ci sono i parenti disperati che sentono le urla provenire dalla Punto. Lì dentro c' era ancora tutta la famiglia Lossetto. La volante stava inseguendo due rapinatori che a Tivoli avevano rubato dalla macchina di una tabaccaia sigarette per 4mila euro e una borsa con 130 euro. «Nel nostro sopralluogo abbiamo accertato la planimetria del tracciato stradale - spiega Ceramponi - e non sono stati rilevati residui gommosi di pneumatici ». Dai tachimetri delle auto e dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza potrebbero arrivare altre conferme o smentite a questi primi rilievi. La procura ha nominato come consulente tecnico d' ufficio un colonnello dell' esercito che analizzerà le due auto sequestrate. Le indagini sullo scontro sono seguite dai carabinieri di Tivoli e sono coordinate dal sostituto procuratore Antonio Clemente. «Il nostro intento è lo stesso della procura, quello di ricercare le cause e le responsabilità di quanto accaduto e cioè conoscere la verità. Si è trattato sicuramente di decimi di secondo. Un tempo impercettibile - dice l' avvocato Roberto Pacini - che non ha lasciato la possibilità di una reazione al padre di Sheina, alla guida dell' auto. Credo che nessuno di loro si sia reso conto di cosa stesse accadendo».

Alessia Marani per "il Messaggero" il 3 marzo 2021. L' ultima immagine impressa nella mente di mamma Lucia è Sheena seduta accanto a lei, sui sedili posteriori della Punto, entrambe incastrate nella vettura. La ragazzina «svenuta» immobile, lei con il naso rotto, il volto insanguinato, il marito Daniele Lossetto e l' altro figlio ventenne feriti. E nessuno che la aiuta in quel momento di inferno. Lucia Zito, 38 anni, ha raccontato, ancora confusa e sotto choc, di quel «missile» che è improvvisamente piombato addosso a lei e alla sua famiglia in via di Salone, senza il tempo di rendersi conto. Ha parlato con i carabinieri di Tivoli che hanno redatto l' informativa per la Procura, ha tirato fuori tutta la sua rabbia in ospedale quando, ieri, i parenti con l' assistenza di una psicologa, le hanno confermato l' incubo peggiore per una madre: sua figlia, 14 anni, non ce l' ha fatta. «Ma quanto correvano? Che volevano fare? Non siamo noi i delinquenti. Vogliamo giustizia». Ricorda il botto, lo stridere delle lamiere dell' auto della Polizia stradale che inseguiva dei rapinatori in fuga schiantata contro la loro, tutto in una frazione di secondo. «Mia sorella - racconta Marco Zito - chiedeva aiuto, urlava di aprire, ma nessuno interveniva. Avevano dubbi su chi c' era dentro. Alla fine ha rotto il vetro da sola per cercare di uscire e liberare la figlia. Siamo sconvolti». Lucia si trascina su una sedia a rotelle perché non ce la fa a stare in piedi quando nel cortile del Pertini le danno la triste notizia. Giosuè lotta tra la vita e la morte all' Umberto I, il marito è ricoverato a Tor Vergata. «Non vedrò Sheena più ballare e divertirsi con noi», dice alle cugine che non potrà dimenticare i suoi occhi. É stordita, confusa, i medici l' hanno leggermente sedata per non soccombere al dolore. Dimessa, prima di tornare nella casa di Valle Martella, nelle campagne di Zagarolo, ha voluto sincerarsi delle condizioni di Giosuè e Daniele, un pellegrinaggio straziante che mai avrebbe immaginato. Nel villaggio di Valle Martella la grande famiglia allargata dei Lossetto e degli Zito è sconvolta. In questo dedalo di strade, numerose famiglie di origine sinti hanno messo su casa. Alcuni hanno solo cinto i terreni con grandi cancellate di ferro, con ai lati le statue di leoni, aquile e gladiatori, e dentro mantengono ancora container o roulotte. Ma tutte con i tavoli per i pranzi e le cene all' aperto condite di musica e balli che a Sheena piacevano tanto. A casa di Cley e Giada è un via vai di familiari che cercano conforto. «Sheena era bellissima, sembrava una ragazza già di vent' anni e il papà e il fratello ne erano gelosissimi», raccontano i parenti che ancora non sanno nemmeno quando potrà svolgersi il funerale. Dolore e rabbia. «Sheena è morta per nulla, quei banditi che la polizia inseguiva sono scappati e finora chi ha pagato per tutti è solo Sheena», dicono. La Procura di Roma, intanto, ha aperto un fascicolo per omicidio stradale.

LO SCAMBIO. Il procedimento è in mano al pm Alberto Clemente che ha disposto l'autopsia della giovane ed è pronto ad affidare una consulenza per la ricostruzione della dinamica. L' agente che era alla guida, P. T., 44 anni, con una clavicola lussata e un polso rotto, è stato trasferito dal policlinico Casilino in un posto segreto per garantirgli maggiore protezione. È indagato per omicidio stradale colposo, un atto dovuto. Il collega, con anca e femore rotto, è ricoverato in un altro ospedale. Dai primi rilievi, effettuati dai carabinieri, sull' asfalto non sarebbero emersi segni di frenata, tra le ipotesi più probabili è che la vettura abbia perso aderenza viaggiando ad alta velocità, non meno di 100 all' ora, dopo la curva. Più difficile immaginare, ma l'ipotesi non è esclusa, che la Stradale possa avere scambiato la Punto grigia della famigliola con quella, stesso modello, usata dai banditi in fuga diretti in senso contrario.

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 2 marzo 2021. «Quando ho sentito le sue mani sul collo ho preso il coltello e l'ho colpito per togliermelo di dosso». Un' ora di dichiarazioni spontanee a processo in cui ha raccontato come ha assassinato un militare dell'Arma. Sessanta minuti in cui Finnegan Lee Elder, l'americano accusato dell' omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ha esposto nel dettaglio ciò che accadde la notte del 26 luglio del 2019. Quando in via Pietro Cossa, quartiere Prati, uccise un carabiniere di 35 anni con undici coltellate. A differenza del suo amico, connazionale e coimputato Gabriel Natale Hjorth, Elder, 21 anni, non si è sottoposto all' esame di giuria, pm e avvocati. Ha scelto la via delle dichiarazioni senza dover rispondere ad alcun quesito. Ecco ciò che Elder ha detto a dibattimento a partire dal momento in cui ha lasciato la stanza dell'hotel a 4 stelle Le Meridien in via Federico Cesi. I due americani avevano appena subito una truffa da parte di due spacciatori che al posto della cocaina gli avevano rifilato un'aspirina grattugiata. Per tutta risposta gli statunitensi avevano rubato lo zaino di uno dei due pusher con il cellulare all' interno. L' incontro sarebbe servito a riottenere i soldi della droga o in alternativa della vera cocaina e in cambio restituire la borsa agli spacciatori. Non sapevano i californiani che uno dei pusher aveva telefonato ai carabinieri denunciando il furto dello zaino e che quindi all' incontro sarebbero arrivati i militari dell'Arma, Cerciello Rega e Andrea Varriale. IL RACCONTO Dall' hotel Elder esce armato: «Quando ho lasciato la stanza ho messo il coltello nella tasca della mia felpa. Avevo una sensazione di paura e ansia per dover incontrare uno spacciatore che poteva arrivare con i suoi amici. È stata una mia decisione e non so se Gabriel ha visto ciò che stavo facendo». Pochi minuti dopo i due americani sono di fronte a due persone: «In un attimo si sono girati e si sono avventati su di noi senza dire una parola, senza qualificarsi come poliziotti», ha sottolineato Elder discostandosi, in parte, dalla versione offerta da Natale Jorth secondo cui Varriale si sarebbe identificato dopo la colluttazione. L' americano prosegue e riferisce nei dettagli come ha sferrato le 11 coltellate al vicebrigadiere: «L'uomo più grande (Cerciello Rega, ndr) era una montagna, mi ha buttato per terra e ha messo il suo peso su di me. Ero con la schiena sull' asfalto, ricordo le sue mani sul petto e poi sul collo con una pressione come se stesse cercando di soffocarmi mentre tentavo di divincolarmi. Ho provato panico e ho pensato volesse uccidermi. Perciò istintivamente ho preso il coltello e l' ho colpito per togliermelo di dosso. Non pensavo a nulla ero solo terrorizzato. È durato tutto pochi secondi. Ho avuto l' impressione che stesse cercando qualcosa. Dopo alcuni colpi mi ha afferrato la mano dove tenevo il coltello e ha cercato di rivolgerla verso di me. Ho cambiato mano e ho continuato a colpirlo. La mia volontà era liberarmi dal peso di quella persona». Elder ci riesce e scappa mentre Mario Cerciello Rega muore dissanguato in pochi secondi. E infine il tentativo di difendersi: «Non ho mai pensato che un pusher potesse chiamare la polizia. Negli Usa non accade». I due americani fuggono in albergo. Un paio d' ore dopo li arrestano: «Quando mi hanno portato in caserma ho sentito delle persone che urlavano e mi hanno sputato. Non sono stato trattato nel modo giusto ma oggi ammetto che posso capire i colleghi di Cerciello; un loro amico era appena morto e la loro reazione è umanamente comprensibile».

Stefano Vladovich per ilgiornale.it il 7 marzo 2021. Ergastolo per i killer del carabiniere Mario Cerciello Rega, 35 anni. È la richiesta del pm Maria Sabina Calabretta in Corte d'Assise per i due imputati dell'omicidio del vicebrigadiere avvenuto il 26 luglio 2019 a Roma. Alla sbarra i californiani Finnegan Lee Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth, 21 e 20 anni, accusati di aver ucciso volontariamente il militare. «Un'aggressione, un attacco sproporzionato - spiega il sostituto procuratore nell'arringa - e micidiale. Un'azione univoca per uccidere: non fu legittima difesa». Secondo l'accusa i due, dopo aver concordato un incontro con Sergio Brugiatelli, l'intermediario fra loro e lo spacciatore Italo Pompei, si presentano armati di coltello (una lama da marines) e uccidono Cerciello con 11 colpi sferrati con violenza inaudita. Elder è l'esecutore mentre Hjorth è responsabile allo stesso modo perché, ingaggiando un corpo a corpo con il secondo carabiniere, Andrea Varriale, gli impedisce di andare in aiuto del collega. E, probabilmente, sottrarlo alla furia del suo assassino. Non solo. La fuga verso l'albergo, il mancato soccorso del ferito crollato a terra in un lago di sangue, l'aver nascosto l'arma nella stanza dell'Hotel LeMeridien Visconti a Prati, confermerebbero la volontà di uccidere, non di difendersi. Una storia drammatica che inizia quando due ragazzi di San Francisco, uno di origini italiane, decidono di passare qualche giorno assieme nella capitale. Natale Hjorth è con i genitori al mare, a Fregene, dagli zii. Elder alloggia in centro. La sera del 25 luglio vogliono «divertirsi» e acquistare droga. Dove vanno? A Trastevere, una delle piazze di spaccio più battute dai turisti. La conoscono bene la zona Cerciello e Varriale. I due, in servizio alla stazione dei carabinieri di Campo de' Fiori, la battono quasi ogni sera per acciuffare spacciatori. Girano in pantaloncini e t-shirt per non dare nell'occhio. La pistola, quando la portano, è in un marsupio. Quella notte maledetta non ce l'hanno. Fa molto caldo, nella borsa una calibro 9x21 darebbe nell'occhio e nei bermuda è impossibile nasconderla. Un errore che Cerciello pagherà con la vita. Piazza Mastai. Gli americani si avvicinano a un tipo che gira in bicicletta con uno zainetto. La cocaina? Non è un problema: a un suo amico pusher bastano 80 euro per una dose doppia. Quando Pompei si allontana, Elder e Hjorth si accorgono che nella bustina c'è della tachipirina. Una «sòla» per dirlo alla romana. I due, che hanno già fatto il pieno di superalcolici, sono infuriati. Vedono la borsa di Brugiatelli su una panchina e la prendono. All'interno un telefono Nokia vecchio tipo e un portafogli con soldi e documenti. L'uomo li insegue ma i due scompaiono. Alla scena assistono quattro carabinieri fuori servizio fra i quali il comandante Pasquale Sansone. Brugiatelli si fa prestare il cellulare da un parcheggiatore egiziano, «Meddi», e compone il suo numero. Risponde Hjorth che parla italiano con accento inglese. Vogliono gli 80 euro sborsati, con gli interessi: una dose di cocaina, di quella buona, altrimenti niente zaino. Tre i contatti prima di stabilire l'appuntamento per lo scambio. Sansone lo convince a denunciare l'accaduto. All'una e 30 Brugiatelli chiama il 112. Ai carabinieri spiega la situazione. Intervengono Cerciello e Varriale in servizio dalla mezzanotte. Scatta la trappola. I due, però, si presentano agli americani in calzoncini, impediscono a Brugiatelli di farsi vedere, non portano con loro armi. Si qualificano, contrariamente a quanto affermano gli imputati, mostrando i tesserini e urlando di essere carabinieri. «Avevo paura mi volesse strangolare, mi sono difeso»: per Elder i carabinieri sono due «mafiosi» mandati dagli spacciatori. Estrae il coltello e si avventa su Cerciello. Il vicebrigadiere si accascia a terra chiedendo aiuto. Morirà poco dopo. Arrestati il giorno stesso, Hjorth viene ammanettato su una sedia e incappucciato. La foto, scattata nella caserma di via In Selci, fa il giro del mondo. E due carabinieri, Fabio Manganaro e Silvio Pellegrini, vengono indagati.

Da leggo.it il 14 dicembre 2021. Ha scattato una foto e poi l'ha diffusa, violando le regole dell'Arma. E' quanto successo al carabiniere Silvio Pellegrini, accusato di aver fatto una foto a Christian Gabriel Natale Hjorth, uno dei due ragazzi americani condannati all'ergastolo per l'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. L'immagine, che immortalava il ragazzo mentre era bendato in stato di fermo in una caserma romana dell'Arma, è stata inviata in una chat Whatsapp. Ora Pellegrini, iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio, è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma, che ha fissato il processo al prossimo aprile. Hjorth si è costituito parte civile. Sulla vicenda ha avviato un'indagine anche la Procura Militare e nell'ambito dell'udienza preliminare l'avvocato Andrea Falcetta, difensore dell'imputato, ha ottenuto dal giudice la trasmissione degli atti in Cassazione che dovrà decidere a chi spetta proseguire nel giudizio.

Omicidio Cerciello: a processo il carabiniere che scattò e diffuse la foto dell’americano bendato. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021.  Silvio Pellegrini è accusato di abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. Prima udienza a aprile. Andrà a processo Silvio Pellegrini , il carabiniere accusato di aver scattato la foto di Christian Gabriel Natale Hjorth, condannato all’ergastolo insieme a Finnegan Lee Elder per l’omicidio del brigadiere Mario Cerciello Rega, mentre era bendato nella caserma di via in Selci e averla poi diffusa in un gruppo whatsapp. Il processo per il militare accusato di abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio inizierà il prossimo aprile e nel procedimento si è costituito parte civile l’americano. In relazione alla divulgazione dello scatto un’indagine era stata aperta anche dalla Procura Militare. Sul punto è stata sollevata la questione di giurisdizione tra giustizia ordinaria e militare. Pellegrini, si legge nel capo di imputazione, «in violazione della disposizione che fa divieto di pubblicare l’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta, quale carabiniere in servizio ritraendo Natale Hjorth e diffondendo tale foto su almeno due chat whastapp, delle quali una dal titolo ‘Reduci ex Secondigliano’ con 18 partecipanti, dalla quale veniva poi ulteriormente diffusa da terzi ad altri soggetti e chat, arrecava a Natale Hjorth un danno ingiusto». Partirà invece a gennaio il processo davanti al giudice monocratico per Fabio Manganaro, il carabiniere accusato di aver bendato Hjorth poco dopo il fermo. Per lui l’accusa è di misura di rigore non consentita dalla legge.

Omicidio Cerciello, la beffa finale: va a processo il carabiniere Pellegrini per aver fotografato l’assassino. Marta Lima lunedì 13 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Andrà a processo Silvio Pellegrini, il carabiniere accusato di aver scattato la foto di Christian Gabriel Natale Hjorth, condannato all’ergastolo insieme a Finnegan Lee Elder per l’omicidio del brigadiere Mario Cerciello Rega, mentre era bendato nella caserma di via in Selci e averla poi diffusa in un gruppo whatsapp. Il processo per il militare accusato di abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio inizierà il prossimo aprile e nel procedimento si è costituito parte civile l’americano. In relazione alla divulgazione dello scatto un’indagine era stata aperta anche dalla Procura Militare. Sul punto è stata sollevata la questione di giurisdizione tra giustizia ordinaria e militare.

Pellegrini, si legge nel capo di imputazione, “in violazione della disposizione che fa divieto di pubblicare l’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta, quale carabiniere in servizio presso la compagnia carabinieri Roma Centro , ritraendo Natale Hjorth allorché lo stesso si trovava presso i locali del Roninv carabinieri del Comando provinciale di Roma e diffondendo tale foto su almeno due chat whastapp, delle quali una dal titolo ‘Reduci ex Secondigliano’ con 18 partecipanti, dalla quale veniva poi ulteriormente diffusa da terzi ad altri soggetti e chat, arrecava a Natale Hjorth un danno ingiusto”. Partirà invece a gennaio il processo davanti al giudice monocratico per Fabio Manganaro, il carabiniere accusato di aver bendato Hjorth poco dopo il fermo. Per lui l’accusa è di misura di rigore non consentita dalla legge.

La requisitoria durissima. Omicidio Cerciello, chiesto l’ergastolo per Hjorth e Elder: “Attacco micidiale e sproporzionato”. Redazione su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Il massimo della pena, l’ergastolo per entrambi gli imputati e un mese di isolamento diurno. È questa la pena richiesta dalla pm Maria Sabina Calabretta, durante la requisitoria, nel processo per l’omicidio del brigadiere napoletano (di Somma Vesuviana) Mario Cerciello Rega, nel quale sono imputati i due americani Finnegan Lee Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth.

LA REQUISITORIA – “Gravi sono i fatti e grave l’ingiustizia che è stata commessa ai danni di un carabiniere, un uomo buono” . Sono queste le dure parole utilizzate dalla pm Maria Sabina Calabretta, durante la requisitoria del processo per la morte del brigadiere ucciso a Roma nella notte del 26 luglio 2019. Un uomo “che stava lavorando” è stato ucciso “da due giovani che volevano passare la serata divertendosi e per questo avevano cercato della cocaina”.”Mio compito è dimostrare che Mario Cerciello Rega è morto per mano di due assassini – ha spiegato la pm – e non deve succedere di ucciderlo un’altra volta”. “Non dimentichiamo che Cerciello non può più parlare di quello che è successo”, ha aggiunto Calabretta.

OBIETTIVO ERA UCCIDERE – “La volontà omicidiaria di Elder era già presente” quando i due carabinieri si avvicinano ai due americani e dopo essersi qualificati cercano di identificarli, ha aggiunto la pm. Non fu legittima difesa, ha aggiunto Calabretta, e al contrario, quello di Elder, “è stato un attacco violento, micidiale, sproporzionato” . “Poco avrebbe potuto fare per difendersi” il brigadiere, ha precisato il magistrato, “anche se fosse stato armato, ma non lo era. La volontà di Elder era unicamente quella di uccidere e Cerciello è morto per le ferite che gli sono state inferte”. Inoltre su tutto quello che è successo quella notte “il contributo di Natale Hjorth è importante” : perché è lui che organizza l’estorsione, che intima a Brugiatelli di presentarsi all’appuntamento solo, e vede il coltello con lama di 18 centimetri che Elder porta all’appuntamento dato a Brugiatelli e al quale si presentano invece i due carabinieri Mario Cerciello Rega e Andrea Varriale. La pm a proposito dell’incontro tra i due carabinieri e gli imputati americani ha sottolineato che i primi “si sono qualificati, hanno mostrato il tesserino ed erano in servizio: si sono avvicinati frontalmente, non alle spalle. Cerciello non è stato ammazzato con una coltellata, ma con undici fendenti. La giovane età degli imputati e il fatto che siano incensurati non tolgono gravità ai fatti”.

Omicidio Cerciello Rega: «Fu legittima difesa». Le difese ricostruiscono in aula i tortuosi momenti della morte del carabiniere. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 aprile 2021. «In quest’aula si è chiesto il trofeo dell’ergastolo, ma l’ergastolo per un ragazzo di 19 anni equivale alla pena di morte. Per lui non chiedo cinismo ma speranza»: così due giorni fa si è espresso l’avvocato Renato Borzone nella sua arringa a difesa di Finnegan Lee Elder accusato, insieme a Gabriel Christian Natale Hjorth, dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Il processo di primo grado è arrivato, dopo circa 30 udienze tutte registrate da Radio Radicale, alle battute finali: la sentenza è prevista per il 5 maggio. La storia è nota: nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 i due ragazzi in vacanza in Italia erano andati all’appuntamento con Sergio Brugiatelli, mediatore di un pusher (inizialmente tenuto fuori dalle indagini perché informatore dei carabinieri), al quale avevano sottratto lo zaino dopo uno scambio di droga finito male, per poi trovarsi davanti due uomini, i carabinieri Andrea Varriale e Mario Cerciello Rega, chiamati ad incontrarli per recuperare lo zaino. Da quel momento le versioni dell’accusa e della difesa divergono: per la procura i due ragazzi erano consapevoli di trovarsi dinanzi a due esponenti delle forze dell’ordine e li hanno aggrediti per sfuggire ad un probabile arresto; mentre per la difesa, i due si sono spaventati pensando di trovarsi davanti a dei malviventi che li stavano aggredendo e per questo avrebbero reagito. Se per il pubblico ministero Maria Sabina Calabretta i due devono essere condannati all’ergastolo con isolamento diurno, per la difesa – gli avvocati Roberto Capra e Renato Borzone – si tratta invece di legittima difesa putativa: «Chiedo alla Corte – ha detto Borzone nella sua arringa durata ben sei ore – il coraggio dell’indipendenza dalle aspettative della pubblica opinione». Infatti la vicenda ha toccato il cuore di molti italiani e la narrazione che è passata quasi dappertutto è quella del vice brigadiere Cerciello Rega, appena tornato dal viaggio di nozze, che viene ucciso efferatamente da diverse coltellate inferte dal giovane americano in preda ad alcol e droghe. Però poi ci sono i processi e le questioni vanno poste all’attenzione del dibattimento durante il quale si formano le prove. Come ha detto l’avvocato Borzone, citando Arthur Conad Doyle, «non c’è mai nulla di così ingannevole come un fatto ovvio» e ha invitato la Corte a «giudicare con il massimo scrupolo, fino all’angoscia», soprattutto perchè sembrerebbe che il dibattimento abbia dimostrato una serie di bugie e menzogne dei carabinieri, così come anomalie delle indagini da parte della Procura. «Le omissioni e le menzogne da parte di alcuni carabinieri – ha detto Borzone – hanno confuso l’accertamento della verità. Per la prima volta la stampa di diversi orientamenti culturali ha parlato di “notte degli inganni”». L’avvocato Borzone si richiama poi ad un contesto più generale: i fatti accaduti nella caserma di Piacenza, il caso Cucchi, il caso Marrazzo «sollevano dubbi sulla catena di comando all’interno dell’Arma». «Qui però noi non vogliamo attaccare l’Arma – replica Borzone ad alcune parti civili – , noi parliamo di singole persone non delle Istituzioni, pensiamo ad esempio che vi sia stato un ausilio al carabiniere Varriale per le ragioni che vedremo».

Si badi bene che tutto ruota sulle testimonianze di tre persone: i due imputati e il carabiniere Andrea Varriale che si è recato all’incontro con i due americani insieme a Cerciello Rega. Quindi è fondamentale che il teste Varriale sia «credibile», ma per l’avvocato Borzone «Varriale è un bugiardo», adducendo undici motivazioni a sostegno di questa affermazione e ricordando che «Varriale è imputato in un procedimento connesso e quindi le sue dichiarazioni non sono valutabili allo stesso modo delle dichiarazioni di un altro testimone. E poi il fatto che uno sia carabiniere non significa che non menta mai, vedasi il caso Cucchi». Varriale è stato infatti indagato dalla Procura militare per il reato di “violata consegna” in quanto si era presentato disarmato all’appuntamento, mentre i militari sono obbligati a portare al seguito l’arma d’ordinanza ogni qualvolta sono in servizio, anche se in borghese, come erano loro quella maledetta notte. Alla luce di questo, sostiene Borzone, «Varriale aveva tutto l’interesse personale a dire in aula che ha mostrato il tesserino ai due americani altrimenti avrebbe potuto essere accusato di un altro reato dinanzi al Tribunale militare». Ma è chiaro – ribadisce l’avvocato – che «Varriale ha inquinato le indagini: durante due interrogatori avvenuti il 28 luglio l’uomo dice che aveva la pistola con sé e che l’aveva consegnata al comandante della stazione Farnese Sandro Ottaviani in ospedale, poi il 5 agosto che l’aveva consegnata ai colleghi arrivati sul posto dell’incidente e poi solo il 9 agosto ritratta dicendo che non avevano portato l’arma». Ma l’aspetto più incredibile, ricorda Borzone, è che il 30 luglio «il generale Gargaro in una conferenza stampa seguita a livello internazionale ha inconsapevolmente dichiarato che Varriale aveva l’arma con sé quella sera e per i cinque giorni successivi nessun carabiniere ha detto invece la verità. Allora mi chiedo cosa era quella caserma Farnese?. Due sono le ipotesi: o Varriale e il comandante Ottaviani si sono messi d’accordo in ospedale sulla versione da dare oppure Varriale, come si evince dai messaggi successivi, sapeva di poter contare su Ottaviani che gli teneva bordone». E ancora sullo scandaloso video girato da Varriale a Natale Hjort bendato in caserma: «Varriale ci dice che quel video faceva parte delle indagini per fare una valutazione della voce del ragazzo ma è stato smentito qui dal colonnello Lorenzo D’Aloia che ha ci ha detto che invece questo tipo di accertamento era conferito ai Ris». Un altro elemento riguarda le telefonate: «Dopo il fatto Varriale cerca di contattare più volte Ottaviani, ma poi le telefonate vengono cancellate dal registro delle chiamate. Perché?». E poi il referto medico: «Una diagnosi ottenuta sulla base della sola dichiarazione del Varriale, dunque una diagnosi riferita, parla di lesioni dorsali e lombari. Eppure il 29 luglio, a tre giorni dai fatti e nello stesso giorno del funerale di Cerciello Rega, Varriale organizza in una chat prima una “bevuta in scioltezza” e poi una partita a padel. Ma non aveva una dorsolombalgia?». Ma non finisce qui: nelle udienze precedenti era stato fatto ascoltare in aula un audio in cui un maresciallo della stazione Farnese dice a Varriale: «Andrea di questa cosa dell’ordine di servizio non ne parlare con nessuno. Ottaviani già sa tutto. Vieni dritto da me e lo compiliamo». «Si tratta di un audio molto importante – ci aveva detto Borzone – perché dimostrerebbe che sull’intervento a Trastevere l’ordine di servizio non era stato compilato, così come sostenuto invece finora dai militari». Si tratta di un verbale falso? Siamo dinanzi a nuovi depistaggi, come nel caso Cucchi? Il dubbio viene, ma saranno i giudici a scioglierlo. E arriviamo al punto nevralgico. Secondo Varriale, lui e il collega avrebbero mostrato i tesserini ai due ragazzi e si sarebbero qualificati come carabinieri ma – dice Borzone – «dopo tutti questi elementi che ho esposto è chiaro che la credibilità del carabiniere è pari a zero». E arriviamo alla versione di Lee Elder. Innanzitutto bisogna ricordare che «il ragazzo ha prima subìto un interrogatorio illegale – se vogliamo chiamarlo “informale” – in assenza del suo avvocato. E poi gli è stato fornito un avvocato d’ufficio che non sapeva parlare inglese». Il ragazzo non ha mai cambiato versione «ed è stato sempre onesto e leale. Parlando della colluttazione con Cerciello Rega avrebbe potuto dire che l’uomo aveva cacciato una pistola per giustificare la sua reazione ma non lo ha fatto. Come ha detto il professor Ferracuti, Lee Elder è un ragazzo che “non simula e né dissimula”. Un elemento forte a favore della sua versione per cui lui e Natale pensavano che i due carabinieri fossero dei malavitosi assoldati da Brugiatelli per recuperare lo zaino, si evince dal fatto che è stato proprio Lee a dare questa versione alla fidanzata Cristina pochissimo tempo dopo i fatti, come riferito da lei stessa. Qualcuno potrebbe pensare che lei stesse mentendo, ma è lo stesso Lee, nel rispondere ai carabinieri che gli chiedevano se avesse parlato con qualcuno dell’accaduto, a dire che ne aveva discusso con la ragazza. E poi è lui stesso a chiedere agli inizi di agosto di acquisire tutte le immagini delle videocamere della zona. Se aveva qualcosa da nascondere perché fare questa richiesta? Stranamente però proprio la telecamera che inquadrava un lato della farmacia dinanzi alla quale sono accaduti i fatti non ha registrato. Non posso certo presumere che le immagini siano state occultate, ma è strano che proprio quella non abbia funzionato». L’aspetto più grave è forse la presunta manomissione delle traduzioni delle intercettazioni. Come già vi avevamo raccontato, ad esempio, la frase «Ho chiamato mia madre e le ho detto di trovarmi alla stazione di polizia e mi stavano dicendo che avevo ucciso un poliziotto» per i traduttori della Procura della Repubblica di Roma si è trasformata in una confessione: «Ho chiamato casa dicendo di aver fatto la decisione sbagliata colpendo un poliziotto». E due giorni fa in aula Borzone ha ricordato una pesante omissione degli inquirenti relativamente alla intercettazione ambientale in cui Elder dice al suo legale americano che i poliziotti Rega e Varriale non avrebbero mostrato loro alcun tesserino: «They didn’t show anything, didn’t say anything (Non hanno mostrato nulla, non hanno detto nulla)» e ancora «I didn’t know that he was a cop. I thought he was a random criminal guy… mafia guy. (Non sapevo fosse un poliziotto. Pensavo fosse un malvivente… un mafioso)». Su quanto accaduto quella notte, dunque, la versione di Elder, che mai avrebbe potuto pensare che Brugiatelli avesse chiamato i carabinieri per farsi aiutare, è che Cerciello gli si era messo sopra, con lui steso a terra, e temendo di essere strangolato da una persona che in quel momento riteneva essere un malvivente, si era difeso sferrandogli una prima coltellata sul fianco e poi altre in rapidissima successione sino a quando non è riuscito a divincolarsi e a fuggire.

Un racconto che per l’avvocato Borzone «è coerente e lineare e conduce alla legittima difesa». In ogni caso, a prescindere da quella che sarà la sentenza, questo processo, a dispetto delle ricostruzioni della prima ora diffuse dagli inquirenti, ha fatto emergere pesanti ombre sull’operato di alcuni appartenenti all’Arma dei Carabinieri.

Ergastolo per i killer di Cerciello. Stefano Vladovich il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. I due ragazzi californiani hanno ucciso il carabiniere per 80 euro e un po' di coca. Ergastolo. Non è stata legittima difesa. Undici ore di camera di consiglio, in tarda serata la sentenza per Lee Elder Finnegan e Gabriel Natale Hjorth, i due ragazzi californiani colpevoli della morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, 35 anni. Undici coltellate inferte da Finnegan con il concorso dell'amico di origini italiane, Hjorth, la notte del 25 luglio 2019 in una strada di Prati, davanti al collega di Cerciello, Andrea Varriale. Secondo il pm Maria Sabina Calabretta Un'aggressione, un attacco sproporzionato e micidiale. Un'azione univoca per uccidere. Non si è qualificato come guardia, cop si è sempre difeso Finnegan. In America non succede che uno spacciatore chiami la polizia se è nei guai, così ho pensato a un agguato. Mi sono visto atterrare da un armadio d'uomo, ho estratto il coltello e l'ho colpito. In aula la vedova del carabiniere in servizio alla stazione di Campo de' Fiori, Rosa Maria Esilio, che ha seguito tutte le 50 udienze del processo. Per l'accusa i due, all'incontro con Sergio Brugiatelli, intermediario con lo spacciatore Italo Pompei, si presentano con una lama da marines e aggrediscono Cerciello. Elder è l'esecutore, Hjorth corresponsabile. Comincia tutto quando gli imputati decidono di acquistare droga a Trastevere per passare la serata. In piazza Mastai si avvicinano a un tipo in bicicletta con uno zainetto, Sergio Brugiatelli. La cocaina? A un suo amico pusher bastano 80 euro per una dose doppia. Ma nella bustina c'è solo tachipirina. I due, che hanno già bevuto alcol, sono infuriati. Vedono la borsa di Brugiatelli su una panchina e la rubano. Alla scena assistono 4 carabinieri fuori servizio. Brugiatelli si fa prestare il cellulare e compone il suo numero di telefono. Risponde Hjorth che parla con accento inglese. Vogliono gli 80 euro sborsati più una dose di cocaina buona altrimenti niente zaino. Tre i contatti prima di stabilire l'appuntamento per lo scambio. Il maresciallo Sansone, sul posto, convince il derubato a denunciare l'accaduto. All'1,30 Brugiatelli chiama il 112. Intervengono Cerciello e Varriale in servizio dalla mezzanotte. Scatta la trappola.. Lui e il collega sono di pattuglia in borghese, fa caldo e la pistola d'ordinanza non entra nel marsupio. Un errore che Cerciello pagherà con la vita. 

Omicidio Cerciello Rega, condannati all’ergastolo Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth. Ciro Capuozzo su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Sono stati condannati all’ergastolo i due americani Finnegan Lee Elder, l’accoltellatore materiale, e Gabriel Natale Hjorth per l’omicidio in concorso del vice brigadiere Mario Cerciello Rega ucciso con undici fendenti in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati a Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019.

La sentenza di primo grado, pronunciata nell’aula bunker di Rebibbia, è arrivata alle 23.11 del 5 maggio, al termine di oltre 12 ore di camera di consiglio da parte della prima Corte d’Assise, presieduta da Marina Finiti, del tribunale di Roma. Rega, originario di Somma Vesuviana (Napoli), aveva 35 anni ed era spostato da poco più di un mese (43 giorni). Quella notte era intervenuto con il collega Andrea Varriale per recuperare uno zaino rubato dai due turisti californiani a un pusher, Sergio Brugiatelli. Per entrambi la procura, attraverso il sostituto procuratore Maria Sabina Calabretta, aveva chiesto l’ergastolo senza la concessione di alcun attenuante. In aula presenti i familiari del militare dell’Arma anche la moglie Rosa Maria Esilio, vestita di nero e con una fotografia del marito poggiata sul tavolo. La donna è scoppiata in lacrime durante la lettura della sentenza. Presenti al momento della lettura della sentenza anche Andrea Varriale, il collega di Mario Cerciello, e Paolo Cerciello Rega, fratello e vedova di Mario.  Un processo durato oltre 50 udienze, in cui sono stati ascoltati periti, testimoni e gli stessi imputati. Presenti in aula anche Ethan Elder, il padre Finnegan Lee, Fabrizio Natale, padre di Christian Gabriel, accompagnati dai legali, che hanno salutato i figli attraverso le sbarre. Il suo avvocato, Roberto Capra si era mostrato fiducioso: “Lo abbiamo visto oggi, ovviamente è in attesa. È una sentenza importante dopo un lungo processo che per noi è andato bene dal punto di vista dell’istruttoria, oggi bisogna fare l’ultimo passo”.

La difesa. I due americani hanno sempre sostenuto di aver aggredito Cerciello e Varriale (che erano in abiti civili e senza la pistola d’ordinanza) senza sapere che appartenessero alle forze dell’ordine e di averli scambiati per uomini mandati da Brugiatelli al quale avevano sottratto uno zaino per vendicarsi di essere stati imbrogliati da un pusher di sua fiducia che aveva ceduto loro tachipirina frantumata al posto di un grammo di ‘neve’. Brugiatelli aveva concordato con i due americani un appuntamento per farsi restituire lo zaino in cambio di 100 euro e un po’ di droga, ma a quell’incontro si presentano Cerciello e Varriale, che vengono brutalmente aggrediti. Il primo muore nel giro di 30 secondi dopo aver ricevuto undici coltellate, Varriale viene invece lievemente ferito. I due americani vengono individuati nel giro di 12 ore in un albergo a poca distanza dal luogo dell’omicidio. La versione di Elder in udienza: “Si sono avventati improvvisamente su di noi senza dire una parola, senza qualificarsi. L’uomo più grande, era una montagna, mi ha buttato per terra e ha messo tutto il suo peso su di me. Ricordo le sue mani sul petto e poi sul mio collo con una pressione come se stesse cercando di soffocarmi mentre tentavo di divincolarmi. Ho provato panico e ho pensato volesse uccidermi. Quando ho sentito le sue mani sul collo istintivamente ho preso il coltello e l’ho colpito per togliermelo di dosso”.

La requisitoria. “Gravi sono i fatti e grave l’ingiustizia che è stata commessa ai danni di un carabiniere, un uomo buono” . Sono queste le dure parole utilizzate dalla pm Maria Sabina Calabretta, durante la requisitoria del processo per la morte del brigadiere ucciso a Roma nella notte del 26 luglio 2019. Un uomo “che stava lavorando” è stato ucciso “da due giovani che volevano passare la serata divertendosi e per questo avevano cercato della cocaina”.”Mio compito è dimostrare che Mario Cerciello Rega è morto per mano di due assassini – ha spiegato la pm – e non deve succedere di ucciderlo un’altra volta”. “Non dimentichiamo che Cerciello non può più parlare di quello che è successo”, ha aggiunto Calabretta.

Michela Allegri per "il Messaggero" il 6 maggio 2021. Più di 12 ore di camera di consiglio. Sono trascorse le 23, quando i giudici della I corte d' assise di Roma tornano nell'aula bunker di Rebibbia per pronunciare la sentenza: per Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth sono stati condannati è l'ergastolo. La pena più pesante per l'omicidio volontario del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso con undici coltellate nel quartiere Prati, a Roma, nel luglio 2019. In prima fila ad ascoltare le parole dei magistrati, la moglie di Mario, Rosa Maria Esilio. Capelli rossi raccolti, abito nero. Gli occhi che non riescono a trattenere le lacrime. Rabbia e commozione, durante l'ultima delle oltre cinquanta udienze per l'omicidio che, due anni fa, sconvolse l'Arma e la Capitale. Rosa Maria piange, abbraccia gli avvocati e il fratello di Mario. I giudici hanno anche condannato i due americani a pagare una provvisionale per circa un milione di euro: 350mila euro ciascuno alla moglie del vicebrigadiere, 200mila euro agli altri parenti, mentre per Andrea Varriale, l'altro carabiniere che era in servizio la notte del 26 luglio del 2019 e rimase ferito, ciascuno di loro dovrà pagare 50mila euro.

IL PROCESSO. Era «un uomo buono che stava lavorando», ed è morto «per una grave ingiustizia», colpito da una raffica di coltellate «sferrata in meno di trenta secondi», aveva detto durante la sua requisitoria la pm Maria Sabina Calabretta, chiedendo, insieme all' aggiunto Nunzia D' Elia, il carcere a vita per i due imputati. A infliggere materialmente i colpi è stato Elder, che ha confessato di avere pugnalato il carabiniere. Ma, come Natale, ha puntato sulla tesi della legittima difesa: i giovani americani hanno dichiarato di non essersi accorti nell' immediatezza che Cerciello e Varriale erano carabinieri. «Pensavamo fossero due criminali», avevano spiegato gli imputati. «Cerciello è morto solo per mano di due assassini - aveva invece sottolineato l'accusa - non per concause, ma non deve accadere di ucciderlo un'altra volta. Per lui, strappato ai suoi cari per sempre, devono parlare tutte le cose che abbiamo ricostruito». Se Elder aveva confessato di avere inflitto i fendenti, per il pm «il ruolo di Natale è egemonico: lui organizza tutto, prima, durante e dopo l'omicidio. Lui ha attivato Elder, ha visto Cerciello a terra, ha sentito i suoi gemiti. In albergo come se niente fosse ha aiutato Elder a nascondere il coltello». Per il pm quella messa in atto contro i carabinieri dai due ventenni è stata una vera e propria «aggressione, un attacco sproporzionato e micidiale: un'azione univoca», con la sola finalità di «uccidere». E ancora: «L' ergastolo non è un trofeo da esibire ma una giusta pena, davanti a fatti così tragici nessuno vince e nessuno perde». Opposta la ricostruzione fatta dalle difese dei giovani imputati, che all' epoca avevano 19 anni. Per agli avvocati Roberto Capra e Renato Borzone, difensori di Finnegan Lee Elder, doveva essere riconosciuta la legittima difesa, perché i carabinieri, in borghese, non avevano mostrato i tesserini. «Questa sentenza rappresenta una vergogna per l'Italia con dei giudici che non vogliono vedere quello che è emerso durante le indagini e il processo. Non ho mai visto una cosa così indegna. Faremo appello - ha detto l'avvocato Borzone - Qui c' è un ragazzo di 19 anni che è stato aggredito». «È una sentenza ingiusta, errata e incomprensibile», ha invece l'avvocato Petrelli. «È una sentenza severa ma corrispondente al delitto atroce che è stato commesso, una pena adeguata alla gravità del fatto, i due imputati non hanno dato nessun segno di pentimento», ha dichiarato invece l'avvocato Franco Coppi, legale di parte civile della famiglia del vicebrigadiere.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2021. Attimi di stordimento a Regina Coeli: da mercoledì notte Gabriel Christian Natale Hjorth, 20 anni, va chiedendo ai suoi avvocati Francesco Petrelli e Fabio Alonzi: «Mi spiegate? Non capisco. Mi spiegate?». Poi, neanche fosse un vecchio teppista alle prese con bilanci esistenziali, continua a ripetere: «Voglio pagare per quello che ho fatto non per quello che non ho fatto». Non dev' essere facile far capire come stanno le cose ai giovani protagonisti di questo dramma ormai consumato. Non solo per ragioni linguistiche ma, con ogni probabilità, anche giurisprudenziali: Natale Hjorth e il suo amico Finnegan Lee Elder sono stati travolti da una sentenza tanto netta quanto inattesa: ergastolo per l'omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega ucciso a coltellate il 26 luglio 2019. Una sentenza che ha spazzato via progetti, attese, aspettative precedenti. «Per sei mesi appena non siamo stati giudicati dal Tribunale dei minori», sospira oggi Alonzi pensando al suo cliente ragazzino che ieri notte, dopo la lettura della sentenza nell'aula bunker di Rebibbia, s' è stretto in un abbraccio al padre. E poi lascia che a parlare siano le parole dello stesso papà, Fabrizio Natale: «Questa sentenza ci lascia stupefatti ma non intacca in alcun modo la nostra convinzione dell'innocenza di nostro figlio e della sua assoluta estraneità all' omicidio del vicebrigadiere Cerciello». E ancora, a completare il suo ragionamento: «Le prove che sono state acquisite nel corso del processo hanno dimostrato come Gabriel non abbia avuto nulla a che fare con la morte del povero vicebrigadiere. Continuiamo comunque ad avere fiducia nella giustizia italiana, certi che il giudizio di appello ci darà ragione riconoscendo l'innocenza di nostro figlio». Il tema, dicono ancora gli avvocati di Natale, non è sapere se il ragazzo fosse a conoscenza dell'esistenza del coltello (lo sapeva e aveva scherzato con l'amico su questo particolare) ma se fosse consapevole che Elder lo aveva portato con sé per utilizzarlo durante l'incontro con i carabinieri. «Alla lettura della sentenza non riuscivo a credere a quello che stavo ascoltando e al terribile errore che si stava commettendo - ha detto il ragazzo -. In quel momento avrei solo voluto gridare tutta la mia innocenza». Quanto all' amico, Elder, i difensori Renato Borzone e Roberto Capra, hanno raccolto il suo sfogo in un semplice interrogativo: «Perché non hanno voluto capire?», ha domandato il ventenne californiano dopo che la presidente della I Corte d' Assise ha letto la sentenza. Nessun commento da parte della mamma, Leah Elder, che al processo, parlando di suo figlio, aveva detto: «A un certo punto mio figlio ha perso la luce negli occhi». Leah è svenuta alla lettura della sentenza. Prima che i giudici si pronunciassero, qualche giorno fa, era intervenuto lo zio di Elder, Sean, con una intervista al Washington Post: «Penso che i genitori sperassero che questa potesse essere un'esperienza che lo aiutasse a maturare» ha detto. «Sua madre era andata a Roma quando aveva vent' anni e aveva lavorato come ragazza alla pari - aveva aggiunto lo zio di Elder - lei pensava che anche per lui essere in un ambiente nuovo e dover imparare a fare da solo l’avrebbe aiutato a maturare. Penso anche che lui fosse molto depresso e che sperasse la stessa cosa». Tornare a sperare, ora, sarà un percorso complicato.

Uccisero Mario Cerciello Rega: ergastolo ai due ragazzi americani. Il ricordo del carabiniere di Luigi Pelazza. Le Iene News il 06 maggio 2021. Massimo della pena per i due ragazzi americani, Elder Finnegan Lee e Gabriel Christian Natale Hjorth per l’omicidio nel luglio 2019 del carabiniere Mario Cerciello Rega. Noi l’avevamo conosciuto durante un servizio di Luigi Pelazza, che lo ricorda in questo video “Mario era un amico, uno di quei tantissimi carabinieri che ogni giorno rischiano la vita per rendere un po’ più sicura la nostra”. Due ergastoli: per l’accoltellamento mortale del carabiniere Mario Cerciello Rega sono stati condannati con il massimo della pena in primo grado i due ragazzi americani Elder Finnegan Lee, 22 anni, e Gabriel Christian Natale Hjorth, 20 (foto sotto). Nella notte fra il 25 e il 26 luglio 2019 il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, che noi come potete vedere nel video qui sopra, avevamo conosciuto in marzo con il nostro Luigi Pelazza, fu ucciso con 11 colpi di un coltello di 16 centimetri a Roma. Il militare aveva 35 anni, era sposato da 43 giorni e 13 ne erano passati dal suo ultimo compleanno. I ragazzi californiani avevano cercato di comprare di cocaina a Trastevere da Sergio Brugiatelli, che fece da intermediario accompagnandoli da un’altra persona che aveva dato loro in realtà una pasticca di Tachipirina. Elder e Hjorth rubarono per vendetta lo zaino di Brugiatelli e proposero uno scambio per riavere indietro i soldi. All’incontro si presentarono il carabiniere Mario Cerciello Rega e il collega Andrea Varriale, in borghese e disarmati. Durante la successiva colluttazione, dopo che i due militari si erano qualificati, Elder accoltellò per undici volte Cerciello Rega. La tesi dei difensori che i due ragazzi fossero convinti di trovarsi invece di fronte a due malviventi e che quindi si sia trattato di legittima difesa non è stata accolta nella sentenza. Noi de Le Iene abbiamo potuto conoscere Cerciello Rega nel servizio di Luigi Pelazza del marzo 2019 che potete rivedere qui, sulla “banda dei Rolex”. I carabinieri, tra cui il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, che avevamo avvisato, sono intervenuti e hanno arrestato un uomo perché in possesso di un documento falso. “Ho perso un amico, si chiamava Mario, aveva 35 anni ed era sposato da un mese”, dice Luigi Pelazza ricordando Cerciello nel video qui sopra, realizzato dopo l’omicidio. “Mario era di Somma Vesuviana, un napoletano di quelli simpatici, bonaccioni coi quali ti fa piacere passare dei momenti assieme. E dico questo perché l’ho proprio conosciuto a Roma alcuni mesi fa durante un servizio che stavo girando per le Iene, la ‘banda dei Rolex’. E anche in quell’occasione Mario e i suoi colleghi non si sono risparmiati. Mario era uno di quei tantissimi carabinieri che ogni giorno rischiano la vita per rendere un po’ più sicura la nostra”.

L’ira dei killer di Cerciello: “Siamo innocenti”. La vedova: “Hanno cercato di infangare Mario”. Monica Pucci giovedì 6 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Perché, perché non hanno voluto capire?”. È questo lo sfogo di Finnegan Lee Elder ai suoi difensori, gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, a quanto apprendere l’Adnkronos, all’indomani della sentenza che ha condannato lui e l’amico Christian Gabriel Natale Hjorth all’ergastolo per l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega.

La rabbia degli assassini di Mario Cerciello. “Non si aspettava questa decisione” sottolinea il suo difensore dopo averlo incontrato oggi in carcere. “Non si arretra, si combatte, fino a che non troveremo un giudice interessato a capire cosa è successo” conclude Borzone, legale di Finnegan Lee Elder. “Sono sconvolto e lacerato dal dolore perché sono stato condannato per un fatto che non ho commesso” sostiene Gabriel Natale Hjorth in una dichiarazione all’Adnkronos tramite i suoi difensori gli avvocati Fabio Alonzi e Francesco Petrelli, all’indomani della sentenza di condanna all’ergastolo per l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega ucciso a Roma il 26 luglio del 2019. “Alla lettura della sentenza non riuscivo a credere a quello che stavo ascoltando e al terribile errore che si stava commettendo. In quel momento – prosegue Hjorth – avrei solo voluto gridare tutta la mia innocenza”.

La vedova di Cerciello: “Riconosciuta la correttezza di Mario”. “Con la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Roma dopo un lungo e doloroso processo di 43 udienze, oltre alla irrogazione della più grave delle condanne, quella dell’ergastolo, è stata riconosciuta l’assoluta correttezza dell’operato di Mario nel tentativo di assicurare alla giustizia i responsabili di una estorsione che ha avuto il suo epilogo nel suo efferato assassinio”, dice Rosa Maria Esilio, vedova del vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega. “Nel corso di questo processo – aggiunge – ho dovuto assistere a biechi tentativi di ribaltare le responsabilità stravolgendo i fatti, facendo illazioni e fantasiose ipotesi, cercando di rappresentare una verità non coincidente con quella reale, infangando e denigrando senza vergogna a più riprese la memoria di Mario, tentando di ridurlo e svilirlo nonostante la sua morte ed il suo corpo martoriato parlassero senza lasciar dubbio alcun. Grazie al lavoro dei Giudici della Corte d’Assise, della Procura, degli avvocati e dei Carabinieri che con professionalità, correttezza e scrupolosità, senza farsi trasportare dall’emotività del momento, essendo anche quest’ultimi vittime dell’efferato delitto, è emersa la verità dei fatti e l’irreprensibile condotta di mio marito caduto nell’adempimento del dovere”.

Il dolore del fratello del carabiniere ucciso dagli americani. “Mario era tutto per me. Un fratello vero, un amico e un punto di riferimento eccezionale. La sentenza sicuramente non può ridarmi mio fratello, ma mi aiuta nel vivere il mio profondo dolore perché è una sentenza giusta che rispecchia la gravità dei fatti e il modo barbaro e crudele in cui Mario ha perso la vita”. Così all’Adnkronos Paolo Cerciello Rega, fratello di Mario il vicebrigadiere dei carabinieri ucciso il 26 luglio del 2019 a Roma, all’indomani della sentenza di condanna all’ergastolo per i due americani Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjort. “Grazie alla Corte d’Assise di Roma per l’intenso lavoro svolto anche durante i mesi di lockdown e grazie al mio avvocato Ester Molinaro e allo studio del professor Coppi per il modo in cui sono stati a mio fianco e si sono battuti – sottolinea – per difendere l’onore di mio fratello Mario, morto mentre era servizio del nostro Paese”.

La soddisfazione di Meloni e Gasparri. “Colpiscono al cuore le parole commosse di Rosa Maria, compagna del vicebrigadiere Cerciello Rega, dopo la condanna all’ergastolo dei due americani per l’omicidio di Mario. Speriamo che gli assassini ora scontino la loro pena fino all’ultimo giorno, senza alcuno sconto. Giustizia per Mario”. Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, recatosi questa mattina sul luogo del delitto Cerciello Rega, in un video postato sui suoi social, ha esternato così il proprio cordoglio. “In questo angolo del quartiere Prati nel luglio del 2019 fu ucciso con 11 coltellate il vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. In queste ore i due balordi americani in cerca di droga e in preda alla droga sono stati condannati all’ergastolo. Nessuno restituirà il vice brigadiere alla sua compagna, alla sua famiglia, all’Arma dei Carabinieri ma possiamo dire che giustizia è fatta. Siamo qui per ricordarlo ancora una volta, nel luogo dove con ferocia fu ucciso e massacrato e per rendere onore a lui e a tutto il popolo in divisa che tutela la nostra libertà e la nostra sicurezza”.

Alessia Rabbai per "fanpage.it" il 6 maggio 2021. "La sentenza rappresenta una vergogna per l'Italia, con dei giudici che non vogliono vedere quello che è emerso durante le indagini e il processo. Non ho visto una cosa così indegna, faremo appello". Sono le parole di Renato Borzone, avvocato difensore di Finnegan Lee Elder, uno dei due ventenni americani condannati in primo grado all'ergastolo per omicidio nel processo per l'uccisione dei Mario Cerciello Rega. Fabio Alonzi, che difende Christian Natale Hjorth, ha definito il suo assistito "assolutamente innocente". Il verdetto dei giudici è arrivato nella tarda serata di ieri, mercoledì 5 maggio, al termine di tredici ore di Camera di Consiglio. Entrambi i legali hanno dichiarato che faranno appello. Alla lettura del dispositivo, che ha accolto la richiesta avanzata dalla Procura di Roma, Elder, che materialmente ha sferrato i colpi mortali al vicebrigadiere dei carabinieri facendolo morire dissanguato, ha pianto.

La vedova Cerciello: "Nessuna condanna mi ridarà Mario". Al termine dell'udienza la vedova Cerciello, Rosa Maria Esilio, ha commentato la sentenza dei giudici: "Nessuna condanna mi ridarà indietro Mario, non ci ridarà la nostra vita insieme – ha detto – Oggi è stata messa la prima pietra per una giustizia nuova. La sua integrità è stata difesa e dimostrata, nonostante da morto abbia dovuto subire tante insinuazioni". In lacrime ha abbracciato il fratello di Mario dicendo: "Non morirà più".

Elder e Hjorth condannati il primo grado all'ergastolo. Il processo per l'omicidio di Mario Cerciello Rega è iniziato il 26 febbraio del 2020 e si è chiuso ieri dopo una cinquantina di udienze. I giudici di primo grado hanno stabilito la più severa: la condanna a vita. Ora si attendono le motivazioni della sentenza. Il delitto risale alla notte del 26 luglio del 2019 e si è consumato in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati a Roma, quando il vicebrigadiere insieme al collega Andrea Varriale, nel tentativo di effettuare un “cavallo di ritorno” sono rimasti coinvolti in un conflitto corpo a corpo con i due ragazzi americani. Elder all'improvviso ha estratto un coltello da marines e ha inferto undici coltellate a Cerciello, che è morto poco dopo la corsa in ambulanza all'ospedale Santo Spirito.

Cerciello Rega, fratello: “Sentenza lava fango gettato su di lui”. Debora Faravelli il 07/05/2021 su Notizie.it. Paolo Cerciello Rega commenta la condanna all'ergastolo dei due americani che due anni fa hanno ucciso suo fratello Mario. A pochi giorni dalla sentenza di primo grado che ha condannato all’ergastolo i due americani responsabili dell’omicidio di Mario Cerciello Rega, il fratello minore della vittima ha raccontato il suo rapporto con quest’ultimo e affermato che la decisione del giudice “lava tutto il fango che hanno provato a gettare su di lui”. Intervistato dal Messaggero, Paolo Cerciello Rega ha dichiarato di non aver guardato negli occhi i due assassini: “Ho pensato a Mario, ho abbracciato sua moglie, ho guardato la foto che lei ha sempre tenuto stretta tra le mani”. Non è stato facile, ha continuato, combattere contro chi provava a sporcare la memoria del fratello: ora la verità è limpida e chiara e ha mostrato che lui faceva il suo lavoro ed è morto con coraggio mentre compiva il suo dovere. Da quella notte di luglio 2019 in cui si è consumato il delitto, la sua vita è cambiata moltissimo: “Ho sofferto, mi è stato strappato un pezzo di vita, di cuore”. In quel periodo Paolo viveva e lavorava a Ravenna ma è tornato in Campania con la moglie per stare accanto a sua madre e sua sorella. Ha dunque dovuto cercare lavoro a Somma Vesuviana dove è attualmente impiegato come operatore ecologico. “Andiamo avanti, con questo dolore sordo che non credo ci lascerà mai”, ha aggiunto. A chi gli ha chiesto alcuni ricordi di Mario, Paolo ha menzionato il suo matrimonio, avvenuto solo un mese prima della morte, e i giorni precedenti al delitto in cui si trovavano insieme a Somma Vesuviana per occuparsi della loro campagna. “I ricordi non li porterà via nessuno anche se in tutti questi mesi, questi anni anzi, hanno tentato di farlo apparire una persona diversa da quella che tutti sapevamo fosse”, ha evidenziato. E la sentenza, aggiunge, ha confermato che Cerciello Rega era un uomo perbene, un carabiniere coscienzioso e una persona esemplare. Il fratello della vittima ha infine affermato di non avere nulla da dire ai due ragazzi americani che hanno ucciso Mario. Ha soltanto ringraziato la Corte d’Assise di Roma per l’intenso lavoro svolto anche durante i mesi di lockdown, il mio avvocato Ester Molinaro e lo studio del professor Coppi per il modo in cui sono stati al suo fianco “e si sono battuti per difendere l’onore di un carabiniere morto mentre era servizio del nostro Paese”. 

"I killer del carabiniere trattati come mafiosi": l'accusa choc dagli Usa. Valentina Dardari il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Il legale di Elder Finnegan, Craig Peters, si augura “che in appello ci siano avvocati che vogliano fare giustizia in modo equo”. Dagli Stati Uniti è arrivata una accusa choc da uno degli avvocati dei ragazzi californiani accusati della morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, e condannati all’ergastolo. A lanciare l’accusa è stato Craig Peters, l’avvocato del 21enne Elder Finnegan, in collegamento con la Abc7news, durante il quale ha commentato la sentenza di ergastolo per i due giovani, arrivata nel pomeriggio di mercoledì 5 maggio.

L'accusa verso i giudici italiani. “Hanno preso la stessa condanna che viene riservata a un boss mafioso. Speriamo che in appello ci siano dei giudici che vogliano davvero capire cosa sia successo e fare giustizia in modo equo” ha detto il legale ai microfoni dell’emittente televisiva americana. Mercoledì pomeriggio i due ragazzi avevano reagito con sconcerto e rabbia alla lettura della sentenza. In poco tempo la notizia è giunta oltreoceano, dove televisioni e siti di informazione hanno dato spazio a quanto avvenuto in Italia. Elder e il suo amico, il ventenne Gabriel Natale Hjorth, hanno entrambi ricevuto la condanna più severa nel nostro Paese per il loro crimine, ovvero l’uccisione del carabiniere 35enne, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 a Roma. È in corso adesso un appello contro il verdetto e l'avvocato della famiglia Elder ha voluto sottolineare quanto sia diverso il processo in Italia. Secondo quanto asserito dal legale, "in America la fine del primo grado è il più delle volte la fine del processo. Ma in Italia è molto diverso. Quindi stiamo cercando di ricordargli che c'è essenzialmente un'altra prova, che accadrà al livello di appello, dove si spera di avere giudici più sofisticati, più esperti, più ragionevoli e razionali che effettivamente faranno il duro lavoro di cercare di dare un senso a tutto questo e quindi distribuire equamente la giustizia " ha concluso l’avvocato Craig Peters.

Quella tragica notte romana. I due americani vennero fermati dopo circa 12 ore dall’omicidio. Si difesero sostenendo di aver scambiato i due militari, Mario Cerciello Rega e il suo collega, Andrea Varriale, che erano vestiti in borghese, per uomini mandati da Sergio Brugiatelli, l'intermediario dei pusher di Trastevere. Per vendicarsi di una partita di droga non consegnata, i due ragazzi avevano deciso di rubare lo zaino dello spacciatore, con al suo interno il telefono cellulare. Si erano quindi messi d’accordo per incontrarsi la notte, allo scopo di recuperare i soldi, o quantomeno avere in cambio la droga, e riconsegnare il borsone sottratto al pusher. Non sapevano però che quest’ultimo aveva denunciato ai militari il furto della borsa e che nel luogo dell’appuntamento ci sarebbero stati anche i carabinieri. Due per la precisione: Andrea Varriale e il povero Mario Cerciello Rega.

«L’ergastolo per quei due giovani è peggio di una pena di morte». Carcere a vita con isolamento diurno per due mesi: questa la pena inflitta a Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Valentina Stella su Il Dubbio il 7 maggio 2021. Ergastolo con isolamento diurno per due mesi: si potrebbe pensare che sia una condanna inflitta ad un pericoloso boss della mafia e invece è la pena che due giorni fa la prima Corte d’Assise di Roma ha comminato a Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Il popolo esulta col trofeo in mano, non però quello di Dike (la giustizia) bensì quello delle Erinni, simbolo di vendetta. «Paradossalmente per un ragazzo di 19 anni l’ergastolo è più di una pena di morte – ci dice l’avvocato Renato Borzone, che difende, insieme al collega Roberto Capra, Lee Elder, il ragazzo che ha accoltellato Rega -. Significa restare tutta la vita in carcere, per di più in un Paese straniero. E non dimentichiamo che solo per poco non è stato giudicato dal Tribunale dei minori e che soffre di pesanti problemi psichiatrici. Questa fame di pena e di carcere è significativa del background culturale del nostro Paese e di buona parte della magistratura che deve mostrare il pugno di ferro». In merito alla decisione, Borzone si dice «sgomento insieme a tutta la stampa americana che, avendo seguito il processo, non si capacita dell’esito di questa vicenda. Non si è voluto in nessun modo guardare alle carte processuali ma si è fatto un atto di fede nei confronti della forza pubblica. E questo non è accettabile in una democrazia liberale. Il racconto dell’unico accusatore (il collega di Cerciello Rega, Andrea Varriale, ndr) è costellato da decine di esposizioni non corrispondenti alla realtà dei fatti: a nostro giudizio non è stato assolutamente provato, ad esempio, che i due carabinieri abbiano mostrato i tesserini e si siano qualificati. Varriale ha ripetuto per cinque volte in dibattimento di aver attraversato la strada sulle strisce pedonali di fronte alla farmacia in modo perpendicolare e il video della banca Unicredit dimostra esattamente il contrario. Ciò conforta la versione che hanno fornito i due imputati di essere stati affiancati dai due carabinieri che poi li hanno afferrati. Noi non abbiamo mai voluto dire che i carabinieri volessero uccidere i ragazzi o che volessero aggredirli. È probabile che volessero fermarli, ma nell’ambito di una operazione di polizia che è incredibile per la violazione di tutti i protocolli previsti. Questo, insieme a quanto accaduto a Bolzaneto, nella caserma di Piacenza, e i casi Cucchi e Marrazzo sollevano dubbi sulla catena di comando all’interno dell’Arma». Questi elementi, insieme ai tantissimi altri che la difesa ha fatto emergere durante il dibattimento, lascerebbero ben sperare per l’Appello: «Non vuol essere una frase fatta ma noi contiamo sull’appello che sia condotto però da un giudizio laico e non formato su una ideologia per cui le forze dell’ordine hanno sempre ragione, soprattutto in un caso come questo dove abbiamo assistito all’imbavagliamento di uno dei due ragazzi in una caserma dei carabinieri, dove sono stati anche coperti di sputi quando sono arrivati». Chiediamo all’avvocato Borzone se questo processo non sia la conferma di un concetto espresso recentemente dall’avvocato Valerio Spigarelli in un suo scritto per cui «il processo viene visto come uno strumento di difesa sociale e per tale motivo si carica di una serie di aspettative che finiscono per snaturarne le funzioni». I giudici – risponde Borzone – «sono mossi sicuramente da istanze etiche e ciò non dovrebbe verificarsi in un Paese liberal democratico, dove si giudicano i singoli fatti e non i fenomeni. In questo caso si è voluta emettere una sentenza esemplare. E poi emerge sempre di più che in Italia non c’è la cultura della giurisdizione che si trasferisce dai giudici ai pm, bensì quella dell’Inquisizione che trapassa dai pm ai giudici. Purtroppo non abbiamo molto spesso giudici strutturati in base all’articolo 111 della Costituzione». Per concludere chiediamo all’avvocato se è d’accordo con l’analisi del collega Ennio Amodio, secondo cui nel processo non dovrebbe entrare la parte civile, seconda accusatrice dopo il pm: «Sono contrario da sempre alle parti civili: si inseriscono delle istanze di vendetta privata all’interno del processo penale». E poi fanno entrare in aula un’alta carica emotiva, che nulla c’entra con gli aspetti tecnico processuali: «Esattamente. C’è anche un problema di funzione del processo penale che si equivoca: non credo debba essere un modo di tutelare le vittime del reato, bensì dovrebbe accertare secondo i principi del giusto processo se una persona ha commesso o no un fatto. Sarebbe molto meglio che la soddisfazione per la vittima venisse consegnata ad un giudizio civile». Abbiamo raccolto anche il parere dell’avvocato Francesco Petrelli, che ha difeso Gabriel Natale Hjorth insieme all’avvocato Fabio Alonzi: «La pena dell’ergastolo va letta per quello che è nella sua natura terrifica e inumana, contraria al dettato costituzionale. Significa dire a un ragazzo di poco più di 18 anni che non uscirà più dal carcere e che li dovrà finire la sua vita. Quale ragione di Stato e quale spinta vendicativa può far ritenere giusta una simile condanna, al di là delle parole di circostanza che sono state spese?». Il loro assistito non ha inferto le coltellate a Cerciello Rega, eppure è stato condannato alla stessa pena di Elder: «Non entro nel merito di questioni e di ulteriori valutazioni che potremo conoscere solo leggendo le motivazioni – ci dice ancora Petrelli – ma la identità della pena inflitta, già di per sé oggettivamente contraria ad ogni principio di proporzionalità assoluta e relativa, irrogata con riferimento a posizioni che risultano totalmente difformi resta francamente incomprensibile». Il caso ha sicuramente creato delle aspettative di condanna da parte dell’opinione pubblica, i giudici si sono potuto lasciare influenzare dalla pressione mediatica e sociale? «Accade ormai sempre più spesso che i processi, anche al di là della loro più o meno estese esposizioni mediatiche, divengano il pretesto per soluzioni di tipo simbolico, per cui la decisione tende ad assumere un valore di messaggio o di grande metafora comunicativa; il che stravolge totalmente e pericolosamente il ruolo e il fine del processo penale e la sua funzione democratica di civilizzazione». Resta il fatto che dinanzi ad una dinamica dei fatti ambigua la Corte abbia sposato pienamente la tesi dell’accusa: «La dinamica dei fatti è stata in verità smentita anche dalla prova documentale – conclude Petrelli – in ogni sua latitudine e longitudine. Le reticenze e le menzogne emerse nella ricostruzione dell’intero “antefatto” sono clamorose, come sono risultate in maniera eclatante nei commenti a caldo e nelle successive valutazioni degli stessi colleghi dei due militari le anomalie, le oscurità, le deviazioni, le violazioni comportamentali poste in essere nel corso di quella operazione di recupero. È davvero inaccettabile che la Corte possa aver condannato partendo da tali presupposti». Intanto ieri Il dipartimento di Stato Usa, tramite un suo portavoce, ha fatto sapere: «Siamo consapevoli che a Roma i cittadini americani Finn Elder e Gabriel Natale-Hjorth sono stati condannati all’ergastolo per l’accusa di omicidio. Noi ci assumiamo la piena responsabilità di assistere i cittadini americani all’estero e fornire tutti i servizi consolari appropriati». Il dipartimento, ha concluso il portavoce all’Agi, «resta in contatto con loro e continuerà a garantire i servizi consolari, incluse le visite in carcere».

La condanna di Elder e Hjorth. Omicidio Cerciello Rega, le motivazioni dell’ergastolo agli americani: “Nessun pentimento, ucciso per evitare arresto”. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Finnegan Lee Elder e Christian Gabriel Natale Hjorth hanno una “allarmante personalità nonostante la loro giovane età”, con una “adesione a modelli comportamentali devianti, l’esaltazione delle droghe e l’ostentazione di armi e denaro quali simboli di affermazione documentati dalle immagini rinvenute sui loro telefonini”, che “evidenziano la indubbia capacità criminale di entrambi”. Sono le parole durissime scritte dai giudici della prima Corte d’Assise di Roma, presieduta da Marina Finiti, finite nelle motivazioni che hanno portato alla condanna all’ergastolo dei due giovani americani che il 26 luglio 2019 uccisero con 11 coltellate il vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, militare 37enne di Somma Vesuviana (Napoli).

“NESSUN PENTIMENTO” – Nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa il 5 maggio scorso, accogliendo le richieste della procura di Roma e in particolare del pm Maria Sabina Calabretta, i giudici della Cassazione rilevano che i due giovani turisti americani quella sera “cercavano lo ‘sballo’ a Trastevere, volevano assumere alcol e cocaina, ricevuta la sola da Brugiatelli e da Pompei pianificano la richiesta estorsiva non già perché la somma loro sottratta sia importante, tutti e due ammettono che 80 euro non era un importo rilevante per loro, ma la frode subita suscita in loro rabbia, voglia di rivalsa, devono dimostrare a loro stessi che nessuno può raggirarli così facilmente”. I giudici evidenziano nel loro giudizio anche il “sostanziale distacco dalle vicende di quella notte e dal loro tragico epilogo”. Mai, si legge nelle motivazioni, Finnegan Lee Elder e Christian Gabriel Natale Hjorth hanno manifestato “segni concreti di ravvedimento, nessuna rielaborazione in chiave critica di quelle condotte, al contrario fanno di tutto per diminuire le loro obiettive responsabilità”. Da parte dei due americani non c’è “nessun pentimento. A fronte di tali risultanze non si ravvisano elementi positivamente apprezzabili per riconoscere le circostanze attenuanti generiche”. Durissimo in particolare il giudizio nei confronti di Finnegan Lee Elder: “Cerciello non può più riferire la sua versione, ma il suo corpo martoriato parla per lui e attesta la furia omicida di Elder“.

IL RUOLO DEI CARABINIERI – Per i giudici della prima Corte d’Assise di Roma appare dunque “insostenibile e risulta smentita” da quanto emerso nel corso del processo la tesi della difesa, ovvero l’aggressione da parte di Cerciello Rega e Andrea Varriale nei confronti dei due imputati “qualificarsi, senza mostrare un tesserino, per di più disarmati e in pari numero ai loro antagonisti, senza alcuna garanzia che sarebbero riusciti a prevalere fisicamente e nella consapevolezza di non disporre di appoggi immediati”. Per i giudici “i due imputati, sono consci di trovarsi in una situazione di illiceità, sono consapevoli di aver commesso più reati, quando si rendono conto di trovarsi di fronte a carabinieri devono sovrastarli, costi quel che costi”.

Omicidio Cerciello Rega: il Tribunale di Roma mette sotto accusa la difesa. Renato Borzone e Roberto Capra, difensori di Finnegan Lee Elder, e Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, legali, di Natale Hjorth, condannati per la morte di Cerciello Rega criticano la ricostruzione fatta nella sentenza. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 luglio 2021. «Ma perché dileggiare la condotta delle vittime e metterle sul banco degli imputati come reiteratamente è stato fatto in questo processo, esercitando il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza? Perché tutte quelle insinuazioni volte a screditare l’operato dei carabinieri ipotizzando finanche dei reati? Si tratta di una ricostruzione insostenibile, fuori da ogni logica, smentita dalla descrizione che plurime fonti dichiarative hanno fornito della vittima e del suo operato»: sono parole pesantissime, gravissime, quelle rivolte alla difesa di Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth nelle 346 pagine con cui la prima Corte di Assise di Roma ha motivato la sentenza dello  scorso 5 maggio che ha condannato all’ergastolo con due mesi di isolamento diurno i due giovani americani, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, difensori di Finnegan Lee Elder, non sono rimasti giustamente in silenzio: «Leggere nelle motivazioni che la difesa ha “dileggiato la condotta delle vittime” più che un insulto alle persone che cercano di far emergere la verità, appare come una necessità dei giudici per poter difendere, a prescindere, alcune testimonianze davvero poco credibili solo perché fatte da rappresentanti dell’Arma». Non a caso la condotta dell’Arma subito dopo l’omicidio e nei giorni successivi non è stata affatto lineare, tanto è vero che si è parlato di Notte degli Inganni e, come ricordano, i legali alcuni carabinieri sono ancora sotto indagine per quella vicenda. Come scordare l’indegno bendaggio di Natale Hjorth all’interno della caserma dei carabinieri? Come non dimenticare le ritrattazioni di Varriale? Quindi ora mettere in discussione la ricostruzione dell’unico testimone è una offesa alle vittime? Praticamente la difesa avrebbe dovuto accettare la versione ondivaga dell’Arma in silenzio? In questo Paese è possibile ancora esercitare il diritto di difesa? «Ci troviamo di fronte ad una sentenza non solo ingiusta, ma anche sbagliata nel merito – continuano Borzone e Capra – La lettura delle motivazioni, mostra la precisa volontà di non voler vedere la verità processuale. Con che coraggio i giudici affermano che non sono emerse negligenze da parte delle forze dell’ordine quando diversi carabinieri sono ancora oggi sotto indagine per questa vicenda? Ci sono dati scientifici che dimostrano che tutte le ferite sono laterali al corpo e compatibili solo con una difesa da terra, come ha sempre dichiarato l’imputato. Ci sono i video delle telecamere che smentiscono platealmente il principale testimone dell’accusa. È chiaro che né i tempi né la logistica hanno permesso ai due carabinieri in borghese di identificarsi mostrando il tesserino ai due giovani americani. Questo non vuol negare la tragicità dei fatti, ma cambia completamente la situazione per i due ragazzi che hanno pensato di trovarsi di fronte due malviventi e non rappresentanti delle forze dell’ordine». «Andremo avanti con l’appello – sottolinea l’avvocato Capra – perché la ricostruzione che leggiamo nella sentenza è errata e dobbiamo dare ai due ragazzi imputati una valutazione equilibrata dei fatti e delle prove che arrivi ad un giudizio che fotografi realmente come sono andate le cose». «La difesa – conclude l’avvocato Borzone – proseguirà alla ricerca di un vero processo e di un giudice non condizionato dalla divisa dei testimoni per stabilire una volta per tutte la verità dei fatti». Anche gli avvocati di Natale Hjorth, Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, hanno stigmatizzato quel passaggio della sentenza: «Leggere nelle motivazioni che si sarebbero formulate “insinuazioni volte a screditare l’operato dei carabinieri ipotizzando finanche reati” lascia piuttosto interdetti se solo si considera che i comportamenti censurati emergono con evidenza nella loro anomalia dagli atti del processo e che è stata la Procura della Repubblica, e non certo la difesa, a “mettere sul banco degli imputati” i testimoni dei fatti, rilevando la illiceità delle relative condotte. E sorprende ed offende ancor di più leggere in sentenza che “il diritto di difesa” sarebbe stato “esercitato al limite della decenza” senza indicare una sola espressione critica formulata da questi difensori che potesse integrare un “dileggio” della “condotta delle vittime”». I due legali concludono: «Nel nostro ordinamento resta esclusa ogni forma di prova “privilegiata” e la falsificazione della prova d’accusa è non solo doverosa per il difensore ma funzionale all’accertamento della verità nel contraddittorio delle parti. Il contrastare tale visione avalla l’idea di un processo inquisitorio e di stampo autoritario. Occorre ricordare che uno Stato di diritto è quello capace innanzitutto di “processare” se stesso».

Omicidio Cerciello Rega, parlano i legali di Elmer: “Giudici influenzati dalla divisa”. Chiara Nava il 18/07/2021 su Notizie.it. I legali di Elder hanno commentato le motivazioni con cui i giudici hanno condannato all'ergastolo gli americani che hanno ucciso il vicebrigadiere. I legali di Finnegan Lee Elder hanno commentato le motivazioni della sentenza con cui i giudici della Corte d’Assise hanno condannato all’ergastolo i due americani, per la morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega. I legali di Finnegan Lee Elder, Renato Borzone e Roberto Capra, hanno commentato le motivazioni della sentenza con la quale i giudici hanno condannato i due americani all’ergastolo per l’omicidio di Mario Cerciello Rega. “Ci troviamo di fronte ad una sentenza non solo ingiusta, ma anche sbagliata nel merito. La lettura delle motivazioni, mostra la precisa volontà di non voler vedere la verità processuale. Con che coraggio i giudici affermano che non sono emerse negligenze da parte delle forze dell’ordine quando diversi carabinieri sono ancora oggi sotto indagine per questa vicenda?” hanno dichiarato gli avvocati. “Ci sono dati scientifici che dimostrano che tutte le ferite sono laterali al corpo e compatibili solo con una difesa da terra, come ha sempre dichiarato l’imputato. Ci sono i video delle telecamere che smentiscono platealmente il principale testimone dell’accusa. È chiaro che né i tempi né la logistica hanno permesso ai due carabinieri in borghese di identificarsi mostrando il tesserino ai due giovani americani. Questo non vuol negare la tragicità dei fatti, ma cambia completamente la situazione per i due ragazzi che hanno pensato di trovarsi di fronte due malviventi e non rappresentanti delle forze dell’ordine” hanno aggiunto i legali. “Finnegan Lee Elder e Christian Gabriel Natale Hjort agirono all’interno di un programma condiviso e voluto da entrambi. L’azione delittuosa inizia insieme e termina assieme” hanno dichiarato i giudici della Corte d’Assise, nelle motivazioni della sentenza. “I due imputati sono ben consapevoli di trovarsi in una situazione di illeicità da loro stessi provocata e dalla quale possono ritenersi legittimati a uscire mediante il ricorso a una simile violenza. Non siamo di fronte a una reazione armata, ma al contrario a un’azione finalizzata all’offesa volta a evitare il verosimile arresto da parte delle forze dell’ordine intervenute sul posto e qualificatesi come tali” si legge nel provvedimento. Secondo la difesa dell’accusato, i giudici hanno cercato di difendere alcune testimonianze considerate poco credibili perché fatte da rappresentanti dell’Arma. Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth sono stati condannati all’ergastolo in primo grado. Secondo la difesa questa sentenza “rappresenta una vergogna per l’Italia”. Gli avvocati dei due americani hanno spiegato che ricorreranno in appello “perché la ricostruzione che leggiamo nella sentenza è errata e dobbiamo dare ai due ragazzi imputati una valutazione equilibrata dei fatti e delle prove che arrivi da un giudizio che fotografi realmente come sono andate le cose. “La difesa proseguirà alla ricerca di un vero processo e di un giudice non condizionato dalla divisa dei testimoni per stabilire una volta per tutte la verità dei fatti”.

Sorpresa: il diritto di difesa ha un limite. Lo stabilisce il magistrato…Nelle motivazioni della sentenza sul caso del brigadiere Cerciello Rega i giudici esprimo giudizi morali ed etici sulla condotta della difesa stabilendo limiti e regole...di Valentina Stella su Il Dubbio il 19 luglio 2021. Finiscono sul tavolo della Ministra Cartabia le pesantissime parole usate dalla prima Corte di Assise di Roma nelle motivazioni della sentenza con cui il 5 maggio ha condannato all’ergastolo Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega: «Ma perché dileggiare la condotta delle vittime – si legge nel dispositivo  –  e metterle sul banco degli imputati come reiteratamente è stato fatto in questo processo, esercitando il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza? Perché tutte quelle insinuazioni volte a screditare l’operato dei carabinieri ipotizzando finanche dei reati? Si tratta di una ricostruzione insostenibile, fuori da ogni logica, smentita dalla descrizione che plurime fonti dichiarative hanno fornito della vittima e del suo operato». Ma a cosa si riferiscono di preciso i giudici nella sentenza (Presidente estensore: Marina Finiti, giudice a latere: Elvira Tamburelli)? Alla condotta assunta dai legali Fabio Alonzi, Renato Borzone, Roberto Capra e Francesco Petrelli durante il processo basato sostanzialmente sulle testimonianze dei due imputati e sulle dichiarazioni dell’unico testimone oculare dell’omicidio, il carabiniere Andrea Varriale, anch’egli aggredito. I legali hanno contestato più volte le sue dichiarazioni e lo hanno accusato di aver inquinato le indagini con le sue bugie, prima fra tutte quella accertata relativa al possesso dell’arma di ordinanza la notte dei tragici eventi. Questo suo comportamento, insieme a quello di altri suoi colleghi dell’Arma, ha portato ad ipotizzare omissioni e depistaggi per coprire condotte non professionali di singoli appartenenti all’Arma. Alle giudici però questo atteggiamento dei difensori non è piaciuto e nelle 346 pagine delle motivazioni hanno trovato lo spazio per esprimere un giudizio soggettivo sull’operato della difesa. Gli avvocati però non sono rimasti inermi e ieri hanno inviato un esposto alla Guardasigilli per l’adozione di eventuali iniziative nei confronti della Finiti e della Tamburelli e ai Consigli dell’Ordine forensi di appartenenza per rimettere ai propri organi di disciplina ogni valutazione circa il loro comportamento processuale. La vicenda ha suscitato anche la ferma reazione delle Camere Penali, a partire dalla Giunta di quella nazionale: « È un fatto certamente estraneo ai più elementari canoni di legalità processuale e di correttezza professionale del magistrato quello di formulare, addirittura all’interno delle motivazioni di una sentenza, apprezzamenti personali e professionali nei confronti dell’intero collegio difensivo. È sorprendente come non si comprenda che simili arbitrarie intemperanze lessicali ed argomentative siano inesorabilmente destinate ad alimentare il dubbio di un indebito coinvolgimento emotivo e di un condizionante pregiudizio del Giudice.[…] Se un’accusa di tale eclatante gravità avesse mai avuto un qualche reale e concreto fondamento in specifici episodi, essi non solo sarebbero di già noti, ma – ed è quel che più conta- avrebbero dovuto imporre a quei giudici immediati interventi di censura e di denuncia propri del potere-dovere di governo della udienza che compete a quella altissima funzione». Hanno aggiunto le Camere penali di Roma e del Piemonte Occidentale e della Val D’Aosta: «La sentenza afferma un nuovo ed inaudito principio di diritto: la difesa ha un doppio limite, etico e giuridico. Quando un giudice richiama l’Etica come principio informatore ed ispiratore della sua decisione non possiamo non percepire il rischio di una inquietante deriva moralista che si affianca e rafforza quella giustizialista. La Difesa non è più soltanto inutile, ma è anche indecente, scabrosa, provocatoria. Quello che forse la Corte di Assise di Roma non coglie è che questa deriva “moralista” potrebbe investire anche la Magistratura e la legittimazione delle sue decisioni». Si spinge oltre la Camera Penale di Napoli che critica anche l’ergastolo ai due imputati: «Feroce. È l’unico aggettivo che ci viene in mente leggendo la sentenza. È feroce nel dispositivo poiché – fermo restando l’oggettiva ed indiscutibile gravità della vicenda – condannare a pena perpetua due ragazzi poco più che adolescenti ed incensurati per il raptus di un momento significa non credere minimamente alla finalità rieducativa della pena e, di fatto, aderire ad una logica meramente vendicativa della sanzione penale. Ma questo ai giudici non deve essere sembrato sufficiente. Nella motivazione hanno deciso di infierire anche sugli avvocati. Senza infingimenti è ben chiaro cosa la Corte imputa ai difensori: di aver – udite, udite! -messo in dubbio la parola dell’accusa e della polizia giudiziaria (alcuni dei quali, peraltro, escussi quali testimoni, sono tuttora sottoposti ad indagini). Cioè, di aver assolto al proprio compito». E concludono che i giudici «non hanno, invero, alcuna legittimazione né tantomeno alcuna superiorità morale che gli consenta di ergersi a censori delle scelte difensive degli imputati e dei loro avvocati». Per la Camera Penale di Milano « quelle opinioni, di cui ora si ha conoscenza autentica, paiono viziare l’obiettività del giudizio di colpevolezza espresso e quindi, oltre a eventuali conseguenze processuali, si pone il significativo e inquietante problema di come mettere gli individui al riparo dalla mancanza di obiettività dei giudici; l’intemerata determinazione dei giudici di esternare le proprie opinioni personali sullo svolgersi del processo appare come l’evidente dimostrazione di un sentimento diffuso di pretesa impunità rispetto all’autorità disciplinare».  Non entrano nel merito della discussione invece gli avvocati di parte civile, Franco Coppi, Roberto Borgogno, Ester Molinaro, Massimo Ferrandino:  «Quali difensori di parte civile della famiglia Cerciello Rega e del Carabiniere Varriale riteniamo che sia stata assicurata alla difesa degli imputati ogni possibilità di difesa, come testimonia la durata stessa del dibattimento e non intendiamo interferire nelle polemiche che si sono sviluppate circa alcune valutazioni espresse dalla sentenza sulla condotta degli avvocati difensori. Nel processo di appello ci sarà sicuramente spazio per discutere dei temi che si sono oggi sollevati».

«Nella sentenza Cerciello Rega c’è un attacco al diritto di difesa». Intervista all’avvocato Renato Borzone, difensore di Finnegan Elder, dopo la bufera esplosa sul caso per le parole della prima Corte di Assise di Roma contenute nelle motivazioni. Valentina Stella su Il Dubbio il 20 luglio 2021. «Dileggiare la condotta delle vittime e metterle sul banco degli imputati», esercitare «il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza»: sono parole gravissime quelle rivolte dalla prima Corte di Assise di Roma alla difesa di Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth nelle 346 pagine con cui i giudici hanno motivato la sentenza dello scorso 5 maggio che ha condannato all’ergastolo con due mesi di isolamento diurno i due giovani americani, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Ne parliamo proprio con l’avvocato Renato Borzone, che difende Finnegan Elder insieme al collega Roberto Capra.

Avvocato come giudica questo passaggio della sentenza?

Sono tanti anni che faccio l’avvocato e non ho mai letto niente del genere. Quelle parole sono molto gravi. La gravità ovviamente prescinde dal merito delle conclusioni legittime assunte dal giudice e prescinde anche dallo specifico processo. Quello che invece non è consentito è aggredire la funzione della difesa. Quel che è peggio è che si afferma che non sarebbe doveroso per la difesa cercare di “screditare” testimoni dell’accusa: questo è esattamente il compito che ha la difesa laddove la credibilità dei testimoni sia dubbia. Se non lo avessimo fatto avremmo commesso il reato di infedele patrocinio. Di gravità inaudita è anche l’affermazione per cui le difese avrebbero “dileggiato” le persone offese. Al contrario: noi abbiamo anche prestato il consenso alla presenza in aula dei familiari prima che fossero sentiti come testimoni, consci del dolore che hanno sofferto. Il codice ci avrebbe permesso di opporci. Abbiamo anche specificato nelle dichiarazioni di apertura che nessuna delle nostre argomentazioni critiche avrebbe voluto colpire la personalità del carabiniere. Inoltre la madre di Finnegan Elder, anche per conto del figlio, ha espresso con una lettera vicinanza e dolore ai familiari. Quindi affermare che ci sia stato “dileggio” per la vittima è una affermazione gratuita. Quello che mi colpisce è che si tratta di affermazioni completamente avulse dal testo della motivazione, nel quale da questo punto di vista non c’è alcun riferimento fattuale o un qualche preciso addebito, se non l’accusa generica di voler screditare i carabinieri.

A tal proposito, se non erro, lei, replicando alle parti civili, in aula aveva detto “qui però noi non vogliamo attaccare l’Arma, noi parliamo di singole persone non delle istituzioni, pensiamo ad esempio che vi sia stato un ausilio al carabiniere Varriale”.

Non è in discussione il rispetto per l’Arma dei carabinieri, ma il fatto che il processo sia stato costellato da anomalie. Ricordo che il principale testimone del processo, Andrea Varriale, è stato indagato dalla procura militare per il reato di “violata consegna” in quanto si era presentato disarmato all’appuntamento, mentre i militari sono obbligati a portare al seguito l’arma d’ordinanza ogni qualvolta sono in servizio, anche se in borghese, come erano loro quella maledetta notte. Era dunque chiara la necessità di sondare la attendibilità della prova a tutti i livelli. È particolarmente preoccupante che vi siano ancora magistrati per i quali le parole degli appartenenti alle forze dell’ordine costituiscono una sorta di prova legale.

I giudici hanno rilevato “assenza di resipiscenza, l’incredibile mancanza di consapevolezza della gravità di quanto accaduto e di pentimento”. Inoltre “Elder si è limitato a dare lettura di una memoria scritta, compilata in precedenza, certamente con l’ausilio delle difese”.

Resto sempre turbato quando leggo frasi sul pentimento, che mi ricordano approcci a una giustizia propria di uno Stato etico e non di uno Stato di diritto. La lettera è stata scritta a mano dalla mamma e dal figlio mesi e mesi prima del processo, ed è stata tenuta per discrezione riservata, e continueremo a non divulgarne il contenuto perché non è stata scritta per essere utilizzata strumentalmente. È uscita fuori nel processo solo perché le parti civili continuavano a sostenere che da parte degli imputati non era stato fatto neanche un passo nei confronti della famiglia della vittima. Affermare, senza alcun elemento di fatto, che queste affermazioni di Elder – peraltro scritte in inglese e rese in lacrime (“non so se in questo momento mi potranno perdonare ma spero che un giorno possano farlo”), sono una sorta di "trucco" della difesa, è un ulteriore segnale di ingiustificabile biasimo verso la funzione della difesa.

È ragionevole pensare che di tutte le intercettazioni svolte, nelle motivazioni siano riportate solo quelle a favore dell’impianto accusatorio?

Direi che non ci sono intercettazioni a favore dell’impianto accusatorio. Ci sono alcune frasi estrapolate che sono state decontestualizzate e il contenuto di alcune parole stravolto. Inoltre erano numerose le intercettazioni in cui l’imputato aveva detto di essere stato gettato a terra e di non aver compreso di avere di fronte dei poliziotti, ma su questi passaggi è calato il silenzio. E poi è inspiegabile a mio modo di vedere che sia stata trascurata in sentenza anche la testimonianza della fidanzata di Finnegan Elder, Cristina: a pochi minuti dai terribili fatti il ragazzo, tramite Facetime, le aveva detto che erano stati aggrediti da due malviventi. Ci terrei a sottolineare che quanto detto da Finnegan Elder nelle intercettazioni in carcere e alla fidanzata era stato immediatamente riferito dall’imputato anche appena arrestato. Eppure nessuno degli inquirenti ha sentito il dovere di andare a verificare la prova direttamente dalla ragazza.

Si ha l’impressione che in alcuni passaggi della motivazione i giudici, più che spiegare i fatti, abbiano voluto criticare l’atteggiamento dei difensori degli imputati.

La sua impressione è corretta. La sentenza non risponde a nessuna obiezione difensiva e si consegna anima e corpo alla versione del teste Varriale, il quale peraltro dice di non aver visto nulla della colluttazione tra Elder e Cerciello. Ci sono passaggi della motivazione che sono emblematici di come è stato affrontato il processo: le forze dell’ordine sono ‘ buone’ e quindi dicono la verità. Personalmente non credo che sondare la credibilità di singoli testimoni, che peraltro non rappresentano nemmeno tutta l’Arma, significhi mancare di rispetto alle forze dell’ordine. Hanno detto bene i colleghi Petrelli e Alonzi in merito all’operato dei carabinieri: “i comportamenti censurati emergono con evidenza nella loro anomalia dagli atti del processo ed è stata la Procura della Repubblica, e non certo la difesa, a “mettere sul banco degli imputati” i testimoni dei fatti, rilevando la illiceità delle relative condotte”.

La madre di Cerciello Rega due anni dopo: “Non perdono chi l'ha ucciso”. Le Iene News il 26 luglio 2021. Parla per la prima volta la madre del carabiniere Mario Cerciello Rega, ucciso nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 a Roma (per l’omicidio sono stati condannati all’ergastolo i due ventenni americani Elder Finnegan Lee e Gabriel Christian Natale Hjorth): “Mi confidò che sperava di avere un figlio e che lo avrebbe chiamato come mio marito, Antonio. Tutto distrutto. Quella notte sono morta con lui”. “Mi confidò che sperava di avere un figlio e che lo avrebbe chiamato come mio marito, Antonio. Aveva fatto tanti sacrifici ma era contento. Tutto distrutto. Quella notte sono morta con lui. Non perdono chi l’ha ucciso”. Due anni dopo l’omicidio, parla per la prima volta in una intervista a Repubblica, Silvia Napolitano, la madre del carabiniere Mario Cerciello Rega ucciso nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 a Roma. Noi de Le Iene avevamo conosciuto il vicebrigadiere con Luigi Pelazza, qui sopra potete vedere il ricordo della Iena. Per il suo per accoltellamento mortale l’omicidio sono stati condannati all’ergastolo in primo grado nel maggio scorso i due ventenni americani Elder Finnegan Lee e Gabriel Christian Natale Hjorth. "Si è sposato il 13 giugno, un mese e mezzo prima di essere ammazzato. Era felice”, racconta la madre. “L'ultima parola che mi ha detto è stata: ‘Ti voglio bene'. Era l'8 luglio, era arrivato tre giorni prima in Campania e mi ha portato al mare. ‘Mamma andiamo io e te', mi ha detto. Mi confidò che sperava di avere un figlio e che lo avrebbe chiamato come mio marito, Antonio. Aveva fatto tanti sacrifici ma era contento. Tutto distrutto. Quel giorno sono morta anch'io. Non gli hanno sferrato undici coltellate, ma dodici. Perché una è stata piantata nel mio cuore". Mario Cerciello Rega è stato accoltellato la notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 mentre era in servizio. Assieme al collega Andrea Varriale erano stati chiamati da Sergio Brugiatelli, che qualche ora prima aveva fatto da intermediario per l'acquisto di droga tra i due giovani turisti americani e uno spacciatore pusher. I ragazzi californiani avevano cercato di comprare di cocaina a Trastevere da Brugiatelli. Si erano ritrovati in mano una pasticca di Tachipirina ed erano scappati portandosi via il suo zaino. Hanno chiamato Brugiatelli per minacciarlo chiedendo droga e soldi per restituirglielo. All'incontro si sono presentati in borghese Cerciello Rega e Varriale. È partita colluttazione e Finnegan Lee Elder ha accoltellato undici volte Cerciello, che morirà poco dopo. "Mi hanno inviato una lettera. Forse un giorno li perdonerò, adesso non ce la faccio", dice Silvia Napolitano, che ricorda la tragica notte di due anni fa. "Quando ho visto che in autostrada ci scortavano due auto dei carabinieri ho capito. In ospedale ho visto mio figlio su una barella. Perché non sono morta io? Me lo chiedo ogni giorno". Mario era andato all’incontro senza la pistola: "Anche se l'avesse avuta non sarebbe cambiato nulla, Mario non l'avrebbe mai usata contro un ragazzo". Noi de Le Iene abbiamo potuto conoscere Cerciello Rega nel servizio di Luigi Pelazza del marzo 2019 che potete rivedere qui, sulla “banda dei Rolex”. I carabinieri, tra cui iI vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, che avevamo avvisato, sono intervenuti e hanno arrestato un uomo perché in possesso di un documento falso. “Ho perso un amico, si chiamava Mario, aveva 35 anni ed era sposato da un mese”, dice Luigi Pelazza ricordandolo nel video qui sopra, realizzato dopo l’omicidio. “Mario era di Somma Vesuviana, un napoletano di quelli simpatici, bonaccioni coi quali ti fa piacere passare dei momenti assieme. E dico questo perché l’ho proprio conosciuto a Roma alcuni mesi fa durante un servizio che stavo girando per le Iene, la ‘banda dei Rolex’. E anche in quell’occasione Mario e i suoi colleghi non si sono risparmiati. Mario era uno di quei tantissimi carabinieri che ogni giorno rischiano la vita per rendere un po’ più sicura la nostra”.

Emilio Orlando per leggo.it l'8 ottobre 2021. Morto in casa. L'unico testimone oculare dell'omicidio del vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega, infatti, è stato trovato cadavere dentro alla sua abitazione nel quartiere Marconi. La macabra scoperta del corpo senza vita del 49enne Sergio Brugiatelli, il cui nome era oramai legato alla vicenda del sottufficiale dei Carabinieri assassinato con undici coltellate da Finnegan Lee Elder e dal suo complice Gabriel Natale Hjorth (condannati in primo grado entrambi all'ergastolo), è stata fatta da un parente in di via dei Prati di Papa. La notizia del decesso, avvenuto a fine settembre, si è saputa casualmente attraverso alcuni residenti della zona ma nulla è trapelato dagli ambienti giudiziari. A causare il decesso del supertestimone, secondo il racconto dei vicini, sembrerebbe essere stato un ictus cerebrale che lo ha ucciso senza lasciargli scampo. Durante il processo per l'omicidio di Mario Cerciello Rega, Sergio Brugiatelli, mediatore per la compravendita della cocaina tra lo spacciatore Italo Pompei e i due americani che poi gli portarono via lo zaino, fornì un contributo decisivo per ricostruire la dinamica della tremenda vicenda. Fu proprio Brugiatelli a chiamare i Carabinieri: il sottufficiale, accorso insieme al suo commilitone Andrea Varriale, venne assassinato nel tentativo di recuperare lo zaino che gli avevano rapinato. L'omicidio avvenne la notte la notte tra il 25 e 26 luglio 2019 vicino piazza Cavour dopo che i due avevano concordato il cavallo di ritorno con Brugiatelli. Quest'ultimo dichiarò in aula - durante la sua audizione - di sentirsi in colpa per la morte del carabiniere e che sarebbe dovuto morire al posto suo. «Negli ultimi tempi era sempre taciturno - raccontano i residenti del condominio dove abitava Brugiatelli -. Ci raccontava che quanto era accaduto quella notte, quando venne ucciso Mario Cerciello, lo aveva provato molto e ne sentiva ancora il rimorso».

Chiamò i carabinieri per recuperare lo zaino rubato dai due americani dopo il "pacco". Omicidio Cerciello Rega, è morto il testimone-chiave Sergio Brugiatelli: “Mario mi ha salvato la vita”. Redazione su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. Sergio Brugiatelli, testimone chiave nel processo sull’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, è morto. Il decesso del 49enne è avvenuto lo scorso 26 settembre. “Contrariamente a quanto diffuso da alcuni organi di stampa, Sergio Brugiatelli non è stato trovato morto in casa, ma è deceduto in una clinica privata dove era ricoverato da qualche tempo per una grave forma di tumore che lo aveva colpito mesi fa”. E’ quanto afferma l’avvocato Andrea Volpini, legale della famiglia. “Sergio è morto circondato dall’affetto dei suoi cari, che non lo hanno mai abbandonato, fino agli ultimi istanti. La famiglia chiede rispetto per il proprio dolore. Rispetto che purtroppo è venuto meno in alcune delle ricostruzioni diffuse in data odierna. E, al riguardo, si riserva di procedere, anche per vie legali, per tutelare la memoria del proprio caro”, conclude il legale. Brugiatelli, che aveva vecchi precedenti per rissa e rapina, è legato alla tragica vicenda del vicebrigadiere Cerciello Rega, 35 anni, ucciso con undici fendenti in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati a Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019. Lo scorso 5 maggio, con l’accusa di omicidio in concorso, sono stati condannati in primo grado all’ergastolo i due americani Finnegan Lee Elder, l’accoltellatore materiale, e Gabriel Natale Hjorth. Quella notte il carabiniere originario di Somma Vesuviana (Napoli), e sposato da appena 43 giorni, era intervenuto con il collega Andrea Varriale per recuperare uno zaino rubato dai due turisti californiani a Sergio Brugiatelli, mediatore tra il pusher Italo Pompei e i due giovani interessati a comprare alcune dosi di cocaina. Lo zaino venne rubato perché Elder e Hjorth perché non erano soddisfatti della droga acquistata e pretendevano una sorta di riscatto (circa 100 euro e un po’ di droga). Per recuperare lo zaino e denunciare la richiesta di riscatto Brugiatelli chiama i carabinieri. Intervengono così Cerciello Rega e Varriale chengono brutalmente aggrediti. Il primo muore nel giro di 30 secondi dopo aver ricevuto undici coltellate, Varriale viene invece lievemente ferito. I due americani vengono individuati dopo 12 ore in un albergo a poca distanza dal luogo dell’omicidio. Durante il processo di primo grado, Brugiatelli aveva raccontato la sua versione dei fatti, confermando poi ai cronisti di sentirsi “in colpa, dovevo morire io al posto suo. Se non ci fosse stato Cerciello, sarei andato da solo, avrebbero ucciso me e oggi non sarei qui a parlarvi. Gli devo la vita a Mario, non me lo scorderò per tutta la vita. L’importante è che sono venuto qui e sono venuto per Cerciello. Se non ci fosse stato lui io sarei andato con la mia bicicletta e mi avrebbero ucciso. Sono stati mesi duri, li ho vissuti male e non riesco a dimenticare quel fatto, sento ancora quelle grida. Quando vado ad accendere un lumino per mia madre in chiesa, lo accendo anche per lui”. 

Qualcosa non torna nelle testimonianze del delitto Cerciello. I tre testimoni sentiti nel processo per l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega indagati per falsa testimonianza. La difesa di Finnegan Lee Elder: "Pronti a costituirci parte civile". Valentina Stella su Il Dubbio l'1 dicembre 2021. È stata resa nota ieri da Repubblica la notizia dei procedimenti penali per falsa testimonianza avviati dalla Procura di Roma nei confronti dei testimoni Constantin Saracila, Ahmed Tamer e Italo Pompei, sentiti nel processo per l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. La storia purtroppo è nota a tutti: nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 due ragazzi americani in vacanza in Italia erano andati all’appuntamento con Sergio Brugiatelli, mediatore di un pusher (inizialmente tenuto fuori dalle indagini perché informatore dei carabinieri), al quale avevano sottratto lo zaino dopo uno scambio di droga finito male, per poi trovarsi davanti due uomini, i carabinieri Andrea Varriale e Mario Cerciello Rega, chiamati ad incontrarli per recuperare lo zaino. Durante l’appuntamento a Prati nacque una colluttazione e Elder pugnalò per undici volte Mario Cerciello Rega. Secondo i suoi legali lo fece per legittima difesa putativa, perché i carabinieri non si sarebbero qualificati. Ma l’accusa ha sostenuto il contrario: i due ragazzi erano consapevoli di trovarsi dinanzi a due esponenti delle forze dell’ordine e li hanno aggrediti per sfuggire ad un probabile arresto. In primo grado i due – Finnegan Lee Elder e Gabriel Christian Natale Hjorth – sono stati condannati all’ergastolo, con uno strascico di polemiche per la giovane età dei due ma anche per un quadro fumoso dei fatti, anche a causa, secondo le difese, del comportamento dell’Arma dei Carabinieri, votato più a nascondere procedure interne disattese che a ricostruire fedelmente i fatti. Anche per questo quella notte è stata raccontata come la Notte degli Inganni; a questo capitolo ora se ne aggiunge un altro che mette in evidenza ulteriori anomalie e rafforza l’impressione di un quadro di indagine non rassicurante. Ma adesso analizziamo i tre testimoni. Costantin Saracila è un homeless che avrebbe dovuto chiarire se Cerciello e il collega Andrea Varriale si erano qualificati come carabinieri, punto cruciale della vicenda: «Nella notte tra il 25 e il 26 luglio, ero a dormire – aveva detto – nel mio solito posto quando venivo svegliato dalle voci di due giovani (…). Dopo pochi minuti, credo circa 5, arrivavano altri due uomini, e si fermavano a parlare con i due giovani. Dopo un breve colloquio uno dei due diventava aggressivo. Io, per non farmi vedere, mi nascondevo e mi mettevo a dormire». Per la difesa al contrario non è stato assolutamente provato, a differenza della sentenza con cui i giudici hanno accolto le tesi della Procura, che i due carabinieri abbiano mostrato i tesserini e si siano qualificati. «Abbiamo chiesto fin dall’inizio – spiegano gli avvocati di Lee Elder Renato Borzone e Roberto Capra – senza mai ricevere alcuna spiegazione in sede giudiziaria, che fossero indagate le ragioni per cui Costantin Saracila, che il Comandante Del Prete della stazione Carabinieri Prati aveva accertato non fosse presente sul luogo dei fatti, sia stato “ripescato” dagli investigatori pochi giorni dopo, alla vigilia del Ferragosto 2019. È stato chiaro fin da subito che il presunto testimone mentiva, fornendo, non si sa perché, una testimonianza secondo la quale avrebbe visto i due carabinieri parlare con i ragazzi americani. Una “testimonianza” che è stata enfatizzata dalle informative a sostegno della tesi dell’accusa circa il fatto che i due Carabinieri Varriale e Cerciello si fossero qualificati di fronte ai ragazzi americani». La domanda che ci poniamo è: perché il racconto del testimone chiave Andrea Varriale avrebbe dovuto trovare riscontro nella dichiarazione di Saracila? Forse non era così granitico? Le altre testimonianze non ritenute attendibili sono quelle del posteggiatore abusivo Tamer Salem, chiamato a rendere dichiarazioni sullo scambio di droga finito male tra i due americani e Brugiatelli, e quella di Italo Pompei, l’uomo che avrebbe raggirato i due americani vendendo cocaina scadente. «I testimoni Pompei e Tamer – proseguono Borzone e Capra – hanno contribuito ad alterare la verità nella ricostruzione dei fatti della prima parte della nottata, a Trastevere; in particolare sul loro ruolo di informatori dei carabinieri, ruolo (tenuto nascosto dai due testi) che avrebbe fornito una chiave di lettura dei successivi eventi della tragica notte del 26 luglio 2019, sui quali si sono addensate stranezze e contraddizioni». Dato tutto questo quadro, i due legali annunciano: «La difesa Elder è pronta a costituirsi come parte civile nei processi per falsa testimonianza dei testimoni, anche al fine di recuperare la verità sulla ingiusta condanna subita da Finn Elder, in attesa della prossima celebrazione del processo d’appello», che dovrebbe iniziare tra febbraio e marzo del 2022.

La difesa di Elder: "Pronti a costituirci parte civile". Omicidio Cerciello Rega, ombre sul processo: tre testimoni chiave indagati per false dichiarazioni. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Dicembre 2021. Ombre inquietanti sul processo di primo grado che ha portato lo scorso 5 maggio alla condanna all’ergastolo per i due giovani americani Finnegan Lee Elder e Christian Hjorth, accusati dell’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega.

LA VICENDA E IL PROCESSO – La vicenda è ormai nota: nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2019 Rega, militare 35enne di Somma Vesuviana (Napoli), viene ucciso a Roma con undici coltellate in via Pietro Cossa, nel quartiere Prati. Dopo 24 ore finiscono in manette due studenti americani, Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth, accusati di omicidio e tentata di estorsione.

Secondo quanto ricostruito in fase di processo i due ragazzi statunitensi rubano un borsello a Sergio Brugatelli, il mediatore che indica ai due uno spacciatore che però, invece di vendere loro cocaina, consegna agli studenti medicine sbriciolate al prezzo di 80 euro. Finnegan Lee Elder e Christian Hjorth quindi rubano lo zaino di Brugatelli come ripicca, imbastendo una trattativa per restituirglielo in cambio dei soldi e della cocaina. Nel luogo in cui deve avvenire lo scambio i due non trovano Brugatelli ma Cerciello Rega e il collega Andrea Varriale, entrambi in borghese e non armati. I due si identificano come carabinieri, secondo quanto accertato nel processo di primo grado e contestato dalla difesa, e Natale Hjorth tenta la fuga spintonando uno dei due militari. Nello stesso momento Elder caccia un coltello con cui pugnala Mario Cerciello Rega: l’arma del delitto verrà recuperata nella stanza d’albergo dei due.

LE OMBRE – In questo scenario è emersa martedì la notizia dei procedimenti penali per falsa testimonianza avviati dalla Procura di Roma nei confronti di tre testimoni chiave del processo: Constantin Saracila, Ahmed Tamer e Italo Pompei. In particolare il primo era stato fondamentale per l’accusa, sostenendo infatti che i due giovani fossero a conoscenza di trovarsi di fronte a due membri delle forze dell’ordine e che li abbiano aggrediti per evitare l’arresto. “Nella notte tra il 25 e il 26 luglio ero a dormire nel mio solito posto quando venivo svegliato dalle voci di due giovani. Dopo pochi minuti, credo circa 5, arrivavano altri due uomini, e si fermavano a parlare con i due giovani. Dopo un breve colloquio uno dei due diventava aggressivo. Io, per non farmi vedere, mi nascondevo e mi mettevo a dormire”, aveva detto durante il processo Sarcila, senza tetto che ha assistito all’omicidio. Un punto che la difesa di Finnegan Lee Elder punta a utilizzare nel processo d’appello ed anche per questo “è pronta a costituirsi parte civile nei procedimenti per falsa testimonianza avviati dalla procura di Roma nei confronti nei confronti dei testi Constantin Saracila, Ahmed Tamer e Italo Pompei”, spiegano gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra. Difesa che, si legge in una nota diffusa alla stampa, “ha chiesto fin dall’inizio, senza mai ricevere alcuna spiegazione in sede giudiziaria, che fossero indagate le ragioni per cui Costantin Saracila, che il comandante Del Prete della stazione Carabinieri Prati aveva accertato non fosse presente sul luogo dei fatti, sia stato “ripescato” dagli investigatori pochi giorni dopo alla vigilia del Ferragosto 2019. È stato chiaro fin da subito che il presunto testimone mentiva, fornendo, non si sa perché, una versione secondo la quale avrebbe visto i due carabinieri parlare con i ragazzi americani. Una “testimonianza” che è stata enfatizzata dalle informative a sostegno della tesi dell’accusa circa il fatto che i due carabinieri Cerciello e Andrea Varriale (rimasto ferito nell’agguato al quartiere Prati, ndr) si fossero qualificati di fronte ai ragazzi americani“. Le altre due testimonianze reputate inattendibili sono quindi quelle di Ahmed Tamer, posteggiatore abusivo, chiamato a rendere dichiarazioni sullo scambio di droga finito male, e di Italo Pompei, che avrebbe ingannato i due americani vendendo ‘finta cocaina’. I due secondo i legali di Finnegan Lee Elder “hanno contribuito ad alterare la verità nella ricostruzione dei fatti della prima parte della nottata, a Trastevere; in particolare sul loro ruolo di’ informatori dei carabinieri, ruolo (tenuto nascosto dai due testi) che avrebbe fornito una chiave di lettura dei successivi eventi della tragica notte del 26 luglio 2019, sui quali si sono addensate stranezze e contraddizioni”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Omicidio Cerciello, prof di Novara scrisse «un carabiniere in meno» su Facebook: condanna a 8 mesi. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2021. Eliana Frontini era accusata di vilipendio alle Forze armate e diffamazione per il post riferito al vicebrigadiere ucciso a Roma nel 2019. Assolto il marito. Insultò il carabiniere Mario Cerciello Rega, ucciso a Roma, con un post su Facebook. Per questo è stata condannata a otto mesi di reclusione con la sospensione condizionale Eliana Frontini, la professoressa dell’istituto Pascal di Romentino (Novara), processata con rito abbreviato. L’accusa è di vilipendio alle forze armate e diffamazione.

L’insegnante su Facebook commentò la morte del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, ucciso a coltellate nel luglio 2019 a Roma, con la frase «uno in meno e chiaramente con sguardo poco intelligente. Non ne sentiremo la mancanza». Frontini poi si scusò ma ciò non le evitò la denuncia. 

Assolto il marito della donna, Norberto Breccia, che era accusato di favoreggiamento.

L’insegnante di storia dell’arte all’istituto Pascal di Romentino non era presente in aula, come il marito. La donna è stata condannata anche al risarcimento delle parti civili entro un anno per ottenere il beneficio della sospensione condizionale della pena. Le cifre stabilite sono di 8.000 mila euro per la vedova del carabiniere ucciso, Rosa Maria Esilio, anche lei non presente in aula, e 5.000 euro per il Ministero della Difesa. Disposto l’invio degli atti al Ministero della pubblica istruzione per eventuali provvedimenti nei confronti dell’insegnante.

Il leader della Lega, Matteo Salvini, commenta sui social: «Dopo l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, commentò “Uno in meno”, condannata a 8 mesi una “professoressa”. Giusto così».

Caso Cerciello Rega, la difesa: «Violato il giusto processo: i giudici non erano imparziali». Gli avvocati dei due giovani americani Lee Elde e Gabriel Natale Hjorth, condannati all'ergastolo per l'omicidio del vicebrigadiere, chiedono «la nullità della sentenza di primo grado». Ecco perché. Valentina Stella su Il Dubbio il 16 dicembre 2021. «L’invadenza del giudice è certo la prima ragione della fisionomia anomala che l’esame condotto dalle parti assume nella prassi italiana», scriveva Ennio Amodio nella sua presentazione al libro di Francis Wellmann “L’Arte della cross examination”, a cura di Giuseppe Frigo (Giuffrè, Milano, 2009). E allora secondo voi è imparziale un giudice che quando la difesa fa il controesame dei testimoni interrompe ripetutamente, mentre quando ad interrogare sono il pm e le parti civili rimane pressoché in religioso silenzio? Secondo voi è imparziale un giudice che mette la difesa nelle condizioni di non stressare la prova, come prescrivono, invece, i doveri deontologici e le norme processuali? Secondo voi è imparziale un giudice che, in un fuorionda, viene beccato a dire che i difensori «devono capire chi c’hanno di fronte»?

La risposta è sempre negativa per gli avvocati Renato Borzone e Roberto Capra, difensori di Lee Elder, il ragazzo americano condannato in primo grado all’ergastolo, insieme a Gabriel Natale Hjorth, per la morte del vice brigadiere Cerciello Rega. Con il primo motivo d’appello la difesa di Elder chiede, infatti, «la nullità della sentenza di primo grado per la violazione dei principi del giusto processo concernenti la imparzialità del giudice». Il secondo grado di giudizio inizierà il 10 febbraio. Gli avvocati, in un atto di 496 pagine, chiedono altresì che il loro assistito venga assolto in quanto ha agito in stato di legittima difesa, o in subordine, versandosi in una ipotesi di legittima difesa putativa. In pratica, secondo i legali, i carabinieri non si sarebbero qualificati e sarebbero stati scambiati per dei malavitosi.

Vi avevamo già raccontato come nella sentenza di primo grado i giudici (Presidente estensore: Marina Finiti, giudice a latere: Elvira Tamburelli) avessero accusato i legali di entrambi gli imputati, quindi anche Francesco Petrelli e Fabio Alonzi, di aver esercitato «il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza». La questione è finita anche sul tavolo della Ministra Cartabia, grazie ad un esposto del collegio difensivo. Ma ora scopriamo che ci sono altri elementi che farebbero emergere da un lato un pregiudizio dei giudici nei confronti della difesa e dall’altro un sostegno incondizionato alla versione dei Carabinieri, che però durante il processo sono apparsi votati più a nascondere procedure interne disattese che a ricostruire fedelmente i fatti. In pratica, scrivono Borzone e Capra,  «i controesami difensivi (differentemente da quelli dell’accusa pubblica e privata) sono costellati da interruzioni, commenti, osservazioni e “puntualizzazioni” dei giudici, finanche -esemplificativamente- sulle caratteristiche di assorbimento dei liquidi dei sanpietrini romani». Ciò riguarda anche la difesa dell’altro americano. Vediamo nel dettaglio.

Primo episodio: l’avvocato Petrelli pone una domanda al colonnello dei Carabinieri D’Aloia. La presidente subito interviene rivolgendosi al teste, dicendo «Se è in grado di rispondere» però. L’esame prosegue ma la Presidente nel giro di pochi minuti interrompe altre quattro volte: «Può già notarsi -per ora in modo più soft- una costante verificatasi nell’intero dibattimento, la continua interruzione del controesame della difesa, interrompendolo per chiarimenti del tutto inutili quanto suggestivi al testimone (“se è in grado di rispondere”; “se lo ricorda”). […]È fin troppo ovvio che il testimone possa non riferire ciò che non ricorda, ma rammentarglielo sempre in anticipo rappresenta quantomeno un rischio di condizionamento».

Secondo episodio: «La difesa sta rappresentando al Colonnello D’Aloia, tramite un video, che l’autovettura dei carabinieri Cerciello e Varriale  percorre contromano via San Gallicano. Il Colonnello dubita che sia quella la vettura dei due militari. Petrelli dice: “per carità, gli abitanti della Capitale sono indisciplinati, però insomma, è un atteggiamento che mi sa di altro… di chi si prende delle libertà diciamo, dovendo intervenire…“. Il Presidente interrompe il controesame: “i romani purtroppo notoriamente prendono delle libertà, non necessariamente dei militari in servizio…“, intervenendo quindi a sostegno di quella che è in quel momento la versione ufficiale, interrompendo il difensore per escludere che “i militari in servizio” possano compiere infrazioni del genere». E invece «il prosieguo del processo ha dimostrato come quella del video fosse effettivamente la vettura di Varriale e Cerciello, e che nessuno degli investigatori se ne era avveduto nel ricostruire la vicenda». Non sarà l’unica interruzione della Presidente a favore delle Forze dell’Ordine. Addirittura interromperà il controesame andando in aiuto del testimone perché a suo dire la difesa stava facendo «saltare i nervi al teste» e si complimenterà con il teste: «Colonnello ha risposto benissimo».

Terzo episodio: l’avvocato Capra sta contro-esaminando un carabiniere e chiedendo puntuali spiegazioni. La presidente interrompe nuovamente: «”però voglio dire adesso puntualizzare questi aspetti in maniera così… non sono così essenziali nel processo. Voglio dire che voi vogliate mettere in crisi, ho capito che voi tentate il più possibile di mettere in crisi l’indagine dei Carabinieri ed evidenziare quelle che per voi sono delle lacune”. Avv Borzone: “È esattamente quello che si fa in tutti i processi”. Presidente: “Per carità però… No Avvocato si fa fino ad un certo punto scusate”. Avv. Borzone: “No Presidente mi perdoni perché queste sue interruzioni io la invito a non farle”. Presidente: “No, io le faccio Avvocato”. […]Presidente: “Avvocato è la quinta udienza”.[…] Diciamo che ci sono dei toni e dei momenti che non mi piacciono Avvocato, glielo dico perché non mi sembra giusto a prescindere che sia un Colonnello dei Carabinieri e non ha bisogno di essere difeso per carità. Avv Capra: “Io ho fatto domande”. Presidente: “Però diciamo mantenere sempre la giusta correttezza nei confronti di tutti, no?”». Insomma «di fronte alle difficoltà del teste, di fronte a una normalissima domanda, il controesame viene interrotto con un commento (“non stiamo processando i carabinieri”) del tutto incongruo rispetto alla finalità della domanda, dimostrativo di un atteggiamento di protezione “a prescindere”. Da notare il riferimento al fastidio per la formulazione di domande della difesa essendo “la quinta udienza”, ove si consideri che le prime tre erano state destinate all’esame diretto da parte del pubblico ministero e delle parti civili».

Ci sarebbero altre trenta pagine di episodi da raccontare ma per oggi ci fermiamo qui e concludiamo con questo quarto episodio che ci sembra allarmante per l’esercizio sereno della difesa in un’aula di Tribunale: «gli scriventi (Borzone e Capra, ndr) hanno appreso casualmente, solo dopo il deposito della sentenza, che sul sito web dell’organo di informazione “Radio Radicale” è “pubblicata” on line la registrazione di altro processo (a carico di tale Del Grosso), celebrato dallo stesso collegio del processo Elder/Natale in cui, nella fase iniziale di un’udienza, del 7 luglio 2020, è ascoltabile un “fuori onda” tra la giudice a latere e il Presidente estensore della sentenza impugnata. Presidente: “dobbiamo mantenere la calma perché l’ho visto prima mi hanno aggredito tutti capito [incomprensibile] menomale che c’ho trentatré anni di servizio più di trentaquattro, pensava di intimorirmi, ma sai è un po’ come Borzone [incomprensibile]. Si sovrappone Giudice a latere: “i modi”. Presidente: “devono capire chi c’hanno di fronte“».

Carlo Vulpio per il Corriere.it il 18 luglio 2021. «Ho visto Giovanni crollare a terra, sono corsa verso di lui, ho cercato di aiutarlo a rialzarsi. Ma lui era ormai morto. Non ci credevo. E non ci credo ancora adesso», si dispera Anna Quarta, la moglie di Giovanni Caramuscio, vittima di un omicidio assurdo, surreale. Caramuscio, 69 anni, pensionato, ex direttore della locale filiale del Banco di Napoli, è stato assassinato con due colpi di pistola venerdì sera, poco dopo le 23, davanti a un bancomat di Lequile mentre con la moglie tornava a casa, nella vicinissima Monteroni, dopo una festosa cena insieme ad amici e parenti. 

L’agguato al bancomat. All’uscita di Lequile ci sono due banche, la Bcc di Leverano e il Banco di Napoli e Giovanni ha detto ad Anna: «Fermiamoci un attimo qui, prelevo qualche soldo». «Lo facciamo domani, dai», gli ha risposto Anna, svogliata. Ma Giovanni ha insistito e ha anche preso un po’ in giro Anna, mentre entrambi scendevano dall’auto: «Vedi, se tu sapessi usare il bancomat non sarei costretto a farlo sempre io. Guarda, è semplice, devi solo pigiare sui tasti questi numeri, il codice segreto… E se domani non ci fossi più io, come faresti, eh?». Anna si è schermita: «Va bene, un’altra volta», e intanto ha aspettato accanto all’auto che il marito effettuasse il prelievo di contante. 

Alle spalle. Poi, come risulta anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza che ci sono in quella zona, l’aggressione a Giovanni, alle spalle, di due uomini, uno dei quali della stessa stazza fisica dell’ex direttore di banca, entrambi con il volto coperto da comuni mascherine anti Covid. Giovanni Caramuscio istintivamente ha reagito e ha spintonato quello dei due banditi che aveva cercato di immobilizzarlo, tenendolo per il collo con la morsa del braccio destro, ma la reazione gli è stata fatale. Uno dei due aggressori era armato — aveva con sé una pistola calibro 9 corto — e gli ha scaricato addosso cinque proiettili, tre andati a vuoto e due in pieno petto. Fine improvvisa e drammatica dopo una bella serata insieme alla moglie. E così quelle frasi scherzose di qualche minuto prima si trasformano nell’urlo disperato di Anna. 

La fuga. I due banditi scappano, qualcuno chiama il 112, arrivano i carabinieri, un’ambulanza, poi anche il sindaco di Monteroni, Mariolina Pizzuto, che è anche cugina di Anna e con delicatezza ha cercato di farle coraggio per tutta la giornata di sabato, mentre Anna ripeteva incredula le stesse frasi: «Il bancomat… I due aggressori… Gli spari… Giovanni a terra… Ma non credevo che era morto, che lo avessero ucciso lì, davanti a me». 

Un fermato. Le prime indagini sono state rapidissime e hanno portato al rinvenimento dell’arma del delitto: era nascosta in un vaso dell’abitazione del presunto assassino, che vive in un appartamento popolare non distante dai due istituti bancari. La matricola della pistola era abrasa, ma gli investigatori, attraverso altri indizi, le testimonianze di alcuni avventori del vicino bar pizzeria «Bataclan», le immagini delle telecamere di sorveglianza e il racconto di Anna hanno messo assieme elementi sufficienti per fermare un albanese di 31 anni, Mecaj Paulin, che ora è accusato di omicidio aggravato dal fine di rapina, ricettazione e detenzione illegale di arma da fuoco. 

Il complice. Ignoto, ma probabilmente ancora per poco, il complice del presunto omicida. Mecaj Paulin avrebbe anche tentato di disfarsi degli indumenti che indossava al momento del delitto gettandoli in un pozzo, ma le telecamere lo avrebbero filmato mentre premeva il grilletto come un invasato, quasi fosse in preda a uno stato di alterazione da stupefacenti. Il sindaco Pizzuto proclamerà il lutto cittadino dopo l’autopsia, prevista per martedì prossimo. I tre figli di Giovanni — Roberta, Stefano e Fabio — non sanno come consolarsi a vicenda e come consolare Anna, che ripete all’infinito: «Non è possibile. Non ci credo».

È un 28enne di Tricase. Ad incastrarlo una felpa indossata nelle foto su facebook. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Luglio 2021. È stato fermato anche il secondo uomo ricercato dai Carabinieri per l’omicidio dell’ex direttore di banca Giovanni Caramuscio, assassinato durante un tentativo di rapina la sera del 16 luglio a Lequile, mentre stava prelevando contanti dallo sportello bancomat insieme alla moglie. Nella notte i militari hanno sottoposto a fermo d’indiziato di delitto, emesso dalla Procura di Lecce, Andrea Capone, 28 anni di Tricase, residente a Lequile. È accusato di essere il complice di Macaj Paulin, l’albanese 31enne arrestato il 17 luglio con il medesimo provvedimento e ritenuto l’esecutore materiale del delitto. Entrambi rispondono di omicidio aggravato, in concorso, porto abusivo di arma alterata e ricettazione. Ad incastrare Capone è stata la felpa scura a maniche lunghe abbandonata la sera dell’omicidio in un pozzo e ritrovata la sera stessa dai Vigili del fuoco e che, come emerge dalle immagini dei filmati estrapolati dai sistemi di videosorveglianza, era quella che indossava il rapinatore non armato. La stessa felpa che il 28enne aveva indossato anche in altre occasioni, così come evidenziato in alcune foto pubblicate sul suo profilo Facebook. 

"Dateci i rolex": la rapina choc al semaforo a Cesara Buonamici. Novella Toloni il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. La popolare giornalista si trovava in auto insieme al marito, quando alcuni malviventi hanno aperto gli sportelli della loro auto e, dopo averli minacciati, si sono fatti consegnare gli orologi preziosi. Brutta disavventura per Cesara Buonamici, giornalista e popolare volto del Tg5, rapinata mentre si trovava ferma ad un semaforo a bordo della sua auto insieme al marito. La coppia non è stata aggredita fisicamente, ma ha dovuto cedere alle minacce dei malviventi, che gli hanno sottratto i rolex che indossavano. Sabato Cesara Buonamici e il marito, il medico Joshua Kalman, si trovavano all'Impruneta, comune a sud di Firenze. Intorno alle ore 20 la giornalista e il compagno stavano transitando dalla zona di Pozzolatico a bordo della loro vettura, quando il semaforo rosso li ha costretti a fermarsi per alcuni minuti. Pochi istanti di tranquilla attesa che si sono trasformati ben prestro in una vera e propria trappola. Approfittando della distrazione della coppia, che non si aspettava certo di vivere un simile incubo, due malviventi con il volto semi coperto si sono avvicinati all'auto e hanno spalancato le portiere dell'auto. I ladri hanno minacciato la Buonamici e il marito, facendosi consegnare con la forza i preziosi orologi che indossavano. Una volta ottenuta la refurtiva, i rapinatori si sono dati alla fuga. Nonostante il forte choc e la paura per quanto accaduto, Cesara Buonamici e il marito sono usciti illesi dalla rapina e pochi minuti dopo l'aggressione sono riusciti ad avvisare la polizia, che è intervenuta sul posto nel giro di poco tempo. La dinamica della violenta aggressione non è ancora chiara, ma dal racconto fornito dalla coppia rapinata - e riportata dai media locali - i malviventi (due, tre persone) avevano il volto camuffato e non impugnavano armi. Ma avrebbero fatto intendere alla giornalista e al consorte di essere armati e dunque pericolosi. Tanto da indurre Cesara Buonamici e il compagno a cedere alla richiesta di consegnarli i rolex. Sulla rapina ora indaga la squadra mobile della questura di Firenze, ma sembrerebbero esserci analogie con un'aggressione dalle dinamiche simili avvenuta un giorno prima. Come riportano i quotidiani locali, venerdì scorso, infatti, una donna è stata vittima di una rapina in zona piazza Beccaria. Questa volta a rubarle l'orologio prezioso - ancora un rolex Daytona - è stato un malvivente a bordo di una moto, guidata da un altro complice, che le ha sfilato l'orologio dal braccio prima di fuggire via. Ad aiutare le indagini portate avanti dalla questura fiorentina potrebbero essere i video delle telecamere della zona, che potrebbero essere visionati degli investigatori già nei prossimi giorni.

Rapinarono Cesara Buonamici e il marito, in manette tre persone. Raffaello Binelli su L'Arno/Il Giornale il 15 giugno 2021. Erano arrivati a Firenze appositamente da Napoli per mettere a segno un colpo. Dopo quasi due mesi sono finiti agli arresti con l’accusa di aver rapinato la giornalista del Tg5 Cesara Buonamici e il marito, il medico Joshua Kalman, lo scorso 24 aprile a Impruneta (Firenze). Di età compresa tra 25 e 50 anni, avevano pedinato e poi derubato la coppia: ora sono finiti in carcere, uno agli arresti domiciliari, un quarto denunciato e perquisito, mentre un quinto uomo è tutt’ora ricercato. La rapina avvenne intorno alle 20 di sabato 24 aprile. La coppia era in auto quando fu avvicinata da due persone scese da uno scooter, con un terzo che guidava. I rapinatori si sporsero all’interno dell’abitacolo e con violenza strapparono gli orologi (di valore) che la coppia aveva al polso, un Patek Philippe Nautilus in acciaio ed un Cartier Panther in oro bianco, per poi allontanarsi velocemente tutti e tre in sella allo scooter. Quella stessa sera i Falchi della squadra mobile di Firenze passarono al setaccio ogni singolo fotogramma estrapolato dalle telecamere della videosorveglianza cittadina, riuscendo a ricostruire tutti gli spostamenti oltre alle fasi preparatorie e successive al colpo della banda di quattro uomini, uno dei quali aveva fatto da palo. I rapinatori erano arrivati a Firenze con un Suv e un furgone, su cui era stato caricato lo scooter utilizzato per la rapina. Il Suv è stato immortalato in diverse strade mentre, insieme allo scooter, segue l’auto della coppia. Nel corso del pedinamento si vede anche che il conducente del ciclomotore a un certo punto si affianca alla macchina della giornalista per lanciare un’occhiata all’interno dell’abitacolo. Nel corso delle minuziose indagini gli inquirenti sono riusciti a scoprire i luoghi dove i 4 avevano soggiornato, prima e dopo il colpo: nel Pistoiese e nella zona intorno ad Arezzo, per poi fare rientro a Napoli.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 5 giugno 2021. Volevano estrarla dall' auto per picchiarla meglio. Erano in 30 ieri pomeriggio a circondare la vettura di Verangela Marino, esponente di Fratelli d' Italia, referente del quartiere Barriera Milano a Torino. Tutti immigrati africani, molti presumibilmente spacciatori, destinatari della campagna della donna che da tempo denunciava fenomeni di degrado e di spaccio intensivo nella zona. L' hanno riconosciuta, l'hanno accerchiata e l'hanno aggredita in pieno giorno, quasi a voler dimostrare chi comanda. Gerarchie surreali di un Paese che fatica a cogliere le priorità dell'agenda politica e sociale all' uscita dalla pandemia. Le foto confermano un'aggressione in piena regola: spintoni, pugni, calci, escoriazioni alle spalle e alle braccia, graffi profondi, lividi al volto. E tanta paura perché la Marino e il suo compagno hanno rischiato che l'agguato virasse in qualcosa di molto più drammatico. Solo l'arrivo della polizia ha evitato la possibile tragedia. Restano un inventario da pronto soccorso (dove la donna è stata medicata ed è uscita con il collare) e una prognosi di 30 giorni; l'unica colpa della Marino è quella di avere denunciato la gang degli spacciatori e di essere diventata, ai loro occhi, un nemico da mettere a tacere. «Il gruppo ha prima tentato di estrarla dall' auto in cui era seduta», si legge in un comunicato di Fdi, «poi l'ha malmenata, colpendo anche l'uomo che era accanto a lei». Due degli aggressori sarebbero stati già fermati e identificati dalle forze dell'ordine, che stanno ricostruendo l'accaduto per risalire all' intera banda. Trenta contro una. Ce ne sarebbe a sufficienza per imbastire un'indignata campagna contro il sessismo e la violenza sulle donne, ma difficilmente si udiranno voci nel vasto campo progressista dei difensori dei diritti perché significherebbe stigmatizzare il comportamento di immigrati per i quali l'accoglienza diffusa e il grande abbraccio costituiscono l'unica nota possibile. «A Verangela Marino esprimiamo tutta la nostra solidarietà e ci auguriamo che altrettanto facciano le altre forze politiche», sottolineano invece la parlamentare Augusta Montaruli, l'assessore Maurizio Marrone, tutti di Fdi con gli esponenti locali Enzo Liardo e Valerio Lomanto. «Episodi di questo genere sono gravissimi e inaccettabili. In Barriera di Milano la situazione è ormai fuori controllo, con una presenza costante e radicata di una criminalità pericolosa e che vorrebbe gestire il territorio come una zona franca». Alle bande di spacciatori, soprattutto nigeriani, hanno dato molto fastidio le iniziative per la sicurezza che da sempre il centrodestra porta avanti nel quartiere, e che negli ultimi mesi hanno visto Fratelli d' Italia organizzare decine di gazebo «No Spaccio» nelle zone più critiche. Con un'interpretazione criminale del business is business, i signori dello spaccio hanno ritenuto di dover affrontare il problema alla radice, aggredendo picchiando chi invoca e legalità per le famiglie e i loro figli. «Siamo e saremo al fianco della Marino», proseguono gli esponenti di Fdi. «E ovviamente di tutti i cittadini onesti che non vogliono arrendersi nel vedere i loro quartieri diventare dei cassonetti sociali. In Barriera di Milano, come in tutta Torino, non faremo un passo indietro davanti alle violenze di criminali e spacciatori. L' episodio è avvenuto alla luce del sole e invitiamo chiunque a supportare le indagini». Trenta contro una. Nell' Italia dell'anno domini 2021 non può essere solo cronaca locale.

FOGGIA. LE AGGRESSIONI A BRUMOTTI DI STRISCIA NOTIZIA : POLIZIA O “VERGOGNA” DI STATO? Il Corriere del Giorno il 27 Novembre 2021. E’ quando denunciato dalla trasmissione Mediaset che ha mandato in onda le dichiarazioni di Brumotti e del giornalista Vincenzo Rubano che, il 6 ottobre scorso erano stati a San Severo per documentare l’attività incessante di spaccio al quartiere San Bernardino. Gli agenti del commissariato di San Severo della Polizia di Stato, secondo quanto raccontato ieri sera dal programma Striscia la Notizia avrebbero preteso ed intimato all’inviato Vittorio Brumotti e ad un altro giornalista di cancellare il video che riprendeva un uomo aggredire i due inviati del tg satirico. E’ quando denunciato dalla trasmissione Mediaset che ha mandato in onda le dichiarazioni di Brumotti e del giornalista Vincenzo Rubano che, il 6 ottobre scorso erano stati a San Severo per documentare l’attività incessante di spaccio al quartiere San Bernardino. In quell’occasione Vittorio Brumotti fu colpito al volto da un pugno scagliato da un giovane, che circa 7 agenti della Polizia presenti inutilmente sul luogo dell’accaduto non bloccarono rimanendo immobili come delle statuine, lasciando la possibilità ad alcuni delinquenti di aggredire e picchiare la troupe di Striscia. Soltanto in seguito gli agenti del Commissariato di San Severo (Foggia) diretto dal dirigente dr. Claudio Spataro hanno arrestato alcuni degli aggressori, fra i quali un pregiudicato che ha aggredito la troupe di Striscia la Notizia persino all’interno dell’ospedale di San Severo. Aggressione alla presenza di poliziotti in borghese, che non si sono comportati come dei tutori della Legge dimostrando in realtà di temere questi delinquenti. L’ aggressione in ospedale è stata filmata dal telefono cellulare del giornalista Vincenzo Rubano al seguito di Brumotti che ha raccontato cosa accaduto: “Mentre aspettavo Vittorio, – racconta nella puntata di Striscia la Notizia – all’improvviso, vedo arrivare in corsia quello che aveva mostrato i genitali. Inizia a inveire nei miei confronti, io estraggo il cellulare e inizio a riprendere, riesce a divincolarsi dai sette poliziotti in borghese, fa uno slalom e riesce a raggiungermi. Io casco a terra e inizia a pestarmi a sangue, con diversi calci alla schiena e ad un braccio. A quel punto arrivano i poliziotti in borghese e riescono a bloccarlo e io trovo rifugio all’interno di una stanza, dopo qualche minuto arrivano i primi tre poliziotti e uno di loro mi chiede di consegnare il cellulare. “Chiedo il perché ed il poliziotto mi dice perché aveva preso accordi con l’aggressore perché doveva cancellare il video. A quel punto io mi rifiuto ma lui inizia a inveire ancora più nei miei confronti. – continua il racconto del giornalista Vincenzo Rubano – Dopo qualche minuto arrivano altri due poliziotti insieme all’aggressore e uno dei poliziotti mi dice vuole chiederti scusa, tu caccia il cellulare e cancella il video. Faccia a faccia con l’aggressore c’è un attimo di titubanza, poi dico di no e l’aggressore inizia nuovamente ad inveire nei miei confronti. La Polizia riesce con non poche difficoltà a cacciarlo fuori dalla stanza. I poliziotti rientrano e a quel punto mi chiedono di nuovo il cellulare. Uno dei poliziotti in particolare inveisce violentemente nei miei confronti e a quel punto arriva anche Vittorio”. Subito dopo è lo stesso Brumotti che continua il racconto nel servizio di Striscia, dicendo di aver trovato il collega “terrorizzato” con dei poliziotti che gli urlavano in particolar modo uno enorme che gli diceva “non me ne frega un cazzo di te, né di Brumotti, né di Striscia La Notizia, dammi il cellulare, cancella il video”. Mentre i due inviati di Striscia continuavano a parlare con i poliziotti il giornalista Vincenzo Rubano è riuscito ad inviare il video e la chat salvata ad un amico salvando il tutto. E quindi consegnano il cellulare preteso abusivamente dai poliziotti che, sempre secondo quanto raccontato da Brumotti, hanno cancellato il video. “La cosa più grave, ragazzi, è che una volta che abbiamo fatto vedere che non avevamo più il video, si sono tranquillizzati, ma la cosa ancora più grave, che i poliziotti ci hanno ancora urlato dicendoci: voi non ci vivete qua, ve ne andate, noi stiamo qua. Cosa vuol dire? Fate voi” conclude Brumotti nel servizio. Da noi contattato il dirigente del Commissariato di San Severo, ha prima sostenuto che i fatti non siano andati come raccontato da Striscia la Notizia (peccato però che ci siano delle immagini filmate) e davanti alla nostra richiesta di fornirci la sua versione si è trincerato dietro la solita burocrazia: “deve parlare con il portavoce della Questura di Foggia”. Peccato però cha da stamattina il centralino della Questura dauna sia irraggiungibile! Sulla vicenda è intervenuta la Procura di Foggia che ha aperto un fascicolo d’indagine ed acquisito tutti i video su quanto accaduto. Non è stato ancora stato possibile conoscere quali provvedimenti in via cautelare abbia avviato la Polizia di Stato davanti a delle immagini che parlano da sole, e che non hanno certo bisogno di un’inchiesta della magistratura per vedere dei comportamenti poco edificanti per il corpo della Polizia.

Da liberoquotidiano.it il 6 ottobre 2021. Non c'è pace per Vittorio Brumotti. L'inviato di Striscia la Notizia è stato nuovamente vittima di un'aggressione. A Foggia per documentare lo spaccio di droga sotto agli occhi di tutti, il biker è stato preso d'assalto da diversi spacciatori: prima minacciato, poi inseguito e aggredito con pugni in pieno volto. È accaduto nel pomeriggio di martedì 5 ottobre, quando Brumotti e la troupe del tg satirico di Canale 5 sono stati accerchiati a San Bernardino di San Severo. Oltre all'inviato anche alcuni collaboratori sono stati raggiunti dalla violenza inaudita di alcuni malintenzionati. Immediato l'arrivo degli agenti delle forze dell'ordine, che hanno fermato lo scempio, non senza subire anche loro danni fisici. La prognosi per il biker è di trenta giorni. "La ferocia di queste persone che pensano di dominare il territorio non ci fermerà. Continueremo a girare l’Italia - assicura Brumotti - e a denunciare tutte queste situazioni di degrado. Facciamolo tutti per i bambini, non si può far finta di nulla". In mattinata, la troupe del tg satirico di Antonio Ricci si era scontrata con l'inospitalità dei residenti del palazzone Onpi: "Brumotti vattene, non ti vogliamo!", gridavano. Solidarietà espressa dal sindaco di San Bernardino di San Severo, Francesco Miglio: "I sanseveresi sono accoglienti, ospitali, amici di tutti. Spero tornino presto. Noi li accoglieremo come nostri ospiti, come la nostra città fa con tutti i suoi visitatori".

Da liberoquotidiano.it il 21 aprile 2021. Ennesima aggressione nei confronti dell'inviato di Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti. Questa volta, l'inviato del Tg satirico di Canale 5 è stato accerchiato e malmenato insieme alla sua troupe durante un servizio al quartiere Quarticciolo di Roma. Il quartiere è considerato come una delle tante piazze di spaccio della Capitale e Brumotti era intento a riprendere, insieme ai suoi collaboratori, uno degli angoli della città che sembrano essere stati dimenticati dalle autorità. Durante il pestaggio, qualcuno è riuscito a riprendere l'episodio a distanza, pubblicandolo poi sui social media. Presto sono spuntati messaggi di odio tra i commenti tra cui uno di Chef Rubio. "Brumotti sei un infame, troppe poche te n'hanno date" ha scritto lo Chef televisivo. Nel video, si vede come Brumotti e la sua troupe vengano aggrediti e minacciati da alcuni residenti della zona. È partita immediatamente la chiamata alle forze dell'ordine, che sono accorse sul posto per salvare Brumotti e il suo staff. Insieme al reporter ligure c'erano anche il giornalista Vincenzo Rubano e il cameraman. Sono anni che Brumotti documenta infrazioni criminali in tutta Italia, principalmente legate allo spaccio di sostanze stupefacenti. Inutile dire che si è fatto un nome nell'ambiente e la sua presenza sul posto viene quindi presto notata dai criminali. Inspiegabilmente, i messaggi d'odio nei confronti di Vittorio Brumotti sono moltissimi. Messaggi, che lo stesso reporter diffonde poi sui suoi canali social. Particolare che questi provengano anche talvolta da personaggi conosciuti come accaduto con Gabriele Rubini, in arte Chef Rubio. Prima di concludere il suo commento con la fatidica frase, Rubini ha lamentato l'ignoranza dei giornalisti nei confronti dei quartieri popolari di Roma: "Non sapete nulla del core immenso del Quarticciolo, voi giornalisti da strapazzo vi dovreste vergognare per la propaganda infame che riservate a chi è abbandonato dallo Stato, e resiste nonostante tutto con dignità e umanità". C'è modo e modo caro Chef Rubio.

Striscia la Notizia, il dramma di Vittorio Brumotti: "Calci sui reni, dove mi hanno sbattuto la faccia", l'aggressione più feroce a Roma. Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. "Mi hanno dato calci sulla schiena e sui reni, sbattuto la faccia contro il furgone della troupe, che è stato distrutto, spaccato la bici. Il tutto condito dalle solite minacce di morte e nonostante la presenza delle forze dell’ordine, che hanno fatto il massimo per proteggermi. È stata l’aggressione più feroce che abbia mai subìto". È ancora sotto shock l’inviato di Striscia la notizia Vittorio Brumotti, vittima di un violento attacco martedì sera 20 aprile mentre registrava un servizio sullo spaccio al Quarticciolo, un quartiere periferico di Roma. "Da tre giorni documentavo il traffico di droga al Quarticciolo in cui si spaccia a cielo aperto, lungo la strada, a due passi dal centro. Una situazione ingestibile, con pusher, sentinelle e picchiatori dietro i quali c’è una potente famiglia dell’Ndrangheta". E la battaglia di Brumotti, in supporto a cittadini esasperati per il dilagare della droga nelle loro comunità, continua. Nonostante ci sia, sui social, chi non perde occasione per fomentare odio nei suoi confronti, tra cui chef Rubio che ha invocato “più botte” per il biker. "Chef Rubio ha giocato a rugby, ma evidentemente si è dimenticato i valori di quello sport. Io mi faccio scudo con i tanti messaggi di solidarietà che ho ricevuto dai disabili, dalle mamme e dalle persone più fragili che mi chiedono di intervenire in queste situazioni di degrado", conclude Brumotti. Il servizio sarà trasmesso domani sera all’interno di Striscia la notizia.

Brumotti contro gli spacciatori. Pattuglia dei Vigili urbani si allontana. Il sindaco li punisce. Orlando Sacchelli su L'Arno- Il Giornale l'1 aprile 2021. Non è la prima volta che l’inviato di Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti, a bordo della sua immancabile mountain bike sfida gli spacciatori che si aggirano impunemente nelle strade delle nostre città, facendo affari come se nulla fosse. Spesso le reazioni contro di lui, da parte dei pusher, non sono delle migliori, ma fa parte del gioco: Brumotti va avanti e cerca di sensibilizzare tutti, cittadini e istituzioni, per riappropriarsi delle città, allontanando chi vende droga. In uno degli ultimi servizi Brumotti per due volte è andato a Pisa, a due passi dalla stazione ferroviaria, luogo “ripulito” dall’attuale giunta di centrodestra, ma in cui continuano a bazzicare, notte e giorno, i soliti spacciatori, ben organizzati e sempre in grado di vendere droga di ogni tipo a chi la cerca.

Durante l’ultimo servizio, trasmesso in prima serata dal tg satirico di Canale 5, Brumotti si è scontrato verbalmente con alcune persone, una delle quali ha mimato verso di lui il gesto della pistola che spara. Non sono mancate le offese e le minacce da parte di chi, evidentemente, si è sentito minacciato nella propria “attività commerciale”.  A un certo punto, nella notte, spunta una pattuglia della Polizia Municipale che si avvicina a Brumotti e a un giovane con cui era nato un acceso diverbio. Inspiegabilmente i vigili urbani in servizio hanno alzato il finestrino e si sono allontanati. Il sindaco Michele Conti (Lega) non l’ha presa bene e su Facebook si è sfogato in questo modo: “Stamattina, appena arrivato in ufficio, ho convocato il Comandante della Polizia Municipale in merito all’episodio degli agenti in servizio ripresi da Striscia la Notizia andato in onda … per avere chiarimenti sull’accaduto. Non posso tollerare che dopo tutti gli sforzi fatti, le risorse impiegate in termini di personale e di dotazioni strumentali per la Polizia Municipale, l’immagine della nostra città sia compromessa da comportamenti che a prima vista appaiono negligenti o inopportuni. Anche a tutela di tutti gli agenti della PM che quotidianamente fanno il proprio dovere con serietà. Lo spaccio e il degrado affondano le radici molto in profondità ma, proprio per questo, esigo il massimo impegno da parte di tutti in questa battaglia. Le persone oneste hanno il diritto di sentirsi tutelate, a maggior ragione in un periodo difficile come quello che stiamo vivendo”. Poi è arrivata la decisione: provvedimento disciplinare nei confronti dei due vigili urbani. La situazione sembra davvero fuori controllo, con una parte della città (soprattutto in zona stazione) in balìa di  gruppetti organizzati di spacciatori che scorrazzano impunemente. La colpa, ovviamente, non è solo di chi amministra la città (oggi come ieri). Però è anche vero che si può e si deve fare di più. Molto di più. E non solo pattugliando il territorio.

Striscia la Notizia, Vittorio Brumotti aggredito da spacciatori africani a Reggio Emilia: "Guardate, anche le donne sono violente". Libero Quotidiano il 23 marzo 2021. “Insulti, minacce e una violenta sassaiola: è questa l’accoglienza che gli abitati abusivi della fabbrica abbandonata delle Reggiane di Reggio Emilia hanno riservato domenica 21 marzo a Vittorio Brumotti”. Con tale incipit Striscia la Notizia ha introdotto il servizio che mostra l’ennesima brutale aggressione ai danni dell’inviato e della sua troupe, messa in atto prevalentemente da migranti e senza fissa dimora. La missione di liberare le piazze d’Italia dallo spaccio continua imperterrita, nonostante le aggressioni si stiano puntualmente ripetendo in ogni angolo d’Italia. Segno che Brumotti sta facendo bene il suo lavoro, dato che non appena si avvicina a una piazza di spaccio viene bersagliato da insulti e spesso si scade anche nella violenza fisica. Stavolta l’inviato del tg satirico di Canale 5 ideato da Antonio Ricci stava registrando un servizio sugli spacciatori presenti alle ex Officine Meccaniche Reggiane: si è trovano di fronte a una situazione particolarmente scioccante, ovvero a una cittadella in cui regnano degrado e microcriminalità. Non solo spacciatori, in quel luogo vivono centinaia di persone in estrema indigenza e in condizioni sanitarie pericolose. Stasera, martedì 23 marzo, verrà mandato in onda il servizio completo su Canale 5: l’aggressione subita a Reggio Emilia fa il paio con quella recente di Ferrara, dove l’accoglienza non era stata affatto delle migliori. A Brumotti è già arrivata la solidarietà di Giorgia Meloni: “Possibile si debba rischiare tanto per denunciare certe zone franche? Forza Vittorio, non mollare”. 

Da liberoquotidiano.it l'8 marzo 2021. Stasera, lunedì 8 marzo, Striscia la Notizia manderà in onda le immagini dell’aggressione subita da Vittorio Brumotti e la sua troupe. L’inviato del tg satirico di Canale 5 ideato da Antonio Ricci è dal 2017 che ha iniziato una difficilissima missione per liberare le piazze di tutta Italia dallo spaccio di droga e non è nuovo a subire vili aggressioni. L’ultima si è verificata una settimana fa mentre stava registrando un servizio nel Parco delle Cascine, ritenuto la più grande area di spaccio dell’intera città di Firenze. A un certo punto Brumotti è stato accerchiato dai pusher, che hanno anche lanciato dei sassi contro la troupe di Striscia: per fortuna nessuno è rimasto ferito, anche perché le forze dell’ordine sono intervenute tempestivamente, seppur i disordini siano continuati anche dopo il loro arrivo. “Io giravo in bici un po’ più in là - ha raccontato Brumotti - i miei operatori, cinque, hanno battuto in ritirata. Si sono asserragliati nel furgone, accerchiato. Scendere, cercare di mettere in moto e allontanarsi era troppo pericoloso. Uno finalmente è riuscito a scavalcare dall’interno, a mettersi al posto di guida e partire”.

Pugni, insulti, sputi agli agenti. Brumotti e la rissa con i pusher. L'arrivo delle telecamere di Striscia al Parco delle Cascine ha scatenato la violenta reazione degli spacciatori, che hanno opposto resistenza alle forze dell'ordine. Il parapiglia generatosi e ripreso dalle telecamere di Firenze Today ha bloccato l'intera zona per ore. Novella Toloni - Mer, 03/03/2021 - su Il Giornale. Una vera e propria guerriglia urbana si è scatena a Firenze nel tardo pomeriggio di martedì 2 marzo. Sono servite dieci pattuglie della polizia e circa venti agenti per bloccare la rivolta dei pusher scatenatasi al parco delle Cascine, a Firenze, dopo l'arrivo di Vittorio Brumotti e delle telecamere di Striscia La Notiza. L'inviato del tg satirico di Antonio Ricci era arrivato alla periferia di Firenze per effettuare uno dei tanti servizi contro lo spaccio di droga nelle città. La reazione degli spacciatori, però, ha colto di sorpresa non solo Brumotti e la sua troupe, ma anche la pattuglia giunta sul posto insieme a Striscia, che è stata costretta a richiedere l'intervento di altre volanti. La violenta rivolta degli spacciatori si è scatenata quando Vittorio Brumotti e gli operatori di Striscia la Notizia avevano già terminato le riprese del servizio, che andrà in onda nelle prossime settimane. Con loro, sul posto, sono arrivati anche una volante della Polizia e una troupe di Firenze Today per riprendere in anteprima l'incursione del biker alla Cascine, una delle piazze di spacciopiù importanti della Toscana. Intorno alle 18, però, la situazione si è surriscaldata. A dare il via al parapiglia generale è stato l'arrivo, con la tramvia, di uno spacciatore in evidente stato di alterazione. L'uomo, come si vede dalle immagini registrate dal quotidiano fiorentino, urina al bordo della strada - non curante delle domande degli agenti - e barcolla cercando di allontanarsi come se niente fosse. Gli agenti cercano di bloccarlo, ma il pusher oppone resistenza e incomincia ad insultare i poliziotti, mentre altri spacciatori nordafricani accorrono in suo aiuto. La pattuglia e la troupe di Vittorio Brumotti vengono accerchiate e gli agenti sono costretti a richiedere l'intervento di numerose altre pattuglie per sedare la rivolta. Sul posto arrivano così, tra le altre, l'unità cinofila e l'Unità Operativa di Primo Intervento. Il tutto sotto l'occhio attonito dei cittadini, che si trovavano a passare in zona e ripreso dalle telecamere di Striscia e di Firenze Today. All'arrivo dei rinforzi il parco si è trasformato in un campo di battaglia con lancio di pietre contro gli agenti, insulti, fuggi fuggi generale degli spacciatori e alcuni pusher che, nel frattempo, avevano bloccato la tramvia con numerosi cittadini a bordo. Gli agenti, circa venti, hanno impiegato un paio di ore a riportare la calma al parco delle Cascine. Grazie all'operazione sono state identificate alcune persone e una è stata denunciata per minacce aggravate.

Inviata di Striscia contro gli abusivi: "Aggrediti con pugno in faccia..." L'inviata era nella Capitale per proseguire l'inchiesta sul blocco degli sfratti quando due individui hanno aggredito la troupe, distruggendo le telecamere. Novella Toloni - Lun, 22/02/2021 - su Il Giornale. Dopo Vittorio Brumotti, un altro popolare volto di Striscia la notizia è stato aggredito. Si tratta di Rajae Bezzaz, assalita insieme alla sua troupe in via Tiburtina a Roma mentre filmava un nuovo capitolo dell'inchiesta sul blocco degli sfratti e morosità. Quello che ha visto protagonista Rajae è l'ennesimo episodio di violenza scatenatosi in seguito all'operato di Striscia la Notizia. Negli scorsi giorni erano stati Vittorio Brumotti e i suoi due operatori a finire vittime della violenza inaudita di alcuni spacciatori. Calci, pugni e minacce in pieno giorno nel centro di Brescia. Un'azione feroce che solo grazie all'intervento delle forze dell'ordine non è finita nel peggiore dei modi. Questa volta nel mirino dei violenti è finita Rajae Bezzaz, arrivata a Roma per proseguire una delle sue inchieste. Un servizio come tanti altri già realizzati dall'inviata del tg satirico di Antonio Ricci, che però questa volta si è trasformato in un vero e proprio agguato. Rajae si trovava in via Tiburtina per chiedere spiegazioni a un inquilino moroso. A lei si era rivolto uno dei tanti proprietari di appartamenti a Roma, che da mesi non riscuotono gli affitti a causa del blocco degli sfratti prolungato per colpa del Covid. Una rinvio che non tutela i proprietari e permette invece ad alcuni affittuari di approfittarsene. Rajae ha provato a parlare con uno dei "morosi", un cittadino che, nonostante gestisca diverse pizzerie, non paga da più di un anno l'affitto. Ma l'accoglienza riservata a Rajae e all'operatore di Striscia è stata tutt'altro che conciliante. A raccontare quanto accaduto è stata proprio l'inviata di Canale 5: "Inizialmente l'uomo è scappato e noi gli siamo stati dietro. Poco dopo sono sbucati fuori due suoi amici: ci hanno sorpreso, hanno distrutto telecamera e microfono e tirato un pugno in faccia a un operatore". Oltre al grave danno, dunque, c'è anche la violenza subita da uno dei cameraman che stava filmando insieme alla Bezzaz. Da Striscia fanno sapere che verrà sporta regolare denuncia per i danni subiti e intanto le immagini del servizio e dell'aggressione andranno in onda su Striscia questa sera - lunedì 22 febbraio - alle ore 20:35. Sempre questa sera verrà trasmesso anche il filmato completo dell'aggressione ai danni di Vittorio Brumotti e della sua troupe, assaliti da tre spacciatori con pugni, calci e sputi durante le riprese di un servizio sullo spaccio di droga realizzato pochi giorni fa a Brescia.

Omicidio Willy Monteiro Duarte, giudice respinge la richiesta di rito abbreviato per gli imputati. Ilaria Minucci il 22/04/2021 su Notizie.it. Il giudice per l’udienza preliminare ha respinto la richiesta di rito abbreviato per gli imputati accusati dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte. La richiesta di rito abbreviato per il processo relativo all’omicidio di Willy Monteiro Duarte è stata rifiutata dal giudice per l’udienza preliminare. La richiesta era stata presentata, nei mesi scorsi, dagli avvocati degli imputati Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Negato l’accesso al rito abbreviato ai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, a Francesco Belleggia e a Marco Pincaretti: è quanto stabilito dal giudice per l’udienza preliminare di Velletri. Il magistrato, infatti, ha reputato inammissibile la domanda presentata dai legali degli imputati che, in questo modo, hanno tentato di ottenere uno sconto di un terzo della pena per i rispettivi clienti, rinunciando al diritto del processo, previsto per rendere giustizia al giovane Willy Monteiro Duarte. Tuttavia, in casi di reati gravi come l’omicidio volontario, coincidente con l’accusa rivolta agli imputati, una simile opzione non è contemplabile, come ribadito dal rifiuto del giudice. In questo contesto, intanto, è stato disposto il rinvio a giudizio di tutti e quattro gli imputati da parte della Corte d’Assiseche si riunirà il prossimo 10 giugno 2021. Inoltre, il gip ha stabilito che gli imputati vengano processati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte con giudizio immediato, eliminando il ricorso all’udienza preliminare.

Il pestaggio a Colleferro e le aggressioni del gruppo di Artena. Il giovane Willy Monteiro Duarte è stato pestato brutalmente con calci e pugni lo scorso 6 settembre dai fratelli Bianchi, da Francesco Belleggia e da Mario Pincarelli, durante una rissa avvenuta a Colleferro e nella quale il ragazzo era intervenuto per aiutare un amico. Sulla base delle testimoniante fornite dai presenti e delle ricostruzioni effettuate dalle forze dell’ordine, i quattro imputati si sono accaniti contro la vittima, colpendolo ripetutamente al torace e alla gola e causandone la morte. A questo proposito, i risultati emersi dall’autopsia condotta sul corpo di Willy Monteiro Duarte hanno evidenziato il danneggiamento di tutti gli organi e numerose lesioni al cuore, scaturite in seguito ai colpi ricevuti. Poco dopo il decesso del ragazzo, poi, gli inquirenti hanno rapidamente provveduto ad arrestare i fratelli Bianchi, Belleggia e Pincarelli, rifugiatisi nel locale gestito dal fratello maggiore di Marco e Gabriele Bianchi. Nel corso delle indagini, poi, le autorità hanno avuto modo di verificare che gli accusati erano particolarmenteconosciuti nella zona di Artena e nei quartieri circostanti e che avevano, inoltre, svariati precedenti per droga e aggressione. Molte, infatti, le spedizioni punitive attuate dal gruppo nei confronti di chiunque non incontrasse il loro favore. Per alcune delle aggressioni, i fratelli Bianchi sono stati talvolta processati e, nel corso della loro permanenza in carcere, sono stati nuovamente arrestati con le accuse di spaccio e traffico di stupefacenti.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 5 febbraio 2021. «Gli ho dato na zampata è cascato a terra e si è rialzato». Sa di essere intercettato mentre parla in carcere, Marco Bianchi, uno dei quattro indagati che, lo scorso settembre, a Colleferro, hanno pestato fino a ucciderlo Willy Monteiro Duarte. Parla con Alessandro, il terzo fratello (Gabriele invece era con lui quella notte ed è anche lui accusato dell' omicidio). E tenta di fornire la sua versione dei fatti mimando anche la scena, mentre con lo sguardo cerca di individuare le cimici che lo riprendono. È un nuovo pesantissimo atto di accusa l' ordinanza di custodia cautelare, firmata dal gip di Velletri, che ieri i carabinieri di Colleferro hanno notificato a Gabriele e Marco Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, già accusati di omicidio volontario aggravato dai futili motivi ma finora detenuti (Belleggia è l' unico ai domiciliari) per omicidio preterintenzionale. Oggi ci sarà l' interrogatorio di garanzia. I carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Colleferro hanno raccolto decine di testimonianze e rivisto i fotogrammi delle telecamere, che confermano l' orrore di quella notte. Il blitz nella piazza, a pochi metri dalla caserma, il calcio al petto di Willy che sbatte su una macchina e cade a terra e poi ancora botte. È il 22 settembre quando il padre di Mario Pincarelli va a trovarlo in carcere: «Stamme a sentì - dice al figlio - tu devi parlà solo con l' avvocato. A me non mi devi dire niente». E il ragazzo, in dialetto: «Solo lo so un po' rovinato, gli so tirato quando stava da per terra a chiglio». E il padre alzando la voce: «Zitto». Scrive il gip: «Nella circostanza, infatti, Pincarelli ammette, o meglio, confessa, di aver colpito il giovane Willy quando questi era già in terra. Subito bloccato - scrive il gip - da suo padre che, rendendosi conto di quanto quelle affermazioni potessero compromettere la posizione processuale del figlio, alzando la voce lo invita a tacere». Il 16 ottobre Alessandro Bianchi va a trovare il fratello Marco. Anche questa lunga conversazione viene intercettata, ma Bianchi tenta di avvalorare la sua versione, ossia che il responsabile della morte di Willy sia Belleggia. Poi protesta anche contro i giornali, smentisce tutte le notizie diffuse subito dopo i fatti, anche quelle relative al reddito di cittadinanza, percepito dalla sua famiglia. Dice Alessandro: «C' ha diritto al reddito di cittadinanza, che so' soldi rubati allo Stato, tutte cazzate, mica lo pigli tu a nome tuo, lo piglia papà, la Finanza non ha bloccato niente era tutto regolare. È Omar Sahbani a chiamare in piazza i fratelli Bianchi, che si erano appartati con delle ragazze, lo racconta lui stesso ai carabinieri di Colleferro, e lo ripete Michele Cerquozzi, amico dei fratelli Bianchi che dopo il pestaggio di Willy sarebbe scappato con loro. Anche lui racconta delle botte e dei calci e dell' aggressione a una vittima che neppure conoscevano: «Ricordo che Omar urlava frasi del tipo Fermatevi, fermatevi. Poi Omar è andato verso Gabriele (Bianchi, ndr) cercando di fermarlo perché aveva visto che stava picchiando i giovani, ma non so chi. Ma a dire di Omar Gabriele era una furia e non riusciva a tenerlo e quando gli è scappato dalla sua presa Omar si è spostato e Gabriele ha continuato a picchiare non so chi». Scrive il gip Giuseppe Boccarrato nell' ordinanza: «Gli elementi conducono naturalmente a ritenere che i quattro indagati non solo avessero consapevolmente accettato il rischio di uccidere Willy, ma colpendolo ripetutamente, con una violenza del tutto sproporzionata alla volontà di arrecargli delle semplici lesioni, avessero previsto e voluto alternativamente la morte o il grave ferimento della vittima». Per il giudice, «per la modalità dell' azione, realizzata da più persone coordinate, per la localizzazione e violenza dei colpi, inferti in più parti vitali, per le condizioni in cui versava la vittima, colpita anche quando si trovava inerme in terra e per l' esperienza nelle tecniche di combattimento dei fratelli Bianchi e del Belleggia, va senza dubbio esclusa la condizione minima per contestare l' omicidio preterintenzionale». I testimoni hanno confermato, sottolinea il giudice: «Willy veniva aggredito nonostante fosse del tutto estraneo alla discussione in corso tra Belleggia e gli amici di Zurma, sicché i quattro indagati nel colpirlo e infierendo con crudeltà su un ragazzo inerme, erano animati semplicemente, dalla volontà di dimostrare la forza del proprio gruppo».

"Colpito per ucciderlo". Quella violenza su Willy che inguaia i fratelli Bianchi. Si aggrava la posizione dei fratelli Bianchi, già in custodia cautelare in carcere per l'omicidio di Willly Monteiro Duarte. Per il gip si tratta di omicidio preterintenzionale. Rosa Scognamiglio, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. "Colpito per ucciderlo". Fuga ogni ombra di dubbio il gip di Velletri Giuseppe Boccarrato nell'ordinanza che integra e aggrava il provvedimento di misura cautelare nei confronti dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, colpito a morte lo scorso 6 settembre a Colleferro, in provincia di Roma.

L'ordinanza del gip. Un pestaggio, a suon di calci e pugni, ha spezzato la vita al 21enne di origini ivoriane, Willy Monteiro Duarte. A distanza di 6 mesi dalla drammatica vicenda, il gip di Velletri Giuseppe Boccarrato, ha emesso un'ordinanza che aggrava la posizione dei fratelli Bianchi, già a regime di custudia cautelare in carcere per la efferata e letale aggressione ai danni del ragazzo la sera dello scorso 6 settembre. "Tutti gli elementi conducono naturalmente a ritenere che i quattro indagati non solo avessero consapevolmente accettato il rischio di uccidere Willy, ma colpendolo ripetutamente, con una violenza del tutto sproporzionata alla volontà di arrecargli delle semplici lesioni, avessero previsto e voluto alternativamente la morte o il grave ferimento della vittima", scrive il Gip. E ancora: "Per le condizioni in cui versava la vittima, colpita alla sprovvista nella prima fase e poi addirittura quando si trovava inerme in terra nella seconda, e per l'esperienza nelle tecniche di combattimento dei fratelli Bianchi e del Belleggia, va senza dubbio esclusa la condizione minima per contestare l'omicidio preterintenzionale, ovvero la divergenza assoluta tra il risultato voluto e quello effettivamente realizzato".

Omicidio volontario. Per la procura non c'è ombra di dubbio alcuno: si tratta di omicidio volontario. Ad avvalorare l'accusa, ci sono anche le dichiarazioni dei testimoni che avrebbero assistito al terribile pestaggio. "Gli informatori sentiti nel corso delle indagini confermavano che Willy veniva aggredito nonostante fosse del tutto estraneo alla discussione in corso tra Belleggia e gli amici di Zurma, sicché i quattro indagati nel colpirlo e infierendo con crudeltà su un ragazzo inerme, erano animati semplicemente - sottolinea il gip - dalla volontà di dimostrare la forza del proprio gruppo". Per il giudice dell'indagine preliminare, "la modalità dell'azione, realizzata da più persone coordinate, per la localizzazione e violenza dei colpi, inferti in più parti vitali, per le condizioni in cui versava la vittima, colpita" anche quando "si trovava inerme in terra, e per l'esperienza nelle tecniche di combattimento dei fratelli Bianchi e del Belleggia, va senza dubbio esclusa la condizione minima per contestare l'omicidio preterintenzionale". Nell'ordinanza, conclude il gip Boccarrato, "gli informatori sentiti nel corso delle indagini hanno confermato che Willy veniva aggredito nonostante fosse del tutto estraneo alla discussione in corso tra Belleggia e gli amici di Zurma, sicchè i quattro indagati, nel colpirlo e infierendo con crudeltà su un ragazzo inerme, erano animati semplicemente dalla volontà di dimostrare la forza del proprio gruppo".

Caso Willy, per la procura è omicidio volontario: «Violenza sproporzionata». Il Dubbio il 4 febbraio 2021. Si aggrava la posizione dei fratelli Bianchi, finora accusati di omicidio preterintenzionale per la morte del 21enne pestato a morte lo scorso settembre a Colleferro. Cambia l’accusa contestata dalla procura di Velletri per la morte di Willy Monteiro Duarte, il ragazzo di 21 anni ucciso in seguito a un pestaggio a calci e pugni a Colleferro lo scorso settembre. Non più omicidio preterintenzionale ma omicidio volontario. Per il delitto sono indagati Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. La nuova accusa contestata dalla Procura è contenuta in una nuova ordinanza di custodia cautelare, che è stata notificata oggi dai Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Colleferro ai quattro indagati, dopo le nuove indagini. La nuova ordinanza integra e modifica la misura cautelare emessa nel settembre scorso. Il provvedimento è frutto delle indagini compiute dai carabinieri attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, sommarie informazioni testimoniali e accertamenti vari, con cui sono stati raccolti gravi indizi di colpevolezza nei confronti. «Tutti gli elementi conducono naturalmente a ritenere che i quattro indagati non solo avessero consapevolmente accettato il rischio di uccidere Willy, ma colpendolo ripetutamente, con una violenza del tutto sproporzionata alla volontà di arrecargli delle semplici lesioni, avessero previsto e voluto alternativamente la morte o il grave ferimento della vittima», scrive il gip di Velletri Giuseppe Boccarrato nell’ordinanza che integra e aggrava il provvedimento di misura cautelare nei confronti dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Su richiesta della procura, l’imputazione passa da omicidio preterintenzionale a volontario. «Tutti gli elementi confortano senza possibilità di dubbio la qualificazione del fatto in quanto, per la modalità dell’azione, realizzata da più persone coordinate, per la localizzazione e violenza dei colpi, inferti in più parti vitali – si legge nell’ordinanza – per le condizioni in cui versava la vittima, colpita alla sprovvista nella prima fase e poi addirittura quando  inerme in terra nella seconda, e per l’esperienza nelle tecniche di combattimento dei fratelli Bianchi e del Belleggia, va senza dubbio esclusa la condizione minima per contestare l’omicidio preterintenzionale, ovvero la divergenza assoluta tra il risultato voluto e quello effettivamente realizzato». Ad avvalorare l’accusa più grave dell’omicidio volontario, per il gip, anche le dichiarazioni dei testimoni. «Gli informatori sentiti nel corso delle indagini confermavano che Willy veniva aggredito nonostante fosse del tutto estraneo alla discussione in corso tra Belleggia e gli amici di Zurma, sicché i quattro indagati nel colpirlo e infierendo con crudeltà su un ragazzo inerme, erano animati semplicemente – sottolinea il gip – dalla volontà di dimostrare la forza del proprio gruppo».

Natascia Grbic per fanpage.it il 26 marzo 2021. Marco e Gabriele Bianchi, i due fratelli accusati di aver ucciso il 21enne Willy Monteiro Duarte nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, il 14 maggio devono affrontare il processo per un altro pestaggio. Siederanno al banco degli imputati insieme a due amici, uno dei quali era l'autista dell'Audi che ha portato i due fratelli ad Artena la sera dell'uccisione del 21enne (va precisato che il ragazzo è estraneo all'omicidio). La vicenda è riportata da Il Corriere della Sera: secondo quanto ricostruito dall'accusa, i fratelli Bianchi il 13 aprile 2019 hanno pestato selvaggiamente insieme a due amici un uomo di quarant'anni di nazionalità indiana, "colpevole" di avergli detto di non correre con la macchina. Il 40enne, che stava camminando con due amici, è stato quasi investito dalla macchina sulla quale viaggiavano i quattro, e gli ha urlato di fare attenzione. Un rimprovero che il gruppetto, noto ad Artena e nelle zone limitrofe per i comportamenti violenti e prepotenti, non voleva accettare. E così hanno fatto marcia indietro per accanirsi sull'uomo, lasciandolo in terra con il volto tumefatto, il naso rotto e l'orbita dell'occhio destro spostata. Il 40enne è andato in ospedale, dove è stato dimesso con una prognosi di un mese. E ha denunciato i suoi picchiatori, identificati nei fratelli Marco e Gabriele Bianchi e nei suoi due amici. Le accuse per loro sono di lesioni aggravate dalla circostanza di aver agito in più persone. Marco e Gabriele Bianchi sono in carcere dal 6 settembre 2020 perché accusati di aver ucciso, insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, il 21enne Willy Monteiro Duarte. Il ragazzo era intervenuto per aiutare un suo amico gettato per terra proprio dal gruppetto di Artena, quando è stato raggiunto da numerosi pugni e calci, risultatigli poi fatali. Per l'autopsia è stato infatti impossibile determinare quale sia stato il colpo fatale dato che non c'era un solo organo interno che non fosse stato lesionato. E gli imputati – che finiranno a processo il 10 giugno con giudizio immediato – adesso stanno cominciando ad accusarsi tra loro. Francesco Belleggia (l'unico ai domiciliari) ha dichiarato che a colpire Willy erano stati i fratelli Bianchi e che lui non avrebbe partecipato alla rissa (anche se i risultati del Dna aggravano la sua posizione). Marco Bianchi accusa invece Belleggia, dicendo che sarebbe stato lui a spezzargli la gola. Gli altri due hanno dichiarato che non c'entrano nulla, ma le loro versioni sono state smentite dalle numerose testimonianze dei ragazzi presenti sul luogo dell'aggressione.

Gra. Lon. per “la Stampa” l'11 giugno 2021. Willy Monteiro Duarte venne ucciso a calci e pugni, la notte tra il 5 e il 6 settembre scorso a Colleferro, in appena 1 minuto e 25 secondi. Ieri mattina, al tribunale di Frosinone è cominciato il processo contro i quattro giovani accusati di omicidio volontario aggravato dai futili motivi. La «colpa» del povero Willy, 21 anni aspirante chef e aiuto cuoco in un ristorante, era stata quella di difendere un amico. I due assassini più violenti, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, soprannominati i «gemelli» per la loro somiglianza, sono campioni di Mma, tecnica mista di arti marziali. Entrambi, come pure Mario Pincarelli, erano video collegati dal carcere. In aula c'era solo Francesco Belleggia, ai domiciliari. L' udienza di ieri, prevalentemente tecnica, si è conclusa con la decisione della Corte di Assise di respingere la richiesta di rito abbreviato per i quattro imputati, che rischiano dunque l'ergastolo. In aula erano presenti i genitori, Maria Lucia e Armando, e la sorella Milena, ammessi al processo come parte civile. Il presidente ha annunciato che «fino al 31 luglio prossimo, considerata l'emergenza pandemica in atto, agli imputati sarà permessa la presenza al processo solo in videoconferenza». Anche i comuni di Artena, Colleferro e Paliano sono stati ammessi nella costituzione di parte civile nel processo per l'omicidio di Willy Monteiro. Lo ha deciso il presidente della Corte d' Assise di Frosinone, Francesco Mancini unitamente al giudice a latere Chiara Doglietto. «Così come emerso dalle indagini preliminari, Francesco Belleggia non ha partecipato all' aggressione», ha detto uscendo dall' aula l'avvocato Vito Perugini, per poi aggiungere che «abbiamo sempre risposto ai due interrogatori di garanzia che ci sono stati e riteniamo che le nostre versioni siano state complete, esaurienti e riscontrate soprattutto dalle verifiche avvenute nel corso delle indagini preliminari. Vero è che nessuno dei testi non sospetti indica tra gli aggressori il mio assistito». Fuori dal tribunale, un nutrito gruppo di amici e di sostenitori di Willy ha aspettato la famiglia al termine dell'udienza. «Ciao Willy» le semplici ma significative parole stampate in nero sulla T-shirt bianca indossata da molti ragazzi.

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 24 giugno 2021. Un minuto e venticinque secondi per uccidere senza pietà. È stata un'azione fulminea, rapida e molto aggressiva, di gruppo, quella con cui, lo scorso 6 settembre, in una nottata di movida a Colleferro, è stato ucciso senza motivo Willy Monteiro Duarte. Mentre ieri, in un'aula del tribunale di Frosinone, gli investigatori ricostruivano i passaggi di fronte alla Corte di Assise, la mamma del ventunenne di Paliano è dovuta uscire. Si stava accasciando in terra. Sul banco degli imputati, i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, violenti, appassionati di droghe e arti marziali, e i loro amici Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Ieri hanno testimoniato i sei carabinieri che hanno avviato le indagini. «Con i fotogrammi della telecamera di videosorveglianza, poi confermati dallo screenshot inviato da uno dei testimoni, è possibile affermare che l'aggressione costata la vita a Willy Monteiro Duarte è durata un minuto», ha spiegato Agatino Roccazzello, comandante Nucleo operativo radiomobile di Colleferro.

LA RICOSTRUZIONE. La ricostruzione è lineare e allarmante. «In un minuto e 25 secondi - ha precisato meglio il sottufficiale - sono scesi dall'auto, hanno picchiato, sono tornati nell' auto e sono andati via». L'orario esatto è stato registrato dalle telecamere della vicina caserma dei carabinieri, che inquadravano le aree di parcheggio dove si è fermata l'auto dei Bianchi. «Alle 3.23 è arrivato il Q7 dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, con a bordo tre loro amici, sono scesi e alle 3.24 sono ripartiti portando via anche Belleggia». «Era una notte d'estate normale, di movida - ha spiegato invece il comandante della stazione di Colleferro, il maresciallo maggiore Antonio Carella - Ero nel bagno della caserma, che ha una botola che dà su via Buozzi, dove sono successi i fatti. Alle 3,30 ho sentito delle urla non normali, forti e una donna che gridava». E ancora: «Sono sceso in strada in abiti civili. Una persona mi ha raccontato cos' era successo e mi sono precipitato in strada. Uno dei presenti mi ha detto che erano stati dei ragazzi di Artena a ferire Willy, gli ho dato il mio numero e gli ho chiesto se avesse un video, una foto dell'aggressione». Quell' immagine è stata fondamentale: «La foto mi è arrivata alle 3,49 con una targa, quando era da poco giunta l'ambulanza a caricare Willy, sul centro del marciapiede. Risaliti all' intestataria del suv, la moglie del fratello maggiore dei Bianchi, siamo andati ad Artena. Alle 3,55 siamo arrivati in via cardinal Scipioni, dove c' è il locale del fratello, stavano entrando nel bar. Li abbiamo chiamati, erano nervosi, inizialmente hanno fatto finta di non sentirci. Nel locale abbiamo cercato di approcciarli, abbiamo preso un caffè con loro e, mentre parlavo con i Bianchi, mi è arrivata la telefonata per comunicarmi che Willy era morto». Come è stato ucciso Willy è tornato a spiegarlo Roccazzello, il comandante del Radiomobile. A quel punto, la mamma del giovane, piangendo, è uscita dall' aula. «Gli imputati erano tutti e quattro presenti e con parte attiva. I fratelli Bianchi - ha raccontato scendono repentinamente dal suv, parcheggiano. L' atteggiamento di Pincarelli e Belleggia, in particolare, sembra quasi remissivo, quello di un chiarimento verbale, poi sembrano prendere coraggio con l'arrivo dei Bianchi. Willy viene colpito da un calcio, cade, tenta di rialzarsi e viene colpito nuovamente. Sia Belleggia che Pincarelli colpiscono Willy quando è già a terra e non può reagire. Pincarelli va a colpire con dei pugni Willy, Belleggia sferra un calcio come se colpisse pallone, dal basso verso l'alto». A parziale conferma dell'ultimo sfregio, ci sarebbe la traccia, trovata sulla scarpa di Belleggia, del dna di Samuele Cenciarelli, l'amico di Willy che si sarebbe buttato su di lui per salvargli la vita.

"Ti faccio finire sulla sedia a rotelle": la chat segreta dei fratelli Bianchi. Valentina Dardari il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. Le indagini dei carabinieri su un giro di droga ed estorsioni aggravano la posizione degli imputati. Continuano le indagini dei carabinieri sui fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, accusati dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il giovane cuoco 21enne massacrato di botte a Colleferro, nella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre 2020. Nuovi particolari che andrebbero ad aggravare ulteriormente la posizione dei due indagati.

La chat segreta. Secondo quanto riportato da Repubblica, durante le indagini è spuntata anche una chat segreta, chiamata “Gang bang”, nella quale i due fratelli rivolgevano frasi terribili a ragazzi che avevano preso di mira. Frasi del tipo: "Camminerai sulla sedia a rotelle. Pensi che non ci arrivo a Terracina o dove cazzo abiti? Io ti trovo...Credi che io sia l'ultimo arrivato?". O anche: "Un giorno ti avrò davanti e quel giorno lo ricorderai per tutta la vita. Ti trovo". Minacce vere e proprie nei confronti delle loro vittime. E Gabriele Bianchi, il maggiore, usava lo stesso modo di parlare anche rivolgendosi alle donne: "Io la tua donna…deve diventare la mia donna". Cinque le condanne in primo grado per l’uccisione di Willy. Durante l’indagine sono venute fuori immagini, intercettazioni, messaggi che hanno fatto capire agli investigatori il comportamento tenuto dai due ragazzi e dai loro amici. Armi, minacce e offese rivolte ad altri ragazzi, utilizzando a volte anche delle armi. In una occasione, Marco Bianchi e il suo amico Orlando Palone, condannato anche lui in primo grado, erano stati registrati mentre cercavano di distruggere una telecamera di sorveglianza posizionata dai carabinieri davanti alla casa dei due fratelli. Per l’occasione erano ricorsi a un arco, delle frecce e perfino a un fucile ad aria compressa.

I fratelli Bianchi e i loro amici. Il sequestro dei loro cellulari da parte degli investigatori aveva portato alla luce l’esistenza di una chat, chiamata “Gang bang”, usata dai gemelli, così soprannominati per la loro somiglianza, da tre loro amici, Vittorio Tondinelli, Michele Cerquozzi e Omar Sahbani, gli stessi che si trovavano con loro la notte dell’omicidio del 21enne, e da altri conoscenti. Nella chat ci sarebbe anche un video dove si vede chiaramente Palone scendere da una Bmw con una pistola e sparare in aria. Nello stesso video anche un altro loro amico che, impugnando un coltello, mimava l’azione di tagliare la gola a qualcuno. I campioni di MMA e i loro amici facevano paura ovunque, nelle province di Roma, Latina, e anche Frosinone. Quest’ultimo luogo è costato la vita al giovane Willy, pestato a morte dalla banda. Le indagini riguardanti un giro di droga ed estorsioni, facente capo ai due fratelli e ai loro amici, hanno fatto emergere nuovi particolari che non vanno certo ad alleggerire la posizione degli imputati. Minacce, armi, droga: il cocktail perfetto per beccarsi diversi anni dietro le sbarre. Senza contare la morte di Willy, pestato a morte solo per aver cercato di difendere un amico.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Alessia Marani per "il Messaggero" il 25 giugno 2021. I fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, imputati per la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni il 6 settembre del 2020 a Colleferro, vicino Roma, avevano una loro banda. E con gli altri membri tenevano una chat segreta nominata gang bang e successivamente ribattezzata anche come la gang dello scrocchio ossia del pestaggio, nella quale si scambiavano commenti, foto e video dei raid e delle bravate. Armi in pugno, coltelli, pistole e persino fucili, come in Gomorra. File e messaggi (anche audio) estrapolati dai telefonini sono stati depositati agli atti dell'inchiesta Snow, per spaccio ed estorsione, condotta dai carabinieri di Velletri e finita, a maggio, con le condanne, tra gli altri, degli stessi gemelli a 5 anni e 4 mesi. Durante le indagini dei militari, dopo un episodio di violenza nei confronti di un giovane di Lariano e del padre, vengono sequestrati i telefoni dei Bianchi. È il 5 settembre del 2019, un anno e un giorno prima dell'omicidio del ventunenne di Paliano. Spunta la chat del gruppo di cui fanno parte anche Vittorio Tondinelli, Michele Cerquozzi e Omar Shabani (i tre amici che erano a Colleferro quando Willy è morto, sentiti come testi al processo), oltre a Orlando Palone, Andrea Cervoni, Valentino Fabiani, un tale Gianluca e altri. Non ci sono Francesco Belleggia, l'unico ai domiciliari per l'omicidio di Monteiro, e Mario Pincarelli. Dai telefoni vengono estrapolati anche i messaggi minatori che i Bianchi inviano ad alcune delle vittime. Intimidazioni cariche di ferocia e violenza. A un giovane di Terracina che accusa di avere avuto una relazione con la sua fidanzata, Gabriele (alias Cicos) dice: «Camminerai sulla sedia a rotelle. Pensi che non ci arrivo a Terracina o dove ca.. abiti? Io ti trovo...». Con un altro vocale ribadisce: «Un giorno ti avrò davanti e te lo ricorderai per tutta la vita». E come se non bastasse: «Io la tua donna... deve diventare la mia donna. Te lo giuro, che tanto tu cammini sopra la sedia a rotelle». A un amico che gli chiede consiglio su un tizio, Marco risponde: «A sto Victor gli ha menato Gabriele l'anno scorso, poi gli ha menato pure Omar, poi isso o sapeva chi eravamo e ci ha offerto pure da bere». Nel fascicolo, anche i fotogrammi che ritraggono Marco e Palone che tentano di mettere fuori uso la telecamera piazzata dai carabinieri con arco e freccia. Nella chat stile Gomorra ecco comparire un primo piano di Gabriele che mostra un Rolex al polso. Gianluca impugna un coltello, poi si mostra seduto su una sdraio, a petto nudo, in casa davanti alla tv e punta spavaldo quella che sembra a tutti gli effetti una pistola verso l'obiettivo. Un altro ragazzo ha in mano una semiautomatica e Marco Bianchi posta un video in cui si vede Palone scendere da una Bmw e sparare in aria con una pistola. Poi in tre, in piedi sopra una jeep come dei guerriglieri nel deserto, pistole in pugno. I gangstar della Valle del Sacco bevono, si abbracciano, selfie a go go. Qualcuno si vanta di avere steso «quel porco albanese». Agli atti c'è anche un'altra intercettazione che la dice lunga su quello che per la Procura di Velletri era «un modus operandi ormai collaudato» della banda e poi tristemente ripetuto un anno dopo con Willy. Alle 00,30 del 4 settembre 2019 Shabani chiama Marco Bianchi: «Corri, c'è un altro problema all'Alter Ego (locale di Cisterna di Latina, ndr)». E Marco risponde: «Sto arriva'». A un'altra chiamata, Bianchi replica arrabbiato: «Sto arriva'.. non è che mi posso ammazza' per i ca... tuoi». Per la Procura è assodato che «per ogni problema vengono chiamati i Bianchi». Per picchiare con la loro Mma, arti marziali e boxe. A Colleferro sia Shabani che Cerquozzi, nonostante la discussione tra Belleggia che si trovava in piazza e l'amico di Willy stesse finendo, telefonano ai fratelli per dire di correre, che c'è un problema. E quelli arrivano con Tondinelli e si accaniscono sul povero Willy. Anche quella notte la gang voleva il suo spettacolo.

Da notizie.virgilio.it l'1 luglio 2021. Sono state rese pubbliche altre testimonianze che aiutano a ricostruire quanto avvenuto tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro, in provincia di Roma, quando Willy Monteiro Duarte venne massacrato da un gruppo di ragazzi. A parlare sono tre ragazze che si erano appartate con i fratelli Bianchi e un altro amico, e la loro versione confermerebbe che il giovane di origini capoverdiane sarebbe stato ucciso nel giro di pochissimo tempo. Ne dà notizia Repubblica. Dopo una cena a Velletri con le rispettive fidanzate, e dopo averle riaccompagnate ad Artena, Marco Bianchi e Gabriele Bianchi si sarebbero diretti a Colleferro insieme a Vittorio Tondinelli. I tre avrebbero dovuto incontrare degli amici. Nello stesso momento Francesco Belleggia e Mario Pincarelli sarebbero stati avvicinati nella zona della movida di Largo Santa Caterina da Luisa, Giulia e Francesca (nomi di fantasia, ndR), arrivate con l’autobus da Labico. Da alcuni mesi Luisa aveva intrapreso una relazione clandestina con Marco Bianchi, dopo averlo conosciuto proprio a Colleferro. I due fratelli e l’amico avrebbero così invitato le tre ragazze a salire sul suv per dirigersi nei pressi del cimitero e appartarsi per fare sesso. Francesca sarebbe scesa dall’auto per stare con Tondinelli, la 18enne Giulia e la 17enne Luisa invece sarebbero rimaste sopra l’Audi Q7. “Se ben ricordo rimanemmo lì per circa un’oretta”, avrebbe riferito quest’ultima ai Carabinieri, per poi raccontare di una telefonata arrivata a Gabriele Bianchi. Lui avrebbe così avvertito il fratello e l’amico che qualcuno stava litigando nella zona dei locali e “loro dovevano accorrere per dargli una mano”. La chiamata sarebbe partita da due amici dei Bianchi che avrebbero deciso di far intervenire i due atleti di mma in una litigata in cui erano coinvolti Pincarelli e Belleggia, nonostante questi ultimi non facessero parte del solito giro di frequentazioni dei fratelli di Artena. Una volta tornati nella via dei pub, i tre uomini sarebbero scesi velocemente dal suv. Le tre sarebbero rimaste “in auto, attonite e confuse perché non capivamo cosa stesse accadendo”. “Era palese che stesse accadendo qualcosa, tipo un litigio”, avrebbe dichiarato Luisa ai Carabinieri. “Ma io non ho visto nessuno sferrare pugni o tirare calci”, nonostante il pestaggio a pochi metri. “Dopo circa cinque minuti ricordo che Marco, Gabriele e Vittorio tornavano verso l’auto e a quel punto ricordo che Marco mi diceva di scendere subito insieme alle mie amiche, senza darmi una spiegazione”. I tre si sarebbero subito dileguati, per poi essere raggiunti dai Carabinieri. “Mentre andavo via con le mie amiche, ho visto un ragazzo di colore, riverso a terra, sul marciapiede a pochi metri da dove ci eravamo fermati prima con l’auto, immobile, con accanto alcune persone che gli davano il primo soccorso”, anche se per Willy non c’è stato nulla da fare. Le tre avrebbero così deciso di entrare in un locale “sino alle 4 circa a bere qualcosa, fino a che abbiamo trovato un ragazzo che ci ha accompagnate a casa”. Versione confermata da Giulia, che avrebbe aggiunto di non essersi accorta della mattanza: “Soffro di miopia e quella sera non indossavo gli occhiali perché li avevo dimenticati a casa, quindi da lontano non riesco a vedere granché”. Salvo poi ammettere: “Abbiamo visto riverso in terra un ragazzo di colore, steso sul marciapiede e tanta gente intorno a lui”. “Abbiamo chiesto a un gruppo di ragazzi se ci potevano dare un passaggio a Labico e un ragazzo che non avevo mai visto prima si è offerto di darci un passaggio. Non ho parlato con nessuno di quella sera”, se non con le amiche. “Non ne avevo parlato né con mia madre né con mio padre”. Dai racconti, oltre all’evidente quadro di disagio e indifferenza, o forse di assuefazione a una quotidiana e ordinaria violenza, emerge che Willy sarebbe stato ucciso in pochi attimi. Un minuto e mezzo, secondo quanto rilevato dai legali ascoltati durante il processo per omicidio ai danni dei fratelli Bianchi, Belleggia e Pincarelli. 

Natascia Grbic per fanpage.it il 16 luglio 2021. "Stavo scendendo le scale e un ragazzo mi ha tirato un bacio, mi hanno detto poi che era Pincarelli. Qualcuno lo ha riferito al mio ragazzo, Alessandro, che è tornato indietro e la discussione tra lui e un altro ragazzo con il braccio ingessato, (Belleggia, ndr.) si è conclusa poi con una stretta di mano. Belleggia gli disse: “il mio amico lascialo stare, non è in sé questa sera'. Era tutto finito, ma poi quando stavamo andando via ci siamo accorti che uno di noi, Federico, non era più con noi. Siamo tornati indietro e lo abbiamo visto volare dalle scale". A parlare nell'aula di tribunale dove si sta celebrando il processo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, è la ragazza molestata da Mario Pincarelli. Molestia che ha innescato la discussione degenerata poi nella rissa e nel pestaggio che ha provocato la morte del 21enne di Paliano.

L'arrivo dei fratelli Bianchi. "Alessandro ci ha poi detto di andare via, che era arrivato un suv con a bordo alcune persone raccomandabili. Ho visto Willy avvicinarsi, ma non il momento dell'aggressione". Su quel Suv c'erano i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, lottatori professionisti di MMA chiamati da un ragazzo del gruppo, che non risulta indagato in questo procedimento. Dalle indagini effettuate dagli inquirenti sul giro di droga dei Bianchi, è emerso come i loro amici li chiamassero ogni qualvolta c'erano difficoltà. E per difficoltà si intende il dover menare le mani. Non solo: i due, secondo quanto dichiarato da alcuni testimoni, erano soliti fare recupero crediti per debiti di droga. "I due fratelli Bianchi avevano la fama di essere persone temute. Persone da cui tenersi a distanza. Si sapeva che era meglio non guardarli perché si rischiava di essere picchiati", spiega in aula un altro testimone.

La dinamica dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte. Lo stesso testimone ha poi dichiarato di aver visto Willy colpito da un calcio. "La sera del 5 settembre scorso io ero in piazza a Colleferro insieme ai miei amici, ho visto Willy colpito al petto da un calcio e finire contro una Panda blu vecchio modello". Il ragazzo era stato sentito dai carabinieri già il 14 settembre, ossia nove giorni dopo i fatti. E su quella maledetta sera ha raccontato: "All'improvviso ho notato salire una agitazione improvvisa, alcuni miei amici sono venuti verso di me dicendomi di andare via, ed è stato allora che ho visto Willy colpito da calcio al petto da un ragazzo e sbattere contro una Panda blu vecchio modello. Conoscevo Willy di persona perché aveva frequentato la stessa scuola del mio amico, quello colpito dal pugno, quando si incontravano si fermavano sempre a parlare. Sapevo che Willy era intervenuto perché voleva cercare di capire cosa stesse succedendo al mio e al suo amico".

Michela Allegri per "il Messaggero" il 23 luglio 2021. Circondato, aggredito mentre era a terra inerme, boccheggiante. È il racconto di un atto di violenza cieca quello che gli amici di Willy Monteiro Duarte fanno nell'aula della Corte di Assise del Tribunale di Frosinone. Descrivono il pestaggio costato la vita al giovane cuoco di Paliano, ventunenne, ucciso a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre scorsi, a Colleferro. Per quella morte, sul banco degli imputati ci sono i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. L'accusa è omicidio volontario. Ieri sono stati ascoltati cinque testimoni. «Willy era a terra, aveva le convulsioni. Boccheggiava come un pesce fuori dall'acqua», dice Jorghe Zequiri. Parole troppo difficili da ascoltare per la mamma di Willy, Lucia, che si mette una mano sugli occhi, batte i piedi, si strofina la fronte, mentre il ragazzo descrive ancora il pestaggio «violento». Gli imputati, esperti in arti marziali, «sembravano addestrati per fare una cosa del genere. E stata una aggressione selvaggia, con calci e pugni al petto, al torace - racconta Zequiri -Ho visto Willy cadere dietro una macchina, e quelli che continuavano a tiragli calci». Era accerchiato. «Ho visto Pincarelli colpire Willy quando si è rialzato dopo il primo calcio sferrato da Gabriele Bianchi», ha invece detto Matteo Larocca. La situazione era precipitata in pochi secondi: «Ho sentito il rumore di un'auto che arrivava a forte velocità. Era un'Audi Q7 nera, che ha inchiodato. Sono scesi Gabriele e Marco, che hanno iniziato a menare i più vicini. Ho visto Gabriele colpire Willy con un calcio che lo ha fatto volare e sbattere la schiena contro lo sportello passeggero di sinistra della macchina parcheggiata. Willy si è rialzato e ho visto alcuni componenti di un gruppo di persone, tra cui anche Pincarelli, colpirlo. Mentre era a terra lo hanno continuato a picchiare con i calci. Poi sono saliti sulla Q7 e, prima che andassero via, con il telefono ho fotografato la macchina». Quella foto, fornita ai carabinieri, ha permesso di identificare gli imputati. «È successo tutto in trenta secondi», ha aggiunto Larocca. Cristiano Romani ha invece dichiarato che i quattro «avanzavano come una falange. È stata un'aggressione a caso. Willy si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ho visto Gabriele Bianchi scendere dall'auto a braccia aperte, come fosse furioso, e ha tirato un calcio. Non ho visto a chi, ma ho visto cadere Willy. Era un calcio frontale potente, di quelli che colpiscono con la pianta del piede». Prima del pestaggio «ho sentito una voce urlare: Stanno arrivando i Bianchi». Un altro testimone, Alessandro Rosati, ha sottolineato che Willy, intervenuto per difendere un amico, «era passivo era fermo, assisteva alla scena e non capisco perché i Bianchi abbiano aggredito proprio lui». La miccia sarebbe stata uno sguardo di troppo, ha detto Federico Zurma, del quale Willy aveva preso le difese: «Belleggia mi ha chiesto perché lo stavo fissando e mi ha sferrato un cazzotto. Sono caduto per le scale. Per un attimo ho perso i sensi. Mi sono alzato e Belleggia non c'era più. Sono andato a cercarlo per chiedere spiegazioni, poi la zona si è riempita di persone. Il confronto verbale è durato 5 minuti ed è seguito un contatto fisico a suon di spinte. Poi sono arrivate due persone, a tutta velocità, ed hanno iniziato ad aggredire la gente. Sono andati addosso ai ragazzi che ci separavano, sferrando calci e pugni. Poi ho sentito qualcuno che diceva che Willy era a terra. Tantissime persone cercavano di soccorrerlo, gettandogli acqua e tentando di farlo respirare. Poi me ne sono andato. Ho chiamato un nostro amico per sapere le sue condizioni. A Belleggia ero andato a chiedere spiegazioni sul perché il suo amico avesse fatto degli apprezzamenti poco graditi a una ragazza che era nel mio gruppo».

Lucia, la madre, rivive lo strazio in aula. Omicidio Willy, un teste al processo: “Boccheggiava come un pesce fuori dall’acqua”. Gianni Emili su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Si è tenuta nel Tribunale di Frosinone una nuova udienza del processo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Diversi i testimoni che hanno raccontato ciò a cui hanno assistito quella sera partendo dall’inizio della discussione con Belleggia e Pincarelli, e l’arrivo dei fratelli Bianchi in piazza Oberdan, a Colleferro. Sul banco dei testimoni sale Federico Zurma, l’amico che Willy stava cercando di difendere, che si trovò nel mezzo della discussione iniziale poi degenerata nel brutale omicidio. La lite iniziale, quella in cui Willy non aveva alcun ruolo, i motivi della discussione, la dinamica, l’intervento del giovane di Paliano e poi la violenza immotivata contro di lui. Nella corte d’assise del tribunale di Frosinone sono stati questi i temi affrontati grazie al racconto di due testimoni chiave: Federico Zurma, l’amico, e Alessandro Rosati il fidanzato della ragazza che aveva ricevuto gli apprezzamenti. È stato lui a dire “Willy aveva un ruolo passivo, non riesco a capire perché se la siano presa con lui”. “Conoscevo Willy dai tempi della scuola, siamo entrambi cuochi e quando ci incontravamo parlavamo del lavoro, di ragazze. – Inizia così la testimonianza dell’amico d’infanzia di Willy Monteiro Duarte – L’ho rivisto quella sera mezz’ora prima che Belleggia, a cui ero andato a chiedere spiegazioni sul perché il suo amico (Pincarelli) avesse fatto degli apprezzamenti poco graditi a una ragazza che era nel mio gruppo, mi colpisse all’improvviso con un pugno facendomi cadere dalle scale. Dopo essere rivenuto ho rivisto Belleggia sul luogo dell’aggressione. Ci siamo nuovamente confrontati, stavolta con qualche spinta, fino all’arrivo dei fratelli Bianchi. In quel punto c’era anche Pincarelli. Erano arrivati i miei amici e nel giro di pochi minuti la piazza si è riempita. C’era gente che guardava, qualcuno si era messo in mezzo. Il confronto con Belleggia è durato cinque minuti. C’è stata qualche spinta reciproca”. Poi l’arrivo dei Bianchi con Pincarelli e Belleggia che erano appena indietreggiati “i quattro hanno avanzato come una falange, è stata un’aggressione a caso, a chiunque avessero avuto di fronte. Willy si trovava al posto sbagliato al momento sbagliato – testimonia Cristiano Romani che quella sera era nel gruppo di amici di Federico – Poi ho visto la loro auto che arrivava sfrecciando da via Buozzi, un suv Audi scuro che ha frenato di colpo. Gabriele (Bianchi ndr.) è sceso di corsa e l’ho visto sferrare un calcio in petto a Willy. Dopo il calcio, ho visto Willy cadere in terra e poi rialzarsi e poi ho visto altri piombargli addosso”. Gli attimi sono concitati, in piazza Oberdan ci sono decine e decine di persone accorse per sostenere o soltanto per assistere alla lite tra Federico Zurma e Francesco Belleggia. Nel ripercorre le fasi concitate di quella serata, Alessandro Rosati ha riconosciuto tutti i quattro imputati per omicidio volontario e poi a proposito del calcio sferrato a Willy ha specificato: “Si trattò di un calcio tirato da qualcuno che lo sapeva fare, con una determinata tecnica, con una determinata potenza”. Un colpo devanstante per Willy tanto che un altro testimone, Jorghe Zequiri, ha raccontato: “Willy era a terra, lo hanno circondato. Non so dire chi erano con precisione, ma intorno a lui c’erano tre o quattro persone. È stata un’aggressione velocissima. Ho visto Willy a terra, boccheggiava come un pesce. Lo hanno colpito con pugni e calci”. Lucia, la madre di Willy, che aveva saltato l’udienza con la testimonianza del medico legale è invece oggi di nuovo presente in aula anche se fa molta fatica a reggere le parole di Zequiri che le fa rivivere lo strazio dell’aggressione a suo figlio. “Sembravano addestrati per fare una cosa del genere – conclude Zequiri- È stata una aggressione selvaggia, con calci e pugni al petto, al torace. Ho visto WILLY cadere a terra, dietro a una macchina, e quelli che continuavano a tiragli calci”. Gianni Emili 

Enrico Tata per fanpage.it il 21 luglio 2021. Un'altra condanna per la banda dei fratelli Bianchi, presunti responsabili dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro. Il 21enne Andrea C., amico dei Bianchi, è stato condannato a tre anni di reclusione nell'ambito di una inchiesta su un giro di estorsioni e spaccio di cocaina tra Velletri e Lariano, gestito proprio dalla banda. Il condannato era accusato di essere al centro di questi affari di droga e di aver estorto un debito di 20 euro a un ragazzo di Lariano. La vittima è stata massacrata di botte. "Fanno i grandi in paese, intimoriscono tutti. Spadroneggiano ma solo con gente come me, ossia con i più deboli", ha dichiarato la vittima. E proprio a causa di questo clima di terrore, probabilmente alcuni dei loro clienti hanno avuto paura a fare i loro nomi e quattro di loro sono finiti indagati con l'accusa di favoreggiamento.

La banda dei Bianchi al centro di un traffico di droga in zona Castelli Romani. L'indagine è stata coordinata dai carabinieri del nucleo operativo e radiomobile della compagnia di Velletri. Il giro di droga era gestito con un linguaggio in codice in cui la sostanza stupefacente veniva di volta in volta chiamata "caffè", "aperitivo, "chiavi". Ogni volta si decideva luogo, data e orario della consegna e il traffico è andato avanti anche nel periodo del lockdown, sfruttando le poche occasioni per effettuare spostamenti. I clienti erano a conoscenza del fatto che bisognava pagare nei tempi, altrimenti si rischiava di subire minacce e spedizioni punitive. Proprio dall'aggressione al ragazzo di Lariano, infatti, sono partite le indagini. Il suo debito era di venti euro appena per l'acquisto di cocaina. È stato massacrato di botte dal condannato e da un altro ragazzo. I fratelli Bianchi sono accusati di essere i mandanti. Tra l'altro uno dei due indagati avrebbe minacciato la giovane vittima con queste parole: "Sei un infame tu e tuo padre, siete solo dei pezzi di merda… avete torto marcio e andate pure a fa la denuncia infami… morti de fame". Nell'ordinanza con cui il gip ha disposto le misure cautelari è stato rilevato come i fatti appaiano "chiaramente indicativi di una spiccata capacità delinquenziale e di un'attività posta in essere in modo sistematico". Gli stessi "denotano uno stretto collegamento con ambienti criminali di più alto livello".

"Tranquillo, tanto i soldi so' a nome di papà". L'ultimo guaio dei fratelli Bianchi è sul reddito di cittadinanza. Clemente Pistilli su La Repubblica il 24 luglio 2021. La procura chiude le indagini nate sullo strano tenore di vita degli assassini di Willy, indagati i genitori. Nel mirino stavolta il sussidio percepito dai due attraverso la famiglia e revocato dopo l'omicidio. Mentre i figli inondavano i social di foto in cui ostentavano ricchezza, tra gite in barca nell'arcipelago pontino, vacanze da mille e una notte a Positano, moto potenti, suv e orologi costosi, papà e mamma Bianchi sostenevano di essere talmente poveri da aver bisogno del reddito di cittadinanza per poter sopravvivere.

Da iltempo.it il 24 agosto 2021. I fratelli Gabriele e Marco Bianchi menano le mani anche in carcere e finiscono nel braccio G9 primo piano del carcere di Rebibbia, quello dove sono rinchiusi i detenuti più pericolosi e più a rischio ritorsioni come pedofili, collaboratori di giustizia e stupratori. I due sono accusati con Mario Pincarelli dell'omicidio del giovane Willy Monteir Duarte, in seguito a un brutale pestaggio vicino a un locale a Colleferro.  Ora sono stati trasferiti dal braccio G12 piano terra dove sono stati rinchiusi per i 14 giorni di quarantena. Gli altri reclusi non li vogliono accanto, scrive il Giornale che riporta la denuncia dell'associazione "Detenuti Liberi" secondo cui i fratelli di Artena avrebbero litigato con un marocchino che si era rivolto a loro mentre si recavano in parlatorio. L'episodio ha spinto la figlia dello straniero a chiedere la protezione dai fratelli Bianchi al Garante del Lazio, Stefano Anastasìa. La situazione è esplosiva tra i Bianchi e gli altri detenuti. Urla e insulti contro i fratelli si susseguono di notte e di giorno, e si parla "persino di sputi nei piatti in cui mangiano", riporta il quotidiano. Ora sono reclusi nel braccio degli "infami":

I fratelli Bianchi in carcere: "Vogliono accoltellarci e ci sputano nel piatto. Noi trattati da infami". Le intercettazioni dei colloqui. Clemente Pistilli su La Repubblica il 18 settembre 2021. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli sono imputati per l'omicidio del 21enne di origine capoverdiana ucciso nella notte tra il 5 e il 6 settembre dell'anno scorso a Colleferro per aver cercato di aiutare un amico in difficoltà. Niente champagne, vacanze da sogno e auto potenti da esibire sui social. Nessun locale in cui mostrare i muscoli e nessuno che abbassa lo sguardo davanti alle loro violenze. In carcere c'è da pensare a lavarsi i panni e a cucinarsi qualcosa, ma soprattutto c'è da affrontare un inferno per chi è accusato di aver massacrato senza motivo un ragazzino come Willy Monteiro Duarte.

Willy Monteiro, i fratelli Bianchi e le ammiratrici: “Quelle ti vedono ai tg e ti scrivono a Rebibbia”. Clemente Pistilli su La Repubblica il 19 settembre 2021. Gabriele Bianchi, imputato insieme al fratello Marco e ad altri due giovani di Artena per l'omicidio del 21enne massacrato l'anno scorso a Colleferro, proprio per quell'orrore sembra attrarre alcune ragazze, che gli scrivono in carcere e di cui la fidanzata è gelosa. "Tu non sai quello che fanno, so schifose proprio. Ti sto dicendo, se quelle vedono una cosa, non so il telegiornale, vedono nome e cognome, e sanno che stai a Rebibbia, basta mette nome e cognome e scrivi". Gabriele Bianchi ha delle ammiratrici. Imputato insieme al fratello Marco e ad altri due giovani di Artena per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato senza motivo nella notte tra il 5 e il 6 settembre dell'anno scorso a Colleferro, il campione di MMA, tecnica mista di arti marziali, proprio per quell'orrore sembra attrarre alcune ragazze, che gli scrivono in carcere e di cui la fidanzata è gelosa. 

Natascia Grbic per fanpage.it il 18 settembre 2021. "Ci sputano nel piatto, ci chiamano infami. Una volta mi hanno messo un chiodo dentro il dentifricio. Ci stanno i bravi e ci stanno quelli non bravi, le merde". Sono queste le parole, riportate da la Repubblica, che Marco Bianchi ha detto al fratello durante un colloquio in carcere, intercettato dai carabinieri. I tre ragazzi accusati della morte di Willy Monteiro Duarte che dal giorno dell'omicidio si trovano in carcere, non starebbero passando un bel periodo. Mario Pincarelli, e i fratelli Gabriele e Marco Bianchi, sarebbero infatti presi di mira dagli altri detenuti. Insulti, minacce di morte, screzi, e anche botte. A passarsela peggio sarebbe Mario Pincarelli. Al padre, durante un colloquio, ha detto: "Che cazzo mi frega a me che mi picchiano". Il ragazzo ha raccontato che alcuni gli avrebbero urlato di impiccarsi e che lui avrebbe effettivamente pensato di farlo.  A essere toccato nei colloqui, è anche il tema degli insulti social che sono arrivati sulle pagine di tutti e quattro gli imputati nel processo. Migliaia di commenti alle loro foto, insulti e minacce di morte. Mentre sarebbero sei milioni i messaggi arrivati solo a Gabriele Bianchi sul suo profilo privato, "figlio di puttana, tutte le peggio cose". Il processo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte continua ad andare avanti. Nelle scorse udienze sono stati ascoltati i numerosi testimoni che hanno assistito al massacro e che hanno indicato nel gruppo di Artena gli autori del pestaggio che ha portato alla morte del 21enne di Paliano. "Dopo il primo calcio ho provato a soccorrere Willy per portarlo via, ma appena ho provato ad afferrarlo mi è arrivato un calcio alla gola. Ho alzato anche le mani. Lui mentre era a terra veniva picchiato e ogni volta che provava a rialzarsi continuavano a picchiarlo con calci e pugni. Tutti e quattro picchiavano". Queste le parole di un amico di Willy che la notte tra il 5 e il 6 settembre era insieme a lui in piazza Oberdan. Il ragazzo si riferisce a tutti e quattro gli imputati nel processo: Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, l'unico del gruppo a trovarsi ai domiciliari. Tutti e quattro devono rispondere dell'accusa di omicidio volontario: rischiano l'ergastolo. Non erano personaggi sconosciuti alle forze dell'ordine i quattro di Artena. Soprattutto i fratelli Marco e Gabriele Bianchi erano noti per diverse aggressioni compiute negli anni e soprattutto per essere a capo di un giro di spaccio non solo ad Artena, ma anche nei comuni limitrofi. I due sono stati condannati in primo grado a cinque anni e quattro mesi per spaccio e lesioni nell'ambito di un'indagine condotta dai carabinieri di Colleferro dal 2019. Secondo quanto emerso nella fase investigativa, la loro fonte di sostentamento principale era lo spaccio di droga. I due si sarebbero mantenuti vendendo hashish, cocaina ed eroina e non avrebbero avuto altre entrate, tanto che entrambi non avrebbero mai presentato la dichiarazione dei redditi.

"Ci sputano nel piatto, poi...". Il carcere dei fratelli Bianchi. Valentina Dardari il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. Gli imputati per la morte di Willy Monteiro Duarte sono ricoperti sui social da insulti e minacce. I fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, accusati dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il giovane cuoco 21enne massacrato di botte a Colleferro nella notte tra sabato 5 e domenica 6 settembre 2020, adesso hanno paura. Rinchiusi in carcere starebbero vivendo un inferno e temono per la loro vita. Intercettato dai carabinieri durante un colloquio con il fratello, Marco Bianchi, secondo quanto riportato da Repubblica, avrebbe raccontato:“Ci sputano nel piatto, ci chiamano infami. Una volta mi hanno messo un chiodo dentro il dentifricio. Ci stanno i bravi e ci stanno quelli non bravi, le merde". Mario Pincarelli e i due gemelli, così chiamati per la loro somiglianza, non starebbero certo trascorrendo un bel periodo, continuamente presi di mira dagli altri galeotti. Anche Pincarelli, il terzo ragazzo dietro le sbarre per l’omicidio di Willy, avrebbe detto al padre: “Che cazzo mi frega a me che mi picchiano", dopo avergli raccontato dell’invito degli altri carcerati a impiccarsi e di averci anche pensato. Senza contare tutti gli insulti arrivati sui social direttamente sulle pagine dei tre giovani. Con tanto di minacce di morte. Solo sul profilo privato di Gabriele Bianchi si sarebbero 6 milioni i messaggi a lui indirizzati, e tra questi:“Figlio di puttana, tutte le peggio cose". Intanto il processo per la morte del 21enne di Paliano, iniziato lo scorso 10 giugno davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, prosegue. Tante le testimonianze ascoltate di persone che avevano assistito all’aggressione di Willy e che hanno additato gli imputati come i colpevoli. Un amico della vittima, con lui in piazza Oberdan quella tragica notte, ha ricordato: “Dopo il primo calcio ho provato a soccorrere Willy per portarlo via, ma appena ho provato ad afferrarlo mi è arrivato un calcio alla gola. Ho alzato anche le mani. Lui mentre era a terra veniva picchiato e ogni volta che provava a rialzarsi continuavano a picchiarlo con calci e pugni. Tutti e quattro picchiavano". Il testimone si è riferito a tutti gli imputati nel processo: i fratelli Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Quest’ultimo si trova ai domiciliari. Il gruppetto è accusato di omicidio volontario e rischia l’ergastolo. Tutti sono esperti di arti marziali e ben conosciuti dalle forze dell’ordine. I fratelli Bianchi, campioni di MMA, e i loro amici facevano paura ovunque nelle province di Roma, Latina, e anche Frosinone. Protagonisti di aggressioni, minacce, estorsioni, e a capo di un giro di spaccio, grazie al quale vivevano, vendendo cocaina, eroina e hashish. Marco e Gabriele sono stati condannati in primo grado a cinque anni e quattro mesi proprio per spaccio e lesioni in seguito a una indagine condotta dai carabinieri di Colleferro e iniziata nel 2019.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Clemente Pistilli per "la Repubblica - Edizione Roma" il 20 settembre 2021. «L’hanno messo in prima pagina manco se fosse morta la regina», a parlare è la madre dei fratelli Bianchi colpita dal risalto mediatico e non dalla tragedia per la morte del 21enne di Paliano. Quella di Willy è anche una storia di mamme. È la storia di mamma Lucia, che il 6 settembre dell’anno scorso ha ricevuto una telefonata nella sua casa a Paliano con cui le è stato detto che il figlio era stato appena ucciso senza un perché nella vicina Colleferro, che da allora vive nel ricordo di quel giovane dagli occhi buoni e che non perde un’udienza del processo, senza mai dire una parola e limitandosi a coprirsi il volto con le mani quando i particolari riferiti dai testimoni su quel pestaggio diventano raccapriccianti. Ed è la storia di Simonetta Di Tullio, la madre dei fratelli Marco e Gabriele Bianchi, i campioni di arti marziali, i principali imputati. La Di Tullio non ha mai parlato dopo il dramma, non ha mai scritto ai genitori di Willy Monteiro Duarte ed è finita insieme al marito con un avviso di garanzia per aver percepito il Reddito di cittadinanza senza averne diritto. Un’ombra che per la prima volta prende forma nel colloquio a Rebibbia col figlio Gabriele intercettato dai carabinieri e finito nella perizia disposta dalla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone. Lei è stupita del risalto mediatico dato alla tragedia del 21enne. «Non è mica morta la regina» commenta. Appare preoccupata per i figli ritenuti due massacratori, pensa che presto usciranno puliti da quella vicenda ed è infastidita da chi ha voltato loro le spalle. La donna sembra angosciata soprattutto per il figlio Marco, che non ha reagito bene al carcere come Gabriele. E a quest’ultimo non nasconde il dolore che ha provato quando è andata a fargli visita: «A momento mi moro (muoio)». Tra i problemi principali per Simonetta Di Tullio sembra appunto esserci quello che i più non hanno fatto quadrato attorno alla sua famiglia. E scarseggiano pure i soldi. «Non ci sta più nessuno - dice a Gabriele - ti hanno abbandonato tutti amore mio! Si tenemo venne (ci dobbiamo vendere) le macchine, tutto perché non c’è rimasto più niente». Sembra sia lei a farsi carico della situazione. Il marito non ce la fa: «Quel poraccio di padrito ( tuo padre) quello te lo dico non tiene coraggio a venì né qua, né da ti e né da.. sennò gli piglia l’infarto». Non manda giù «tutte le cose brutte» che dicono ai figli ed è furiosa con la fidanzata di Marco che lo ha scaricato. A Gabriele fa dunque una promessa: «Quando sarà tutto finito, quante persone mi levo dananzi (davanti).. quante!» . Per lei è successa una «disgrazia», non è « morta la regina» , i figli stanno in carcere «da innocenti» e soprattutto non si fida «più di niciuno (nessuno) » . Più chiaramente: «Una volta dimostrato.. tutta quella fanga che ci hanno messo in cima e che hanno visto l’innocenza di te e di tuo fratello saremmo soltanto noi famiglia a casa mia». 

Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 19 settembre 2021. «Tu non sai quello che fanno... Ti sto dicendo, se quelle vedono una cosa, non so il telegiornale, vedono nome e cognome, e sanno che stai a Rebibbia, basta mette nome e cognome e scrivi». Gabriele Bianchi ha delle ammiratrici. Imputato insieme al fratello Marco e ad altri due giovani di Artena per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato senza motivo nella notte tra il 5 e il 6 settembre dell'anno scorso a Colleferro, il campione di MMA, tecnica mista di arti marziali, proprio per quell'orrore sembra attrarre alcune ragazze, che gli scrivono in carcere e di cui la fidanzata è gelosa. Non è il primo caso del genere. Angelo Izzo, il massacratore del Circeo, dopo uno scambio epistolare si sposò anche da detenuto. Una storia che si ripete per "i gemelli", come vengono chiamati i due fratelli di Artena. Particolari che emergono ora dalla perizia sulle intercettazioni effettuate dai carabinieri a Rebibbia. Figlia di un esponente di Forza Italia a Velletri ed ex candidata con FI alle regionali 2018, Silvia Ladaga era incinta quando Willy è stato ucciso. La giovane non ha abbandonato Gabriele Bianchi e, un mese e mezzo dopo il dramma, andandolo a trovare in carcere insieme alla madre dell'imputato, Simonetta Di Tullio, viene intercettata mentre non fa mistero di essere gelosa delle donne attratte da lui e che gli scrivono a Rebibbia. «A quelle.. ma io a quelle ... neanche gli scrivo, forse...», la rassicura lui.

Ancora: «Scherzando gli ho detto: se vuoi scrivi a mio fratello, gli ho detto scherzando, perché lui è single, ma non è che quella è capace che gli ha scritto, può esse che manco gli ha scritto». L'imputato fa dunque la proposta di matrimonio alla fidanzata: «Io ti sto dicendo che io per te adesso, adesso, questa cosa non l'ho mai provata nei tuoi confronti, mai, però adesso io ti amo sopra ogni cosa, ok? Ti sto dicendo io per te venderei la mia anima al diavolo, per rista' (restare) con la famiglia mia e con te. Cioè io voglio invecchiare con te. Non so se tu lo capisci».

Ed è ricambiato: «Io lo volevo prima, pensa mo». Anche Gabriele però si mostra geloso e lo rassicura la madre. «Sta gelosia allora tu levatela, perché sta gelosia non proprio esiste - gli dice la Di Tullio - questo te lo dico io da madre, so più le volte che tutti i giorni stiamo al telefono, quando viene da me, non viene manco da lavarsi i capelli, che una sera è venuta con i capelli ingrassati, è distrutta, non gli tie' manco da lavarsi, non riesce con nessuno».

Si parla poco di Willy nel colloquio. La mamma dei Bianchi sembra convinta dell'innocenza dei figli e attacca quanti avrebbero voltato loro le spalle e i giornalisti. «Ti dicono vi dovete vergognà - afferma la donna - non sapenno (sapendo) che tengo due figli innocenti, puri». Ancora: «Quello schifo che ti hanno messo in cima alle spalle. Ma la gente.. la cattiveria, la cattiveria.. quello che hanno potuto scrive figlio mio.. lo schifo che ci hanno messo in cima alla famiglia! Di tutti i colori, di tutti i colori figlio mio. Di tutti i colori, tutto.. tutto lo Stato, i politici.. tutto lo Stato contro, comuni, tutto...».

Ladaga: «È una cosa proprio esagerata». E per la mamma di Marco e Gabriele Bianchi è stato dato pure troppo risalto all'uccisione di Willy: «È' una cosa figlio mio che hanno messo in prima pagina manco se fossi stato.. è morta la regina». Poi lei è preoccupata per Marco: «Isso è più struggente, mamma perdonami, mamma questo.. isso (lui) bello mio, tiè sto peso sulle spalle da innocente, lui è puro come l'anima». Uno dei primi problemi per Gabriele Bianchi è stato anche quello di dover cambiare il nome scelto per il figlio. Quando l'imputato è stato arrestato mancava poco al parto e lui voleva per il bimbo il nome Aureliano, ma madre e fidanzata gli hanno fatto notare che, visto l'accaduto, non era più possibile per loro, essendo lo stesso nome di uno dei protagonisti di Suburra.

La mamma: «A lei tutti i nomi gli stanno bene ma quello no». La fidanzata: «Il 30 ottobre riesce la serie nuova di Suburra, si chiama il ritorno di Aureliano, non si può proprio chiamà. Vi contestano a voi proprio ogni cosa... lo stile di vita... di qua e di là, io vado a chiamà un figlio Aureliano? Che lo so che non c'è niente di male, io, ma tu non ti rendi conto del fuori, tesò. Cioè quello va a scuola, massacrato, appena arriva, tesò». E propone Leonardo, specificando che «vuol dire forte come un leone». Ma il campione di MMA non ne vuole sapere: «Non chiamate mio figlio come un salame...aho, mi incazzo come una bestia, eh». La madre di Marco e Gabriele Bianchi guarda al futuro e vuole pensare ancor di più alla famiglia, tagliando i rapporti con i tanti che avrebbero voltato loro le spalle: «Il lato positivo è che quando che sarà, che è finita tutta sta ambaradam, te lo dico in faccia, a casa mia non entrerà più nessuno». Stessa linea di Gabriele: «A me l'unica cosa importante è la famiglia». Lui pensa ormai solo alla fidanzata e vuole controllarle anche le telefonate. E lei accetta: «Guarda che io le conversazioni sul telefono mio non è che le cancello, eh. Stanno là, quando esci, esci le vedi, eh».

DA fanpage.it il 21 settembre 2021. "Poi mi sento chiamà la mattina… ‘ao, a infame! A infame" Mannaggia.. ah infame! Mi hai spaccato il naso… il chiodo dentro al dentifricio… ogni cosa che succede, boooommm". Mentre Marco Bianchi pronuncia l'ultima parola, fa segno di pugnalarsi la gola. Queste frasi sono riportate nel verbale del Tribunale di Frosinone che riporta le intercettazioni degli indagati all'interno del carcere. Dalle loro parole si capisce che per loro la vita nell'istituto penitenziario non è semplice. Marco Bianchi, Gabriele Bianchi e Mario Pincarelli (Francesco Belleggia si trova ai domiciliari) non sono ben visti dagli altri detenuti: e, per qualcuno che parla con loro, ce ne sono altri che non aspettano altro di incontrarli fuori la cella per minacciarli e, sembra, provare a picchiarli. "Devi stare attento, perché pure se dormi, quelli arrivano e ti zaccagnano", dice il fratello a Marco Bianchi. Che risponde: "Stai tranquillo, non vengono, sono mollicci". Il più spavaldo sembra Gabriele Bianchi: "Mi carico certo, quando vado all’aria che stanno le persone appoggiate in faccio al coso.. (si alza in piedi) cioe che faccio ma’? io mica mi posso sta a fa.. a insulta' cosi, cosi eh.. quando mi dicono che cosa, io rispondo come un cane". I due fratelli, ai tempi delle intercettazioni, non potevano parlarsi. Sembra che fossero chiusi in due sezioni differenti, impossibile la comunicazione tra loro. Isolato anche Mario Pincarelli. Ed è lui che sembra passarsela peggio tra tutti. "Mi hanno chiamato, mi hanno detto ‘devi venì in caserma'. Ci so andato, non sono uscito più", dice al padre tra le lacrime. "Ci stanno alcuni che fanno i pezzi di merda, io non me li filo". E continua: "Per farmi uscire è un casino, devono chiudere i cancelli, manco fossi un infame". "Mi urlano impiccati". "Non chiamo nessuno, me la tengo e basta, se no ti ripicchiano di nuovo". A essere toccato nei colloqui, è anche il tema degli insulti social che sono arrivati sulle pagine di tutti e quattro gli imputati nel processo. Migliaia di commenti alle loro foto, insulti e minacce di morte. Mentre sarebbero sei milioni i messaggi arrivati solo a Gabriele Bianchi sul suo profilo privato, "figlio di puttana, tutte le peggio cose". Per i familiari non è stato semplice chiudere i profili social degli imputati per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte: i cellulari erano stati sequestrati, il tablet bloccato. Solo dopo diverso tempo sono riusciti a cancellare le pagine e a bloccare le milioni di minacce di morte che gli stavano arrivando. "Per carità, io ho dato un calcio a Emanuele, a Emanuele che non ci entra un cazzo con Willy, ok? L’ho spiegato all’avvocato, non te lo ha detto l’avvocato?", dice Gabriele Bianchi a colloquio con la madre e la fidanzata in carcere, negando di aver toccato Willy. Marco Bianchi dà la colpa di tutto a Francesco Belleggia, l'unico ad aver parlato con i carabinieri che indagano sul caso e soprattuto l'unico ad aver ottenuto gli arresti domiciliari. "Quell'infame di Belleggia", ripete col fratello a colloquio. E Gabriele Bianchi riporta invece una conversazione che avrebbe avuto con Belleggia in caserma, la sera della morte di Willy: "Amore mio ma lo hai capito che qua – dice Bianchi riportando le parole dette quella sera all'ex amico – ma qua hai dato i calci in faccia ad una persona e morta frate’. Tu vuoi fare l'uomo o dire la verità? Se la discussione era finita perché gli hai dato (riferendosi a Willy, N.d.R.) i calci?". Francesco Belleggia dal canto suo nega di aver picchiato Willy Monteiro Duarte e addossa la responsabilità ai Bianchi e a Pincarelli. Queste intercettazioni saranno usate ovviamente in sede processuale. Le udienze vanno avanti da diversi mesi, la sentenza è attesa per l'inizio del 2022. Gabriele Bianchi, Marco Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia sono tutti accusati di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte e rischiano il carcere a vita. Cosa è successo precisamente la notte tra il 5 e il 6 settembre lo stabilirà la sede processuale. Ma su una cosa i testimoni, decine quella sera, sono concordi: tutti e quattro hanno menato le mani e si sono accaniti su Willy. Che non aveva più un singolo organo interno non lesionato dopo il pestaggio del gruppo di Artena. La sua morte è arrivata dopo pochissimo tempo, tra sofferenze atroci. Resta solo il dolore per una vicenda tragica che ha distrutto quella sera la vita di tantissime persone e che ha sconvolto l'Italia intera.

Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 24 settembre 2021. «Ma questo s' è impazzito?». Scherza, nella sua pretesa impunità Gabriele Bianchi quando in carcere lo va a trovare il fratello Alessandro, il 16 ottobre scorso. La frase è riferita a Omar Shabani, l'amico che lo chiamò quella sera a Colleferro per intervenire nella rissa, e ora, con il clamore suscitato dall'uccisione di Willy Monteiro Duarte, si sente in colpa e va ripetendo agli amici: «Mi sento responsabile, li ho chiamati io». Nello stesso colloquio Gabriele e il fratello irridono anche Michele Cerquozzi, l'altro amico loro, che per la tensione sta dimagrendo. Nessun segno di contrizione sembra affiorare nelle parole del principale imputato della morte del 21enne di Paliano nelle intercettazioni che l'avvocato del coimputato Francesco Belleggia, Vito Perugini, chiede di ascoltare nell'aula della Corte d'assise di Frosinone. Gabriele Bianchi (collegato da Rebibbia), suo fratello Marco (dal carcere di Velletri), Mario Pincarelli (anche lui a Rebibbia) e Francesco Belleggia (presente in aula, è l'unico ai domiciliari) sono accusati di concorso in omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Per la prima volta assenti i genitori e la sorella di Willy che sono in quarantena. L'udienza si apre con la testimonianza del maggiore del Ris dei carabinieri che ha condotto le analisi biologiche sugli abiti degli imputati. Il dato che emerge è che, a differenza di quanto ipotizzato in un primo momento, non ci sono tracce di sangue di Willy sugli abiti degli imputati. Un chiarimento che però non cambia la sostanza dell'accusa, perché - come stabilito dall'autopsia - Willy è morto per le lesioni e le emorragie interne. La Corte ascolta poi le testimonianze di altri sei ragazzi che erano presenti quella sera a Colleferro. Il primo è Gianmarco Frabotti: «La lite tra Pincarelli, Belleggia e la comitiva di Federico Zurma (l'amico che Willy provò a portare via, ndr ) dopo qualche spinta e insulto in dieci minuti sembrava finita, ma poi sono arrivati i fratelli Bianchi. Li conoscevo per la nomea e per lo sport che praticano. Quando sono arrivati tutti hanno fatto silenzio, la gente si allontanava. I loro nomi erano conosciuti a Colleferro e dintorni per le risse, i pestaggi e lo spaccio. Li ho visti andare diretti verso il gruppo di ragazzi e cominciare ad aggredirli. Conoscevo Willy, giocavamo a calcio assieme da piccoli. Non stava partecipando alla discussione. Ma Gabriele Bianchi è andato spedito verso di lui e l'ha colpito in petto con un calcio frontale, di corsa, piegando la gamba, facendo leva con l'altra e spingendo col bacino. Willy ha sbattuto contro una macchina, è caduto e Marco Bianchi l'ha colpito con un pugno in faccia mentre provava a mettersi in piedi. Da allora non si è più rialzato. Anche Pincarelli gli ha dato un calcio in faccia mentre Belleggia non l'ho visto partecipare. Poi sono scappati tutti e quattro». Versione simile ai testimoni della scorsa udienza e confermata anche dagli altri testi.

Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 23 settembre 2021.  Ancora botte ai giornalisti. In questo caso a un operatore della trasmissione di Rai Uno «La vita in diretta», malmenato nel pomeriggio di mercoledì ad Artena, fra Roma e Frosinone, da Ruggero Bianchi, padre dei fratelli Marco e Gabrieletuttora detenuti in carcere accusati di omicidio volontario per la morte di Willy Monteiro Duarte il 6 settembre dello scorso anno a Colleferro. L’operatore stava riprendendo l’esterno della villa di famiglia, nella zona di Colubro, non lontano da Lariano, quando è stato insultato dalla finestra e quindi raggiunto in strada da Bianchi che lo ha preso a calci e pugni. Con il cameraman c’era anche una giornalista. I due si sono quindi allontanati, e l’operatore si è fatto medicare al pronto soccorso dell’ospedale di Frosinone da dove è stato poi dimesso con tre giorni di prognosi. Dalle prime notizie la reazione violenta di Bianchi sarebbe anche legata alla domanda che gli sarebbe stata fatta sulle dichiarazioni della moglie, Antonietta Di Tullio, in carcere durante un colloquio con i figli. «Lo hanno messo in prima pagina manco fosse morta la regina», aveva commentato la donna parlando del povero Willy, medaglia d’oro al valor civile. Ruggero Bianchi e la moglie sono indagati dalla procura di Velletri - l’inchiesta è chiusa - per aver chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza senza averne titolo, poi revocato, del quale - sempre secondo l’accusa - beneficiavano invece proprio i loro figli.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 22 settembre 2021. I Bianchi sono stati subito scaricati anche dall'amico picchiatore. Quella tragica notte tra il 5 e il 6 settembre 2020 a Colleferro, prima del massacro di Willy Monteiro Duarte, a chiamare i due fratelli di Artena quando si avvertiva in piazza aria di rissa erano stati i loro amici Omar Sahbani e Michele Cerquozzi. I due, secondo gli inquirenti, una volta interrogati dai carabinieri avrebbero anche cercato di sminuire il ruolo di Marco e Gabriele Bianchi e di scaricare le colpe maggiori su Francesco Belleggia, che li ha denunciati. Ma due settimane dopo l'uccisione del 21enne di origine capoverdiana, è lo stesso Sahbani che, in una telefonata intercettata con un suo cugino e ora finita nella perizia disposta dalla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone, dice: "Guarda io credo in parte... io credo che in parte cugì sta cosa è stata pure un pochettino la salvezza mia, eh. Cioè da ... chi è purtroppo perché che è così.. è un periodo che sto a cercà di allontanarmi comunque, io non è che... non mi ritrovavo più in quell'ambiente, non mi ci proprio ritrovavo più, non era la vita mia". In precedenza, proprio Sahbani, come ricostruito dai carabinieri in un'inchiesta antidroga, aveva fatto parte di un giro di spaccio di sostanze stupefacenti ed estorsioni insieme ai Bianchi. In quel contesto, il giovane di Lariano, anche lui appassionato di MMA, tecnica mista di arti marziali, avrebbe aggredito un ragazzo, minacciando lui e il padre intervenuto in difesa del figlio. Fatti per cui Sahbani a dicembre dell'anno scorso è stato arrestato e poi ha patteggiato la pena a 4 anni e 8 mesi di reclusione. Due settimane dopo la morte di Willy, però, parlando con il cugino sostiene che da tempo non condivideva più la vita che facevano Marco e Gabriele Bianchi e stava cercando di prendere le distanze da loro. Sul massacro di Colleferro, racconta quanto ha riferito ai carabinieri: "Cugì, io gli so risposto: "Io penso che se lei si trova con un suo collega, il suo collega dà de matto, comincia a sparà in faccia alla gente, lei si trova vicino a questo, e ve ne rinnate (riandate) insieme, tu che colpa ci hai? Ci so ditto (ho detto) "cioè non hai potuto fa niente, perché tu più che provarlo a fermà e digli aho fermati che cazzo stai a fa! Non hai potuto fa niente, quello ha continuato. Che colpa ci hai?" quindi gli so risposto io: "io che colpa devo avé? che colpa devo avé? E che io sapevo che gli amici miei.. sì sapevo che erano (parola incomprensibile) e tutto, ma sapevo che magari andava a finì che ci scappava un morto? Un ragazzo che non ci entrava niente?". Quello mi fa va bè, allora intanto io comunque te lo dovevo dì, poi tu sta a te adesso se dire la verità o.. o.. o vuole fa lo stupido, tipo quello mi ha ditto (ha detto) e io ci ho risposto: "Fa lo stupido?". Ma ci so ditto (ho detto) "scusa un attimo, scusate ma perché mi ritrovo nella posizione di poté dì una cazzata?". E poi scarica "i gemelli".

Le intercettazioni dei colloqui. Il cugino: "Cugì, parlamose (parliamoci) chiaro no, cioè questi tenevano una vita un po' accelerata no, facevano quello che facevano, mo senza dirlo però si sapeva quello che facevano, no?". Sahbani: "Sì, sì, sì...". Il cugino: "Quindi di conseguenza tu non è che puoi...". Ancora Sahbani: "Issi (loro) erano pigliato una cosa che comunque se non volevi ai (andare) a cena fuori non poteva esse (essere) se non... se non porti.. cioè capito? se non porti l'orologio d'oro non ti fai la foto coatta, non ti fai la storia mentre stai a magnà. Ma a mi che cazzo me ne frega di ste stronzate, aho. A me che cazzo me ne frega". Il cugino: "Menomale che te ne sei accorto allora, cugì". Sahbani: "Ma io solo che.. solo che verbalmente mi rimaneva difficile sbatterglielo in faccia, dirtelo no. Quindi dico li ho lasciato ì (andare), piano piano, piano piano li ho lasciati..". Il cugino: "Io.. io te lo so ditto (ho detto) la prima volta, quando la prima volta che noi simo (abbiamo) parlato, ti so ditto (ti ho detto) cugì guarda che questa.. a me mi dispiace e tutto, però è stata la salvezza tua, la prima volta te lo so ditto (ho detto)". Quella di Willy sembra una tragedia annunciata. E sembra ipotizzarlo anche il cugino di Sahbani: "Troppo tempo, troppo tempo che (incomprensibile) quindi di conseguenza.. che ne sai, hanno beccato proprio il ragazzino, perché quello è un ragazzino sbagliato al momento sbagliato proprio". La vita dei Bianchi sarebbe stata troppo sregolata ed esagerata. Sahbani non ne fa mistero: "Danno in capo i soldi, danno in capo". Per poi concludere: "Li dovresti solo da apprezzà perché non li si mai tenuti, mo che tiè due soldi stai a fa lo stupido". Ma ormai è tardi. Quelle parole arrivano a due settimane di distanza dalla morte del 21enne e da quelle telefonate fatte dallo stesso Sahbani a Marco e Gabriele Bianchi che, arrivati in centro a Colleferro, stando ai diversi testimoni ascoltati sinora dalla Corte d'Assise, hanno iniziato a sferrare calci e pugni, allontanandosi soltanto quando a terra c'era il corpo del giovane studente ormai agonizzante.

Il processo per la morte di Willy, i testimoni: «La lite stava finendo, poi sono arrivati i fratelli Bianchi». Nel processo per l’omicidio del 21enne di Paliano viene letta in aula un’intercettazione in cui i fratelli si stupiscono di essere coinvolti. Riferendosi al testimone che li accusa dicono: «Ma è impazzito?» Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2021. Dal nostro inviato a Frosinone - «Ma questo s’è impazzito?». Increduli nella loro pretesa impunità Marco e Gabriele Bianchi si confrontano, intercettati in carcere all’indomani del loro arresto, sui primi stralci di verbali e testimonianze pubblicate sui giornali. È l’avvocato del coimputato Francesco Belleggia, Vito Perugini, a chiedere di ascoltare queste frasi nell’aula della corte d’Assise di Frosinone dove si celebra il processo per la morte di Willy Monteiro Duarte, il 21 enne di Paliano vittima di un pestaggio. Gabriele Bianchi (collegato da Rebibbia), suo fratello Marco (dal carcere di Velletri in camicia bianca), Mario Pincarelli (anche lui a Rebibbia) e Francesco Belleggia in aula (è l’unico ai domiciliari) sono accusati di concorso in omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Per la prima volta non ci sono i genitori e la sorella di Willy che osservano un periodo di quarantena. L’udienza si apre con la testimonianza del maggiore del Ris dei carabinieri, che ha condotto le analisi biologiche sui reperti sequestrati sul luogo del delitto e sugli abiti degli imputati e della vittima e nell’auto dei Bianchi. Il dato che emerge è che, a differenza di quanto ipotizzato in un primo momento, non ci sono stracce di sangue di Willy sugli abiti degli imputati. Un chiarimento che però non cambia la sostanza dell’accusa, dato che come stabilito dall’autopsia Willy è morto per le lesioni ed emorragie interne. La corte ascolta poi le testimonianze degli altri ragazzi che erano presenti quella sera a Colleferro. Il primo è Gianmarco Frabotti: «Cominciammo a vedere l’agitazione in piazza attorno a Pincarelli e Belleggia che dopo aver colpito Federico Zurma (il ragazzo che Willy cercherà poi di portare via, ndr) si è allontanato mentre Pincarelli continuava la lite verbale con altri amici di Zurma. Poi si sono spostati tutti dietro l’edicola, in dieci minuti sembrava tutto finito ma poi sono arrivati i fratelli Bianchi. Li conoscevo per nomea e per lo sport che praticano. Quando sono arrivati tutti hanno fatto silenzio, la gente si allontanava. A Cencierelli ho detto non ti mettere in mezzo con questa gente. I loro nomi erano conosciuti a Colleferro e dintorni per le risse, i pestaggi e lo spaccio. Li ho visti andare diretti verso il gruppo di ragazzi e cominciare ad aggredirli. Conoscevo Willy, giocavamo a calcio assieme da piccoli, e conosco Cinciarelli. Nessuno di loro due stava partecipando alla discussione. Gabriele Bianchi è andato spedito verso Willy e l’ha colpito in petto con un calcio frontale, di corsa, piegando la gamba, facendo leva con l’altra e spingendo col bacino. Willy è sbattuto contro una macchina, è caduto e Marco Bianchi l’ha colpito con un pugno in faccia mentre provava a mettersi in piedi. Da allora non si è più rialzato. Anche Pincarelli gli ha dato un calcio in faccia mentre Belleggia non l’ho visto partecipare. Poi sono scappati tutti e quattro». Tocca poi a Michele Vinciguerra: «I Bianchi si sono diretti al centro del gruppo dei ragazzi che discutevano e io già sapevo chi erano. Willy stava solo assistendo ma Gabriele lo ha colpito subito con un calcio in petto che l’ha fatto cadere, Willy ha iniziato a boccheggiare, ha appena alzato lo sguardo e lui l’ha colpito di nuovo con un cazzotto al volto. Poi è arrivato Marco e l’ha colpito di nuovo con un calcio alla testa. Anche Pincarelli l’ha colpito. Belleggia non l’ho notato».

Fratelli Bianchi, allenati per uccidere: per divertirsi torturavano e finivano gli animali. Clemente Pistilli u La Repubblica il 14 ottobre 2021. Lo sostengono gli inquirenti alla luce di alcune indagini integrative disposte dai pm Giovanni Taglialatela e Francesco Brando, finalizzate a inquadrare meglio la personalità di Marco e Gabriele Bianchi, noti come "i gemelli" per la loro somiglianza, imputati di omicidio volontario insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti di Artena. Prima del massacro di Willy i fratelli Bianchi non avevano collezionato soltanto denunce per episodi di violenza, estorsioni e spaccio di droga. I due campioni di MMA, tecnica mista di arti marziali, si divertivano anche a uccidere gli animali con particolare crudeltà. Lo sostengono gli inquirenti alla luce di alcune indagini integrative disposte dai pm Giovanni Taglialatela e Francesco Brando, finalizzate a inquadrare meglio la personalità di Marco e Gabriele Bianchi, noti come "i gemelli" per la loro somiglianza, imputati di omicidio volontario insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti di Artena.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 14 ottobre 2021. Prima del massacro di Willy i fratelli Bianchi non avevano collezionato soltanto denunce per episodi di violenza, estorsioni e spaccio di droga. I due campioni di MMA, tecnica mista di arti marziali, si divertivano anche a uccidere gli animali con particolare crudeltà. Lo sostengono gli inquirenti alla luce di alcune indagini integrative disposte dai pm Giovanni Taglialatela e Francesco Brando, finalizzate a inquadrare meglio la personalità di Marco e Gabriele Bianchi, noti come "i gemelli" per la loro somiglianza, imputati di omicidio volontario insieme a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia, tutti di Artena. Accertamenti compiuti dai carabinieri della compagnia di Colleferro e che la Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone deve decidere se far entrare nel giudizio in corso sul delitto del 21enne Willy Monteiro Duarte, ucciso a calci e pugni nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, dopo essersi attardato nella zona della movida colleferrina per chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d'aiuto. I due magistrati hanno fatto esaminare cinque telefonini dei due fratelli, che erano già stati sequestrati loro nell'ambito dell'inchiesta antidroga portata avanti dalla stessa Procura di Velletri e che in primo grado ha visto condannare tanto "i gemelli" quanto il loro amico Omar Shabani, il quale ha scelto di patteggiare e che nell'ultima udienza a Frosinone è stato ascoltato come testimone dell'omicidio di Willy. Più nello specifico, i pm Taglialatela e Brando hanno fatto passare al setaccio chat, immagini e video contenuti in quei dispositivi, cercando di stabilire le reali frequentazioni tra gli imputati e di accertare eventuali e precedenti aggressioni simili a quella compiuta a Colleferro. I carabinieri, ultimate le indagini, hanno quindi assicurato che il contenuto dei cellulari dimostrerebbe "come l'indole violenta degli imputati sia una costante". Con tanto di violenze sugli animali. Viene infatti segnalato che su un telefonino di Marco Bianchi è stato trovato un video che lo ritrae "mentre imbraccia un fucile da caccia e spara uccidendo un uccello già ferito". "Ciò a sottolineare - specificano i militari - la crudeltà della sua indole, questa volta rivolta contro gli animali". Su un altro cellulare, sempre di Marco Bianchi, nel mondo dell'MMA soprannominato Maldito, sono poi stati recuperati ulteriori video sempre con "scene di crudeltà nei confronti degli animali". "Con un'arma da fuoco da caccia - evidenziano i carabinieri - alla presenza del Bianchi che riprende con il cellulare in suo uso, viene fatto fuoco su di una pecora, provocando ferite e poi la morte dell'animale in modo piuttosto cruento, causando una sofferenza ingiustificata all'animale, accanendosi su di esso come a provare piacere in quella situazione, ciò a sottolineare la bassa sensibilità dei soggetti nei confronti di quello che normalmente può considerarsi aberrante". Significativi inoltre, per gli investigatori, i video in cui si vedono "i gemelli" in azione durante gli incontri di MMA. "Possiamo immaginare - scrivono - quanto quei colpi possano essere devastanti se inferti su una persona non strutturata fisicamente come poteva essere il giovane Willy". Ma come se non bastasse è stata trovata sui telefonini anche una conversazione tra Gabriele Bianchi e una donna, in cui l'attuale imputato, parlando di un litigio in un locale, dice: "Nessuno deve mancare di rispetto a me, alla mia donna, alla mia famiglia, ai miei fratelli e ai miei amici". Sostiene dunque che, "se necessario o se uno dei suoi familiari o amici sono coinvolti in una lite, lui non esiterebbe a usare la violenza e che non è disposto a farsi mettere i piedi in testa da nessuno". Quella notte del 2020, a Colleferro, c'erano Pincarelli e Belleggia, che gli stessi Bianchi e gli altri testimoni hanno sempre definito solo conoscenti per "i gemelli", ma c'erano pure i loro amici Omar Shabani e Michele Cerquozzi. E quando quest'ultimi hanno chiamato i due fratelli loro si sono precipitati nella zona della movida e appena arrivati hanno subito iniziato a sferrare calci e pugni, risultati fatali a Willy. Lo ha detto chiaramente ai carabinieri una delle ragazze che si erano appartate con loro al cimitero, riferendo sulle telefonate di Cerquozzi e Shabani: "Decidevano di andare a dare una mano ai loro amici che avevano bisogno del loro aiuto".

Mic. All. per "il Messaggero" il 5 novembre 2021. Ad uccidere Willy Monteiro Duarte, la sera del 6 settembre 2020 a Colleferro, «non è stato un colpo dato da dietro, dove la rigidità della colonna vertebrale protegge gli organi, ma almeno uno frontale, al torace». Un calcio violentissimo che non ha provocato «una morte non istantanea, ma comunque rapida, considerate le infiltrazioni emorragiche». L'ha spiegato ieri in aula il medico legale Antonio Grande, durante l'ultima udienza del processo per l'omicidio del giovane aspirante chef di origini capoverdiane e con la passione per il calcio. A sferrare quel colpo fatale con la pianta del piede, secondo l'accusa, sarebbe stato Gabriele Bianchi, esperto di Mma. L'autopsia ha però certificato che Willy è stato ucciso anche dai pugni e calci in faccia che, secondo pubblico ministero e testimoni, sarebbero stati inflitti alla vittima - che era esanime a terra - da anche da Marco Bianchi e Mario Pincarelli. Tutti i giovani sono sul banco degli imputati insieme a Francesco Belleggia. L'accusa è omicidio volontario aggravato. Ieri in aula c'è stato anche il commosso ricordo dei genitori della giovane vittima, che hanno parlato nell'aula di corte d'Assise del tribunale di Frosinone. Parole piene d'amore e di dolcezza, che sono arrivate dopo il racconto di violenza cruda fatto dal medico legale. Willy era un ragazzo buono, che lavorava sodo, aiutava in casa ed era generoso e sorridente. «Viveva con noi, lavorava da un anno e sette mesi al ristorante Hotel degli Amici, ad Artena, dove era stato assunto subito dopo il diploma alberghiero. Mentre ancora andava a scuola, lavorava il fine settimana in un ristorante a Paliano, fin quando non ha chiuso. Da lì è andato a fare una esperienza di tre mesi in Calabria e poi ha trovato lavoro ad Artena», ha raccontato la madre, Lucia Maria Duarte. E ancora: «Willy contribuiva al bilancio di casa, spesso pagava lui la spesa, mi aiutava, mi accompagnava in macchina a fare le commissioni. Era sempre disponibile». Ha poi parlato Antonio Monteiro il padre del ventunenne: «Mio figlio era bravissimo a scuola, quando poi ha iniziato a lavorare si era aperto un conto corrente e metteva da parte i soldi. Amava stare con gli amici, appena staccava, e giocava a pallone». In aula è stato poi il turno del datore di lavoro del giovane cuoco, cresciuto a Paliano, in provincia di Frosinone e massacrato in strada mentre difendeva un amico, che aveva iniziato a litigare con gli aggressori a causa di un banale diverbio. «Ho avuto alle dipendenze Willy circa due anni, fin quando è morto - ha raccontato Nazareno D'Amici, proprietario del ristorante e hotel degli Amici ad Artena, ascoltato oggi come testimone di parte civile - È sempre stato un ragazzo educato, ha sempre aiutato il prossimo e gli stessi collaboratori. Ma non solo, perché con i soldi che guadagnava aiutava la famiglia».

Omicidio Willy, il racconto dei genitori in Aula: “Lavorava e studiava, amava la vita”. Il racconto commosso della famiglia davanti ai giudici della Corte di Assise del Tribunale di Frosinone dove è in corso l’udienza del processo. Il medico legale: "Ferito a morte da un colpo frontale". Il Dubbio il 4 novembre 2021. «Willy viveva con noi, lavorava da un anno e sette mesi al ristorante hotel degli Amici, ad Artena, dove era stato assunto subito dopo il diploma alberghiero. Mentre ancora andava a scuola, lavorava il fine settimana in un ristorante a Paliano, fin quando non ha chiuso. Da lì è andato a fare una esperienza di tre mesi in Calabria e poi ha trovato lavoro ad Artena». È il racconto commosso che Lucia Maria Duarte, mamma di Willy, fa davanti al giudice e agli avvocati riuniti nell’aula della Corte di Assise del Tribunale di Frosinone dove è in corso l’udienza del processo per l’omicidio del figlio 21enne, avvenuto la notte tra il 5 e il 6 settembre dello scorso anno a Colleferro in seguito a un pestaggio. «Contribuiva alle spese di casa, spesso pagava lui la spesa, mi aiutava, mi accompagnava in macchina a fare le commissioni – ricorda la donna, che da sempre lavora come domestica a Roma – Era sempre disponibile». «Mio figlio era bravissimo a scuola, quando poi ha iniziato a lavorare si era aperto un conto corrente e metteva da parte i soldi. Amava stare con gli amici, appena staccava, e giocava a pallone», ricorda invece il papà, Armando Monteiro, ascoltato insieme alla moglie come teste di parte civile.  A parlare in aula anche Nazareno D’Amici, proprietario del ristorante e hotel degli Amici ad Artena: «Ho avuto alle dipendenze Willy circa due anni, fin quando è morto – spiega -. È sempre stato un ragazzo educato, ha sempre aiutato il prossimo e gli istessi collaboratori. Ma non solo, perché con i soldi che guadagnava aiutava la famiglia». Secondo la ricostruzione di Antonio Grande, medico legale e consulente di parte civile, Willy sarebbe stato colpito a morte «non da dietro, dove la rigidità della colonna vertebrale protegge gli organi, ma con almeno un colpo frontale, al torace. Una morte non istantanea, ma comunque rapida, considerate le infiltrazioni emorragiche». «Ciò che è stato immediatamente evidente analizzando l’esame autoptico sul corpo di Willy – spiega il medico in aula – è stata la sproporzione oggettiva tra la lesività esterna e interna, una apparente disomogeneità tra l’integrità di continuità della cute e il quadro interno, dove si assiste a una diffusione di lesioni molteplici e di diversa entità che diventano non più ecchimosi ma infiltrazioni emorragiche e infarcimenti». Per l’omicidio di Willy sono alla sbarra i fratelli Bianchi, Marco e Gabriele, Bianchi, accusati di omicidio volontario insieme a Francesco Belleggia e Mario Pincarelli. Lo scorso febbraio la procura di Velletri ha infatti cambiato il capo di imputazione da omicidio preterintenzionale ad omicidio volontario sulla base della «violenza del tutto sproporzionata» e della volontà, contestata agli allora soggetti indagati, di «non arrecargli delle semplici lesioni».

Clemente Pistilli per repubblica.it il 12 novembre 2021. Mentre i loro amici massacravano di botte un giovane vittima di estorsione, per un debito di droga di appena venti euro, "i gemelli" osservavano la scena e ridevano. Marco e Gabriele Bianchi avevano creato un clima di terrore e omertà tra Artena, il loro paese, e i Castelli Romani, nello specifico Lariano e Velletri. Spacciavano cocaina, avevano contatti con alti livelli della malavita impegnata nel traffico di sostanze stupefacenti e quando c'era il minimo intoppo erano pronti a ricorrere alla violenza. Andavano così le cose in quella zona al confine tra le province di Roma, Frosinone e Latina un anno prima dell'uccisione di Willy. A sostenerlo è il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Velletri, nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato a tre anni di reclusione un amico dei due campioni di MMA, Andrea Cervoni. I carabinieri della compagnia di Velletri erano da tempo sulle tracce dei Bianchi. Dopo che un giovane di Lariano, che aveva con gli imputati un debito di 20 euro, e il padre del ragazzo intervenuto in difesa del figlio erano stati picchiati selvaggiamente, gli investigatori avevano iniziato a scavare sul business della cocaina e le estorsioni portati avanti dai "gemelli". Per quei fatti le misure cautelari scatteranno soltanto dopo che, nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, venne massacrato senza un perché il 21enne Willy Monteiro Duarte, fermatosi nella zona della movida a Colleferro a chiedere a un amico in difficoltà se avesse bisogno d'aiuto. Vicende per cui Marco e Gabriele Bianchi sono già stati condannati in primo grado a 5 anni e 4 mesi di reclusione, il loro amico Omar Sahbani, di Lariano, anche lui presente a Colleferro la notte in cui è stato ucciso il giovane di origine capoverdiana e diventato uno dei testimoni, ha patteggiato a 4 anni e 8 mesi, e un altro amico dei campioni di arti marziali, Orlando Palone, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi. E condannato, in un separato processo, pure Cervoni. Mentre per i Bianchi, difesi dall'avvocato Massimiliano Pica, e Cervoni, difeso dall'avvocato Emanuele Farelli, si profila una nuova battaglia davanti alla Corte d'Appello di Roma, sono però state appunto depositate le motivazioni della condanna inflitta allo stesso Cervoni e ne emerge uno spaccato su cosa sarebbero stati soliti fare i Bianchi prima della morte di Willy. Un quadro analogo a quello venuto fuori da altre indagini e testimonianze, ma che è finito per la prima volta dritto dritto in una sentenza. Il giudice Muscolo ha sottolineato che, nel corso delle indagini, diversi acquirenti di droga ascoltati dagli investigatori, "in particolare coloro che avevano intrattenuto contatti con i fratelli Bianchi di Artena e soprattutto i soggetti che gravitavano nello stesso contesto sociale e territoriale di Artena, contrada Colubro, rendevano dichiarazioni palesemente reticenti, manifestando timore per la propria incolumità". La fama dei "gemelli" era insomma notevole. Facevano paura. Emblematica la stessa testimonianza del giovane aggredito a Lariano che, parlando dell'acquisto della cocaina, ha detto ai carabinieri: "L'acquisto dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, o meglio materialmente me la porta Omar Shabani, che voi conoscete bene ed è il suo galoppino, la ordino da lui che tutti sanno che poi è un uomo dei Bianchi". Sul pestaggio subito da Shabani e Cervoni: "Non sono riuscito a difendermi perché sono due lottatori di MMA e neppure ho provato, temendo un'ulteriore reazione". E i Bianchi? "Erano presenti all'aggressione, li ho visti, erano in disparte, come se controllassero l'esecuzione e ridevano". Per concludere con le richieste ricevute anche da Gabriele Bianchi di ritirare la denuncia: "Parlava come se appartenesse alla squadra, o meglio appartiene all'intera banda, ma è un gradino sopra, dispone dell'Omar e di Andrea e li coordina. Quindi con questo gesto mi ha dato un'ulteriore conferma che è il padrone dei predetti". Ma a raccontare le botte ricevute è stato anche il padre del ragazzo. "Dal colpo inflittomi - ha dichiarato - oltre al dolore ed alla immobilità temporanea, accusavo anche un senso di nausea e di malessere generale". Di più: "Omar si frequenta anche con i Bianchi di Artena, conosciuti per essere dei despoti sia ad Artena sia a Lariano nei confronti dei loro coetanei e sono anche temuti nel paese per il loro stravagante stile di vita e spesso si fanno valere per essere abili conoscitori di arti marziali del tipo MMA". Per il giudice Muscolo, tra Velletri, Artena e Lariano, si era venuta a creare una situazione di "assoggettamento ed omertà" e gli imputati avrebbero avuto "stabili collegamenti con ambienti criminali dediti allo spaccio di cocaina in larga scala". Nella prossima udienza del processo in corso per la morte di Willy, davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Frosinone verranno intanto esaminati gli stessi imputati, tra cui i fratelli Bianchi, tutti accusati di omicidio volontario, e sarà per loro la prima volta, dopo gli interrogatori seguiti agli arresti, che parleranno davanti ai giudici.

(ANSA il 18 Novembre 2021) - "Non ho colpito Willy al petto, con un calcio l'ho colpito al fianco sinistro e l'ho spinto. Lui è caduto ma si è subito rialzato. Io poi sono andato via dai giardinetti". E' quanto ha raccontato, davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Frosinone, Marco Bianchi, accusato assieme al fratello Gabriele ed altri della morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso a Colleferro la notte tra il 5 e 6 settembre dello scorso anno durante un pestaggio. Bianchi ha aggiunto: "io non avevo capito che era successo qualcosa di grave perché non sarei mai partito con l'auto. Mentre eravamo in macchina un mio amico si è rivolto a Belleggia (altro imputato ndr) dicendo sei un pezzo di m…perché hai colpito quel ragazzo...". L'imputato nel corso dell'esame si è definito un "ragazzo semplice diviso tra sport e amici". "Ho detto la verità ma non sono stato creduto. A Willy ho dato solo una spinta e un calcio al fianco. Belleggia (altro imputato ndr) non dice la verità è dovrebbe assumersi le sue responsabilità". E' quanto affermato davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Frosinone, da Marco Bianchi accusato assieme al fratello Gabriele ed altri della morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso a Colleferro la notte tra il 5 e 6 settembre dello scorso anno durante un pestaggio. "Siamo stati fatti passare per mostri, si parlava solo dei fratelli Bianchi. Qualsiasi cosa dicevamo venivamo attaccati". E' quanto affermato davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Frosinone, da Marco Bianchi accusato assieme al fratello Gabriele ed altri della morte di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso a Colleferro la notte tra il 5 e 6 settembre dello scorso anno durante un pestaggio. In questa vicenda "è morto un ragazzo - ha aggiunto - ma se lo avessi colpito in modo grave non me ne sarei mai andato, lasciandolo lì. Se avessi sbagliato non avrei problemi ad ammetterlo".

Willy Monteiro, i fratelli Bianchi a processo: «Paghiamo per altri, non l’abbiamo ucciso noi». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2021. I picchiatori di Artena esperti di arti marziali e accusati dell’omicidio volontario del 21enne, depongono nell’aula di corte d’Assise. «Ero preoccupato per il mio amico Omar, mi sono trovato Willy fermo davanti a lui e l’ho colpito, ma con un calcio laterale, sul fianco sinistro, non al petto. L’ho spinto. E poi lui si è rialzato». Marco Bianchi prova a minimizzare i fatti e il suo ruolo nell’uccisione di Willy Monteiro Duarte, per il quale è imputato con l’accusa di omicidio volontario assieme al fratello Gabriele, a Mario Pincarelli e Francesco Belleggia. Il più giovane dei due fratelli esperti di Mma parla nell’aula di corte d’Assise a Frosinone dove ci celebra il processo per i fatti del 5 settembre 2020. Gli imputati sono presenti per la prima volta (nelle udienze passate erano collegati dal carcere, tranne Belleggia che ha sempre partecipato perché ai domiciliari) e per la prima volta sono di fronte alla mamma di Willy, accompagnata dalla figlia. Nella cella di sicurezza Marco e Gabriele si abbracciano prima di cominciare a parlare alla corte. Il 25enne Marco Bianchi prova poi a dare un’immagine diversa di sé, per sfuggire alle testimonianze e alle precedenti inchieste che lo inquadrano come un picchiatore abituale, incline alla violenza, allo spaccio. Anche nel rivolgersi alla corte e al pm Giovanni Taglialatela è sempre attento a dosare le parole e i modi: ««Ho sempre detto la verità, ma non sono mai stato creduto. È morto un ragazzo, ma se lo avessi colpito in modo grave non me ne sarei mai andato, lasciandolo lì. Mi rivolgo ai familiari di Willy, se avessi sbagliato lo ammetterei. Non sono un mostro, ho sempre detto la verità a differenza di altri. Sono un ragazzo semplice, lavoravo al bar di mio fratello Alessandro (il terzo, non indagato, ndr), e ho sempre fatto sport. Se avessi colpito Willy nel modo che viene detto, mi sarei preso le mie responsabilità. Se sbaglio pago, non sono uno che ha paura della galera. Non avevo capito la gravità di quanto accaduto quando ci siamo allontanati in auto, ma non fuggivamo. Quando siamo risaliti in macchina siamo tornati verso il ristorante di mio fratello, Belleggia si è intrufolato in auto, Pincarelli non è salito con noi. Omar (Sahbani, ndr) accusava e insultava Belleggia per aver colpito quel ragazzo senza motivo. Quando siamo arrivati ad Artena ho detto a tutti di prendersi le proprie responsabilità. E quando i carabinieri ci hanno portati in caserma ero ignaro di tutto». La descrizione dei colpi e il racconto di quei momenti sembra mirata a contrastare i risultati dell’autopsia. Poi il tentativo di scagionare il fratello: «Mio fratello Gabriele mi disse che aveva colpito un altro ragazzo perché temeva colpisse me e che non colpì invece Willy». «Michele Cerquozzi e Omar Sahbani ci aspettavano nella piazza dei locali, a Colleferro, quando più volte hanno chiamato per dirci che c’era una lite sono tornato con mio fratello, Vittorio (Tondinelli, ndr) e le tre ragazze in macchina con noi. Ma assolutamente non correvo, come è stato detto. Quando siamo arrivati nella piazza della movida ho visto la folla di gente accalcata nei giardinetti. Mi sono impanicato, ero agitato. C’erano delle persone, ma andavo a 15/20 km orari al massimo. Ho spento la macchina e sono sceso tranquillamente, come tutti gli altri, mi sono avvicinato cercando i miei amici, Omar e Michele. Quando sono arrivato c’era tanta gente, mi sono permesso di spingerli non di picchiarli. Se li avessi picchiati perché non sono andati a farsi refertare in ospedale?». Una decina di testimoni hanno invece già raccontato della furia con cui i due fratelli si precipitarono nella lite, colpendo tutti indistintamente. Tocca poi a Gabriele Bianchi sottoporsi all’esame del pm. Il suo tono è più aggressivo, quasi di sfida. Si sente vittima: «Aspetto questo momento da un anno e due mesi, non vedo l’ora di rispondere a tutte le domande. Io ho notato che c’è stato un odio mediatico nei nostri confronti. La feccia di Colleferro ha parlato male di noi: è come se ognuno abbia voluto mettere qualcosa contro di noi; per questo tutti dicono che io ho colpito Willy perché influenzati dai media. Perfino i nostri amici sono stati influenzati dalla situazione mediatica, alcuni manipolati da genitori preoccupati che potessero finire nei guai - aggiunge - In parte posso capirli, so che sono stati minacciati solo per essere nostri amici». Sulla dinamica, nei fatti, descrive l’aggressione di cui è accusato ma indicando come vittima l’amico di Willy, Cenciarelli, che però nessuno ha visto essere colpito in quei 30 secondi né tantomeno ha raccontato di essere stato picchiato: «Non ho colpito Willy — dice Gabriele Bianchi — ma ho spinto e dato un calcio al petto a Samuele Cenciarelli (l’amico del 21enne, ndr). Me ne vergogno, e chiedo scusa a lui e alla sua famiglia. Ma quando sono arrivato e ho visto che guardava fisso Omar e mio fratello, temendo potesse colpirli, gli ho sferrato un calcio al petto, facendolo finire contro una macchina». Gabriele Bianchi si scagiona attaccando Belleggia, ripetendo un copione già visto nella fase delle indagini preliminari: «Francesco Belleggia gli ha dato un calcio al collo mentre Willy era a terra, senza pietà. Da infame. Gabriele e Marco Bianchi una cosa del genere non l’avrebbero mai fatta. Sono vicino al dolore dei familiari di Willy perché anche io ho un figlio. Il fatto che Belleggia sia ai domiciliari mi provoca una grande rabbia. Io lo so per certo che non aveva intenzione di uccidere Willy ma lui deve dire la verità. Io per dormire devo prendere tranquillanti e ringrazio gli psicologi del carcere». Poi si associa a Willy: «La morte di Willy ci ha distrutto le vite come alla sua famiglia». La mamma della vittima resta in silenzio. Arriva il turno di Belleggia, il cui ruolo è rimasto finora più defilato e che si è guadagnato la fiducia dei giudici con le dichiarazioni e le ammissioni rese al momento dell’arresto, tanto da ottenere i domiciliari : «Non ho mai colpito Willy. Marco Bianchi lo ha colpito più volte con una scarica di pugni, anche dopo che si era rialzato. Anche Gabriele si affiancò a Marco dando un calcio a Samuele Cenciarelli, che alzando le mani diceva che non c’entrava nulla. Poi ho visto sferrare un ultimo colpo da Marco Bianchi su Willy». Infine Pincarelli, che esordisce con «Mi dispiace, nessuno voleva uccidere Willy».

Raffaella Troili per "il Messaggero" il 18 novembre 2021. La mistificazione della disperazione o la ribellione spocchiosa dell'innocenza. La difesa del sangue, del fratello, perché insieme sono sempre stati i più forti. A scrutarli anche tutto il giorno, non se ne viene a capo, anche se un nutrito numero di persone punta l'indice su di loro, anche gli amici: gli spietati fratelli Bianchi. Ripuliti, preparati, lucidi. Non è il massimo per chi dopo oltre un anno si presenta in aula per non passare «per mostro», per aiutare a capire come e perché è morto Willy Monteiro Duarte, 21enne capoverdiano massacrato di botte a Colleferro il 5 settembre 2020. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi, ieri si sono rivisti e abbracciati, in una cella di sicurezza del Tribunale di Frosinone. E per la prima volta hanno raccontato la loro versione. Presenti tutti e quattro gli imputati che per carità, seppur in giacca e cravatta - vedi Francesco Belleggia - non hanno convinto. Alla fine s'intravede un banale pestaggio, e si comprende l'amarezza di mamma Lucia che a fianco della figlia è rimasta tutto il giorno in aula. «Non siamo dei mostri». I fratelli Bianchi si sussurrano all'orecchio, spavaldi, gran voglia di parlare, finora tenuti a freno dai legali. Attaccano gli amici di quella notte tragica: «Noi accusati ingiustamente, Francesco Belleggia non si assume responsabilità». In breve: dopo oltre un anno, tutti contro tutti, per confondere le acque, nascondere il marcio di quella notte. I fratelli Bianchi si presentano pressoché vestiti uguali: maglia bianca, jeans, sneakers bianche, Marco non toglie lo smanicato. È lui il primo a parlare: «Non ho colpito al petto Willy gli ho dato un colpo al fianco e si è rialzato». Puntiglioso, leone in gabbia, si descrive come «un semplice ragazzo: lavoro casa e sport», la passione per la Mma, arti marziali praticate già dai 9 anni, maestro lo zio, passione di famiglia. Il sogno di farne un lavoro. «È uno sport come tutti gli altri ci sono regole non si possono tirare colpi alla testa ai testicoli ecc.». Mamma Lucia ascolta, abbassa la testa, si copre il volto, si affloscia sulle spalle della figlia. Sul volto di Marco composto serio e ripulito non c'è traccia di Maldito il maledetto come era soprannominato per le sue imprese sportive. Eppure alla fine tutti puntano il dito su di lui. Che ripercorre quella sera, la cena con amici compagne e mogli, il dopocena solo uomini a Colleferro con un fuoriprogramma in uno spiazzale vicino al cimitero con tre ragazze, interrotto da varie telefonate. Perché c'era una rissa in corso, servivano rinforzi. Servivano loro. «Istintivamente da stupido ho dato una spinta e un calcio al fianco a Willy, si è rialzato. Se lo avessi colpito al petto o al viso mi sarei preso le mie responsabilità». Era al fianco dell'amico Omar che gli ha detto «guarda che non c'entra niente». Arrivare e menare, questo solo si evince per certo. La ricostruzione più lunga, la sua. «Io se sbaglio alzo la mano e pago, non siamo mostri noi Bianchi, non auguro a nessuno quello che stanno provando i genitori di Willy ma neanche quello che sto passando io». Perché aspettare tanto per parlare? «Pensavo che gli altri dicessero la verità poi dalla tv ho scoperto che i colpevoli eravamo noi». Poi c'è Belleggia, karateca allora con il braccio ingessato, ieri vestito per la prima comunione. Aveva dato fastidio a delle ragazze ed era stato preso di mira, accerchiato, i Bianchi dicono «umiliato». Piccole beghe che si trasformano in tragedia. «Come mai ha scelto Willy? - incalza però il pm - anche i suoi amici dicono che lo ha colpito forte al petto facendolo cadere». E lui: «Solo perché era davanti al mio amico poteva essere qualsiasi altro». Poi la fuga in macchina verso Artena, «regà quel ragazzo è andato in coma» dice Marco Bianchi, anche Belleggia si rifugia da loro, perché mezza Colleferro li insegue, c'è un ragazzo esanime a terra. Lo stop in un parcheggio per chiarire responsabilità e colpe, ma il piano di fatto salterà. Di certo Belleggia ha chiesto aiuto e si è fatto forte, chissà forse ha infierito anche lui: piange in auto con gli amici che lo offendono, «sei un pezzo di m... perché hai colpito il ragazzo che era a terra? Poi ci vanno di mezzo i Bianchi». A un certo punto nella mischia ci sono Mario Pincarelli («ero ubriaco, ho dato due pizze a uno che mi aveva fatto cadere, non so chi fosse»). Rivolgerà parole di cordoglio alla famiglia di Willy. Mamma Lucia abbassa la testa ogni qualvolta si parla di colpi, dieci, venti «vedo solo indifferenza, tante parole, nessun pentimento, richiesta di perdono». È la volta di Gabriele Bianchi, il più convincente: «Io è un anno e due mesi che voglio dire la verità, che aspetto questo momento, non vedo l'ora di rispondere a tutte le vostre domande». Poi chiede perdono all'amico di Willy a «Cenciarelli perché l'ho colpito al petto. Ma è stato Belleggia a sferrare il colpo al mento e alla mandibola di Willy: è caduto a terra ma era cosciente, stava per rialzarsi quando Belleggia ha preso la rincorsa e lo ha colpito al collo con un calcio senza pietà. Un infame vigliacco. Sono vicino al dolore della famiglia di Willy poteva essere un mio fratello un figlio». Allora: Gabriele non ha toccato Willy ma Cenciarelli, Bianchi l'ha solo colpito al fianco. Invece Belleggia dirà dietro gli occhiali da Clark Kent che Marco Bianchi ha infierito su di lui con un «calcio frontale al petto e un altro al collo mentre stava per rialzarsi» e un altro e un altro ancora mentre il fratello prendeva di petto l'amico Cenciarelli. Pincarelli era così ubriaco che non ricorda nulla. Forse tra le righe, la banalità di questa storia sta nello scambio tra Cenciarelli e l'amico Federico Zurma: «Ma che cosa ho fatto?»; «Mi hai guardato storto».

Natascia Grbic per fanpage.it il 26 novembre 2021. "Sto a posto con la coscienza, non ho ucciso Willy. Ho scritto una lettera ai familiari, mi dispiace ma non sono stato io". A dichiararlo dal carcere è Mario Pincarelli, uno dei quattro ragazzi accusati dell'omicidio di Willy Monteiro Duarte, il giovane ucciso lo scorso 6 settembre in piazza Oberdan a Colleferro. Le sue parole sono riportate in esclusiva da Adnkronos in un articolo a firma di Silvia Mancinelli. Pincarelli ha dichiarato di aver dato a Willy "solo" uno schiaffo: "Se avessi dato i pugni, gli anelli avrebbero lasciato i segni. Spero che la verità venga fuori, Willy deve avere giustizia". "Solo dalla tv ho saputo della sua morte – continua – Ero in un frullatore, sono stato male, ma agli altri detenuti chiedevo se mi credessero. Ancora non ci credo di essere qui dentro". "Non ho ucciso io Willy – continua il ragazzo – Gli ho dato solo una pizza quando mi hanno dato una spinta. Tutti sbracciavano e mi ci hanno fatto cadere sopra. È stato in quel momento che l'ho colpito con uno schiaffo". E ha poi aggiunto: "Io non lo so chi abbia colpito Willy, ero di spalle. Chi lo ha fatto ha sbagliato, nessuno merita di morire in quel modo. Non penso però che ci fosse la volontà di ucciderlo. Non credo che Marco, Gabriele o Francesco avessero avuto questa intenzione, perché da quello che so Willy non aveva fatto niente a nessuno, neppure lo conoscevano, nemmeno io lo conoscevo. Mi sono trovato in mezzo agli impicci.". Mario Pincarelli ha poi dichiarato di aver provato a parlare con i genitori di Willy durante la scorsa udienza, ma di non essere riuscito a dire tutto ciò che avrebbe voluto. "Ai genitori di Willy voglio dire ancora una volta che mi dispiace per tutto quello che è successo, so che il loro dolore è grande. Lo vedo negli occhi di mia madre, ed io sono ancora vivo, in carcere ma vivo. Willy è morto. Qui dal carcere ho scritto più lettere alla famiglia di Willy, dove ho cercato di stargli accanto, di fargli sentire il mio dispiacere per la vicenda, ma dicendogli da sempre che io non ho ucciso Willy. Se fossi io il responsabile, lo ammetterei". 

Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 10 dicembre 2021. Con lo spaccio aveva iniziato già nel 2008 poi ha continuato, seppur ad intermittenza, tra un arresto e l'altro fino a che per lui, zio paterno dei fratelli Bianchi, non si sono aperte le porte del carcere di Rebibbia. I carabinieri della stazione di Artena ieri sono andati a prenderlo a casa: Vito Bianchi, classe 1967, non ha opposto resistenza. Ha preso una sacca e l'ha riempita con alcuni indumenti, ha seguito i militari chiudendosi alle spalle la porta della villetta adiacente a quella dove vivevano i due ragazzi finiti a processo per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte. In quella abitazione Bianchi zio era agli arresti domiciliari già dal 2020 poi il suo avvocato ha presentato istanza al tribunale di sorveglianza per l'affidamento ai servizi sociali. I giudici nel valutare la richiesta, hanno passato al setaccio la sua posizione. Risultato? L'istanza presentata dal suo legale è stata respinta e verso il Bianchi il tribunale di Velletri ha emesso un ordine di carcerazione per un cumulo di pene relative a reati compiuti nell'ambito degli stupefacenti (possesso ai fini di spaccio per lo più). Cinque anni in tutto e una multa da 20 mila euro.

LA VICENDA

L'epopea del Bianchi zio si consuma nel sottobosco dello spaccio di provincia, in quello stesso ambiente dove, qualche anno più tardi, i suoi nipoti verranno accusati di un crimine orribile: aver pestato fino ad ucciderlo, Willy, un ragazzo ventunenne la cui unica colpa, la sera del 6 settembre 2020, fu quella di difendere un amico in difficoltà. Nato come operaio, lo zio di Marco e Gabriele, inizia ad avere i primi guai con la giustizia nel 2008 quando viene arrestato per la prima volta sempre per reati legati alla droga. Poi dal 2019 comincia ad inanellare una serie di fermi, arresti e perquisizioni. Nel giugno di quell'anno, per una precedente condanna - ricostruiscono i carabinieri della Compagnia di Colleferro - viene sottoposto all'obbligo di presentazione poi qualche mese più tardi, ad ottobre, viene fermato con una donna e accusato di spaccio in concorso. 

LA COCAINA

Nell'auto dove viaggiavano i due vengono trovati 55 grammi di cocaina e i militari passano così a perquisire la sua abitazione rinvenendo due bilancini di precisione oltre ad altro materiale per il confezionamento e tracce ulteriori di droga. Per questo Bianchi zio viene posto ai domiciliari con una sentenza del marzo 2020. Ma non basta perché il 7 luglio di un anno fa, il 54enne si rende irreperibile ma una volta rintracciato torna ai domiciliari. Qualche mese fa il suo avvocato presenta la richiesta di affidamento ai servizi sociali che, tuttavia, viene respinta e così da ieri lo zio dei fratelli Bianchi si trova in carcere. La scadenza della pena, considerati comunque i mesi trascorsi ai domiciliari, è stata fissata al 15 ottobre 2024.

Sono i “cattivi perfetti”, ma lo Stato di diritto c’è anche (e soprattutto) per i fratelli Bianchi. La pubblicazione delle intercettazioni della madre a colloquio nel parlatoio del carcere non ha alcuna utilità nell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Willie Duarte, è utile soltanto a suscitare l’indignazione collettiva. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 settembre 2021. Ci sono fatti di cronaca che generano passioni brucianti nell’immaginario pubblico, specialmente quando alla sbarra appaiono gli “indifendibili”, i super cattivi, quei ceffi sinistri senza sfumature e qualità che vorremmo tenere lontani dagli occhi. L’omicidio di Willie Duarte, pestato a sangue lo scorso anno nel centro di Colleferro dai fratelli Marco e Gabriele Bianchi, è uno di quei casi. Da una parte un ragazzo coraggioso e altruista che accorre a proteggere un amico in grave difficoltà, dall’altra dei bulli palestrati noti a tutti per la ferocia e la violenza dei loro comportamenti. Razzisti, sessisti, omofobi, tribali, ma anche fatui, superficiali, vanitosi; da mesi i media saccheggiano le pagine social degli imputati e tengono alta l’attenzione attorno alla loro saga familiare che garantisce click e visualizzazioni. C’è il format del “ritratto antropologico”, versione snob della più ruspante lapidazione digitale che di solito l’accompagna. Lo scopo è sempre lo stesso: suscitare l’indignazione collettiva. La pubblicazione delle intercettazioni della madre Simonetta Di Tullio a colloquio con il figlio Gabriele nel parlatoio del carcere non ha alcuna utilità nell’inchiesta giudiziaria sulla morte di Willie Duarte ma alimenta questa saga. Che un detenuto si lamenti in privato con un genitore della sua prigionia è cosa del tutto normale, quasi irrilevante, dare le sue parole in pasto al popolo di internet è un espediente cinico per far lievitare le visualizzazioni e incassare qualche like, contando sui riflessi pavloviani della “gente”. Se poi ci si aggiungono le squallide affermazioni di Simonetta Di Tullio infastitidita da tutto questo clamore perché in fondo «mica è morta la regina d’Inghilterra», il pranzo è servito. «Bestie», «escrementi», «letame», «melma», «feccia», «dovete morire», «ci vuole la tortura», la giostra è subito partita, proprio come volevano i media, molto abili a monetizzare le pulsioni del popolino indignato. E a farla girare ci si sono messi anche i politici, come per esempio Giorgia Meloni che ieri mattina su Twitter augurava ai due di «marcire in galera», dimenticando che sono accusati di omicidio preterintenzionale, reato per il quale non è previsto l’ergastolo. Inutile dire che l’account di Meloni è stato subito preso d’assalto da chi le rimprovera quasi di essere “la mandante morale” dei fascistissimi imputati in un grottesco crescendo di insulti. Che Marco e Gabriele Bianchi non fossero i fratelli Karamazov si era capito da tempo, il degrado culturale e umano di quel contesto familiare è chiaro ormai a tutti e presumibilmente al termine del processo verranno condannati. Pensare che lo Stato di diritto non debba essere applicato perché antropologicamente dipinti come dei subumani è invece una bestialità che ci mette alla stregua di chi ha ucciso il povero Willie Duarte.

Francesco Strippoli per corriere.it il 6 settembre 2021. Tre pugni sferrati uno dopo l’altro con quella che il pubblico ministero definirà «tecnica da combattimento». La vittima che cade e muore sul colpo, forse per aver urtato violentemente il capo sull’asfalto. Sono le tre di domenica mattina, a Bitonto, 56 mila abitanti alle porte di Bari, in una frequentata stazione di servizio sulla provinciale che porta a Modugno dove il bar è sempre aperto. A terra rimane Paolo Caprio, 41 anni da compiere a novembre, piccolo artigiano che si occupa di cartongessi e pitturazione edile, un matrimonio che fa le bizze e una figlia di cinque anni. A sferrare i pugni è un 20enne, si chiama Fabio Giampalmo, bitontino come la vittima, precedenti per droga e forse una certa confidenza con le arti marziali. La stazione di servizio, di notte, è l’alternativa all’affollata movida cittadina: alle tre di domenica è piena di gente. Ci sono vari gruppi. Giampalmo è lì con la compagna e altri amici, tutti in coppia: gli uomini nel bar a giocare con le slot, le ragazze sotto il gazebo a prendere il fresco. Dentro notano Caprio staccarsi dal suo accompagnatore e avvicinarsi alle donne, forse scambiare qualche parola con loro. Giampalmo e gli altri escono, allora Caprio prima si allontana ma poi torna sui suoi passi, sembra accostarsi di nuovo al gazebo. Il ventenne a quel punto gli si avventa contro e lo colpisce al volto, l’artigiano cade, l’ambulanza arriva poco dopo ma non c’è più nulla da fare. I carabinieri del Reparto operativo, diretti dal colonnello Vincenzo Di Stefano, grazie a telecamere e testimoni, ci mettono poco a individuare l’aggressore. Non ci sarà bisogno di andarlo a prendere: alle 8 e un quarto il ragazzo si fa accompagnare dall’avvocato alla stazione dell’Arma. Il magistrato che indaga, Ignazio Abbadessa, ha emesso a suo carico un decreto di fermo contestandogli l’omicidio volontario aggravato dai «futili motivi» e «attraverso l’utilizzo di tecniche di combattimento tali da ostacolare la privata difesa». Il colonnello Di Stefano chiarisce: «In questa storia non c’entra la criminalità, è una lite che si è conclusa con il più tragico degli epiloghi». Nel decreto di fermo l’indagato ricostruisce l’episodio. Caprio, dice Giampalmo al pm, «si è avvicinato per origliare cosa stessimo dicendo e ha guardato in maniera provocatoria le nostre compagne. Io mi sono alzato e gli ho detto testualmente: “Sempre avanti e indietro devi andare? Qual è il problema?”. Gli ho tirato tre pugni colpendolo al viso, l’ho visto cadere in terra e sbattere la testa sul marciapiede. Non pensando che sarebbe morto sono andato via». Si allontanano tutti. A soccorrere l’artigiano provano gli uomini del 118, ma senza successo. Forse domani sarà eseguita l’autopsia per capire la causa della morte, se i pugni o l’urto dopo la caduta. Il 20enne, che si trova nel carcere di Bari, è ora a disposizione del gip per l’interrogatorio di garanzia. La vicenda ha scosso la comunità di Bitonto. «Questo episodio — dice il sindaco Michele Abbaticchio — non è legato alla criminalità. Tuttavia continuo a far osservare, e l’ho già fatto molte altre volte, che le forze dell’ordine qui sono fissate in proporzione alla popolazione e non al territorio che è molto vasto. Per di più il numero di poliziotti e carabinieri è inferiore alla dotazione prevista. La tragedia di domenica fa riemergere il problema della sicurezza e dei controlli. L’ho già detto alla prefettura e al ministero dell’Interno in tutte le lingue. Ora l’unica cosa che mi rimane è incatenarmi per cercare di farmi ascoltare».

Pomeriggio 5, spari alla prima Comunione: "Perché hanno aperto il fuoco". Acireale, dalla D'Urso la testimonianza-choc. Libero Quotidiano il 07 settembre 2021. "Hanno litigato per un banco": a parlare è il parroco della chiesa di Acireale, che a Pomeriggio 5 ha raccontato la causa scatenante della rissa avvenuta durante la celebrazione delle prime comunioni. Una lite finita nel sangue. Uno degli uomini coinvolti, 69 anni, è stato arrestato per aver ferito gravemente con un colpo di pistola alla testa un vice brigadiere dei carabinieri, che si era intromesso solo per sedare la discussione. Secondo la testimonianza fornita dal sacerdote, la rissa sarebbe iniziata per via di un litigio tra i genitori di uno dei bambini in attesa della comunione: "L'ex marito ha sorteggiato il primo banco, all'ex moglie invece è capitato l'ultimo". La madre del bambino, insomma, non avrebbe accettato di essere seduta lontana dall'altare, a differenza dell'ex marito "seduto, invece, in prima fila insieme alla compagna". A farne le spese, però, è stato un uomo delle forze dell'ordine, anche lui in chiesa per la prima comunione del figlio e intervenuto per placare la rissa, proseguita anche dopo sul sagrato della parrocchia. Il vice brigadiere, ferito da un colpo di pistola al collo, adesso rischierebbe la paralisi. "Spero che cose del genere non accadano più, qui e altrove, ricordiamoci che il bene principale sono i bambini e non di certo dove siamo seduti. È importante solo cosa si fa per il proprio figlio", ha detto infine il parroco.

Carabiniere ferito ad Acireale, il prete: “Litigavano per il banco in prima fila, una bestialità”. Debora Faravelli il 07/09/2021 su Notizie.it. Alla base della rissa ad Acireale che ha portato un Carabiniere a rimanere ferito ci sarebbe un litigio per il posto in prima fila in chiesa. Il parroco che ha assistito in prima persona alla rissa, scoppiata nei pressi della chiesa di Acireale, in cui è rimasto gravemente ferito un Carabiniere ha raccontato i dettagli dell’accaduto. Alla base dello scontro ci sarebbe stata una banale lite tra ex coniugi per un posto in prima fila per la comunione del figlio. “È accaduto tutto per via di una banalità, di una bestialità, per il posto dove stare seduti in chiesa: come da sorteggio, il padre era avanti e la ex moglie era indietro” ha spiegato don Claudio Catalano. La sorte aveva infatti voluto che l’uomo capitasse nei primi banchi con la nuova compagnia e la ex moglie negli ultimi. La madre del bambino non avrebbe accettato questa situazione e tra i due sarebbe nata una lite, continuata anche fuori dalla chiesa. Il padre sarebbe infatti stato aggredito dai parenti di lei e, per placare gli animi, è dunque intervenuto il vicebrigadiere dei Carabinieri Sebastiano Giovanni Grasso, anche lui in chiesa per la prima comunione del figlio. Il nonno del bimbo oggetto della contesa, vedendo il figlio in pericolo, ha però estratto la pistola e ha aperto il fuoco colpendo il militare con un proiettile. L’uomo si trova attualmente in carcere in stato di arresto. “Spero che cose del genere non accadano più, qui e altrove. Ricordiamoci che il bene principale sono i bambini, non di certo dove siamo seduti. È importante solo cosa si fa per il proprio figlio“, ha commentato il parroco. Il vicebrigadiere è stato intanto sottoposto ad un delicato intervento per una lesione midollare. Un’operazione eseguita con successo, hanno fatto sapere i medici, aggiungendo che il paziente non è in pericolo di vita ma rischia la paralisi. “Le sue condizioni sono stazionarie, la prognosi resta riservata con riferimento agli eventuali esiti della lesione“, hanno aggiunto dall’ospedale Cannizzaro di Catania. L’Arma ha menzionato il suo senso del dovere e lo spirito di servizio che Grasso ha messo davanti ad ogni altra considerazione: “Non ha esitato un istante a intervenire a supporto dei colleghi che stavano tentando di sedare l’alterco e ora paga con gravi conseguenze fisiche l’aver messo la sua vita al servizio delle Istituzioni e dei cittadini“.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 7 settembre 2021. Domenica Sebastiano Giovanni Grasso, carabiniere di 43 anni, non era in servizio. Il sottufficiale dei carabinieri si era assicurato nei mesi scorsi di potere ottenere il giorno libero. La prima comunione di suo figlio non era stata celebrata a maggio per le restrizioni dovute ai contagi. E il giorno era finalmente arrivato. Non indossava la divisa ma la giacca elegante. E invece, quando tra la navata e le panche di Santa Maria degli Ammalati, nella frazione di Acireale, è scoppiata la rissa, non ce l'ha fatta a far finta di niente. È intervenuto per fermare quella lite folle, che aveva lasciato tutti sbalorditi. E di nuovo, nel sagrato, quando qualcuno aveva chiamato i suoi colleghi, ha tentato di aiutarli e di placare la furia dei parenti di un altro bambino, che avevano dimenticato il motivo per cui si trovassero lì. Un proiettile l'ha colpito tra la gola e la testa, compromettendo il canale midollare, e adesso Giovanni Grasso rischia la paralisi. La furibonda lite era esplosa per i posti a sedere assegnati ai componenti della famiglia del ragazzino pronto a ricevere la comunione per la prima volta. Il padre, separato dalla moglie, in prima fila con la nuova compagna. La mamma del piccolo più indietro. A esplodere il colpo è stato il nonno paterno del bambino, 63 anni, in carcere per tentato omicidio e porto illegale di arma da fuoco. Secondo una prima ricostruzione, il sorteggio aveva assegnato al padre del ragazzino il posto in prima fila. L'ex moglie e i parenti si sarebbero opposti e così, dentro la chiesa, è andato in scena il primo scontro. Il padre del ragazzino sarebbe stato schiaffeggiato. Quando l'uomo è uscito è scoppiata una nuova lite, che presto si è trasformata in rissa: questa volta sarebbe stato il padre del ragazzo a colpire un ex familiare dopo essere stato insultato. Il vice brigadiere Grasso è intervenuto per dare una mano ai due colleghi in divisa che stavano cercando di separare una decina di persone. In quel momento il nonno paterno del ragazzo ha esploso un colpo di pistola che ha colpito il sottufficiale tra il collo e la testa. Dopo alcuni momenti di grande tensione il 63enne ha deposto l'arma a terra e si è fatto ammanettare dai carabinieri. I medici dell'ospedale Cannizzaro di Catania, dove il paziente è ricoverato in gravi condizioni, sottolineano che «non è in pericolo di vita», ma si temono «eventuali esiti delle lesioni». Il rischio peggiore è quello di una paresi per i danni alla colonna cervicale: una prima valutazione clinica relativa alla possibilità del recupero funzionale è stata già fatta dall'unità spinale che dovrà valutare il tipo di riabilitazione da avviare». «Grasso - ha detto il comandante generale dell'Arma, Teo Luzi - è vittima dell'immane battaglia che i carabinieri, assieme alle altre forze di polizia, combattono per garantire sicurezza e serenità ai cittadini, con grande generosità ogni giorno sempre al servizio del Paese. Il valoroso vicebrigadiere paga con gravi conseguenze fisiche l'aver messo la sua vita al servizio delle Istituzioni e dei cittadini». «Piena condanna per la brutale aggressione» è stata espressa dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che ha manifestato «a Grasso, ai familiari e a tutti i carabinieri, che ogni giorno rischiano la propria vita al servizio dei cittadini» la sua vicinanza e quella di tutta la Difesa. Per il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, il gesto del vicebrigadiere testimonia ancora una volta «l'altruismo, la generosità e il coraggio delle donne e degli uomini delle Forze di polizia sempre disposti a mettere a rischio la loro incolumità per garantire la sicurezza dei cittadini».

"Un incubo per i bambini", la foto choc sullo sparo al carabiniere. Angela Leucci il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. La testimonianza di don Claudio Catalano, il sacerdote presente alla rissa con sparatoria ad Acireale in cui è stato colpito un carabiniere. Il vicebrigadiere Sebastiano Grasso a terra, oscurato per rispetto, un sacerdote, una donna che tiene per mano un bambino piccolo. Sono alcune tra le prime cose in evidenza sulla foto choc mostrata a “Chi l’ha visto?” in relazione alla rissa con sparatoria avvenuta nei giorni scorsi ad Acireale fuori da una chiesa in cui si stavano celebrando le comunioni. La foto, insieme all’ormai celebre video dell’interno della chiesa che fu subito diffuso, dà la misura di quei momenti terribili e concitati. “Un incubo che si porteranno dietro a vita i bambini secondo me”, ha commentato il sacerdote don Claudio Catalano, che stava officiando la messa. Ai comunicandi e agli altri bambini presenti in quel momento sarà dato, anche grazie all’ente comunale, un supporto psicologico, dato che alcuni di loro hanno difficoltà a tornare in chiesa. Don Claudio ha inoltre confermato che il fatto sarebbe scaturito da un litigio tra ex coniugi per il posto assegnato in chiesa tramite sorteggio. Fin dalle 18, i due ex avrebbero iniziato a litigare, e don Claudio avrebbe cercato di portare una tregua tra loro, ma invano, perché poi durante la messa la discussione è ripresa, con il coinvolgimento di altre persone e, in quegli attimi concitati, il vicebrigadiere Grasso è stato colpito da uno sparo, il cui rumore ha gettato tutti i presenti nel panico, come si vede appunto nel video diffuso. “Dal sagrato della chiesa - ha raccontato Don Claudio - ho visto la volante dei carabinieri qui davanti e uno dei figli dell’uomo che ha sparato che chiedeva aiuto e poi l’ex marito, colui che è stato malmenato, sui gradini, mentre lì c’era il corpo del vicebrigadiere per terra. Mi sono avviato verso il corpo del vicebrigadiere per vedere se avesse bisogno di qualcosa, nel frattempo c’era anche la figlia dell’uomo che ha sparato e che gridava e il fidanzato, gridavano. Ho cercato di tranquillizzare loro prima. Poi mi sono rivolto all’ex marito per farmi spiegare quello che era successo e nel frattempo sono andato dal vicebrigadiere che chiamava sia me sia la catechista perché ci conosceva, chiedendoci di andare a prendere la figlia in macchina”. Il vicebrigadiere Grasso è attualmente in condizioni gravi ma stabili. Non si conosce molto della sua situazione perché la prognosi è riservata, ma si sa che è stato sottoposto a due interventi chirurgici riusciti in questi giorni.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Ecco cosa significa il codice delle navi da guerra. Lorenzo Vita il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Ogni nave ha un numero dipinto sullo scafo: è il pennant number. La sua storia risale alla tradizione della Royal Navy e ci spiega (quasi) tutto su un'unità. Cosa significa quel numero su quella nave da guerra? È la domanda che molti osservatori si fanno guardando una portaerei, una fregata o anche un sottomarino. L'occhio osserva la pista, il ponte di comando, la prua... e ci si imbatte in uno strano codice dipinto sullo scafo. Tendenzialmente, ma non per tutte le Marine del mondo, è un codice alfanumerico: una lettera e alcuni numeri. Un codice preciso, diverso per ogni nave e che solo apparentemente non vuol dire nulla, se non intuitivamente il "nome" della nave. In realtà quel sistema di lettere e numeri ha una storia e un significato particolari che affondano le proprie radici nella tradizione della Royal Navy. È la Marina britannica che per prima intuì l'utilità di un segno distintivo che potesse far capire ai comandanti alleati (e nemici) quale imbarcazione si stesse incrociando. Un segnale utile quando le operazioni dovevano essere coordinate con binocoli e bandiere e per questo era necessario avere qualche elemento in più per capire che unità fosse quella che si osservava dal ponte della propria nave. L'invenzione britannica, che si estese a tutto il Commonwealth, ha preso poi piede anche in molte Marine del mondo. Il pennant number è diventato a tutti gli effetti un distintivo ottico presente su tantissime navi (occidentali e non), uno dei modi che hanno gli esperti per identificare immediatamente un'unità militare. E nella Marina Militare Italiana? Le lettere sono un riferimento al tipo di unità: "S" per sottomarino, "F" per fregata, corvetta o pattugliatore di squadra, "D" per cacciatorpediniere, "A" per nave ausiliaria, "P" per pattugliatore d'altura o costiero, e così via. Diverso il caso di portaerei e incrociatori portaeromobili, dove invece viene preferito solo il "55" più un numero. Numeri che possono sembrare delle semplici "targhe", ma che invece aiutano a capire a chiunque guardi una nave cosa è in grado di fare, quale è la classe di appartenenza e, se osservata in navigazione, si può anche capire per quale motivo venga inviata in un certo teatro operativo.

Lorenzo Vita. Nato a Roma il 2 febbraio 1991, mi sono laureato in giurisprudenza nel 2016 con una tesi in diritto internazionale. Dopo la laurea, ho conseguito un master in geopolitica e ho seguito corsi sul terrorismo internazionale. Lavoro per ilGiornale.it dal 2017 e seguo in particolare Gli Occhi della Guerra. Da settembre 2018 mi sono trasferito a Milano e lavoro nella redazione del sito. Mi occupo prevalentemente di Esteri, con un occhio di riguardo alla politica estera del Nostro Paese: fin troppo dimenticata negli ultimi anni. Passioni sportive? Solo la Roma.

Il codice delle portaerei Usa: cosa sono quei colori. Lorenzo Vita il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. La Marina degli Stati Uniti ha un codice fatto di colori per tutto il personale sul ponte di volo di una portaerei. Ogni colore indica una mansione, e crea una vera e propria danza sulla nave. Quando si guarda una portaerei della Marina degli Stati Uniti, l'occhio cade spesso sul personale impegnato sul ponte di volo, in continuo movimento. Donne e uomini che preparano gli aerei e la pista, risolvono problemi, gestiscono il traffico dei mezzi dell'aviazione navale. E che attraggono soprattutto per i loro movimenti e per i colori, che appaiono come rituali di un tempio bellico di acciaio e votato alla guerra. Lì dove cielo e mare si uniscono in maniera indissolubile. In questa sorta di danza guerresca intorno ai caccia pronti al decollo o appena arrivati sulla pista della portaerei, i colori svolgono un ruolo essenziale. Nella Us Navy nulla può essere lasciato al caso e così per ogni mansione è previsto un colore specifico per giacca, casco e pantaloni. Non c'è alcuna fantasia in quella scelta, ma una precisione che serve a rendere la portaerei una macchina perfetta in cui ogni ingranaggio deve essere facilmente identificato da piloti e personale. Naturalmente la Marina degli Stati Uniti non è l'unica ad avere un codice di colori o sistemi particolare per l'identificazione del personale sul ponte di volo. Ma forse per la tradizione delle portaerei Usa, forse per il loro utilizzo in vari teatri di guerra o forse anche per i film che per decenni ne hanno rilanciato il ruolo, i ponti di volo di questi giganti del mare sono noti a tutti. E meritano una descrizione. Dicevamo, appunto, dei colori. La Us Navy ne ha individuati sette: bianco, blu, giallo, marrone, rosso, verde e viola. Ciascuno definisce un ruolo su cui poi esiste un'ulteriore specificazione basata sul colore del casco, combinandosi in uniformi del tutto particolari.

I colori degli addetti.

Il bianco è un colore che indica diversi tipi di ruoli. I più noti probabilmente sono gli addetti ai segnali di atterraggio, i Landing Signal Officers, ma a questi si aggiungono ispettori per la qualità e la sicurezza dei mezzi, personale medico, addetti all'ossigeno liquido, gestori del traffico sulla pista. Un insieme estremamente vario di ruoli con compiti anche molto diversi l'uno dall'altro per i quali, appunto, la distinzione avviene a sua volta con il diverso colore del casco.

Gli addetti con la giacca blu sono invece coloro che sul ponte di volo "manovrano" i mezzi spostandoli da una parte all'altra della nave sia con mezzi appositi sia con gli ascensori.

Quelli in giallo - alcuni dei quali dirigono anche gli "uomini in blu" - sono gli ufficiali di manovra degli aerei, gli ufficiali addetti alla catapulta e all'arresto dei mezzi aerei e dirigono i velivoli nella delicata fase di rullaggio. Sono coloro che appaiono più spesso nelle foto o nei video delle portaerei, in particolare quando un caccia si lancia verso il decollo.

Il marrone è un altro colore particolarmente interessante. Perché le divise marroni sono quelle indossate dagli Air Wing Plane Captains, i capitani che si occupano della supervisione degli aerei, della loro manutenzione, che siano perfettamente in ordine. Sul sito Jalopnik, raccontano che nella Marina degli Stati Uniti c'è un proverbio per cui "capitano dell'aereo è colui che veramente 'possiede il jet' e il pilota lo prende in prestito solo per un paio d'ore alla volta". Un modo di dire che forse spiega più di mille concetti l'importanza di chi veste l'uniforme marrone su un ponte di volo di una portaerei.

Gli addetti che indossano il colore rosso sono invece quelli che "gestiscono" la parte delle armi e in generale sono quelli che si occupano delle fasi più pericolose su una portaerei. In rosso si vestono gli artiglieri, le squadre di salvataggio, quelle antincendio e il personale addetto allo smaltimento degli ordigni. Insomma, tutto ciò che rappresenta un situazione al limite è tendenzialmente caratterizzato da questo colore.

Per quanto riguarda il verde, questo colore è indossato da diverse tipologie di marinai. Di verde sono vestiti gli addetti alla manutenzione dell'Air Wing, chi ripara i sistemi di supporto a terra così come i tecnici che lavorano sull'aereo. Ma quelli più noti e più visibili sono sicuramente quelli che gestiscono e mantengono le catapulte e tutto ciò che serve a fermare un aereo in fase di atterraggio. Compito di fondamentale importanza e ad altissimo rischio, specie nella fase di atterraggio, per l'utilizzo dei cavi che fermano gli aerei mentre toccano la pista.

Infine il viola. Se sul ponte di volo vedete personale vestito di viola, quello è composto da donne e uomini che si occupano esclusivamente del carburante degli aerei. Nella Us Navy, come ricorda il Daily Mail, sono chiamati anche scherzosamente "grapes", cioè "uva", proprio per il loro colore. E sono gli unici che possono lavorare sul rifornimento di carburante ma anche sullo scarico. Un lavoro di altissima precisione: basta un errore per provocare un disastro.

Lorenzo Vita. Nato a Roma il 2 febbraio 1991, mi sono laureato in giurisprudenza nel 2016 con una tesi in diritto internazionale. Dopo la laurea, ho conseguito un master in geopolitica e ho seguito corsi sul terrorismo internazionale. Lavoro per ilGiornale.it dal 2017 e seguo in particolare Gli Occhi della Guerra. Da settembre 2018 mi sono trasferito a Milano e lavoro nella redazione del sito. Mi occupo prevalentemente di Esteri

L’anniversario delle Frecce Tricolori: un abbraccio lungo 60 anni. Paolo Mauri su Inside Over il 20 settembre 2021. Sabato 18 e domenica 19 settembre, a Rivolto (Ud), sede del Secondo Stormo dell’Aeronautica Militare ma soprattutto del 313esimo Gruppo Addestramento Acrobatico, si è tenuta la manifestazione aerea per il sessantesimo anniversario della fondazione della Pattuglia Acrobatica Nazionale: le Frecce Tricolori. La nostra Arma Azzurra ha una lunghissima tradizione acrobatica: i primi esercizi si fanno risalire al periodo tra le due guerre quando nacque l’Aeronautica come forza armata separata il 28 marzo 1923. Dopo gli eventi bellici del Secondo Conflitto Mondiale, agli inizi degli anni ’50, l’Aeronautica Militare valutò la possibilità di costruire un reparto espressamente dedicato all’addestramento acrobatico, con l’obiettivo di perfezionare la preparazione dei piloti e non disperdere le esperienze maturate in un campo del tutto particolare come quello dell’acrobazia aerea. A Rivolto nacque così la cosiddetta “Unità Speciale”, la prima cellula delle odierne Frecce Tricolori. Era il 1 marzo 1961. Pochi sanno, invece, che dopo la guerra la nostra Aeronautica riprese la tradizione secondo cui gli stormi da caccia esprimevano le proprie doti acrobatiche con formazioni di piloti che, oltre alla normale vita operativa, si dedicavano a questa particolare manifestazione del volo. Iniziò, allora, una rotazione fra i reparti dell’Am per garantire nel tempo una pattuglia acrobatica alla Forza Armata: i “Getti Tonanti”, le Tigri Bianche, il Cavallino Rampante, i Diavoli Rossi e i Lanceri Neri furono le formazioni che meglio espressero, negli anni ’50, lo sviluppo dell’acrobazia italiana. L’esigenza di razionalizzare sia l’impegno degli uomini sia degli aeroplani portò a costituire una pattuglia “permanente”. Il 3 marzo del 1961 arrivarono così, a Rivolto, i primi sei piloti a bordo dei CL-13 Sabre Mk 4, gli F-86E costruiti su licenza in Canada: sulle code degli aeroplani il Cavallino Rampante del Quarto Stormo. Il primo maggio dello stesso anno venne organizzata la prima esibizione sull’aeroporto di Trento di quella che già allora veniva chiamata Pattuglia Acrobatica Nazionale e che, a distanza di due mesi, venne ufficialmente denominata 313° Gruppo Addestramento Acrobatico. Quest’anno, in occasione del loro 60esimo anniversario, le Frecce Tricolori si sono esibite “in casa” in una due giorni ricca di emozioni date anche grazie alla partecipazione di altre pattuglie acrobatiche europee e grazie a un airshow che ha visto la presenza di molti velivoli dell’Aeronautica Militare. Nel lungo programma di volo, cominciato verso l’una del pomeriggio e proseguito quasi ininterrottamente sino alle 19, si sono esibite le pattuglie acrobatiche di Polonia, Finlandia, Spagna e Svizzera. La pioggia, che nella giornata di domenica 19 a tratti ha assunto i contorni di un vero e proprio nubifragio, non ha intaccato la bellezza delle esibizioni: dopo il passaggio del Tricolore, appeso a un elicottero HH-139A dell’Am che ha aperto ufficialmente la manifestazione, ai sette velivoli Pzl-130 Orlik dell’aeronautica polacca è toccato effettuare la prima esibizione acrobatica della giornata. A seguire i quattro Bae Hawk finlandesi dei Midnight Haws che hanno preceduto gli spagnoli della Patrulla Aguila (che vola su sette Casa C-101) e da ultimi i sei F-5E Tiger della Patrouille Suisse. Dopo l’esibizione degli svizzeri l’airshow ha parlato solo italiano: un Eurofighter Typhoon ha effettuato una dimostrazione di decollo in “scramble” (su allarme) a tutto motore, e la fiamma dei postbruciatori – ed il loro rumore assordante – ha squarciato il grigio cielo di Rivolto. È toccato poi a un C-27J Spartan dimostrare le proprie doti di volo: il biturboelica da trasporto della nostra Aeronautica Militare ha impressionato per le sue doti di maneggevolezza effettuando una virata stretta quasi “a coltello” sul sedime aeroportuale e un tonneau che ha lasciato gli spettatori letteralmente senza fiato. Senza dimenticare l’atterraggio effettuato in modalità “tattica”, ovvero con una ripidissima discesa (quasi in scivolata d’ala) seguita dalla richiamata appena prima di toccare la pista, dove lo Spartan si è fermato in pochissime centinaia di metri. C’è stato spazio anche per l’M-346A, il nuovo velivolo biposto da addestramento di Leonardo, che ha dimostrato il perché del suo successo in campo internazionale: l’aereo è stato venduto ad Israele e all’Azerbaigian e al Turkmenistan nella sua versione FA da attacco leggero. In volo anche l’Amx Ghibli, che ha partecipato, insieme a Tornado e Typhoon, ad una dimostrazione di esfiltrazione da parte di un distaccamento di incursori del 17esimo Stormo, scesi dagli elicotteri HH-101A e decollati a bordo di un C-130J che ha dimostrato di avere ancora molte “frecce al suo arco” arrestandosi e decollando in brevissimo spazio in una nuvola di pioggia nebulizzata. Mentre gli incursori erano all’opera, i cacciabombardieri simulavano l’appoggio aereo ravvicinato in territorio ostile (Cas – Close Air Support). Mozzafiato l’esibizione di un F-35B, la versione Stovl (Short Take Off – Vertical Landing) del celeberrimo cacciabombardiere Lightning II. Decollato in un “fazzoletto” di pista, ha effettuato manovre ad alto numero di g dimostrando le qualità della macchina ma soprattutto l’enorme potenza sviluppata dal propulsore Pratt&Whitney F-135. Impressionante vedere il volo traslato e “in stazionamento” a così breve distanza: la pioggia, che ha funestato quasi tutta la manifestazione, in questo caso ha permesso di apprezzare l’enorme massa d’aria spostata dai reattori del velivolo. Dopo un passaggio a bassa quota di una formazione composta da un’aerocisterna KC-767A, un Tornado, un Typhoon, un Amx e un C-130J è finalmente venuto il momento tanto atteso: alle 18, i 10 Aermacchi MB-339Pan, dipinti con la ben nota livrea blu ma con le derive recanti gli stemmi araldici e i colori delle passate pattuglie acrobatiche, hanno acceso i motori. Sarà sicuramente merito del caso, ma anche il meteo, quando la nostra pattuglia acrobatica ha cominciato a rullare lungo la pista, ha accolto l’esibizione concedendo una lunga tregua dalla pioggia, e grazie anche al sole calante che dipingeva i suoi colori sulle nuvole scure, ha reso l’esibizione ancora più scenografica. Tante le figure, nei suoi più di venti minuti di durata: dal volo “folle” del solista, sino alla “bomba” e agli incroci mozzafiato delle due sezioni. Infine tutti i velivoli hanno disegnato un enorme arco tricolore nel cielo, abbracciando così idealmente tutti i presenti, che hanno sfidato le condizioni meteo avverse, ma anche tutta l’Italia. Appuntamento all’anno prossimo, sperando che le condizioni pandemiche siano solo un ricordo, ma soprattutto al 2023, anno del centenario della nostra Aeronautica Militare.

Il mezzo secolo dei "marines" italiani. Chiara Giannini l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. Festa a Brindisi per la San Marco, dal 1971 sempre più centrale. Mezzi all'avanguardia, un addestramento utile ad affrontare le nuove minacce mondiali e una rivisitazione delle infrastrutture: è questo il futuro della Brigata Marina San Marco, che compie 50 anni e che viene festeggiata a Brindisi con una serie di eventi che vedranno la presenza, domattina, del sottosegretario alla Difesa Stefania Pucciarelli e del Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. «In cinquant'anni - spiega il comandante della Brigata, contrammiraglio Luca Anconelli - il San Marco è cambiato molto. Da battaglione di 300 persone, oggi siamo passati a 3mila militari (di cui 4 donne, ndr) che operano in un contesto di situazione geopolitica globale molto diversa rispetto al 1971. Come riferimento abbiamo i marines inglesi e americani che stanno basando il loro addestramento su una risposta che sia molto rapida, veloce e leggera. L'idea è quella di concentrarsi su aspetti di natura raid, mantenendo però la capacità di proiezione di una forza dal mare». La Brigata può operare in diversi contesti, come si è visto anche in periodo di Covid. Un esempio lo spostamento del posto medico avanzato di Jesi portato a Brindisi e poi Barletta. Il contrammiraglio Alberto Sodomaco, comandante della Forza anfibia e della Terza divisione navale, tiene a dire: «Per spiegare l'importanza della forza anfibia mi piace usare la sequenza 70-80-90: il 70 per cento della terra è coperta dal mare, l'80 per cento della popolazione vive tra 0 e 200 chilometri dalla costa e il 90 per cento delle informazioni viaggia su cavi sottomarini. Per cui avere una forza di questo tipo è fondamentale. Il mutamento degli scenari anche con la ricomparsa di attori che conoscevamo come Russia e Cina hanno cambiato lo scenario e dobbiamo adattarci. L'adattamento è iniziato su diverse linee evolutive». A partire dall'addestramento del personale: «Siamo indirizzati - spiega Sodomaco - al raid anfibio, ovvero a operazioni con pochi uomini, leggero e orientato nel tempo. Una formazione più proiettata da commando, insomma. Al secondo reggimento abbiamo previsto invece una specializzazione per operare con boarding team dove c'è una minaccia maggiore e in contesti ad alta intensità». Utile anche ai fini di una futura Difesa europea e alla sicurezza dei confini dell'Alleanza atlantica. E poi è previsto il rinnovamento del parco mezzi.

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. 

Fanti piumati, una storia tutta italiana. Gian Pio Garramone su Inside Over il 15 luglio 2021. Se è vero che ogni nazione ha un reparto militare che incarna le tradizioni guerriere di quel paese, è altrettanto vero che per l’Italia quel reparto è la specialità di fanteria dei Bersaglieri. I fanti piumati sono nell’immaginario collettivo italiano da sempre; prima ancora dall’Unità d’Italia. Conscio di questa lunga tradizione intrisa di italianità, e anche perché nei ranghi dei bersaglieri ho trascorsi all’incirca due dei tre anni del mio servizio militare, non potevo non visitare e raccontare una caserma di bersaglieri. Attualmente esistono in Italia sei reggimenti bersaglieri, la scelta è ardua su quale raccontare, ma poi alla fine ho deciso di tornare a casa, in quel del 11° Bersaglieri. La giornata inizia classicamente con la cerimonia dell’alzabandiera con parte delle compagnie schierate, questa è una fortuna perché le restrizioni Covid stanno scemando. Alla cerimonia dell’alza bandiera presenzia l’immancabile fanfara che mi dà il bentornato, suonando e cantando i pezzi classici che hanno fatto la storia, dall’inno di reggimento, alle marce che scandiscono il ritmo di corsa. Con il termine bersagliere in origine si indicava quei militari con eccellenti doti da tiratore, ad oggi li chiameremmo tiratori scelti. Il corpo fu ideato e creato dal generale dei granatieri Alessandro Ferrero La Marmora, fratello di Alfonso (colui che volle la costituzione di batteria a cavallo), il 18 giugno 1836, per fornire all’Esercito di Sardegna delle truppe scelte di ottimi tiratori e che si muovessero rapidamente sul campo di battaglia, motivo per cui i bersaglieri fin dalle origini compiono i propri spostamenti sempre e ovunque correndo. I fratelli La Marmora avevano il pallino della celerità e quindi una visione di guerra assolutamente antesignana delle evoluzioni che in seguito tutti gli eserciti adottarono.

Storico segno distintivo è la vaira, il caratteristico copricapo nero a falda larga con piumetto costituito da piume di gallo cedrone, il quale viene aggiunto anche all’elmetto da combattimento. L’11° Reggimento Bersaglieri nello specifico viene costituito a Caserta il 16 settembre 1883 con il contributo del 1°, del 4° e del 7° Reggimento Bersaglieri che cedono rispettivamente il XV, il XXVII e il XXXIII Battaglione, tra il 1895 e il 1896 concorre alla formazione di quattro battaglioni che vengono inviati in Africa Orientale, di cui uno combatté ad Adua. Nel 1900 in ciascun reggimento bersaglieri si dà origine ad un quarto battaglione ciclisti, sempre per aumentare la celerità nelle operazioni, il battaglione ciclisti assume la medesima numerazione del reggimento. Allo scoppio della guerra Italo-Turca l’11° viene inviato in Libia ed è protagonista, il 23 ottobre 1911, dei fatti d’arme presso l’oasi di Sciara Sciat, per il quale viene concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Successivamente per il comportamento avuto nei combattimenti di Assaba al reggimento viene concessa la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Nel corso del 1° Conflitto Mondiale viene dislocato in Carnia, sull’Isonzo e sul Carso Triestino, ove merita quattro Medaglie d’Argento al Valor Militare e la citazione sul bollettino del Comando Supremo, per l’eroico comportamento tenuto dai propri uomini nel giugno 1917, sulle pendici del monte Hermada e per il successivo contenimento dei reparti avversari sul Piave a Vidor. Vicende belliche più recenti portano al teatro operativo dell’Iraq. Impiegato da gennaio a maggio del 2004 nell’operazione Antica Babilonia, e inquadrato nella 132° Brigata Corazzata Ariete, viene dispiegato nell’area di Nassiriya, dove è stato coinvolto in frequenti scontri a fuoco con truppe irregolari. Il 6 aprile 2004, l’occupazione da parte dei miliziani sciiti dei tre ponti sull’Eufrate ha portato alla condotta dell’Operazione Porta Pia, durante la quale, con 12 feriti, il reggimento ha riconquistato il controllo di due dei tre ponti occupati, costringendo successivamente i miliziani a ritirarsi anche dall’ultimo. Per questi fatti viene concessa alla bandiera la Croce al Valor Militare. Ma non ci sono solo fatti di guerra perché l’11° si è distinto anche in pace per gli interventi a favore delle popolazioni colpite da calamità naturali, come ad esempio l’alluvione del Piave, e il terremoto del Friuli. Inoltre il 13 gennaio 2015 viene concessa la cittadinanza onoraria dal Comune di Lecce nei Marsi (AQ) per il soccorso e l’opera svolta dal Reggimento, in quanto prima unità militare ad intervenire sul posto, a favore della popolazione marsicana dopo il terremoto del 1915. Il reggimento ha partecipa e partecipa alle operazioni in patria per il mantenimento dell’ordine pubblico e del controllo del territorio dall’operazione Vespri Siciliani in poi. Una caratteristica che ha sempre contraddistinto i reggimenti di bersaglieri, fin dalla creazione, è la fanfara che ha sempre sfilato e sfila ancora oggi in testa al reparto, non dimentichiamo che i bersaglieri corrono e la fanfara non fa eccezioni, per un impegno fisico di assolutamente rilievo. La fanfara dei bersaglieri è un complesso musicale formato esclusivamente da ottoni che, per potenza di timbro, brio e maneggevolezza sono adatti ad essere suonati al passo di corsa. Ma la fanfara aveva anche un compito operativo, formata da 13 trombette per compagnia, in battaglia marciavano in testa con la carabina sulla spalla, tenendo nella destra corni da caccia, suonavano una marcia allegra e vivace con la quale incitavano a correre sempre più veloce. Ad oggi il reggimento si figura come una unità di fanteria pesante, con mandato istituzionale quello di pianificare e condurre attività addestrative, esercitative e manutentive, al fine di acquisire e mantenere la piena capacità operativa full spectrum, per essere pronti ad assolvere i compiti che la Forza Armata vuole assegnare di volta in volta. Ogni addestramento viene pianificato e condotto nel perseguimento del massimo realismo, al fine di ottimizzare le preziose risorse messe in campo e gli altrettanto preziosi momenti esercitativi, nella sempre ed indiscutibile convinzione del come ci si addestri così poi si combatte. L’addestramento viene fatto sia negli spazi della caserma, dove si è anche allestito un campo modulabile per esercitarsi alle irruzioni in abitazioni, sia impiegando i mezzi trasporto truppa sull’area addestrativa del Cellina Meduna. Il mezzo principe delle attività del reggimento è il veicolo trasporto truppe VCC-80 Dardo. Il Dardo è un veicolo da combattimento per la fanteria, prodotto in Italia da un consorzio composto da IVECO e OTO Melara, il Dardo è l’erede naturale dei precedenti M113 nelle sue varanti. Il mezzo, del peso in ordine di combattimento intorno alle 24 tonnellate, può trasportare una squadra di sei fanti oltre ai tre uomini di equipaggio. È dotato di torretta OTO Melara Hit Fist, sormontata da un cannone OERLIKON KBA da 25/80 mm con mitragliatrice coassiale MG 42/59. Il cannone principale risulta avere ottimi sistemi elettronici di puntamento tanto da risultare efficace anche in configurazione contro elicotteri. Studi su tale veicolo stanno portando ad avere le varianti porta mortaio, carro comando e la versione portaferiti. Ho la fortuna di poter osservare una manovra tattica di complesso minore sul terreno che prevede rapido schieramento in assetto combat con formazione piatta e a cuneo per simulare i vari ingabbi in base alla minaccia nemica da fronteggiare. Il punto di forza del bersagliere è da sempre il tiro con arma in dotazione ovvero il nuovo fucile in polimeri Beretta ARX. Per addestrarsi al meglio ad essere degli ottimi tiratori i bersaglieri possono contare su due sistemi di simulazione, i quali permettono di addestrarsi senza l’uso di munizionamento vero e quindi riuscendo ad allenarsi al tiro anche negli spazi interno caserma. Uno dei due è il simulatore FATS, ovvero un sistema elettronico di simulazione che consente l’addestramento al tiro individuale, mirato e istintivo. L’aula allestita con il FATS permette tramite la proiezione di filmati l’ingaggio dinamico di obbiettivi in vari ambienti operativi. Il simulatore permette di addestrare fino a cinque operatori simultaneamente, impiegando le armi leggere in dotazione ovvero: pistola Beretta mod. 92 FS, fucile Beretta ARX, arma contro carro a corta gittata Panzerfaust da una distanza minima di m. 7 ad una massima di oltre m. 450, praticamente tutte le armi leggere in dotazione. Ulteriore ausilio per l’addestramento al tiro è l’impiego del munizionamento non letale denominato simunition, per rendere ancora più realistiche le attività operative. Si tratta di un sistema brevettato, con funzionamento ad energia ridotta, costituito da un kit di conversione che si monta in sostituzione dell’otturatore originale della pistola o del fucile, e l’impiego di munizioni a corto raggio con la palla composta da una miscela colorata, che impattando lascia una macchia colorato su chi viene colpito. Questo sistema permette di effettuare attività a partiti contrapposti force on force, rendendo lo scenario addestrativo estremamente reale. Ho potuto provare personalmente tali sistemi e posso affermare che con questo tipo di munizioni si riesce ad avere anche un impatto emotivo del tiratore, ma ancor di più nella persona che viene colpita. Le cravatte rosse del 11° possono contare su armi a tiro curvo per supporto alla manovra tattica, quali i mortai Thomson da 120 mm, mortaio Brandt mod. 62 da 81 mm, e il M6c-210 Hirtenberger commando da 60 mm. I primi due tipi di mortai sono per così dire mortai classici, mentre il commando è un’arma ad avancarica, ad anima liscia con percussione comandata, che si caratterizza per l’assenza di un affusto-bipiede, sostituito dal braccio del tiratore, che sostiene il tubo di lancio durante l’esecuzione del fuoco. È un’arma di produzione austriaca, che può effettuare azione di fuoco di accompagnamento e di arresto alla manovra delle unità di fucilieri. L’arma è destinata ad equipaggiare la squadra supporto tattica, inserita nei plotoni della compagnia fucilieri. L’esperienza alla caserma Leccis mi ha confermato che la specialità bersaglieri continua a mantenere alti i valori ispiratori delle origini. L’11° Reggimento Bersaglieri è un’unita di fanteria pesante, assolutamente all’avanguardia e di pari livello delle migliori fanterie Nato. Ringrazio il Comandante di Reggimento Colonnello Diego Cicuto per avermi riaccolto in quella che fu casa mia da giovane militare, l’ufficiale PI Tenente Colonnello Simone Serafin e il Comandante di Battaglione Tenente Colonnello Vincenzo De Leo per avermi fatto da ciceroni durante tutte le fasi della mia visita.

Quando i Lancieri Neri incontrarono i Lancieri di Novara ed il gemellaggio con la PAN. Marco Petrelli su Libero Quotidiano il 05 novembre 2021.

Marco Petrelli. Nato a Terni 37 anni fa, viaggiatore per vocazione, è giornalista e fotoreporter. Nel corso della sua attività di "penna" si è occupato un po' di tutto, anche del Burlesque. Poi l'approdo al mondo militare narrato seguendo gli addestramenti in prima persona. Porterà sempre con sé il ricordo del reportage dal Libano, un Natale trascorso con i militari italiani della Missione UNIFIL. Ha due lauree in Storia, una Moto Guzzi ed una grande passione per la fotografia. Di recente ha pubblicato il suo primo libro "importante": I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia, 2020). È Ufficiale della Riserva Selezionata dell'Esercito Italiano.

Se avete già letto Frecce Tricolori - 60 anni di volo acrobatico (Giunti, 2021) avrete senz’altro saputo che la Pattuglia Acrobatica Nazionale affonda le sue origini nell’esperienza di pattuglie nate in seno agli Stormi dell’Aeronautica Militare già nel secondo dopoguerra.  Quasi ogni Stormo, infatti, disponeva di una sua unità acrobatica, ciascuna con nomi peculiari e distintivi: Tigri Bianche, Getti Tonanti, Cavallino Rampante, Diavoli Rossi. Questi ultimi avevano una riserva, costituitasi nel 1957 e diventata poi “autonoma” due anni dopo, i Lancieri Neri.

Nati nell’aeroporto militare di Cameri (NO), i “L.N.” si costituirono in seno alla 2° Aerobrigata che, ironia della sorte, aveva quale stemma un sole nascente ed il Cavaliere di Breus. Già, quel personaggio noto grazie ad una celebre opera del Pascoli: cavaliere, come la specialità alla quale quel nome, Lancieri, si richiamava. 

Sì, ma perché proprio Lancieri?

La nascita di un reparto è da sempre ammantate da aneddoti e da leggende che si affiancano alla storia ufficiale, magari tramandati oralmente, fra vecchie e nuove leve, fra veci e spine talvolta verosimili, altre incredibili ma mai prive di fascino. 

Ecco, l’origine dei Lancieri si muove a in equilibrio fra verosimile ed incredibile. 

Sembrerebbe, infatti, che quel nome sia stato scelto in virtù della vicinanza fra Cameri ed il suo capoluogo, Novara, e che volesse essere un omaggio al Reggimento “Lancieri di Novara” (5°), reparto storico dell’Arma di Cavalleria nonché primo ad essere decorato nel corso delle guerre risorgimentali. Costituitosi nel 1828, il Reggimento partecipava a tutte le campagne del Risorgimento, legando in particolare le sue gesta alle celebri battaglie di Santa Lucia (1848) e di Montebello (1859). 

Vero che negli Anni Cinquanta il Reggimento “Lancieri di Novara” era dislocato in Friuli (dove peraltro ancora oggi ha sede) ma, evidentemente, quel nome e quella specialità, i “Lancieri”, devono aver colpito l’immaginario dei piloti.

Leggenda? Forse, seppure il motto adottato dai “Lancieri Neri” lasci trapelare un dettaglio interessante: 

“La lancia ha sete e dove arriva si abbevera”

Motto quasi più da squadrone di cavalleria che da squadriglia acrobatica…

Comunque, la vita dei Lancieri Neri è breve, seppure ricca di soddisfazioni. Il reparto conquista fama internazionale con la spettacolare esibizione di Teheran del 1959, sfrecciando svoltasi nel ’59 sopra l’aeroporto di Mehrabad e sotto gli occhi dello scià. 

“Formazione da sei velivoli: cigno, esagono, sei di picche, doppio cuneo, triangolo, triangolo rovescio, bomba aperta verso il basso con il 6 a seguire l’11”  scrive lo storico dell’Aeronautica Gianfranco da Forno nel suo Frecce Tricolori - Disegni nel Cielo. Sei Canadair Sabre per 9 piloti in tutto, comandati da un carismatico capitano pilota, il pugliese Andrea Nencha, inseguito Generale di Squadra Aerea e deceduto nel 2004. 

I Lancieri Neri voleranno fino al 1960. L’anno dopo, infatti, le pattuglie acrobatiche sono riunite in una unica Pattuglia, la PAN ovvero le attuali Frecce Tricolori. 

E anche stavolta la cavalleria e il cielo si incontrano ancora per un singolare, quanto cameratesco gemellaggio: Frecce Tricolori e Lancieri… di Novara. Entrambi stanziati a Codroipo, cavalieri e piloti si incontrano (e si legano) alla base di Rivolto, il 22 aprile 1961. 

Leggenda anche questa? No, perché il sito storiadellefreccetricolori.it regala agli internauti una foto che ha dell’eccezionale: i Lancieri di Novara schierati in picchetto d’onore sulla pista e la formazione della PAN in volo, alle loro spalle. E il Tenente Colonnello comandante del 5° Gruppo Lancieri Silvio di Napoli con il basco a tre punte calato in testa mentre se ne sta seduto dietro alla cloche di un FIAT G91, aeromobile simbolo della rinascita e dell’eccellenza della nostrana industria aeronautica postbellica. 

“Un soldato che in ogni occasione si è dimostrato un amico; di più, un fratello per le Frecce Tricolori” scrive Renato Rocchi ne Una Meravigliosa avventura - Storia del Volo Acrobatico, riferendosi al Tenente Colonnello di Napoli. 

Parole che, a sessant’anni di distanza, ti fanno correre un brivido lungo la schiena. C’è tutto: dovere, cameratismo, umanità ed amore per la propria identità.

Parole sincere che siamo felici di riproporre in occasione della Festa dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. 

Unica nota dolente la recente perdita di un pilota, Paolo Schievano, “Pony 5” nella formazione della PAN dal 1965 al 1967. 

Cieli blu!

Chi sono e cosa fanno gli uomini del 185esimo Rrao. Marco Petrelli su Inside Over il 4 marzo 2021. La linea affusolata dell’NH90 si avvicina al suolo. Dal portellone l’operatore di bordo cala il verricello che recupera quattro militari a terra. Sembrerebbe un’operazione di routine, una evacuazione o un’attività Sar. No, non è così: l’aeromobile riprende il volo, il door gunner punta il suolo dal mirino ottico del fucile di precisione, un’arma in dotazione solo ad alcune unità altamente specializzate. E in effetti, a bordo dell’NH90 non ci sono soldati “normali”, semmai gente un po’ speciale e mica solo perché ha il Barrett (fucile di precisione anti materiale). Il portellone si apre completamente, il gunner si ritira e si prepara: davanti a lui, i membri del suo team si posizionano. “Pronti?” grida il capo team. La voce è coperta dai motori dell’elicottero, il frastuono è insopportabile ma un pollice alzato è sufficiente per fare capire che è tutto a posto. Via! Il salto fuori, il militare che diventa un puntino finché una grande vela si apre sulla sua testa. Chi si aspettava il lancio vincolato, con salto fuori dal C-130, deve ricredersi: si va giù in caduta libera, per un lancio di precisione come viene chiamato in gergo. Si arriva infatti a terra manovrando l’atterraggio. Sì, sono paracadutisti ma di un tipo particolare: appartengono al Comfose (Comando forze speciali esercito) gli uomini del 185° Reggimento ricognizione acquisizione obiettivi (Rrao), insieme ad altre pochissime e scelte unità dell’Esercito: il 4° Alpini paracadutisti (ranger), il 28° “Pavia” (comunicazione operativa) e gli incursori del IX Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin”. La specialità del Rrao tuttavia è l’acquisizione degli obiettivi. Da qui, il termine acquisitori. Dura selezione necessaria per accedervi: un anno e mezzo di preparazione laddove preparazione sta anche per selezione continua. A terra, dove gli acquisitori ripiegano le grandi vele che li hanno portati, con precisione chirurgica, sul punto d’atterraggio prestabilito, l’istruttore che ci accompagna approfitta di un attimo di break per dare un’idea dell’addestramento. “Ciò che ha visto fa parte delle skills essenziali alla formazione per l’ottenimento della qualifica di acquisitore, ruolo dall’elevata connotazione intelligence. La Ricognizione speciale, infatti, prevede di essere preparati a condurre operazioni di raccolta informativa in ogni ambiente e a prescindere dal livello della minaccia affrontata”. Operatori all terrain, insomma, capaci di muoversi in ogni situazione e con qualunque mezzo. Terza dimensione, in primis: il rapporto fra gli acquisitori ed il cielo è infatti molto stretto. E mica solo perché eredi del 1° Reggimento paracadutisti (1941). Con gli elicotteri, in particolare, il legame è molto, molto stretto. E se l’NH90 li ha mostrati capaci di lanciarsi, con equipaggiamento, dal piccolo spazio offerto dell’aeromobile, sul Chinook la partita è ben diversa. La scena che si apre ai nostri occhi è degna di un film di guerra. Gli acquisitori sono in mare, stipati su un gommone che viaggia a tutta velocità. Il sole è calato e muoversi fra i flutti con poca luce è difficile oltreché rischioso se di fronte a sé si abbassano i 15 metri di fusoliera del CH47. I rotori sollevano schizzi d’acqua, il rumore è assordante e sei investito da una colonna d’aria che farebbe passare la Bora triestina per un venticello estivo. La pancia dell’elicottero, appena appoggiata sulla superficie del mare, si apre con il portellone che tocca l’acqua. Il gommone prende velocità, fa una virata stretta, punta alla rampa d’accesso e vi entra senza esitazione. Il portellone si richiude, collettivo tirato, il muso del Chinook punta al cielo e si solleva. Fosse stata una missione reale sarebbe stata portata a termine con successo: ecco cosa vuol dire acquisitore, essere capace di penetrare il territorio avversario, muoversi e soprattutto sopravvivere privi della più minima forma di logistica, contando sulle proprie forze, sull’equipaggiamento e sull’addestramento ricevuto. “L’addestramento di base prevede, dopo una dura selezione psico fisica una fase di formazione della durata di 12 settimane comune ai reparti di Forze speciali dell’Esercito. Il corso, denominato “Obos” (Operatore Basico per Operazioni Speciali), si svolge presso il Centro di Addestramento per le Operazioni Speciali di Pisa. Il corso Obos prepara al combattimento individuale e di squadra con procedure di Forze speciali, con particolare riferimento al movimento di pattuglia in territorio controllato dal nemico” spiega il comandante del 185°, colonnello Carmine Vizzuso. Che, in altri termini, può essere descritto come essere in grado di percorrere cento chilometri in meno di una settimana privi di tutto, anche del minimo indispensabile. Inizia un altro giorno: ciò a cui abbiamo assistito è già storia. Un tassello di 72 settimane di training che portano al limite l’individuo: paracadutismo, sci, roccia, sopravvivenza, evasione, resistenza e fuga, combat medic. Ecco l’acquisitore: una specialità unica dell’Esercito che, nonostante sia sulla scena da appena 20 anni, rappresenta l’elite delle Special Forces non solo nell’ambito della Forza armata ma dell’Alleanza tutta. 

Renato Piva per corriere.it il 27 ottobre 2021. Dopo il Tar del Lazio, anche il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Giulia Jasmine Schiff. Per la giustizia amministrativa, la partita per il reintegro nell’Aeronautica militare dell’ex allieva ufficiale di Mira è chiusa. Il sergente Schiff, primo al tirocinio del corso 2018 all’Accademia di Pozzuoli, quarto su duemila candidati al percorso che, ogni anno, forma dieci nuovi piloti di complemento, dopo l’allontanamento dall’accademia «per insufficiente attitudine militare» aveva denunciato la violenza subita nel «battesimo del volo» alla base di Latina: botte sul sedere, frustate con fuscelli di legno, testate contro l’ala di un aereo e lancio finale in piscina (tutto documentato in un video). Al rientro a Pozzuoli per la seconda parte del corso, la prima allieva diventa la «pecora nera» del gruppo, oggetto di continue punizioni. Succede, dice lei, dopo aver manifestato ai compagni lo stress patito e il desiderio di giustizia. Seguono il congedo con demerito, la denuncia penale, che porterà, il 5 novembre prossimo, otto sergenti a processo per lesioni personali e ingiuria, e la causa amministrativa per il reintegro: il Tar che dice no, il Consiglio di Stato che riammette Giulia (giugno 2019) in via temporanea e cautelativa fino alla pronuncia nel merito; quella che ora, appunto, la rimanda a casa. 

Giulia come sta? Come ha preso la sentenza del Consiglio di Stato?

«Sto bene, ma il Consiglio di Stato mi ha delusa molto».

Guardando il suo profilo, par di capire che attendesse una risposta in tempi più lunghi. Che idea si è fatta su questa parte del percorso di giustizia? «La risposta è arrivata straordinariamente presto, forse perché il processo penale parte il 5 novembre e si voleva comunque definire la vicenda». 

Come hanno reagito le tante persone che la stanno sostenendo, quelle cui ha chiesto supporto nella battaglia legale e di principio, oltre a familiari e amici?

«Le persone che mi sostengono sono rimaste sconvolte e amareggiate ma, come fanno e hanno sempre fatto, non smettono di credere in me e appoggiarmi anche se decidessi di voltare pagina e cambiare vita». 

Il processo di Latina sta per partire: resta fiduciosa?

«Non ho bisogno di essere fiduciosa. Nonostante durante le indagini tutti i colleghi mi abbiano infangata, appoggiando le dichiarazioni della catena gerarchica. Ci sono foto, video, chat e consulenze medico-legali, balistiche e psicologiche che provano i fatti. Mi aspetto semplicemente che la giustizia italiana funzioni».

La sentenza del Consiglio di Stato è definitiva ma, in linea teorica, se dall’aula di Latina dovessero emergere elementi nuovi sui motivi della valutazione dell’Aeronautica nei suoi riguardi si potrebbe tentare la revisione: sarebbe pronta anche a questo passo?

«Io non mi arrenderò mai. Anche la verità e la giustizia, in Italia, hanno bisogno dei loro cavalli di battaglia... Io non lotto solo per me stessa ma anche per chi, in questa o molte altre situazioni analoghe, non ha avuto il coraggio di denunciare». 

Non teme, dovesse in qualche modo arrivare il reintegro, che il mondo che l’ha messa fuori possa continuare a renderle la vita difficile o impossibile?

«Non sono mai riusciti a piegarmi, neanche dopo il mio primo reintegro. Non posso piacere a tutti, confido nella professionalità e correttezza dei miei eventuali futuri colleghi». 

Com’è oggi la vita di Giulia? Ha un brevetto da paracadutista «fresco di stampa»: pensa di farne una professione o che altro? «Mi piacerebbe approfondire questa sfaccettatura della mia passione per il volo, sia come professione, che come atleta». 

È molto giovane: come vede il suo domani?

«Prima di essere skydiver sono e sarò sempre un pilota. Non posso permettere che questa brutta vicenda mi faccia perdere altri anni di vita. Diventerò pilota di linea». 

Ha mai pensato di dire basta, finisce qui, farò altro, oppure le pare un accontentarsi che non concepisce?

«Mi rifiuto di accettare di essere schiacciata da una situazione disonesta avallata dall’omertà. Merito giustizia e di perseguire il mio sogno».

Michele Galvani per ilmessaggero.it il 24 ottobre 2021. La chat delle accuse, le foto scioccanti delle frustate, la violenza privata, le lesioni. Quel rito diventato improvvisamente più violento dal momento dell'ingresso delle donne nelle Forze Armate. Il 5 novembre a Latina si terrà il processo sul caso Giulia Schiff, il sergente espulso dall'Accademia Aeronautica dopo aver denunciato 8 colleghi, rei di aver usato la mano pesante durante il rito del tuffo in piscina. Il Consiglio di Stato però, il 21 ottobre ha rigettato l'appello di reintegro confermando così l'espulsione della Schiff dall'Aeronautica. Tra le motivazioni: «L'espulsione del sergente Schiff è conseguenza diretta dell'insufficiente voto in attitudine militare e professionale». A giudizio sono citati Andrea Angelelli, Leonardo Facchetti, Joseph Garzisi, Luca Mignanti, Matteo Pagliari, Ida Picone, Andrea Farulli, Gabriele Onori. Schiff, tramite il suo legale - l'avvocato Massimiliano Strampelli - ha chiesto un risarcimento dei danni morali e materiali «in misura non inferiore ad euro 70.000». Negli atti si legge che tutti imputati sono accusati del reato «di cui agli artt. 110,610 co.2 in relazione all'art. 339 c.p. perché in concorso e riuniti tra loro, tutti all'epoca dei fatti Sergenti Allievi Ufficiali frequentatori del 124 Corso AUPC presso l'Accademia Aeronautica in Pozzuoli, trovandosi temporaneamente aggregati al 70 Stormo in Latina, in data 04.04.2018, nel contesto di una celebrazione denominata goliardicamente tuffo nella piscina del pingue sollevavano da terra e trasportavano in posizione orizzontale con il volto rivolto verso il basso la paricorso Sergente Allievo Ufficiale Giulia Jasmine Schiff e, tenendola ferma per le gambe e le braccia, con dei fustelli di legno le infliggevano violenti colpi sul fondoschiena e pugni, quindi, le facevano urtare la testa contro la semiala in mostra statica in prossimità di una piscina dove infine, la gettavano e, pertanto, così facendo la costringevano, nonostante la stessa Schiff avesse espresso più volte il suo dissenso, a compiere tale pratica, cagionandole altresì lesioni personali. Con le aggravanti dell'aver commesso il fatto riuniti tra loro e facendo uso di fustelli in legno usati come frusta». 

La chat

Ora è spuntata una chat tra il comandante Vincenzo Nuzzo e il padre della Schiff in cui emergono alcuni particolari. Il padre scrive: «Quanto al nonnismo, le foto di fondoschiena massacrati io le ho viste, niente di edificante per le Forze Armate. Quelli che ti ho riportato sono fatti reali». 

La risposta del generale: «Lei ha avuto un po' di problemi di adattamento e un po' di punizioni, per i soliti motivi accademici. Perché si muoveva in adunata, perché la testa non la teneva alta o la teneva troppo alta». 

Poi un altro passaggio: «Ai nostri tempi ci si buttava in vasca, ora scopro che si viene frustati a sangue con decine di frustate e presi a pugni cattivi sul petto. Sembra che questa nuova prassi sia in auge da qualche anno» (nelle foto si vedono i segni sui glutei). Il padre accusa il comandante anche riguardo a mancati permessi e all'impossibilità della figlia di recarsi dal dentista per sistemare l'apparecchio.

Ma il caso su Schiff non è l'unico: c'è un'altra ragazza che aveva provato a denunciare, ma è finito tutto in archiviazione. Si tratta di Annalucia Rombolà cui - stando alla sua denuncia - le avevano riservato «lo stesso trattamento di Giulia Schiff». E qui arriva la sorpresa. Secondo il gip Elisabetta Tizzani la ragazza «non ha presentato opposizione», anzi «la Rombolà durante il rito ha pianto per la gioia e l'emozione di aver raggiunto un traguardo così ambito». La Schiff fa sapere di essersi «sentita lasciata sola dalle istituzioni» nonostante le dichiarazioni dell'allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini: «Qualsiasi comportamento lesivo della dignità personale non può e non deve essere tollerato, chiunque abbia sbagliato ne risponderà». L'accusa ha citato come «responsabile civile il ministero della Difesa». Lo scorso maggio alcuni allievi si sono riuniti nel Comitato battesimo del Pingue, dove da una parte viene ammesso il cambiamento di rituale dall'ingresso delle donne nel 2000 (pacche sul fondoschiena sostituite con bacchetta con frustino), dall'altro viene istituito un fondo raccolta a sostegno degli 8 imputati. Gli imputati, se condannati, rischiano il licenziamento.

La storia di Giulia Schiff: non vola perché ha denunciato? Le Iene News il 06 aprile 2021. Dopo aver vinto il concorso per entrare nell’accademia dell’aeronautica, nel 2018 Giulia ottiene il brevetto di pilota. Durante il suo "battesimo del volo”, però, sarebbe stata picchiata. Decide di denunciare e parte un processo al tribunale militare. Intanto però viene espulsa dall’accademia: il Tar ha confermato l’espulsione, ma lei non intende arrendersi. Roberta Rei l’ha incontrata, e ha portato il suo caso al ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Giulia Schiff è una ragazza di 21 anni con un grande sogno: volare. “Non riesco a immaginarmi di fare altro”. Una passione ereditata dal papà pilota: “Non c’è niente di simile al volo, è come stare sopra tutto e tutti e nessuno ti può nuocere”, racconta Giulia a Roberta Rei. Un sogno che viene coronato quando entra nell’accademia aeronautica di Pozzuoli: “Mi impegnavo, davo il massimo, e me lo sono meritato. Portare un aereo era un sogno, mi sentivo nel mio habitat naturale”. Il 7 aprile 2018 ottiene il grado di sergente e il brevetto di pilota. “Dopo il volo ci doveva essere un battesimo nella piscina del Pinguino”, ci racconta Giulia. “È il tuo battesimo e la tua carriera inizia”. Un rito goliardico che però “si è particolarmente incattivito dopo l’ingresso in aeronautica delle donne”: questo è quanto sostiene l’avvocato Massimo Strampelli, legale di Giulia. “Avevo detto ai miei colleghi di non esagerare”, ci racconta la stessa Giulia. Le immagini di quel giorno però racconterebbero un’altra storia con i colleghi che la caricano sulle spalle, la frustano, le tirano schiaffi e pugni. “Non riesci a respirare, ti manca l’aria”, racconta Giulia. Dopo che sarebbe stata trattata a quel modo per 8 minuti, sarebbe stata impugnata come un ariete e sbattuta di testa contro un’ala di aereo conficcata nel terreno. Solo dopo tutto questo verrebbe lanciata nella fontana del pinguino. “Nel video si vedono figure di superiori che non intervengono”, afferma il dottor Strampelli. “Devo dimostrare di esser brava al pilotaggio, non di prendere botte a cuor sereno”, rivendica Giulia. “Credo sia una cosa malata”. Dopo quel pestaggio, racconta, Giulia fa fatica perfino a camminare, e si confida col padre Dino, ex pilota ed ufficiale dell’aeronautica. Il padre a quel punto manda un messaggio a un collega, lamentatosi del trattamento subìto dalla figlia. Dopo questo, Giulia racconta che tornata a Pozzuoli trova un ambiente molto diverso: “Ero la pecora nera del gruppo, un mostro. Ero diventata un animale da circo”. “È evidente che la segnalazione del padre abbia attivato un meccanismo di telefonate tra i superiori di Giulia e chi era il diretto superiore non abbia apprezzato la lavata di capo arrivata”, sostiene l’avvocato Strampelli. E sarà solo una coincidenza, ma da questo momento Giulia riceve una lista infinta di sanzioni disciplinari. Giulia comunque presenta una denuncia vera e propria, da cui nasce un processo davanti al tribunale militare che oggi vede 8 sergenti accusati di lesioni personali e ingiuria. Intanto viene espulsa dall’accademica. “Me lo ricordo come se fosse ieri”, dice Giulia a Roberta Rei. “Nessuno ha avuto il coraggio di starmi vicino quando ho deciso di denunciare, ho perso tutti”. A far male a Giulia è anche un tweet di Samantha Cristoforetti, la celebre AstroSamantha, che ha pubblicato la foto del suo “battesimo” definendolo “uno dei giorni più belli della mia vita”. “Mi chiedo: ma lei le mani addosso le ha avute?”, dice Giulia. “Mi dispiace perché per me è sempre stata un idolo e mi ha ferita quando ha pubblicato quella foto”. L’espulsione di Giulia dall’accademia è stata confermata dal Tar: il Tribunale ha ritenuto legittima la decisione assunta dall’Accademia Militare che, all’esito di varie prove e di un percorso formativo, ha giudicato la Schiff non idonea a proseguire la carriera da pilota. Ora Giulia non può più volare. “Le donne che parlano non piacciono a nessuno, soprattutto nel mondo militare”, dice lei. “Tornassi indietro accetterei quelle botte in silenzio, perché rivoglio il mio lavoro di pilota militare”, confessa non riuscendo a trattenere le lacrime. Una ragazza costretta a pensare questo per rivendicare il suo sogno. “Io continuerò a lottare per quello che mi hanno tolto, perché so che hanno torno marcio”. Per provarlo a Giulia servirebbe qualcuno che abbia il suo stesso coraggio: la nostra Roberta Rei prova a parlare col personale dell’accademica per capire cosa sia accaduto. Potete vedere cosa abbiamo scoperto nel servizio qui sopra. “Forse è arrivato il momento di reagire”, chiude Giulia. “Basta subire, non dimostriamo di essere forti stando zitti”. E la Iena ha portato il suo caso e fatto alcune domande anche al nostro ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Giulia Schiff non vola perché ha denunciato? Il ministro Guerini: “Le immagini provocano disagio”. Le Iene News il 06 aprile 2021. Roberta Rei ci racconta a Le Iene la storia di Giulia Schiff, espulsa dall’accademia dell’Aeronautica dopo aver denunciato di essere stata picchiata durante un rito goliardico. La Iene ne ha parlato anche con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Roberta Rei ci racconta la storia di Giulia Schiff, giovane pilota veneziana, allieva dell’Accademia di Pozzuoli, che ha denunciato di essere stata vittima di mobbing e nonnismo, durante il suo “battesimo del volo”, da parte di alcuni compagni, oggi a processo. Nel gennaio 2019 la Schiff ha reso pubblico un video in cui si vedono i comportamenti violenti che avrebbe subito nel corso di una sorta di rito di iniziazione, avvenuto al termine delle prove per gli allievi ufficiali. Giulia ha raccontato di aver ricevuto percosse e di essere stata sbattuta fortemente contro l’ala di un velivolo piantato nel cemento, prima di essere gettata nella fontana del pinguino, come da tradizione. La pilota dice che da quel giorno, alla scuola di volo di Latina le cose sarebbero peggiorate, con progressivo isolamento da parte dei compagni, fino a che a Pozzuoli la giovane è stata espulsa. L’espulsione dall’Accademia è stata confermata Tar del Lazio che ha ritenuto legittima la decisione assunta dall’Accademia Militare che, all’esito di varie prove e di un percorso formativo, ha giudicato la Schiff non idonea a proseguire la carriera da pilota. Roberta Rei ha fatto delle domande sul caso al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Ecco le sue dichiarazioni:

Roberta Rei: “Dopo aver visto il video che ritrae Giulia Schiff nel rito del pinguino cosa ha pensato?”.

Ministro Guerini: “Queste immagini mi provocano un senso di disagio, lo dico anche come padre. Qualsiasi comportamento lesivo della dignità personale non può e non deve essere tollerato. Quando si mettono in pratica comportamenti eccessivi, anche rispetto alle manifestazioni di goliardia, questi richiamano fenomeni deprecabili che voglio considerare un retaggio del passato, per il quale non esiste più alcuno spazio nelle Forze Armate. E non a caso è stata proprio l’amministrazione militare, già dal 1° ottobre 2018, a chiedere l’intervento della magistratura. Laddove venissero riscontrate colpe, chiunque abbia sbagliato, ne risponderà”.

Roberta Rei: “Sarebbe giusto, per evitare la strumentalizzazione di questi riti, che per restare goliardici e celebrativi, vengano normati? Si impegnerà in tal senso?”.

Ministro Guerini: “È una vicenda che ho seguito con particolare attenzione. Per questo ho voluto accogliere la richiesta di conferimento avanzata dall’allieva Schiff, disponendo che fosse ricevuta a colloquio dal mio Capo di Gabinetto al quale ha avuto modo di riportare liberamente le sue motivazioni. Posso ribadire con convinzione che non ci sarà alcuna comprensione per eventuali comportamenti che, anche alla luce dei pronunciamenti ancora attesi, si rivelassero diversi dai fondamentali e inalienabili principi di correttezza etica e professionale e di rispetto della dignità individuale. A tal proposito sono stato molto chiaro con tutti i Capi delle Forze Armate, a cui ho chiesto di sospendere qualsiasi rito di iniziazione o manifestazione goliardica che sia incompatibile con l’etica delle tradizioni militari e con la dignità personale. A loro la legge attribuisce competenze specifiche nel campo della formazione e dell’addestramento e sono certo che si stiano già impegnando a adottare, a tutti i livelli, i provvedimenti necessari affinché fatti del genere non si ripetano.”.

Roberta Rei: “Oggi Giulia Schiff, dopo aver conseguito il ruolo di sergente pilota, è impossibilitata a prestare servizio. Non è uno spreco per lo Stato formare una persona altamente specializzata per poi lasciarla a casa?”.

Ministro Guerini: “Il Tar del Lazio ha recentemente emesso una sentenza che conferma la legittimità delle decisioni prese dall’Aeronautica Militare, alla quale sono riservate le responsabilità sulla formazione. Giulia Schiff non ha potuto concludere il percorso formativo perché – al termine dei corsi – è stata giudicata non idonea. In questo quadro, ritengo però fondamentale tenere separati i due diversi aspetti della vicenda che sono intrinsecamente differenti. Da una parte, c’è un processo per lesioni che vede 8 militari imputati, del quale doverosamente si sta occupando la magistratura e sulle cui decisioni ho sin d’ora totale rispetto. Dall'altra, il mancato superamento di un corso estremamente selettivo, il cui esito finale dipende da molteplici fattori di valutazione, che statisticamente comporta una necessaria e inevitabile percentuale di insuccessi; un’eventualità fisiologica, rispetto alla quale non è auspicabile applicare temperamenti: stiamo parlando di un corso per piloti militari che richiede il superamento di più fasi, con difficoltà crescenti. Consapevole della delicatezza del contesto, ho trovato giusto e corretto il coinvolgimento della giustizia amministrativa, allo scopo di evitare in qualsiasi modo situazioni che potessero apparire 'corporative' o 'di parte'. Detto ciò, i giudici penali e amministrativi emetteranno i rispettivi pronunciamenti finali sul caso che saranno ovviamente rispettati.”.

Il suo avvocato Massimiliano Strampelli sostiene: “Dopo i fatti di Latina c’è stata una carenza dell’Istituzione a capire la progressiva emarginazione di Giulia. Lei ha cercato invano un canale di dialogo, poi ha avuto un crollo emotivo”. Giulia confida all’inviata di aver sofferto tantissimo, soprattutto per la mancanza di solidarietà: “Le donne che parlano non piacciono a nessuno, soprattutto nel mondo militare”. Nel servizio, alcune testimonianze inedite, confermerebbero quanto raccontato dalla giovane.

Cento missioni fasulle in sei mesi: così il colonnello della Finanza e il suo autista commettevano i reati che avrebbero dovuto reprimere. Ottavia Giustetti su La Repubblica il 9 aprile 2021. Vercelli, i retroscena dell'arresto del comandante e del suo braccio destro che nelle intercettazioni confida "Faccio quello che dice lui, così la mia pensione sarà più ricca". L'alto ufficiale risultava in "servizio ispettivo" in Piemonte ma era nella sua seconda casa in Liguria. Stipendi quasi raddoppiati dalle indennità di trasferta fasulle, viaggi gratis nelle seconde case in Liguria, talvolta anche fino a Roma la città di cui l’alto ufficiale è originario. Il brigadiere Maurizio La Sala e il colonnello della Guardia di finanza di Vercelli Fabrizio Nicoletti avevano stretto un patto di reciproca convenienza che forse ritenevano infallibile, ma che molto presto ha dato nell’occhio. Qualcuno che da molto vicino seguiva il comandante provinciale e ben ne conosceva le abitudini ha spifferato quel che notava nella routine degli uffici ai piani alti e ha fatto partire un’inchiesta che poco tempo ha travolto l’intera struttura. “A me sta bene così” diceva al telefono La Sala, che del colonnello faceva l’autista, spiegando che quei sei mesi di missioni inventate gli avrebbero permesso di andare in pensione con un assegno mensile ben più ricco. Da 1900 euro circa di stipendio, infatti, per qualche 27 del mese la busta paga era salita fino a 2500, e con il poco tempo che gli mancava alla fine del servizio quei contributi in più avrebbero fatto proprio al caso suo. Fatto sta che in alcuni lunghi periodi estivi è risultato interamente in trasferta. E anche per questo non gli conveniva in alcun modo sollevare questioni sulle fughe irrituali in cui lo coinvolgeva il comandante provinciale, Fabrizio Nicoletti. Così, i colleghi del Nucleo di polizia tributaria di Torino, hanno potuto seguire indisturbati gli spostamenti del colonnello che le celle telefoniche agganciavano nelle vicinanze della sua casa del Ponente ligure, quando dal registro delle presenze risultava in servizio ispettivo a Vercelli. O quando andava fino a Roma con l’auto di servizio, a trovare i parenti. I pedinamenti avrebbero anche appurato che la vettura istituzionale era utilizzata per scopi strettamente personali e che il brigadiere, oltre a fare l’autista, svolgeva compiti che non gli spettavano. In sei mesi di indagine sono un centinaio le occasioni in cui i due indagati sono stati collocati dalle celle telefoniche in luoghi diversi da quelli dichiarati. Altrettanti, quindi, gli episodi che gli contestano adesso i pm della procura di Vercelli, guidata da Pier Luigi Pianta, che li ha indagati per reati che vanno dalla truffa ai danni dello Stato, al falso ideologico in atto pubblico, al peculato militare e all'abuso d'ufficio. Giovedì mattina i colleghi finanzieri di Torino hanno notificato a entrambi una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, firmata dal gip Claudio Passerini e si dovrà attendere la metà della prossima settimana per conoscere la loro prima versione dei fatti negli interrogatori di garanzia. Sono anche state perquisite le abitazioni dei due indagati e gli uffici della caserma Felice Casalino, per recuperare documentazione che sia da riscontro agli indizi raccolti fino a oggi dagli inquirenti. Il colonnello Fabrizio Nicoletti, intanto, ha scelto un difensore d’eccezione, il sindaco della città che è anche avvocato, Andrea Corsaro. L’alto ufficiale delle Fiamme Gialle, 58 anni, un curriculum di prim’ordine, conosce molto bene la città perché vi era stato da capitano a metà degli anni Novanta alla guida del Nucleo di polizia tributaria. Dopodiché ha girato mezza Italia, con incarichi in Piemonte, Sardegna e Calabria, a Catanzaro dove è stato a capo del Gico. E’ tornato a Vercelli ad agosto del 2019, e la cosa non dov’essere andata giù a qualcuno del suo stretto entourage perché un anno dopo tutti i suoi movimenti erano già sotto la lente degli investigatori. In una vicenda che è ancora molto da chiarire perché le indagini sono ancora in corso, uno dei dati certi è, infatti, che la fuga di notizie è partita certamente da ambienti interni al comando provinciale del quale era alla guida.

Francesca Grillo per ilgiorno.it il 13 aprile 2021. Arrestato il comandante della polizia locale di Trezzano, nominato da pochi mesi, Salvatore Furci. La polizia lo ha fermato, insieme a un cittadino albanese, Mariglen Memushi, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Milano Anna Magelli, su richiesta del procuratore aggiunto Alessandra Dolci e del sostituto procuratore Gianluca Prisco. Un provvedimento adottato al termine delle indagini condotte dalla Squadra Mobile di Milano, nate dopo la denuncia in stato di libertà della comandante della polizia locale di Corbetta Lia Vismara, trovata il 4 gennaio dello scorso anno in possesso di alcune dosi di cocaina all’interno della sua auto. Una vicenda che aveva fatto scalpore e gettato un’ombra sul Comando di Corbetta, già oggetto di numerosi esposti. Furci era risultato vincitore nel 2018 del concorso per ricoprire la posizione di ufficiale proprio a Corbetta, ma in ragione anche del parere negativo espresso dalla comandante dei vigili non aveva superato con profitto il periodo di prova e nel 2019 era tornato a rivestire la qualifica di agente all'interno della polizia locale di Milano. Il controllo effettuato sull’auto della comandante aveva rilevato alcune anomalie, approfondite dalla Squadra Mobile attraverso investigazioni e visione dei sistemi di videosorveglianza. A chiarire ogni dettaglio della vicenda, anche la telefonata registrata al 112 con cui era stata segnalata la presenza di sostanza stupefacente a bordo dell'auto della comandante di Corbetta. L'incrocio dei dati ha consentito di ricostruire gli eventi di quella notte e dei giorni precedenti, accertando che Salvatore Furci aveva, direttamente o tramite terzi, collocato la sostanza stupefacente all’interno della vettura e veicolato le informazioni inducendo in errore i militari intervenuti. Questo, almeno, secondo le accuse contenute nel provvedimento che gli è stato notificato oggi. Gli investigatori sono inoltre giunti a identificare il complice Mariglen Memushi e, grazie a una perizia fonica, è stato possibile determinare che lo straniero, nonostante avesse camuffato la propria voce, coincideva con l'uomo che aveva chiamato il 112 dichiarando di avere venduto la sostanza stupefacente alla donna, ricevendo un pagamento in banconote false e indicando l'auto quale luogo di occultamento della cocaina acquistata. Nel corso delle indagini, è stato accertato che Furci ha tentato di acquisire informazioni tramite suoi conoscenti in servizio presso il Tribunale di Milano al fine di conoscere l'eventuale esistenza di procedimenti penali a suo carico per le accuse che hanno portato all'odierno arresto.

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 14 aprile 2021. Quando la sera del 3 gennaio Lia Vismara, comandante dei vigili di Corbetta, viene fermata con tre grammi di cocaina nell' auto mentre torna dagli allenamenti della squadra di pallavolo, il collega Salvatore Furci non trattiene l'esultanza: «Vabbuò dai, la giustizia con calma arriva», scrive in una chat. «L'ho già messo nel gruppo e tutti brindano», gli rispondono. La comandante viene denunciata per possesso di droga, l'analisi del capello dice che non fa uso di sostanze stupefacenti, lei querela i tre sottufficiali della tenenza di Bollate che hanno firmato il verbale e deposita un esposto contro Furci. Il quale, scrive ora il gip nell'ordinanza di custodia cautelare, «nutriva un intenso malanimo» verso Lia Vismara poiché «lo aveva licenziato il 15 aprile 2019 per il mancato superamento dei sei mesi di prova alla polizia di locale di Corbetta». È una storia di rancore e vendetta quella che ha portato all' arresto di Furci, originario di Gioia Tauro, una laurea in Giurisprudenza, appassionato di moto e paracadutismo, attuale comandante a Trezzano sul Naviglio. Ha fatto carriera, ma quella bocciatura a Corbetta continuava a bruciargli. Un' onta che voleva far pagare a Lia Vismara: con il complice albanese Mariglen Memushim, per gli investigatori colui che ha piazzato la droga e ha telefonato ai carabinieri fingendosi lo spacciatore che sarebbe stato pagato dalla donna con banconote false, ha fatto trovare cinque dosi di cocaina nella macchina. Le accuse per entrambi sono di calunnia aggravata e detenzione di stupefacenti. La ritorsione verso la comandante, scrive nell' ordinanza il gip di Milano Anna Magelli, è scattata di fronte al «suo diniego allorquando Furci le aveva chiesto di poter fruire di qualche giorno prima del licenziamento, per poter reperire un' altra occupazione ed evitare una brutta figura davanti ai suoi figli». Lei ha detto no, lui se l' è legata al dito. «E ricorda bene che io ho un jolly che tu ben sai. Non tirare la corda. C' è un detto che dice morte mia morte tua, non farmi fare il kamikaze», è il messaggio inviato da Furci a dicembre su una chat creata da lui stesso il 16 aprile 2019, «all' indomani del suo allontanamento». Secondo il giudice «numerose intercettazioni attestano come Furci - che per diversi anni ha svolto servizio presso l' Unità contrasto stupefacenti della polizia locale di Milano - anche a distanza di mesi dal suo licenziamento continuava a manifestare un' acuta ostilità nei confronti» di Lia Vismara e del sindaco di Corbetta, Marco Ballarini. Le manette per Salvatore Furci sono necessarie avendo mostrato «un' allarmante pericolosità sociale, tenuto conto della disinvoltura con la quale lo stesso ha utilizzato la propria qualifica di pubblico ufficiale». Nel corso delle indagini, la squadra mobile ha inoltre accertato che il comandante «ha tentato di acquisire informazioni per il tramite di suoi conoscenti in servizio presso il Tribunale di Milano al fine di apprendere l' eventuale esistenza di procedimenti penali a suo carico per i fatti che hanno portato all' arresto».

Monica Serra per "la Stampa" il 14 aprile 2021. «Mi ripeteva: «Ti rovino! Tu e il sindaco perderete la faccia». Ma non potevo immaginare arrivasse a un complotto mafioso di questo tipo». Lia Gaia Vismara, la comandante della polizia locale di Corbetta, comune dell'hinterland milanese, è «contenta che sia stata ristabilita la verità dopo mesi di falsità e menzogne». Dopo tutto il «fango» che gli è stato gettato addosso quando, la notte tra il 3 e il 4 gennaio 2020, era stata trovata dai carabinieri con 3 grammi di cocaina nascosti nella sua auto. Quella droga non era sua, lo aveva detto dal primo istante. Ma, almeno all'inizio, non aveva immaginato che a piazzargliela in auto per incastrarla fosse stato l'ex collega Salvatore Furci, attuale comandante dei vigili di Trezzano sul Naviglio, che ieri è stato arrestato con un complice albanese, per calunnia e spaccio di droga aggravati dagli «abietti e futili legati a dissapori sorti in ambito lavorativo». Le indagini, condotte dalla squadra mobile e coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano, raccontano la «allarmante pericolosità sociale del pubblico ufficiale» che ha organizzato la «trappola» solo per «vendetta».

Comandante Vismara, perché Furci ce l'aveva con lei?

«Da Milano era arrivato a Corbetta nel novembre 2018. Doveva fare sei mesi di prova ma io l'ho allontanato dopo cinque. Non mi piaceva il suo modo di agire al lavoro, cercava e intratteneva rapporti strani e ambigui con gli spacciatori, non adottava cautele e io non riuscivo a fidarmi».

Quando ha iniziato a minacciarla?

«Dopo un paio di mesi. C'era in ballo l'incarico di vice comandante e lui puntava a ottenerlo, ma io non ne volevo sapere. Così il rapporto si è incrinato e sono iniziate le accuse, le aggressioni verbali».

 Ha ricevuto pressioni da parte di qualcun altro?

«No, ma Furci era una persona pericolosa e preoccupante, in grado di agire nell'ombra, di crearsi intorno in maniera subdola una rete disposta a fare cose spiacevoli pur di assecondarlo».

Le faceva paura?

«No, le sue mi sembravano parole di uno stupidotto ignorante a cui non dare peso. Tant' è che mi sono limitata a fare il mio lavoro e non ho segnalato nulla alla procura».

Poi però la situazione è esplosa.

«Si, la sera del 3 gennaio dello scorso anno: dopo un brindisi con i compagni della squadra di pallavolo con cui mi allenavo, sono stata fermata dai carabinieri».

Che cosa è successo?

«Mi ero appena messa in auto, stavo andando via. Mi si è lanciata addosso una macchina bianca con quattro uomini che mi ha molto spaventata: ho capito solo dopo fossero carabinieri in borghese. Volevano perquisire l'auto, quando ho aperto lo sportello sono andati a colpo sicuro: la soffiata era precisa».

Hanno perquisito anche il suo appartamento?

«L'ho chiesto io col mio avvocato quando siamo arrivati in caserma. Ero certa di non aver nulla da nascondere e volevo rimanesse agli atti».

Anche il pm Prisco quando ha ricevuto la denuncia dei carabinieri contro di lei ha intuito subito che qualcosa non quadrasse.

«Certo, e ha iniziato a indagare prima ancora che io presentassi un esposto contro Furci. Il clima a Corbetta era già avvelenato, erano usciti diversi articoli di giornale che erano stati veicolati ed evidentemente hanno insospettito anche il magistrato».

Ma l'ostilità di Furci non è cessata neanche quando è andato via?

«In tutto questo tempo sono arrivati di continuo esposti anonimi a giornali e partiti d'opposizione che non facevano altro che gettare ombre su di me e sull'amministrazione del sindaco Marco Ballarini che mi ha sempre supportata. Non ci è stato risparmiato nulla.

È soddisfatta della decisione presa dai magistrati?

«Ristabilisce la verità e mette fine a maldicenze e insulti. Non tutti sarebbero riusciti a resistere davanti a tante pressioni. È un merito che oggi, finalmente, ci viene riconosciuto».

"Igor il russo": Cassazione conferma l'ergastolo. Rosa Scognamiglio il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Diventa definitiva la condanna all'ergastolo per Norbert Feher, noto come "Igor il Russo", per l'omicidio di Davide Fabbri e Valerio Verri e per il tentato omicidio di Marco Ravaglia. È diventata definitiva la condanna all'ergastolo per Norbert Feher, meglio noto come "Igor il Russo", per l'omicidio di Davide Fabbri, titolare di un bar a Budrio, e della guardia ecologica Valerio Verri, e per il tentato omicidio ai danni della guardia provinciale Marco Ravaglia, delitti avvenuti nell'aprile del 2017 nel ferrarese. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno respinto il ricorso dell'imputato contro la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Bologna.

La sentenza della Cassazione

Norbert Feher, passato in rassegna alla cronaca nera con lo pseudonimo di "Igor il Russo" - uno dei tanti alias con cui era solito identificarsi - era stato condannato nel 2020, con la formula del rito abbreviato, dalla Corte di assise di appello di Bologna alla pena dell'ergastolo per gli omicidi di Davide Fabbri e Valerio Verri e per il tentato omicidio di Marco Ravaglia. I delitti erano stati commessi, nell'aprile del 2017, a Riccardina di Budrio, nel Bolognese, e a Mezzano di Portomaggiore, in provincia di Ferrara. Feher era stato processato anche per altri reati e, nello specifico, rapine aggravate (messe a segno e tentate), furti, ricettazione, violazioni in materia di armi. Nella mattinata del 2 novembre 2021, la Corte di Cassazione ha sancito in via definitiva la sentenza emessa dai giudici bolognesi.

"Ergastolo giusto"

La decisione degli Ermellini è stata accolta favorevolmente dai legali di parte civile. "Personalmente non sono a favore dell'ergastolo come pena nel processo penale. Devo tuttavia aggiungere che gli omicidi commessi da Igor il Russo lo meritano", scrive su Facebook l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Verri. Poi conclude: "Un abbraccio a Francesca ed Emanuele Verri. L'ergastolo ad Igor non restituirà loro l'amato padre. Quell'omicidio, nessuno me lo toglie dalla testa, ben si poteva evitare. Una pagina della quale le nostre forze dell'ordine non ritengo possano andare fiere. Ma questo è solo il mio parere". Attualmente Norbert Feher si trova in carcere in Spagna, sottoposto a un procedimento penale per altri delitti commessi fuori dai confini dell'Italia.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due

Francesco Rodella per ANSA il 22 aprile 2021. Norbert Feher, alias Igor il Russo, è stato dichiarato colpevole dei tre crimini più gravi imputatigli dalla giustizia spagnola: gli omicidi dell'allevatore José Luis Iranzo e degli agenti della Guardia Civil Víctor Romero e Víctor Jesús Caballero, freddati la sera del 14 dicembre 2017 ad Andorra, località dell'Aragona. Lo ha stabilito una giuria popolare, chiamata a giudicare quei fatti in un processo iniziato la settimana scorsa a Teruel, capoluogo di provincia aragonese. Un verdetto che il criminale — in realtà nato in Serbia — ha ascoltato impassibile, rinchiuso in una gabbia di vetro e con lo sguardo fisso per quasi tutto il tempo sull'incaricata di darne lettura. La pubblica accusa e le parti civili chiedono per lui 'prisión permanente revisable', la massima pena possibile in Spagna. Ora si attende la sentenza del giudice. Igor il Russo si nascose in quella zona della Spagna orientale dopo aver ucciso in Emilia Romagna, mesi prima, il barista Davide Ferri e la guardia ecologica Valerio Verri. Per quei fatti — dopo i quali sfuggì a una massiccia caccia all'uomo delle forze dell'ordine italiane — è stato condannato in appello all'ergastolo. Giorni prima del triplice omicidio di Andorra, a pochi chilometri da lì, Feher sparò a due abitanti della zona, che si salvarono per miracolo. Quell'episodio gli è valso una condanna a 21 anni. Il pomeriggio del 14 dicembre 2017, gli uomini della Guardia Civile sulle sue tracce si fecero accompagnare da Iranzo, buon conoscitore delle campagne in cui si temeva fosse nascosto, e lo scovarono. Feher, secondo la giuria popolare, tese loro un agguato: prima uccise a colpi di pistola Iranzo, poi anche gli agenti Romero e Caballero. Fuggì a bordo dell'auto dell'allevatore e venne arrestato ore dopo. Da allora è rimasto dietro le sbarre. Secondo l'agenzia di stampa Efe, l'accusa ha manifestato "soddisfazione" per il verdetto. Uno degli avvocati delle vittime considera tuttavia che c'è ancora da far luce su come Feher sia arrivato sino in Spagna. Mentre la difesa non ha escluso la possibilità di presentare ricorso. "Sentire il nome di quell'individuo mi fa ancora male, per questo non ne parlo mai. Penso solo che una persona così non dovrebbe esistere", ha commentato Maria Sirica, la vedova di Davide Fabbri. "Spero che rimanga in galera lì e non torni più in Italia, almeno nel posto dov'è adesso sarà costretto a rispettare le regole. Qui lo Stato se n'è fregato", ha aggiunto la donna.

Igor il Russo manda all'ospedale cinque secondini. La Repubblica l'11 aprile 2021. Norbert Feher, il killer di Budrio, ha aggredito il personale del carcere in Spagna. Norbert Feher, conosciuto anche come Igor 'il russo', ha tentato di ferire un funzionario della prigione di Duenas, dove è detenuto, colpendolo con due piastrelle prese dal bagno della cella e ha mandato in ospedale cinque persone, operatori carcerari, per evitare di essere trasferito a Zuera (Saragozza) dove domani inizia il processo per il triplice omicidio commesso nella zona di Teruel, a dicembre 2017. L'aggressione da parte del killer è raccontata dal sito di informazione Lacomarca.net.

Quattro omicidi: ergastolo più altre condanne. Feher, serbo di 40 anni, venne arrestato in Spagna al termine di una latitanza di otto mesi, dopo i due omicidi commessi l'1 e l'8 aprile nelle province di Bologna e Ferrara, per cui è stato condannato all'ergastolo in appello. Prima di essere preso, uccise in Spagna due agenti della Guardia Civil e un allevatore. Sempre in Spagna ferì gravemente altre due persone, crimine per cui è già stato processato e condannato a 21 anni. La Comarca racconta che i cinque aggrediti sono stati portati in ospedale con ferite di varia entità, nessuna grave. Quando sono arrivati alla cella per trasferirlo, Igor avrebbe detto di voler "portare via" chiunque fosse entrato nella stanza. Per proteggersi indossava 'un'armaturà, vari abiti uno sopra l'altro e riviste sotto i vestiti. Alla fine il personale del carcere è riuscito a portarlo dove un reparto speciale della Guardia Civil lo attendeva per il trasferimento. 

Da corriere.it l'11 aprile 2021. Un’altra follia, l’ennesima, di Norbert Feher, più conosciuto come «Igor il Russo»: il pluriomicida, detenuto in Spagna, ha tentato di ferire un funzionario della prigione di Duenas, dove si trova ristretto, colpendolo con due piastrelle prese dal bagno della cella. E poi ha mandato in ospedale altre quattro persone, operatori carcerari, per evitare di essere trasferito a Zuera (Saragozza), dove domani inizia il processo per il triplice omicidio commesso nella zona di Teruel, a dicembre 2017. L’aggressione da parte del killer è riportata dal sito Lacomarca.net.

Il curriculum. Feher, serbo di 40 anni, venne arrestato in Spagna al termine di una latitanza di otto mesi, dopo i due omicidi commessi l’1 e l’8 aprile nelle province di Bologna e Ferrara, per cui è stato condannato all’ergastolo in appello. Prima di essere preso, uccise in Spagna due agenti della Guardia Civil e un allevatore. Sempre in Spagna ferì gravemente altre due persone, crimine per cui è già stato processato e condannato a 21 anni. Un killer spietato, che non ha mai mostrato alcun gesto di pentimento.

L’«armatura». Il sito spagnolo riporta che i cinque aggrediti sono stati ricoverati in ospedale con ferite di varia entità, nessuna per fortuna grave. Quando sono arrivati alla cella per trasferirlo, Igor avrebbe detto di voler «portare via» chiunque fosse entrato nella stanza. Per proteggersi indossava «un’armatura», assemblata in modo artigianale con abiti uno sopra l’altro e giornali sotto i vestiti. Alla fine il personale del carcere è riuscito a portarlo dove un reparto speciale della Guardia Civil lo attendeva per il trasferimento.

(ANSA il 29 aprile 2021) - Norbert Feher, alias Igor il Russo, è stato condannato in Spagna alla massima pena — un ergastolo che potrà essere sospeso a determinate condizioni, nel suo caso, dopo 30 anni — per uno dei tre omicidi di cui è considerato colpevole, avvenuti nel 2017 in Aragona. Per gli altri due assassinii la pena decisa dal giudice è di 25 anni ciascuno.

Spagna, "Igor il russo" condannato all'ergastolo per tre omicidi. La Repubblica il 29 aprile 2021. Le vittime per cui è stato giudicato colpevole sono un allevatore e due agenti della Guardia Civil. Previsto dalla sentenza del tribunale spagnolo anche un risarcimento di 3 milioni di euro. Sull'uomo che in realtà è di origine serba pende anche la condanna perpetua per due omicidi compiuti in Italia. Norbert Feher, alias Igor il Russo, è stato condannato dal tribunale provinciale di Teruel in Spagna alla massima pena - un ergastolo che potrà essere sospeso a determinate condizioni, nel suo caso, dopo 30 anni - per uno dei tre omicidi di cui è considerato colpevole, avvenuti nel 2017 in Aragona. Per gli altri due assassinii la pena decisa dal giudice è di 25 anni ciascuno.

La fuga e la sentenza a Norbert Feher. La storia di Igor il Russo, il killer e fuggitivo di Budrio condannato all’ergastolo. Vito Califano su Il Riformista il 29 Aprile 2021. È stato condannato all’ergastolo Igor il Russo, che russo non è, ma che è stato ritenuto responsabile di tre omicidi. Si chiama Norbert Feher, dalla Serbia, accusato di cinque omicidi tra Spagna e Italia. Gli omicidi in Spagna nel 2017. Per due dei tre omicidi è stato condannato a 25 anni di carcere, per il terzo all’ergastolo. La condanna, ha stabilito il giudice, non potrà essere sospesa prima che abbia scontato 30 anni di carcere. Feher era già stato condannato all’ergastolo in Italia dal tribunale di Bologna nel 2019 per gli omicidi di Davide Fabbri e Valerio Verri. I delitti nell’aprile 2017 tra Bologna e Ferrara. È stato arrestato nel 2017 dopo alcuni mesi da latitante. In Spagna era già stato condannato a 21 anni per il tentato omicidio di due persone. Il caso di Feher tenne banco sui giornali italiani nell’aprile 2017. Il primo aprile veniva ucciso un tabaccaio di Budrio, provincia di Bologna. Ucciso con due colpi di pistola, una Smith & Wesson argentata, calibro 9, sottratta a una guardia giurata. Il tabaccaio si chiamava Davide Fabbri e aveva 52 anni. Una tentata rapina. Prima dell’omicidio una breve colluttazione con il killer che fuggendo aveva lasciato delle tracce di sangue. Qualche giorno dopo un altro uomo veniva ucciso in una zona disabitata in provincia di Ferrara, la guardia provinciale Valerio Verri. L’attenzione sul personaggio divenne morbosa. L’uomo era scappato nelle campagne e si diffuse la voce fosse russo, Igor, addestrato forse dall’Armata Rossa dell’Unione Sovietica. Un ex soldato dunque abituato ad adattarsi a ogni condizione. Come, per esempio, rifugiarsi nei boschi. Igor Vaclavic, 41enne: questo doveva essere il suo nome. Veniva paragonato a Rambo. Si parlava di “un ninja” che si nutriva di piante e animali selvatici. Un racconto sempre più romanzato che cominciò a scricchiolare quando si scoprì Igor non era russo, ma serbo, e che non si chiama Igor. La caccia all’uomo in Italia ha coinvolto circa ottocento uomini. Anche reparti speciali. Si moltiplicarono i racconti sul passato del misterioso criminale e le intervista a chi lo aveva conosciuto. Norbert Feher era indagato per violenza sessuale in Serbia. Aveva raccontato di aver prestato servizio nell’esercito russo, nella seconda guerra cecena, e che la figlia era stata uccisa per ritorsione; che aveva vissuto in Cina e imparato il cinese, che si era trasferito in Italia nel 2006. Elementi riportato soprattutto da compagni di cella. Feher, 40 anni, era stato infatti arrestato per una serie di rapine tra Ferrara e Rovigo nel 2007. Per evitare l’estradizione si presentò al carcere di Rovigo con l’identità finta di Igor Vaclavic. Questo a quanto pare il motivo dell’inganno e del rebus sull’identità. Fu scarcerato nel 2010 e nuovamente arrestato, fu detenuto nel carcere dell’Arginone fino al 2015. Pare che in carcere guardasse i cartoni animati, si allenassi di continuò, facesse il chierichetto. Ma non si trovava. E l’attenzione sul personaggio intanto continuò a salire. A quanto pare il 17 maggio arrivò una cartolina al comando centrale dei Carabinieri di Ferrara: Feher annunciava di essere arrivato in Spagna. Secondo le autorità spagnole avrebbe attraversato otto Paesi usando 18 diverse identità per fuggire. Assaltò una fattoria in Aragona e ferì due persone, uccise un pastore nei dintorni della città di Andorra, due agenti della Guardia Civil furono freddati quando intervennero. Igor fuggì ancora e venne arrestato soltanto il 15 dicembre, a Mirambel, intorno alle 2:50 dopo un incidente stradale durante la fuga, privo di sensi. È stato condannato nel febbraio 2020 a Teruel a 21 anni per due omicidi e detenzione illecita di armi. In carcere si è reso protagonista di altre intemperanze: ha ferito delle Guardie con le schegge di ceramica ricavate dalle piastrelle del bagno del carcere di Duenas, a Nord di Valladolid, dov’è detenuto. Rifiutava il trasferimento nel carcere di Zuera.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" il 15 settembre 2021. Otto anni dopo, Walter Onichini finisce in carcere. «Non è facile da accettare - dice la moglie Sara, - la viviamo come un'ingiustizia». È un commerciante padovano, Onichini. Ha 39 anni e gestisce un'azienda per la lavorazione della carne: la sua vicenda inizia nel 2013, in una notte di luglio, quando si sveglia di soprassalto per dei rumori sospetti davanti alla sua villa di Legnaro. Si affaccia al balcone e lo vede, il ladro che sta armeggiando attorno alla sua macchina. È in giardino, si chiama Nelson Ndreca, è di origini albanesi, sui vent' anni. Ha anche una lista di precedenti lunga così, Ndreca: ma questo Onichini, allora, non lo sa. Sa solo che qualcuno è entrato nella sua proprietà, che ha cattive attenzioni, che potrebbe finire male. «L'ho fatto per mio figlio», dirà in tribunale. Lì per lì agisce d'impulso, prende il fucile e spara. Colpisce l'albanese, ferendolo. Poi scende le scale, carica il malvivente in macchina e avvia il motore. Vuole portarlo in ospedale, ma lo lascia in un campo, a qualche chilometro di distanza. Una volta tornato a casa chiama i carabinieri. Il mattino dopo è su tutti i giornali. L'ennesimo commerciante che reagisce, che prova a proteggersi. Una legge sulla legittima difesa, ancora, non c'è in Italia: se ne parla da tanto, chi la auspica (la Lega) si schiera a fianco di Onichini; chi non ne vuol sentire neanche l'odore punta il dito. Otto anni vanno avanti così. Tra processi, avvocati, faldoni. Il primo grado è una mazzata: «colpevole», dicono i giudici. Lui ricorre in appello, non va meglio: gli danno 4 anni, 10 mesi e 27 giorni di carcere per tentato omicidio. Il suo avvocato, Ernesto de Toni, spiega ai magistrati che sì, è vero: se quella volante delle forze dell'ordine non avesse trovato quasi subito Ndreca, sarebbe morto dissanguato, ma il suo assistito voleva davvero portarlo a medicare. Però a metà strada si è trovato un coltello puntato alla gola e ha dovuto lasciarlo andare. Il caso arriva in Cassazione e si accende qualche speranza quando il procuratore generale chiede di derubricare il reato, di ammettere l'eccesso colposo di legittima difesa. Niente da fare: la Suprema Corte conferma la condanna. E lunedì mattina, per Onichini, si aprono le porte del penitenziario. Gli uomini dell'Arma che bussano alla porta di casa. «No, non adesso», la moglie scoppia a piangere, «ci sono i bambini, non volevo che vedessero». Resta anche l'amaro in bocca, perché Ndreca in tribunale s' è presentato solo per testimoniare contro di lui: poi, e nonostante una condanna già bollata ma senza l'ordine di carcerazione, se l'è data a gambe. «Adesso siete venuti in cinque per prendere me - sospira Onichini agli agenti che lo portano via, - ma quando lo Stato ha avuto la sua occasione per arrestare quel criminale (il riferimento, ovvio, è a Ndreca: ndr), nessuno ha mosso un dito». Una vita distrutta, quella degli Onichini. Costretti a cambiare casa, a trasferirsi in provincia di Venezia («lì non riuscivamo eppure a chiudere occhio, troppa paura», si sfoga Sara sulle pagine locali del Corsera), a reinventarsi. Ma sempre con quel fardello, le parcelle dei legali da una partee le spese processuali dall'altra. Sabato prossimo, alle 20, fuori dal casermone del carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, dove è stato trasferito Onichini poche ore dopo l'arresto, è già stato indetto un flash-mob di solidarietà.  «Vogliamo mandare un messaggio a Walter, dirgli che noi siamo qui, siamo con lui e non molleremo», sostengono gli organizzatori: «Lo hanno strappato alla sua famiglia, è un padre, un lavoratore onestoo». Anche l'albanese che voleva rubargli l'alto avrebbe dovuto farsi tre anni di prigione. Ma di lui se ne sono perse le tracce. Ha fatto giusto in tempo a richiedere un risarcimento di oltre 300mila euro.

Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 26 ottobre 2021. «Mentre scappava con i suoi complici mi ha puntato la pistola addosso. E allora ho sparato io». Sotto choc, con le mani ancora tremanti, Sandro Fiorelli, 58 anni, titolare della tabaccheria di famiglia in piazza Guglielmo Marconi, nel centro di Santopadre, fra Arce e Arpino, in provincia di Frosinone, spiega così ai carabinieri del comando provinciale quello che è successo alle 19.40 di ieri davanti alla sua villetta alle porte della cittadina. Una zona residenziale, con vialetti alberati e piccoli lampioni, dove fino alla tarda serata gli investigatori dell'Arma hanno effettuato un sopralluogo nel punto in cui è caduto, colpito a morte a un fianco dalla fucilata, un rumeno di 34 anni, Mirel Joaca Bine. Accanto al corpo la replica di una pistola caricata a salve. Il tabaccaio è rimasto per ore nella caserma dei carabinieri della compagnia di Sora: a dare l'allarme è stato proprio il commerciante che ha riferito di aver subìto un furto nella sua abitazione dove era appena tornato con il figlio. «Eravamo rincasati quando ho sentito dei rumori provenire dal piano superiore», ha detto ancora il negoziante. Un ritorno improvviso, che ha colto di sorpresa il commando di ladri che era entrato poco prima. Bine si è dato alla fuga insieme con altre persone, tre secondo il tabaccaio, impugnando una pistola che sembrava vera. Che avrebbe poi puntato contro la vittima. Almeno questa è la versione fornita dal 58enne, in passato già preso di mira dai malviventi, perché i carabinieri stanno cercando conferme al suo racconto. Accertamenti sono stati svolti anche nella villetta, per capire come i ladri siano entrati in azione e cosa abbiano portato via. Sequestrati il fucile da caccia, regolarmente detenuto dal padrone di casa con altre armi dello stesso tipo, e anche la replica. Non è chiaro se Bine abbia aperto il fuoco per impaurire la vittima del furto, e questo è un aspetto che potrebbe rivelarsi decisivo per capire se il 58enne abbia agito per legittima difesa. Sul posto sono intervenuti anche un'ambulanza dell'Ares 118, alcune pattuglie della polizia e il pm di Cassino Marina Marra che ha disposto l'autopsia. Non si esclude che chi indaga possa acquisire nelle prossime ore anche i filmati di videosorveglianza di alcune telecamere della zona che potrebbero aver ripreso qualcosa di utile per capire come sia andata davvero. Nel frattempo per tutta la notte nelle campagne di Santopadre sono andate avanti le ricerche dei complici del 34enne ucciso: potrebbero essersi allontanati con un'auto o forse con altre persone che li stavano aiutando nell'assalto alla villa. Fra le ipotesi anche quella che il gruppo possa essere responsabile di altri furti in abitazione, anche se le statistiche nella zona fra il Sorano e la Val di Comino segnalano solo 2 episodi nei mesi scorsi.

Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 26 ottobre 2021. «Mi sono soltanto difeso», è questa la linea tenuta dal tabaccaio Sandro Fiorelli di fronte ai carabinieri che lo hanno interrogato per ore in caserma. La stessa seguita in numerosi casi analoghi che si sono registrati in un passato anche recente. Saranno le perizie balistiche, l'incrocio delle testimonianze di chi era presente, la ricostruzione dell'esatta dinamica a dover stabilire se davvero si è trattato di legittima difesa o se invece ci sia stato un eccesso colposo. In questo caso la posizione giudiziaria di chi ha sparato sarebbe diversa, più gravi le conseguenze penali. Così il tabaccaio ha ricostruito quanto accaduto: «Stavo tornando dal lavoro nella mia villetta con mio figlio e quando sono entrato in casa ho sentito dei rumori. Ho capito che c'era qualcuno al piano superiore e allora ho preso il fucile perché mi sono spaventato. Sono uscito di casa e mentre facevo il giro della villetta un uomo mi si è parato davanti. Impugnava una pistola, me l'ha puntata contro e a quel punto ho sparato». Secondo il racconto di Fiorelli il ladro non era da solo, «ma quando ha capito che in casa era entrato qualcuno, è uscito dalla porta finestra del piano superiore che consente di uscire, ed evidentemente voleva scappare, ma quando mi ha visto stava per fare fuoco e invece io ho sparato per difendermi». Saranno i carabinieri del comando provinciale di Frosinone guidati dal colonnello Alfonso Pannone e del reparto operativo, coordinati dal tenente colonnello Andrea Gavazzi a verificare se la ricostruzione fatta dal proprietario sia attendibile. Su questo si gioca l'esito dei primi accertamenti e dunque la decisione di denunciare Fiorelli, di disporne il fermo oppure lasciarlo libero, anche se si decidesse di contestare l'eccesso colposo di legittima difesa. Un precedente analogo a quanto accaduto ieri sera è quello dell'8 giugno 2019 quando tre ladri assaltarono una ricevitoria a Pavone Canavese, in provincia di Torino. Il titolare, che abita al piano di sopra, scese armato di pistola Taurus 3.57 magnum regolarmente detenuta, fece fuoco uccidendone uno. Un mese fa la Procura ha chiuso le indagini e il tabaccaio Franco Iachi Bonvin, 67 anni, è stato indagato a piede libero per eccesso colposo di legittima difesa avendo per «negligenza, imprudenza e imperizia, esploso vari colpi d'arma da fuoco di cui uno mortale». La vittima: Ion Stavila, moldavo, aveva 24 anni, incensurato.

Spara al ladro, tabaccaio indagato. "Puntava l'arma e mi sono difeso". Stefano Vladovich il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'uomo era con il figlio: "Non sapevo che l'arma del ladro fosse una scacciacani". Da chiarire la dinamica. Due colpi a pallini, il primo in aria. L'ha colpito al fianco destro mentre la vittima si stava voltando con una pistola giocattolo in mano. È indagato per eccesso colposo di legittima difesa Sandro Fiorelli, 58 anni, tabaccaio di Santo Padre, il paesino in provincia di Frosinone che domenica sera si è trovato di fronte una banda di ladri nella sua abitazione. Dopo un interrogatorio fiume, carabinieri di Sora e Procura di Cassino non l'hanno indagato per omicidio e lasciato in libertà. Per Mirel Joaca Bine, 34 anni di Brasov, Romania, incensurato, non c'è stato nulla da fare. In fuga i tre complici. L'uomo si difende: «Quando ho visto che quello mi puntava l'arma ho sparato». Il primo colpo dal fucile calibro 12 in aria, per farli fuggire. L'altro ad altezza d'uomo. E qui è il nodo di un furto finito nel peggiore dei modi. Fiorelli ha esploso il secondo colpo alle spalle di Bine o ha sparato in un drammatico faccia a faccia? I carabinieri del nucleo operativo devono attendere i risultati dell'autopsia. «Su questo non possiamo dire nulla, ci sono indagini in corso», chiosano. Di certo la pistola, replica di una semiautomatica senza tappo rosso, era accanto al cadavere. Nessuno, tranne il tabaccaio indagato, può dire se l'avesse puntata contro il padrone di casa. Il pm di Cassino, Marina Marra e il procuratore capo Luciano D'Emmanuele, dopo aver valutato l'informativa degli investigatori, sono cauti. Solo l'esame autoptico potrà stabilire con certezza la direzione di entrata dei proiettili. Sconvolto Fiorelli che ha ricostruito per filo e per segno quanto accaduto. Sono le 19,40 di domenica. Fiorelli rientra a casa con il figlio. Sente dei rumori al piano superiore. Grida mentre si precipita verso la sua piccola armeria: tre fucili regolarmente detenuti per la caccia. Gli intrusi, vista la mal parata, aprono una porta finestra e da questa raggiungono il giardino. L'uomo fa un giro di perlustrazione attorno la sua villetta quando vede uno dei quattro malviventi con la pistola in mano. «Non poteva sapere che era una scacciacani», insiste il suo legale, avvocato Sandro De Gasperis. Il ladro fugge quando Fiorelli esplode il primo colpo di avvertimento. Sono istanti. Secondo una ricostruzione Bine fa per voltarsi con la pistola in mano, una torsione del busto sufficiente per mostrare e puntare l'arma. Fiorelli preme ancora il grilletto e i pallini raggiungono il 34enne, appunto, a un fianco. Perde sangue a fiotti Bine, il 58enne getta l'arma e chiama i soccorsi, inutilmente. Fiorelli, che ha subìto un altro furto nella tabaccheria di famiglia, al centro del paese, non si da pace. «Stava per fare fuoco, ho sparato per difendermi», dice. Solidarietà da chi ha vissuto una storia simile, a cominciare da Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola, Padova, che nel 2012 uccide un ladro di 23 anni che stava svaligiando il negozio sotto la sua abitazione. «Sto con Fiorelli - dice -, una persona onesta contro un delinquente. Uccidere, anche se per legittima difesa, però è una disgrazia che comunque vada non si cancella». Nessun dubbio anche per Joe Formaggio, il «sindaco sceriffo» di Albettone, Vicenza, oggi consigliere regionale: «Ha fatto benissimo». Stefano Vladovich

"Il ladro mi ha puntato la pistola": tabaccaio spara e uccide il romeno. Francesca Galici il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Erano in quattro gli uomini che hanno tentato di rapinare la casa del tabaccaio nel frusinate.Il commerciante era già stato derubato in passato. Serata di sangue in provincia di Frosinone, dove un tabaccaio ha fatto fuoco uccidendo un uomo che si era introdotto nel giardino della sua abitazione. I fatti si sono svolti attorno alle 20 del 25 ottobre, quando il proprietario della casa ha notato almeno un paio di persone all'interno della sua proprietà, che poi è stato appurato fossero quattro. I carabinieri al momento non escludono nessuna pista ma quella più accreditata è quella della tentata rapina finita male. Restano ancora da capire le dinamiche esatte dell'omicidio, una delle poche certezze che si ha finora è che uno dei due uomini visti dal tabaccaio è stato trovato cadavere all'interno del giardino del commerciante, che ha sparato col suo fucile. Il proprietario di casa, Sandro Fiorelli, era stato già derubato in passato. La vittima è stata rapidamente identificata dalle forze dell'ordine presenti sul posto ed è un cittadino romeno di 39 anni, Mirel Joaca Bine. Stando alle prime indiscrezioni di un'indagine ancora in corso, pare che i tre malviventi fossero convinti che l'abitazione in quel momento fosse libera. Accortosi dei rumori provenienti dal giardino, il tabaccaio si è insospettito e affacciandosi ha notato le persone sospette nel suo giardino. Il magistrato Marina Marra della Procura di Cassino ha interrogato il tabaccaio, che avrebbe agito per legittima difesa. Infatti, il bandito ucciso, secondo le indiscrezioni trapelate, era armato di pistola. TG24.info, sito di cronaca locale, riferisce che il bandito avrebbe puntato l'arma contro il tabaccaio, che a quel punto avrebbe sparato. Vicino all'uomo c'era anche suo figlio. "Mentre scappava con i suoi complici mi ha puntato la pistola addosso. E allora ho sparato io", ha dichiarato l'uomo, come riportato dal Corriere. Il Corsera riferisce, inoltre, che è stata trovata "una pistola replica, caricata a salve". Ora gli investigatori sono al lavoro per effettuare tutti i rilievi del caso e individuare gli altri tre uomini che, invece, sono riusciti a darsi alla fuga. Stando alle prime testimonianze, i tre avrebbero anche provato a tornare indietro, forse per recuperare la vittima, ma sarebbero stati nuovamente messi in fuga dal tabaccaio che ha sparato altri colpi di fucile in aria. Gli inquirenti ipotizzano che la banda potrebbe essere responsabile di altri furti effettuati in zona.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Stefano De Angelis "Il Messaggero" il 27 ottobre 2021. Due colpi, uno in aria e l'altro mortale. Sono stati gli ultimi istanti della sequenza sfociata in omicidio a Santopadre, paese della Ciociaria. Qui, a poche centinaia di metri dal centro, l'altra sera un tabaccaio ha ucciso con un colpo di fucile un rumeno che, insieme ad altri due complici, si era introdotto nella sua villetta. «Avevamo capito che in casa era entrato qualcuno. Quando sono uscito nel giardino per controllare, ho visto un uomo in procinto di scappare. Ho sparato in aria, lui si è girato verso di me: impugnava una pistola, me l'ha puntata contro e a quel punto, temendo per la mia vita, ho sparato». Così il commerciante ha ricostruito quanto accaduto nel vialetto dell'abitazione. Ora l'uomo, Sandro Fiorelli, 59 anni, titolare di una tabaccheria in piazza Marconi, è indagato non per omicidio, ma per eccesso colposo di legittima difesa. È a piede libero: nei suoi confronti la Procura non ha adottato alcuna misura. Ieri era a casa, la stessa teatro della tragedia, con la famiglia. «È provato, il figlio più di lui» ha spiegato il suo legale, l'avvocato Sandro De Gasperis. Già perché è stato proprio il figlio, che lavora all'ospedale di Colleferro, ad avvertire rumori sospetti provenire dal piano superiore della villetta. Erano circa le 19.30 e i due erano appena rientrati dopo aver chiuso la tabaccheria. Stando alla ricostruzione fornita agli investigatori, il giovane ha gridato e messo in allarme il padre. L'uomo si trovava in cantina, dove teneva i fucili regolarmente detenuti. È un cacciatore. A quel punto, spaventato, ne ha imbracciato uno, un calibro 12 a pallini, ed è uscito dal locale per dare un'occhiata. Mentre risaliva un vialetto verso la porta di casa, sulla base della versione resa, in un primo momento ha visto due uomini scappare dalla sua proprietà. Probabilmente, colti di sorpresa dall'arrivo di padre e figlio, erano appena usciti dall'abitazione per non farsi sorprendere. Si sono dileguati nel buio della notte e sono tuttora ricercati. A quel punto il tabaccaio è arrivato in fretta al porticato, a due passi dall'ingresso, e ha avvertito altri rumori arrivare da una stanza. Passano pochi istanti e, secondo quanto descritto dal commerciante, è avvenuto l'incontro ravvicinato con il rumeno: anche lui voleva fuggire, come i complici. La tragedia si è consumata in pochi secondi. Per Mirel Joaca Bine, 34 anni, è stata fatale una rosa di pallini: lo hanno colpito al fianco destro, sotto l'ascella, perforandogli un polmone. È caduto con il volto riverso a terra, intorno tracce di sangue. Indossava un cappello e aveva una pistola, trovata accanto al cadavere. La stessa che il tabaccaio ha visto puntare verso di sé: «Me l'ha rivolta contro e allora per difendermi ho sparato» ha ripetuto ai carabinieri. È risultata un'arma scacciacani priva di tappo rosso ed è stata sequestrata. Sull'avambraccio destro del rumeno sono state riscontrate altre ferite, provocate sempre dai pallini. Per lui non c'è stato nulla da fare. Quando sono arrivati i sanitari del 118 era già troppo tardi. A dare l'allarme è stato lo stesso Fiorelli, ascoltato per ore nella caserma dei carabinieri di Arpino: soltanto dopo le 6 del mattino è tornato a casa con il legale. Ha ripercorso tutte le fasi e ripetuto di aver esploso il colpo per essersi sentito in pericolo. Gli investigatori hanno effettuato sopralluoghi e rilievi all'interno e all'esterno della villetta per individuare tracce e indizi utili: il tutto per trovare riscontri sulla ricostruzione del tabaccaio, incensurato. Nell'abitazione sono stati sequestrati tre fucili, regolarmente posseduti e custoditi. Sono stati acquisiti anche i telefonini. Si sta verificando, inoltre, anche l'identità del rumeno che ha perso la vita: quelle generalità sono senza precedenti. Un aiuto sarebbe potuto arrivare anche del sistema di videosorveglianza della villetta, ma è emerso che non registrava: riprendeva soltanto filmati in diretta. Ora si sta cercando acquisire eventuali immagini d'interesse investigativo da altre telecamere presenti nella zona. Il sostituto procuratore ha disposto l'autopsia sul corpo del 34enne: l'incarico è stato conferito, dovrebbe essere eseguita venerdì. Per l'avvocato del tabaccaio la circostanza del ferimento sul fianco del rumeno è un riscontro sulla versione dell'uomo. «Si è messo subito a completa disposizione degli inquirenti, mostrando massima collaborazione» ha spiegato.

Ste. De Ang. per "Il Messaggero" il 27 ottobre 2021. «Se mi fossi trovato nella situazione di mio figlio, avrei fatto la stessa cosa». Poche parole quelle del papà di Sandro Fiorelli. Ieri pomeriggio camminava lungo la strada che costeggia la villetta teatro della tragedia, per raggiungere ed entrare in un'altra abitazione poco distante. Un breve tragitto tra poche case, tanti uliveti e vista panoramica sui monti, ma qualche minuto è bastato per difendere il figlio, provato e turbato dopo l'accaduto, e fargli sentire tutta la sua vicinanza. «Lo capisco. Già qualche tempo fa aveva subito un furto in tabaccheria. Anch'io, al suo posto, trovandomi i ladri di fronte e per giunta armati avrei fatto lo stesso» ha spiegato l'uomo, pensionato, prima di varcare la porta d'ingresso di un fabbricato a due piani. In molti, nella zona alle porte di Santopadre, si sono chiusi nel silenzio. Pochi sguardi gettati sulla striscia di asfalto che si perde a valle tra curve e brevi rettilinei. Via Decime, contrada Valle, sembra una zona di periferia distante chilometri dall'area urbana. Ma è a poche centinaia di metri dal centro, dalla scuola, dalla piazza e dal Comune di Santopadre. Lì, l'altra sera, sono piombate le pattuglie dei carabinieri con sirene e lampeggianti. Hanno rotto la quiete di quella che sembrava essere una delle tante tranquille serate d'autunno nel piccolo centro, poco più di mille anime, situato tra il Sorano e la Val di Comino. Lì dove tutti conoscono tutti e dove un omicidio fa clamore e desta sgomento. Un intero paese scosso. A guidarlo dallo scranno più alto dell'assise comunale è Giampiero Forte, il sindaco che è anche cognato di Fiorelli. Aveva visto Sandro la stessa sera, solo qualche ora prima dell'incursione dei tre uomini nella villetta. Un paio sono poi fuggiti a bordo di un'auto di colore grigio, facendo perdere le loro tracce. «Tutta la nostra comunità è profondamente provata per questa grande tragedia che ha colpito due persone, una che non c'è più e l'altra. Siamo rimasti tutti scioccati, un trauma. Questo è un paese tranquillo. Ora è il momento del dolore, del silenzio e della riflessione. Non è quello delle strumentalizzazioni. Bisogna stare vicini alla comunità» ha spiegato il primo cittadino, visibilmente rattristato. Ieri mattina, all'indomani della tragedia, in paese non si parlava d'altro. C'era il mercato settimanale e alcune decine di persone si trovavano tra i banchi. Nei bar, negli angoli della piazza e fuori dai pochi negozi aperti si parlava solo di quanto accaduto poche ore prima. «Siamo con Sandro - spiegano alcuni cittadini -. Ha dovuto reagire per difendersi. Non è possibile rientrare a casa dopo una giornata di lavoro e trovare i ladri». «Anch'io avrei agito allo stesso modo se mi fossi trovato al suo posto». Questo il commento di diversi pensionati. Un'altra signora aggiunge: «Sandro è una brava persona, un pezzo di pane e viene da una buona famiglia. È un grande lavoratore. Se ha sparato è perché non poteva evitarlo». Ieri la tabaccheria Fiorelli era chiusa. In molti ricordano il furto messo a segno alcuni mesi fa: «Di notte hanno forzato la saracinesca e hanno rubato». Altri parlano anche delle passioni dell'uomo, non solo per la caccia, ma anche per l'agricoltura. «Qui i carabinieri di Arpino passano con la gazzella almeno una volta al giorno. Ogni tanto avviene qualche furto, ma una cosa così non era mai accaduta» dicono altri. In paese a dirsi maggiormente preoccupate sono le donne anziane, in particolare quelle che vivono in zone isolate o non vicine al centro abitato. Temono di rincasare e trovare i ladri. «Per questo - ha detto una commerciante - da tempo rientro soltanto insieme a mio marito, mai da sola». Un'altra ha sottolineato: «Dopo quello che è successo, ho chiesto a mio marito di non lasciarmi mai sola in casa». In molti hanno espresso solidarietà e vicinanza al tabaccaio, anche sui social. C'è chi si è anche offerto di raccogliere fondi per sostenere le spese legali del commerciante.

Stefano De Angelis per "Il Messaggero" il 28 ottobre 2021. I primi dubbi sono affiorati all'indomani del tentato furto in casa sfociato in omicidio a Santopadre, nel Frusinate. Ora i sospetti sono diventati una certezza. L'uomo che è stato ucciso con un colpo di fucile a pallini dal tabaccaio Sandro Fiorelli, che lo aveva sorpreso insieme a due complici nella sua proprietà, non è il rumeno Mirel Joaca Bine. La vittima aveva con sé un documento falso. Soltanto la foto sulla tessera rinvenuta indosso al cadavere corrisponde. Le generalità sono di un'altra persona, che è viva e vegeta: il vero Mirel, originario di Brasov, rumeno di 34 anni, abita in Svezia da tanto tempo con la sua famiglia. Uno sviluppo clamoroso nelle indagini, che ora devono quasi ripartire, almeno su questo fronte, per cercare di risalire all'identità dell'uomo. Un aiuto potrebbe arrivare dalle impronte digitali, sempre che siano già contenute nella banca dati delle forze dell'ordine. Altrimenti si dovrà procedere per altre vie nel tentativo di dare un nome e un cognome a quel corpo, trovato riverso a terra nel viale d'ingresso della villetta, accanto a tracce di sangue e a una pistola, risultata poi una scacciacani priva di tappo rosso. Gli investigatori stanno effettuando verifiche, anche incrociate, per giungere all'identificazione. Così come vanno avanti le ricerche dei complici che si sono dati alla fuga, facendo perdere le proprie tracce. Il dubbio che poteva trattarsi di una persona diversa ha iniziato a farsi strada tra gli investigatori quando il 34enne è risultato pulito: nessun precedente penale né denunce registrate dalla polizia. Particolari che hanno insospettito e hanno portato ad approfondire la situazione. A sgombrare il campo è stato poi lo stesso Mirel, nel frattempo bersagliato sui social da amici e conoscenti sui fatti accaduti in Ciociaria. Ha parlato a un media rumeno, in un servizio con tanto di video e testo in cui intervengono anche la madre e la sorella. Dal loro racconto è venuta fuori quella che è una sorta di odissea per Mirel. Tutta colpa di un documento d'identità smarrito. «Io con i fatti avvenuti in Italia non c'entro niente» ha chiarito. Perché lui, da nove anni, vive in Svezia. E quel documento che ormai non ha più da un pezzo è diventato una sorta di persecuzione. L'uomo ha detto di essere stato vittima di un furto d'identità. Quel ladro che si è introdotto nella villetta del tabaccaio, trovando la morte, aveva una tessera di riconoscimento con dati anagrafici che il rumeno aveva perso tanti anni fa, quando ancora si trovava in Romania. Mirel ha raccontato che, da quando ha perso quella carta d'identità, ha ricevuto diverse multe arrivate dalla Francia e dall'Inghilterra, pur non essendo stato in quei Paesi. Il 34enne si è rivolto più volte alla polizia rumena e svedese per segnalare la situazione e provare a trovare una soluzione. «Quando mi hanno inviato i link su quanto accaduto in Italia, sono rimasto sorpreso». Lo stupore dev'essere stato davvero tanto: Mirel era stato dato per morto. Ora, però, il suo calvario sembra finito: quel documento è stato requisito dai carabinieri e non c'è più il rischio che possa finire in altre mani. Intanto, sul tentato colpo culminato in tragedia le indagini vanno avanti spedite. Stamane sarà conferito l'incarico al medico legale che, nel pomeriggio, effettuerà l'autopsia. Potranno così arrivare conferme sulla versione resa agli investigatori da Sandro Fiorelli, indagato con l'ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa. Il paese si è stretto intorno al commerciante e alla sua famiglia. L'altra notte sono comparsi striscioni di solidarietà: Io sto con il tabaccaio, Siamo tutti Sandro Fiorelli, La difesa è sempre legittima: quest'ultimo è stato esposto davanti alla tabaccheria. 

Documento perso molti anni fa. Ladro ucciso da tabaccaio aveva falsa identità, il vero Mirel: “Ora vivo in Svezia, è una persecuzione”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Non è il 34enne di cittadinanza romena Mirel Joaca Bine il ladro ucciso dal tabaccaio Sandro Fiorelli durante una tentata rapina a a Santopadre, in provincia di Frosinone. I primi dubbi sono affiorati all’indomani del tentato furto e ora i sospetti sono diventati una certezza. La vittima uccisa con un colpo di fucile a pallini aveva un documento falso: si cerca ora, dunque, di risalire alla sua identità. Intanto, il vero Mirel, che vive in Svezia con la famiglia da nove anni, ha detto di aver perso la carta d’identità e di essere totalmente estraneo ai fatti. “Quando mi hanno inviato i link su quanto accaduto, sono rimasto sorpreso. Io non c’entro niente”, ha chiarito a un media romeno. Per risalire all’identità della vittima gli investigatori potrebbero ricorrere alle impronte digitali e parallelamente vanno avanti con la ricerca degli altri complici sorpresi dal tabaccaio. A confermare i sospetti, sorti tra gli investigatori quando sul 34enne non sono risultati precedenti penali né denunce registrate dalla polizia, è stato lo stesso Mirel che si è accorto di quanto stesse accadendo perché ha ricevuto insulti sui social. Ha quindi deciso di parlare spiegando che il ladro che si è introdotto nella villetta possedeva una tessera di riconoscimento con dati anagrafici che aveva perso tanti anni fa. Documento che gli è costato anche diverse multe arrivate dalla Francia e dall’Inghilterra, pur non essendo stato in quei Paesi. Ha anche detto di aver provato a risolvere il problema, segnalandolo alla polizia romena e svedese. Uno sviluppo clamoroso nelle indagini, che ora devono ripartire per cercare di risalire all’identità dell’uomo. Un aiuto potrebbe arrivare dalla banca dati delle impronte digitali delle forze dell’ordine. Altrimenti si dovrà procedere per altre vie nel tentativo di dare un nome e un cognome a quel corpo, trovato riverso a terra nel viale d’ingresso della villetta, accanto a tracce di sangue e a una pistola, risultata poi una scacciacani priva di tappo rosso. Quel documento che ormai non ha più da un pezzo è diventato una sorta di persecuzione. “Quando mi hanno inviato i link su quanto accaduto in Italia, sono rimasto sorpreso”, anche perché Mirel era stato dato per morto. Ora, però, il suo calvario sembra finito: quel documento è stato requisito dai carabinieri e non c’è più il rischio che possa finire in altre mani. Sul tentato colpo in Ciociaria culminato in tragedia le indagini vanno avanti. Stamane sarà conferito l’incarico al medico legale che effettuerà l’autopsia. Potranno così arrivare conferme sulla versione resa agli investigatori da Fiorelli, indagato con l’ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa. Il paese si è stretto intorno al commerciante e alla sua famiglia. L’altra notte sono comparsi striscioni di solidarietà ‘Io sto con il tabaccaio’, ‘Siamo tutti Sandro Fiorelli’ e "La difesa è sempre legittima". Riccardo Annibali

L'uomo è stato riconosciuto da alcuni familiari. Ladro ucciso dal tabaccaio, identificata la vittima dopo lo scambio di persona: le ‘tracce’ portano in Campania. Redazione su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. C’è una svolta nelle indagini dell’omicidio del ladro sorpreso in un’abitazione a Santopadre in provincia di Frosinone lunedì sera 25 ottobre. È infatti stato individuato l’uomo ucciso con un colpo di fucile dal proprietario della villetta, Sandro Fiorelli, il tabaccaio che è ora iscritto nel registro degli indagati per "eccesso colposo di difesa". La vittima è Xheleshi Arber, 38 anni di nazionalità albanese e senza fissa dimora, ma che attualmente sembra vivesse in Campania e proprio in questa zona si sono concentrate le indagini da parte dei carabinieri della Compagnia di Sora. L’uomo è stato riconosciuto da alcuni familiari che vivono in provincia di Trento. I parenti hanno deciso di nominare un avvocato del foro di Napoli Nord. La conferma dell’identità della vittima, inizialmente individuata per errore nel 34enne di cittadinanza romena Mirel Joaca Bine, è arrivata nel tardo pomeriggio di giovedì 28 ottobre con l’autopsia eseguita dal dottor Vincenzo Caruso all’ospedale ‘Santa Scolastica’ di Cassino. La vittima uccisa con un colpo di fucile a pallini aveva infatti un documento falso: il vero Mirel, che vive in Svezia con la famiglia da nove anni, ha detto di aver perso la carta d’identità e di essere totalmente estraneo ai fatti. Per comprendere la dinamica dell’omicidio, il medico legale, nominato dalla Procura, ha effettuato una tac sul corpo della vittima per fare piena luce sulla traiettoria dei pallini presenti nelle cartucce del fucile da caccia utilizzato da Fiorelli. Bisogna attendere almeno 90 giorni per la relazione medico-legale disposta dalla Procura.

Due giovani morti a Ercolano. Li scambia per ladri e spara, freddati in strada due 20enni incensurati: la tragedia nella notte. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Freddati sul posto, a colpi di pistola: non c’è stato nulla da fare per due giovani, entrambi incensurati, uccisi la scorsa notte in strada a Ercolano, comune in provincia di Napoli. Le vittime avevano 26 e 27 anni. Niente da fare per i sanitari, accorsi sul posto. I due sono morti in strada. Sul caso indagano i carabinieri: i militari della Compagnia di Torre del Greco e del Nucleo Investigativo di Torre Annunziata sono intervenuti sul posto. E al momento la dinamica è tutta da ricostruire. L’ipotesi più verosimile è comunque che la tragedia sia stata provocata da un grottesco scambio di persona. I due giovani erano arrivati insieme in un’automobile in via Marsiglia. Un residente della zona li avrebbe scambiati per ladri, malintenzionati in procinto di entrare nella sua abitazione. E ha fatto fuoco, uccidendoli in strada. È una dinamica ancora nebulosa: tutta da confermare ma comunque la più verosimile al momento. Quello che però è certo è che i due erano incensurati. Questa ricostruzione escluderebbe l’agguato di Camorra o comunque un delitto riconducibile a logiche criminali. Sul posto anche i magistrati. Non è ancora chiaro se il residente che ha aperto il fuoco sia stato fermato dalle forze dell’ordine. La zona nel quale si è consumato il delitto è comunque una zona molto buia, piuttosto isolata: queste le condizioni che avrebbero provocato la tragedia della scorsa notte, secondo l’ipotesi più accreditata al momento.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ercolano, camionista spara e uccide due giovani: «Pensavo che fossero dei ladri». di Fulvio Bufi, inviato a Ercolano su Il Corriere della Sera il 29 ottobre 2021. Colpiti alla testa: Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella erano fermi in auto. L’uomo, Vincenzo Palumbo di 55 anni, ha fatto fuoco dal terrazzo della sua villetta.  Due amici, di 26 e 27 anni, sono stati uccisi l’altra notte mentre erano fermi in auto lungo una strada che conduce verso il Vesuvio. A sparare contro di loro diversi colpi di pistola il proprietario di una delle villette che si trovano a pochi metri da dove le due vittime avevano fermato la loro Panda.

Confessione

Finora questa è l’unica certezza della tragedia avvenuta intorno all’una e trenta di ieri a Ercolano. Perché il camionista cinquantacinquenne Vincenzo Palumbo abbia preso la mira e fatto fuoco dal terrazzo di casa, puntando l’arma contro Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella e colpendo entrambi alla testa, rimane invece ancora incomprensibile. C’è la versione fornita dall’omicida, ma è talmente irrazionale che gli stessi investigatori non si accontentano della confessione e, pur avendo disposto il fermo dell’uomo, con l’accusa di omicidio volontario, continuano a indagare alla ricerca di elementi che consentano di ricostruire nei dettagli ogni fase della tragedia. Palumbo sostiene di aver sparato convinto che Pagliaro e Fusella fossero ladri pronti a entrare in casa sua. Ma i due amici non avevano fatto nulla che giustificasse un tale fraintendimento. Non erano scesi dall’auto, né all’interno avevano armi o qualunque altro oggetto che potesse farli percepire come una presenza minacciosa. Semplicemente erano lì.

Periferia

Via Marsiglia è una strada in salita della periferia di Ercolano, costeggiata da terreni incolti, vecchie case di campagna e villette che hanno tutta l’aria di appartenere a quell’infinità di costruzioni abusive realizzate irresponsabilmente ai piedi del Vesuvio. Nella parte bassa c’è anche un campo di calcetto, e più su, oltre la villetta dove Palumbo vive con moglie e figlia, un ristorante scelto spesso per organizzare feste con finale di fuochi d’artificio. In quella zona Tullio e Giuseppe, inseparabili fin dai tempi della scuola, sarebbero già stati altre volte, secondo quanto racconta Oreste Pagliaro, il papà di Tullio. Hanno degli amici da quelle parti, e ci abitano anche due ragazze con le quali si stanno frequentando. E poi giovedì sera c’era la partita del Napoli, e magari i ragazzi erano andati a vederla a casa di qualcuno.

La sosta in via Marsiglia

Quel che è certo è che intorno all’una e trenta si fermano proprio di fronte alla villetta di Palumbo. Il muso della loro auto è rivolto verso il terrazzo, quindi da casa li possono vedere piuttosto bene, anche se è tutto buio. Nessuno potrà mai sapere con certezza il perché di quella sosta, ma si possono ipotizzare vari motivi. Per esempio potevano voler fare una telefonata, e in via Marsiglia il segnale va e viene, ma in quel punto c’è. E sono in macchina quando Palumbo comincia a sparare con la pistola che detiene regolarmente. Giuseppe esce e prova a scappare a piedi ma è subito colpito. Tullio mette in moto, toglie il freno a mano e poi un colpo lo raggiunge alla testa. La macchina è in folle e va giù all’indietro. I carabinieri la troveranno schiantata contro un muretto laterale. Ha perso anche una ruota. E troveranno una scia di sangue lunga più i dieci metri.

La versione di Palumbo non convince. Uccisi da un camionista che li scambia per ladri, i punti oscuri dietro la morte di Tullio e Giuseppe. Carmine Di Niro su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Tanti, troppi dubbi sulla versione raccontata da Vincenzo Palumbo, l’autotrasportatore 53enne di Ercolano che ha sparato e ucciso nella notte tra giovedì e venerdì  Giuseppe Fusella e Tullio Pagliaro, 26 e 27 anni, incensurati di Portici, che si erano fermati in auto a chiacchierare a pochi metri dalla villetta dell’uomo in via Marsiglia, venendo scambiati per ladri. Questa è stata la sua versione dopo un interrogatorio fiume avvenuto per tutta la giornata di venerdì, al termine del quale, scrive l’Agi, è in stato di fermo e gli viene contestato il reato di duplice omicidio volontario. 

Un racconto che però non convince fino in fondo gli inquirenti. L’unica certezza è che Palumbo ha sparato diversi colpi di pistola, forse sei, contro i due amici che in serata erano stati in un locale per vedere la partita del Napoli. Tullio e Giuseppe si erano fermati con la loro Panda a pochi metri dalla villetta di Palumbo e sono morti colpiti dai proiettili che li hanno centrati alla testa. I DUBBI – Le certezze però finiscono qui e fondamentale saranno i risultati che arriveranno dai rilievi della scientifica che per tutta la giornata di venerdì ha lavorato sul luogo della tragedia. L’ipotesi che Palumbo abbia traviso le intenzioni dei due amici appare agli inquirenti surreale: i due non avevano armi o oggetti che potesse farli percepire come una minaccia, probabilmente si erano fermati nei pressi della casa di Palumbo per effettuare una telefonata, visto che nella zona il segnale è intermittente. Non solo: non è chiaro da dove abbia sparato il camionista 53enne, punto sul quale saranno fondamentali gli accertamenti della scientifica. È stato infatti ipotizzato che i colpi, sparati da una pistola regolarmente detenuta, siano stati esplosi da posizione frontale rispetto alla vettura, con la possibilità dunque che Palumbo sia sceso dal terrazzino della villetta di via Marsiglia. Il 53enne ha raccontato anche di aver visto i due giovani fuori dall’auto, ma anche in questo caso non c’è certezza. Di certo c’è anche Tullio Pagliaro è stato trovato senza vita al volante della Panda, che era riuscito a mettere in moto percorrendo alcuni metri, fino al brusco stop contro un muretto, perdendo anche una ruota. Le salme dei due 20enni sono state trasportate all’Istituto di Medicina Legale del Secondo Policlinico di Napoli per gli esami autoptici, che potranno fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto poco dopo l’una di notte di giovedì. E ancora, non vi sono conferme alle voci circolate venerdì su un furto avvenuto ai danni di Palumbo all’interno della propria abitazione, mentre è certo il furto di un’auto subito dall’autotrasportatore lo scorso settembre.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

I due giovani uccisi ad Ercolano. Tullio aiutava il papà al mercato, Giuseppe lo studente salutista: «I ragazzi più buoni del mondo». Titti Beneduce su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2021. Il dolore di amici e parenti: insieme da piccoli, sempre allegri, erano cugini ma anche amici nella vita. Appassionati di sport, erano amati da amici e parenti. Tullio si alzava all’alba per andare al mercato dei fiori ed evitare la levataccia al padre, Giuseppe studiava Scienze motorie ed era un salutista: incredibilmente sono stati scambiati per ladri da un uomo che li ha uccisi sparando loro alla testa. Se la dinamica del duplice omicidio non è ancora stata ricostruita nei dettagli dai carabinieri, la personalità delle due vittime (Tullio Pagliaro, di 27 anni, e Giuseppe Fusella, di 26) è invece evidente a tutti: ragazzi perbene, appassionati di sport e musica, abitavano a Portici e si erano fermati per caso davanti alla villetta dell’omicida, nella vicina Ercolano.

La passione per il tennis di Tullio

Quelli che li conoscevano bene ora sono a pezzi. Racconta per esempio Emiliano Mellone, amico e istruttore di Tullio al Tennis Club Velotti di Portici: «È venuto qui per la prima volta quando aveva sei anni. Eravamo la sua seconda famiglia. Lo conoscevano tutti, anche i bambini, per la sua generosità, la sua disponibilità, la sua allegria. Di una cosa siamo tutti assolutamente sicuri: Tullio era un ragazzo perbene, non avrebbe mai fatto del male neppure a una mosca, figuriamoci entrare in casa altrui... No, quell’uomo ha fatto una cosa orribile. Per noi oggi è un giorno di lutto».

Giuseppe, il salutista amato da tutti

Giuseppe Fusella invece si allenava nella palestra Active Fitness di Portici, come racconta il body art Gianluca Giordano: «Veniva spesso qui ad allenarsi, l’ultima volta che l’ho visto è stata mercoledì. Non ci sappiamo spiegare perché sia accaduto. La prima cosa che mi è venuta in mente è che un ragazzo come lui, lasciato andare la sera, ti fa stare tranquillo. Non fumava né beveva... La perla dei ragazzi, un salutista. Il figlio che tutti i padri vorrebbero».

Cugini e amici nella vita

Nella famiglia Pagliaro nessuno si è preoccupato che a tarda notte il giovane non fosse rincasato: «Spesso — racconta un cugino di Tullio, Lorenzo — quando usciva e faceva tardi lui, anziché tornare a casa, andava direttamente al mercato dei fiori di Ercolano, dove si comincia a lavorare all’alba. Ecco perché, quando sono arrivati i carabinieri, ci è crollato il mondo addosso». Tullio e Lorenzo, oltre che essere cugini, erano molto amici e avevano frequentato la stessa scuola, l’istituto tecnico «Carlo Levi» di Portici. «Proprio perché lo conoscevo benissimo — sottolinea Lorenzo — posso assicurare che, se solo quell’uomo gli si fosse avvicinato e gli avesse chiesto chi fosse, dal suo modo gentile di rispondere avrebbe capito di trovarsi di fronte a una persona perbene. Se gli fosse stato chiesto di spostarsi, mio cugino avrebbe inserito la prima e si sarebbe allontanato. Subito».

Il dolore di Ercolano

Il padre della vittima, Oreste, riesce a dire poche parole: «Mio figlio era il ragazzo più buono del mondo. In quella zona aveva degli amici, delle amiche, per questo gli capitava di andarci». Una risposta indiretta a quanti si sono chiesti come mai i due ragazzi si trovassero in piena notte in una zona molto isolata, sulle pendici del Vesuvio. Non solo i familiari, ma l’intera città di Portici è sotto choc. Tullio e Giuseppe abitavano poco distante, l’uno in via Diaz, l’altro in viale I Melina; al citofono di casa Fusella risponde uno zio; anche qui poche parole e tanta disperazione: «Giuseppe era un ragazzo solare, siamo chiusi nel nostro dolore, rispettateci». I due giovani si conoscevano da piccoli e facevano spesso le vacanze insieme, di solito con altri amici, ma a volte Giuseppe si aggregava alla famiglia Pagliaro.

Da tgcom24.mediaset.it il 30 ottobre 2021. Vincenzo Palumbo è stato sottoposto a fermo in quanto ritenuto gravemente indiziato del duplice omicidio di Giuseppe Fusella e Tullio Pagliaro, uccisi a colpi di pistola a Ercolano (Napoli) perché scambiati per ladri. Lo rende noto la Procura di Napoli, precisando che l'autotrasportatore di 53 anni ha esploso 11 colpi con una pistola calibro 40 contro la vettura in cui si trovavano i due giovani di 26 e 27 anni.  

(ANSA il 30 ottobre 2021) - Con una pistola Beretta calibro 40 Vincenzo Palumbo ha esploso 11 colpi contro la Fiat Panda in cui c'erano Giuseppe Fusella e Tullio Pagliaro. Lo rende noto la Procura di Napoli in un comunicato. Cinque ogive hanno raggiunto l'auto con a bordo i due ragazzi, colpita mentre si stava allontanando. I due giovani sono stati raggiunti alla testa dai colpi di pistola, dopo ceh i proiettili avevano perforato il tetto dell'autovettura. A confermare che i colpi sono stati esplosi mentre l'auto si allontanava dall'abitazione di Palumbo, sono state le immagini dei sistemi di videosorveglianza acquisite dagli inquirenti. ''Il signor Vincenzo Palumbo chiede scusa ai familiari non voleva uccidere. Anche lui è profondamente addolorato. Aspettiamo che la magistratura faccia il suo lavoro''. Queste le parole dell'avvocato d'ufficio Francesco Pepe che difende Vincenzo Palumbo, l'autotrasportatore di 53 anni, proprietario di una abitazione in via Marsiglia alla periferia di Ercolano che ha esploso diversi colpi di arma da fuoco con una pistola legalmente detenuta uccidendo Giuseppe Fusella 26 anni e Tullio Pagliaro, 27 anni, incensurati, di Portici (Napoli). Durante l'interrogatorio reso al procuratore aggiunto di Napoli Pierpaolo Filippelli, Vincenzo Palumbo, l'autotrasportatore 53enne accusato di avere ucciso davanti la sua abitazione di Ercolano (Napoli) due giovani scambiati per ladri, ha riferito agli inquirenti della Procura di Napoli di essere stato svegliato dal sistema d'allarme della sua abitazione, che di avere preso la sua pistola, che custodiva sotto il letto dopo avere subito un furto lo scorso 4 settembre, per poi uscire sul terrazzo di casa con l'intenzione di respingere i ladri. Palumbo ha anche detto di avere visto un giovane scappare dalla sua proprietà: il ragazzo, dopo avere udito le sue grida, si è rifugiato nella Fiat Panda che lo attendeva con il motore accesso. A questo punto il camionista riferisce di avere sparato 4 o 5 volte malgrado la sua pistola si fosse inceppata dopo il primo colpo. 

Dario Sautto per “Il Mattino” il 30 ottobre 2021. Nel cuore della notte si è affacciato al balcone, ha impugnato la pistola, ha preso la mira con precisione ed ha sparato all'impazzata verso una Fiat Panda parcheggiata a pochi metri da casa. Almeno sei colpi di pistola sono stati esplosi all'indirizzo della vettura a bordo della quale erano seduti due ragazzi di 26 e 27 anni. Così sono morti i due giovani Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella, entrambi di Portici, incensurati. Tullio Pagliaro lavorava per l'azienda florovivaistica di famiglia, Giuseppe Fusella era prossimo alla laurea in Scienze motorie. Due classici bravi ragazzi, che sono andati inconsapevolmente incontro alla morte la scorsa notte perché forse scambiati per ladri. Il duplice omicidio è avvenuto intorno all'1.30 della notte tra giovedì e venerdì in via Marsiglia, frazione San Vito di Ercolano, una zona più vicina al cratere del Vesuvio che al centro cittadino. Tre case raggruppate in poche decine di metri, il buio pesto che le avvolge di notte, le rocce vulcaniche e qualche frutteto. La zona dove vive con la moglie e la figlia Vincenzo Palumbo, autotrasportatore 53enne, è isolata, silenziosa. E di notte, è facile accorgersi di ogni piccolo movimento, anche del semplice passaggio di un'automobile. Da ieri mattina, Palumbo è in stato di fermo perché accusato dalla Procura di Napoli di duplice omicidio, ma fino a tarda ora era ancora nella caserma dei carabinieri di Torre del Greco, con il decreto di fermo che è stato firmato poco dopo mezzanotte. Dalla scorsa notte, dunque, Palumbo è detenuto nel carcere di Poggioreale, in attesa della convalida del fermo. Dopo una lunga attesa nella saletta, nel pomeriggio la figlia del 53enne ha accusato un malore, è scoppiata in un pianto ed è tornata a casa, insieme alla mamma e al fidanzato. Poco più di un mese fa, ha raccontato Palumbo agli inquirenti, aveva subito il furto dell'auto e per questo temeva che la sua casa potesse essere in pericolo. Potrebbe essere racchiuso tutto in questo precedente il motivo che ha spinto il 53enne ad impugnare una pistola regolarmente detenuta insieme ad alcuni fucili da caccia e a fare fuoco da una quindicina di metri di distanza. Come se fosse in un poligono di tiro, con due bersagli da colpire. Almeno quattro colpi non sono andati a segno, due invece hanno centrato in pieno i due giovani alla testa. Le ogive hanno sfondato il parabrezza dell'auto colpendo alla testa i due ragazzi di Portici, morti praticamente in pochi istanti. Dopo aver sparato, Palumbo ha spiegato di aver atteso qualche minuto. Nessuno è uscito dalla vettura, dunque è sceso in strada a controllare. AL 112 Intorno alle 2, dunque mezz'ora circa dopo i fatti, ha chiamato lui il 112 spiegando ai carabinieri di aver sparato a due ladri. Una versione che Palumbo ha ribadito più volte anche al magistrato di turno presente l'aggiunto Pierpaolo Filippelli, della procura napoletana guidata dal procuratore Gianni Melillo durante il lungo interrogatorio, iniziato all'alba. Più volte ha spiegato di aver sparato «contro dei ladri» e di non aver avuto intenzione di uccidere. Una versione che non convince appieno gli inquirenti e che non è una vera e propria confessione. La prima ricostruzione effettuata dagli investigatori sul caso indagano i carabinieri della compagnia di Torre del Greco e della tenenza di Ercolano non si discosta di molto da quella fornita dal presunto assassino, ma ci sono alcuni dettagli da chiarire che non sono di poco conto. Può il semplice rancore per un furto subito ormai più di un mese fa spingere una persona a sparare nel cuore della notte contro due persone semplicemente parcheggiate in un'auto? E soprattutto, perché quei due ragazzi a quell'ora della notte erano fermi sul ciglio di una strada parzialmente sterrata a ridosso di tre abitazioni? Di sicuro, Tullio e Giuseppe non erano armati, non possedevano arnesi da scasso, né avevano stupefacenti. Si erano incontrati in serata, per assistere alla partita del Napoli in un bar di Portici. Poi, dopo la gara, erano andati in giro. Forse in un locale a bere qualcosa, forse semplicemente a fare due chiacchiere tra amici che «si frequentavano da tempo» come ha spiegato uno zio del 27enne. Sul luogo della sparatoria sono intervenuti gli esperti della squadra rilievi del nucleo investigativo del Gruppo carabinieri di Torre Annunziata, che hanno effettuato una serie di attività per stabilire il luogo esatto da cui sono stati esplosi i colpi di pistola e le possibili traiettorie dei proiettili. I rilievi hanno riguardato in particolare il terrazzo dal quale Palumbo avrebbe sparato e alcuni terreni adiacenti al luogo in cui sono stati trovati i cadaveri dei due ragazzi. La Fiat Panda crivellata di colpi è finita sotto sequestro e sarà sottoposta ad ulteriori accertamenti. Le salme dei due giovani sono state trasferite all'obitorio del Policlinico di Napoli, a disposizione della Procura in attesa dell'autopsia. Acquisite anche le immagini registrate dalle telecamere di una delle villette di via Marsiglia, che potrebbero servire per chiarire ulteriori dubbi.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2021. C'è un video che mostra come sono stati ammazzati Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella. E che dimostra chiaramente come i due ragazzi uccisi venerdì notte dal camionista cinquantatreenne Vincenzo Palumbo, che ha esploso contro di loro undici colpi di pistola, non avessero fatto nulla che potesse farli scambiare per ladri o comunque malintenzionati. Dall'altra sera Palumbo è in carcere, accusato di duplice omicidio volontario, e nelle prossime ore dovrebbe svolgersi l'udienza di convalida del fermo disposto dalla Procura di Napoli dopo circa sette ore di interrogatorio, durante le quali il camionista ha fornito una ricostruzione ritenuta dagli investigatori lacunosa e contraddittoria. Lui sostiene di essere stato svegliato dall'allarme installato nella sua villetta di via Marsiglia, una strada che sale verso il Vesuvio (i vicini, però, hanno udito il rumore degli spari ma non il suono della sirena). Si sarebbe alzato, e dopo aver preso la pistola che teneva accanto al letto, sarebbe uscito sul terrazzo e qui avrebbe visto qualcuno allontanarsi dal giardino e salire su una Panda rimasta nel frattempo con il motore acceso e con un'altra persona alla guida. Palumbo, che sostiene di aver acquistato la pistola (detenuta legalmente) circa due mesi fa, dopo che gli era stata rubata l'auto, dice di aver sparato quattro o cinque volte, anche se il carrello della sua Beretta si sarebbe inceppato dopo il primo colpo, ma lui sarebbe riuscito a sbloccarlo. Gli undici bossoli recuperati, però, lo contraddicono, ma ancora di più lo smentiscono le immagini registrate dai circuiti di videosorveglianza di altre villette poco distanti da quella di Palumbo e subito acquisite dai carabinieri. Da quei video si vede non solo che Pagliaro e Fusella sono sempre rimasti all'interno della Panda con la quale stavano percorrendo via Marsiglia, ma gli inquirenti ritengono di poter asserire con certezza che Palumbo ha cominciato a sparare quando l'auto era già in movimento, e si stava inequivocabilmente allontanando dal tratto di strada dove c'è la sua casa. In una nota firmata dal procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli - che coordina le indagini dei sostituti Luciano D'Angelo e Daniela Varone - si legge che «la dinamica dei fatti» rivela «una condotta», da parte di Palumbo, rivolta «intenzionalmente e senza giustificazione» a provocare «la morte violenta» di Pagliaro e Fusella. Che sono stati colpiti entrambi alla testa, e i cinque proiettili mortali, prima di raggiungerli, hanno forato il tettuccio dell'auto, andata poi a schiantarsi contro un murello laterale. Venerdì a tarda sera il legale di Palumbo ha diffuso una nota in cui sostiene che il suo cliente chiede scusa ai familiari dei due giovani uccisi, e alle scuse si è unita ieri, sempre tramite l'avvocato, anche la moglie. Nessuna spiegazione, invece, sul perché hanno aspettato venti minuti prima di avvertire i carabinieri di quello che era successo. 

I 20enni colpiti alla testa dall'autotrasportatore. Il video del duplice omicidio di Ercolano, 11 i colpi esplosi dal camionista contro Tullio e Giuseppe: “Ha sparato per uccidere”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Ottobre 2021. C’è un video che mostra la dinamica duplice omicidio e la tragedia di Ercolano: la morte di Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella, 27 e 26 anni, freddati nella notte tra giovedì e venerdì scorsi, mentre si trovavano nella loro auto alla periferia di Ercolano, in provincia di Napoli. Quindi un video delle telecamere di sorveglianza della zona mostrerebbe chiaramente come il camionista 53enne Vincenzo Palumbo abbia esploso 11 colpi di pistola contro i due ragazzi. Pagliaro e Fusella non avevano armi, non erano malintenzionati, non ladri: l’autotrasportatore li avrebbe scambiati appunto per ladri. Il mese scorso l’uomo, che viveva con la moglie e la figlia, aveva subito un furto. Adesso Palumbo è in carcere, accusato di duplice omicidio volontario. Il fermo disposto dalla Procura di Napoli dovrebbe essere convalidato a breve. L’uomo è stato interrogato per sette ore. Secondo gli investigatori ha fornito una versione lacunosa e contraddittoria: aveva raccontato di essere stato svegliato dall’allarme installato nella sua villetta i via Marsiglia, si sarebbe alzato e sarebbe uscito sul terrazzo dal quale avrebbe visto uno dei due ragazzi fuggire dal suo giardino e salire sulla Panda in moto e con un’altra persona dentro. Palumbo aveva acquistato la pistola detenuta legalmente circa due mesi fa. Dopo quel furto che avrebbe vissuto come una sorta di trauma e che sarebbe alla base della tragedia di Ercolano. Il 53enne aveva detto di aver sparato quattro o cinque volte anche se il carrello della Beretta si sarebbe inceppato dopo il primo colpo e lui sarebbe riuscito a sbloccarlo. Le forze dell’ordine però hanno recuperato 11 bossoli. Dalle immagini delle telecamere acquisite non risulta che Pagliaro e Fusella siano usciti dall’automobile. Anzi gli inquirenti asseriscono che i colpi sono stati esplosi quando la vettura era già in movimento e si stava allontanando dalla strada della villetta di Palumbo. La dinamica dei fatti, come ha scritto in una nota il Procuratore Aggiunto Pierpaolo Filippelli, rivela “una condotta” da parte di Palumbo “intenzionalmente e senza giustificazione” a provocare “la morte violenta”. Sia Pagliaro che Fusella sono stati entrambi colpiti alla testa. I cinque colpi mortali hanno forato il tettuccio e l’auto è finita contro un muretto laterale. Pagliaro lavorava nell’attività di famiglia, Fusella stava per laurearsi in Scienza Motorie. Entrambi di Portici. Due comunità in lutto, quelle nel napoletano. Una tragedia cui non si riesce a dare un senso. A chiamare i carabinieri sarebbe stato lo stesso autotrasportatore. I vicini di casa hanno detto di aver sentito gli spari. Palumbo ha chiesto scusa ai familiari delle vittime tramite al suo avvocato. E così ha fatto anche la moglie.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Omicidio di Ercolano, i vicini: "Il camionista ha una personalità fuori controllo". Ignazio Riccio il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Palumbo viene descritto come un uomo "incline al litigio" e "poco socievole". Alcuni mesi fa avrebbe avuto anche un alterco con gli operai dell’Enel. Le testimonianze dei vicini di casa non aiutano Vincenzo Palumbo, il camionista 53enne che è ancora in carcere, accusato di aver aucciso Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella, due giovani di 26 e 27 anni, incensurati, scambiati erroneamente per ladri. Il quadro che emerge dal racconto dei conoscenti del presunto assassino potrebbe aggravare ancora di più la sua posizione. Come riporta la Repubblica, Palumbo viene considerato un uomo “incline al litigio” e “poco socievole”. Alcuni mesi fa avrebbe avuto anche un alterco con gli operai dell’Enel, ai quali voleva impedire di avvicinarsi alla sua abitazione vicino alla quale c’erano dei cavi elettrici da riparare. Stessa sorte era toccata a due ciclisti minacciati con un fucile da caccia. Insomma, un’ossessione quella del 53enne che temeva di essere nuovamente rapinato dopo il furto subito alcuni mesi fa. Questi episodi, secondo gli inquirenti, sono state le avvisaglie della tragedia che si è consumata fra giovedì e venerdì scorsi in via Marsiglia a Ercolano. Per i giudici Palumbo sarebbe una “personalità del tutto fuori controllo” e per questo motivo è stato deciso di non concedere la scarcerazione, nonostante il camionista abbia cercato in tutti i modi di ribadire che la sua intenzione non era quella di uccidere i due ragazzi. Nella sua testimonianza, però, sono emerse delle incongruenze. Il 53enne aveva dichiarato di essere stato svegliato dall’allarme, di essersi spaventato e di aver sparato nel buio, senza accorgersi di aver colpito delle persone. In realtà gli inquirenti hanno verificato che l’impianto d’allarme non si è mai azionato e quindi che nessuno si era avvicinato alla casa del camionista. Le telecamere di sicurezza posizionate negli edifici circostanti, poi, smentiscono la versione di Palumbo. Per i magistrati, il 53enne, avendo visto parcheggiata la Fiat Panda da diverso tempo nelle vicinanze della sua abitazione, ha disattivato l’allarme e ha sparato undici colpi verso la vettura che, nel frattempo, si era rimessa in moto, probabilmente perché l’autista, sentiti gli spari, voleva darsi alla fuga. Una reazione spropositata quella del camionista che immaginava stesse per essere rapinato. In realtà i due giovani si stavano intrattenendo in macchina dopo aver visto la partita del Napoli e non avevano nessuna intenzione di compiere un gesto criminale.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere

Da leggo.it l'1 novembre 2021. Ma cosa ci facevano Giuseppe Fusella e Tullio Pagliaro, i due giovani ragazzi incensurati di 26 e 27 anni uccisi a Ercolano perché scambiati per ladri, davanti alla villetta del loro assassino, il camionista Vincenzo Palumbo? La risposta la fornisce lo zio di Giuseppe al Mattino di Napoli. La sera della tragedia, giovedì, Giuseppe e Tullio si erano incontrati per vedere la partita del Napoli in Europa League nel bar di un parente. Dopo il match, si erano dati appuntamento con degli amici che abitano nella periferia di Ercolano. E' proprio cercando la casa dei loro amici che Giuseppe e Tullio si sarebbero persi, finendo per errore davanti alla villetta di Palumbo. Tullio e Giuseppe avevano impostato il navigatore, che a un certo punto ha smesso di funzionare per mancanza di linea. I due si sono quindi persi tra le strade sterrate. Senza rendersene conto, si sono quindi ritrovati davanti alla villetta di Palumbo, dove sono stati uccisi intorno alla mezzanotte. Lo zio di Giuseppe, a nome delle due famiglie, adesso chiede giustizia: «Stiamo leggendo di tutto su questa storia. Speriamo soltanto che la verità venga fuori. Cosa vogliamo? Nulla potrà ridarci indietro mio nipote, lo sappiamo. Ma chi ha sbagliato deve pagare con pene esemplari. Noi vogliamo soltanto giustizia».

Da tgcom24.mediaset.it il 2 Novembre 2021. Al giudice ha ammesso di aver sparato più volte ma nel buio. Così Vincenzo Palumbo, l'autotrasportatore di 53 anni, durante l'interrogatorio di garanzia nel carcere napoletano di Poggioreale. Palumbo è accusato di avere ucciso a Ercolano, la notte tra giovedì e venerdì scorsi, a colpi di pistola Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella, due giovani di 27 e 26 anni, scambiati, secondo il suo racconto, "per ladri". "Al giudice ha riferito di avere visto l'auto, la Fiat Panda, solo quando è partita a tutta velocità e di avere sparato in un punto buio", ha raccontato il legale dell'indagato Fioravanti De Rosa. "Non l'aveva neppure immaginata l'eventualità di colpire la vettura e, addirittura, chi c'era all'interno. Se ne è reso contro solo quando l'auto si è schiantata contro un muretto dell'abitazione, dove è rimasta, in moto, per 5-10 minuti prima che Palumbo si avvicinasse. Trascorso questo lasso di tempo il mio assistito ha deciso di accostarsi alla vettura e una volta nelle vicinanze ha udito dei lamenti. A questo punto si è allontanato e ha chiamato il 112". Il gip di Napoli non ha convalidato il fermo emesso dalla Procura nei suoi confronti. Per Palumbo, che ha esploso contro i giovani 11 colpi di pistola, è stata disposta la custodia cautelare in carcere. Il fermo non è stato convalidato presumibilmente per la mancanza di un arresto in flagranza. Questione antifurto - Palumbo ha riferito di essere stato svegliato dall'antifurto della sua abitazione che scatta e si attiva quando c'è una violazione del perimetro. Ma, quella sera, "l'antifurto non era scattato sicché non risulta che si fossero avvicinate persone alla porta d'ingresso di casa del Palumbo", ha scritto nell'ordinanza di custodia cautelare. Dai controlli dei carabinieri, infatti, risulta che l'antifurto è stato inserito alle 22.54 di giovedì 28 ottobre e poi disinserito alle 00.28 del 29 ottobre, cioè quando Palumbo è uscito di casa dopo avere sparato. Nessuno dei vicini di casa di Palumbo, inoltre, ha riferito di avere udito l'allarme: alcuni hanno riferito di avere udito dei colpi d'arma da fuoco, altri nulla. Due hanno descritto l'indagato come una persona poco socievole e incline al litigio. Durante l'interrogatorio di garanzia, Palumbo però ha rettificato la versione dei fatti resa dicendo che fu la moglie e non lui a disinnescare l'antifurto. Secondo il giudice, quindi, Palumbo "non ha indubbiamente sparato 11 colpi per intimidire... ma ha "volontariamente impugnato l'arma sparando direttamente contro l'autovettura che immediatamente si è allontanata". Inoltre, "non vi è prova che si sia svegliato perchè è scattato l'allarme e che "qualcuno quella sera si fosse avvicinato alla sua abitazione".

L'autopsia conferma: fatali i proiettili alla testa. Giovani ammazzati in auto, la moglie del camionista: “Sono una mamma, chiedo perdono: la mia vita è distrutta”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 3 Novembre 2021. “La mia vita è distrutta, chiedo perdono alle famiglie delle due vittime. Sono anche io una mamma e posso capire cosa può significare non vedere più due figli che erano usciti di casa”. A parlare Maria Rosaria, la moglie di Vincenzo Palumbo, il camionista di 53 anni accusato del duplice omicidio di Tullio Pagliaro, 27 anni, e Giuseppe Fusella, 26 anni, i due ragazzi di Portici (Napoli) uccisi poco dopo la mezzanotte del 29 ottobre in via Marsiglia, nel vicino comune di Ercolano, perché scambiati per ladri. La donna ha parlato ai microfoni de “La vita in diretta” su Rai 1. “Mio marito deve pagare con la giustizia perché ha tolto la vita a due figli di mamma” ha spiego. Poi sulla dinamica di quanto accaduto ha aggiunto: “Stavo dormendo, ho sentito gli spari e sono andata in cucina. Qui mio marito mi ha detto che c’erano i ladri. Sono andata fuori la porta a vedere che cosa fosse successo ma non ho visto i due ragazzi morti in auto. Ho appreso tutto dai giornali il giorno dopo perché sono rientrata”. La donna è preoccupata per la figlia 20enne che dal giorno della tragedia parla pochissimo. Poi precisa: “Mio marito stava poco a casa perché fa il camionista ma non mi risultano discussioni con altre persone”. Poi l’amara conclusione: “La mia vita è finita. Eravamo una buona famiglia poi da un momento all’altro è stato tutto stravolto”. Intanto è stata eseguita oggi, mercoledì 3 novembre, al Secondo Policlinico di Napoli l’autopsia sui corpi dei due giovani di Portici dalla quale è emerso che sono entrambi deceduti per un colpo di pistola alla testa. Uno è morto sul colpo, l’altro dopo qualche minuto di agonia.  L’uomo, secondo quanto emerso dalle indagini, aveva il porto d’arma solo per uso sportivo, ossia la possibilità di poter sparare solo nei poligoni di tiro o per cacciare, ma non di custodire armi cariche in casa. E invece da quando aveva subito un furto nella sua proprietà a inizio settembre, dormiva con la pistola sotto il letto e usciva di casa armato la mattina quando portava il cane a passeggio. Inoltre – stando alle testimonianze di alcuni vicini di casa presenti nell’ordinanza firmata dal gip del tribunale di Napoli Carla Sarno – nelle settimane precedenti avrebbe minacciato con un fucile da caccia due ciclisti che si trovavano nei pressi della sua abitazione. Giovedì 4 novembre, alle 15,30, i funerali di Tullio e Giuseppe saranno officiati da don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, nella Chiesa di San Ciro di Portici. Il sindaco Enzo Cuomo ha proclamato il lutto cittadino. Era sotto choc, perciò c’è stato questo buco di ventisei minuti soprattutto per il fatto che non si era reso conto di ciò che era successo. Lui era intimorito da queste persone, perciò è accaduto ciò che è successo. Ma assolutamente non voleva arrecare danni mortali a questi ragazzi. Noi, anche come collegio difensivo, siamo vicini alle famiglie”. Queste le parole riferite all’Ansa dall’avvocato Francesco Pepe che difende insieme con Fioravante De Rosa, Vincenzo Palumbo.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Il duplice delitto di Ercolano. “Ho sentito i lamenti di Tullio e Giuseppe”, il camionista e i ragazzi lasciati agonizzanti dopo gli spari: soccorsi chiamati dopo mezz’ora. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Vincenzo Palumbo avrebbe avvertito il 112 solo dopo quasi mezz’ora dai colpi esplosi contro l’automobile sulla quale si trovavano Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella. 27 e 26 anni, morti sul colpo, nel duplice delitto di Ercolano, comune in provincia di Napoli, che ha sconvolto una comunità che ancora si fa fatica a realizzare il delitto assurdo e inspiegabile. “Giustizia e solidarietà per due figli di questa città”, lo striscione comparso a Portici domenica scorsa. Solo dopo essersi avvicinato alla Panda crivellata dai suoi colpi e aver visto i due giovani agonizzanti, il camionista avrebbe chiamato i soccorsi. Il dettaglio – i soccorsi chiamati dopo 26 minuti – sarebbe emerso dalle immagini dell’impianto di videosorveglianza di una villetta poco distante in via Marsiglia, periferia di Ercolano, lontano dal centro. Sarebbe successo tutto nel giro di tre minuti. Ancora da capire se i due amici, entrambi incensurati, stavano chiacchierando o si erano persi. Avevano appena visto la partita del Napoli in un bar. Erano entrambi di Portici. 11 i colpi esplosi dal 53enne camionista che ha chiamato le forze dell’ordine dicendo di aver sparato a due ladri che erano fuori la porta di casa sua. Dieci minuti dopo aver sparato è sceso in strada. Al gip avrebbe raccontato di aver sentito i lamenti dei due ragazzi e dopo un quarto d’ora abbondante di aver chiamato i carabinieri. Per i due ragazzi i soccorsi si sarebbero rivelati inutili: sono morti sul posto. Come ha confermato lunedì davanti al giudice delle indagini preliminari. Aveva “riferito di essere stato svegliato dal suono del sistema di allarme della propria abitazione e che dopo aver preso la pistola, che ogni notte custodiva sotto al letto a causa di un furto subito in casa in data 4 settembre 2021 ad opera di ignoti, si era precipitato fuori al terrazzo per respingere temuti ladri o rapinatori” e di “aver visto un giovane in fuga all’interno della sua proprietà, il quale, alle sue grida, sarebbe fuggito a bordo della Fiat bianca che lo avrebbe atteso con il motore acceso”. I Carabinieri della Compagni di Torre del Greco hanno contraddetto, alla luce delle indagini, da subito questa tesi difensiva. Il gip ha accolto la richiesta di arresto avanzata dalla Procura di Napoli e firmata dai pubblici ministeri Luciano D’Angelo e Daniela Varone. L’accusa: duplice omicidio volontario. Palumbo, assistito dai legali Fioravante De Rosa e Francesco Pepe, si trova quindi al carcere di Poggioreale a Napoli. Dall’ordinanza di custodia cautelare emergerebbe un comportamento, da parte del camionista, mirato ancora a cercare di attenuare le proprie responsabilità, senza alcuna volontà di offrire un contributo di chiarezza. Sia una perizia tecnica che i vicini smentiscono che l’allarme sia entrato in funzione. “A tutti vorrei ricordare – ha detto l’avvocato Fioravante De Rosa – che anche Vincenzo Palumbo è un padre e ha una famiglia: quando si è reso conto che le vittime erano bravi ragazzi, è stato colto da una grave crisi interiore e oggi se ne sono resi conto anche il giudice e i pm”. Palumbo ha detto inoltre di aver sparato al buio a scopo “intimidatorio”. Deteneva una Beretta calibro 40 legalmente. I due ragazzi, che non avevano armi con loro, estranei a qualsiasi tipo di precedente criminale, sono stati però raggiunti entrambi alla testa dai colpi. Il 53enne è anche cacciatore. Viveva con la moglie e con la figlia. Avrebbe minacciato nei mesi scorsi dei tecnici dell’Enel e dei ciclisti che si erano avvicinati alla sua villetta. Dal furto subito lo scorso 4 settembre “dormiva con la pistola sotto il letto e la portava con sé anche la mattina presto quando usciva a passeggio col cane per timore di poter incontrare qualche malintenzionato”. Secondo il gip “la presenza di un’autovettura” nei pressi della sua abitazione avrebbe rappresentato perfino “più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale”. Per il giudice “l’autovettura è stata colpita proprio mentre era stata messa in fuga dagli spari, sicché è evidente la volontà di Palumbo di colpire e uccidere a freddo sia il conducente che il passeggero. La freddezza del gesto e soprattutto l’assoluta determinazione nel colpire l’autovettura a bordo della quale viaggiavano i due ragazzi sono immortalate nelle immagini estrapolate dal sistema di videosorveglianza”. Ieri la convalida dell’arresto del 53enne. Mercoledì l’autopsia sui corpi delle due vittime.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Mille persone per l’ultimo saluto ai due ragazzi uccisi a Ercolano perché scambiati per ladri. Funerali Tullio e Giuseppe, lacrime e rabbia sotto la pioggia: “Si sono ritrovati in uno scenario di guerra”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 4 Novembre 2021. Il dolore è tanto a Portici per la scomparsa di Tullio Pagliaro, 27 anni, e Giuseppe Fusella, 26 anni, i due ragazzi di Portici (Napoli) uccisi poco dopo la mezzanotte del 29 ottobre in via Marsiglia, nel vicino comune di Ercolano, perché scambiati per ladri da Vincenzo Palumbo, camionista 53enne che ora è in carcere con l’accusa di duplice omicidio. La pioggia non ferma parenti e amici per l’ultimo saluto nella chiesa di San Ciro a Portici ai due ragazzi su cui quella notte si è abbattuta una pioggia di 11 proiettili. Intorno alle 14.30 sono arrivate le bare dei due ragazzi alla chiesa di San Ciro nella piazza principale di Portici dove per ordinanza sindacale c’è il lutto cittadino. In migliaia si sono assiepate dentro e fuori la chiesa in un silenzio surreale. “I due giovani diventati santi per mano di un malvagio resteranno per sempre nei cuori di tutti noi”, si legge su uno striscione. La messa è celebrata dall’ arcivescovo di Napoli Mimmo Battaglia. Con il passare dei minuti, in attesa dell’inizio della messa tutta la piazza antistante la chiesa, si è riempita di persone e palloncini bianchi. In tanti hanno potuto partecipare alla funzione grazie agli altoparlanti istallati fuori alla chiesa. “Continueremo a stare vicino alle famiglie Pagliaro e Fuselli per chiedere giustizia. A voi genitori, parlo da padre e non da sindaco, dico che quello che è successo poteva capitare a ognuno dei nostri figli. Sono usciti la sera e si sono ritrovati in uno scenario di guerra. Tutta la nostra città vi abbraccia forte, forte, forte”, ha detto Enzo Cuomo sindaco di Portici. “Andare a dormire sapendo che i propri figli sono usciti per una serata di divertimento con gli amici dopo aver visto una partita di calcio in tv e sapere che non tornano perché si sono imbattuti in uno scenario di guerra, perché quello che è successo a Giuseppe e Tullio non ha niente a che vedere con le nostre comunità, è uno scenario di guerra – ha continuato il sindaco – Quindi noi vi diciamo e ci diciamo insieme a voi che Giuseppe e Tullio continueranno a vivere nella nostra comunità. E che il nostro e vostro dolore sia tramutato in doni d’amore. Tutti insieme faremo in modo che tutte le cose belle che vivrete possano sempre tenerci in vita Giuseppe e Tullio che sono due figli orgogliosamente4 della nostra città. Le condoglianze più affettuose di tutta l’amministrazione comunale, ma soprattutto un abbraccio forte. Ai genitori di Tullio e Giuseppe dico: tutta la nostra comunità vi abbraccia forte, forte forte”. In piazza anche gli amici della palestra e gli amici del mercato dei fiori hanno accolto le salme con un lunghissimo applauso tra le lacrime e la pioggia. Si è rivolto agli amici di Giuseppe e Tullio l’arcivescovo di Napoli monsignor Domenico Battaglia nel corso della sua omelia pronunciata durante i funerali. A loro don Mimmo Battaglia ha chiesto di non scegliere la strada del rancore ma “di stare dalla parte della vita. Comprendo – queste le parole dell’arcivescovo – la vostra incredulità nutrita dal dolore e dalla rabbia, avete appreso brutalmente della morte violenta dei vostri amici e sapete bene che questa vicenda rimarrà indelebile nella vostra memoria. Potrà sembrare assurdo, ma vi auguro che proprio questo dolore possa aiutarvi nella ricerca di nuovi significati, quasi come un ultimo regalo, un’eredità che i vostri amici oggi vi lasciano. Vi prego ragazzi, la loro morte non deve essere inutile. Avete due strade di fronte a voi da imboccare: nutrirvi del rancore o seminare nei vostri cuori, nei cuori dei vostri amici e di quelli delle vostre famiglie i semi di una speranza e di un’armonia. Ogni volta che provi rancore e odio, stai solo avvelenando te stesso, Vi prego, scegliete di stare dalla parte della vita, difendete la vita, amate la vita. Rifuggite ogni logica di violenza. Avete toccato con mano quanto la cecità della violenza può generare vittime e lasciare intere famiglie nel dolore. Proprio per questo – ha aggiunto don Mimmo Battaglia – vi chiedo di essere strumenti di pace, annunciatori di una nuova civiltà fondata su amore e giustizia. Solo così non renderete vana la morte di Tullio e Giuseppe”. Poi ai genitori dei due ragazzi ha detto: “Mamma Rosaria e mamma Imma, papà Oreste e papà Sandro, non posso restituire Tullio e Giuseppe al vostro abbraccio, ma posso solo accostarmi alle vostre famiglie e provare a vivere con voi questo dolore”. “Comprendo la vostra rabbia, la vostra disperazione, il vostro urlo di ingiustizia e di impotenza- ha aggiunto monsignor Battaglia – sono con voi, siamo con voi. Come comunità non vi lasceremo mai soli ma vi saremo accanto. E’ una promessa che facciamo dinanzi a Tullio e a Giuseppe e dinanzi a Dio che oggi li accoglie nella sua casa”. Infine un lungo applauso e il volo di decine di palloncini bianchi hanno accompagnato l’uscita delle bare dei due ragazzi, accompagnati da un lungo applauso. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Cesare Giuzzi per corriere.it il 3 novembre 2021. Nei film gli assassini scappano dopo il delitto. Non vanno in un parco a dividersi quaranta euro di bottino per spenderli subito in lattine di birra. Non indossano gli stessi vestiti usati per uccidere e non si scambiano messaggi sul cellulare con la notizia dell’assassinio. E neppure si presentano a rivendere la refurtiva al Compro oro lasciando i propri documenti d’identità. Ma nei film nessuno uccide per così poco. Nessuno mai si metterebbe ad accoltellare e a finire con un ferro da stiro una novantenne cieca e malata per portarle via una manciata di niente: due collanine, un anello, un orologio, quaranta euro presi da un portafoglio e un paio d’occhiali da sole. Fernanda Cocchi, una vita da sarta, è morta uccisa da due assassini senza un piano e senza un senso. Le cose sono andate così, con lo squallore di un male brutale e al tempo stesso normale, dove ci si dà appuntamento al telefono come ci si vede per bere un aperitivo. Sorseggiando brandy e succo d’arancia nell’attesa di andare ad uccidere. 

La chiamata

«Ieri mattina ho chiamato il mio amico Gabriel a cui ho proposto di andare a rubare a casa di una vecchietta che abita al primo piano del mio palazzo — racconta nelle sommarie informazioni Mario Abraham Calero Ramirez, 44 anni peruviano, appena fermato dagli agenti —. Lui era d’accordo e gli ho consigliato di portare i guanti per non lasciare impronte. Ci siamo incontrati alle 12 al parco Sammartini e abbiamo iniziato a bere brandy mischiato con succo d’arancia». Sono quasi le 14 di venerdì scorso. Calero Ramirez e l’amico 22enne Carlos Gabriel Velasco, ecuadoriano, sposato e con un figlio, hanno fretta di uccidere: «Quando Gabriel mi ha chiesto di andare dalla vecchietta gli ho risposto che dovevamo aspettare le 14 perché sapevo che usciva a buttare la pattumiera». La prima confessione — non confermata davanti all’avvocato e al pm Rossella Incardona dove gli indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere come accaduto ieri durante l’udienza di convalida del fermo davanti al gip Anna Calabi che ha confermato il carcere — svela però tutti i dettagli del delitto e permette alla polizia di rintracciare i pantaloni indossati da Calero Ramirez e gettati in un cantiere di via Medeghino. 

Il racconto

Il racconto è lucido, preciso, drammatico quando ricorda la lotta per sopravvivere dell’anziana. «Verso le 14 siamo andati in via Ponte Seveso 26, io sono entrato e ho accostato il portone condominiale e la porta della scala A per permettere a Gabriel di seguirmi — racconta il 44enne alla polizia —. L’ho aspettato sul pianerottolo del primo piano e quando mi ha raggiunto ho visto che aveva tirato su il cappuccio della felpa grigia e la mascherina. Ho indicato a Gabriel la porta e lui ha proposto di coprire gli spioncini. Lo ha fatto usando uno scontrino che avevo in tasca del Carrefour. Ci siamo messi i guanti». I due a quel punto aspettano la loro preda, nascosti sul pianerottolo: «Dopo mezz’ora, quando la vecchietta è uscita Gabriel l’ha presa da dietro con un braccio intorno al collo e con l’altra mano le ha tappato la bocca. Siamo entrati in casa e ho chiuso la porta con le chiavi che erano inserite. Gabriel l’ha trascinata in sala e l’ha buttata a terra. La signora reagiva e provava a urlare. Il mio amico mi ha detto di prendere il coltello dalla tasca della sua felpa e di usarlo. Io con il manico le ho tirato due colpi alla testa». 

I colpi mortali

Calero Ramirez racconta di non aver avuto il coraggio di ammazzare, ma forse è solo un tentativo di scaricare le responsabilità sul complice: «Gabriel mi ha detto di usare la lama ma io non me la sentivo perché non volevo ucciderla e allora, visto che la signora a terra continuava a urlare mi ha detto di tenerla ferma e di dare il coltello a lui. Gabriel col coltello l’ha colpita sulla nuca e sul collo. La signora ha smesso di urlare, ho capito che era morta». I vigili del fuoco la troveranno sul pavimento con il cordone del ferro da stiro annodato al collo. Per il medico legale è possibile che i colpi letali siano stati sferrato proprio con la piastra dell’elettrodomestico. «Abbiamo iniziato a cercare soldi. Ho trovato un portafoglio in cucina, c’erano dentro 40 euro. Ho preso i soldi. Abbiamo poi preso un paio di occhiali da sole, un altro portafoglio marrone da donna, vuoto, e un orologio color acciaio che ho trovato in camera da letto». È a quel punto che viene incendiato l’appartamento per eliminare le tracce: «Dopo avere cercato in tutta la casa, Gabriel ha deciso di dare fuoco usando l’accendino della cucina e una maglietta sintetica. Io non ero d’accordo, non ho fatto niente per bloccarlo e sono andato verso la porta di uscita». 

Dopo il delitto

Il racconto del 44enne peruviano prosegue spiegando cosa è avvenuto dopo il delitto. Lui in quei giorni dormiva dalla sorella che abita al quarto piano della stessa palazzina della vittima. E proprio nel palazzo Calero Ramirez verrà notato e fermato la mattina di sabato durante un sopralluogo dai poliziotti della Omicidi, diretti da Marco Calì e Alessandro Carmeli: «Gabriel è uscito dall’appartamento, poi sono uscito subito anche io e sono andato al quarto piano a casa mia a pisc.... Dopo qualche minuto ho raggiunto Gabriel alla fermata della 91. Scesi a Lotto abbiamo preso l’autobus 98 e siamo arrivati in piazzale Segesta. Siamo andati al parco dove ci siamo divisi i soldi rubati, 20 euro a testa, e abbiamo preso delle birre. Verso le 22 sono salito sulla 91 e mi sono addormentato. Sono arrivato a casa alle 7 di mattina».

Michela Allegri per “il Messaggero” il 2 novembre 2021. Una lite scaturita da un motivo banalissimo e culminata nell'atto più violento: Claudio Lasala, 24 anni, aspirante carabiniere, è stato ucciso a Barletta con una coltellata nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, perché si sarebbe rifiutato di pagare da bere a un ragazzo. Ora, per quella morte, sono stati fermati due giovani: Michele Dibenedetto, 20 anni, e Ilyas Abid, 18 anni, ieri sono stati portati in carcere. Sono entrambi di Barletta e sono accusati di concorso in omicidio volontario aggravato dai futili motivi: dai primi accertamenti è emerso che avrebbero ucciso il ragazzo a causa del diverbio nato in un bar. A incastrare gli indagati, i filmati delle telecamere di sorveglianza, che li hanno immortalati nel momento dell'aggressione, prima della fuga a bordo di una moto. Secondo l'accusa, il ventenne avrebbe iniziato a litigare con la vittima dentro al locale. Lo scontro sarebbe iniziato a parole, con insulti, poi i due sarebbero passati alle mani: diversi testimoni parlano di una violenta colluttazione nel corso della quale la vittima e Dibenedetto si sarebbero colpiti a vicenda «ripetutamente con pugni, schiaffi e calci», si legge nell'imputazione formulata nel decreto di fermo dal procuratore di Trani, Renato Nitti, e dal sostituto Alessandro Pesce. Il litigio sarebbe proseguito all'esterno, in piazza Duomo, nel centro storico di Barletta. Lasala sarebbe stato raggiunto e aggredito da Dibenedetto e da Abid. Secondo gli inquirenti sarebbe stato il diciottenne a colpire Lasala: avrebbe preso un coltello dal bancone e lo avrebbe portato fuori, «incitato» dall'amico, sottolineano i magistrati. In strada, avrebbe usato l'arma per colpire il ventiquattrenne all'addome. Una ferita che non ha lasciato scampo alla vittima. Nel decreto di fermo eseguito dai carabinieri su disposizione della Procura di Trani, emerge il movente della «violenta colluttazione»: i pm specificano che alla base dello scontro e dell'omicidio ci sarebbe un «diverbio pretestuoso insorto tra Dibenedetto e Lasala, legato alla pretesa del primo di farsi offrire da bere dal secondo». A incastrare gli indagati sono i filmati delle telecamere di videosorveglianza del locale - interne ed esterne - e di altri esercizi commerciali del quartiere: hanno immortalato il momento del litigio e hanno anche registrato la sequenza dell'aggressione, dell'accoltellamento in piazza Duomo e la fuga degli indagati a bordo di una moto, subito dopo l'omicidio. Nei fotogrammi si vede l'inizio della colluttazione tra Dibenedetto e Lasala dopo un breve scambio di battute e qualche spintone. Poi si vede la prosecuzione dello scontro all'esterno, nella piazza di fronte al bar. Nel filmato si distinguono i due intenti a picchiarsi e il diciottenne, che aveva assistito a tutto il litigio, arrivare in soccorso dell'amico con il coltello e colpire il ventiquattrenne. Poi, la fuga dei due aggressori, prima a piedi, nelle stradine del centro storico, e poi in moto, mentre passanti e testimoni soccorrevano la vittima. I video, acquisiti subito dai carabinieri, sono stati fondamentali per identificare i due giovani che hanno inseguito Lasala fuori dal bar. La vittima, subito dopo l'aggressione, è stata portata in ospedale. Il ventiquattrenne non ce l'ha fatta: è morto a distanza di poche ore dal ricovero. L'autopsia sarà eseguita martedì nel Policlinico di Bari dal medico legale Francesco Introna. In onore di Lasala è stata organizzata una fiaccolata per le vie della città. In testa al corteo, una foto del ventiquattrenne sorridente e uno striscione: «Nessuno ha il diritto di togliere la vita a qualcuno. Nessuno ha il diritto di strappare un figlio ai propri genitori e alla sua famiglia. Claudio sicuramente ora sarai in un mondo migliore, la tua voglia di vivere e il tuo sorriso rimarranno per sempre nei nostri cuori». Altri cartelli sono stati portati dalla folla: «Claudio è figlio di tutti», «Quando spegnete il sorriso di una persona ricordatevi di vergognarvi», «Barletta svegliati, chi è responsabile di tanta violenza? La vita non è Gomorra».

Walter Onichini, il ladro ferito abbandonato in strada e la (strana) «difesa politica». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 17 settembre 2021. La campagna per il macellaio condannato e portato in cella in Veneto. «Cercate le differenze». Matteo Salvini e Giorgia Meloni dovrebbero raccogliere l’invito della Settimana Enigmistica: prima di eccitare la tigre dell’indignazione popolare contro la sentenza che ha confermato la condanna del macellaio padovano reo di aver quasi ammazzato un delinquente che gli era entrato in casa, cercate le differenze con tante altri verdetti. Perché sono tante, queste differenze.

La visita in cella. «Ladri a spasso e vittime in carcere. Il mondo è capovolto ed è intollerabile che Walter Onichini sia in carcere per aver difeso sé stesso e la sua famiglia da dei ladri albanesi che si erano introdotti in casa sua», ha dettato alle agenzie la deputata di Fratelli d’Italia Maria Cristina Caretta, che con altri cinque colleghi ha fatto visita ieri all’uomo in cella. Non una parola sui motivi che hanno portato alla condanna dello sparatore a quattro anni e 11 mesi in I° Grado, in Appello e pure in Cassazione. Pena pesante? Rispetto ad altre, sì. Ricordate il tabaccaio milanese che nel maggio del 2003 reagì a una rapina e inseguì i banditi sparando anche fuori dal negozio uccidendone uno e ferendone un altro? Prese in assise un anno e otto mesi per omicidio colposo: meno della metà di Walter Onichini. Per poi essere assolto in appello, ricorda l’Ansa, «in quanto i giudici riconobbero la legittima difesa putativa».

Fuoco con il fucile. E il benzinaio vicentino di Ponte di Nanto che nel 2015 «fece fuoco con il suo fucile in direzione di alcuni rapinatori che stavano minacciando la commessa di una gioielleria attigua al suo distributore ferendo morte uno dei malviventi»? Fu indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Un atto dovuto, dissero i giudici, tra i barriti di protesta. Come finì? Archiviazione. E il gommista aretino di Monte San Savino? Nel luglio del 2018 mentre «dormiva nella sua officina per presidiarla», riassume ancora l’Ansa, «uccise con due colpi di pistola un ladro moldavo di 29 anni». Due anni e il Pm «chiese una prima archiviazione per eccesso colposo in legittima difesa». Richiesta respinta per altre indagini e infine archiviazione. Perfino il gioielliere che tanti anni fa uccise il calciatore Luciano Re Cecconi che per scherzo aveva finto un assalto puntando il dito dentro l’impermeabile («Fermi tutti, è una rapina») venne assolto. Legittima difesa putativa. E molto prima che le leggi fossero inasprite.

Reazioni. Indagare. Capire. Distinguere. Non c’è cittadino che in questi frangenti (a proposito, il Tribunale austro-ungarico di Este per le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova, decise dal 1850 al 1853 ben 1.144 condanne a morte per rapine in casa: e non c’erano né albanesi né rumeni...) non stia dalla parte di chi si difende. E non sia pronto, anche nei casi più controversi, a comprendere le ragioni di chi, nell’angoscia del momento, cercando di proteggere sé stesso, i propri cari, il proprio mondo, può sbagliare. Può capitare di sbagliare, in certi momenti drammatici. Ma è qui che occorre trovare le differenze. E tre processi, tutti e tre con lo stesso esito, dovrebbero suggerire a tutti (non solo alle iene che insultano on-line Nunzia Milite, rea di fare il suo mestiere di avvocato difensore del ladro in questione) un minimo di prudenza prima di incitare alla rivolta contro la magistratura a fianco di chi, come il macellaio condannato, urla che «in questo paese hanno ragione i ladri, bisogna fare i delinquenti in Italia!»

I fatti. Vogliamo rivedere i fatti? Fino alle quattro di mattina del 22 luglio 2013, quando si svegliò di soprassalto sentendo dei rumori, Walter Onichini era totalmente dalla parte della ragione e i ladri che stavano per rubargli l’Audi S4 nel cortile dopo aver armeggiato al piano di sotto e aver rubato soldi, le chiavi dell’auto, quelle della macelleria e il telecomando per il cancello erano totalmente dalla parte del torto. Punto. Primo fra tutti, ovvio, era dalla parte del torto il protagonista e vittima, Elson Ndreca, ventidue anni, albanese. Poi condannato per quel furto a 3 anni e 8 mesi ma oggi irraggiungibile perché, scampato alla morte e trasferito dalla sala rianimazione al carcere per qualche mese, fu espulso dall’Italia dove da allora è rientrato almeno due volte col permesso del questore (andata/ritorno in tre giorni) per testimoniare al processo. Ma torniamo quella notte. Anche quando si affaccia alla finestra del primo piano impugnando un fucile a pompa Calibro 12 Magnum e spara alle ombre che vede di sotto Walter Onichini rimane dalla parte di chi si difende. Poteva sparare in aria invece che al delinquente che stava facendo retromarcia per scappar via mentre il cancello finiva di aprirsi? Si, ma è facile dirlo se non hai accanto la compagna Sara spaventata e un bambino piccolo nella stanza accanto. È dura, in certi momenti, controllare le emozioni. Perfino la seconda fucilata alla schiena del ladro ferito (che lascia lì l’auto, invoca aiuto e cerca di superare il cancello, come metterà a verbale un vicino di casa) potrebbe essere messa, con una forzatura, nel calderone del caos del momento, del terrore, dell’incubo: «Signor giudice, ho perso la testa!»

La sentenza. Il resto però, come dice la prima sentenza di condanna due volte confermata, è imperdonabile. Perché Onichini, col ferito che rantola a terra ormai indifeso, non chiama un’ambulanza e non telefona alla polizia. E mentre c’è chi (la moglie?) pulisce con la varechina le macchie di sangue sul selciato prima che arrivino i carabinieri, carica Elson Ndreca e fila via. Dirà: «Volevo portarlo all’ospedale ma mi ha puntato qualcosa alla gola e ha voluto scendere». Falso. Le analisi sull’auto, le perizie, i verbali giudiziari, gli esami medici sul ladro ricoverato (oltre cento pallini di varie misure conficcati in corpo con «emopneumotorace, rottura della milza, rottura del rene sinistro, perforazione gastrica e iteale, ferite da arma da fuoco multiple craniche, toraciche, addominali...») racconteranno un’altra storia. Buttato il ferito nel bagagliaio della propria auto, il macellaio non sgomma affatto verso gli ospedali di Padova o Piove di Sacco dove si arriva seguendo uno stradone a quell’ora senza traffico, ma imbocca una tortuosa stradina di campagna semideserta, scarica il ferito in un canale pieno d’acqua e se ne torna a casa. Pronto a mentire. Tenendo per sé il segreto su dove sia il ladro in agonia che si salverà solo («solo», diranno i medici) grazie un extracomunitario che in bici sta andando al lavoro e si precipita ad avvertire i carabinieri. Una vergogna. Sinceramente: cosa c’entra tutto questo col diritto a difendersi?

Giacomo Nicola per "Il Messaggero" il 10 giugno 2021. «Bastardi, qui i ladri avevano già colpito sei volte». Attilio Mottura è il padre di Roberto, architetto, 49 anni, che ha sorpreso due malviventi in casa ed è stato ammazzato. È successo in via del Campetto a Piossasco, in provincia di Torino, dove ieri mattina un'ambulanza del 118 è intervenuta per soccorrere un uomo, che inizialmente, sembrava essere stato stroncato da un malore. I tentativi di rianimazione sono durati 40 minuti: i paramedici pensavano a un infarto. Solo dopo si sono resi conto di quel piccolo foro all'altezza dell'inguine. È da lì che è entrato il proiettile, un calibro 22, che gli ha reciso un'arteria provocandogli un'emorragia interna. Se poteva essere salvato lo stabilirà nei prossimi giorni l'autopsia. Tra i familiari resta la rabbia. «Non ha senso, non ha proprio senso - si dispera papà Attilio - avrebbe compiuto 50 anni fra pochi giorni, il 16 giugno. Viveva per la famiglia e per il suo lavoro. Sono venuti in questo complesso 8 anni fa per stare tranquilli, prima abitavano con me in una casa molto più isolata. Qui da rubare non c'è nulla, sono balordi. Mio figlio non aveva nemici. Tutto questo non me lo spiego. È il dolore più grande». Già un'altra volta una banda di balordi aveva provato a introdursi nella casa. «Ma non c'era niente da rubare, questo furto non ha senso - continua Attilio Mottura, il padre - io vivo qui a 200 metri da me hanno provato a entrare diverse volte, almeno sei, ma sempre quando non ero in casa. Ma la mia è una casa isolata, questo no, è un complesso di appartamenti. E non ha senso rischiare la galera per un furto dove non c'è niente da rubare. A mio figlio tutto questo è costato la vita». I carabinieri arrivati sul posto hanno recuperato un bossolo di pistola all'interno dell'abitazione, subito inviato al Ris per eventuali comparazioni con armi usate in altri eventi delittuosi. Poco per volta sono stati ricostruiti i fatti. Intorno alle 4 di mercoledì mattina due uomini sono entrati nella villa dell'architetto Mottura sulla collina di Piossasco dove l'uomo viveva con la moglie Laura e il figlio di 13 anni. I ladri hanno forzato una persiana al primo piano e sfondato il vetro con una mazzetta, facendo scattare il sistema d'allarme. Mottura, che dormiva con la moglie al piano superiore, è sceso a controllare. Lo ha fatto per proteggere la moglie. All'improvviso si è trovato di fronte i banditi, con i quali è iniziata una colluttazione. A quel punto uno dei due malviventi ha esploso un colpo di pistola che ha raggiunto l'architetto all'inguine. I ladri sono fuggiti e quando la moglie ha trovato il marito per terra, ha pensato si trattasse di un malore. Sembra infatti che non abbia sentito lo sparo. A coprirne il rumore potrebbe essere stato il segnale dall'allarme dell'antifurto che hanno fatto scattare i ladri. Preoccupata per il marito ha subito chiamato il 118. Poi il tragico epilogo. I carabinieri hanno disposto controlli e posti di blocco in tutta la regione per rintracciare i due fuggitivi. In una scarpata davanti alla casa è stato trovato un martello che i due criminali hanno utilizzato per forzare la finestra al primo piano, che dà accesso al salotto della casa. Sull'attrezzo sono già state rilevate le impronte in modo da dare un nome all'assassino. Contemporaneamente sono stati sequestrati anche tutti i filmati delle telecamere di zona, nella speranza che abbiano ripreso i due ladri in fuga. Le indagini sono coordinate dal pm Valentina Sellaroli della procura di Torino. Tra le piste prese in considerazione dai carabinieri c'è anche quella di una banda di nomadi che ha colpito più volte nella zona. Mottura era impiegato alla MarmoInox di Canelli: era uno degli storici dipendenti dell'azienda leader nella lavorazione dell'acciaio e, da qualche anno, attiva anche nel mondo del packaging. «Roberto - racconta l'ad Paolo Marmo - era con noi da moltissimi anni. Una persona capace e abile nel suo lavoro. Con lui abbiamo portato a conclusione tanti progetti. Era un ottimo disegnatore e si è dedicato anima e corpo alla nostra attività».

La sparatoria a Grinzane Cavour nel Cuneese. Tentata rapina in gioielleria, due morti durante la sparatoria. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Sarebbero entrati in tre nella gioielleria Mario Roggero con l’intento di rapinare il negozio di via Garibaldi nella piccola frazione Gallo di Grinzane Cavour, nel cuneese, poi intorno alle 18.30 il rimbombo di colpi di pistola ha riecheggiato in tutto il circondario. Due sono i morti, il terzo sarebbe riuscito a scappare. Sono queste le prime informazioni sulla sparatoria avvenuta nel piccolo centro tra Alba e Barolo. A sparare sarebbe stato il titolare della gioielleria, già in passato preso di mira da rapinatori. La sparatoria è avvenuta nel corso principale del paese. I due corpi senza vita sono stati trovati in strada poco distanti dalla gioielleria. I tre malviventi avrebbero fatto irruzione, secondo una prima ricostruzione, nella gioielleria Mario Roggero e sono stati esplosi alcuni colpi di pistola. I carabinieri della Compagnia di Alba, sono al lavoro per capire quanto accaduto e per identificare le vittime. Non è ancora nota la dinamica della sparatoria. Secondo quanto riportato dall’Ansa, la gioielleria era già stata presa di mira in passato. Il 22 maggio 2015 il titolare, Mario Roggero, e le due figlie, vennero legati e chiusi in bagno dai rapinatori, che poi fuggirono con gioielli e orologi per un valore complessivo di circa 300 mila euro. L’allarme era stato dato dalle ragazze, riuscite a liberarsi. Alcuni mesi dopo, grazie alle immagini delle telecamere di sorveglianza che avevano ripreso l’auto della fuga, due ladri vennero arrestati dai carabinieri. Il titolare della gioielleria in quella occasione fu vittima di violenze da parte dei rapinatori e fu portato in ospedale con una prognosi di un mese.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Gioielliere uccide due rapinatori: indagato. Quando è legittima difesa? Le Iene News il 29 aprile 2021. Il gioielliere Mario Roggero ha reagito a un'aggressione e ha sparato uccidendo due rapinatori, che avevano un’arma giocattolo (senza bollino rosso), e ferendone un terzo a Grinzane Cavour nel Cuneese. Ora è indagato per omicidio colposo ed eccesso di legittima difesa. Con Giulio Golia ci siamo interrogati anche noi su dove finisce il diritto alla legittima difesa parlandovi di due altri casi di cronaca del passato purtroppo molto noti e che hanno avuto esito giudiziario opposto. Dove finisce il diritto alla legittima difesa? Anche noi de Le Iene ci siamo già posti la domanda raccontandovi con Giulio Golia due casi purtroppo molto noti e che hanno avuto esito giudiziario opposto. L’interrogativo torna oggi attualissimo per un’altra terribile storia di cronaca. Mario Roggero, 67 anni, ha sparato con la sua pistola uccidendo due uomini e ferendone un terzo durante una tentata rapina a Grinzane Cavour (Cuneo). I rapinatori avrebbero avuto un’ama giocattolo, priva però del bollino rosso che l’avrebbe identificata come tale. Ora il gioielliere è indagato per omicidio colposo ed eccesso di legittima difesa. Si tratta di un atto dovuto per poter consentire alcuni accertamenti irripetibili come autopsia e consulenza balistica, fa sapere la procura di Asti. “C’è stata una colluttazione”, racconta Roggero. “Mi sono trovato faccia a faccia con uomini armati e ho dovuto scegliere fra la mia vita e la loro. Mi spiace molto per quello che è successo, perché non avrei mai immaginato dopo 45 anni di lavoro di trovarmi in questa situazione. Mi sono ritrovato in una condizione estrema e posso solo dire che sono situazioni che non dovrebbero succedere. Ho fiducia nella magistratura”. Le vittime sono Giuseppe Mazzarino, 58 anni, di Torino, e Andrea Spinelli, 45 anni, di Bra. Sono morti pochi metri dopo il negozio mentre tentavano la fuga. Ferito a una gamba Alessandro Modica, 34 anni, di Alba. Durante la tentata rapina la moglie del gioielliere è stata colpita con un pugno, la figlia è stata immobilizzata con fascette elettriche. Roggero avrebbe sparato quando uno dei rapinatori, dopo essersi fatto consegnare i gioielli, ha tentato di portare via anche l’incasso. "Non provo niente”, ha detto al Tg1. “Mi spiace sia successo un fatto così, è molto brutto, ma o io o loro. Con la mano destra ho aperto la cassa, con la sinistra il cassetto in cui sapevo che c'era la mia arma e simultaneamente ci siamo trovati uno contro l'altro. Ho dovuto... poi sono scappati". “Il mondo non è minacciato dalle persone che fanno il male, ma da quelle che lo tollerano” ha scritto Roggero su Facebok con una frase e una foto di Albert Einstein. Nel servizio di Giulio Golia che vedete di qui sopra, anche noi de Le Iene ci siamo interrogati proprio sui limiti della legittima difesa, raccontatovi due altri casi di cronaca del passato purtroppo molto noti e che hanno avuto un esito giudiziario opposto. Il primo è quello di Graziano Stacchio, per cui l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa è stata archiviata nel 2016 e che non ha subito quindi conseguenze legali. L'anno prima aveva visto tre rapinatori che sparavano verso un gioielliere, Roberto Zancan, in un tentativo di rapina vicino la sua stazione di benzina nel Vicentino. Graziano è intervenuto e, rispondendo al fuoco con il fucile, ha ferito a morte nella sparatoria uno dei rapinatori. Diverso l’esito per Ermes Mattielli, che nel giugno 2006, sempre in provincia di Vicenza, sparò 14 colpi su due ladri disarmati che erano entrati nel suo magazzino. Mattielli, che aveva subito molti furti, è morto il 5 novembre 2015 per un infarto: un mese prima, il 7 ottobre, era stato condannato a 5 anni di carcere e a un risarcimento di 130 mila euro alle vittime.

Rapina di Cuneo, la figlia del gioielliere: "Non so se avremo mai la forza di riaprire". Carlotta Rocci su La Repubblica il 30 aprile 2021. Laura Roggero per la seconda volta in sei anni si è trovata ostaggio dei banditi: "Mi sento devastata". "Non so se avremo mai la forza di riaprire. Ho sempre pensato che avrei portato avanti il lavoro dei miei genitori. Avevo già in mente come avrei festeggiato i 50 anni di lavoro in gioielleria. Davo per scontato che ci sarei arrivata. Adesso non lo so più. Non sono più sicura di niente". La vita di Laura Roggero è stata sconvolta due volte in sei anni.

Massimo Massenzio e Andrea Pasqualetto per corriere.it l'1 maggio 2021. «Ero paralizzata. Ho pensato che non avrei neppure avuto il tempo di recitare un’Ave Maria». Laura Roggero, 44 anni, la figlia del gioielliere di Grinzane Cavour che ha ucciso due dei tre banditi che hanno assaltato il suo negozio, ripercorre i drammatici momenti della rapina. Mercoledì pomeriggio, assieme a sua madre, Mariangela Sandrone, era dietro al bancone quando Giuseppe Mazzarino e Andrea Spinelli sono entrati nell’oreficeria del piccolo paese immerso nelle colline delle Langhe, in provincia di Cuneo. Si sono finti clienti, ma poi hanno minacciato le due donne con una pistola — che si è poi rivelata una scacciacani — e un coltello: «Non sapevo che la pistola fosse finta, ci ha salvato mio padre perché ha messo a rischio la sua vita per salvare la mia e quella di mia madre». Per Laura è stato come rivivere l’incubo di sei anni fa, quando altri due banditi aggredirono suo padre di fronte a lei, li rinchiusero in uno stanzino e fuggirono con un bottino di 300 mila euro. «Era già stato terribile nel 2015, ho pensato di morire, i ladri che picchiavano selvaggiamente mio padre e ci minacciavano di morte. Ho impiegato diversi mesi a riprendermi, facevo incubi notturni e tutti i giorni quando uscivo di casa mi guardavo le spalle. Oggi sono nuovamente devastata, minacciata di morte con pistola e coltello. Ho pregato che il Signore mi aiutasse». Per terrorizzare le due donne e convincerle ad aprire la cassaforte i rapinatori avrebbero inscenato un conto alla rovescia con l’arma puntata alla testa: «Infatti, ho tanta paura in questo momento. Senso di preoccupazione, angoscia. La mia cara mamma, terrorizzata, sconvolta. Non so quando ci riprenderemo». Sul fronte investigativo proseguono le indagini dei carabinieri di Alba e Cuneo che stanno esaminando i filmati ripresi dalla telecamera interna alla gioielleria, dotata di un impianto molto sofisticato, e da quella di un negozio vicino, che ha inquadrato tutto quello che è successo fuori. Gli investigatori vogliono capire se i 4 colpi di pistola siano stati esplosi all’esterno o all’interno del negozio e come si è svolta la colluttazione in strada, che è stata descritta da un testimone, fra uno dei banditi e Mario Roggero, indagato per omicidio colposo per eccesso di legittima difesa. Determinanti saranno anche le perizie balistiche e gli accertamenti per individuare residui di polvere da sparo dentro la gioielleria. Un altro aspetto ancora da chiarire riguarda la Ford Fiesta utilizzata dai rapinatori, che non è risultata rubata. Sembra sia di proprietà di un amico di Spinelli, un commerciante che sostiene di avergliela semplicemente prestata e di essere all’oscuro di tutto. Gli inquirenti stanno verificando le dichiarazioni del proprietario mentre un vecchio conoscente di Spinelli ricorda un precedente che risale ormai a molti anni fa: «Avevamo 20 anni o poco più. Un amico gli aveva dato la sua auto e un’ora dopo si era ritrovato i carabinieri a casa. Perché sembra che con quella macchina fosse stato commesso un furto».

La figlia del gioielliere: "Ha difeso coraggiosamente mamma e mia sorella". Ignazio Riccio il 29 Aprile 2021 su Il Giornale.  Silvia Roggero ha scritto sui social alcune brevi parole di commento dopo il tragico episodio di cui è stata protagonista la sua famiglia. Ha espresso su Facebook il suo stato d’animo. Il giorno successivo alla rapina nella gioielleria del padre a Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo, Silvia Roggero ha scritto sui social alcune brevi parole di commento dopo il tragico episodio di cui è stata protagonista la sua famiglia. “Grazie per la vostra solidarietà, grazie alle persone che dai balconi hanno applaudito il mio papà che ha difeso coraggiosamente mia mamma e mia sorella di fronte a un'arma da fuoco puntata con minacce di morte e di aggressione. Grazie per i vostri innumerevoli messaggi e la vostra presenza. Adesso ho bisogno di tutta la vostra energia positiva e il vostro sostegno per me e la mia famiglia”. Prima, il racconto della vicenda. “Ieri – ha evidenziato Silvia – la mia famiglia è stata coinvolta in un evento molto spiacevole. Il gioielliere di Gallo Grinzane, che ha ucciso due rapinatori su tre per legittima difesa è mio padre. La prima cosa che viene da fare di istinto quando la vita si fa dura è chiudersi per rifugiarsi nei labirinti della paura. Persino il corpo reagisce chiudendosi, le spalle si incurvano, lo sguardo si fa basso, le articolazioni si bloccano. Conosco bene questo meccanismo e voglio rimanere aperta e fiduciosa”. La figlia del gioielliere ha dedicato anche un pensiero ai ladri. “Prego per le due anime dei rapinatori che hanno lasciato il corpo – ha concluso – luce a loro. Siate sempre forti e coraggiosi e affrontate di petto qualunque cosa la vita vi metta davanti. Grazie di esistere e di condividere con me tutto questo. Ho piena fiducia nella giustizia”. Nel tardo pomeriggio di ieri tre persone sono entrate in una gioielleria di Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo, fingendo di essere normali clienti. Indossavano la mascherina, ma il loro intento era ben preciso: volevano soldi e preziosi. Una rapina, che ben presto è finita in tragedia. Il titolare del negozio, il 67enne Mario Roggero, era nel retrobottega quando ha sentito le urla della moglie, che era al banco in compagnia della figlia. Una volta aperta la teca dei gioielli, uno dei banditi ha estratto la pistola, provocando la reazione della donna. Il marito è intervenuto, probabilmente ne è nata una colluttazione, e i tre malviventi hanno provato a scappare. È a quel punto che Roggero ha utilizzato la sua pistola sparando diversi colpi che hanno colpito i ladri. Due malviventi hanno avuto la peggio: il primo si è accasciato vicino a una fioriera sull’altro lato della strada, mentre dieci metri più avanti è crollato il secondo. Per loro non c’è stato nulla da fare, nonostante l’intervento degli operatori sanitari del 118. Il terzo rapinatore, invece, che inizialmente era riuscito a fuggire, nonostante fosse ferito a una gamba, è stato poi rintracciato nella notte all’ospedale di Savigliano e fermato dai carabinieri. In una nota della Procura di Asti, intanto, sono state ricostruite le dinamiche relative alla tragica tentata rapina. Sulla base della prima ricostruzione del fatto, avvenuto alle ore 18.45, due persone, seguite poi da una terza, sarebbero entrate nella gioielleria e con un coltello e una pistola, poi risultata finta e priva del tappo rosso (ma il titolare non poteva saperlo), avrebbero minacciato di morte il titolare, la moglie e la figlia. La prima è stata colpita da un pugno, mentre la seconda immobilizzata con fascette utilizzate dagli elettricisti. I ladri, a quel punto, si sono fatti consegnare numerosi gioielli. Al tentativo di appropriarsi anche del denaro in cassa, il titolare avrebbe reagito sparando colpi con la pistola legittimamente detenuta.

Ignazio Riccio per ilgiornale.it il 30 aprile 2021. È un uomo provato Mario Roggero, non solo dal brutto episodio dell’altro giorno, ma anche dall’enorme clamore che ha provocato la rapina alla sua gioielleria, finita in tragedia, con la morte di due dei tre ladri. Il commerciante ha i riflettori puntati addosso, ma non ha perso la lucidità. “È durato una frazione di secondo – ha detto al quotidiano La Stampa – ho in mente solo il rumore dello sparo. Ho visto che un rapinatore aveva la pistola puntata alla gola di mia moglie e ho sentito un colpo, non sapevo che era un’arma giocattolo. A quel punto gli sono saltato addosso, a mani nude, poi il resto lo conoscete ormai tutti”. Della dinamica della rapina il gioielliere non vuole parlare, ha già raccontato tutto alle autorità competenti, ora cerca solo un po’ di pace.

L’urlo, la pistola, l’inferno: cosa è successo nella gioielleria. Ha ripetuto più volte che non voleva uccidere, ma ha reagito perché ha visto la sua famiglia in pericolo. “Dovevo difendere mia figlia e mia moglie – ha spiegato Roggero – ho fatto quel che avrebbe fatto qualunque papà nella mia condizione. Sono intervenuto. Mi creda, è in casi come questo che bisogna mantenersi lucidi. E io ero lucido: sapevo che dovevo intervenire: o loro o la mia famiglia”. Agli inquirenti il gioielliere ha raccontato che non ha sparato subito. Ha avuto prima una colluttazione con i malviventi, poi ritornato alla cassa ha afferrato la pistola e ha fatto fuoco. La figlia era ancora a terra sotto la minaccia di un coltello. Già in passato Roggero era stato vittima di una rapina. Era il 22 maggio 2015 quando una banda di ladri lo aggredì. L’uomo venne malmenato brutalmente e le due figlie furono legate nel bagno della gioielleria.

Ecco cosa ha fatto scattare l'ira del gioielliere. Le donne riuscirono a liberarsi e a dare l’allarme, ma solo dopo sei mesi i malviventi furono acciuffati e assicurati alla giustizia. Quest’episodio, probabilmente, deve aver lasciato un segno profondo nel commerciante, tanto che questa volta ha reagito in maniera energica al tentativo di rapina, ammazzando due dei tre banditi. “La mia bambina era già stata coinvolta nell'altra rapina – ha confermato il gioielliere – quella in cui mi hanno pestato a sangue. E quelle sono esperienze che ti segnano che ti lasciano delle ferite dentro. C'è la paura, c'è l'istinto di protezione della famiglia”. Tanta solidarietà è giunta da tutta Italia per Roggero. Anche il leader della Lega Matteo Salvini gli ha inviato un messaggio. “Lo ringrazio – conclude il commerciante – ci siamo scritti in giornata”.

Ecco cosa ha fatto scattare l'ira del gioielliere. Federico Garau il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Terribile sparatoria in centro, muiono due banditi. Sei anni prima il titolare della gioielleria aveva già subito una rapina: in quell'occasione lui e la figlia erano stati picchiati e legati. Si è conclusa con due morti la sparatoria avvenuta mercoledì sera nei pressi di una gioielleria a Grinzane Cavour in frazione Gallo (Cuneo). Le autorità locali stanno ancora indagando per ricostruire le esatte dinamiche della vicenda, ma pare che ad aprire il fuoco sia stato il proprietario del negozio sito in via Garibaldi, Mario Roggero, che già nel 2015 era stato vittima di una violenta rapina.

Cosa accadde nel 2015. Il 22 maggio di ormai 6 anni fa, un uomo ed una donna di etina sinti si presentarono all'interno della gioielleria, fingendosi degli acquirenti. Cogliendo il proprietario di sorpresa, i due impugnarono alcune armi tenute nascoste sino a quel momento ed immobilizzarono sia il titolare che la figlia. Picchiate e legate con delle fascette di plastica, le vittime furono rinchiuse all'interno di una piccola stanza, dove rimasero per tutta la durata della rapina. Liberi di agire, i due sinti riuscirono ad andare via dalla gioielleria con un bottino di circa 300mila euro. Saliti a bordo di un'auto rubata, si allontanarono velocemente dalla zona. Seri i danni riportati da padre e figlia in seguito all'aggressione subita. Trasportati al pronto soccorso dell'ospedale di Alba, entrambi dovettero ricevere cure mediche. Al titolare della gioielleria furono assegnati ben 30 giorni di prognosi a causa delle lesioni riportate, fra cui anche la frattura del setto nasale. Sua figlia, invece, fu dimessa con una prognosi di 5 giorni. Individuati dalle autorità locali, i due sinti, sposati ed entrambi 45enni, furono tratti in arresto: sequestrati, durante la perquisizione, oltre 10 kg di articoli di gioielleria.

La sparatoria. Intorno alle 18:30 di mercoledì 28 aprile la nuova rapina. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tre soggetti armati avrebbero tentato di fare irruzione all'interno del negozio, incontrando però la resistenza del titolare. Quest'ultimo, che in quel momento si trovava in compagnia della moglie e della figlia, sarebbe stato minacciato dai criminali, i quali avrebbero rivolto contro di loro le armi di cui erano in possesso. In breve, la situazione sarebbe degenerata. Scene da Far West, quelle descritte dai cittadini che si sono ritrovati loro malgrado ad assistere. Al termine della sparatoria (almeno 5 i colpi esplosi), due banditi sono rimasti a terra, mentre il terzo componente della banda sarebbe riuscito a fuggire. Inutile l'intervento del personale sanitario del 118: per i feriti non c'era già più nulla da fare. Ad occuparsi del caso i carabinieri della compagnia di Alba, che in queste ore stanno ascoltando i racconti dei testimoni. "Mi batte il cuore, è stato terribile: ho avuto paura di morire", ha affermato una giovane, come riportato da Repubblica. "La situazione è ancora confusa. So solo che è stata presa di mira una famiglia onesta e per bene, ora sotto choc", ha commentato il sindaco Gianfranco Garau.

Le parole di Salvini. "Un abbraccio al gioielliere e alla sua famiglia aggredita", ha scritto su Facebook il leader del Carroccio. "Il loro negozio di Grinzane Cavour (Cuneo) era già stato rapinato nel 2015: il titolare era stato picchiato e legato, poi chiuso in bagno con la figlia. La difesa è sempre legittima".

Parla il gioielliere rapinato: "Ecco perché ho sparato". Ignazio Riccio il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. "Dovevo difendere mia figlia e mia moglie – ha spiegato Roggero – ho fatto quel che avrebbe fatto qualunque papà nella mia condizione". È un uomo provato Mario Roggero, non solo dal brutto episodio dell’altro giorno, ma anche dall’enorme clamore che ha provocato la rapina alla sua gioielleria, finita in tragedia, con la morte di due dei tre ladri. Il commerciante ha i riflettori puntati addosso, ma non ha perso la lucidità. “È durato una frazione di secondo – ha detto al quotidiano La Stampa – ho in mente solo il rumore dello sparo. Ho visto che un rapinatore aveva la pistola puntata alla gola di mia moglie e ho sentito un colpo, non sapevo che era un’arma giocattolo. A quel punto gli sono saltato addosso, a mani nude, poi il resto lo conoscete ormai tutti”. Della dinamica della rapina il gioielliere non vuole parlare, ha già raccontato tutto alle autorità competenti, ora cerca solo un po’ di pace.

L’urlo, la pistola, l’inferno: cosa è successo nella gioielleria. Ha ripetuto più volte che non voleva uccidere, ma ha reagito perché ha visto la sua famiglia in pericolo. “Dovevo difendere mia figlia e mia moglie – ha spiegato Roggero – ho fatto quel che avrebbe fatto qualunque papà nella mia condizione. Sono intervenuto. Mi creda, è in casi come questo che bisogna mantenersi lucidi. E io ero lucido: sapevo che dovevo intervenire: o loro o la mia famiglia”. Agli inquirenti il gioielliere ha raccontato che non ha sparato subito. Ha avuto prima una colluttazione con i malviventi, poi ritornato alla cassa ha afferrato la pistola e ha fatto fuoco. La figlia era ancora a terra sotto la minaccia di un coltello. Già in passato Roggero era stato vittima di una rapina. Era il 22 maggio 2015 quando una banda di ladri lo aggredì. L’uomo venne malmenato brutalmente e le due figlie furono legate nel bagno della gioielleria.

Ecco cosa ha fatto scattare l'ira del gioielliere. Le donne riuscirono a liberarsi e a dare l’allarme, ma solo dopo sei mesi i malviventi furono acciuffati e assicurati alla giustizia. Quest’episodio, probabilmente, deve aver lasciato un segno profondo nel commerciante, tanto che questa volta ha reagito in maniera energica al tentativo di rapina, ammazzando due dei tre banditi. “La mia bambina era già stata coinvolta nell'altra rapina – ha confermato il gioielliere – quella in cui mi hanno pestato a sangue. E quelle sono esperienze che ti segnano che ti lasciano delle ferite dentro. C'è la paura, c'è l'istinto di protezione della famiglia”. Tanta solidarietà è giunta da tutta Italia per Roggero. Anche il leader della Lega Matteo Salvini gli ha inviato un messaggio. “Lo ringrazio – conclude il commerciante – ci siamo scritti in giornata”.

"Io, rapinato come Roggero. La vera vittima è il gioielliere". Federico Garau il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. Graziano Stacchio commenta i fatti di Grinzane Cavour: "Certe cose non le dimentichi mai più. Di fronte a un'ingiustizia il cervello non ti fa ragionare. Lui si è trovato in quelle condizioni, come successe a me". Continua a far discutere la sparatoria avvenuta mercoledì sera a Grinzane Cavour in frazione Gallo (Cuneo), ma mentre la procura della Repubblica di Asti ha deciso di aprire un'indagine per atto dovuto nei confronti del gioielliere Mario Roggero, si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà in suo favore. A sostenere Roggero è anche Graziano Stacchio, il benzinaio di Ponte di Nanto (Vicenza) che il 3 febbraio 2015 esplose dei colpi di arma da fuoco contro alcuni malviventi che avevano appena rapinato una gioielleria sita nei pressi della sua stazione di rifornimento: uno dei banditi rimase ucciso. Per lui l'iter giudiziario si concluse nel 2016, quando la procura di Vicenza decise di procedere con l'archiviazione. La notizia dell'avviso di garanzia per omicidio colposo ed eccesso di legittima difesa emesso nei confronti del gioielliere lo ha lasciato con l'amaro in bocca.

Il benzinaio spara ai banditi per salvare una commessa: indagato per eccesso di difesa. Le parole di Stacchio. "Certe cose non le dimentichi mai più. Ne parlavo con mia moglie, quel tipo di vicende te le tieni dentro per sempre", ha dichiarato il benzinaio ai microfoni di AdnKronos. "La vera vittima è il gioielliere, è lui che ha subito la violenza. È una follia solo pensare che per salvarsi uno si debba procurare una pistola". Graziano Stacchio ha poi spiegato che a provocare la reazione del gioielliere è stata la necessità di proteggere la famiglia, come per lui era stata invece quella di aiutare una ragazza. "Non ci capisci più nulla, diventi una bestia e ti butti contro ogni tipo di pericolo", ha infatti affermato. "Di fronte a un'ingiustizia il cervello non ti fa ragionare. E lui si è trovato in quelle condizioni, come successe a me". Agire da criminali significa accettare le conseguenze che ne possono derivare, dichiara il benzinaio: ma in questo caso le conseguenze ricadranno maggiormente sulle spalle di Roggero: "Quegli uomini hanno scelto di fare i banditi, sapevamo a cosa andavano incontro. Mario no, Mario è la vittima reale, perché ora, di fronte anche a tutto questo caos mediatico, si porterà dentro tutto". Secondo Stacchio il gioielliere di Grinzane Cavour dovrà ora affrontare momenti molti duri, gli stessi da lui affrontati in passato. "Dalla mia vicenda per fortuna sono cambiate molte cose, si è fatto qualcosa per la legittima difesa", ha concluso. "Ci deve essere ordine e disciplina in un paese come il nostro nel 2021 e invece non c'è. Dovrebbe esserci al primo posto la sicurezza, la sanità, la scuola, l'educazione dei giovani. E invece non c'è nulla di tutto ciò, la nazione sta andando in rovina". Solidarietà, infine, nei confronti di Roggero: "Sono vicino a quest'uomo, con il cuore e con la mente, lo capisco bene come si sente adesso".

Salvini e Meloni con Roggero. In queste ore Lega e Fratelli d'Italia non hanno mancato di esprimere solidarietà nei confronti del gioielliere. Matteo Salvini ha fatto sapere di aver già contattato personalmente Roggero: "Ci siamo messi a disposizione per supporti non solo morali ma anche legali, visto che di vicende simili ne ho seguite parecchie".

Anche Giorgia Meloni, intervenuta a Tg2 Post, si è schierata a favore del titolare della gioielleria: "Lo Stato non sta facendo adeguatamente il proprio lavoro. Per questo le persone sono costrette a difendersi da sole. Secondo me non esiste l'eccesso di legittima difesa. Io tra il rischio che si faccia male chi viene in gioielleria per rubare e chi si trova lì per lavorare preferisco il primo".

Massimo Massenzio per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2021. «Ho visto uno dei banditi che picchiava il gioielliere vicino al negozio. Poi ho sentito due colpi e quell'uomo si è accasciato al centro della strada». La testimonianza di Giordana Ristova, una delle due titolari del market di via Garibaldi, di fronte alla gioielleria di Grinzane Cavour, getta una nuova luce sulla tragica rapina di mercoledì. Mario Roggero avrebbe sparato almeno due proiettili fuori dal negozio, anche se la commerciante dice di non aver visto il revolver e aver sentito prima un altro colpo. Il suo racconto andrà verificato dal Procuratore di Asti Alberto Perduca, che ha indagato il gioielliere per omicidio colposo ed eccesso di legittima difesa. Un atto dovuto, fanno sapere dalla Procura, mentre i carabinieri cercano di ricostruire la dinamica dell'assalto messo a segno dal torinese Giuseppe Mazzarino, 58 anni, Andrea Spinelli, 45, di Bra e Alessandro Modica, 34enne di Alba, vecchie conoscenze delle forze dell’ordine. Spinelli e Mazzarino sarebbero entrati in negozio fingendosi clienti e costringendo la moglie di Roggero, Mariangela e la figlia Laura ad aprire la cassaforte e consegnare due contenitori di gioielli. Le minacciano con un coltello e una pistola giocattolo senza tappo rosso: Mariangela è colpita con un pugno, Laura legata. Le urla fanno accorrere dal laboratorio il gioielliere, che finge di consegnare l'incasso e prende il revolver: 4 spari, 3 colpi a segno, uno sul finestrino dell'auto dei banditi. A terra restano Spinelli e Mazzarino, Modica ferito al ginocchio fugge e raggiunge, con l'aiuto di un amico che potrebbe rispondere di favoreggiamento, l'ospedale di Savigliano. È ricoverato in stato di fermo, oggi l'udienza di convalida: le sue parole e le telecamere possono fare chiarezza.

Spara per difendersi. Ma il gioielliere finisce indagato. Federico Garau il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. La procura ha voluto precisare che le indagini sono state aperte per atto dovuto. Intanto sono moltissime le manifestazioni di solidarietà espresse nei confronti del titolare della gioielleria. È indagato per omicidio colposo ed eccesso di legittima difesa Mario Roggero, il gioielliere 66enne che nella serata di ieri ha aperto il fuoco nel corso di una rapina, uccidendo due dei banditi che avevano preso di mira il suo negozio.

Secondo quanto riferito dalla procura della Repubblica di Asti, che si sta occupando di condurre le indagini, si tratterebbe di un "atto dovuto", così da poter procedere con l'attività investigativa. Sono attesi, intanto, gli esami autoptici sui cadaveri ed il risultato della consulenza balistica.

I fatti. La sparatoria si è verificata intorno alle ore 18:45. Armati di un coltello e di una pistola, poi risultata una riproduzione, tre malviventi si sono introdotti nella gioielleria Roggero, sita in via Garibaldi, in pieno centro. Dopo aver minacciato di morte il titolare, la moglie e la figlia, la banda sarebbe entrata in azione, colpendo con un pugno la prima e legando con delle fascette la seconda. Mario Roggero avrebbe reagito mentre i criminali stavano cercando di impossessarsi del denaro contenuto nel registratore di cassa. In quel momento, il 66enne ha estratto la propria pistola, legalmente detenuta, ed ha fatto fuoco.

L’urlo, la pistola, l’inferno: cosa è successo nella gioielleria. Al termine della sparatoria hanno perso la vita Andrea Spinelli, 45enne di Bra, e Giuseppe Mazzarino, 58enne di Torino. Ferito ad una gamba il terzo membro della banda, che è riuscito a scappare. Quest'ultimo, tale Alessandro Modica, 34enne di Alba, è stato successivamente rintracciato nell'ospedale di Savigliano. Importante, al fine delle indagini, stabilire se il gioielliere abbia sparato dall'interno oppure dall'esterno del negozio. Si attende a tal proposito la perizia della balistica. A provocare la reazione di Roggero, anche la terribile esperienza vissuta nel 2015, quando lui e la figlia furono vittime di un'altra violenta rapina.

Le dichiarazioni del gioielliere. "C’è stata una colluttazione, mi sono trovato faccia a faccia con uomini armati e ho dovuto scegliere fra la mia vita e la loro", ha dichiarato Mario Roggero, come riportato da Il Corriere. "Mi spiace molto per quello che è successo, perché non avrei mai immaginato dopo 45 anni di lavoro di trovarmi in questa situazione. Mi sono ritrovato in una condizione estrema e posso solo dire che sono situazioni che non dovrebbero succedere. Ho fiducia nella magistratura", ha aggiunto.

Ecco cosa ha fatto scattare l'ira del gioielliere. Raggiunto dai microfoni del Tg1, il titolare del negozio ha spiegato di essere stato allarmato dalle urla della moglie:"Con la mano destra ho aperto la cassa e con la sinistra ho aperto il cassetto dove sapevo che c’era la mia arma. E simultaneamente ci siamo trovati l’uno contro l’altro".

Le indagini ed il sostegno dei cittadini. L'apertura delle indagini è un atto dovuto, come confermato anche da Stefano Campanello, l'avvocato che si sta occupando della difesa di Roggero. L'attività investigativa è finalizzata a ricostruire le esatte dinamiche della vicenda, come dichirato da Alberto Perduca, procuratore di Asti che in questo momento si sta occupando di coordinare il lavoro dei militari della compagnia di Alba e del nucleo investigativo di Cuneo. "Il pm e i militari hanno sentito il titolare della gioielleria, la moglie, la figlia nonché altre persone testimoni del fatto. Sono in corso di acquisizione le immagini delle videocamere funzionanti nell’area", ha riferito il procuratore. Nel frattempo sono molti i messaggi di solidarietà espressi nei confronti del gioielliere. Dopo la vicinanza manifestata dal leader della Lega Matteo Salvini, anche Giorgia Meloni ha voluto dare la propria opinione, schierandosi a favore di Roggero."La difesa è sempre legittima!", ha scritto la presidente di FdI. "Solidarietà a Mario Roggero e alla sua famiglia. Senza se e senza ma #iostoconroggero", ha postato su Facebook anche Marco Marcarino, assessore alla Sicurezza e al Commercio del Comune di Alba. "Mario ha solo difeso la sua famiglia e il suo lavoro. Forza Mario, la gente è dalla tua parte", gli ha fatto eco una donna del posto."Deve finire sta storia che i delinquenti sono sempre protetti!", ha tuonato un altro utente.

Paolo Coccorese e Massimo Massenzio per corriere.it il 29 aprile 2021. Mario Roggero, il gioielliere che ha ucciso due malviventi e ferito un terzo per difendersi da una tentata rapina a Grinzane Cavour, è indagato. Si tratta di un atto dovuto, fanno sapere dalla Procura di Asti, per poter consentire alcuni accertamenti irripetibili come le consulenze autoptica e balistica. «C’è stata una colluttazione — ha dichiarato Roggero —. Mi sono trovato faccia a faccia con uomini armati e ho dovuto scegliere fra la mia vita e la loro». E ancora: «Mi spiace molto per quello che è successo, perché non avrei mai immaginato dopo 45 anni di lavoro di trovarmi in questa situazione. Mi sono ritrovato in una condizione estrema e posso solo dire che sono situazioni che non dovrebbero succedere. Ho fiducia nella magistratura». Durante il colpo la moglie del gioielliere è stata colpita da un pugno, mentre la figlia è stata immobilizzata con fascette da elettricista. Roggero avrebbe sparato quando uno dei rapinatori, dopo essersi fatto consegnare i gioielli, ha tentato di portare via anche l’incasso.

Il post su Facebook. «Il mondo non è minacciato dalle persone che fanno il male, ma da quelle che lo tollerano». Una frase del fisico tedesco Albert Einstein, con relativa foto, è comparsa intanto sul profilo Facebook di Roggero. E sono numerosi gli attestati di solidarietà che in queste ore stanno arrivando sui social al gioielliere che vive ad Alba: tra questi anche quello dell’assessore alla Sicurezza del Comune di Alba, Marco Marcarino (Lega), che ha lanciato l’hashtag #iostoconroggero.

Le indagini. «Gli approfondimenti investigativi proseguono al fine di chiarire l’esatta dinamica degli eventi, dando il massimo delle garanzie di partecipazione alle indagini a tutte le parti coinvolte». A dirlo è il procuratore di Asti, Alberto Perduca, che coordina le indagini dei carabinieri della Compagnia di Alba e del Nucleo investigativo di Cuneo. «Nelle immediatezze del fatto, oltre ai rilievi tecnici eseguiti da personale dell’Arma, il pm e i militari hanno sentito il titolare della gioielleria, la moglie, la figlia nonché altre persone testimoni del fatto — spiega Perduca —. Sono in corso di acquisizione le immagini delle videocamere funzionanti nell’area. Nelle prossime ore verrà dato incarico di consulenza autoptica e balistica». Ed è proprio per poter eseguire tutta una serie di accertamenti irripetibili che il nome di Roggero è stato nel frattempo iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto per eccesso colposo di legittima difesa, anche se non ha ancora ricevuto la notifica della Procura di Asti. «Si tratta di un atto dovuto», precisa il suo legale Stefano Campanello, che già lo aveva assistito dopo la rapina del 2015.

La rapina e la pistola finta. Roggero non poteva sapere che la pistola con la quale Giuseppe Mazzarino, 58 anni, di Torino e Andrea Spinelli, 45 di Bra, hanno fatto irruzione nel suo negozio era un giocattolo. Ha fatto fuoco con il suo revolver e li ha uccisi, mentre i carabinieri dovranno accertare in quale momento e da quale posizione ha sparato a Alessandro Modica, 34enne di Alba, il terzo complice arrestato nella notte all’ospedale di Savigliano, dove era arrivato con una ferita d’arma da fuoco alla gamba. Tre o quattro sono stati i colpi esplosi da Roggero, che ai microfoni del Tg1 ha confermato la ricostruzione fatta dagli inquirenti: «Con la mano destra ho aperto la cassa e con la sinistra ho aperto il cassetto dove sapevo che c’era la mia arma. E simultaneamente ci siamo trovati l’uno contro l’altro». Roggero era nel retrobottega ed è stato attirato dalle urla della moglie Marinella, colpita al volto e della figlia Laura, immobilizzata con fascette da elettricista. A quel punto è entrato nel negozio, la cassaforte era già aperta, ma i banditi volevano anche i soldi nel registratore. «Non provo niente — conclude —. Mi dispiace che sia successo un fatto del genere, anche a livello karmico».

Roberto Fiori per “la Stampa” il 2 giugno 2021. Mario Roggero è di nuovo dietro al banco in marmo bianco della sua gioielleria, a Grinzane Cavour, in provincia di Cuneo. Un mese dopo aver reagito all' assalto di tre rapinatori uccidendo due banditi e ferendone un terzo, serve i clienti con disinvoltura. Ma ogni volta che qualcuno suona il campanello della porta d' ingresso, i muscoli del volto gli si irrigidiscono e l'occhio punta dritto sullo schermo della videosorveglianza. Scruta per qualche istante, si consulta con la figlia e solo quando è sicuro decide di aprire.

Roggero, avete paura?

«Non viviamo sereni, temiamo delle ritorsioni. L' altra mattina, davanti alle vetrine sono arrivati due uomini con uno scooter nero e caschi integrali. Si sono fermati un po' a osservare e discutere indicando qua e là, fino a quando non abbiamo chiamato i carabinieri. Un' altra volta, invece, una donna ha suonato il citofono di casa in piena notte. Sono episodi inquietanti, che non ci fanno stare tranquilli. L’ho detto anche ai militari».

Che cosa?

«Che mi sento vulnerabile. Mi hanno sequestrato la pistola, ma se arrivasse un commando vorrei avere almeno la possibilità di difendermi ad armi pari. Io ho fiducia nella legge, ma in giro c' è ancora qualcuno che confonde la vittima con il carnefice».

Non nel suo paese, però.

«La solidarietà che mi hanno espresso i miei compaesani è straordinaria. E non solo loro. La gente viene e mi abbraccia. Arrivano nuovi clienti e comprano senza dire una parola, ma io capisco che lo fanno anche per darmi un sostegno. E poi ho ricevuto centinaia di lettere e messaggi da tutta Italia, un po' tutti con lo stesso finale: "Non mollare, siamo al tuo fianco"».

A Torino, la scuola professionale orologiai ha già raccolto 11mila euro per aiutarla a sostenere le spese legali del processo.

«Non solo a Torino, si sono mobilitati anche a Napoli e Lugano. Non sono ricco: non ho case al mare o in montagna, non ho auto di lusso. Ho 67 anni, lavoro sodo dal 1976, ho quattro figlie e tre mutui ipotecari. Ma sono una persona onesta e anche in questi giorni così difficili sono riuscito a pagare tutti i fornitori. Ora alcuni amici hanno costituito un comitato etico e aperto un conto corrente nella banca qui a fianco, dove raccogliere con trasparenza le donazioni che arriveranno. Il presidente è un commercialista di Alba che si è offerto volontariamente di farlo. Sono queste le cose che ti danno la forza di andare avanti».

Ma lei ripensa a cosa è successo quel 28 aprile, alle 18,30?

«Ogni giorno e ogni notte. Non riesco a togliermelo dalla mente: provo a ricostruire tutta la dinamica, le minacce, i movimenti, gli spari».

Lei ha inseguito i banditi fuori dal negozio e sparato alle loro spalle?

«Sono rincuorato dal fatto che i periti abbiano trovato le tracce di un colpo nel retrobottega, io l'ho sempre detto agli inquirenti che ho iniziato a sparare dentro al negozio».

Non ha timore per le conseguenze della sua reazione?

«Non ci penso, perché ho fiducia nei magistrati e nel mio sesto senso, che mi dice di stare tranquillo, che la legge è dalla mia parte. In questi anni ho fatto un percorso spirituale molto profondo, se ora non cado è grazie a questo e alla gente che ha fatto quadrato intorno a me. Cerco di concentrarmi sul mio lavoro. Se c' è qualcuno che ha ancora qualche dubbio, lo lascio parlare e gli auguro di trovarsi nella nostra stessa situazione».

Come sta la sua famiglia?

«Mia moglie è una roccia, la più forte di tutti. Le mie figlie, invece, non ne vogliono più sapere del negozio. Paola ci lavora da 25 anni, ma ora vuole cambiare aria. Anche Laura vorrebbe smettere: dopo aver subito due rapine, entrambe con la pistola puntata alla tempia, si sente molto a disagio. Tutte le volte che suonano alla porta, ha un sussulto. Per ora, abbiamo raggiunto un compromesso: vengono ad aiutarmi solo qualche giorno a settimana, e solo se in negozio ci sono anche io».

Le ha fatto piacere il sostegno ricevuto da personaggi politici anche importanti, come Salvini e Meloni?

«Io non ho mai avuto tessere di partito, ma ho sempre votato a destra, perché amo l'ordine e la giustizia. E sono convinto che ci sia un piano divino per ogni cosa: in cuor mio, sono fiducioso per quello che accadrà. Le persone che dovranno decidere, capiranno. Anzi, spero che quanto è successo possa essere un monito per tutti: è stato un gesto disperato di fronte a una violenza inaudita e al terrore di morire».

Giangiacomo Schiavi per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2021.

Come sta?

«Da sopravvissuto. Con femore e spalla fracassati». 

Una spinta nel tentativo di rapinarla?

«No. Mi ha fregato la reazione a uno scippo maldestro. Ho cercato di fare l'eroe senza esserlo». 

A 92 anni...

«Gia. Volevano raggirarmi all' uscita dalla banca. Hanno pensato: ecco un vecchio rincoglionito. Mi hanno fatto sentire uno sprovveduto. Ma io non sono così. Vecchio sì, ma rincoglionito no». 

E allora...

«Ho inseguito lo scippatore che cercava di salire sull' auto del complice e l'ho trattenuto per il braccio, mentre il socio accelerava. Sono caduto a terra e mi hanno trascinato per qualche metro...».

Sembra un film, poteva finire molto male.

«È un paradosso per un regista sentirsi dentro a un brutto film: come il cow boy sbalzato di sella che resta con il piede impigliato nella staffa del cavallo imbizzarrito...». 

Vito Molinari è ricoverato in una stanzetta dell'Humanitas, tre giorni fa l'hanno operato all' anca, il braccio e la spalla sono irrigiditi da un tutore, il cuore viene tenuto costantemente sotto controllo. Ma rivede le fasi dell'agguato subito a Milano, tra piazza Wagner e via Monterosa, come se fosse nella sala di montaggio della Rai, quella di cui è stato uno dei padri fondatori, dalla trasmissione inaugurale del 1954 ai duemila Carosello, passando per sceneggiati e varietà del sabato sera.

Scena numero uno.

«Ero appena uscito dalla banca con mille euro in contanti. Pochi passi verso via Monterosa e una macchina si mette di traverso davanti a me, mi sbarra la strada. Sono costretto a fermarmi. Si apre di colpo una portiera e scende un giovane che mi viene incontro in modo festoso». 

Scena numero due...

«Il tizio mai visto mi saluta come un vecchio amico: ciao, da quanto tempo non ci vediamo? Lo guardo perplesso: io non ti conosco, dico. E lui: ma come, abbiamo anche mangiato insieme. Come stai?». 

Non comincia a sospettare qualcosa?

«Capisco che devo uscire da un cul de sac . Siamo in pieno giorno, in una zona bene della città: gli faccio segno di lasciarmi passare, non abbiamo niente da dirci». 

E il fantomatico amico?

«Va avanti a raccontarmi la sua vita, che io non conosco. Mi sono sposato, dice, ho messo su un negozio, voglio regalarti tre dei miei meloncini. A questo punto ho risposto secco: non mi interessano. Ma lui ha insistito: prendili, se vuoi dai una mancia al mio socio». 

Sembra un film di Checco Zalone...

«Pur di togliermelo dai piedi ho messo una mano nel taschino interno della giacca. Lì tengo qualche biglietto da cinquanta e da venti euro tenuti insieme da un fermaglio.

Mentre cercavo dieci euro lui li ha visti e si è buttato su quei soldi come una belva, correndo verso l'auto del complice». 

Quanti erano quei soldi?

«A spanne, duecento, duecentocinquanta euro. Con il senno di poi dico che avrei dovuto lasciarlo andare, ma mi ha preso una rabbia tale per essere stato preso in giro che l'ho inseguito. Mi sono sentito un cretino». 

Invece ha reagito come Rambo.

«In certe circostanze non ragioni più con la testa. Se avessi avuto una pistola, giuro che gli avrei sparato alle gambe. Mentre lui si buttava sul sedile sono riuscito ad afferrarlo per il braccio, ma il complice ha accelerato e sono stato trascinato sull' asfalto. E così eccomi, con femore e spalla rotti». 

Scippi e truffe agli anziani sono qualcosa di miserabile e vigliacco, un accanimento su chi è più vulnerabile. La sua difesa è stata legittima, ma ha rischiato la vita per poco più di duecento euro.

«Questo è stato un errore, lo dico per altri cittadini che possono avere come me una comprensibile reazione istintiva. Non bisogna fare l'eroe, non essendolo».

Luisa Mosello per lastampa.it il 4 luglio 2021. «È una cosa molto banale, si tratta di un atto dovuto l'iscrizione della notizia di reato: il mio assistito sarà sentito dal magistrato e darà la sua versione dei fatti. Sono convinto che si risolverà tutto nel migliore dei modi». Gianluca Tognozzi, avvocato di Stephan El Shaarawy parla con tono pacato e sicuro mentre spiega a La Stampa che l'iscrizione al registro degli indagati dell'attaccante della Roma non lo preoccupa affatto. «Chi lo accusa è una persona che gli stava rubando la macchina, può dire ogni cosa ma va tutto accertato. E Stephan dirà quel che è accaduto quando sarà fissato l'interrogatorio che avverrà di certo entro la fine di luglio» continua il legale del calciatore savonese che, dopo aver sventato il furto della sua Lamborghini nella Capitale quattro mesi fa, ora è sotto inchiesta da parte della Procura capitolina.

La denuncia. Potrebbe aver picchiato il 35enne cileno pluripregiudicato José Carlos Sagardia che, dopo esser stato condannato a maggio a un anno e 4 mesi (per il reato di tentato furto derubricato da tentata rapina impropria), ha sporto denuncia contro di lui per lesioni. Con tanto di referto medico per la frattura di una costola e un piede, con 60 giorni di prognosi.

Le accuse. L'aspirante ladro già al processo in cui era imputato aveva dichiarato di esser stato «rincorso e placcato» con un calcio o uno sgambetto mentre fuggiva, di esser caduto, aver perso i sensi e poi al risveglio di esser stato circondato e assalito da un gruppo di persone fra cui lo stesso "Faraone" come è soprannominato l'attaccante per le origini egiziane del padre. Un presunto pestaggio che se dovesse essere accertato per il calciatore potrebbe significare il rischio di finire sotto processo e di risarcire colui che da accusato per un tentato furto potrebbe trasformarsi in vittima. 

I fatti. L'episodio a cui si fa riferimento risale allo scorso 12 febbraio quando Stephan El Shaarawy, che ora è a Trigoria per riprendere gli allenamenti in vista del ritiro del 6 luglio, si trovava a casa del calciatore dell'Arezzo Alessio Cerci all’Eur. Era pomeriggio e dopo aver giocato alla playstation stava guardando fuori dalla finestra. Quindi la scena proprio davanti agli occhi: accanto alla sua macchina parcheggiata, una fiammante Lamborghini rosso fuoco, c'era un uomo che dopo aver rotto un vetro stava tentando di rubarla.

Furto sventato. Il calciatore non ha perso tempo, è uscito di corsa dalla villa, lo ha inseguito, lo ha bloccato e ha subito chiamato le forze dell'Ordine. «Sono intervenuti i poliziotti del commissariato Esposizione in abiti borghesi e hanno arrestato il 35enne» ci conferma il vice questore aggiunto di Roma Francesca Picierno.

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 15 luglio 2021. Jeans neri, camicia bianca, il «Faraone», Stephan El Shaarawy entra negli uffici della Procura alle 15.30, s' infila nella stanza del pm Carlo Villani e tenta di sciogliere i tanti nodi di questa storia. Nelle ultime settimane il suo nome è finito sul registro degli indagati per lesioni gravi. La vittima è un quarantottenne cileno (qualche precedente di polizia), Josè Carlos Sagardia Aliaga, che il 12 febbraio scorso, con un sanpietrino in mano, rompendo il finestrino della Lamborghini dell'attaccante della Roma, azzardò un furto maldestro. Pochi minuti e il «Faraone» gli fu addosso, prima con le grida quindi con le mani. E qui finiscono le certezze perché il cileno, assistito dall'avvocato Veronica Paturzo, giura di essere stato pesantemente malmenato dal calciatore (e allega a tale proposito il referto di sessanta giorni di prognosi del Sant' Eugenio dove fu visitato). Mentre El Shaarawy assicura di essere vittima di una narrazione sconsiderata e fasulla: non solo non avrebbe infierito sul ladro occasionale ma quest' ultimo si sarebbe inferto da solo ammaccature e tagli. Ed ecco spiegata la convocazione in Procura. El Shaarawy, assistito dal suo difensore, l'avvocato Gianluca Tognozzi, ha voluto ripetere quanto afferma da tempo: «Non ho pestato nessuno, l'ho fatto cadere ma non l'ho più toccato». A sostegno della sua versione ha citato due testimoni in grado di riferire che Sagardia Aliaga si è autoinflitto lesioni e lividi poco prima che arrivassero le forze dell'ordine ad arrestarlo per il tentato furto. Nel frattempo, forse anche in virtù di quei precedenti penali, il quarantottenne è stato condannato a un anno e quattro mesi mentre il giudice ha ordinato alla Procura di esplorare l'ipotesi di un reato di lesioni aggravate. Nel 2016 al «Faraone» toccarono cinque mesi di prova ai servizi sociali (insegnò calcio a un gruppo di bimbi disabili): aveva investito con un sorpasso azzardato un settantenne ferendolo. Ieri è entrato in Procura carico, dopo aver concluso gli allenamenti con José Mourinho: «Mou è okay» ha detto ai cronisti che tenevano d'occhio la stanza del pm Villani per l'occasione. All'uscita ha parlato l'avvocato Tognozzi: «L'iscrizione sul registro degli indagati così come l'interrogatorio sono atti dovuti, il mio assistito ha chiarito nei dettagli la vicenda spiegando la sua completa estraneità ai fatti. In attesa delle determinazioni del pm siamo fiduciosi di uscirne in tempi rapidi».

El Shaarawy da vittima a colpevole, ferma un ladro e viene accusato. News Italiane.it il 22/7/2021. Una persona scopre che qualcuno sta cercando rubargli la macchina. Il derubato d’istinto si lancia per difendere la sua auto e già che c’è cerca di bloccare il ladro per impedirgli che scappi e consegnarlo alla polizia. Se va molto bene, l’auto è salva e il delinquente arrestato. Altrimenti il ladro se la fila senza un graffio. Una storia banale, purtroppo, che stavolta ha visto coinvolto un personaggio famoso. Stephan E1 Shaarawy, calciatore della Roma detto “Il Faraone”, leggo sul Corriere dello Sport: «Il fatto è accaduto lo scorso 12 febbraio in Via Sudafrica, zona Eur: il pluri-pregiudicato cileno dopo aver rotto il finestrino avrebbe voluto rubare l’auto del giocatore, ma il romanista con uno scatto fulmineo era riuscito a placcarlo aspettando poi l’intervento di alcuni agenti in borghese del commissariato Esposizione che transitavano poco lontano». Tutto è bene quel che finisce bene? No. Riporto sempre quanto scritto sul sito del quotidiano sportivo: «Tra un allenamento e l’altro, Stephan El Shaarawy è stato interrogato dalla procura per difendersi dall’accusa di aver malmenato il ladro che aveva provato a rubargli la Lamborghini». Il calciatore e il suo avvocato «hanno raccontato i fatti al pm per più di un’ora: El Shaarawy si è difeso raccontando di aver rincorso il ladro e poi di averlo spinto a terra, senza però picchiarlo. Lo hanno confermato anche alcuni testimoni che hanno descritto la stessa versione raccontata dal giocatore. A rendere la vicenda ancor più controversa le due prognosi presentate dal ladro: prima una di pochi giorni, successivamente una di 60 giorni. El Shaarawy ha respinto ogni accusa». Il mondo alla rovescia. Chi difende la sua proprietà in maniera anche blanda rischia di finire indagato. Chi ha cercato di rubare fa il furbo e prova a passare per vittima. Magari il signore gradirebbe anche, oltre alla macchina del Faraone, anche le sue scuse, un bel risarcimento in denaro e un bel po’ di biglietti per andare allo stadio gratis… Senza dimenticare la cancellazione della condanna per il tentato furto. Mi auguro come tutti che El Shaarawy esca da questo incubo presto e senza conseguenze. La nostra Costituzione dice che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge». I cittadini hanno il diritto di difendersi.

Voghera, c'era una volta il mito della casalinga: ora tra pistole e malaffare è diventata la capitale lombarda degli scandali. Paolo Berizzi su La Repubblica il 25 ottobre 2021. Dalla sparatoria in piazza, con l'ex assessore alla Sicurezza Adriatici che uccide Youns El Boussettaoui, all'inchiesta sui concorsi truccati: "Nel centrodestra lotta tafazziana per occupare i posti di potere". Se fosse solo una questione di faccine che sorridono e di messaggi non proprio affettuosi scambiati in chat da sindaco e assessori per sapere se "il marocchino è affogato" e altre delicatezze simili, sarebbe, per paradosso, una storia sì fastidiosa, ma relativamente facile da assorbire. E il bello, si fa per dire, è che dei troppi pasticci che sono successi e stanno succedendo a Voghera va detto che "no, non è il caso e non è il destino". 

(ANSA il 21 luglio 2021) Stando ai racconti di alcuni clienti che frequentano il bar, davanti al quale ieri sera è morto Youns El Boussetaoui, una persona che era presente avrebbe visto il marocchino 39enne lanciare una bottiglia contro l'assessore alla Sicurezza di Voghera Massimo Adriatici. Un particolare che, se dovesse trovare conferma, potrebbe rivelarsi utile per le indagini nelle quali al momento è contestato l'eccesso colposo di legittima difesa. (ANSA).

Da tgcom24.mediaset.it il 21 luglio 2021. "Si fa strada l'ipotesi della legittima difesa". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, ha commentato quanto avvenuto a Voghera, in provincia di Pavia, dove un assessore leghista ha sparato e ucciso un uomo in piazza dopo una lite. "Aspettiamo la ricostruzione dei fatti, non ci sono cittadini che con il legittimo possesso delle armi vanno in giro a sparare", ha aggiunto. Il Movimento 5 stelle invece attacca: "Far west inaccettabile". "Aspettiamo prima di condannare" - "Prima di condannare una persona per bene che si è vista aggredita e avrebbe reagito, ho sentito che addirittura da sinistra e dal Pd si chiedono prese di distanza, aspettiamo", ha detto Salvini. "E' partito un colpo che purtroppo ha ucciso un cittadino straniero che, secondo quanto trapela, è già noto purtroppo in città e alle forze dell'ordine per violenze, aggressioni, addirittura atti osceni in luogo pubblico", ha aggiunto. "Non è stato un regolamento di conti" - Salvini ha poi parlato di Massimo Adriatici, l'assessore comunale, come di "un docente di diritto penale, ex funzionario di Polizia, avvocato penalista noto e stimato in questa bella città in provincia di Pavia, che vittima di una aggressione ha risposto accidentalmente. E se fosse vero che il soggetto che purtroppo è morto, perché la morte non è mai una bella notizia, era già noto e arci noto alle forze dell'ordine, a commercianti e cittadini di Voghera, evidentemente non si è trattato di un regolamento di conti", ha concluso il leader della Lega. M5s: "Far west inaccettabile" - "Quanto avvenuto a Voghera è un fatto drammatico e grave che andrà chiarito dalle autorità inquirenti. Invitiamo la Lega a stare al suo posto. La ricostruzione dell'accaduto non è questione di competenza del Carroccio". E' quanto riferiscono fonti del Movimento 5 Stelle. Quanto accaduto, ha aggiunto, la deputata del Movimento 5 Stelle Valentina Barzotti, "desta sgomento e rabbia. E' inaccettabile che un uomo disarmato possa perdere la vita per un colpo d'arma da fuoco partito in pubblica piazza, come se fossimo nel far West". Rifondazione: "Non esclusa l'aggravante della matrice razzista" - "Che nelle fila della Lega venissero eletti individui di dubbia moralità lo sapevamo da tempo ma quanto accaduto a Voghera è realmente troppo". Così Fabrizio Baggi, segretario regionale della Lombardia di Rifondazione Comunista, e Piero Rusconi, segretario provinciale di Pavia. "Non ci sono parole per esprimere la gravità di un gesto criminale come quello compiuto dall'avvocato/assessore Massimo Adriatici che, non escludiamo, abbia tra le altre cose l'aggravante della matrice razzista. Chiediamo, con forza, che la Lega renda conto dell'accaduto", hanno aggiunto. Eurodeputato Ciocca (Lega): "L'assessore ha difeso una ragazza" -  "Quanto accaduto a Voghera, in un locale non lontano dal centro, è un chiaro episodio di legittima difesa. Se non fosse stato per un uomo lì' presente, assessore leghista, già appartenente alle forze dell'ordine in passato, pronto ad intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente". Lo afferma, in una nota, l'eurodeputato leghista Angelo Ciocca, originario di Pavia. "Certo - prosegue - la morte di una persona è sempre da scongiurare, ma la dinamica è senza dubbio di legittima difesa e l'augurio è che ancora una volta non si strumentalizzi politicamente quanto accaduto. Potersi difendere è sempre un diritto legittimo".

Eleonora Lanzetti per corriere.it il 21 luglio 2021. Originario di Voghera, militante della Lega, era stato candidato nell’ottobre 2020 e nominato assessore alla Sicurezza della giunta di centro destra guidata dal sindaco Paola Garlaschelli. Massimo Adriatici, è titolare di uno studio di avvocatura molto noto in città e risulta anche «docente di diritto penale e procedura penale presso Scuola allievi agenti Polizia di Stato Alessandria» ed «ex docente dell’Università del Piemonte Orientale». L’assessore vogherese aveva indossato anche la divisa da poliziotto per alcuni anni presso il Commissariato di Voghera. Lui, persona stimata che dell’ordine pubblico e delle regole anti mala movida era stato fermo promotore, firmando ordinanze anti alcol e anti bivacco nel centro cittadino, si era già espresso sulla questione della legittima difesa. Per contrastare la preoccupante escalation di episodi di violenza e risse in centro, con feriti gravi, proprio qualche ora prima dell’accaduto, ieri sera l’assessore aveva firmato un’ordinanza che vietava la vendita di alcol, in particolare birra, in contenitori di vetro. Adriatici nei mesi scorsi, durante il lockdown, aveva disposto il monitoraggio di alcune zone critiche della città, spesso punti di ritrovo di malintenzionati e luoghi di spaccio cittadino, passati al setaccio: «Stiamo controllando tutti i luoghi sensibili e caldi della città come piazza San Bovo, piazza della Stazione, il parcheggio dell’Esselunga e piazza Meardi. Una daspo ordinaria doverosa per la tutela dei cittadini che segnalano casi critici». In un’intervista alla Provincia Pavese del 29 marzo 2018 affermava che «l’uso di un’arma deve essere giustificato da un pericolo reale, per la persona che la usa, per le sue proprietà o quelle altrui. Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Ovvero, la legittima difesa si configura se sparo per evitare che qualcuno spari a me, o non ci sono altri mezzi per metterlo in fuga ed evitare che rubi. Sparare deve essere l’extrema ratio, l’ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre». La scorsa notte, da quanto ricostruito sino ad ora, Adriatici si trovava nelle vicinanze del bar teatro dell’aggressione, e sarebbe intervenuto per allontanare la vittima, Youns El Bossettaoui, un marocchino di 39 anni pluripregiudicato che, a suo dire, stava dando fastidio ai clienti del locale.

 Voghera, assessore leghista alla sicurezza spara in piazza e uccide un marocchino di 39 anni: indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Alberto Custodero su La Repubblica il 21 luglio 2021. Il colpo di pistola esploso dopo una lite tra i due davanti a un bar. Massimo Adriatici, sovrintendente di polizia fino al 2011, poi docente di Diritto Penale, si è autosospeso dalla giunta. La sua versione: "Mi ha spinto ed è partito un colpo". Pd: "Il partito di Salvini condanni il gesto". Ai domiciliari, procura valuta se chiedere conferma. "Mi ha spinto ed è partito un colpo, era furioso per la mia chiamata alla Polizia". Si è giustificato così Massimo Adriatici, arrestato per avere sparato il colpo di pistola che ieri sera, poco dopo le 22, ha ucciso un uomo di 39 anni di nazionalità marocchina, Youns El Boussetaoui. Il fatto è accaduto in piazza Meardi a Voghera. Adriatici - avvocato, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia), nella giunta di centrodestra guidata dalla sindaca Paola Garlaschelli, sovrintendente di Polizia presso il commissariato vogherese fino al 2011 - si trova ora agli arresti domiciliari. Sul fatto stanno indagando i carabinieri coordinati dalla procura di Pavia: l'ipotesi su cui si lavora è quella dell'eccesso colposo di legittima difesa. Adriatici resterà ai domiciliari almeno fino all'udienza di convalida dell'arresto, che si potrebbe tenere tra domani e dopodomani, anche se la procura guidata da Mario Venditti sta valutando se chiedere al gip di confermare la misura cautelare dei domiciliari. Dalla Procura di Pavia precisano che in un primo momento l'arresto da parte dei carabinieri con l'ok del pm Roberto Valli è stato effettuato per omicidio volontario con misura dei domiciliari. L'imputazione poi è stata cambiata in eccesso colposo in legittima difesa, che prevede le pene dell'omicidio colposo, dopo che sono stati sentiti testimoni. Il pm però non ha deciso per la liberazione malgrado il cambio di imputazione e tra oggi e domani manderà la richiesta al gip e dovrà valutare se e quale misura cautelare chiedere per Adriatici. Potrebbero essere decisive nelle indagini anche le telecamere di sorveglianza della zona e, in particolare, una telecamera che si trova proprio in piazza Meardi, vicino allo spiazzo davanti al bar dove è avvenuto l'omicidio. Adriatici avrebbe sparato colpendo il 39enne vicino al cuore dopo aver ricevuto una spinta e al momento, a quanto si apprende da ambiente investigativi, non risulterebbe che la vittima gli avrebbe lanciato contro una bottiglia di birra. Bottiglia che l'uomo potrebbe aver lanciato, però, nelle fasi precedenti quando, come già altre volte secondo le testimonianze, stava infastidendo delle persone davanti al bar in piazza Meardi. E' stato confermato che il marocchino non aveva alcuna arma con sé. Adriatici sostiene di aver esploso il colpo "per sbaglio" mentre cadeva dopo la spinta. Uno dei punti dell'inchiesta è anche capire perché l'assessore abbia tirato fuori la pistola - un'arma di piccolo calibro - carica e col colpo in canna. La vittima, stando alle testimonianze raccolte dagli investigatori, viene definito da molti come un disturbatore, che in passato aveva spaccato anche vetrine e lanciato bottiglie. L'assessore era stato il promotore di un'ordinanza anti-alcol emanata lo scorso 19 luglio che era entrata in vigore proprio la scorsa notte. Tanto che non si esclude che lui fosse in piazza proprio per verificarne l'applicazione, ma su questo si attendono le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Pavia. Come spiega l'Ascom di Voghera "l'ordinanza Sindacale" contiene "disposizioni volte a contrastare fenomeni legati all'abuso di bevande alcoliche sul territorio, a decorrere dalle ore 00.00 del giorno 20 luglio 2021 fino alle ore 24.00 del 18 agosto 2021, su tutto il territorio comunale". Il Sindaco aveva infatti appena disposto "su proposta del Settore Polizia Locale" il "divieto ai titolari e/o gestori di tutti gli esercizi commerciali di detenere e/o conservare nei locali di esercizio e relative pertinenze bevande alcoliche di qualunque genere e gradazione a temperatura inferiore di quella ambiente abbassata mediante utilizzo di sistemi di refrigerazione e raffrescamento; è fatto divieto ai titolare e/o gestori di tutti gli esercizi commerciali di vendere bevande alcoliche di qualunque genere e gradazione a temperatura inferiore di quella ambiente, con eccezione per le pizzerie e alimentari da asporto, o similari, dove la vendita di bevande alcoliche a temperatura inferiore a quella ambientale è consentita solo se abbinata alla vendita di alimenti prodotti o cucinata al momento;  gli esercizi pubblici autorizzati alla somministrazione di alimenti e bevande per i quali non vigono i divieti sopraindicati, ed a cui è sempre consentita la somministrazione, è fatto divieto, dalle ore 17 alla chiusura, di vendere per l'asporto tutte le bevande alcoliche in contenitori di vetro". L'assessore si spendeva da tempo pubblicamente contro una cosiddetta "malamovida" che vedrebbe per strada, di notte, a Voghera, molte persone che abusano di sostanze alcoliche. Circostanza però ridimensionata dalle forze dell'ordine locali, che parlano di un fenomeno analogo a quello di altri centri del territorio. E subito la vicenda diventa un caso politico, con la Lega che fa quadrato ("E' legittima difesa", dice Matteo Salvini). E il Pd che chiede, con Ferrari, che il partito di Salvini "condanni il gesto di Adriatici". "Tragedia frutto di una risposta a un'aggressione con un colpo partito accidentalmente. La vittima era una persona nota in città e alle forze dell'ordine per episodi di ubriachezza e violenze", sottolineano poi fonti della Lega. Barzotti (M5s): "E' inaccettabile, no a far west". Adriatici si è "autosospeso" dalla giunta. Ad annunciare l'uscita, per il momento temporanea, di Adriatici dalla giunta è stata poco fa il sindaco Paola Garlaschelli, che dall'ottobre scorso guida il Comune oltrepadano. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri di Pavia, ieri intorno alle 22 e 30 Adriatici, ex poliziotto con regolare porto d'armi, ha chiamato in Commissariato per far arrivare una pattuglia in piazza Meardi a Voghera perché l'uomo di origine nordafricana stava infastidendo gli astanti di un bar. Quest'ultimo lo avrebbe sentito mentre faceva la telefonata, gli si sarebbe avvicinato e lo avrebbe spintonato. A quel punto ne sarebbe nata una colluttazione durante la quale sarebbe stato esploso il colpo letale. Fonti investigative non escludono, in base a questa dinamica, che l'assessore leghista abbia potuto aver agito per "legittima difesa". La vittima si chiamava Youns Boussetaoui e aveva 39 anni. L'uomo, domiciliato a Voghera, aveva diversi precedenti penali. 

L'eurodeputato leghista Ciocca: "Legittima difesa". E ora la Lega fa quadrato. "Quanto accaduto a Voghera, in un locale non lontano dal centro, è un chiaro episodio di legittima difesa. Se non fosse stato per un uomo lì presente, assessore leghista, già appartenente alle forze dell'ordine in passato, pronto ad intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente". Lo afferma, in una nota, l'eurodeputato leghista Angelo Ciocca, originario di Pavia. "Certo - prosegue - la morte di una persona è sempre da scongiurare, ma la dinamica è senza dubbio di legittima difesa e l'augurio è che ancora una volta non si strumentalizzi politicamente quanto accaduto. Potersi difendere è sempre un diritto legittimo".

Ferrari (Pd): "Lega condanni gesto Adriatici". "Ciò che è avvenuto ieri sera a Voghera è qualcosa di molto grave e preoccupante. Voglio esprimere innanzi tutto la mia solidarietà ai cittadini. Siamo di fronte ad un fatto che testimonia la gravità di una situazione che, continuamente alimentata dalla propaganda, rischia di finire fuori controllo e di farci sconfinare nella barbarie. Ora si accerteranno i fatti, ma in un paese civile e democratico un assessore non spara ad una persona. Mi auguro che la Lega al più presto prenda le distanze dal gesto di Adriatici. La giustizia fai da te non ha cittadinanza nelle nostre leggi e nella nostra convivenza". Così il senatore Alan Ferrari, vice presidente vicario dei senatori del Pd.

Barzotti (M5s): "E' inaccettabile, no a far west". "Quello che è accaduto a Voghera è inquietante e desta sgomento e rabbia. E' inaccettabile che un uomo disarmato possa perdere la vita per un colpo d'arma da fuoco partito in pubblica piazza, come se fossimo nel far West. Saranno le autorità adesso a ricostruire la dinamica e le eventuali responsabilità dell'assessore comunale, dalla cui pistola sarebbe partito il colpo. Posso solo esprimere, al momento, le mie condoglianze alla famiglia della vittima". Lo dichiara la deputata del Movimento 5 Stelle Valentina Barzotti.

Così si presenta su Facebook Adriatici: "Docente di diritto penale". L'assessore si presenta così nel suo profilo Facebook. "Avvocato presso Studio Legale Adriatici. Docente di diritto penale e procedura penale presso Scuola allievi agenti Polizia di Stato Alessandria. Precedentemente Professore a contratto di diritto processuale penale presso l'Università del Piemonte Orientale. Ha lavorato presso Polizia di Stato. Ha studiato Giurisprudenza presso Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ha studiato Scienze Giuridiche presso Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ha frequentato l'ITCG M. Baratta". 

Quando diceva: "Sparare extrema ratio". Adriatici, originario di Voghera, è assessore alla Sicurezza del Comune oltrepadano da ottobre del 2020. Eletto nelle file della Lega, è titolare di uno studio di avvocatura molto noto, ed è salito all'onore delle cronache locali per iniziative contro la cosiddetta 'malamovidà come l'abuso di sostanze alcoliche nelle ore serali. In un'intervista alla Provincia Pavese del 29 marzo 2018 affermava che "L'uso di un'arma deve essere giustificato da un pericolo reale, per la persona che la usa, per le sue proprietà o quelle altrui. Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Ovvero, la legittima difesa si configura se sparo per evitare che qualcuno spari a me, o non ci sono altri mezzi per metterlo in fuga ed evitare che rubi. Sparare deve essere l'extrema ratio, l'ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre".  

Voghera, i cittadini: "L'assessore è soprannominato lo "sceriffo", gira sempre con la pistola". La Repubblica il 21 luglio 2021. "Mi ha spinto ed è partito un colpo". Così si è giustificato Massimo Adriatici, arrestato per avere sparato il colpo di pistola che ieri sera, poco dopo le 22, ha ucciso Youns El Boussetaoui. Sono ancora poco chiare le dinamiche di come sia avvenuta la lite ma chi conosceva Adriatici - assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia), sovrintendente di Polizia presso il commissariato vogherese fino al 2011 - ci parla dell'esponente leghista come di uno "sceriffo" già conosciuto in città per i suoi modi aggressivi. di Daniele Alberti. 

La bottiglia, la spinta, lo sparo, i video: cosa sappiamo sul caso Voghera. Luca Sablone il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. La versione dell'assessore: il colpo è partito dopo la caduta. I testimoni: "Il marocchino dava spesso problemi, era aggressivo e dava fastidio alle persone". Sul caso di Voghera continuano ad aleggiare nubi di mistero e incognite rispetto a quanto è realmente accaduto nelle scorse ore. Solamente le indagini dell'Arma riusciranno a chiarire meglio le dinamiche. Sul corpo della vittima, centrata da un unico colpo al petto, è già stata disposta l'autopsia. La procura di Pavia sta lavorando sull'ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa: si sta valutando se chiedere al gip di confermare gli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, assessore leghista alla Sicurezza del Comune nel Pavese che si è autosospeso dall'incarico fino all'esito del giudizio che lo vede indagato. Si deciderà poi anche se procedere o meno per il conferimento di altre consulenze tecniche, inclusa quella balistica. In attesa dei prossimi sviluppi sul caso di Voghera, ecco cosa sappiamo fino ad ora sulla base delle indiscrezioni emerse fin dalla mattinata.

"Mi ha spinto ed è partito il colpo". L'assessore Adriatici - stando a quanto appreso e riferito dall'Adnkronos - si sarebbe così difeso davanti al magistrato, provando a fornire la sua ricostruzione dei fatti: "Stavo passeggiando in piazza Meardi quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar. Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo". Un testimone oculare ha riferito che lo straniero avrebbe lanciato una bottiglia di birra che stava bevendo all'indirizzo di Adriatici, prima che l'assessore chiamasse le forze dell'ordine per avvertire che l'uomo stava importunando alcuni clienti del bar. A farlo sapere è stato un abitante di Voghera di origine albanese: "Un uomo che era lì mi ha raccontato che la vittima aveva chiesto ad Adriatici: 'Perchè non mi saluti?' E gli aveva lanciato addosso la bottiglia. A quel punto, l'assessore gli ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Poi c'è stata una colluttazione tra loro e l'assessore ha sparato". Ulteriori dettagli potrebbero emergere dalle telecamere di sorveglianza in zona.

"Il marocchino era aggressivo". La vittima della tragedia è El Boussetaoui Youns, straniero con numerosi precedenti alle spalle (tra cui reati contro il patrimonio, spaccio di sostanze stupefacenti, truffa, resistenza a pubblico ufficiale e minacce). Un residente ha dichiarato che il marocchino "dava spesso problemi, era aggressivo e dava fastidio alle persone". Una signora straniera ha ammesso che effettivamente il senso di sicurezza in città non è proprio dei migliori: "Non abbiamo il coraggio di uscire la sera, anche qui a Voghera abbiamo paura. In giro c'è droga e gente che fa paura". Da segnalare poi la reazione di una ragazza, conoscente di El Boussetaoui, che davanti alle telecamere ha urlato: "È stato ammazzato come un cane. Hanno detto che stava molestando una donna, ma lui non aveva mai fatto male a nessuno".

"Adriatici è un professionista". Gli ex colleghi di Adriatici si dicono "sorpresi" da quanto successo. Una fonte di polizia ha rivelato in esclusiva a ilGiornale.it alcune indiscrezioni inedite: l'assessore è figlio di un ispettore stradale a Pavia, che dopo alcuni anni in divisa si è congedato da sovrintendente per fare l'avvocato. La fonte ci ha spiegato che l'uomo "è sempre tranquillo, molto moderato". Ecco perché c'è stupore: "Forse si è spaventato perché minacciato, anche se non possiamo ancora dirlo. È un professionista di livello, una persona soft, mai sopra le righe. Non ha mai compiuto follie o avuto scatti d'ira". Giuseppe Carbone, capogruppo di Forza Italia al Consiglio comunale di Voghera, è "frastornato" perché reputa Adriatici "una persona di tutto rispetto e grande professionalità".

Era legittima difesa? Fin da subito dalla Lega hanno riferito che la vicenda "sarebbe frutto di una risposta a un'aggressione con un colpo partito accidentalmente". Dal Carroccio hanno tenuto a sottolineare anche che la vittima "era una persona nota in città e alle forze dell'ordine per episodi di ubriachezza e violenze". A parlare dell'ipotesi di legittima difesa è stato Matteo Salvini, che preferisce attendere gli accertamenti prima di "condannare una persona per bene che si è vista aggredita e che avrebbe reagito". Secondo Angelo Ciocca, eurodeputato leghista, se non fosse stato per l'intervento di Adriatici, "pronto a intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente".

La polemica politica. Inevitabilmente è scaturita una polemica politica con accuse incrociate. Per Enrico Letta, segretario del Partito democratico, bisognerebbe porre lo stop alle armi private: "In giro con le armi solo poliziotti e carabinieri. È un giorno triste. Saranno gli inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Nessuno si sostituisca a loro". Anche dal Movimento 5 Stelle arriva una presa di posizione. "È un fatto drammatico e grave che andrà chiarito dalle autorità inquirenti. Invitiamo la Lega a stare al suo posto. La ricostruzione dell'accaduto non è questione di competenza del Carroccio", sostengono fonti grilline. Le opposizioni al Consiglio comunale di Voghera stanno valutando se presentare una mozione di sfiducia rivolta sia al sindaco Paola Garlaschelli sia all'assessore Adriatici.

Per Salvini non è giusto che passi per "macellaio e assassino" una persona "che ha semplicemente difeso se stessa e i suoi concittadini". Il leader della Lega ha poi bocciato la proposta di "quel genio" di Enrico Letta: "Secondo lui bisogna togliere il porto d'armi a tutti gli italiani. Lui ha già deciso che è colpevole e ovviamente è colpa mia, a prescindere...".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC. 

"Mi ha spinto ed è partito il colpo": ora parla l'assessore arrestato. Giuseppe De Lorenzo e Luca Sablone il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Prima la chiamata alla polizia, poi la caduta a terra: ecco la versione di Massimo Adriatici. Salvini: "Si fa strada l'ipotesi di legittima difesa". "Stavo passeggiando in piazza Meardi quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar. Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo". Massimo Adriatici, secondo quanto riportato dall'Adnkronos, si sarebbe difeso così dall'accusa di omicidio. Davanti al magistrato, l'avvocato e assessore leghista alla Sicurezza del comune nel Pavese avrebbe fornito la sua ricostruzione dei fatti dopo l'arresto per la morte di un 39enne di origine marocchina. La procura di Pavia sta lavorando sull'ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa. Intanto Adriatici si è autosospeso dall'incarico "sino all'esito del giudizio che lo vede indagato", ha annunciato il sindaco Paola Garlaschelli. A far infuriare El Boussetaoui Youns, straniero con numerosi precedenti alle spalle (tra cui reati contro il patrimonio, spaccio di sostanze stupefacenti, truffa, resistenza a pubblico ufficiale e minacce), sarebbe stata appunto la chiamata agli agenti di polizia. Fonti della Lega fanno sapere che - stando alle prime notizie a disposizione - la vicenda "sarebbe frutto di una risposta a un'aggressione con un colpo partito accidentalmente". Dal Carroccio tengono a precisare inoltre che la vittima di origine marocchina "era una persona nota in città e alle forze dell'ordine per episodi di ubriachezza e violenze". Solo le indagini dell'Arma chiariranno meglio le dinamiche: le dichiarazioni di Adriatici sono al vaglio dei carabinieri di Pavia, impegnati nelle indagini. Mentre sul corpo della vittima, centrata da un unico colpo al petto, è già stata disposta l'autopsia.

"È un professionista". Mentre la politica entra a gamba tesa sulla cronaca, con accuse al Carroccio che arrivano dal Pd al M5S, gli ex colleghi di Adriatici si dicono "sorpresi" da quanto successo. Una fonte di polizia rivela in esclusiva a ilGiornale.it alcune indiscrezioni inedite. Adriatici è figlio di un ispettore stradale a Pavia, che dopo alcuni anni in divisa si è congedato da sovrintendente per fare l'avvocato. La cautela è d'obbligo e nessuno degli ex colleghi vuole "parlare finché non sarà chiarito cosa è successo". Ma sull'uomo qualcosa lo dicono: "Era sempre tranquillo, molto moderato - spiega la fonte - Forse si è spaventato perché minacciato, anche se non possiamo ancora dirlo. Ma a tutti risulta molto strano. È un professionista di livello, una persona soft, mai sopra le righe. Non ha mai compiuto follie o avuto scatti d'ira".

L'ipotesi di legittima difesa. Nel frattempo Matteo Salvini invita alla prudenza e informa che "si fa strada l'ipotesi della legittima difesa". Il leader della Lega, attraverso un video sui social, ha dichiarato di voler aspettare gli accertamenti prima di "condannare una persona per bene che si è vista aggredita e che avrebbe reagito". Angelo Ciocca, eurodeputato leghista, ritiene che quanto accaduto a Voghera "è un chiaro episodio di legittima difesa". "Se non fosse stato per un uomo lì presente pronto a intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente", ha fatto notare.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC. 

Pregiudicato e irregolare. Chi è il marocchino ucciso a Voghera. Giuseppe De Lorenzo il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Youns El Boussetaoui, 39 anni, marocchino senza fissa dimora. Colpito all'addome da una calibro 22. Si chiamava Youns El Boussetaoui. È il marocchino di 39 anni che una fotografia ritrae barcollante in giro per Voghera, la città pavese teatro di una tragedia. Senza fissa dimora, già conosciuto alle forze dell’ordine, pluripregiudicato, il profilo di Youns sembra quello di uno dei tanti fantasmi che popolano le città italiane. Clandestino, irregolare, con ordini di espulsione sulle spalle mai veramente messi in atto. Se li avessero eseguiti, forse oggi non saremmo qui a parlare di un morto e di un assessore agli arresti domiciliari. Ma la storia non si fa con i “se”. E purtroppo neppure la cronaca. La tragedia si consuma martedì sera intorno alle 22.17. Il marocchino e Massimo Adriatici, assessore alla Sicurezza di Voghera, sono in piazza Francesco Meardi di fronte al Bar Ligure. I due, stando alle prime ricostruzioni, hanno un diverbio che poi si trasforma in colluttazione. All'improvviso un colpo parte dalla pistola, regolarmente detenuta, dell’assessore leghista. La vittima viene colpita al torace, il proiettile calibro 22 penetra nella carne all’altezza dell’emitorace destro. I soccorsi sono immediati, Youns viene portato in ospedale. Ma non c’è niente da fare. Poco dopo muore. Le dinamiche sono ancora avvolte in una fitta nebbia di mistero. “Stavo passeggiando in piazza Meardi quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar - avrebbe raccontato l’assessore ai magistrati - Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo”. Secondo un testimone, sentito dall’Agi, il marocchino avrebbe lanciato una bottiglia di birra addosso ad Adriatici poco prima che questo prendesse il cellulare per avvertire le forze dell’ordine. “Un uomo che era lì - spiega Andiran R. - mi ha raccontato che la vittima aveva chiesto ad Adriatici: 'Perché non mi saluti?' E gli aveva lanciato addosso la bottiglia. A quel punto, l'assessore gli ha detto che avrebbe chiamato la polizia. Poi c'è stata una colluttazione tra loro e l'assessore ha sparato”. Stando ad altre ricostruzioni, il lancio non sarebbe avvenuto contro Adriatici. Di domande senza risposta ne restano ovviamente a bizzeffe. La procura di Pavia ha conferito gli incarichi per tutti gli esami del caso, a partire dalla perizia balistica. E per le prossime ore si attende il risultato dell’autopsia. Qualcosa potrebbe emergere dalle telecamere di sorveglianza in zona. Inoltre sono già stati sentiti i testimoni oculari. E l’assessore, che solo due giorni fa aveva emanato una ordinanza anti-alcol e anti-movida, è stato interrogato tutta la notte fino alle 7 del mattino. Le accuse a suo carico sono passate dall’iniziale omicidio volontario al meno grave eccesso colposo di legittima difesa. Ed è proprio su questo dettaglio che la politica, con il sangue sul selciato ancora fresco, già si scanna. Da una parte la Lega, che con Salvini difende il suo assessore. Dall’altra le opposizioni, a parlare di far west. Nel mezzo ci sono loro due, i protagonisti di questa brutta pagina di cronaca. A destra l’assessore Adriatici, avvocato, ex poliziotto, stimato da tutti e definito dagli ex colleghi in dipinto come “una persona soft, mai sopra le righe”. Si è autospospeso dal ruolo istituzionale. A sinistra Youns, l’uomo senza un tetto, con precedenti per reati contro il patrimonio, spaccio di sostanze stupefacenti, truffa, resistenza a pubblico ufficiale e minacce. “Io lo conoscevo perché passava due o tre volte al giorno davanti al bar, prendeva i posacenere e lo zucchero li buttava in aria, faceva dei dispetti”, racconta un residente. "Era una persona 'cattiva' - aggiunge un altro - conosciuta in città perchè importunava le persone e faceva gesti violenti. Una volta aveva rotto la vetrina di un bar". Negli ultimi giorni era stato segnalato per ubriachezza molesta. A rigor di logica, visti gli ordini di espulsione, sarebbe dovuto essere lontano da Voghera. Invece in quella piazza ha trovato la morte.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterr... 

Chi è l'assessore leghista fermato a Voghera. Francesca Bernasconi il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Avvocato, ex poliziotto e docente universitatio. Ecco chi è l'assessore leghista che ha sparato a Voghera. "Mi ha spinto ed è partito un colpo". Massimo Adriatici ha spiegato così lo sparo, partito dalla sua pistola, che ha ucciso a Voghera il 39enne marocchino Youns Boussetaoui. E ora, dopo l'arresto per omicidio, la procura ha cambiato l'accusa in eccesso colposo di legittima difesa. Ma Adriatici, assessore comunale leghista, si è autosospeso "sino all'esito del giudizio che lo vede indagato".

Chi è Massimo Adriatici. Avvocato penalista e dal 2011 titolare di uno studio legale a Voghera, in provincia di Pavia, Adriatici è anche assessore comunale alla Sicurezza e Polizia Locale, eletto con la Lega nel 2020 ed entrato così nella giunta del sindaco Paola Garlaschelli. L'uomo, sul suo profilo Facebook, si definisce "docente di diritto penale e procedura penale presso Scuola allievi agenti Polizia di Stato Alessandria" ed ex docente "a contratto di diritto processuale penale presso Università del Piemonte Orientale". Quest'ultimo Ateneo è intervenuto con una nota, per precisare che l'avvocato non è stato un docente strutturato, ma "un collaboratore esterno del Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze politiche, economiche e sociali fino al 2017": ha insegnato Diritto processuale penale nel corso di laurea magistrale in Giurisprudenza dal 2014 al 2017. "Tale incarico- ha precisato l'Università-gli era stato affidato per le sue indubbie competenze nella materia e per i rapporti con la magistratura e il tribunale di Alessandria, contrassegnati da una profonda stima". Oltre ad essere un avvocato e un docente universitario, Adriatici ha avuto un passato da poliziotto: secondo quanto riporta LaPresse, ha indossato la divisa tra il 1995 e il 2011, "ottenendo la qualifica di 'sovrintendente' addetto al settore anticrimine, misure di prevenzione e servizi di Polizia Giudiziaria". La pistola calibro 22 con cui Adriatici ha sparato al 39enne era detenuta regolarmente, dato che l'ex poliziotto possedeva il porto d'armi. Come avvocato, inoltre, l'assessore di Voghera si era già trovato in una situazione simile: Repubblica ha ricordato un episodio del 2016, quando Adriatici aveva difeso il proprietario di un ristorante che, nel corso di una colluttazione, aveva sparato a un cliente, uccidendolo.

L'intervista sull'uso delle armi. Nel marzo 2018, intervistato dalla Provincia Pavese, Massimo Adriatici aveva commentato così l'utilizzo delle armi: "L'uso di un'arma deve essere giustificato da un pericolo reale per la persona che la usa, per le sue proprietà o quelle altrui- aveva detto- Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Sparare deve essere l'extrema ratio, l'ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre". Adriatici è noto anche per le sue prese di posizione contro la "mala movida", tanto che poco dopo essersi insediato aveva introdotto il Daspo urbano contro bivacchi e accattonaggio in centro.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi. 

"Far west ingiustificato". Sinistra e grillini hanno già la sentenza. Massimo Malpica il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Boldrini: "Perché girava con la pistola?". E Letta chiede lo stop alla vendita di armi. A poche ore dalla tragedia di piazza Meardi a Voghera la politica già è divisa sull'episodio. I carabinieri stanno ancora indagando per chiarire la dinamica dei fatti, con Adriatici che sostiene che il colpo gli sia partito per sbaglio mentre cadeva a terra, spinto dal 39enne furioso perché lo aveva sentito chiamare la polizia, ma l'accertamento delle eventuali responsabilità non ha effetti sulle polemiche, tutte nel segno del muro contro muro. Tra i primi a parlare proprio il leader leghista, Matteo Salvini, che come tutto il partito fa quadrato intorno al proprio rappresentante. In un video pubblicato su Facebook, Salvini smentisce che quello andato in scena due sere fa a Voghera sia stato «far west», sostenendo che «si fa strada l'ipotesi della legittima difesa» e aggiungendo che Adriatici, «docente di diritto penale, funzionario di polizia, avvocato penalista noto e stimato in questa bella città in provincia di Pavia» sarebbe stato «vittima di un'aggressione», e che il colpo «che purtroppo ha ucciso un cittadino straniero» è partito «accidentalmente». Insomma, anche gli inviti alla «presa di distanza» che arrivano «da sinistra e dal Pd», prosegue Salvini, possono attendere almeno fino «alla ricostruzione dei fatti», come pure la «condanna» preventiva a «una persona per bene che si è vista aggredita e che avrebbe reagito». Il tutto perché, conclude il leader del Carroccio, «a fronte di una aggressione, come extrema ratio, ovviamente la difesa è sempre legittima». Anche fonti della Lega ricordano come la vittima fosse «nota in città e alle forze dell'ordine per episodi di ubriachezza e violenze», ribadendo che il colpo che ha ucciso Bossettaoui sarebbe partito accidentalmente dalla pistola di piccolo calibro dell'assessore. E pure l'eurodeputato Angelo Ciocca definisce la tragedia «un chiaro episodio di legittima difesa», arrivando a ipotizzare che solo l'intervento di Adriatici «in difesa di una ragazza molestata» abbia scongiurato una violenza. Di segno opposto, come detto, le reazioni di M5s e centrosinistra. Mentre Laura Boldrini si chiede «perché Adriatici girava armato», il segretario Pd Enrico Letta ipotizza lo stop alle armi private ma smorza le polemiche sull'episodio: «Un uomo è morto, per colpa di una pistola. È un giorno triste. Saranno inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Nessuno si sostituisca a loro», spiega. Ma molti attaccano. Come il senatore Pd Roberto Rampi, che trova «incredibile» che Salvini «spenda tante parole per provare a giustificare qualcosa che è ingiustificabile». Durissimo Dario Nardella. Il sindaco dem di Firenze, pur allineandosi con Letta nel voler «aspettare che le autorità chiariscano l'accaduto», aggiunge di vedere «evidente il nesso con un clima di odio e di violenza verbale». I 5s infine intimano alla Lega di non sostituirsi agli inquirenti nella ricostruzione dell'accaduto». All'attacco contro la «giustizia fai da te» anche i portavoce di Europa Verde Eleonora Evi e Angelo Bonelli, mentre la deputata M5s Valentina Barzotti definisce «inaccettabile che un uomo disarmato possa perdere la vita per un colpo d'arma da fuoco partito in pubblica piazza, come se fossimo nel far west». E per l'ex pentastellato Federico Pizzarotti, la tragedia «travalica i confini dell'assurdo»: «Come istituzioni abbiamo un ruolo e dei valori da difendere e anzi da valorizzare», conclude il sindaco di Parma, augurandosi che «la giustizia renda chiarezza e faccia il suo corso in tempi celeri e giusti». Massimo Malpica

 L’assessore leghista spara e uccide. Ma per Salvini la colpa è della vittima. Bufera sulle parole del leader leghista che dice: la vittima era già noto alle forze dell'ordine. Intende dire che se l'è cercata? Valentina Stella su Il Dubbio il 21 luglio 2021. Il fatto nudo e crudo è che Massimo Adriatici, avvocato e assessore leghista alla sicurezza del Comune di Voghera ha ucciso, sparando un colpo di pistola, un uomo di 39 anni di nazionalità marocchina, Youns El Boussetaoui. Ventiquattro ore di certo non bastano a dire esattamente quale sia la dinamica precisa dei fatti; intanto l’uomo è agli arresti domiciliari. Certo è che il diavolo ci ha messo proprio un tragico zampino in questa storia: un esponente della Lega – partito che nel 2019 lanciò, dopo avere incassato la riforma proprio sulla legittima difesa, una proposta che puntava a facilitare l’acquisto di armi per la difesa personale – munito di una calibro 22 detenuta regolarmente uccide lo straniero, con precedenti, e rivendica la legittima difesa. Sembra il copione di un film di propaganda leghista, e invece è una drammatica storia di provincia. Tanto per infittire la trama, Adriatici è stato poliziotto con il grado di sovrintendente fino al 2011 e nel 2016 difese, facendolo assolvere per legittima difesa, un cuoco che, durante una colluttazione, aveva sparato a un cliente con un fucile a pompa ferendolo a un braccio. Quello che si sa fino a questo momento è che Adriatici ha sparato colpendo il marocchino vicino al cuore dopo aver ricevuto una spinta, durante una animata discussione, e non risulterebbe che la vittima gli avrebbe lanciato contro una bottiglia di birra. Bottiglia che l’uomo potrebbe aver lanciato, però, nelle fasi precedenti quando, come era solito, stava infastidendo delle persone davanti al bar in piazza Meardi. È stato confermato che il marocchino non aveva alcuna arma con sé. Adriatici sostiene di aver esploso il colpo «per sbaglio» mentre cadeva dopo la spinta. Uno dei punti che dovrà chiarire l’inchiesta è perché l’assessore abbia tirato fuori la pistola carica e col colpo in canna. L’ipotesi accusatoria inizialmente è stata quella di omicidio volontario poi trasformata, dopo aver ascoltato alcuni testimoni, in quella dell’eccesso colposo di legittima difesa. Adriatici comunque resterà ai domiciliari almeno fino all’udienza di convalida dell’arresto, che si potrebbe tenere tra oggi e domani. Sono numerose le reazioni politiche sull’accaduto. In primis quella del leader della Lega che in un video, dove dimentica (?) di dire che Adriatici è assessore leghista, prende le difese dell’uomo: «Altro che far west a Voghera, si fa strada l’ipotesi della legittima difesa. Aspettiamo la ricostruzione dei fatti, non ci sono cittadini che con il legittimo possesso delle armi vanno in giro a sparare, a fronte di una aggressione come estrema ratio ovviamente la difesa è sempre legittima». Gli ha risposto a distanza tra le fila del Pd il senatore Roberto Rampi: «Trovo incredibile che un collega senatore, che rappresenta una delle principali forze politiche e di governo di uno dei principali paesi europei, spenda tante parole per provare a giustificare qualcosa che è ingiustificabile. Sui profili penali deciderà chi di dovere. Ma non esiste un motivo men che meno legittimo per uccidere una persona. E perché non accada basta non girare armati». Rincara la dose Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera: «Giusto attendere gli accertamenti. Ma parlare di legittima difesa per uno che spara e uccide dopo uno spintone, da un punto di vista giuridico è una emerita bestialità». Giuseppe Brescia, presidente grillino della commissione Affari Costituzionali della Camera: «Al di là delle dinamiche e del regolare porto d’armi, penso sia inconcepibile che un uomo delle istituzioni possa andare in giro con un’arma e sostituirsi alle forze dell’ordine. Davvero per la Lega la risposta alla criminalità può essere quella di mettere una pistola nella tasca di ogni cittadino per farsi giustizia da sé? Io la ritengo un’involuzione disumana. E se fosse stato l’uomo di origine straniera a sparare? Sappiamo bene quale sarebbe stato il garantismo salviniano!». Per Giuseppe Carbone, capogruppo di Forza Italia al Consiglio comunale di Voghera, Adriatici è «una persona di tutto rispetto e grande professionalità. Sono frastornato». Il sindaco di Voghera Paola Garlaschelli ha aggiunto: «Attualmente non conosciamo la dinamica dei fatti, restiamo in attesa di avere maggiori informazioni e confidiamo nell’operato della magistratura. Nel frattempo l’assessore ci ha comunicato la sua autosospensione sino all’esito del giudizio che lo vede indagato». Per il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni « il solo pensiero che un cittadino vada in giro per la città armato è terrificante. Il fatto poi che in questo caso si parli di un rappresentante delle Istituzioni va oltre ogni più tetra immaginazione». Per Eleonora Evi e Angelo bonelli, co-portavoce nazionali di Europa Verde, «questo episodio, accanto ad altri di altrettanta gravità, come la sparatoria avvenuta in un pub di Taranto che ha causato 10 feriti, devono indurci a condannare, senza se e senza ma, quella ‘giustizia fai da te’ che annulla il senso di comunità e di Stato di Diritto e a ripensare radicalmente le regole sul possesso di armi da parte della popolazione civile».

(ANSA il 22 luglio 2021) La procura di Pavia, che indaga sull'omicidio del cittadino di origini marocchine Youns El Boussettaoui, ha chiesto la conferma degli arresti domiciliari per l'assessore alla Sicurezza del Comune di Voghera Massimo Adriatici per il pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Domani il politico comparirà davanti al gip. (ANSA). 

Ucciso in piazza: pm chiede conferma domiciliari assessore. (ANSA il 22 luglio 2021) Il pm di Pavia, Roberto Valli, ha chiesto la conferma degli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, l'assessore che l'altra sera ha ucciso con un colpo di pistola un immigrato. (ANSA).

L'uomo ucciso dall'assessore a Voghera era stato sottoposto a TSO. AGI il 22 luglio 2021.  Youns El Boussetai, il 39enne marocchino ucciso con un colpo di pistola dall'Assessore alla Sicurezza Massimo Adriatici sarebbe stato sottoposto a un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) tre settimane fa. Lo apprende l'AGI da fonti vicine alla famiglia. I problemi psichici di cui l'uomo soffriva si erano acuiti in seguito al lockdown. El Boussetai aveva contatti frequenti coi suoi familiari, tutti cittadini italiani, che vivevano in altre città. Il padre a Vercelli, la sorella, che ieri sera è arrivata a Voghera, in Francia, un altro fratello in Svizzera. La moglie e i due figli vivono in Marocco. Ai familiari El Boussetai, che aveva manifestato problemi psichici negli ultimi mesi, aveva detto che si sentiva 'a casa' in piazza Meardo, a Voghera, dove è morto. Qui, diceva ai congiunti, aveva la 'sua panchina' e i suoi punti di riferimento ed era conosciuto da tutti. Sul fronte delle indagini, giovedì 22 luglio è prevista la richiesta di convalida della Procura di Pavia dell'arresto di Adriatici, accusato di 'eccesso colposo di legittima difesa'. Che potrebbe però non essere accompagnata anche dalla richiesta di convalida della misura cautelare dei domiciliari. Questo significa che i pm potrebbero dare l'ok per il ritorno alla libertà dell'uomo, parere non vincolante per il gip che sarà chiamata a decidere dopo avere sentito Adriatici. Il nuovo interrogatorio, dopo il primo subito dopo il fatto, dovrebbe essere fissato per venerdì 23 luglio. L'avvocato Debora Piazza, che assiste padre, fratello e sorella del 39enne di origine marocchina, ha affermato che "l'autopsia di Youns El Boussetaoui è stata effettuata senza avvisare, come sarebbe dovuto avvenire, i suoi familiari, tutti cittadini italiani e con una residenza".

"Aveva perso la testa". La vittima di Voghera fu sottoposta a Tso. Bartolo Dall'Orto il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. L'accusa della sorella di Younes El Boussettaoui: ""Massimo Adriatici ha compiuto un omicidio volontario". Il giorno dopo la tragedia, Voghera è ancora al centro delle cronache. I carabinieri indagano, la procura studia le prossime mosse. E le polemiche politiche sull’assessore alla Sicurezza Massimo Adriatici, accusato di eccesso colposo di legittima difesa, non si placano. Per avere la verità bisognerà attendere ancora qualche tempo. Intanto, però, prendono la parola i familiari della vittima, direttamente con la stampa o attraverso il loro avvocato, per dire che Younes El Boussettaoui “andava curato, non ucciso”. Primo fatto: stando alle parole del legale Debora Piazza, che difende la madre, fratello e sorella, “nessuno ha avvisato i famigliari dell'autopsia e questo è un fatto grave perché è un esame irripetibile”. L’avvocato ha “chiesto in procura le motivazioni” e il pubblico ministero “ha detto che è stata una svista dei carabinieri”. Seconda questione: in paese ieri alcuni avventori del bar avevano definito la vittima una “persona cattiva” che “importunava le persone e faceva gesti violenti”, e oggi la legale conferma che “ultimamente aveva davvero perso la testa”, forse anche per colpa del lockdown. Secondo fonti vicine alla famiglia, sentite dall’Agi, tre settimane fa Younes sarebbe stato anche sottoposto a un Tso obbligatorio. “Aveva qualche precedente bagattellare alla spalle - conferma Piazza a LaPresse - io l'ho difeso per circa 5 anni, per resistenza o piccoli episodi di spaccio, ma ultimamente aveva davvero perso la testa. Era stato ricoverato per problemi mentali per circa tre settimane un mese fa all'ospedale di Vercelli dove purtroppo era riuscito a scappare per venire proprio in questa piazza, perché lui diceva che questa piazza e solo questa piazza era casa sua”. La sorella, Bahija, ha aggiunto che "fino a due mesi fa non stava male, sì gli piaceva vivere all'aperto, in una casa soffocava. Ma solo da poco stava male a livello psichico, non so cosa sia successo". Sulle dinamiche di quanto accaduto davanti al bar Ligure mancano ancora alcuni dettagli. Adriatici ha raccontato ai magistrati che il colpo di pistola sarebbe partito dopo una spinta. Due testimoni, riporta l'Agi, avrebbero riferito che la vittima avrebbe lanciato una bottiglia di birra addosso ad Adriatici il quale avrebbe poi chiamato la polizia per fermare le sue "intemperanze". Sentita la telefonata, El Boussetai lo avrebbe spinto. Da lì il colpo di calibro 22 che l'ha colpito al torace. Nonostante vivesse come un senzatetto, la vittima manteneva un contatto con i familiari, tutti cittadini italiani, che abitano in altre città (“lo abbiamo portato tante volte a casa” ma “lui preferiva, si sentiva più tranquillo a dormire sulle panchine”). Ieri la sorella è intervenuta in diretta a Zona Bianca condotto da Giuseppe Brindisi su Rete4. “Gli hanno sparato in piazza davanti a tantissime persone - ha detto - L'assassino si trova a casa sua, dorme bello riposato. Dove è la legge in questa Italia?". La donna non si spiega come mai Adriatici avesse "la pistola carica". E sopratutto è convinta di una cosa: "Massimo Adriatici ha compiuto un omicidio volontario". "È stato ammazzato un innocente - ha aggiunto - andrò avanti a chiudere giustizia perchè Adriatici ha sparato con l'intenzione di ucciderlo, l'ha colpito al cuore". Bartolo Dall'Orto

Voghera, l'assessore aggredito dalla vittima: gli istanti prima della sparatoria. Da repubblica.it il 22 luglio 2021. A cura di Sandro De Riccardis. Il video di una telecamera di videosorveglianza mostra il momento in cui l’assessore Massimo Adriatici e il marocchino Youns El Boussetai litigano vicino al bar Ligure a Voghera. Il marocchino si avvicina, l’assessore mostra la pistola e sembra tirarla fuori dai pantaloni, mentre parla al telefono con la polizia. Poi il 39enne dà una manata ad Adriatici che cade a terra. In quel momento sembra che il colpo non sia ancora sparato e che la vittima venga colpita quando il politico è già a terra.

Ucciso in piazza: pm chiede conferma domiciliari assessore. (ANSA il 22 luglio 2021) Il pm di Pavia, Roberto Valli, ha chiesto la conferma degli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, l'assessore che l'altra sera ha ucciso con un colpo di pistola un immigrato.

L'assessore steso da un pugno in faccia. Ecco il video dell'aggressione. Giuseppe De Lorenzo il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Dagli atti dell'inchiesta sui fatti di Voghera spunta un video: si vede Younes El Boussettaoui colpire Massimo Adriatici. Poi il colpo di pistola. Che gli investigatori stessero setacciando le telecamere intorno a piazza Meardi, a Voghera, era ovvio. Eppure ieri vi era il timore che dai video non potesse emergere nulla di chiaro. Invece oggi, colpo di scena: una telecamera c’era, ed era puntata proprio sul teatro della tragedia. Agli atti dell’inchiesta, infatti, è stato depositato un filmato in cui si vede chiaramente Younes El Boussettaoui colpire con un pugno l'assessore leghista Massimo Adriatici. I frame sono abbastanza chiari. Si vedono i protagonisti in piazza, uno distante dall’altro. Adriatici tira fuori qualcosa dalla tasca mentre Younes si avvicina. L’assessore ha il telefono all’orecchio, i due sembrano discutere, poi all’improvviso il 39enne di origini marocchine sferra un pugno verso il rivale. Il resto della scena è parzialmente coperta da un edificio, ma si nota Adriatici cadere in terra. La telecamera non riprende il momento esatto in cui l’arma esplode il colpo fatale. Il resto è cronaca: il senzatetto viene raggiunto da un proiettile calibro 22 al torace, viene soccorso dal 118, portato di corsa all’ospedale di Voghera. E lì muore. Adriatici, ex poliziotto e avvocato molto noto nel Pavese, si trova ora agli arresti domiciliari. Il video sembra confermare la sua deposizione resa di fronte ai carabinieri: "Stavo passeggiando in piazza Meardi - aveva spiegato - quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar. Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo". All’inizio ad Adriatici era stato contestato l’omicidio volontario, poi le accuse a suo carico si sono “alleggerite” ad un meno grave “eccesso colposo di legittima difesa”. La procura ha deciso di chiedere la conferma del fermo, sostenendo ci sia il pericolo di reiterazione del reato. Già sentito dai carabinieri la notte di martedì, subito dopo i fatti, dovrebbe essere interrogato di nuovo domani. Sulle indagini, però, pesano anche le dichiarazioni dei legali della famiglia della vittima, che accusano la procura di aver realizzato l’autopsia, irripetibile, senza prima avvisare i parenti. Intanto la politica continua a dividersi. Da una parte la sinistra, secondo cui è “folle” se un assessore che “va al bar si porta una pistola”. Dall’altra la Lega, subito schieratasi al fianco del suo militante. “Aspettiamo prima di assolvere o condannare qualcuno - dice Salvini - La certezza è che l'aggressore non doveva essere in Italia, probabilmente ora avrebbe la vista salva se fosse stato espulso come da numerose richieste non accolte”. E mentre Enrico Letta se la prende con le armi ai privati e Gad Lerner col Carroccio con la “vocazione” a sparare agli africani, da parte della famiglia della vittima partono comprensibili parole di fuoco. "Massimo Adriatici ha compiuto un omicidio volontario”, attacca Bahjia, sorella di El Boussetaoui. “Dicono che era un barbone, che era malato: e allora, le persone si uccidono per questo?”. Il dolore è tanto, la rabbia anche. “È stato ammazzato un innocente - prosegue - andrò avanti a chiudere giustizia perché Adriatici ha sparato con l'intenzione di ucciderlo, l'ha colpito al cuore”. Sulle condizioni della vittima, che alcuni residenti avevano definito “cattivo” e dedito a infastidire i passanti, la sorella spiega che “fino a due mesi non stava male” e solo “da poco” si erano presentati dei problemi “a livello psichico”. L’uomo, riferisce l’Agi, sarebbe stato sottoposto anche ad un Tso e per l’avvocato della famiglia, Debora Piazza, “ultimamente aveva davvero perso la testa”. “Era stato ricoverato per problemi mentali per circa tre settimane un mese fa all'ospedale di Vercelli - ha aggiunto la legale - dove purtroppo era riuscito a scappare per venire proprio in questa piazza perché lui diceva che questa piazza e solo questa piazza era casa sua”.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Top

Il caso dell'assessore leghista. Delitto di Voghera, si accende il dibattito politico. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Sull’assessore pistolero la Lega fa quadrato; un copione già visto. Matteo Salvini ricostruisce la dinamica: «Quello che sta emergendo in queste ore è che quello che purtroppo è morto aveva creato notevoli problemi di ordine pubblico per mesi in città. La vittima aveva aggredito colui che si è difeso, lascio che la giustizia faccia il suo corso». Enrico Letta, che quotidianamente “marca a uomo” Salvini, risponde subito: «Oggi a Voghera un uomo è morto, per colpa di una pistola. È un giorno triste. Saranno inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Nessuno si sostituisca a loro». E a ruota la vice segretaria del Pd, Irene Tenagli: «Sulle dinamiche dell’omicidio di Voghera faranno luce le indagini. Sul fatto che un assessore, un rappresentante delle Istituzioni, giri per la città con una pistola in tasca penso sia necessaria una riflessione politica seria». E si apre così il tema vero: quali e quante armi girano in Italia? A chiederselo è ancora Letta. «In giro con le armi devono andare solo poliziotti e carabinieri». Dello stesso avviso Laura Boldrini, sotto le insegne del Pd: «Su Voghera bisogna attendere le indagini. Salvini invece ha già assolto Adriatici perché è del suo partito. Mi chiedo come mai un assessore giri armato. E soprattutto: sarebbe finita così se non avesse avuto una pistola? Questo accade quando circolano le armi», dichiara l’ex presidente della Camera. Il senatore di Leu, Francesco Laforgia, rincara: «Quanto accaduto a Voghera è agghiacciante. Al di là di tutte le indagini che si potranno e dovranno fare resta un fatto inquietante che un assessore, un rappresentante delle istituzioni, possa girare armato in una pubblica piazza. Solo per questo ne andrebbero pretese le dimissioni immediate. Invece Salvini dimostra una volta di più la propria indecenza giustificando quanto accaduto e derubricandolo a “legittima difesa”. Vergognoso che anche di fronte alla morte di una persona non si trovi la serietà per esprimere parole di condanna. La Lega non conosce dignità». Il Movimento ci salta su. «Su Voghera sarà la magistratura, non la politica, a valutare se si tratta di legittima difesa o no. Ma è importante che non passi l’idea, neanche strisciante, che nel nostro Paese sia possibile farsi giustizia da soli con una pistola. Dell’ordine pubblico se ne occupano le forze dell’ordine». Lo dice il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia. Il deputato pentastellato Aldo Penna: «Se un uomo di origine marocchina avesse sparato in piazza ad un assessore leghista, oggi nessuno nel partito di Salvini starebbe parlando, a giusta ragione, di legittima difesa. Senza entrare nel merito di ciò che spetta agli inquirenti, trovo allarmante e pericoloso lo scudo politico che si è immediatamente creato attorno a Massimo Adriatici, l’assessore che inspiegabilmente si muoveva in città con una pistola in tasca, come se questo rientrasse nella normalità delle cose». L’emittente americana Nbc News rilancia la notizia oltreoceano: «Polemiche aspre in seguito al gesto di un esponente dell’estrema destra in Italia». In tutta Europa risuona l’eco della notizia. Euronews telegrafa: «Un assessore della Lega spara e uccide un Marocchino». Anche il mondo arabo si interroga sulla dinamica dell’accaduto, con Arab News che riassume: «Politico di destra italiano uccide un arabo». Il potere della sintesi.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Letta & Co. sparano sulle armi. Andrea Indini il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Pd politicizza il caso Voghera: "Stop alle armi". Ma il colpevole non è la pistola in sé, che è solo uno strumento. Spetta alle toghe dire se Adritici si è solo difeso o se ha avuto una reazione eccessiva. Scrive Enrico Letta: "Una cosa dobbiamo e possiamo farla: stop armi private". Il commento, affidato a Twitter qualche ora dopo l'esplosione delle polemiche legate alla drammatica sparatoria di Voghera, è intriso della stessa ideologia pacifista che negli Stati Uniti ammanta la crociata dei democratici contro i repubblicani. Il colpevole non è mai la pistola in sé, che altro non è che uno strumento. Questa, infatti, può essere usata sia per difendersi sia per aggredire. Ed è qui che entra in campo la giustizia: il suo compito sarà appunto quello di accertare perché l'assessore alla Sicurezza, Massimo Adritici, ha premuto il grilletto contro il 39enne marocchino Youns Boussetaoui. Non a caso, compiute alcune attività istruttorie, il magistrato incaricato ha deciso di "ammorbidire" l'accusa: non più omicidio volontario ma eccesso colposo di legittima difesa. Insomma, checché ne dicano i progressisti, che vorrebbero Adriatici già rinchiuso in galera, il processo deve essere ancora scritto e non può essere usato politicamente per attaccare Salvini e la Lega, sotto accusa ora per aver "fomentato il clima d'odio" e la "violenza verbale", o limitare l'uso delle armi che in Italia è già pressoché inesistente. A Voghera le opposizioni al Consiglio comunale stanno valutando se presentare una mozione di sfiducia rivolta non solo ad Adriatici (già autosospeso) ma anche (non si capisce bene il perché) al sindaco Paola Garlaschelli. "Le sta sfuggendo la gestione della propria Giunta, che comunque si è scelta", è l'accusa che le viene mossa contro dalla capogruppo piddì, Ilaria Balduzzi. Anche a livello nazionale la caccia alle streghe è partita di gran carriera. Il Carroccio ha subito fatto quadrato (prima con l'eurodeputato pavese, Angelo Ciocca, e poi con Matteo Salvini in persona) invitando tutti a rispettare il lavoro degli inquirenti che stanno cercando di capire se sia stata eccessiva o no la difesa messa in atto dallo sparatore. "Letta ha già deciso che è colpevole e ovviamente è colpa mia, a prescindere...", ha commentato oggi il leader leghista contrario a far passare per "macellaio ed assassino" una persona "che ha semplicemente difeso se stessa e i suoi concittadini". Una prima ricostruzione dei fatti ha messo in luce l'ubriachezza molesta del marocchino che, all'interno del locale, avrebbe a più riprese infastidito i clienti. Adriatici sarebbe intervenuto proprio per invitarlo a darsi una calmata e a levare le tende. Ne sarebbe, quindi, nato un alterco durante il quale sarebbero volati una bottiglia di vetro e pure qualche spintone. In questa baraonda, l'assessore sarebbe finito a terra e inavvertitamente avrebbe sparato il colpo fatale per il marocchino. L'esame balistico accerterà la traiettoria e la veridicità del resoconto. I testimoni, però, devono già aver confermato la ricostruzione del leghisto visto che, come abbiamo scritto all'inizio dell'articolo, l'imputazione è stata ammorbidita. "Youns El Boussetaoui era una persona cattiva - spiegano all'Agi alcuni vogheresi - in città è conosciuto perché importunava le persone e faceva gesti violenti. Una volta aveva rotto la vetrina di un bar". Di precedenti, infatti, il nordafricano (pregiudicato e irregolare) ne aveva davvero una sfilza. A guardare il suo casellario giudiziale ce n'è davvero per tutti i gusti: reati contro il patrimonio, spaccio di sostanze stupefacenti, truffa, resistenza a pubblico ufficiale e minacce. Ma non è questo il punto. Altrimenti si finisce di fare il gioco di chi pensa, come Gad Lerner, che nella Lega "sparare agli africani è una vocazione". Una politica seria non demonizza la pistola in quanto tale. Si può, infatti, uccidere con mille altri armi improprie, in una infinità di modi inimmaginabili. Il compito di una politica seria è piuttosto circoscriverne l'uso all'interno di quello che è un sacrosanto diritto del singolo: la legittima difesa. Tocca, invece, al magistrato spetta verificare se l'imputato ha agito entro quel confine delimitato dalla legge. Per questo non ha alcun senso condannare, come fa per esempio Laura Boldrini, un assessore perché "gira armato". Come se la legge prevedesse che alcune categorie, con regolare porto d'armi, possano farlo e altre no. Per questo, ancora una volta, bisognerebbe abbassare i toni, evitando magari di trasformare Voghera in una terra di nessuno dove ci si spara quotidianamente per strada, e non premere l'acceleratore della propaganda per guadagnare un pugno di voti in più. "Quando qualcuno muore è sempre una sconfitta - ha fatto notare Salvini - ma prima di giudicare e condannare bisogna andare cauti".

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

"Sparano per vocazione". L'odio di Lerner sulla Lega. Giuseppe De Lorenzo il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. "Sparano per vocazione". L'odio di Lerner sulla Lega: "In quel partito sparare agli africani è una vocazione”. Non ce la fa mica Gad Lerner ad aspettare. Non dico la sentenza definitiva in Cassazione, quello è chiedere troppo. Ma almeno l’udienza preliminare o quella di convalida del fermo. No. Immaginate la scena: il comunista col Rolex (copyright credo Salvini) legge sui siti internet la notizia del giorno, ovvero la pistolettata tirata da un assessore ad un marocchino in mezzo alla strada. I dettagli della vicenda sono ancora vaghi. Lui, Massimo Adriatici, ha un regolare porto d’armi. La vittima, 39 anni, è conosciuto a Voghera per le piazzate nei bar, la lista di precedenti lunga mezzo metro e già sottoposto a Tso. Tecnicamente un senza fissa dimora, pregiudicato, su cui pendevano inviti a lasciare l’Italia. Martedì sera, verso le 23, i due litigano, vola una bottiglia, forse c’è una colluttazione, il marocchino avrebbe spinto Adriatici e - dice l’assessore - cadendo parte un colpo che colpisce la vittima al torace. Panico, 118, soccorsi, ospedale. Non c’è niente da fare. Youns El Boussetaoui muore. Ecco. Immaginatevi Gad a leggere questa notizia. Il suo sguardo si concentra su un solo dettaglio, mica indifferente, sia chiaro, però un dettaglio. Ovvero il fatto che l’uomo che aveva imbracciato la pistola è assessore alla Sicurezza della Lega, ex poliziotto, noto avvocato e storico militante del Carroccio. Il contesto lo conoscete: da sinistra partono subito gli attacchi, Salvini e i leghisti si schierano col collega di partito. È il più classico, ed orribile, vizio italiano di prendere posizione prima ancora che investigatori e inquirenti abbiano chiarito bene le dinamiche. In piazza Meardi ci sono delle telecamere, forse potranno dirci qualcosa. I magistrati hanno disposto diverse analisi, comprese quelle balistiche. E sul corpo di Youns dovranno fare l’autopsia. Ci possiamo fare delle domande, certo. Tipo: perché Adriatici aveva la pistola in mano? E perché era carica? Ma prima di sputare sentenze, non sarebbe meglio attendere? No. È che siamo fatti così, in Italia. Enrico Letta chiede l’abolizione del porto d’armi ai privati. Beppe Sala si aggrega. Mezza sinistra emette condanne definitive senza appello. E Gad Lerner mica poteva essere da meno. Infatti stamattina scrive questa cosa qui: “Vi ricordo che anche Luca Traini, il giustiziere di Macerata, era iscritto alla Lega”. E poi: “Dieci anni fa, dopo la strage di Utoya il deputato europeo leghista Mario Borghezio lodò le idee dell’attentatore”. E ancora: “Diciamo che in quel partito sparare agli africani è una vocazione”. Va bene che Twitter chiede sintesi, ma questa pare un tantino esagerata. Perché mescolare le pere con le mele, solo perché le hanno comprate due leghisti? Mi spiego: il caso Traini è una roba tutta a sé, legata alla faccenda di Pamela Mastropietro. Un crimine, certo, e il diretto interessato merita di starsene in cella. La strage di Utoya è lontanissima, e Borghezio risponde delle sue posizioni. Qui invece siamo di fronte a un caso di cronaca locale che con il “giustiziere di Macerata” o il terrorista di Utoya non c’entrano una mazza. Qui c’è solo da capire come sono andate le cose, attendere le indagini e solo dopo giudicare. Comunque la responsabilità (penale e civile) è sempre personale, lo sa questo Gad? Perché pure lui da giovane si accompagnava a santarelli ("tre persone perbene") del calibro di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Pietrostefani, gente condannata al carcere per l’omicidio Calabresi. Eppure nessuno s'è mai permesso di dire che nella sua cerchia di compari ammazzare commassari fosse una "vocazione". 

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. Che il colpo gli sia partito apposta o per caso, l'assessore alla Sicurezza del comune di Voghera girava per strada con una pistola in tasca. Parliamo di un uomo di legge che insegna diritto penale agli allievi della scuola di Polizia. Evidentemente il primo a non credere nelle istituzioni che rappresenta - e che addirittura istruisce - è lui. Non so voi, ma io non riuscirei a girare per strada con una pistola in tasca neanche a scopo dissuasivo. Un po' perché, lungi dal sentirmene rassicurato, avrei paura di farmi e fare del male (come se avessi un pungiglione velenoso al posto del naso). Un po' perché il confine tra coraggio e audacia, e tra audacia e incoscienza, è talmente sottile che una pistola in tasca ci spinge a varcarlo più facilmente. Ma soprattutto perché, fin dalle faticose traduzioni liceali dell'Orestea di Eschilo, la civiltà di cui faccio parte mi ha inculcato il principio che la forza va sottratta ai clan, alle famiglie, agli individui e affidata allo Stato, pur con tutti i limiti che comporta la sua copertura, sempre imperfetta e parziale. Capisco ancora il gioielliere: lavorare armato fa parte dei rischi di quel mestiere. Invece un privato cittadino o un politico che girano per strada con una pistola in tasca appartengono a una cultura che non è la mia. Ammiro gli Stati Uniti per tante altre cose, ma dopo gli uragani, i lavori precari e i procuratori sportivi, non vorrei importare da loro anche gli sceriffi e i cowboys.

Ma politicizzare la morte è sempre un errore. Claudio Brachino il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Voghera, un immigrato con precedenti aggredisce l'assessore leghista della città con delega alla sicurezza, parte un colpo, l'immigrato muore. Quando c'è una vita che se ne va è sempre una sconfitta, quindi non viene voglia neanche di fare metafore. Però la storia macroscopica accennata a grandi pennellate sembra opera di una maliziosa propaganda anti-leghista. Una tragedia certo ma anche una tempesta perfetta, politicamente parlando. Un manufatto ideologico servito dalla cronaca già ben confezionato, da usare come una clava contro un partito, contro il segretario Salvini, la sua visione dell'immigrazione, della sicurezza, la sua visione e re-visione della legittima difesa. Allora smontiamolo un po' questo manufatto. Innanzitutto il potere dei fatti, la ricostruzione è ancora lacunosa, ma finché non abbiamo un quadro completo, trarre slogan come il solito far West è trito e insieme azzardato. Poi c'è il potere delle immagini. Da un video si vede chiaramente l'immigrato atterrare l'assessore con un pugno. La colluttazione sembra andare avanti. La sequenza si interrompe e non si vede il momento dello sparo ma più che un far West sembra un'aggressione individuale, stop. Certo se il colpo è partito per sbaglio, c'è un quadro giuridico, se Adriatici ha sparato per difendersi i magistrati dovranno valutare quanta legittima difesa c'è stata. Però io credo che il focus semantico della vicenda non sia la legittima difesa. Un pubblico ufficiale, chiamato dallo Stato ad amministrare la sicurezza dei suoi cittadini, non gira armato a meno che non ci siano gravi giustificazioni. Questo assessore, lo diciamo con rispetto perché anche lui è coinvolto in una tragedia, non ha fatto un ottimo servizio al suo partito e alle battaglie del suo capo. Però il mondo è grande, l'umanità fatta di tanti tipi diversi, non è che su un errore individuale si debba per forza fare un processo ai rivali politici. Letta è tornato da Parigi tutt'altro che sereno e in ogni cosa vede un'occasione per attaccare Salvini . L'identità non si conquista però con l'ossessione del contrario, ma con una grammatica di valori, con una visione. A proposito di visione, questa storia triste è la sconfitta dell'accoglienza a tutti i costi. Il nostro tessuto sociale è pieno di figure che vagano senza lavoro, che delinquono, che molestano. Molto andrebbero curati psichiatricamente, come pare la vittima di questa storia. Molti possono diventare da un momento all'altro dei Kabobo, che ha ucciso a caso con il suo piccone, non per legittima difesa. Claudio Brachino

Ucciso in piazza: per indagato pericolo reiterazione. (ANSA il 22 luglio 2021) La procura di Pavia, che indaga sull'omicidio del cittadino di origini marocchine Youns El Boussettaoui, ha chiesto la conferma degli arresti domiciliari per l'assessore alla Sicurezza del Comune di Voghera Massimo Adriatici per il pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Domani il politico comparirà davanti al gip. (ANSA).

Da ansa.it il 22 luglio 2021. Agli atti dell'inchiesta sull'omicidio del 39enne di origini marocchine Youns El Boussettaoui c'è un video, ripreso da una telecamera di sorveglianza, in cui l'immigrato avvicina l'assessore leghista Massimo Adriatici e, dopo una breve discussione, lo colpisce con un pugno. Le immagini mostra l'assessore cadere a terra, ma non il momento in cui spara alla vittima. Subito dopo lo si vede rialzarsi ed essere avvicinato da un paio di persone. Dal video non è chiaro, invece, il momento in cui Adriatici, ora ai domiciliari per eccesso colposo di legittima difesa, impugna l'arma. "La mia bambina mi ha chiesto: 'come è uscito quel colpo?'. Se capisce una bambina come non possono capirlo i magistrati": è la sorella di Youns El Boussettaoui, l'uomo ucciso in piazza a Voghera dall'assessore alla Sicurezza Massimo Adriatici che si trova ai domiciliari, intanto a parlare. Lo sfogo della donna avviene davanti al bar dove è accaduto l'omicidio. "Era mio fratello - racconta - Pensate se avessero ucciso un fratello vostro". "Vogliamo giustizia - aggiunge suo marito - Giustizia, e che sia giustizia per tutti". "Gli hanno sparato in piazza - ha detto la donna a Zona Bianca su Retequattro - davanti a tantissime persone. L'assassino si trova a casa sua, dorme bello riposato. Dove è la legge in questa Italia? ", "ma siamo in Italia o in una foresta?" ha detto in lacrime. "Aveva un fucile, aveva una pistola in mano mio fratello? Rispondetemi! No, mio fratello non aveva nessuna arma in mano. È stato ammazzato - ha aggiunto - davanti alle persone e questa persona si trova a casa sua. Io voglio sapere se qua in Italia ammazzare o sparare è una cosa legale". Sapeva che Youns dormiva per strada. "Si sente più tranquillo a dormire sulle panchine. L'altro giorno l'ha visto mio marito, è venuto a prenderlo" ha raccontato. Comunque la famiglia ha cercato di aiutarlo: "Abbiamo chiamato i carabinieri a Livorno Ferraris (in provincia di Vercelli, ndr), possono testimoniare. L'abbiamo portato all'ospedale ma è scappato dall'ospedale. I carabinieri di Livorno Ferraris hanno chiamato i carabinieri di Voghera per poter prendere Youns, non perché fa male a qualcuno, è per lui, per difendere mio fratello". Youns El Bossettaoui "andava curato, non ucciso, perché non faceva male a nessuno ed era malato", ha detto l'avvocato Debora Piazza che con il collega Marco Romagnoli difende i familiari dell'immigrato ucciso in piazza a Voghera dall'assessore alla Sicurezza Massimo Adriatici. "Non siamo nemmeno stati avvisati dell'autopsia - ha spiegato il legale - perché pensavano non avesse parenti che invece sono tutti italiani". "Se uno ha il porto d'armi come accade a 1,3 milioni di italiani certificati da questura e prefettura, sì", è normale andare in giro con un'arma. Così il leader della Lega, Matteo Salvini ha risposto a una domanda di Agorà su Rai 3, sulla vicenda di Voghera che ha coinvolto un assessore leghista. Incalzato sulla 'opportunità' di andare armati ad esempio al bar, Salvini ha aggiunto: "Allora bisogna prendersela con questori e prefetti di mezza Italia che dopo lunghe e severe indagini, concedono il porto d'armi, che è sempre l'ultima delle vie di uscita".

Fabio Poletti per "la Stampa" il 22 luglio 2021. Gli piaceva quando lo chiamavano «lo sceriffo di Voghera». Da ex poliziotto, figlio di poliziotto, amava andare in giro pure armato, mica un pistolone come gli sceriffi dei film, appena una pistoletta calibro 22 da cui non si separava mai. Nemmeno l'altra sera, quando con un colpo secco ha ammazzato il marocchino Youns El Bossettaoui, 38 anni, moglie e due figli. In quel gesto, in quell'attimo, c'è tutta la filosofia di vita di Massimo Adriatici, 47 anni, avvocato, docente universitario, assessore leghista alla Sicurezza del Comune di Voghera, eletto nel 2020 con 115 preferenze. «Uno che si prendeva molto sul serio. Negli ultimi mesi aveva preso ad andare in giro nelle zone calde della città per tenere d'occhio la situazione», racconta un consigliere comunale, di opposizione, che non vuole apparire. E fa niente, se in un'intervista alla Provincia Pavese nel 2018, l'assessore parlando di legittima difesa aveva detto: «L'uso di un'arma deve essere giustificato da un pericolo reale. Ma questo non significa farsi giustizia da soli. Sparare deve essere l'extrema ratio, l'ultima possibilità da mettere in atto se non ne esistono altre». Basta il curriculum politico dell'assessore con la pistola, per rendersi conto di quanto si prendesse sul serio. Qualche mese fa, sull'onda della sua percezione di città perduta tipo Gomorra - Voghera viene detta la città delle tre P, per i peperoni, le puttane e i pazzi a cui vanno aggiunte le casalinghe di Alberto Arbasino - aveva convocato addirittura un Comitato provinciale per l'Ordine e la Sicurezza Pubblica senza avvisare il Prefetto, che guida l'organismo e che non l'aveva presa benissimo. Il capo della Polizia Locale di Voghera invece se ne era andato a Vigevano, senza nemmeno il saluto alla città, per le troppe interferenze dell'assessore che voleva supervisionare pure la dislocazione delle pattuglie. La sua grande passione erano poi le telecamere. Le due della piazza dove ha ucciso un uomo, l'altra sera, siccome sono mobili, erano rivolte su un'altra strada, riprendendo nulla della rissa e poi dello sparatore. Rivelandosi dunque inutili. Nell'ottobre del 2020 si era inventato il Daspo urbano contro accattonaggi e bivacchi. I primi due ad essere colpiti erano stati mendicanti, colti in flagrante in piazza Duomo a Voghera. Ma l'ultima sua iniziativa era contro la malamovida, con divieto di somministrazione di bevande alcoliche dopo le 22. Cosa che ha portato il proibizionismo in città, con i market che fanno affari d'oro vendendo a un euro le birrette da consumare per strada. Il più ricco consigliere comunale con 137 mila euro e rotti di reddito, Massimo Adriatici raccoglie consensi, ma non solo. Federico Taverna assessore leghista lo difende: «Condannare l'episodio? Non faccio io le condanne, spiace per la situazione che si è creata ma vediamo come si è creata». Esce dal coro Nicola Fronti dell'Udc, all'opposizione: «Quello che è successo è frutto della esacerbazione di certi fatti interpretati dall'amministrazione comunale». A tutti faceva sapere di essere docente di Diritto penale presso la scuola allievi agenti di polizia di Alessandria e professore a contratto di Diritti processuale penale all'Università del Piemonte Orientale fino al 2017. L'Ateneo ne parla come di un docente preparato. Qualche studente ricorda i suoi esempi a lezione, quando a commettere un ipotetico reato era sempre uno straniero, la preferita una domestica rumena. O uno straniero come Youns El Bossettaoui che ha poi finito per uccidere.

"Colpo accidentale" ma la pistola era impugnata e, soprattutto, senza sicura. Omicidio Voghera, Salvini diventa inquirente e scagiona assessore della Lega: “E’ legittima difesa, vittima era già nota”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Da una parte un assessore alla sicurezza in quota Lega, Massimo Adriatici, che nella serata di martedì 20 luglio, intorno alle 22, ha ucciso con un colpo d’arma da fuoco a Voghera un uomo di 39 anni, Youns El Boussetaoui, di origine marocchina e irregolare sul territorio italiano al termine di una lite tutta da chiarire. Dall’altra il leader del suo partito, Matteo Salvini, che lo difende a prescindere solo perché la vittima “era già noto in città e alle forze dell’ordine per violenze, aggressioni e atti osceni in luogo pubblico”. L’ex ministro dell’Interno diventa anche inquirente e in un video diffuso sui social allontana l’ipotesi del “Far West“, con Adriatici (“docente di diritto penale, ex funzionario di polizia, avvocato penalista noto e stimato in città”) che gira per le strade armato di una pistola (legalmente detenuta) e in passato ha più volte chiesto il daspo urbano per i senzatetto, e apre alla “legittima difesa” perché l’assessore sarebbe stato vittima di un aggressione con il colpo partito in modo “accidentale” dalla sua pistola mentre stava cadendo dopo aver ricevuto “uno spintone” dal 39enne. E’ questa la versione fornita dallo stesso Adriatici ai carabinieri di Pavia che indagano sull’omicidio. La pistola tuttavia era impugnata e, soprattutto, senza sicura. Al momento l’assessore si trova agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio volontario. La vittima, raggiunta da un proiettile all’emitorace destro davanti a un bar in piazza Meardi, è stata soccorsa alle 22.17 dai sanitari del 118 e trasportata all’ospedale di Voghera. Il decesso è avvenuto nella notte in seguito alle gravi ferite riportate “in pieno petto, sopra il capezzolo sinistro”. Secondo quanto accertato dai Carabinieri, il 39enne poi ucciso da Adriatici avrebbe avvicinato, in stato di alterazione (sarà l’autopsia a fare chiarezza sull’eventuale assunzione di doghe e alcolici), degli avventori. L’assessore ha visto tutto ed è intervenuto chiamando, nel frattempo, anche le forze dell’ordine. La situazione è degenerata prima dell’arrivo dei militari, con Adriatici che avrebbe avuto una discussione con Youns El Boussetaoui. Non è chiaro se sia stato spintonato o meno, saranno le immagini delle eventuali telecamere presenti nella zona a fare chiarezza così come le testimonianze delle persone presenti. Al momento, tuttavia, i carabinieri non hanno confermato quanto dichiarato dall’eurodeputato leghista, Angelo Ciocca, secondo cui “se non fosse stato per un uomo lì presente, assessore leghista, già appartenente alle forze dell’ordine in passato pronto a intervenire a difesa di una ragazza molestata da un marocchino, probabilmente ora staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 23 luglio 2021. La vittima agonizzava, destinata a morire in ospedale entro due ore, e l'ex poliziotto avrebbe fatto un'unica chiamata, a un telefono fisso del commissariato, non già al 112 come ogni comune cittadino; e al telefono avrebbe parlato di una lite, nient' altro che una classica lite da bar con un perditempo, ma siccome in quel commissariato mancavano pattuglie libere, gli agenti avevano girato l'intervento ai carabinieri i quali, proprio in considerazione della tipologia della segnalazione, avevano inviato una sola macchina. Lo scenario ricostruito dal Corriere , al netto di cosa sarà l'iter giudiziario, racconta la convinzione di Adriatici d'essere uno comunque organico alla polizia, in virtù del passato da sovrintendente ma forse soprattutto del presente: dai vertici locali delle forze dell'ordine, la sindaca Paola Garlaschelli, della quale ora si comprende la reiterata astensione da approfonditi commenti pubblici, aveva ricevuto più segnalazioni sui comportamenti del suo assessore, della pretesa di insegnare il mestiere a ufficiali e dirigenti con convocazioni manco fosse lui al posto loro, e di quell'abitudine conclamata di circolare armato. Del resto, nelle immediate fasi successive all'omicidio, Adriatici ha ammesso di avere la pistola carica: «Io giro sempre con il colpo in canna». Una necessità dovuta alle azioni di controllo sulla pace e serenità di Voghera: «Verifico che tutto sia a posto e i cittadini stiano tranquilli». Una ronda, così da ovviare lui alle mancanze, come da suo convincimento, di Prefettura, agenti, carabinieri. Se nei colloqui con i propri legali l'assessore non arretra rispetto alla versione resa al pm e da subito ai carabinieri («Ero spaventato, quell'uomo mi ha spaventato...»), nessuno può certificare una dinamica anziché un'altra. Bisogna capire se abbia esibito la pistola prima di ricevere il colpo a mano aperta in una fase di «dissuasione» (ma a che titolo?) dalle molestie ai clienti del bar; dopodiché, e arriviamo al tema centrale, qual è stata l'origine dello sparo? Un proiettile accidentale nella caduta successiva a una seconda aggressione (la spinta a terra), oppure la conseguenza di attimi di preparazione per puntare e far fuoco? Che la pistola fosse armata l'ha dichiarato per l'appunto Adriatici, uno abituato a un'interpretazione assai attiva della missione politica: camminare, ascoltare, respirare gli umori della gente, ed è vero; come è vero però che senza la sua calibro 22 nemmeno andava in pizzeria, più perfino nelle vesti di auto-proclamatosi tutore dell'ordine anziché dello «sceriffo», nome di battaglia in cui crede, convinto d'avere agito secondo ragione e regole. S'ignora per quale motivo mai la sindaca non abbia voluto adottare provvedimenti, nell'eventualità di una degenerazione per la quale, si temeva, era soltanto una questione di tempo. Si confermano eventuali inesistenti minacce subìte in passato da Adriatici come avvocato e come assessore tali da legittimare la pistola. Men che meno ha mai rappresentato una minaccia diretta El Boussettaoui. Nessuno scontro pregresso, nessun conto in sospeso, anche se il leghista, pur non direttamente «convocato» martedì sera da qualcuno sul proprio cellulare, era aggiornato, grazie alla rete di commercianti amici e tifosi, delle recenti gesta dell'immigrato e forse aveva ricevuto la dritta che potesse essere al bar. Lì l'ha incrociato, ha consigliato (ordinato) di smetterla, l'altro ha proseguito, lo scenario è peggiorato ma Adriatici non si è allontanato per proteggersi e avvertire i soccorsi, intesi come il 112; e anche avvenuta la seconda fase, conclusasi con lo sparo, la chiamata è rimasta quella al commissariato. A un numero fisso. Saranno i periti, attraverso per cominciare la misurazione tra foro d'entrata e linea di tiro, a stabilire la posizione (se steso o in piedi) di Adriatici, fedele a quella calibro 22 per la maneggevolezza e le dimensioni ridotte, quasi a passare inosservata e garantirgli l'effetto sorpresa nelle ronde a casa sua, cioè l'intera Voghera.

Delitto di Voghera, un teste contro l’assessore sceriffo: "Ha preso la mira e poi ha sparato". Estratto dell’articolo di Brunella Giovara e Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 24 luglio 2021. C'è un testimone diretto della morte del marocchino Youns El Boussettaoui, ucciso martedì sera dall'assessore Massimo Adriatici con un colpo di pistola al cuore. Quest' uomo racconta una scena del delitto vista da molto vicino, e soprattutto dice che l'avvocato avrebbe «preso la mira» e poi sparato. Ecco il suo racconto. «Ho visto un signore italiano che stava parlando al telefono, Youns lo ha spinto e l'italiano è caduto in terra sulla schiena. A quel punto, mentre era sdraiato, ha estratto la pistola dal fianco e gli ha sparato un colpo a sangue freddo. Dopo essere stato colpito, Youns è corso via con la mano sulla pancia e poi è caduto a terra». (…)

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 24 luglio 2021. Quel colpo partito dalla calibro 22 di Massimo Adriatici non è stato accidentale. «Uno sparo consapevole», secondo i pm della Procura di Pavia che hanno indagato l'assessore alla sicurezza del Comune di Voghera per eccesso colposo di legittima difesa. Martedì sera, davanti a un bar in piazza Meardi, il politico leghista ha ucciso Youns El Boussettaoui, 38 anni, vari precedenti ed equilibrio mentale instabile, tanto da essere sottoposto a un Tso. Già il giorno prima aveva dato in escandescenze e Adriatici, che ha assistito alla sua esibizione con i pantaloni abbassati, ha chiamato le forze dell'ordine. La sera dopo si sono ritrovati di nuovo uno di fronte all'altro: l'assessore ha premuto il grilletto, ma ad alleggerire l'accusa iniziale di omicidio volontario contestatagli con l'arresto dei carabinieri in flagranza di reato sono intervenute alcune attenuanti psicologiche. Il marocchino l'ha colpito con un pugno in faccia, Adriatici ha perso gli occhiali, è andato in confusione. Ieri l'assessore - che è agli arresti domiciliari ed è «un uomo distrutto», assicurano i suoi legali - è stato interrogato per tre ore dal gip Maria Cristina Lapi: «Non ho un ricordo preciso, non so come sia partito il colpo», si è difeso. «Stavo passeggiando in piazza - è la sua ricostruzione - quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar. Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo». I suoi avvocati sostengono che l'assessore non sia andato a cercare il marocchino, per controllare che non si ripetesse quanto accaduto la sera precedente: «Non ha fatto lo sceriffo, ma l'esatto contrario. Ha chiamato le forze dell'ordine». E proprio mentre lo stava facendo El Boussettaoui si è avvicinato e gli ha dato «un violento schiaffone che gli ha procurato una profonda ferita all'arcata sopraciliare», spaccando gli occhiali oltre a causare «un grande turbamento» che non gli consente di ricordare con esattezza la dinamica. Ma ci sono due dettagli, che irrilevanti non sono. Il primo: Adriatici girava per la città armato e con un colpo in canna. «Aveva fatto richiesta di porto d'armi per delle situazioni di pericolo rappresentate alle autorità competenti e ritenute sussistenti, tant' è che gli è appena stato rinnovata la licenza», spiegano i suoi avvocati. Quanto alla pistola pronta a sparare, quando una persona come l'assessore «è sottoposta a un addestramento da poliziotto e si porta dietro un'arma, sa che se si trova in una situazione di pericolo può andare in panico». Invece, se toglie la sicura, «può sparare senza stress e non fare ulteriori attività che accorciano i tempi». Nel video sulla morte di Youns El Boussetaoui ripreso da una telecamera di sicurezza ed elaborato con tecniche di maggiore definizione emergerebbe un «dettaglio importante» e la Procura ha disposto una consulenza affidata a un ingegnere informatico. Altro punto cruciale all'esame dei pm è la telefonata fatta da Adriatici quando la sua vittima è caduta a terra: ha chiamato il commissariato e non il 112. Le volanti però erano tutte impegnate e sono arrivati i carabinieri, ora titolari delle indagini. La domanda è: perché l'assessore ha telefonato a un numero fisso e non d'emergenza? Adriatici è un ex poliziotto, figlio di un ex agente, e forse questo spiega la sua consuetudine con gli ambienti commissariali. Oggi il gip deciderà sulla convalida dell'arresto.

Il mistero della telefonata: Adriatici interrogato per 3 ore. Giuseppe De Lorenzo il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Interrogatorio di garanzia per Massimo Adriatici davanti al gip di Pavia: il giudice dovrà decidere se confermare o meno i domiciliari. Di buon mattino Massimo Adriatici è arrivato al Palazzo di giustizia di Pavia per l’interrogatorio di garanzia. L’assessore alla sicurezza, dalla cui pistola è partito il colpo che ha ucciso Youns El Boussetaou martedì sera a Voghera, ha risposto per tre ore alle domande del gip Maria Cristina Lupi. La procura, che ha già “derubricato” le accuse da “omicidio volontario” a “eccesso colposo di legittima difesa”, ieri dopo qualche tentennamento ha deciso di chiedere la conferma dei domiciliari. Adriatici, sostiene il pm, potrebbe infatti reiterare il reato o inquinare le prove. Gli inquirenti hanno passato gli ultimi tre giorni insieme ai carabinieri a cercare di ricostruire le dinamiche dell’accaduto. Quello che sappiamo, per ora, è abbastanza ma non tutto. Conosciamo intanto la versione di Adriatici: “Stavo passeggiando in piazza Meardi - ha spiegato - quando ho notato quell'uomo infastidire i clienti di un bar. Mi sono avvicinato, l'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo”. Abbiamo anche visto il video, depositato agli atti del pm, in cui si nota chiaramente il 39enne di origini marocchine colpire con un pugno (o una manata) al volto l’assessore di Voghera. Le immagini sembrano avvalorare il racconto di Adriatici, così come le deposizioni di due testimoni oculari. Occorre però ancora chiarire alcuni dettagli: quando è partito il proiettile calibro 22? E l'assessore ha premuto il grilletto o è stato un fatto accidentale? Dettaglio non di poco conto. C’è poi da approfondire la questione della telefonata alla polizia. Secondo il Corriere e La Provincia Pavese, nei momenti più caldi della discussione con Youns, Adriatici avrebbe telefonato ad un numero fisso e non al 112. Le volanti però non si sarebbero mosse, visto che tutte le pattuglie del commissariato erano occupate, sostituite sul posto dai carabinieri, ora titolari delle indagini. In molti si pongono una domanda: perché l’assessore avrebbe telefonato ad un numero fisso? Adriatici è un ex poliziotto, sovrintendente figlio di un ex agente, e forse questo spiega la familiarità con gli ambienti commissariali. Mentre altri concentrano l'attenzione su un altro interrogativo, chiedendosi come mai girasse col colpo in canna per il paese di martedì sera. Va detto che Adriatici detiene regolarmente la pistola ed ha il porto d'armi. Il primo round processuale comunque è un altro. Il Gip dovrà decidere se accogliere la richiesta del pm, e cioè la conferma dei domiciliari, oppure se rilasciare Adriatici. È possibile, infatti, che i legali dell’assessore chiedano la revoca degli arresti. Sul corpo della vittima è stata già effettuata l’autopsia, con tanto di proteste da parte dei familiari che accusano la procura di non averli avvisati dell’esame autoptico. Fonti dei soccorritori a LaPresse hanno spiegato che Youns è stato raggiunto dal proiettile al torace, provocando una ferita penetrante all’emitorace destro. Per La Provincia Pavese non sarebbe stato trovato un foro di uscita, mentre sarà la perizia balistica a certificare da quale distanza (e soprattutto angolazione) è stato esploso il colpo: la traiettoria potrebbe confermare, o smentire, il racconto di Adriatici sul proiettile partito mentre stava cadendo. Sono invece ancora in corso le analisi tossicologiche, che potrebbero chiarire se l’uomo fosse sotto effetto di alcol o droghe. “Ultimamente aveva davvero perso la testa”, ha detto l’avvocato Debora Piazza che difende i familiari. Una dichiarazione che sembra confermare quanto riportato da alcuni cittadini in questi giorni, secondo cui il 39enne era un uomo “cattivo” dedito a infastidire i passanti. Di certo vantava un curriculum di precedenti non indifferente ed era irregolare sul territorio italiano, con ordini di espulsione mai eseguiti. Intanto sulla cronaca la politica si divide. La Lega difende il suo assessore, che ha rimesso il mandato nelle mani del sindaco Paola Garlaschelli e si è auto-sospeso. Da sinistra invece fioccano accuse contro un atteggiamento da Far West. I familiari Youns dal canto loro promettono battaglia: “Bisogna dire le cose come stanno - ha detto l’avvocato Debora Piazza - Youns è stato ammazzato da un assassino senza motivo”. La pensa allo stesso modo la sorella Bahija.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo.

"Il colpo? Non so. Ecco perché non c'era la sicura". Luca Sablone il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Massimo Adriatici aveva il colpo in canna "per non andare in panico in caso di pericolo". E adesso nel video spunta un nuovo "dettaglio importante". "Non ho un ricordo preciso, non so come sia partito il colpo". Sarebbero state queste le parole di Massimo Adriatici, secondo quanto riferito dai suoi legali, davanti al gip. L'assessore alla Sicurezza del comune di Voghera - che si è autosospeso dall'incarico fino all'esito del giudizio che lo vede indagato - non avrebbe dunque un ricordo del tutto limpido rispetto a quanto realmente accaduto la sera di martedì 20 luglio, quando dalla sua calibro 22 è partito il colpo fatale che ha ucciso Youns El Boussetaoui. Gli stessi legali di Adriatici, riporta l'Agi, hanno fatto sapere che l'uomo "è distrutto, profondamente dispiaciuto", anche perché si tratta di "una persona normale che non ha mai avuto un appunto nella sua carriera professionale". La sua sofferenza è umanamente riconducibile alla presenza di una vittima e di un procedimento penale in corso. "Soprattutto è distrutto nel vedersi descritto dai media come uno sceriffo. Abbiamo cercato di bloccargli l'accesso ai media", hanno aggiunto i legali. Che giudicano l'assessore "vittima di una violenza improvvisa e inaudita che l'ha fatto cadere a terra, procurandogli uno stato di confusione e delle lesioni riscontrate dal medico legale incaricato dal pm".

Perché il colpo era in canna? La domanda che in molti si fanno riguarda il motivo per cui Adriatici stesse girando in strada con una pistola, per giunta carica. A spiegarlo sono stati i suoi avvocati: "Aveva sempre il colpo in canna perché, quando uno è sottoposto a un addestramento da poliziotto e si porta dietro un'arma, sa che se si trova in una situazione di pericolo può andare in panico". Invece, se si toglie la sicura, "puoi sparare senza stress e non fare ulteriori attività che ti portino via del tempo". "Adriatici non è uscito per andare a cercare El Boussettaoui", ha chiarito l'avvocato Gabriele Pipicelli. Come in altre circostanze, ha spiegato il legale, l'assessore ha girato con l'arma nella propria tasca "perché aveva fatto richiesta di porto d'armi per delle situazioni di pericolo della persona che erano state rappresentate alle autorità competenti e che le autorità aveva ritenuto sussistenti, tant'è che gli era appena stato rinnovato il porto d'armi".

La versione di Adriatici. Adriatici ha già fornito la sua versione dei fatti. Stava passeggiando in piazza Meardi quando ha notato lo straniero infastidire i clienti di un bar. A quel punto, stando all'Adnkronos, si sarebbe avvicinato per tentare di placare gli animi: "L'ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia. Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo". Solo le indagini dell'Arma chiariranno meglio le dinamiche. La procura di Pavia sta lavorando sull'ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa.

Spunta un nuovo video. Da fonti investigative, scrive l'Agi, si apprende che da una visione del video sulla morte di Youns El Boussetaoui - elaborata con tecniche di maggiore definizione - emergerebbe un "dettaglio importante", non visibile invece dal filmato originale. Tuttavia al momento non è ancora noto quale sia questo aspetto che gli inquirenti ritengono significativo per la ricostruzione della vicenda. Nel frattempo la procura ha disposto una consulenza affidata a un ingegnere informatico. Il gip di Pavia Maria Cristina Lapi si è riservata di decidere sulla richiesta avanzata dalla procura di Pavia di confermare gli arresti domiciliari a Massimo Adriatici. È probabile che - vista la delicatezza del caso - sfrutti tutto il tempo a disposizione (fino alle ore 15 di domani pomeriggio), anche se non è da escludere che possa notificare il provvedimento alle parti già in serata.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura.

Cambia versione Adriatici. Omicidio Voghera, l’assessore-sceriffo “non ricorda”. Il legale: “Colpo in canna per sparare senza stress”. Redazione su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Cambia versione Massimo Adriatici, l’assessore-sceriffo alla sicurezza del comune di Voghera che ha ucciso con un colpo d’arma da fuoco il 39enne Younes El Boussettaoui dopo una lite avvenuta nei pressi di un bar. Inizialmente l’esponente politico della Lega aveva spiegato ai carabinieri che il colpo partito dalla sua pistola (legalmente detenuta) era stato “accidentale” mentre stava cadendo dopo aver ricevuto “uno spintone” dal cittadino di origine marocchina. Adesso, nel corso dell’interrogatorio di garanzia avvenuto venerdì mattina (23 luglio) davanti al gip del tribunale di Pavia Maria Cristina Lapi, Adriatici non ricorda esattamente cosa sia successo al momento dello sparo che ha ucciso Younes El Boussettaoui. Assistito dal suo legale Gabriele Pipicelli, l’assessore al termine dell’audizione, durata due ore, è uscito scortato dai carabinieri che l’hanno riaccompagnato alla sua abitazione dove è agli arresti domiciliari. La gip deciderà sabato sulla richiesta avanzata dalla procura di Pavia di confermare le misure cautelari ad Adriatici, ora ai domiciliari, per il pericolo della reiterazione del reato e dell’inquinamento delle prove. Nel pomeriggio i legali dell’assessore hanno tenuto una conferenza stampa nella quale hanno provato a ricostruire la dinamica dell’incidente che ha portato all’uccisone del ragazzo di origine marocchine: “Adriatici non è uscito per andare a cercare El Boussettaoui”. Spiega Pipicelli: “Come in altre circostanze, ha girato con quest’arma nella propria tasca perché aveva fatto richiesta di porto d’armi per delle situazioni di pericolo della persona che erano state rappresentate alle autorità competenti e che le autorità aveva ritenuto sussistenti, tant’è che gli era appena stato rinnovato il porto d’armi. Aveva sempre il colpo in canna perché, quando uno è sottoposto a un addestramento da poliziotto e si porta dietro un’arma, sa che se si trova in una situazione di pericolo e stress, può andare in panico. Se togli la sicura invece si può sparare senza stress e non fare ulteriori attività che ti portino via del tempo. Adriatici è stato vittima di una violenza inaudita e improvvisa che l’ha fatto cadere a terra procurandogli uno stato di confusione. È un uomo distrutto, profondamente dispiaciuto: è una persona normale che non ha mai avuto un appunto nella sua carriera professionale” ha concluso il legale che ha anche escluso che tra il suo assistito e El Boussettaoui potessero esserci stati dei precedenti diverbi o momenti di tensione. In piazza Meardi intanto la sorella della vittima Bahija, accompagnata dall’avvocato Debora Piazza, continua a cercare testimoni che possano ricostruire la dinamica dell’incidente, visto che le telecamere di sicurezza del Bar Ligure erano in quel momento fuori servizio. Domani pomeriggio sarà il giorno della manifestazione indetta dalla famiglia dove è prevista anche la partecipazione di diversi centri sociali nel nord Italia. Per questo la sindaca di Voghera Paola Garlaschelli ha scritto agli esercenti del centro dicendo di “prestare ogni opportuna attenzione” e suggerendo di “valutare l’eventuale chiusura della propria attività”. Redazione

Il leghista resta ai domiciliari. Omicidio di Voghera, Salvini scagiona l’assessore e la famiglia si ribella: “Leso il diritto di difesa”. Angela Stella su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Proseguono le indagini per stabilire la dinamica dei fatti che hanno portato alla morte di Youns El Boussetaoui, il 39enne marocchino ucciso martedì sera in piazza a Voghera da un colpo di pistola sparato dall’assessore leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici. Agli atti dell’inchiesta c’è un video, ripreso da una telecamera di sorveglianza, in cui l’immigrato si avvicina all’assessore e, dopo una breve discussione, lo colpisce con un pugno. Le immagini mostrano poi Adriatici cadere a terra, ma non il momento in cui spara alla vittima. Sarà importante appurare se il colpo è partito per sbaglio durante la caduta, come sostiene l’indagato, o dopo che è caduto terra. In quest’ultimo caso non si tratterebbe di eccesso colposo di legittima difesa ma di azione volontaria perché Adriatici avrebbe avuto dei secondi per impugnare l’arma e far fuoco, peraltro in una zona vitale del corpo. Ieri il pm di Pavia Roberto Valli ha chiesto la convalida dell’arresto e la conferma per rischio di reiterazione del reato della misura cautelare dei domiciliari per l’assessore leghista, autosospeso già da due giorni. Il suo secondo interrogatorio, dopo quello effettuato dai carabinieri subito dopo la sparatoria, dovrebbe svolgersi oggi. Intanto è polemica sull’autopsia, come evidenzia Debora Piazza, l’avvocata che con Marco Romagnoli difende i familiari dell’uomo ucciso: c’è stata «una gravissima violazione del diritto di difesa. L’autopsia di Youns El Boussetaoui è stata effettuata ieri (due sere fa, ndr) senza avvisare, come sarebbe dovuto avvenire, i suoi familiari, tutti cittadini italiani e con una residenza. L’uomo stava male. I familiari erano preoccupati e lo avevano fatto ricoverare in ospedale, dal quale però era scappato. Lui voleva stare in piazza Meardi. Aveva sicuramente qualche problema, ma dovevano intervenire le istituzioni. Andava curato, non ucciso». Quindi promette sentita dall’Adnkronos: «nomineremo un consulente di parte, anche per un esame balistico». Intanto «continuiamo la ricerca dei testimoni. Siamo a buon punto. Cerchiamo la verità e la troveremo. Bisogna dire le cose come stanno: Youns è stato ammazzato da un assassino senza motivo». Non si placa neanche la polemica politica. Matteo Salvini continua a difendere il suo assessore: «Io lascio, a differenza del Pd, che siano magistrati, polizia e carabinieri a fare il loro lavoro. Se colui che si è difeso perché aggredito deteneva legalmente la pistola, è docente di diritto penale, è stato funzionario di polizia, avvocato penalista noto e stimato in città e se, come dicono i testimoni, è stato aggredito da un clandestino con due richieste di espulsione con precedenti penali per droga, violenza e aggressione, lascio giudicare i magistrati». Critiche invece ancora dai grillini con Gianluca Rizzo, Presidente della Commissione difesa della Camera dei Deputati del Movimento 5 stelle: «La nostra Costituzione attribuisce alle forze di polizia e alle forze armate l’uso legittimo delle armi al fine di tutelare la sicurezza di tutta la cittadinanza. Se un assessore gira armato per strada significa che delegittima queste istituzioni ed è già questo un fatto gravissimo». Duro anche Walter Verini, deputato del Pd, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia: «Ma che idea di comunità e di sicurezza ha un assessore leghista che gira armato per la sua città e con quella pistola ammazza una persona? E che idea di convivenza civile ha un capo politico come Salvini, che ha pronunciato parole contrarie a principi di civiltà e cultura giuridica? È ora di intervenire per frenare davvero la giustizia fai da te, la diffusione delle armi». E conclude: «Insieme a altri deputati del Pd, di Leu, Italia Viva e 5 Stelle ho presentato una proposta di legge che prevede norme più stringenti e controlli psicoattitudinali più frequenti e rigorosi: più armi in giro ci sono, più pericoli e tragedie si manifestano». Angela Stella

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2021. A domanda risponde. Pm: «Ma lei è sicuro che il colpo sia partito accidentalmente?». Adriatici: «Sì, ne sono sicuro Se avessi voluto sparare volontariamente, avrei esploso più colpi, sfruttando le caratteristiche dell'arma che consente di sparare più colpi in rapida successione. Posso affermare questo anche in virtù dell'addestramento che ho avuto da poliziotto».

Le 3.27 nella caserma dei carabinieri di Voghera. La notte tra martedì e mercoledì. Il primo interrogatorio. Da tre ore, El Boussettaoui ha perso la vita in ospedale a causa di quell'unico proiettile che, entratogli nel petto, è sceso nell'addome. Una direzione che potrebbe contrastare con le identiche versioni dei testimoni - uno sparo dal basso verso l'alto -, però ogni pensiero è inutile in considerazione della piccolezza e mobilità dello stesso proiettile, e delle variabili della balistica. Ma rimane uno dei punti da chiarire dopo la conclusione della prima fase dell'inchiesta (in giorni di incidibili pressioni politiche), insieme agli accertamenti sull'unico video a disposizione (adesso sotto l'analisi di un tecnico), dei dati degli esami tossicologici successivi all'autopsia, delle relazioni di Adriatici con il commissariato, del perché a nessuno fosse venuto in mente di togliergli il porto d'armi, dell'accettazione da parte della sua giunta e nonostante le segnalazioni delle forze dell'ordine di un invadente e pericoloso assessore-sceriffo, e insieme anche ai motivi reali e concreti che hanno spinto un testimone a cambiare versione dei fatti, senza che la modifica abbia alterato l'impianto prima della Procura e poi del gip.

In questa storia, dice un investigatore, si sono incrociate due esasperazioni: quella del leghista col colpo in canna, incapace nonostante le vanterie di gestire l'arma, la tensione e le sue conseguenze; e quella dell'immigrato, per il quale risulta generica la colpa attribuita dai parenti allo Stato. Era stato Youns ad avvicinarsi minaccioso ad Adriatici, dopo una serata di insulti e molestie ai clienti del bar «Ligure» come dice un testimone: «all'interno del locale aveva finto di scagliare una sedia contro il cane di una ragazza proferendo nei confronti della medesima la parola "Vaff". Poi era andato verso il barista inveendo contro di lui e gli altri avventori, e uscito dal bar aveva scagliato una bottiglia di birra contro la piazzola esterna La birra l'aveva sottratta poco prima al tavolo di clienti». Ed era stato Youns a sferrare l'attacco all'assessore, come da quest' ultimo verbalizzato (e confermato dagli stessi testimoni): «Notavo il nordafricano avvicinarsi a me con fare aggressivo. Consapevole dei precedenti penali, con la mano sinistra tenevo il telefono e infilavo la mano destra nella tasca impugnando la pistola, che sono solito portare con me la sera quando esco Il soggetto continuava ad avvicinarsi e io rispondevo di stare calmo che stava arrivando la polizia, estraendo l'arma e puntandola verso il basso. Lo stesso mi incalzava chiedendomi che cosa volessi fare, e improvvisamente mi colpiva con forza all'altezza dell'occhio destro. Io cadevo all'indietro battendo il gomito sinistro, la parta alta della schiena e la nuca».

A domanda risponde. Pm: «Come mai lei non è riuscito a difendersi con le mani?». Adriatici: «Nella mano sinistra impugnavo il telefono cellulare, mentre con la destra impugnavo la pistola lungo la gamba rivolta verso il basso. Non avrei mai allungato tale braccio verso il cittadino nordafricano. L'aggressione poi è stata molto rapida e ho sentito il colpo al volto improvvisamente. Quando ero a terra, ricordo che avevo ancora il braccio destro teso con ancora la pistola ben stretta nella mano. Per istinto, per non far partire il colpo e per non perdere l'arma, preservavo il braccio destro».

Quella sera , l'assessore aveva conversato con il titolare del bar «Cervinia»; il commerciante gli aveva parlato di un «marocchino», ovvero El Boussettaoui, il quale da aprile, con la riapertura dei locali dopo il lockdown, ogni giorno molestava i clienti, avvicinandosi alle spalle e rubando tartine e bottiglie oppure infilando loro le mani nei capelli. A domanda risponde, e torniamo allo sparo. Pm: «Da questa ricostruzione il colpo pare partito inavvertitamente. Come è possibile che sia avvenuto nonostante le sicurezze di regola previste in tutte le armi da fuoco?». «Ero consapevole dell'elevata pericolosità del soggetto. Ho ritenuto di estrarre l'arma solo per mostrarla. Volevo solo che lui si accorgesse che io ero armato». Sono le 5.09. L'interrogatorio viene sospeso, Adriatici va in bagno e si sciacqua il volto con acqua fredda. Trema.

Monica Serra per “La Stampa” il 25 luglio 2021. L'assessore leghista Massimo Adriatici lo ha ammesso anche davanti al giudice: «Ero solito portare la pistola in tasca, col colpo in canna e senza sicura», perché «nelle situazioni di pericolo la sicura avrebbe potuto farmi perdere tempo». Di più. Adriatici ha confessato che martedì sera, in piazza Meardi a Voghera, prima di uccidere il trentottenne marocchino Youns El Boussetaoui, «ho estratto l'arma dalla tasca dei pantaloni già nel momento in cui ho visto il soggetto avvicinarsi verso di me in modo minaccioso. Volevo che lui si accorgesse che ero armato». Questo per il giudice Maria Cristina Lapi, che ieri ha convalidato i suoi arresti domiciliari per eccesso colposo di legittima difesa ma in una località protetta per via di un «serio e fondato timore per la sua incolumità e sicurezza», è gravissimo: «Riflette la pericolosità dell'indagato, la sua attitudine a porre in essere reazioni sovradimensionate nel caso in cui si trovi in situazioni di criticità». Tutta l'azione dell'assessore alla Sicurezza, al gip «appare decisamente spropositata a fronte di un uomo che lo stava aggredendo disarmato»: nei confronti del trentottenne, Adriatici «si è posto in anticipo in una posizione predominante, in modo gravemente sproporzionato e creando le condizioni perché si arrivasse all'evento nefasto poi effettivamente accaduto». A fare specie al giudice è soprattutto che Adriatici abbia compiuto così gravi imprudenze nonostante la sua esperienza da «ex poliziotto, penalista e istruttore delle forze dell'ordine». Ma il fatto che l'assessore autosospeso dalla giunta di Voghera abbia levato la sicura della calibro 22 prima e non al momento dello sparo lo ha salvato dall'accusa di omicidio volontario, come spiega ancora il gip nell'ordinanza. Che mette in fila le divergenze tra le dichiarazioni rese da Adriatici nel primo interrogatorio davanti al pm: «Ricordo che mentre stavo cadendo notavo il soggetto avvicinarsi, come per continuare a colpirmi. Mentre cadevo mi è partito un colpo. Non riesco a ricordare se sia partito per via della maggiore stretta esercitata a causa della manata al volto o in seguito della caduta». E quello che invece ha detto due giorni dopo davanti a lei: «A causa del colpo alla testa mi sono ritrovato in uno stato di forte stordimento, tale da non essere in grado di ricordare cosa sia successo quando è partito il colpo». La prima versione appare al giudice più genuina. Anche perché corrisponde con quanto raccontano due testimoni che hanno assistito allo sparo: «Non ho visto l'attimo esatto in cui l'italiano ha estratto la pistola dalla tasca, ho visto che dopo che è stato colpito da Youns sul viso ed è caduto a terra, ha puntato la pistola che aveva in mano verso Youns e ho sentito lo sparo. Devo precisare che l'italiano ha sparato per difendersi da un'ulteriore aggressione di Youns che era già sopra di lui con fare minaccioso». L'unico testimone che non è d'accordo con gli altri, e che nega che Adriatici abbia sparato mentre era già a terra e il trentottenne stava per colpirlo di nuovo è stato trovato dai legali della famiglia della vittima. Ma per il giudice contraddice anche quanto si vede dai filmati delle telecamere di videosorveglianza sequestrati dai carabinieri del Comando provinciale. Testimonianze e filmati raccolti documentano anche la sofferenza della vittima, di Youns, che spesso creava problemi a baristi e clienti, che aveva diversi precedenti penali e che quella stessa sera aveva avuto atteggiamenti violenti. Che purtroppo dava fastidio e magari faceva anche paura. Abbandonato com' era a se stesso e alla sua disperazione. L'uccisione di Youns, inevitabilmente, ha scatenato la polemica politica. Da una parte contro la Lega e il suo leader Matteo Salvini, che non ha condannato il comportamento dell'assessore del suo partito. «Se a Voghera quel signore che purtroppo è morto fosse stato espulso dopo i reati che aveva commesso, come avrebbe dovuto essere espulso, oggi piangeremmo una vittima di meno», ha dichiarato ieri Salvini a Rimini. Dall'altra anche sulla necessità di aumentare i controlli nel rilascio e nel rinnovo della licenza del porto d'armi. Su cui tra l'altro giace una proposta di legge depositata dal deputato Pd Walter Verini alla Camera, firmata anche da deputati M5s, Iv e Leu. Ed è stata presentata prima ancora della tragedia di Voghera. 

Voghera, Massimo Adriatici trasferito in un'abitazione segreta dopo la diffusione social delle immagini della sua casa. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. Una decisione estrema per tutelare Massimo Adriatici: l'assessore della Lega è stato spostato in un'abitazione segreta. L'uomo, che nella serata di martedì durante una litigata ha ucciso un 39enne marocchino, è stato preso di mira sui social dove sono state diffuse anche le immagini della sua casa, là dove si trovava agli arresti domiciliari. La preoccupazione per possibili vendette è stata tanta, al punto di chiedere il trasferimento di Adriatici in un luogo sconosciuto e più sicuro. La vittima, che era solito importunare i cittadini di Voghera, quella sera si trovava a un bar quando è accaduto il violento scontro. Stando ad alcune testimonianze l'assessore avrebbe invitato il marocchino a lasciare in pace i clienti, ricevendo da quest'ultimo un pugno in faccia. Alcune telecamere della zona hanno ripreso la litigata, ma non lo sparo partito dalla pistola di Adriatici e arrivato dritto al petto della vittima. Nei giorni scorsi i familiari del 39enne si sono scagliati contro Adriatici: "Loro credono di aver ammazzato un cane ma si sbagliano - ha detto la sorella -, hanno ammazzato Youns El Bossettaoui, con una famiglia che è da generazioni qui in Italia, tutti gli zii sono cittadini italiani". A farle eco il cognato: "Le telecamere sono lì, prendete le immagini delle telecamere. Fatelo per i suoi due bambini". Come siano andate le dinamiche dei fatti ancora non è chiaro. Intanto il gip di Pavia ha confermato per Adriatici i domiciliari per il timore di "reiterazione di reato". Ma il sindaco Paola Garlaschelli ribadisce che l'ex poliziotto "è una persona stimata e rispettata in città, di cui abbiamo apprezzato il lavoro di questi mesi, è stato travolto da un fatto tragico".

Il leghista trasferito in un "luogo segreto". Delitto di Voghera, assessore “consapevole delle proprie azioni”: le motivazioni dell’arresto di Adriatici. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Tutto come previsto. Massimo Adriatici, l’ex assessore alla Sicurezza del Comune di Voghera, resta indagato per eccesso colposo in legittima difesa a causa del rischio di reiterazione del reato e non anche di inquinamento delle prove per l’uccisione di Youns El Bossettiaou. Il gip di Pavia scrive di “pericolosità dell’indagato” intesa come attitudine a “porre in essere reazioni sovradimensionate nel caso in cui si trovi in situazione di criticità”. “Ciò che si vuole evidenziare è che lo stesso Adriatici ha dichiarato di aver estratto la pistola dalla tasca in un momento in cui era ancora lucido e consapevole delle proprie azioni” sono le parole del giudice che non ha aggravato la posizione dell’esponente leghista a livello di qualificazione giuridica. Il gip sposa la tesi della procura, al centro di polemiche per non aver avvisato i parenti della vittima al fine di consentire loro di nominare un perito in occasione dell’autopsia. Da due giorni sul tavolo dei pm e del giudice c’era la testimonianza di chi dice di aver visto Adriatici puntare la pistola, mirare e sparare su Youns, ma nelle decisioni prese dai magistrati di questo particolare non esiste traccia. Tutto a Voghera e a Pavia sta avvenendo in un clima non certo sereno. Lo dimostra la decisione di trasferire Adriatici in una località segreta per ragioni di sicurezza a causa di minacce presenti sui social. “Sicurezza” è un termine ricorrente in questa indagine ma a senso unico. In occasione della manifestazione del pomeriggio in solidarietà con la vittima la polizia locale ha fatto il giro dei negozi invitando i gestori a considerare la possibilità di chiudere abbassando le saracinesche. Polizia, carabinieri e guardia di finanza ovunque per una manifestazione pacifica caratterizzata dalla presenza di immigrati stranieri e pochissimo da quella di italiani. C’è chi fa osservare che il dettaglio dimostra ancora una volta l’assenza dalla scena di associazioni e organizzazioni di sinistra. Il sindaco leghista di Voghera parlando con i giornalisti ha voluto sottolineare che Adriatici è persona stimata e amata dai suoi concittadini aggiungendo l’invito a non strumentalizzare politicamente infatti e aspettare la conclusione delle indagini. Gli avvocati della famiglia di Bouns stanno in queste ore sentendo altri testimoni per poi depositare i verbali a disposizione degli inquirenti. Il resto dipenderà molto dalle perizie balistiche. E si vedrà se questi dati cambieranno o meno la tesi della procura alla quale il giudice delle indagini preliminari si è adeguato. I legali dei familiari di Bourns fanno presente di avere difficoltà a disporre degli atti a causa del muro di gomma di procura e carabinieri i quali sono stati formalmente diffidati dagli avvocati. Per il gip l’azione di Paratici “appare decisamente spropositata a fronte di un uomo che lo stava aggredendo disarmato, nei cui confronti si è posto in una fase decisamente anticipata in una posizione predominante, ma in modo gravemente sproporzionato e creando le condizioni perché si arrivasse all’evento nefasto”. Nell’ordinanza del giudice si legge anche che l’ex assessore “è stato quantomeno imprudente nel non riuscire a governare la concitazione e lo stress in un momento di criticità”. Frank Cimini 

Il caso di Voghera. I legali di Musta diffidano i carabinieri. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Luglio 2021. La procura di Pavia non avvisa i parenti di Bouns detto Mustà in modo che possano nominare un perito di parte e attraverso i carabinieri racconta la frottola di familiari senza fissa dimora. Ce ne sarebbe già abbastanza per spedire gli ispettori ministeriali. Ma non è finita qui. I legali della famiglia chiedono al comando dei carabinieri «con estrema urgenza le relazioni sugli interventi che hanno riguardato il nostro assistito». La risposta da un muro di gomma: «Si comunica che questo comando non è autorizzato a fornire informazioni che potranno essere richieste all’autorità giudiziaria titolare del fascicolo processuale». Dall’avvocato Debora Piazza è partita una diffida nei confronti della Benemerita. Quanto all’autorità giudiziaria, i difensori non sono riusciti a parlare con il capo della procura che non li ha ricevuti, ma si sono dovuti accontentare di un colloquio con il sostituto procuratore Valli. Insomma c’è uno strano “clima” intorno a questi accertamenti che tutti dicono di aspettare e il riferimento non è certo al caldo asfissiante di questi giorni. Per non parlare della presunta, molto presunta, pece su una telecamera di sorveglianza che non è stato possibile riscontrare. Mentre si sa e si è visto che un’altra telecamera ha ripreso solo il pugno della vittima all’assessore alla sicurezza del comune di Voghera. Domani il medico legale della parte lesa Galeazzi va a vedere la salma perché è già arrivato il nulla osta della procura al seppellimento. E farà la foto del cadavere per quello che può valere a questo punto di una indagine dove chi rappresenta i parenti del giovane marocchino ucciso non ha potuto toccare palla. Oggi il gip dovrebbe decidere la sorte dell’assessore dimissionario sia a livello di imputazione che di misura cautelare. Poi bisognerà aspettare i risultati delle perizie balistiche.

I legali El Boussettaui: "Vergognoso, scena del crimine alterata". Omicidio Voghera, l’assessore-sceriffo scatenato in un video: “Hai visto che mi stava dando un calcio?” Redazione su Il Riformista il 26 Luglio 2021. “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa?”. E poi incalza: “L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. A parlare è Massimo Adriatici, l’assessore-sceriffo alla sicurezza del comune di Voghera, poco dopo aver ucciso con un colpo di pistola il 39enne Youns El Boussettaui. Nel video girato martedì 20 luglio scorso, e recuperato in esclusiva da LaPresse, si vede il piazzale antistante il Bar Ligure di piazza Meardi a Voghera, dove poco prima l’assessore della Lega ha ucciso al culmine di una lite l’uomo di nazionalità marocchina. Dalle immagini si può vedere l’intervento dei sanitari del 118 che stanno soccorrendo il giovane ferito (morirà dopo alcune ore all’ospedale di Voghera), mentre l’assessore Adriatici passeggia, con il cellulare in mano, lungo la scena del crimine parlando con i Carabinieri. Poi, rivolgendosi a un testimone interrogato da un militare dell’Arma, gli dice: “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Secondo quanto riferisce un testimone, l’assessore in quel momento era ancora in possesso dell’arma con cui aveva da poco fatto fuoco. Dura la reazione del legale della famiglia del 39enne morto ammazzato. “Io mi sento di dire che anche questo video fonda seri dubbi sulla conduzione delle indagini delle primissime fasi” dichiara l’avvocato Marco Romagnoli in merito al video diffuso da LaPresse. “Osservando le immagini che emergono da quest’ultimo video si rimane davvero senza parole. In primo luogo c’è un soggetto indagato che ha appena sparato a una persona e i carabinieri, senza ammanettarlo, gli consentono di passeggiare lungo la scena del crimine, di modificare potenzialmente elementi utili alla ricostruzione delle indagini, parla con i carabinieri come se nulla fosse successo, influenza palesemente il ricordo di un testimone dicendogli: ‘L’importante è che hai visto che stava per darmi un calcio in testa’, elemento che lui da docente di diritto, sa benissimo come possa essere importante per una sua eventuale responsabilità”, ha concluso Romagnoli. “Che vergogna vedere un indagato all’interno di una scena del crimine che la gestisce come meglio crede” aggiunge Debora Piazza, anche lei legale della famiglia El Boussettaui. “Non solo parla con gli operanti come se fosse lui il capo, ma si avvicina anche ad un testimone oculare e gli dice quello che deve dire. Il tutto con il mio assistito sdraiato a terra appena attinto da un colpo di pistola che si sta lamentando, perché si sentono i lamenti nel video, mentre a breve morirà. L’unica cosa che posso dire è che schifo”, conclude Piazza. Nei giorni scorsi Massimo Adriatici è stato trasferito in un luogo segreto dopo la convalida da parte del Gip Maria Cristina Lapi degli arresti domiciliari. L’accusa nei confronti del politico della Lega è di eccesso colposo di legittima difesa dopo l’uccisione di Youns El Boussetaoui, 39enne marocchino morto per un colpo di pistola, regolarmente detenuta. Il trasferimento di Adriatici è avvenuto su richiesta della difesa dell’assessore in quanto su alcuni social network erano apparse immagini dell’abitazione dell’assessore alla Sicurezza di Voghera.

Pipicelli: «Su Adriatici è pesato il clamore mediatico, ma il diritto non funziona così». Parla l'avvocato dell'assessore leghista ai domiciliari per aver ucciso un 39enne marocchino a Voghera. Simona Musco su Il Dubbio il 29 luglio 2021. «Sempre più spesso viene inserita una sorta di lettera D all’articolo 274 del codice di procedura penale: tra le esigenze cautelari viene inserito anche il clamore mediatico. È accaduto in questo caso, ma accade troppo spesso anche in altre situazioni». A parlare è Gabriele Pipicelli, presidente della Camera penale di Verbania e difensore di Massimo Adriatici, assessore alla sicurezza del Comune di Voghera ai domiciliari per eccesso colposo di legittima difesa, avendo sparato e ucciso il trentanovenne Youns El Boussettaui.

Avvocato, perché Adriatici girava con una pistola col colpo in canna?

Con la sua pistola – una Beretta modello 21, calibro 22 – il colpo si può tenere in canna o non in canna. Se voglio avere un’arma da utilizzare in modo efficace per difendermi, nel caso in cui io non abbia il colpo in canna devo usare le due mani per scarrellare, far entrare il colpo e poi poterla usare, altrimenti non sparerà mai. Adriatici ha avuto un addestramento in polizia e sa che quando si ha a disposizione un’arma bisogna decidere come usarla, per evitare situazioni in cui andare sotto stress e in confusione. Se decido di avere una pistola col colpo in canna è per non avere il problema di dover pensare a come usarla. Ed è un porto dell’arma legittimo. Da nessuna parte sta scritto che non si possa viaggiare con l’arma col colpo in canna. Adriatici aveva un porto d’armi, rilasciato dalla prefettura dopo una verifica di idoneità. Ma ci deve essere anche un valido motivo per averlo, ovvero la sussistenza di un pericolo alla persona che viene valutato non sulla base di mere dichiarazioni, ma sulla base di un’istruttoria che di anno in anno viene rivalutata.

Quindi si sentiva in pericolo per un motivo particolare?

Come avvocato è stato minacciato di morte in un’aula di giustizia, il che è documentato. Ma il pericolo derivava anche da attività estremamente delicate in cui era stato coinvolto come poliziotto, in forza delle quali personaggi di un certo spessore sono stati attinti da condanne pesanti. Riteneva che ci fosse una situazione di pericolo, non certo legata al ragazzo che è rimasto ucciso.

Cos’è successo allora quella sera?

Stava uscendo, come tante altre sere, per fare una passeggiata. Era al telefono con un amico quando si è ritrovato davanti la vittima. Lo ha visto entrare in un bar e lanciare una bottiglia verso la piazza, cosa documentata da alcuni video, e molestare alcune persone. Adriatici, notando questa situazione, ha chiamato le forze dell’ordine. Prima facendo il 113, poi, per evitare il centralino, chiamando direttamente la Questura. Da lì è iniziato questo colloquio con l’operatore, al quale ha descritto i movimenti di El Boussettaui. Notando questa situazione, la vittima si è avvicinata ad Adriatici, che era di spalle. Quando si sono ritrovati faccia a faccia, El Boussettaui si è reso conto che il mio assistito si trovava al telefono con la polizia e ha iniziato a inveire, mentre Adriatici lo invitava a stare calmo cercando di defilarsi. A quel punto ha sferrato il pugno che tutti avete visto in quel video, facendolo cadere e provocandogli lesioni al sopracciglio e alla tempia nonché alla nuca, oltre ad una serie di graffi. Il colpo che ha ricevuto è stato improvviso e ha provocato la caduta degli occhiali – lui è pesantemente miope – e mentre si trovava a terra El Boussettaui è sembrato girarsi per raccogliere qualcosa, per poi scagliarsi di nuovo su Adriatici. A quel punto, purtroppo, non si vede più nulla

Il colpo quando è stato esploso?

Nemmeno Adriatici ci sa dire esattamente se è partito quando ha ricevuto il pugno – si vede un movimento improvviso del braccio sinistro del ragazzo proprio nel momento della caduta dell’assessore – o nel momento successivo alla caduta e purtroppo il video è sprovvisto di audio.

Però questo vuol dire che Adriatici aveva già la pistola in mano.

Adriatici ha tirato fuori la pistola nel momento in cui El Boussettaui gli si è avvicinato con fare minaccioso per poi sferrargli un pugno.

Quindi la sua versione è che il colpo sia partito per sbaglio?

Non è in grado di ricostruire esattamente l’accaduto. In quel momento, offuscato anche dal colpo, si è verificata una disgrazia, anche perché il proiettile, che non è uscito dal corpo, ha colpito la vena cava, provocando un’emorragia interna.

Adriatici è stato trasferito in un luogo segreto. Cosa vi fa ritenere che la sua incolumità sia a rischio?

Il clima che si respira a Voghera è di caccia alle streghe. Anzi, di caccia allo sceriffo. Ma lei se l’immagina lo sceriffo che prima di sparare chiama la polizia? Uno che fa lo sceriffo opta subito per la giustizia fai-da-te. C’è un video, sul web, in cui si vede un uomo che, la sera prima della manifestazione indetta a Voghera, dà indicazioni su dove si trovi la casa di Adriatici. Tant’è vero che il corteo ha cercato di infilarsi proprio nella via di casa sua, ma è stato fermato dalla polizia in tenuta antisommossa, che ha precluso una certa parte del percorso. E sui social “assassino” era la cosa più gentile.

Cosa pensa possa accadere?

Io pensavo, ad esempio, che un gip potesse applicare solamente il diritto e limitarsi a valutare gli indici di una concreta ed attuale sussistenza di pericolosità sociale dell’indagato, ovvero il rischio che quell’individuo, se lasciato libero, possa ricommettere quel reato. E francamente mi sforzo di individuarli, ma al di là di apodittiche affermazioni anche nell’ordinanza di indizi non ne trovo. Ma al tempo stesso ero intimamente convinto di una cosa: che se sabato mattina vi fosse stato il provvedimento di rigetto, da parte del gip, di una richiesta del pm di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a Voghera qualcosa sarebbe accaduto.

Quindi sta dicendo che la misura è dipesa da questioni estranee al diritto?

Dico che non è giusto che sia stata inserita una sorta di lettera D all’articolo 274 del codice di procedura penale, cioè che una delle esigenze cautelari sia anche quella del clamore mediatico. Accade in varie situazioni e in varie realtà. Ed è esattamente il contrario di quello che il legislatore voleva nell’indicare una serie di indici e nell’andare anche a riformare la custodia cautelare, inserendo il concreto, reale e attuale pericolo che si possa reiterare quel reato o altri gravi reati. E non hanno fatto bene di certo le esternazioni fatte sulla fiducia o d’impeto da parte di qualche politico. Tutta questa polemica ha fatto malissimo alla difesa di Adriatici. Quello che posso dire è che non ha mai avuto un richiamo, nemmeno per un ritardo, niente che sia legato ad armi o violenza, nemmeno come civile. E ora è distrutto per l’immagine di lui che sta circolando e che non è minimamente aderente alla realtà. E le dico un’altra cosa.

Prego.

Se Adriatici non fosse stato assessore alla sicurezza del Comune di Voghera e fosse stato un semplice cittadino non avrebbero applicato la misura cautelare. Basti vedere quell’oste di Lodi che ha sparato ai rapinatori in fuga ed è stato indagato – e poi prosciolto – a piede libero per eccesso colposo di legittima difesa, proprio come nel caso di Adriatici.

Però rimane il fatto che girare con un’arma comporta il rischio di poterla usare e di poter uccidere qualcuno, in questo caso anche disarmato.

Bisogna trovarsi in quell’esatta condizione, essere attinti da quella violenza e capire come parte quel colpo. Bisogna esserci, perché poi, a tavolino, diventa troppo facile giudicare. La legge richiede di capire se l’errore è scusabile o inescusabile. Ma ripeto, il fatto va valutato una volta acquisiti tutti gli elementi. Oggi (ieri, ndr) sono stati disposti accertamenti tecnici non ripetibili e ciò consentirà anche un contraddittorio, anche con la difesa delle persone offese. Il pm vuole accertare come sono andate veramente le cose. Ma questa è una questione su cui si può discutere nell’ambito di un processo. Tutto il resto sono chiacchiere.

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2021. L'assessore leghista alla Sicurezza di Voghera Massimo Adriatici ha pedinato la futura vittima Youns El Boussettaoui. In un'inchiesta delicata, sottoposta fin dall'inizio a diversificate pressioni, ogni azione e ogni sua descrizione diventano dirimenti: ma nell'analisi dei filmati delle prime telecamere sparse per Voghera, la Procura di Pavia sta registrando una «coincidenza quantomeno anomala». Ovvero la presenza, nei medesimi tratti cittadini, dell'avvocato di 47 anni Adriatici e del vagabondo e molestatore seriale 39enne, ammazzato da un proiettile. E sempre, in quei filmati, chi camminava davanti (pare ignaro della presenza alle spalle) era El Boussettaoui, seguito da Adriatici che forse, con quella attività di monitoraggio (e pare non da una posizione distante) voleva appurare eventuali nuove scorrerie del marocchino. Ma con quale fine ultimo? Inchiesta delicata, abbiamo detto. Come anticipato dal Corriere , il pm Roberto Valli, uno dei magistrati diretti dal procuratore aggiunto Mario Venditti, ha chiesto al gip l'incidente probatorio per cristallizzare due delle tre testimonianze di clienti del bar «Ligure» di piazza Meardi, fuori dal quale, alle 22.14 dello scorso martedì 20 luglio, dalla pistola con il colpo in canna e senza sicura Adriatici aveva sparato in direzione di El Boussettaoui che lo aveva aggredito con un improvviso pugno in volto. Quei due testimoni, entrambi stranieri, potrebbero non sostare a Voghera fino all'inizio del processo; potrebbero sparire (o venire «consigliati» di andarsene). Ma (forse) soprattutto, potrebbero modificare ancora la versione. Uno di loro, che peraltro si era presentato di sua volontà nella caserma dei carabinieri a verbalizzare quanto visto, due giorni dopo aveva alterato il resoconto. Per quale motivo? Si scoprirà più avanti. Insieme al resto che manca. Quando dovrà rispondere, Adriatici, ai domiciliari dopo la convalida per eccesso colposo di legittima difesa, potrà replicare che non si trattava di pedinamenti bensì dell'attività da assessore. Vigilare, controllare. Che lui fosse in effetti in mezzo ai cittadini, instancabile e senza limiti di orario, è un fatto notorio che legittima la sua concezione del fare politica. Ma oltre a quelle ronde armate, aveva l'abitudine di convocare dirigenti di polizia e ufficiali dei carabinieri per spiegare come si dovesse lavorare sulla sicurezza: frequenti sollecitazioni, queste, riportate dai vertici delle forze dell'ordine e dalla Prefettura alla sindaca, con l'obiettivo di spingere all'adozione di misure preventive, proprio per anticipare degenerazioni puntualmente avvenute. Dal Comune, mai niente. Quarantotto ore prima di perdere la vita a causa delle lacerazioni di parte dell'addome e del rene destro raggiunti dal proiettile calibro 22, El Boussettaoui, un pluripregiudicato, aveva infastidito i clienti di un altro locale, dalla parte opposta di piazza Meardi. Il titolare aveva informato Adriatici, il quale ha in ogni modo escluso di aver raggiunto il bar «Ligure» con la certezza di trovarci El Boussettaoui e «punirlo». Avesse voluto uccidere, ha detto, avrebbe esploso più colpi in sequenza, in virtù dell'addestramento (è stato un agente). Eppure, si legge nell'0rdinanza del gip, esperienza o meno Adriatici non ha «saputo governare la concitazione e lo stress di una situazione critica».

CBas. per "il Giornale" il 12 agosto 2021. Un incidente probatorio da eseguire «con la massima urgenza» per chiarire alcuni dei tanti punti controversi dell'inchiesta sulla morte di Youns El Boussetaoui, ucciso a Voghera lo scorso 20 luglio. Indagato per eccesso colposo di legittima difesa è Massimo Adriatici, assessore comunale (autosospeso) alla Sicurezza, che ora si trova ai domiciliari. A chiedere l'incidente probatorio al gip Maria Cristina Lapi è stato, il 28 luglio, il pm che conduce l'indagine affidata ai carabinieri, Roberto Valli. Anche la difesa di Adriatici, rappresentata dagli avvocati Colette Gazzaniga e Gabriele Pipicelli, chiede che l'istanza della Procura venga accolta. I legali hanno presentato una memoria subito dopo la richiesta, in cui si dicono favorevoli all'udienza che dovrà cristallizzare come prova alcune testimonianze. Nell'interesse anche del loro assistito. Chiedono non solo che il gip fissi con urgenza la data, considerato che l'incidente probatorio non è soggetto alla sospensione feriale dei tribunali che durerà fino al 31 agosto. Ma aggiungono che sarebbe utile, ai fini della genuinità delle versioni da raccogliere nel contraddittorio, convocare i tre testi in un'unica udienza. Tuttavia, anche se in questi casi sarebbero previsti termini stretti, non è detto che avverrà in agosto, considerate le ferie dei membri dell'ufficio gip. L'incidente probatorio è necessario, secondo il pm, perché i tre testimoni potrebbero non essere più reperibili al momento del processo. Non avrebbero infatti legami stabili con Voghera. Si tratta di stranieri che la sera dei fatti si trovavano in piazza Meardi o al bar «Ligure», fuori dal quale è stato ucciso il 39enne nato in Marocco e che vagabondava da tempo a Voghera. Uno dei testi si era prima presentato spontaneamente ai carabinieri, ma alcuni giorni dopo aveva modificato la propria versione. Adriatici ha pedinato la vittima nei giorni precedenti allo sparo mortale? «Ho visto i filmati che sono stati depositati in Procura - sottolinea l'avvocato Pipicelli, in riferimento a quanto riportato dal Corriere della Sera - e questo pedinamento non mi risulta. Se qualcuno ha qualche altro filmato e lo ha messo a disposizione dell'autorità giudiziaria, lo scopriremo». Quella sera sì, come ammesso dallo stesso Adriatici, l'assessore ha seguito per un po' Boussetaoui dopo le schermaglie con clienti e gestori dei bar della piazza. Per quanto riguarda il passato, dovrà essere chiarito se ci sia stato e perché un pedinamento. Oppure se il ritrovarsi i due nella stessa via o nella stessa piazza sia stato casuale.

Frank Cimini per giustiziami.it il 27 luglio 2021. “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Sono le parole dell’assessore alla Sicurezza di Voghera, in provincia di Pavia, Massimo Adriatici, mentre si rivolge ad un testimone interrogato da un militare dell’Arma subito dopo aver sparato al trentanovenne Youns El Boussettaui. Le immagini sono riprese da un video girato martedì 20 luglio scorso che mostra il piazzale antistante il Bar Ligure di piazza Meardi, luogo della sparatoria. Dal filmato si può vedere l’intervento dei sanitari del 118 che stanno soccorrendo il giovane ferito, mentre l’assessore Adriatici passeggia con il cellulare in mano per la scena del crimine parlando con i carabinieri. Ad un certo punto rivolgendosi ad un testimone interrogato da un militare dell’Arma gli dice: “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Esiste un verbale di indagine datato 2015 su Youns El Boussetaoui e su suo cognato da cui emerge che le autorità conoscevano vita morte e miracoli del marocchino ucciso a Voghera dall’ex assessore Massimo Adriatici. E che di conseguenza non c’erano ragioni per dire che i familiari fossero dei senza dimora per giustificare il mancato avviso in relazione all’autopsia non permettendo la nomina di un perito di parte. Va registrato che il conferimento dell’incarico per l’autopsia e l’esecuzione dell’esame sono avvenuti nell’arco di una sola mattinata lo scorso 21 luglio. A mezzogiorno era tutto finito. La negazione dei diritti della parte offesa appare evidente tanto che gli avvocati dei familiari Debora Piazza e Marco Romagnoli sono arrivati al punto di diffidare i carabinieri che avevano negato loro la consegna delle relazioni sugli interventi fatti dai militari. Youns inoltre per un piccolo reato avrebbe avuto l’udienza fissata in tribunale il 26 ottobre prossimo. “Nessuno mi aveva avvisato neanche in qualità di difensore di fiducia” dice l’avvocato Piazza. Gli avvocati dei parenti di Youns stanno continuando a sentire testimoni nell’ambito dell’attività difensiva e a ricercare filmati sull’accaduto delle varie telecamere di sorveglianza della zona. L’obiettivo è quello di arrivare a una modifica del capo di imputazione che per ora è fissato nell’eccesso colposo di legittima difesa. E la qualificazione giuridica dei fatti è di gran lunga l’aspetto più importante a questo punto della vicenda. Prevale sicuramente sulla misura cautelare oggetto del ricorso al Tribunale del Riesame da parte degli avvocati di Massimo Adriatici rimasto agli arresti domiciliari per decisione del gip che ha confermato la misura per il pericolo di reiterazione del reato e non per il rischio di inquinamento delle prove. In realtà in questo strano modo di condurre l’inchiesta il rischio di inquinamento, caso più unico che raro, viene più da chi indaga e non da chi è chiamato a rispondere di un fatto gravissimo. rilevare poi che la decisione di trasferire Massimo Adriatici dalla sua abitazione in una località segreta “per ragioni di sicurezza” a causa di presunte minacce comparse sui social e di ancora più “strane presenze” vicino casa rischiano di far apparire l’ex assessore solito girare con la pistola in tasca come una vittima. E le polemiche politiche sull’omicidio si concentrano essenzialmente sulle “sparate” di Matteo Salvini in relazione alla “legittima difesa sempre valida”. Non c’è un parlamentare o un qualsiasi esponente della sinistra anche di quella cosiddetta radicale che abbia avuto il coraggio di criticare la procura e i carabinieri. Perché evidentemente a loro piace vincere facile. “Vincere” si fa per dire.

Voghera, il giallo della telecamera che non riprende lo sparo dell'assessore leghista Adriatici. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 17 settembre 2021. Proprio l'occhio elettronico con la visuale migliore su piazza Meardi, dove Massimo Adriatici ha ucciso con un colpo di pistola il marocchino Youns El Boussettaoui, non aiuta le indagini. Due versioni diverse date agli avvocati: secondo le prime informazioni, era coperto di resina, poi non avrebbe funzionato per infiltrazioni d'acqua. Poteva essere la prova regina dell'indagine, l'occhio elettronico rivolto su piazza Meardi, a Voghera, in grado di documentare l'intera sequenza dell'aggressione, l'incontro tragico tra il marocchino Youns El Boussettaoui e l'allora assessore alla sicurezza Massimo Adriatici. La telecamera avrebbe potuto riprendere i due sempre più vicini, lo schiaffo del magrebino che fa cadere a terra il leghista, e il movimento della Beretta 22 del politico, caricata con i proiettili a espansione "hollow point" e senza sicura, che spara e uccide il nordafricano.

Maria Fiore Filiberto Mayda per “la Stampa” il 18 settembre 2021. Voghera che si è incattivita. Voghera che non riesce più a discutere senza insulti. Voghera degli assessori che girano armati e poi succede che uccidono un uomo. Voghera della chat dove si dice che per risolvere il problema dei migranti che disturbano bisogna sparare. Una Voghera più povera e più triste. È questo il volto della città in provincia di Pavia dalla maledetta sera del 20 luglio, quella dell'uccisione di Youns El Boussettaoui, 39enne marocchino, per mano di Massimo Adriatici, all'epoca assessore municipale alla Sicurezza. Una trasformazione agli antipodi degli obiettivi che Paola Garlaschelli, sindaca entusiasta del suo incarico, si era data all'inizio. E che ancora, dopo il caso Adriatici, aveva cercato di riafferrare, con un rimpasto di giunta tra i mugugni dei partiti (Lega, Forza Italia e FdI) che tengono in piedi la maggioranza. E adesso la chat incriminata che ora la sindaca, a nome dell'intera amministrazione, e quindi anche dell'assessore Gabba finito nel mirino, definisce «riprovevole». Ma che non costerà la poltrona all'assessore, se la caverà tutt' al più con una tirata d'orecchio. Nonostante le richieste di dimissioni venute dall'opposizione e i mugugni di parte della maggioranza. Del resto è lo stesso Giancarlo Gabba a non chiedere scusa. L'assessore leghista ai Lavori pubblici di Voghera, autore della frase «finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio», estrapolata da una chat privata della giunta vogherese e resa pubblica, non vuole entrare nel merito di quella dichiarazione. Pensa, piuttosto, a trovare chi l'ha diffusa e a querelarlo. Per questo, ieri, si è rivolto all'avvocato Antonio Rossi, che si è subito attivato. L'assessore Gabba parla solo attraverso il suo avvocato. Conferma di non volere commentare la frase («a lui addebitata», tiene a precisare il legale) perché «pronunciata in un contesto privato e non istituzionale». Lo screenshot diffuso sui social, aggiunge Gabba tramite l'avvocato «è stato estrapolato e decontestualizzato da una chat di WhatsApp privata, chiusa, riservata ai soli assessori per meglio organizzare la loro comunicazione, priva di ogni connotato istituzionale e il cui contenuto doveva essere, assolutamente, privato». La posizione, ribadita anche al termine dell'incontro avvenuto tra Gabba e il suo legale ieri pomeriggio, è questa: «Lo scambio di messaggi è avvenuto al di fuori di ogni attività di natura istituzionale, a riprova della natura assolutamente privata della conversazione». Il commento incriminato dell'assessore della Lega spunta in una conversazione tra colleghi di giunta, che stanno discutendo di un negozio che serve gli stranieri e che, a detta degli assessori, crea problemi. «Finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio», scrive Gabba. A rendere più sinistra la frase è quello che accade quindici giorni dopo, quando il 39enne marocchino Youns El Boussettauoi muore in piazza Meardi ucciso da un proiettile partito proprio dalla pistola di un assessore della giunta, Massimo Adriatici. Ma per Gabba e il suo avvocato c'è, in questa faccenda, un solo interrogativo a cui rispondere: chi ha fotografato la chat e l'ha diffusa? Quello che si sa è che a ricevere lo screenshot è Giampiero Santamaria, che prima lo pubblica sul profilo Facebook «Politica è partecipazione» e poi lo cancella. Santamaria spiega di avere ricevuto l'immagine della chat da un anonimo via Messenger. Ma per l'avvocato Rossi «chi ha provveduto a fotografare la chat e a inviarla ha violato le norme in tema di riservatezza delle comunicazioni e di tutela della privacy e dimostra un intento gravemente diffamatorio nei confronti della giunta e dei singoli componenti della stessa, comportamenti che saranno portati all'attenzione dell'autorità giudiziaria». 

Niccolò Zancan per "la Stampa" il 17 settembre 2021.

Scusi, ex assessore, ma cosa sta succedendo? Parlate di usare le armi come se Voghera fosse il Far West.

«Ma la frase nella chat era in tono goliardico. Non era solo l'assessore Gabba a esprimersi in quel modo, anche io lo facevo, anche la sindaca faceva battute sgradevoli. Direi che tutti, tranne due assessori, ci confrontavamo in quel modo». 

Come al bar di un paese incattivito e razzista?

«Sì, come al bar. Ma qui non c'è razzismo. Ripeto: era una chat goliardica, anche se era la chat della giunta comunale». 

Per chiunque fosse interessato al cosiddetto Paese reale, a un certo paese reale, il Bar Trattoria da Sofia sulla curva di uno stradone periferico di Voghera è il posto ideale. Nel giro di un pranzo ordinario - lasagne alle verdure con ricotta, salamelle alla griglia, amaro con ghiaccio - il tema dominante è la dittatura vaccinale. 

«Ma il tuo caro duce, non sarebbe stato più dittatore ancora?», dice l'operaio dubbioso all'autista di camion fascista. «No, il mio duce queste cose non le avrebbe mai fatte, il mio duce avrebbe fatto una dittatura buona».

Titolare della trattoria in questione, insieme alla sorella, è Francesca Miracca, l'ex assessore al commercio di Voghera. Quota Lega: «Ma la Lega di prima. Non questa al governo. Io mi sono spesa in ogni modo, qui avevo anche la bandiera del partito. Mi hanno fatto fuori perché sono arrivata seconda per numero di preferenze, prima di illustri avvocati e commercialisti. Quando sei una persona del popolo». 

Lei è stata destituita dall'incarico per una frase sull'uso delle armi detta il giorno prima della manifestazione in solidarietà con Younus El Boussettaoui, ucciso da un colpo partito dalla pistola dell'assessore alla sicurezza Massimo Adriatici: «Domani spariamo davvero». 

La pronuncerebbe ancora?

«Ero qui nel mio bar, parlavo con un amico. Il giornalista del Foglio ha riportato quella frase fuori dal contesto. Lo vede come siamo? È un modo di stare insieme. Volevo denunciare quel giornale, ma non l'ho fatto per tenere un profilo basso. Ho anche avvisato la sindaca». 

Direbbe ancora quella frase?

«No, non la direi più. Ma era una battuta fatta con un fratello. Non trovo giusto di essere l'unica a pagare visto che è lo stesso linguaggio usato da quasi tutti».

Tutta una chat con il tenore dall'assessore Gabba?

«Sì, se si escludono gli assessori Torriani e Adriatici, tutti. L'assessore Gabba è una persona che usa un linguaggio molto colorito». 

Ma lei davvero pensa che si possa essere goliardici con il razzismo e con l'uso delle armi?

«La Lega è un partito che ha una direzione molto precisa. Una linea che tutti seguono. Qui a Voghera non è così, qui siamo allo sbando e senza figure di riferimento». 

Il che giustifica tutto?

«Non è una città di pazzi, ma una città che non ha visto mantenere le promesse». 

Cosa intende?

«Per cinque anni la Lega ha fatto compagna elettorale promettendo più sicurezza, poi quando finalmente è andata al governo la svolta non c'è stata. Mi aspettavo molto di più. Un'azione concreta. È la stessa cosa che sta succedendo a Salvini da quando è al governo con Draghi. La gente non gli crede più». 

A proposito di campagna elettorale: lei è indagata per traffico di influenze. Pacchi alimentari in cambio di voti.

«Non sono ancora stata sentita in Procura. Verrò interrogata il 28 settembre. Si scoprirà che non è questo il mio problema».

Quale sarebbe il suo problema?

«Quando prendi troppi voti e già si parla di una tua candidatura in Regione, allora c'è sempre qualcuno che ti vuole stroncare la carriera».

Niccolò Zancan per "la Stampa" il 17 settembre 2021. Adesso hanno la consegna del silenzio: «Nessuno deve rilasciare dichiarazioni». Ma prima parlavano tutti, era un commento continuo. Sul quel dato giornalista «pezzo di m.», su quell'altro rivale politico. Soprattutto sui fatti della città. Nella chat della giunta comunale si esprimevano così: «Davanti all'Africa market mega assembramento di tantissimi individui. Non si riesce neppure a passare». «Finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio». L'assessore che invoca l'uso delle armi si chiama Giancarlo Gabba, è nato a Voghera nel 1953, medico in pensione, è un leghista della prima ora, uno di quelli che andava a Pontida. Ha due pastori maremmani e una passione per Gabriele D'Annunzio. Già assessore alla Cultura, secondo voci non confermate sarebbe munito di regolare porto d'armi. Ecco: sparare. Di quella frase orribile, uscita a tradimento da una chat privata, adesso cosa vorrà dire? Lo cerchiamo nel suo ufficio in assessorato in corso Rosselli, è accanto alla sede della Polizia Municipale: non c'è. Lo cerchiamo in Comune, ma lì troviamo solo il messo e due segretarie. Lo cerchiamo nel vecchio studio medico di corso Matteotti: «Non viene da più di un anno». A casa il videocitofono trilla a vuoto. Ma dopo l'ora di pranzo finalmente risponde al cellulare: «Non ho nulla da commentare. Non dirò niente. Se non che ho dato mandato a un avvocato di occuparsi della questione». Silenzio. Non parla neppure la sindaca Paola Garlaschelli, a parte una riga in un comunicato stampa: «Abbiamo incaricato un legale per valutare gli aspetti giuridici della vicenda. In questo momento il mio pensiero va alla città e al lavoro che stiamo compiendo». Undici mesi di giunta di centrodestra a guida leghista. Non un confronto sui fatti, non un'intervista. E intanto la città delle famose casalinghe, luogo di quiete ordinaria e pianura, si è trasformato in qualcos' altro. I fatti in sequenza sono questi. Il giorno 26 giugno l'assessore Gabba, con delega ai lavori pubblici, scrive nella chat della giunta comunale la frase sull'uso delle armi. Nessuno stigmatizza, la frase passa. Il giorno 20 luglio, alle nove della sera, l'assessore Massimo Adriatici, con delega alla sicurezza, usa la sua pistola regolarmente denunciata in una colluttazione con il signor Youns El Boussettaoui. Avevano già discusso altre volte. Il signor El Bousettaoui stava male, dormiva sulle panchine, era aggressivo. L'assessore Adriatici, colpito al volto da uno schiaffone, cade davanti a un bar in piazza Meardi e dalla sua pistola parte un colpo letale. Il giorno 23 luglio, prima della manifestazione in solidarietà della vittima, parla l'assessore al Commercio Francesca Miracca. All'ora di pranzo sta dietro al bancone del Bar Trattoria da Sofia, che gestisce assieme alla sorella. Fra i clienti si presenta anche un giornalista del Foglio, e sarà lui a riportare questa frase: «Domani spariamo davvero, mi sa. Domani assoldo i miei operai e scendiamo noi in piazza». L'assessore Miracca, che è indagata per traffico di influenze, cioè perché avrebbe offerto pacchi di cibo in cambio di voti, tre giorni fa è stata destituita dall'incarico proprio per quella frase sull'uso delle armi. L'atto formale è datato 14 settembre: «Il rapporto di fiducia con l'assessore Francesca Miracca è venuto irrimediabilmente a mancare a seguito di dichiarazioni esternate dalla stessa non in linea con valori e i principi politica istituzionali perseguiti dall'amministrazione». Tre assessori. Tre volte le armi. Come metodo e nella realtà. Gabba: «Non dirò neppure una parola». Adriatici è agli arresti domiciliari. «Non ha nulla a che vedere con questa storia della chat. Non ha mai usato quel genere di linguaggio. Non troverete mai una sua parola di analogo tenore», spiega l'avvocato Gabriele Pipicelli. L'assessore Miracca è la sola a non sottrarsi al confronto: «Non si capisce perché dovrei essere io l'unica a pagare». Di sicuro ha pagato con la vita Younus El Bousettaoui, cittadino marocchino residente in Italia, molto malato e sofferente. Sua sorella, la signora Bahija El Boussettaoui risponde al telefono dalla Francia: «Non abbiamo ancora ricevuto le condoglianze da parte del Comune di Voghera. Per loro non esistiamo. Leggere quella frase sulla chat della giunta per me è stato sconvolgente. Ecco quello che succede a forza di parlare di armi. Non è stato un incidente, ma un attacco. Il problema di Voghera non sono i migranti, ma i politici razzisti». 

Salvini torna sui fatti di Voghera: «È normale girare con la pistola se si ha il porto d’armi». Il leader della Lega: «Non sta a me giudicare ma sembra che chi ha sparato si stesse difendendo. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 22 luglio 2021. È normale girare con la pistola in tasca per andare al bar se si ha un regolare porto d’armi. Parola del leader della Lega, Matteo Salvini, che intervenuto ad Agora Estate è tornato sui fatti di Voghera, prendendo ancora le difese di Massimo Adriatici, assessore alla Sicurezza in quota Lega e agli arresti domiciliari con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa dopo aver ucciso Youns El Boussetaoui, 39 anni. «Se uno ha il porto d’armi è assolutamente normale – ha detto il numero uno del Carroccio – Lasciamo che magistratura, Polizia e Carabinieri facciano le indagini ma quello che emerge chi si è difeso ha agito avendo davanti un soggetto pregiudicato, clandestino, noto per violenze, aggressioni e atti osceni in luogo pubblico». Ma le parole di Salvini scatenano la polemica politica, e la risposta dem arriva a stretto giro. «Trovo agghiaccianti le parole di Salvini di queste ore, trovo spaventosa l’idea di società e di umanità che descrivono – scrive Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd – Sono sicuro che chi ha ucciso oggi sta soffrendo, ha meno certezze di Salvini e forse si è pentito di girare armato e di aver impugnato quella pistola ma il leader leghista sceglie di giustificare e spiegare anziché riflettere su cosa c’è di sbagliato nell’idea della sicurezza fai da te che tanto gli piace». Salvini è andato poi a ruota libera anche sui temi della più stretta attualità, dicendosi contrario all’obbligo vaccinale per gli insegnanti, perché «oggi l’80% per cento del personale insegnante è vaccinato, a settembre si arriverà al 90 per cento e quindi la copertura è ampiamente garantita», parlando di «terapie intensive vuote» e mostrandosi «dispiaciuto» che Pd e Movimento frenino sulla giustizia, perché «l’Italia ha bisogno di riforme, di una giustizia veloce e efficiente». Infine, un passaggio sul ddl Zan, dopo i 672 emendamenti presentati dalla Lega. «In questa fase la politica non dovrebbe litigare ma unire – ha detto Salvini – Spero veramente e lo dico con il cuore in mano, che il Pd e Letta accettino il dialogo, il confronto, richiesto anche dal Santo Padre e si eviti di andare allo scontro». A quel punto, ha assicurato il leader leghista, gli emendamenti saranno ritirati.

Davide Maniaci per corriere.it il 28 settembre 2021. Se Youns El Boussettaoui non fosse morto il 20 luglio, ucciso dal proiettile partito dalla pistola dell’allora assessore Massimo Adriatici, sicuramente la conversazione interna alla chat di giunta, su WhatsApp, sarebbe finita nel dimenticatoio come tante altre. Invece la «talpa» colpisce ancora, e altri messaggi imbarazzano l’amministrazione comunale di Voghera. L’ultimo screen è stato diffuso stamattina (martedì 28 settembre) e risale al 12 marzo scorso. La sindaca Paola Garlaschelli parla in prima persona. «Ma in tutto ciò il marocchino che chiedeva elemosina è annegato?», è il suo messaggio. Non specifica se si trattasse proprio di El Boussettaoui, o di un altro soggetto. Alle risate seguono una foto, non visibile, di un luogo della città in provincia di Pavia definito «il tempio della cavalleria, dove vanno lì a bivaccare», un commento di Adriatici che ironicamente propone di «togliere la panchina» e poi quello di Giancarlo Gabba. «Purtroppo, ormai non bastano più i nostri vigili! Ci vuole ben altro!», col disegnino di una bomba. Sembra una chat di vecchi amici un po’ su di giri, invece è quella privata di sindaco e assessori, e nelle sequenze rese pubbliche non si notano segni di rimprovero. Due settimane fa era iniziata la “fuga” di screen, che sembra una vendetta interna. Nello stesso gruppo Whatsapp, una frase in particolare era finita sulle pagine Facebook cittadine, facendo discutere. “Finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio», sempre riferito alla gestione dell’ordine pubblico in centro.

«Riprovevole». L’autore è ancora Giancarlo Gabba. Il sindaco Garlaschelli aveva definito «riprovevole» quel commento, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano La Provincia Pavese. Ma dopo la tirata d’orecchie Gabba è rimasto al suo posto. E queste frasi, scritte a cuor leggero pensando che nessun altro le avrebbe mai lette, testimoniano un’atmosfera di tensione anche prima del delitto di piazza Meardi.

Fabrizio Guerrini per “La Stampa” il 29 settembre 2021. Razzismo e veleni: la giunta di Voghera, in provincia di Pavia, è bombardata da altri due screenshot strappati dalla chat della vergogna. Giunta intollerante e in balìa di futuri siluri che, si giura, arriveranno? Questa volta è la stessa sindaca ad essere chiamata in causa. Marzo di quest'anno: si allagano i sotterranei dell'ala Est del cimitero cittadino. Qui, forse, trova rifugio di notte un clochard marocchino che chiede l'elemosina. Problemi al cimitero, non si discute sul da farsi. Sulla chat di giunta la sindaca Paola Garlaschelli, invece, chiede: «Ma in tutto ciò il marocchino che chiedeva l'elemosina è annegato?». Gli assessori Simona Virgilio e William Tura non sembrano aver colto un tono preoccupato: rispondono, infatti, con gli emoticon faccine che ridono alle lacrime. Altro screenshot: torna in scena l'assessore Gabba quello che, sulla stessa chat, aveva sentenziato sul problema sicurezza: «Finché non si comincerà a sparare, sarà sempre peggio». Foto del Tempio della cavalleria. Si parla di bivacchi notturni. L'ex assessore Massimo Adriatici, quello che in piazza Meardi lo scorso luglio ha sparato davvero, dopo una colluttazione, uccidendo un 39enne marocchino, Youns El Boussettaoui, propone di togliere la panchina (lo aveva già fatto altrove), poi scrive altro, ma lo cancella. Ed ecco l'assessore Gabba: «Purtroppo non bastano più i nostri vigili, vi vuole ben altro!» . Segue emoticon di una bomba. Poco da aggiungere. La sindaca Garlaschelli, anche in questo caso, non corregge il tiro, ma saluta l'assessore con emoticon-bacini diffusi. Nessuna presa di distanza da frasi al confine tra pessimo gusto e intolleranza condivisa. La giunta di Voghera, almeno da questi screenshot, usa la chat «istituzionale» come sfogatoio del politicamente molto scorretto. Insomma, la maggioranza fa di nuovo i conti con gli screenshot-siluro: il rischio di una immagine esterna, sempre più compromessa, attendendo il prossimo «lancio», ricompatta, per ora, la coalizione sullo schema del quadrato difensivo. Il segretario provinciale della Lega, Jacopo Vignati, ribadisce la «piena fiducia alla sindaca che ha vinto le elezioni delle percentuali più alte in assoluto grazie al lavoro della deputata Lucchini». Il deputato Alessandro Cattaneo, leader provinciale di Forza Italia rompe gli indugi e chiude con i mal di pancia dei suoi: «Adesso basta - dice - . Tutto ha un limite. Come centrodestra abbiamo sempre subito: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Abbiamo dimostrato di saper affrontare i problemi a viso aperto. Ribadiamo pieno sostegno alla sindaca Garlaschelli». Così, invece, Claudio Mangiarotti coordinatore Provinciale di Fratelli d'Italia: «Registriamo l'ennesimo attacco strumentale alla giunta di Voghera. Attacco di basso livello creato ad arte da chi utilizza ogni mezzo per cercare di gettare fango. Serve un'immediata presa di coscienza collettiva che smorzi i toni e torni a valutare, e nel caso anche a criticare, l'azione amministrativa sull'aspetto operativo».

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 14 ottobre 2021. Così ossessiva da queste parti, la res publica, o meglio la volontà di farne un affare privato, da contaminare perfino i momenti di coppia se è vero che, alle 22.16 di una sera di dicembre, pioggia e sette gradi, intercettati senza saperlo Daniela Bruni e il compagno parlavano di quella cosa lì, del concorso (truccato) per assumere impiegati all'Asm, promossi scarsi concorrenti e spediti a casa meritevoli candidati. Lui: «La stro… è fuori?». Lei, componente della commissione esaminatrice: «La stro… è fuori! Era il nostro obiettivo». Bruni, 36 anni, è fra gli otto indagati (compresa la consigliera comunale di Forza Italia Laura Anselmi) dell'inchiesta della Procura di Pavia che ha coordinato le scoperte della Guardia di finanza: abuso d'ufficio, turbativa d'asta, falso ideologico...Vien da dire che succede tutto a Voghera, quarantamila abitanti, discreta qualità della vita, assenza di problemi di sicurezza, un costante alto livello dei vertici delle forze dell'ordine. Eppure: l'assessore leghista Massimo Adriatici che a luglio ha ucciso un migrante, le chat razziste della sua giunta con poche parole e parecchi emoticon a riderci sopra, e adesso quest'altra storia che in fondo in fondo ci fa tornare all'autodichiarazione di Giovanni Alpeggiani, deceduto nel 2019, quando disse appunto di sé: «Io sono un puparo», nel senso che muoveva i burattini. Alpeggiani era un grande vecchio della politica pavese assieme a Giampiero Rocca, anch'egli venuto a mancare (l'anno scorso). Non è un caso che entrambi siano citati nelle 106 pagine dell'ordinanza del gip Luigi Riganti quali influenzatori delle manovre centrate sull'Asm, azienda di proprietà del Comune e base di potere occupandosi di igiene urbana, trasporti, depurazione, spurgo, parcheggi, onoranze funebri, farmacie. Chi sta in Asm, insomma, controlla il territorio. Monica Sissinio, altra indagata, era presidente del Cda. Fra le intercettazioni, ecco questa, a suo modo simbolica e riassuntiva: «Allora, il programma nuovo in se stesso costa 240 mila euro più 190 o 185 ogni anno dei vari cosi che dobbiamo comprare... Io me lo sono fatto dividere in due anni in maniera tale che l'altro lo fatturiamo nell'altro anno... Loro mi hanno detto tenetevi il costo a 225, mi assumete questo qua e me lo date in distacco qua, poi nel frattempo faccio il concorso per uno che... lui entra perché stavolta il concorso glielo facciamo pennellato...». E avanti, in un'abbondanza di penosi insulti (quelli dichiarati nemici sono definiti «mongoloidi») e in una generale superbia per la quale il prossimo anche se ha ragione tiene torto. Sicché appare inevitabile ricordare le posizioni della sindaca e dei suoi assessori nei mesi antecedenti il proiettile sparato da Adriatici contro Youns El Boussettaoui, quando dalla Prefettura si ripeteva di stare attenti al leghista in quanto girava di ronda col colpo in canna. Invece la sindaca forse perché, come ripetono in Comune, Alpeggiani e Rocca sono stati sostituiti da nuovi registi, da nuovi «pupari», nulla fece. D'altra parte, obietterà magari qualcuno a Voghera, il tempo scorre, la gente dimentica e personaggi come l'allora direttore generale dell'Asm Piero Magnaschi, che con la sua denuncia diede inizio all'inchiesta, vengono apostrofati in tal maniera, come da puntuale intercettazione: «Siete in mano a un cogl... che non ha un neurone».

Omicidio di Voghera, i buchi dell'indagine. E spunta un video del pm al convegno della Lega. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 7 novembre 2021. L'inchiesta sull'omicidio di Yous El Boussettaoui, a sparare fu l'assessore del Carroccio Massimo Adriatici. I punti oscuri: la Beretta, il pedinamento e l'autopsia in tempi record. Nella storia della morte di Yous El Boussettaoui l'unica certezza è che Massimo Adriatici, l'ex assessore leghista che ha sparato e ucciso a Voghera il 38enne magrebino, è oggi un uomo libero. Portato in caserma la sera del 20 luglio scorso, mentre Youns lottava ancora tra la vita e la morte in ospedale con un proiettile conficcato nel torace, Adriatici ha trascorso tre mesi ai domiciliari, cessati una volta decorso il termine il 20 di ottobre. La scelta della procura di indagare Adriatici per eccesso colposo di legittima difesa ha fatto della sua liberazione l'epilogo ovvio dell'indagine. Come se i fatti di piazza Meardi iniziassero e si concludessero nei pochi secondi in cui Adriatici e El Boussettaoui s'incontrano nello spiazzo davanti al bar Ligure. Ma la tragedia del leghista con la pistola carica, col colpo in canna, senza sicura, che fronteggia un uomo che lo aggredisce a mani nude, inizia molto prima e si conclude molto dopo. E lascia molti dubbi sulla gestione dell'indagine da parte della procura di Pavia, con mesi di polemiche per quello che appare un approccio minimalista ai fatti. E ora spunta anche il video di un incontro elettorale della Lega a Legnano, a cui partecipa il procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti, reggente della procura fino all'arrivo del nuovo capo, che coordina le indagini sulla morte di Youns. Il convegno - per promuovere l'istituzione di una commissione antimafia a Legnano - è del 1° ottobre 2020, tre giorni prima del ballottaggio delle Comunali. Seduta alla sinistra del procuratore, c'è la candidata sindaco della Lega, Carolina Toia, poi sconfitta. Alla destra, un altro leghista, il capo della commissione Antimafia di Pavia Angelo Rinaldi (ora in FdI). Nulla di illecito per un magistrato, forse poco opportuno, soprattutto a pochi giorni da un voto. All'incontro intervengono poi altri due leghisti: l'assessore regionale Claudia Terzi e l'eurodeputato di Pavia Angelo Ciocca. Proprio Ciocca, la mattina dopo la tragedia di Voghera, dirà alle agenzie: «È un chiaro episodio di legittima difesa. Se non fosse stato per Adriatici, staremmo parlando di una violenza su una ragazza innocente». Nulla di tutto questo emergerà dalle indagini. Che registrano invece altre anomalie. Pedinamento e minuti ignorati Sono le 22.16 quando Adriatici e El Boussettaoui si ritrovano a un passo l'uno dall'altro, in piazza Meardi. L'ex assessore però pedina il ragazzo da più di dieci minuti. Il momento preciso lo mostra la telecamera della chiesa di San Rocco, che guarda su via Emilia, meno di duecento metri dal luogo della tragedia. Alle 21.58 si vede Adriatici muoversi verso il centro, allontanandosi da piazza Meardi. Pochi minuti dopo, alle 22.02, Youns è ripreso che cammina dall'altro lato della strada verso la piazza, in direzione opposta al leghista. Ventitré secondi dopo, ecco di nuovo Adriatici che ritorna sui suoi passi e segue a distanza Youns. Al netto delle differenze di timing delle telecamere, si può affermare che in piazza Meardi Youns si avvicina a un uomo che lo sta seguendo e osservando da dieci minuti e che, come ulteriore elemento di tensione, gli mostra la pistola sul palmo della mano. Elementi non presi in considerazione nell'imputazione dei pm. Autopsia in tempi record La chiamata al 118 è alle 22.19: un uomo è a terra in codice rosso. Youns muore all'ospedale di Voghera alle 23.40. L'incarico ai patologi per l'autopsia viene assegnato con atto firmato dalla procura alle 9.58 del giorno dopo, l'autopsia è eseguita alle 10.30 di mattina. Tempi record: meno di dodici ore dalla morte. I legali che già seguivano Youns per i suoi problemi di droga, gli avvocati Debora Piazza e Marco Romagnoli, non vengono informati, nonostante la vittima fosse domiciliata presso il loro studio legale per diversi procedimenti, l'ultimo con udienza il 26 ottobre 2021 a Pavia. «L'autopsia è stata effettuata ieri senza avvisare, come sarebbe dovuto avvenire, i suoi familiari, tutti cittadini italiani e con una residenza a Vercelli», protestano. La procura si scusa, argomentando che i carabinieri non sapevano che vi fossero parenti in Italia. Eppure i carabinieri di Voghera avevano incontrato il fratello di Youns, Alì, e il padre, Mohamed, otto giorni prima, il 12 luglio. Youns era scappato dall'ospedale e si erano recati in caserma per chiedere aiuto. «Ci hanno chiesto le fotocopie dei documenti su cui hanno annotato i nostri numeri di telefono». Da omicidio a eccesso di difesa Il giorno dopo la tragedia, le prime informazioni che trapelano dagli ambienti delle forze dell'ordine danno per scontata l'imputazione di omicidio volontario per Adriatici. Dopo i primi atti d'indagine, con l'autopsia appena eseguita, la procura invece smentisce l'ipotesi di omicidio volontario e iscrive Adriatici per eccesso colposo in legittima difesa. Ma documenti che Repubblica ha potuto visionare mostrano che il pm Roberto Valli già la mattina dopo la morte, prima dell'autopsia, aveva qualificato i fatti come eccesso di legittima difesa, per poi correggere a penna il verbale di conferimento di incarico, indicando l'articolo 575 dell'omicidio volontario. L'imputazione però scomparirà nella richiesta di misura cautelare. Adriatici parla con i testimoni Il corpo di El Boussettaoui è ancora sul marciapiede di piazza Meardi. Un video di un testimone mostra i carabinieri che svolgono i rilievi nell'area recintata. Ma tra loro c'è anche Adriatici. Lo rivela il video pubblicato dall'agenzia Lapresse. «Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? - chiede Adriatici a un altro testimone -. L'importante è quello, che hai visto che stava dandomi il calcio in testa». Nel video si sentono i lamenti della vittima, ancora in terra. Per i legali della famiglia, Adriatici «manipola la scena del crimine istruendo i testimoni alla presenza dei carabinieri». Adriatici con la Scientifica Adriatici resta sulla scena fino alle 23.10, quasi un'ora dopo lo sparo. Lo rivela un altro video, quello della telecamera che guarda sullo slargo del bar, che mostra Adriatici parlare liberamente al cellulare e mandare sms. Arriva poi un'auto nera della Scientifica. I funzionari scendono dall'auto, uno saluta col gomito Adriatici, che dopo un breve colloquio, sale a bordo sul sedile anteriore del passeggero. Poi l'auto - con lui e l'autista - va via. La stessa auto con lo stesso funzionario ritorna quattro minuti dopo senza Adriatici per i rilievi sulla piazza. I proiettili dum dum La Beretta di Adriatici era caricata con proiettili espansivi Winchester calibro 22 Long Rifle, comunemente chiamati "dum dum". Un foro sulla punta dell'ogiva ne aumenta l'apertura provocando maggiori ferite sul corpo. I Ris sparano in laboratorio usando proprio i proiettili sequestrati ad Adriatici, e concludono che pure se espansivi quei proiettili - forse per il cattivo funzionamento dell'arma - non si sono espansi. Ma spiegano: «È noto che le comuni munizioni con proiettili a punta cava non debbano essere utilizzate per la difesa personale. Questo in ragione della diffusa convinzione che tutte le palle a punta cava si comportino come proiettili espansivi, indipendentemente dal calibro, dalla velocità e dalla presenza o meno di una camiciatura. Le prove effettuate hanno dimostrato che palle ramate calibro .22, del tipo a punta cava, possono non deformarsi affatto se sparate a bassa velocità. Qualora la velocità sia idonea, le palle subiscono una deformazione a fungo, che ne aumenta la sezione sino al diametro di otto millimetri». La procura non ha comunque inteso contestare alcuna accusa sull'uso dei proiettili espansivi, dal 2008 equiparati dalla Cassazione a munizioni di guerra «per la loro potenzialità offensiva, a nulla rilevando che il loro uso bellico sia formalmente impedito da una convenzione internazionale».

Da iene.mediaset.it il 3 novembre 2021. Voghera, 20 luglio 2021, sera: l'allora assessore alla Sicurezza Massimo Adriatici spara con la sua pistola durante una colluttazione al marocchino Youns El Boussettaoui e lo uccide. Il caso diventa nazionale: legittima difesa o no dopo un pugno? Con Gaetano Pecoraro vi facciamo vedere in esclusiva immagini di telecamere di sorveglianza che potrebbero mostrare un'altra possibile verità, fermo restando che sarà la magistratura a stabilire come siano andate esattamente le cose.

Filiberto Mayda per “La Provincia Pavese” il 3 novembre 2021. Caso Adriatici. Come molti si aspettavano, dal programma “le Iene” di Mediaset, ieri sera è stato presentato il video completo registrato dalle videocamere in via Emilia e in piazza Merardi: in esso si vede l'ex assessore Adriatici che sembra seguire Youns. Intanto a Roma, novità per la battaglia sul caso Youns. Commossa una, commossa l'altra. Bahija El Boussetaoui e Ilaria Cucchi, ieri pomeriggio a Roma, si sono finalmente incontrate. E per loro è stato un momento importante sia come sorelle di due vittime della violenza, sia come donne orgogliose e forti nella ricerca della verità. «Saremo accanto a te nella tua battaglia», ha promesso Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, parlando con Bahija durante l'incontro organizzato dall'associazione Baobab Experience, da anni impegnata nel far rispettare i diritti dei più deboli non solo a parole ma con atti concreti. E uno degli atti concreti che potrebbero verificarsi presto, se tutto andrà come de-ve andare, è una manifestazione con sit-in davanti a Montecitorio. Ci saranno Ilaria Cucchi, Bahija El Boussetaoui, i volontari di Baobab e tutti coloro che vorranno manifestare per solidarietà nella battaglia che Bahija sta combattendo nel nome di Youns, il fratello 39enne ucciso a Voghera il 20 luglio.  Ucciso da un colpo di rivoltella dell'avvocato Massimo Adriatici, ex funzionario di Polizia e in quel momento assessore leghista alla Sicurezza. Bahija El Boussetaoui è molto riservata nel raccontare la sua giornata a Roma. Poche ore in realtà, perché era partita con il treno da Torino presto di mattina e nel tardo pomeriggio, dopo l'incontro, era già di ritorno insieme alla cugina che l'aveva accompagnata. «Che idea mi sono fatto di Ilaria Cucchi incontrandola di persona? La stessa che mi ero fatto parlandole in televisione - ci dice Bahija - una donna forte che ha provato in passato quello che ho provato io, il dolore della morte violenta di un fratello. Mi ha confermato il suo sostegno alla battaglia che sto facendo per la giustizia. Voglio ribadirlo: non stiamo cercando una giustizia fai date, siamo in Italia, in Europa, vogliamo che la giustizia arrivi dalla magistratura». E se le chiediamo se pensa di essere nella stessa situazione in cui si è trovata Ilaria Cucchi, con una certa diplomazia Bahija El Boussetaoui risponde: «E' presto per dirlo. Siamo solo agli inizi e ho ancora la speranza che vinca la verità. Quello che conta, ora, è non dimenticare la battaglia per Youns». E proprio la possibilità che si stenda un velo di disattenzione sul caso, è l'aspetto che sottolinea Alice Basiglini, portavoce di Baobab Experience: «C'è questo pericolo. Ilaria ha avuto una forza e una competenza incredibile nel condurre la sua battaglia. Sulla vicenda di Bahija, in questo momento, c'è effettivamente il rischio che l'attenzione non sia sufficiente. Come ha detto Ilaria, siamo tutti vicini a questa sorella che ha sofferto la morte del fratello. Dobbiamo anche fare presto e sì, credo che la manifestazione davanti a Monteci-torio possa essere importante».

Da leiene.it il 19 novembre 2021. Stasera, venerdì 19 novembre, in prima serata su Italia1 a “Le Iene”, il servizio di Gaetano Pecoraro sul “caso Voghera” con le dichiarazioni mai sentite finora dei testimoni oculari e con altre nuove immagini inedite di ciò che è accaduto immediatamente dopo lo sparo. Nelle scorse settimane la trasmissione ha mostrato i video di alcune telecamere di sorveglianza che riprendevano i momenti precedenti all’uccisione. Era la sera del 20 luglio 2021 quando morì Youns El Boussettaoui in seguito al colpo di arma da fuoco sparato da Massimo Adriatici nel corso di una colluttazione in piazza Meardi a Voghera. Nelle immagini sembra che l’ex assessore abbia seguito il ragazzo marocchino per almeno 7 minuti prima del delitto. L’episodio, che nasconderebbe ancora tante ombre, non riguarda solo la morte del ragazzo, ma anche il contesto culturale in cui il reato è avvenuto. Una testimonianza racconta infatti che Adriatici era solito girare armato e con la pistola raggiungeva anche il comune dove ricopriva il suo ruolo di amministratore.  L’inviato incontra sia la sindaca Paola Garlaschelli che l’assessore Giancarlo Gabba per chiedere conto ad entrambi dell’ormai nota chat della giunta che, se pur non istituzionale, ha mostrato commenti dai toni forti e violenti, di alcuni membri che ne facevano parte. “In realtà l’interpretazione era completamente diversa.” Dice la Garlaschelli e: “Quella era una chat privata, chi le dice che è interpretabile in quel modo? Quello che è accaduto, le posso assicurare, è stato un fatto totalmente inaspettato.”, conclude. Anche Gabba commenta la vicenda: “Non ho detto assolutamente che bisogna farsi giustizia da sé”, dice e aggiunge che “«Sparare» era un pour parler.”. Per quanto riguarda i testimoni oculari, il primo, un connazionale di Youns, fornisce un racconto privo di ipotetici atti violenti perpetrati dal marocchino, a differenza di quanto sostenuto dall’avvocato di Adriatici che, raggiunto precedentemente a telefono da Pecoraro, parlava di “condotte violente”, facendo riferimento anche a una sedia che Youns avrebbe lanciato contro una ragazza. La seconda, Dana, è proprio quella ragazza che oggi, dalla Romania per la prima volta, dice: “Non ha lanciato una sedia addosso al mio cane, l’ha solo presa a calci. Io gli ho detto di smetterla e lui ha detto cose insensate come «Siamo tutti cani – aggiungendo - “L’avevo già visto in giro tante volte, magari a volte mi chiedeva soldi e glieli davo. Non è mai successo niente di che con lui.” Continua poi il racconto di quella sera, dando delle sue impressioni: “Dopo che è arrivato Younes nel bar è arrivato anche Adriatici, come se lo stesse monitorando.” e conclude affermando: “Mi ha colpito il fatto che una persona che spara a un’altra…arrivano i Carabinieri ma non gli fanno niente, anzi, chiacchierano tranquillamente, non lo portano in caserma, lo lasciano lì con il suo telefono a parlare con chi vuole...Non gli hanno tolto neanche la pistola.”

"Salvini con gli assassini", tensioni al corteo contro l'assessore di Voghera. Valentina Dardari il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Centinaia di persone sono scese in piazza per manifestare in segno di solidarietà all'uccisione di El Boussetaoui. Alcune centinaia di persone si sono radunati tra canti e slogan in piazza Meardo, a Voghera, in segno di solidarietà e protesta per l'uccisione di Yound El Boussetaoui, marocchino 39enne senza dimora, freddato nella serata dello scorso martedì con un colpo di pistola partito dall’arma dell’assessore alla Sicurezza del comune di Voghera, Massimo Adriatici. La manifestazione è stata organizzata dalla comunità marocchina con diverse associazioni e con la sorella della vittima.

Oltre 500 in piazza a Voghera. La procura ha accusato di eccesso colposo di legittima difesa Massimo Adriatici. Inizialmente il magistrato aveva accolto la contestazione di omicidio volontario ipotizzata dai carabinieri, in seguito però, compiute alcune attività istruttorie tra le quali anche l'ascolto dei testimoni e l'interrogatorio dell'assessore, l'accusa è stata cambiata in eccesso colposo di legittima difesa. Alcuni manifestanti hanno gridato e ripetuto più volte “assassino, assassino” rivolto ad Adriatici. Sono stati tanti i rappresentanti della comunità islamica che hanno raccolto l'invito delle associazioni antirazziste. Mentre camminavano, gridavano anche "vergogna", dicendo che" gli assassini di ogni razza devono pagare e stare in galera" mimando il gesto delle manette. I manifestanti si sono rivolti anche al leader leghista: "Salvini difende gli assassini". Su uno striscione la scritta "Salvini sei contento", mentre su un altro "il razzismo uccide, le nostre vite contano" e anche "Per Youns contro il razzismo" e ancora "no all'odio, sì alla pace". Alcuni manifestanti hanno sventolato bandiere di Autonomia Contropotere.

Le parole della sorella della vittima. A LaPresse, Bahija El Boussettaoui, sorella di Younes, ha detto che "quello che è successo è una cosa ingiusta e tutta questa gente, familiari e non, vuole la giustizia che vogliamo noi". Ha poi continuato: "A questa manifestazione c'è tanta gente perché tutti conoscono Younes, visto che siamo in Italia da 23 anni. Adesso Younes non è più solo il figlio e il fratello della famiglia El Boussettaoui, ma di tutte queste persone che sono qui e di quelle che stanno manifestando in altre città. Io sono fiduciosa che lo Stato e il Governo italiano ci daranno giustizia perché è chiaro cos'è successo quel giorno, lo sparo, il caso è chiarissimo. Gli inquirenti fanno questo di mestiere e avranno capito anche loro. Noi ora vogliamo giustizia". Il sindaco aveva invitato tutti i negozianti a chiudere le loro attività in concomitanza con la manifestazione e quasi tutti gli esercenti hanno deciso di seguire il consiglio del primo cittadino. Secondo le prime stime, sarebbero oltre 500 le persone che hanno preso parte al corteo per El Boussetaoui. Qualche momento di tensione quando i manifestanti avrebbero voluto superare lo sbarramento delle forze dell'ordine per raggiungere la sede del Comune.

Adriatici resta ai domiciliari. Secondo quanto reso noto dall’AGI, nell’ordinanza con cui è stato convalidato l'arresto e confermati i domiciliari, il gip di Pavia ha scritto: "Ciò che si vuole evidenziare è che lo stesso Adriatici ha dichiarato di aver estratto la pistola dalla tasca in un momento in cui era ancora lucido e consapevole delle proprie azioni, prima che El Boussettaoui lo colpisse e prima dello stordimento. Tale azione appare decisamente spropositata a fronte di un uomo che lo stava aggredendo disarmato, nei cui confronti si è posto in una fase decisamente anticipata in una posizione predominante, ma in modo gravemente sproporzionato e creando le condizioni perché si addivenisse all'evento nefasto". Secondo la giudice, esiste il pericolo di reiterazione del reato, non di inquinamento probatorio, tenendo conto "della consapevolezza qualificata che si deve richiedere a un uomo con la professionalità dell'indagato per anni nelle forze dell'ordine ed esperto penalista, istruttore delle forze dell'ordine, esperienza in base alla quale l'uomo avrebbe dovuto essere in grado di discernere il rischio effettivamente corso e i valori che era chiamato a bilanciare in tale situazione".

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou… 

Il caso di Voghera. Intervista a Luciano Canfora: “Perché Salvini sogna armi libere come in America”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 24 Luglio 2021. «Questi scambiano la presunta legittima difesa con il diritto di uccidere. Il loro modello è l’America in cui le armi sono un gioiello da esibire». Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, “coscienza critica” della sinistra. Professore emerito dell’Università di Bari, Canfora è anche membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni), Tra i suoi libri, ricordiamo: Fermare l’odio (Laterza); Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza); Il presente come storia; Europa gigante incatenato (Dedalo), La natura del potere (Laterza): La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia (Laterza) e il recentissimo La metamorfosi (Editori Laterza), sulla storia del Pci nel centenario della sua fondazione.

“Salvini, che vuoi dire? Uccidere gli africani è legittimo?”. È il titolo di prima pagina di questo giornale in riferimento alla tragedia di Voghera. Professor Canfora è un titolo forzato?

Magari fosse così. No, purtroppo è un titolo realista. Intanto non ci dimentichiamo che i famosi, o forse è meglio dire famigerati, decreti sicurezza promulgati dal governo Conte I, quello con Salvini e Di Maio vice presidenti del Consiglio dei ministri, erano stati un macigno di illegalità, tanto che un uomo timido come il Presidente della Repubblica, Mattarella, propose dei ritocchi che poi piano piano, forse sono stati introdotti nella normativa, poi la cosa è scomparsa dai radar, non si è vista più. Perché l’abitudine degli strumenti d’informazione è quella: far scomparire alcune cose, non se ne parla più e poi nell’ombra avvengono le eventuali modifiche. Il vero sentire del leader della Lega, anche se insediato dal Giorgetti, noi lo conosciamo da quella esperienza e anche dalla frequentazione ostentata in pubblico con quelli di CasaPound: le famose fotografie pubblicate dal quotidiano moderato La Repubblica, non sono mai state smentite. Quando la sindaca Raggi più o meno si mosse sul problema dell’illegale occupazione dei locali a Roma da parte di CasaPound, Salvini protestò robustamente. Il cuore batte da quella parte. E poi c’è sempre una divisione dei compiti, che ha dei precedenti nella storia politica di questo Paese…

Vale a dire?

Anche ai tempi del Movimento sociale italiano c’erano le frange esterne, Avanguardia nazionale, Ordine nuovo, che picchiavano e anche altro, mentre Almirante capeggiava l’Msi. C’è quella famosa fotografia sulle scalinate della facoltà di Lettere di Roma, in cui ci sono una serie di mazzieri che ostentano le armi che impugnano, bastoni e altro, e Almirante col cappello in testa accanto a loro che saluta compiaciuto. Per fortuna esistono le fotografie, almeno quelle finché non si bruciano si possono sempre consultare. Anche oggi c’è una divisione dei compiti. La Lega ha un signore in doppiopetto nel governo, un signore scamiciato fuori dal governo che ritiene pure di essere il capo. E poi questi gruppi esterni, più o meno collegati, che sono violenti, razzisti, xenofobi in modo esplicito. È un bubbone colossale nel quadro sociale e politico italiano. D’altra parte segnalo due cose: esiste una specie di associazione che si chiama “Cultura e Identità”, che organizza convegni, feste, incontri culturali, dove “identità” è appena appena una foglia di fico per dire “razza”. Arruolano, convocano, invitano, e quindi si crea dietro a un paravento culturale un’altra associazione di tipo razzistico. Questo clima c’è, eccome. Ma poi se ci teniamo ai testi scritti, se uno legge attentamente gli statuti dei partiti italiani, può notare che l’unico dove non c’è mai un riferimento alla Costituzione italiana repubblicana, è Fratelli d’Italia. Non c’è mai. In linea con Almirante che nell’ultimo congresso del Msi da lui presieduto, disse che la nostra era una Repubblica bastarda. Di che stupirci?

Lo stesso “scamiciato” leader leghista, nel difendere il consigliere- sceriffo di Voghera, ha sostenuto che quello alla legittima difesa è un diritto per tutti, sempre e comunque. Siamo al Far West Italia?

Legittima difesa non significa sparare per uccidere. Nel caso particolare, tutte le testimonianze convergono e il risultato finale dimostra, che colui che ha sparato, ha sparato per uccidere, non semplicemente per allontanare o intimidire, cosa peraltro già del tutto arbitraria, il suo presunto aggressore. Stiamo usando le parole in maniera totalmente impropria. Il modello che hanno in testa questi è quell’America dove le armi sono quasi un gioiello da esibire, dove quotidianamente si ammazza gente, con i neri fatti fuori e l’estate scorsa con una conflittualità permanente. L’ennesima replica di una situazione che negli Stati Uniti d’America, Paese cosiddetto civile, esiste da sempre. A periodi alterni, c’è una manifestazione di buona volontà dalle parti della Casa Bianca, ma questi propositi restano tali, perché il vero comportamento di una parte della polizia, di tanta parte della gente schierata con la destra, è un comportamento omicida e razzista. Con in più il culto delle armi libere. Contro questa pratica, e per leggi che limitassero in qualche misura la vendita e il porto delle armi, invano si levò e tentò, avendo la presidenza per due mandati, il povero Clinton. Otto anni sprecati da questo punto di vista. E poi venne Barack Obama e perse lo stesso il tram: otto anni senza nulla di fatto. Perché comandano i produttori di armi. E allora si giustifica, anzi di più, si esalta, si poetizza questo tipo di comportamenti dicendo “legittima difesa”. Quella è la cultura a cui guardano questi signori nostrani, fin troppo potenti sullo scenario della nostra vita politica.

Altra vicenda pregna di violenza è quella che si è consumata nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere. La ministra Cartabia ha usato parole molto nette e dure per stigmatizzare l’accaduto. Così però non la pensava il suo predecessore. Il ministero della Giustizia targato Bonafede in Parlamento su quella stessa vicenda ebbe a dire, cito testualmente: «Una doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dell’intero reparto». Professor Canfora, sulla giustizia e la sicurezza i pentastellati si sono convertiti al “salvinismo”?

Questo non saprei, perché sul pensiero giuridico di Bonafede non sono informatissimo. Però mi pare che su una materia di questo genere si debba essere estremamente precisi sui dati di fatto. Sulla vicenda di Santa Maria Capua a Vetere sappiamo: c’è una documentazione fotografica, filmica, delle videocamere di sorveglianza, inoppugnabile, e la ministra Cartabia ha detto il minimo sindacale che doveva dire, non è che ha fatto chissà che. Quanto all’altro episodio da lei citato, mi immagino che per Bonafede sia stata una scivolata. Vorrei però cogliere l’occasione per dire sommessamente qualcosa che non viene mai detto. Posso?

Certo che sì…

Il personale addetto lamenta di essere insufficiente numericamente. La doglianza che viene ripetutamente manifestata dal personale che sta nelle carceri, al quale bisogna pur dare la parola quando si discute di questi problemi, è: siamo in pochi, l’organico è insufficiente e via lamentando. Dopodiché c’è chi perde la testa, chi si scatena in maniera belluina, e accade quello che accade. Allora la questione, più generale, riguarda forse il nostro pubblico impiego. Se facciamo un catalogo, possiamo dire: gli insegnanti nelle scuole, per le famose classi-pollaio, sono numericamente insufficienti. Poi diciamo che la giustizia non funziona perché mancano i cancellieri, gli auditori, i magistrati… Il responsabile giustizia della Commissione europea ci ha rimbrottati dicendo che in Italia c’è la metà dei magistrati che ci sono in Francia o in Germania. Quindi, pochi magistrati, pochi cancellieri nei tribunali, pochi insegnanti nelle scuole, poche guardie carcerarie. E diciamo una cosa ancora più dolorosa: pochissimi ispettori del lavoro. Abbiamo magnifiche leggi che perseguono e prevengono gli incidenti sul lavoro, le morti bianche che sono centinaia all’anno, però non abbiamo gli ispettori. Insomma, manca tutto. Ci vorrebbe un riordino radicale del bilancio dello Stato per potenziare massicciamente settori così importanti per i quali, alla maniera dei coccodrilli, si piange dicendo il personale è poco. Facciamo la somma di tutti questi “poco” e vediamo che c’è da rifare l’impianto della nostra pubblica amministrazione. Questa è la verità, nuda e cruda. Invece si cincischia, parlando di fanfaluche.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente. 

Estratto dell'articolo di Gianfranco Ferroni per "Il Tempo" il 27 luglio 2021. La pistola di Luca Bernardo, candidato sindaco a Milano per il centrodestra, è diventata un caso. Ma pure Pierpaolo Sileri, un altro medico in politica, ce l’ha. Se ne è parlato qualche sera fa durante la sempre interessantissima trasmissione di La7, “In onda”, grazie a Concita De Gregorio. “Stanato” dalla giornalista, Sileri ha confessato di avere un’arma, da anni, a causa della sua professione di medico, per le minacce ricevute che lo hanno costretto ad averne una, da difesa. La pistola dov’è? Il sottosegretario ha detto che è chiusa in cassaforte, e che non si ricorda più come si apre. Comunque, i medici muniti di armi sono tanti: non solo Bernardo e Sileri, numerosi primari, in tutta Italia, ne sono dotati. È un mestiere difficile... 

Estratto di un articolo di Alessia Gallione per “la Repubblica” il 26 agosto 2021. Luca Bernardo non ha mai avvertito di aver portato con sé in ospedale la pistola. Né tantomeno è stato autorizzato dalla struttura a farlo. A certificarlo, adesso, è la direzione dell'Asst Fatebenefratelli-Sacco, l'istituto sanitario in cui il candidato sindaco del centrodestra a Milano lavora come primario di pediatria. Tutto nero su bianco in una risposta a una richiesta di accesso agli atti presentata dal Pd in Regione Lombardia: «Da una verifica effettuata dai competenti uffici, non risultano pervenute al protocollo aziendale né richieste né segnalazioni in ordine all'accesso con un'arma da parte del personale dipendente negli spazi ospedalieri e nemmeno sono mai state rilasciate autorizzazioni in tal senso». Continua ad agitare la campagna elettorale milanese, il caso del candidato con la pistola. A sollevarlo, proprio sulle pagine di Repubblica, era stato il consigliere regionale di +Europa e medico neonatologo Michele Usuelli. Era lo scorso luglio. Erano i giorni, drammatici, di un'altra vicenda che ha fatto fare alle armi irruzione nell'agenda politica, quella dell'assessore leghista Massimo Adriatici che ha sparato e ucciso nel pieno centro di Voghera Youns El Boussetaoui. Alla fine, dopo una nota in cui aveva fornito una versione un po' diversa, lo stesso Bernardo l'aveva ammesso: sì, «sono entrato con l'arma in ospedale e l'ho avuta addosso», ma mai in reparto, «mai quando giro con i pazienti e nemmeno in loro presenza». Per quella pistola, ha spiegato, ha un porto d'armi da dieci anni perché ha subìto minacce e gli è capitato di portala in passato durante i turni di notte. Al Pd, che aveva annunciato di chiedere spiegazioni al Fatebenefratelli, lo stesso candidato aveva ribattuto così: «Se uno ha un porto d'armi da difesa personale, ha la possibilità di portarla ovunque e sempre e non deve avvertire nessuno per legge, perché si chiama "porto occulto". Il Fatebenefratelli non deve neanche rispondere». Invece, il Fatebenefratelli ha risposto. Inviando la comunicazione "per conoscenza" anche al direttore generale Welfare della Lombardia e al presidente del Consiglio regionale. E chiarendo di non aver mai autorizzato qualcuno a introdurre una pistola nei suoi spazi.

Andrea Senesi per corriere.it il 29 ottobre 2021.

 «La cosa che mi ha meravigliato di questa faccenda è che il sindaco di Milano non fosse già sotto tutela». 

Gabriele Albertini, anche lei finì sotto scorta?

«All’inizio del mandato giravo la città in Vespa. Dopo l’omicidio di Massimo D’Antona mi chiamò però il capo della polizia per annunciarmi che mi avrebbero assegnato una vigilanza di tre uomini. Ma ero finito al centro delle attenzioni delle Br fin dalla fine degli anni 70, per la mia attività in Confindustria. Dal covo di via Monte Nevoso si è scoperto che i terroristi mi pedinarono anche per un certo periodo. Grazie al fatto che stavo spesso fuori città dalla mia fidanzata di allora mi lasciarono poi perdere. Ero a capo della Piccola Industria di Milano. I miei omologhi di Genova e Torino sono stati gambizzati. Erano anni terribili, tanto che io ho il porto d’armi dal 1974». 

Girava con la pistola?

«Ho vissuto tutte le situazioni a rischio. Dalla stagione dei rapimenti a quella del terrorismo. Ho il porto d’armi e lo rinnovo ogni anno. Quando esco di casa ho con me tre cose: orologio, cellulare e rivoltella. Mi sento più al sicuro».

Negli anni di Palazzo Marino portava in municipio la pistola?

«No, perché avevo a fianco a me, appunto, un servizio di vigilanza con tre carabinieri bravissimi». 

Da sindaco si è poi trovato in situazione pericolose?

«Minacce di morte dirette in quegli anni non mi sono mai arrivate. Magari qualche lettera minatoria, ma niente di più. Era il clima generale però a essere ancora avvelenato, il terrorismo era ai titoli di coda ma sparava ancora. Nell’attentato alla sede di via Tadino della Cisl i brigatisti compilarono di fatto la condanna a morte del povero Marco Biagi, che con noi aveva scritto il Patto per Milano. E anche in quel volantino si faceva riferimento a me come ex presidente di Federmeccanica». 

Vede analogie con la galassia No vax e No pass?

«Quelle di oggi mi paiono schegge impazzite di ribellismo con venature di patologie personali. Però i pazzi scatenati possono anche essere più pericolosi degli ideologi organizzati».

Ha fatto bene il sindaco Sala a denunciare gli insulti e le minacce?

«Altroché. Mi dispiace per lui e anzi ne approfitto per esprimergli tutta la mia solidarietà. Gli consiglio di accettare la scorta. È una tutela doverosa per chi occupa una posizione come la sua. Non è questione di essere coraggiosi: qui si tratta di difendere le istituzioni».

Bisogna usare una mano più ferma coi cortei del sabato?

«Quando una manifestazione non è autorizzata è la legge che prevede che vada sciolta. Senza usare i lanciafiamme, ma con gli idranti e gli sfollagente, se serve. Ogni opinione è legittima se non ha finalità eversive e se è espressa nel rispetto della legge. Manifestare dove si vuole, quando si vuole, danneggiando i commercianti, ecco questi sono atti illegali. Sono minoranze aggressive che fanno danni. Perché diecimila persone non sono niente. Senza contare che i non vaccinati sono di per sé un pericolo per tutti». 

Cosa si sente di dire a Sala?

«È un uomo ragionevole, dovrà sopportare questa situazione con pazienza. Il sindaco è un ruolo di grande esposizione. E l’anomalia, ripeto, è che finora non abbia avuto una scorta. Se ce l’hanno i ministri, anche quelli senza portafoglio, non vedo perché il sindaco di Milano non debba essere protetto».

L’arma legale del femminicidio. Ogni giorno ci sono omicidi, minacce di morte o reati da parte di chi possiede una pistola ottenuta facilmente con regolare licenza. Ma solo un numero resta costante: quello delle donne ammazzate. Giorgio Beretta: «È necessario togliere le armi da fuoco dalle mani dei potenziali assassini». Rita Rapisardi L’Espresso il 28 settembre 2021. Ottantacinque donne uccise dall’inizio dell’anno, cinquantuno quelle uccise da mariti, partner o ex. Sono questi i numeri dei femminicidi in Italia. Undici solo nell’ultimo mese. Sono Dorjana Cerqueni, 60 anni, ammazzata con un colpo di pistola dal padre. Alessandra Zorzin, 21 anni, uccisa a colpi di pistola da una guardia giurata. Rita Amenze, 31 anni, freddata con quattro colpi dal marito. E Vanessa Zappalà, 31 anni, uccisa un mese fa, tra la folla ad Acitrezza, raggiunta da diversi colpi d’arma da fuoco sparati dall’ex fidanzato, denunciato per stalking e già agli arresti domiciliari. L’ultima sabato: Anna Cupelloni, 57 anni, si stava separando dal marito; lui l’ha uccisa con un fucile da caccia. L’arma del femminicidio è sempre più un’arma da fuoco legalmente detenuta. Sono pistole che abitano nelle case e di cui si conosce l’esistenza. Secondo l’OPAL, Osservatorio permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa, nel 2020 a fronte di 93 omicidi di donne, 23 sono stati commessi da legali detentori di armi o con armi da loro detenute. Si tratta di un omicidio su quattro. Un dato impressionante se messo in rapporto al numero di chi possiede una licenza per armi: meno del 10% degli italiani. Numeri calcolati dall’associazione perché non esistono registri ufficiali. Manca infatti un censimento delle licenze e delle armi legalmente detenute (le stime delle licenze, compreso il nulla osta, variano dai 3 ai 4 milioni e quelle delle armi regolarmente detenute da 8 a 12 milioni), che faccia emergere anche quelle ereditate o da collezione, che sono funzionanti, ma spesso senza licenza, e i dati relativi a omicidi e armi utilizzate. L’unico numero disponibile è una tabella che la polizia pubblica ogni anno, nel rapporto sugli omicidi del Dipartimento della Pubblica sicurezza: si parla di 1.266.476 licenze per il 2020. 

Considerando che ogni famiglia italiana è composta in media da 2-3 individui, il Censis ha calcolato che ci sono quasi 4-5 milioni di italiani, tra cui oltre 700.000 minori, che hanno un’arma a portata di mano e che, per gioco, per sbaglio, o con intenzioni delinquenti od omicide potrebbero sparare e uccidere. «È necessario, fin da subito, togliere dalle mani dei potenziali assassini, quelle armi che poi usano per uccidere. Armi che nella gran parte dei casi detengono legalmente con la complicità, va detto chiaro, di norme che ne permettono il facile accesso», commenta Giorgio Beretta, analista dell’Opal. «Questi delitti non suscitano più attenzione: una sorta di assuefazione avvolge gli omicidi con armi. Nel triennio 2017-19 sono stati almeno 131 gli omicidi perpetrati con armi regolarmente detenute, a fronte di 91 omicidi di tipo mafioso e 37 omicidi per furto o rapina. In altre parole, oggi in Italia è più facile essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o dai rapinatori». Anche se il numero degli omicidi cala di anno in anno, e l’Italia risulta essere uno dei paesi più sicuri d’Europa, chi ha un’arma ha molte più probabilità di uccidere di chi non ne possiede. Non passa giorno un in cui non vi siano omicidi, tentati omicidi, minacce di morte o un reato da parte di chi detiene armi con regolare licenza. E in tutto questo solo un numero resta costante: è quello delle donne uccise. 

Licenze facili e possibili arsenali. Ottenere una licenza per porto d’armi non è troppo difficile: basta essere esenti da malattie nervose e psichiche, non essere alcolista o tossicodipendente noto, e aver superato un breve esame di maneggio delle armi, inoltre la Questura controlla che non ci siano precedenti penali. Dal punto di vista medico, tutto si basa sul “certificato anamnestico”, di fatto un’autocertificazione controfirmata dal medico curante e una visita presso l’Asl, simile a quella per ottenere la patente di guida, in cui si valutano vista e udito. Nessuna visita specialistica, esame tossicologico o valutazione psichiatrica. Luca Traini, autore del raid razzista di Macerata, che ha ferito sei persone, ha impiegato 18 giorni per avere una licenza di tiro sportivo. «Persino per diventare carrellista serve un esame tossicologico, ma non per chi detiene un’arma», commenta Beretta. 

Sono due le tipologie di licenza più richieste e insieme fanno il 95% del totale: quella per uso caccia e quella per uso sportivo. Esistono altri tre tipi di licenze: quella da difesa personale, difficile da ottenere, riguarda le persone che hanno ricevuto minacce o svolgono lavori rischiosi (gioiellieri, avvocati penalisti, ecc.), quella per le guardie giurate, circa 50mila quelle distribuite e, infine, la licenza nulla osta, quella per cui l’arma deve rimanere in casa e non si può mai uscire con essa, al massimo al poligono, dopo aver fatto richiesta alla questura per ottenere un permesso. Le licenze per uso sportivo, venatorio o un semplice nulla osta, permettono potenzialmente, di disporre di un arsenale: revolver o pistole semiautomatiche con caricatori fino a 20 colpi, dodici armi cosiddette “sportive” - tra cui rientrano i famigerati fucili semiautomatici AR-15, i più usati nelle stragi in America, i fucili da cecchini “sniper” e alcuni tipi di fucili a pompa - con un numero illimitato di caricatori da 10 colpi e un numero illimitato di fucili da caccia, più 200 munizioni per armi comuni e 1.500 munizioni da caccia. «C’è chi lamenta leggi restrittive, ma quali? Sono fatte apposta per favorire la vendita di armi. Perchè chi ha la licenza di caccia può possedere pistole con cui non può andare a caccia? È assurdo che si possa avere un fucile semiautomatico con un semplice nulla osta. E le tasse? Due marche da bollo da 16 euro per ottenere una licenza per cinque anni», commenta Beretta. «Quando analizziamo insieme questi dati scopriamo che ci sono più licenze in circolazione per uso sportivo rispetto a chi l’uso sportivo lo pratica davvero. Questo vuol dire che la licenza è un escamotage», spiega Daniele Tissone, alla guida del Silp, il sindacato di Polizia della Cgil. Oggi esistono in Italia più di 400mila “tiratori fantasma” (su circa 580mila detentori di licenza), che non praticano alcuna disciplina, totalmente ignoti alle strutture sportive. «I controlli devono parlarsi tra loro, manca comunicazione tra soggetto che opera il rilascio e controllo di chi ha l’arma, o che non dovrebbe averla. I certificati medici valgono cinque anni quindi intervenire prima non si può. Come Silp siamo contro la proliferazione delle armi al contrario di qualche politico che la ritiene un bene». Nel 2015, dopo l’attentato al Bataclan, il “decreto antiterrorismo” approvato dal governo Renzi, su proposta dei vertici europei, aveva introdotto forti limitazioni, riducendo a sei il numero di “armi sportive” da possedere. Restrizioni poi cancellate nel 2018, con le modifiche volute dalla Lega, appoggiata dal M5S, e dal leader Matteo Salvini che nello stesso anno, all’Hit Show, una fiera di armi e caccia, aveva siglato un accordo con il Comitato Direttiva 477 (oggi Unarmi), una lobby pro-armi, per ridurre gli effetti della direttiva europea. Per cui le armi sportive sono passate da sei a 12, e non c’è nessun obbligo di avvisare i propri conviventi maggiorenni di possedere armi. Spesso le donne uccise non sapevano neanche ci fosse un’arma in casa, e quando lo sanno, questo rende ancora più difficile denunciare. 

La proposta del Pd. A risolvere una parte di queste problematiche ci pensa una legge portata alla Camera da Walter Verini, deputato Pd e componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, con firme di deputati Pd, M5s, Iv e Leu. Presentata nell’aprile 2018, la proposta è tornata nel dibattito pubblico dopo la sparatoria di Voghera, in cui l’assessore della Lega Massimo Adriatici ha ucciso un 39enne di origine marocchina, Youns El Boussettaoui, e l’operazione di polizia contro un gruppo no-vax su Telegram. Tra “I guerrieri”, così registrati sul social, è stato arrestato, tra gli altri, Stefano Morandini, detentore di regolare licenza per uso sportivo, che annunciava l’uso di armi, lacrimogeni, molotov e di un drone esplosivo da fare cadere sulla Camera. Il testo del progetto di legge, composto da quattro articoli, prevede che sia una commissione medica a rilasciare un certificato di idoneità psicofisica alla richiesta e al rinnovo del porto d'armi, con revoca per "segni anche iniziali di disturbi psico-comportamentali". Inoltre sarebbe aggiunto l’obbligo di comunicazione ai familiari. Nei casi di femminicidio questo è importante, molte donne uccise non sapevano che il partner o ex possedeva un’arma. «La ratio è meno armi ci sono in giro, più sicurezza c’è. Questa proposta può essere un deterrente alla loro diffusione. I controlli saranno fatti da commissioni multidisciplinari, in cui ci siano più specializzazioni mediche, ogni anno: vogliamo avere le massime garanzie possibili, chi ha un’arma deve essere nel suo equilibrio», commenta Verini. «In relazione ai femminicidi prevede un’importante norma: comunicando a familiari, congiunti, anche ex mogli o compagne, di sapere se il loro precedente partner è in possesso di un’arma o la richiede. Un gran contributo per le donne colpite dai propri “padroni”». Il testo che dovrà essere discusso e quindi andare incontro a modifiche, è considerato troppo debole da alcune associazioni, visto che la comunicazione non riguarda le armi per uso sportivo, una delle licenze più diffuse. Il Ministero dell’Interno ha promesso una banca dati che si potrebbe incrociare con altre informazioni già in possesso, come le denunce per stalking, e permettere di avvertire le donne del pericolo. Lo stesso vale per le armi delle ex forze dell’ordine o delle guardie giurate, spesso non restituite, rimangono in una zona grigia. 

Il porto d'armi non è reato. Vittorio Macioce il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Il porto d'armi, a quanto pare, è un reato (morale). Siamo già in campagna elettorale e durerà a lungo, fino al 2023. Il porto d'armi, a quanto pare, è un reato (morale). Siamo già in campagna elettorale e durerà a lungo, fino al 2023. Questo significa che la politica sarà sempre più dettata dalla cronaca e giorno per giorno avremo un caso, una polemica, una santa indignazione da sviscerare per colazione. Non ci sarà tempo per immaginare il futuro, saremo inchiodati al presente, a discutere del rosso e del nero su ogni cosa. Batti e ribatti, in un ping pong senza senso, dove ognuno si schiera di qua o di là, senza sorpresa. Ecco allora il piatto del giorno. Luca Bernardo, candidato sindaco per il centrodestra a Milano, pediatra e primario al Fatebenefratelli, si prende il fango in faccia per una pistola. È quella che ogni tanto porta con sé perché nella vita non si sa mai. La rivelazione, sotto forma di accusa, dal consigliere regionale di +Europa Michele Usuelli: va in giro con la pistola, lo sanno tutti. Il gioco è fare sponda con i fatti di Voghera, con un sottotesto. A destra sono tutti pistoleri. È una logica furbetta. Massimo Adriatici, assessore leghista, verrà giudicato in tribunale. Bernardo invece è già moralmente colpevole. Il porto d'armi lo condanna. Non importa il come e il perché. Bernardo ha ricevuto minacce. Bernardo non va armato in corsia. Bernardo lascia in genere la pistola in cassaforte. Bernardo fa quello che fanno molti medici, compreso Pierpaolo Sileri, viceministro alla Salute. È una protezione e tutti sperano di non averne bisogno, di non dover mai utilizzare quell'arma. C'è però che quello del dottore sta diventando un mestiere difficile. Molti non si sentono sicuri. È una vergogna? È un segno politico? È una scelta incompatibile con la candidatura a sindaco? Bernardo, soprattutto, ha il porto d'armi. È una facoltà prevista dalla legge e concessa dallo Stato. Ci sono regole e condizioni. È qui che si comincia a camminare nel terreno dell'ipocrisia. Chi considera la licenza a portare le armi un peccato dovrebbe contestare la legge. Abolirla. Addirittura dovrebbe cancellare il concetto di legittima difesa. Non esiste. Se hai un'arma sei di fatto un potenziale pistolero. Chi punta l'indice contro Bernardo naturalmente non arriva a questo. L'indignazione infatti non nasce dalla filosofia della non violenza. Non è questo il centro del discorso. Non è il porto d'armi. Il centro è Bernardo. Il centro è la sua appartenenza. Non è pregiudizio. È malafede. La denuncia nasce da motivi contingenti, che sono ormai un abito mentale. È la competizione elettorale che giustifica qualsiasi colpo basso. È il vizio di rispondere al candidato di centrodestra con una campagna di demonizzazione. Ecco, vedete, questa è la politica di sicurezza dello sfidante di Giuseppe Sala. È la voglia di inchiodare l'avversario politico a una pistola. È il marchio da sindaco sceriffo. «Ma io - dice Bernardo - lo sceriffo non l'ho fatto neppure a Carnevale». Vittorio Macioce

Voghera, il caso Adriatici dimostra che vietare ai privati di armarsi è tipico delle dittature. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. Lo stupidario progressista nostrano si è arricchito di un nuovo capitolo, lo slogan beota #StopArmiPrivate. A sostenere il tormentone, vagamente sciacallesco in quanto allestito sul caso dell'assessore leghista di Voghera Massimo Adriatici che in una colluttazione ha esploso un colpo fatale contro il marocchino irregolare Youns El Bossettaoui, anche il comandante in capo del banalmente corretto democratico, Enrico Letta. Che in un tweet ci ha regalato la seguente meditazione: «È un giorno triste. Saranno inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Ma una cosa dobbiamo e possiamo farla: #StopArmiPrivate. In giro con le armi solo poliziotti e carabinieri». E ovviamente la proposta piace molto alla gente che piace, a partire dai radicalchiccosissimi sindaci di Milano e Firenze, Beppe Sala e Dario Nardella. Ma, se è per questo, il segretario dem può vantare compagni di cordata ben più prestigiosi. Xi Jinping e Kim Jong Un, ad esempio, rispettivamente leader pressoché plenipotenziario della Cina comunista e dittatore della Corea del Nord. O, se vogliamo fare un esercizio storico, due signori non irrilevanti per le convulsioni del Novecento, tali Adolf Hitler e Josif Stalin. Non è una provocazione, ma un'ovvietà teorica e pratica: la prima preoccupazione di ogni totalitarismo è evitare che i cittadini (o meglio, i sudditi) possano difendersi dai soprusi e dalle persecuzioni dello Stato/Partito. Sarà un caso, ma le legislazioni più restrittive in materia di "armi private" recano le seguenti, illuminate firme. Unione Sovietica, 1929: controllo rigido delle armi. Germania, 1938: legge contro la libera circolazione delle armi. Cina, 1935, analogo divieto, in vigore ancora oggi, come d'altronde, come detto, in Corea del Nord. Sarà sempre un caso, ma quella che rimane la più grande democrazia liberale del mondo, gli Stati Uniti d'America, al contrario non ci pensa minimamente, nonostante i periodici strilli moralistici al di qua dell'Atlantico, ad abolire il famigerato Secondo Emendamento, che garantisce il diritto a possedere armi. Anzi, nella loro cultura è la garanzia estrema, e quindi intoccabile, contro la possibilità che il potere degeneri in tirannia (con le parole di Thomas Jefferson: «Quale Paese può conservare la propria libertà se ai suoi governanti non viene rammentato che la popolazione conserva il proprio spirito di resistenza?»). È eccesso di lassismo di una nazione costruita sulla Colt (e sull'intangibilità dell'individuo, en passant)? Può essere. Quel che è certo, è come si chiamano quei Paesi che nella storia hanno impedito per legge "le armi ai privati", come gridano le prefiche della sinistra italica: dittature.

Uccisero il ladro in fuga, tutti prosciolti: "Fu legittima difesa". Alessandro Imperiali il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Il tribunale archivia il procedimento contro due carabinieri e una guardia giurata. "Fu legittima difesa", ha affermato il giudice del tribunale di Perugia che ha così archiviato il procedimento per la morte di Eduart Kozi, cinquantenne di origini albanesi, morto per dei colpi esplosi dalla pistola di due carabinieri e una guardia giurata dopo una rapina in tabaccheria. Ben quattordici in quel caso sono stati i proiettili usciti dalla canna delle pistole contro i ladri che stavano fuggendo in macchina. Uno di questi per "errore di esecuzione", così è stato definito, ha colpito alla testa uno dei malviventi. Una sentenza che arriva proprio nei giorni in cui è maggiormente infuocato il dibattito sui fatti di Voghera dove un assessore comunale è indagato per aver ucciso martedì sera, dopo una violenta discussione, un cittadino marocchino di 39 anni. E mentre il pm di Pavia inoltra la richiesta di convalida del fermo al gip per il politico leghista accusato di eccesso di legittima difesa, il giudice per i fatti di Perugia archivia il processo nei confronti dei tre membri delle forze dell'ordine. Inizialmente, come riporta il Messaggero, sono stati accusati di omicidio colposo in concorso ma i risultati delle perizie hanno dimostrato come quei colpi esplosi ben 3 anni fa, nell'ottobre del 2018, non erano destinati all'uomo ma alla macchina in fuga. Il fatto è avvenuto nella frazione di Ponte Felcino dopo un furto in una tabaccheria e soprattutto dopo che l'auto in fuga ha speronato "almeno due volte" il mezzo delle forze dell'ordine. I tre malfattori sono partiti sgommando a bordo di una Audi ed è stata proprio quella sgommata ad abbassare fatalmente di pochi centimetri, secondo i periti, l'automobile. Per lo meno quanto bastava per rendere possibile l'errore di traiettoria che ha ucciso il ladro. Il corpo di quest'ultimo inoltre è stato abbandonato dai suoi complici, di cui non si hanno notizie, e trovato solamente il giorno dopo. La famiglia dell'uomo ucciso che è da anni in città continua ad opporsi all'archiviazione del caso ma il giudice, tenendo conto delle memorie degli avvocati dei tre indagati, Nicola Di Mario e Alessandro Vesi, ha rilevato le "scriminanti dell'adempimento del dovere". E soprattutto "dell'uso legittimo delle armi e della legittima difesa" poiché "i militari cercavano di bloccare la via di fuga ai malviventi". Il modo di agire di quest'ultimi, sempre secondo quanto scritto dal giudice, "è stata quella di porre in essere manovre violente e pericolose pur di aprirsi un varco" non facendo mancare "ripetuti speronamenti" e "percorrendo traiettorie tali da mettere in pericolo anche l'incolumità fisica del vigilantes". Solo allora la guardia giurata e i carabinieri hanno aperto il fuoco. A comprovare che il bersaglio era l'automobile e non l'uomo sono stati gli otto colpi, su quattordici, ritrovati sull'auto. "Ciò comprova chiude il giudice che gli indagati hanno avuto di mira l'autovettura e non già alcuno dei malviventi" ha affermato il giudice. Per questo è stata possibile la teoria della "sussistenza della legittima difesa putativa ingenerata" per il carabiniere che ha esploso il colpo. Soprattutto perché come scritto anche nella documentazione "la situazione di pericolo è stata creata dagli stessi malviventi".

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che riguarda il terzo settore. Collaboro con ilGiornale.it da gennaio 2021 e con Rivista Contrasti. Ho tre credo nella vita: Dio, l’Italia e la Lazio. 

Sparò ed uccise l'aggressore: il pm chiede l'archiviazione. Federico Garau il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Agente sparò ed uccise l'aggressore: il pm chiede l'archiviazione. La procura della Repubblica di Milano ha richiesto l'archiviazione delle indagini per eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi aperte nei confronti di un agente di polizia che uccise un 45enne durante un intervento in via Sulmona. L'episodio incriminato risale alla notte tra il 22 ed il 23 febbraio, quando alcuni cittadini segnalarono alle forze dell'ordine la presenza di uno straniero che, armato di coltello, stava minacciando i passanti. Quando la prima volante arrivò sul posto, il facinoroso, un filippino di 45 anni di nome Jerry Dimapulangan, si scagliò con rabbia contro gli agenti, che tentarono invano di contenere la sua furia utilizzando i manganelli. Durante la colluttazione, uno dei poliziotti, costretto ad indietreggiare, inciampò e cadde a terra, sbattendo la testa e perdendo i sensi. Brandendo il coltello di cui era in possesso, il filippino si scagliò anche contro gli agenti della seconda volante sopraggiunta nel frattempo in via Sulmona. Venne reso di mira in particolar modo un poliziotto di 23 anni, il quale, dopo essere indietreggiato ed aver esploso in aria un colpo di avvertimento con la pistola d'ordinanza, rivolse l'arma da fuoco contro l'aggressore. I due proiettili centrarono il bersaglio all'altezza dell'addome e dell'anca destra. Un racconto, quello fornito dagli uomini in divisa, che coincise perfettamente con la testimonianza dei cittadini presenti sul posto in quegli attimi drammatici e con le immagini riprese da alcune videocamere di sorveglianza installate nelle immediate vicinanze. Il facinoroso filippino morì in strada pochi minuti dopo, nonostante i tentativi di rianimazione effettuati dal personale medico del 118. In ospedale finirono anche l'agente svenuto dopo la caduta a terra ed il giovane collega di 23 anni che era stato costretto a fare fuoco, quest'ultimo a causa del forte choc. Oggi il pm di Milano Paolo Storari ha chiesto di archiviare l'indagine per eccesso colposo di uso legittimo di armi a carico dell'agente. Questi avrebbe dunque reagito in maniera legittima alla situazione di pericolo creata dal 45enne filippino armato di coltello ed in stato di alterazione psico-fisica, salvando la vita sua e quella del collega di pattuglia così come quella di due passanti, anch'essi aggrediti dal facinoroso. L'istanza del pubblico ministero sarà ora valutata dal giudice per le indagini preliminari per l'eventuale accoglimento od il rigetto.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018

Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2021. I colpi di pistola veri non sono come quelli che si sentono nei film. Sembrano piuttosto scoppi di petardi. «Poi ho visto quel ragazzo con la gamba insanguinata e ho capito che gli avevano sparato», dice Francesca V., 22 anni, studentessa in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. E la sua amica, Francesca A., 23 anni, stessa facoltà, sempre a Milano, ma alla Bocconi, aggiunge: «Anche io ho pensato a dei petardi, ma la scansione dei colpi, così ritmica, mi ha fatto subito capire che si trattava di colpi di pistola». Le due ragazze si son sentite male, ma l'istinto le ha aiutate a non svenire e a scappare, come ha fatto Andrea B., da poco laureatosi a Bari, anch' egli tarantino come le due ragazze. Tutti e tre, dopo la sparatoria avvenuta intorno all'1,30 dell'altra notte nel tranquillissimo e accoglientissimo Yachting Club della frazione di San Vito, non sono riusciti a dormire. Tutti e tre hanno chiesto la stessa cosa: niente cognomi, non vogliamo esporci a ritorsioni. Hanno ragione, perché la sparatoria non è scaturita da un diverbio o dallo stato di ubriachezza di alcuni, ma era stata in qualche modo messa in conto dal «pistolero», Umberto Sardiello, 37 anni, pregiudicato, due figli, che è entrato allo Yachting con il preciso scopo di regolare dei conti con delle persone che sapeva di poter trovare lì, in quella festa di universitari a cui stavano partecipando 300 persone. Sardiello, figlio perduto dello sventurato quartiere Tamburi - chiamato il quartiere dei «morti che camminano» perché da sempre respira ogni emissione venefica dell'ex Ilva - non c'entrava nulla con la festa dello Yachting, ma ci è andato armato, dopo la mezzanotte, perché sapeva che lì avrebbe incontrato quelli che stava cercando. I suoi «rivali» erano alcuni ragazzi di Grottaglie - paesone a mezz'ora di auto da Taranto -, che ha subito affrontato a muso a duro. Sardiello è grande grosso, lo descrivono alto più di 1 metro e 90, e secondo le testimonianze e le immagini delle 30 telecamere che sorvegliano l'area quasi tutta all'aperto dello Yachting, ha cominciato a menare le mani e ne ha stesi un paio. Poi, qualcuno gli ha spaccato una bottiglia in fronte e allora lui ha tirato fuori la pistola. Prima ha sparato a uno dei grottagliesi, un ragazzo di 28 anni che ora rischia l'amputazione della gamba, e poi, barcollando, ha continuato a sparare alla cieca, quasi ad altezza d'uomo, ferendo altri 9 giovani. È scappato, è tornato a casa e ha nascosto i jeans e la maglietta che indossava in lavatrice. I poliziotti della Squadra mobile non ci hanno messo molto a ritrovare gli indumenti e la pistola e, con l'ausilio dei rilievi dei colleghi della Scientifica, ad arrestare Sardiello, accusato di duplice tentato omicidio, spari in luogo pubblico, detenzione illegale di arma da fuoco, lesioni gravi. «Sono 50 anni che esiste lo Yachting Club e una cosa simile non è mai accaduta», dicono Gianluca Piotti e sua moglie Daniela Musolino. Ex ingegnere della Ibm lui e architetto lei, in questo angolo di costa meraviglioso sul Mar Grande - una Taranto senza i problemi di Taranto - hanno inaugurato una nuova vita. Qui ci vengono tutti, famiglie con bambini, ragazzi, anziani, e tanti studenti, per lo più fuori sede, che hanno nello Yachting il punto di riferimento di ogni estate. Qui, tra una festa e un ballo sulla spiaggia si presentano persino libri, nell'«Angolo della conversazione» che Matteo Dusconi organizza da trent' anni. Permessi, autorizzazioni, adempimenti burocratici, tutto in regola. E nemmeno un mezzo abuso edilizio. Nulla dello stereotipo del Sud violento e malavitoso. «Per questo mi viene da piangere a ripensare a ciò che è successo l'altra notte», dice Francesca A., mentre Francesca V. forse già piange, ma nasconde gli occhi dietro le lenti da sole.

Sparatoria pub Taranto: violate norme anti-Covid, chiuso bar. Fermo attività 5 giorni. Sanzionato anche titolare discoteca. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2021. Nelle indagini sulla sparatoria con dieci giovani feriti la notte tra mercoledì e giovedì nello Yacthing club di San Vito a Taranto, dove era in corso anche una festa universitaria, la Polizia amministrativa della Questura ha disposto sanzioni per violazione delle norme anti-Covid, nei confronti dei titolari sia del discopub che del bar annesso allo stabilimento balneare. La struttura, tra le più frequentate della movida tarantina, ospitava circa 300 persone. Dalle immagini della videosorveglianza è emersa la presenza, nell’area bar del lido, di circa 200 avventori privi di mascherina e ad una distanza interpersonale inferiore a quanto stabilito dalle norme anti-Covid. Oltre alla sanzione di 400 euro, è stata disposta la chiusura per 5 giorni dell’attività del bar. Al titolare della discoteca è stato contestato l’illecito amministrativo per non aver sospeso l’attività da ballo con numerosi avventori senza mascherina sulla «pista da discoteca - spiega una nota della Questura - La circostanza che si trattasse di una serata danzante con la presenza di consolle e disc jockey è stata confermata da alcuni avventori». In seguito al fermo appena qualche ora dopo la sparatoria del 37enne tarantino Umberto Sardiello, con piccoli precedenti, le indagini proseguono per accertare il movente. Il 37enne ha sparato contro due pregiudicati di Grottaglie con i quali aveva avuto un diverbio e contro alcuni avventori mentre fuggiva, per farsi spazio e guadagnare l’uscita. Un 28enne di Grottaglie, tra i principali obiettivi, è stato colpito alle gambe ed è in prognosi riservata nel reparto di Chirurgia vascolare, altri due feriti sono ricoverati nel reparto di Ortopedia. Sette i giovani dimessi dall’ospedale con prognosi tra i 15 ai 30 giorni. 

SPARATORIA IN UN CLUB A TARANTO. FERITE 10 PERSONE. ARRESTATO IL RESPONSABILE DALLA POLIZIA. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2021. Gli investigatori della Squadra Mobile guidati dal Vice Questore dr. Fulvio Manco intervenuti sul posto dopo aver visionato del circuito delle telecamere di sorveglianza installate nel club, sono riusciti ad identificare l’autore della folle sparatoria che poteva concludersi in una vera e propria strage, e lo hanno arrestato in mattinata. Ieri sera in un noto club sulla litoranea tarantina alle porte di Taranto, dove erano presenti circa 300 persone nella serata organizzata da alcuni studenti universitari un pregiudicato 37enne Umberto Sabiello di Taranto, con precedenti penali per droga e reati contro il patrimonio, il quale sparando all’impazzata ha scaricato un intero caricatore di una pistola calibro 9, a causa di un diverbio con altri due pregiudicati, Claudio Cavallo e Pietro Vestita entrambi di Grottaglie. Durante il litigio, Sabiello colpito da un pugno è finito a terra ed è stato allora che ha estratto una pistola detenuta illegalmente, esplodendo tutti i colpi del caricatore, uno dei due pregiudicati grottagliesi, ed altre nove persone estranee ai fatti. Nel club poteva accadere una strage, poichè l’uomo finito a terra ha sparato all’impazzata. Le altre incolpevoli persone ferite dai colpi di pistola vaganti, quattro ragazze e sei ragazzi tra i 18 e i 28 anni sono state soccorse dalle ambulanze accorse sul posto insieme alle pattuglie della Squadra Mobile e della Squadra Volante della Questura di Taranto. Due ragazze ferite sono state trasportate nell’ospedale Moscati di Taranto Nord, ricoverate nei reparti di ortopedia e chirurgia vascolare, mentre una ragazza di Grottaglie, di 28 anni, è rimasta ferita ad una gamba (soccorsa sul posto da un medico presente che ha bloccato l’emorragia di sangue) si trova attualmente è in prognosi riservata. Sette delle persone ferite sono stati dimesse con delle prognosi fra i 15 ed i 30 giorni. Gli investigatori della Squadra Mobile guidati dal Vice Questore dr. Fulvio Manco intervenuti sul posto dopo aver visionato del circuito delle telecamere di sorveglianza installate nel club, sono riusciti ad identificare l’autore della folle sparatoria che poteva concludersi in una vera e propria strage, e lo hanno arrestato in mattinata. “Abbiamo oltre 30 telecamere di sorveglianza installate – ha spiegato il comproprietario della struttura turistica Gianluca Piotti – noi con la sicurezza non scherziamo ma ieri sera l’ingresso al nostro lounge bar estivo era libero e può capitare purtroppo, che insieme a tante persone per bene, possa entrare passando inosservata anche gente poco raccomandabile”. Gli investigatori della Polizia hanno scandagliato tutte le immagini esterne ed interne al club filmate dalle telecamere di sorveglianza, ed è stato proprio grazie ad una telecamera hanno potuto scovare e immagini, tutta la sparatoria e consentito di arrivare al nome dell’autore, già noto a causa dei suoi precedenti penali (reati contro la persona). Questa mattinata sono andati a cercarlo presso la sua abitazione, nel quartiere Tamburi, dove in un primo momento non lo hanno trovato, ma successivamente è stato rintracciato e sottoposto a fermo. Sono state effettuate anche delle perquisizioni presso le abitazioni dei genitori e della compagna del Sabiello. Ed è stato proprio a causa della donna, che i poliziotti hanno trovato la maglietta di colore verde, i jeans e le scarpe da uomo perfettamente corrispondenti a quelli indossati dal Sabiello al momento della sparatoria.

Adesso Sabiello è accusato di duplice tentato omicidio, lesioni gravi, detenzione e porto illegale di arma da sparo, spari in luogo pubblico, reati contestati dal procuratore aggiunto f.f. Maurizio Carbone e dal pm di turno Enrico Bruschi della Procura di Taranto.

Carlo Vulpio per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2021. La raffica di colpi esplosi all'alba non ha ingannato nessuno, non c'era alcuna festa patronale in calendario, né alcuno di quei vari festeggiamenti che va di moda celebrare con i fuochi d'artificio. Quelli che risuonavano per la centrale via Kennedy, alle sei del mattino, erano colpi d'arma da fuoco. Diciotto per l'esattezza, calibro 7.65, che hanno crivellato il muro, lato ingresso, del residence Coppola, case vacanze a due passi dal mare. È successo all'improvviso, quando la città si era appena addormentata, poiché a Gallipoli, d'estate, l'alba non è mai l'inizio di un nuovo giorno, ma la fine di quello precedente. Tre ragazzi, Ibrahim Rudi, 21 anni, di Galatina, Eugenio Campa, 20, di Novoli, e un altro ventenne di Sogliano Cavour sono arrivati davanti al Kennedy, hanno guardato la porta d'ingresso e dopo un cenno d'intesa di Eugenio a Ibrahim, questi ha impugnato la mitraglietta come fosse un giocattolo e ha fatto partire una sventagliata di colpi, in stile Gomorroide o Gomorra, tanto è la stessa idiozia, i criminali non si svegliano così presto e soprattutto non sparano ai muri. Ibrahim se l'è presa con il muro dell'albergo in cui si trovava la sua ex fidanzata, Ilenia, 26 anni, di Cutrofiano, piccolo comune dell'entroterra salentino, per dimostrare a tutti che lui è un uomo, che a lui Ilenia non poteva mancare di rispetto. Ibrahim è di origini albanesi, ma non vuol dire. È nato e cresciuto in Italia, e su certe cose le origini «etniche» c'entrano ben poco, contano molto di più i modelli culturali, o persino religiosi. Semplicemente, Ibrahim è l'ennesimo ragazzotto che dopo aver litigato con la fidanzata - ed essere stato mollato da lei - si è autoscritturato per un film di cui lui sarebbe stato il regista e il protagonista nella veste del vendicatore di un torto subìto. Si è procurato chissà come un'arma - una pistola mitragliatrice, questo sì un punto da chiarire bene da parte degli investigatori - e con un'azione eclatante ha rischiato di trasformarsi in un assassino. Davanti a cinque persone, tra le quali Ilenia, sua sorella e il suo nuovo fidanzato, ha sparato con mano malferma tutti quei colpi ad altezza d'uomo contro l'albergo che ospitava la nuova coppia, mentre le telecamere di un centro estetico dall'altra parte della strada ne stavano riprendendo le gesta da diverse inquadrature, fuga compresa assieme ai due squinternati complici. I carabinieri li hanno acciuffati in giornata, tutti e tre, vicino a Novoli, che è come dire dietro l'angolo. Avevano appena bruciato gli indumenti che indossavano e stavano cercando di disfarsi dell'arma. Ibrahim Rudi dovrà rispondere di tentato omicidio plurimo aggravato e di detenzione e porto illegale di armi da guerra, mentre i due complici sono stati denunciati a piede libero per favoreggiamento.

·        La Strage di Ardea.

Nel dramma di Ardea il sangue calabrese dei bambini David e Daniel. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud l'1 luglio 2021. È una storia di sangue quella dello scorso 13 giugno ad Ardea, alle porte di Roma. Sangue che scorre, quello dell’assassino e di tre vittime innocenti fra cui David e Daniel, rispettivamente di 5 e 10 anni; e altro sangue ancora che ribolle di tormento. E di dolore. È sangue calabrese quello del trentenne Domenico Fusinato, il papà dei due bambini, un particolare fin qui adombrato dai dettagli laceranti di una vicenda che diciassette giorni dopo continua a suscitare orrore e sgomento come nella prima ora. La famiglia è originaria di Cosenza, più precisamente di Rende, dove da tanti anni è proprietaria di un’edicola a Commenda, luogo di ritrovo per intere generazioni di adolescenti e adulti. Il padre di Domenico, Alberto, nell’ultimo quarto di secolo si è segnalato più volte all’attenzione della cronaca per reati dei quali è considerato una sorta di pioniere insieme al fratello, omonimo di suo figlio: truffe in internet, clonazione di bancomat e carte di credito e altri raggiri informatici dei quali i due Fusinato erano considerati veri e propri maestri. Da più di un decennio ormai, il nonno di David e Daniel si era stabilito nel Lazio, in quel di Ostia, con al seguito i propri congiunti ed era stato arrestato proprio pochi giorni prima della mattanza, da semilatitante per scontare un residuo di pena, risparmiandosi così lo strazio di assistere all’uccisione dei suoi nipotini. Quello, piuttosto, è toccato a suo figlio, presente sul posto, che ne ha raccolto l’ultimo respiro, stringendo loro la mano per accompagnarli nell’aldilà. Vita accidentata la sua, che già da giovanissimo lo ha visto prima finire impelagato negli affari illeciti del padre per poi essere assorbito da un giro criminale più impegnativo e insidioso. Era sospettato di essere contiguo alla delinquenza organizzata ostiense, Domenico, e per questo motivo si trovava, suo malgrado, ristretto ai domiciliari per fatti di droga. Lo era anche quel giorno fatale, quando un’altra esistenza breve e sofferta, quella di Andrea Rignani, giunta all’acme del ghigno, avrebbe trovato il modo di funestare per sempre la sua vita e quella della sua famiglia. È una domenica qualunque quella del 13 giugno di Ardea se non fosse che sull’asfalto c’è il sangue di Daniel. Il suo buon sangue. Giocava a calcio, faceva il portiere, pare avesse talento e a che a lui fosse già interessata la Lazio. Aveva un sogno grande abbastanza da cancellare gli errori degli adulti della sua famiglia, un sogno così grande da riscattare il mondo. Il mondo, però, non si riscatta. E sa anche essere molto crudele con gli innocenti.

Alessia Marani, Camilla Mozzetti e Mirko Polisano per "ilmessaggero.it" il 13 giugno 2021. Due fratellini di 5 e 10 anni, Daniel e David, morti. Uccisi. E insieme a loro anche un anziano di 74 anni. È tragico il bilancio di una sparatoria avvenuta questa mattina a ad Ardea, in provincia di Roma. A fare fuoco all'impazzata, in un parco nel consorzio Colle Romito, un 34enne psicolabile che dopo aver sparato si è allontanato barricandosi in una casa. Ora nella zona sono d'ore d'ansia: sul posto c'è l'Api, l'aliquota di primo intervento del Comando Provinciale di Roma per negoziare, che sta facendo irruzione visto che l'uomo non rispondeva più ai contatti. A segnalare l'inizio del blitz un'esplosione molto forte proveniente dall'abitazione. L'uomo è stato trovato morto suicida. I due bambini giocavano nel parco, l'anziano andava in bicicletta quando sono stati raggiunti dai colpi. Sul posto i carabinieri di Ardea, Anzio e Pomezia che stanno cercando di ricostruire cosa sia accaduto questa mattina e di capire il movente della sparatoria. La dinamica dei fatti, comunque, al momento lascerebbe presupporre che l'aggressore abbia sparato a caso, senza alcuna apparente motivazione.

LA DINAMICA - Gli investigatori stanno ora inoltre gestendo la trattativa con l'uomo, che si è asserragliato armato. L'anziano è morto poco dopo l'aggressione. Si è tentato invece disperatamente di salvare la vita ai due piccoli per cui è stato provato il trasferimento in elicottero in un ospedale della Capitale. «Ho ricevuto ora una telefonata che non avrei mai voluto avere, il Direttore Sanitario dell'Ares 118 mi ha appena comunicato che i medici soccorritori stanno facendo la constatazione di decesso per entrambi i bambini - ha riportato l'assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato - Il primo a non farcela è stato il più piccolo, poi purtroppo è mancato anche il secondo bambino. Gli operatori intervenuti sul posto hanno impiegato tutti gli sforzi possibili per salvare le vittime con ripetuti tentativi di rianimazione, ma la situazione è apparsa fin da subito compromessa. Sono profondamente scosso per l'accaduto ed esprimo tutto il mio rammarico e le più sentite condoglianze ai familiari e all'intera comunità di Ardea che oggi vive un terribile lutto per questa tragedia».  

«NON USCITE DI CASA» - «Attenzione. Tutti chiusi in casa c'è una persona che spara nel consorzio». È uno dei tanti appelli che sono rimbalzati in mattinata sui gruppi social di Colle Romito dove è avvenuto il triplice delitto. «Rimanete a casa! Sembra ci sia una persona armata che gira per Colle Romito», scrive un altro utente. Appello a cui si è aggiunto quello delle forze dell'ordine. 

IL SINDACO - «Dalle minacce fatte nei giorni passati, è uno instabile. Ha dato seguito a quello che aveva detto, motivi futili a cui nessuno aveva dato tanto peso - ha detto il sindaco di Ardea, Mario Savarese che è stato sul posto - E invece stamattina, i bimbi erano lì per caso con la bicicletta con quell'anziano. Ho dato alle forze dell’ordine la mappa catastale di quella casa perché è barricato in casa. La situazione è sotto controllo. Sono andato via per evitare assembramenti che sono solo dannosi. «L'uomo è sicuramente armato in casa, per questo non si è ancora fatta irruzione. Pare che il tutto sia nato da una futile lite», ha sottolineato.

Sparatoria ad Ardea, il colpo alla tempia al passante eroe che ha provato a difendere i bambini. Fabrizio Caccia il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. «Il cuore non batte, aiutatemi, quando arriva l’ambulanza?». Domenico Fusinato, il papà di Daniel e David, 10 e 5 anni, si china su di loro alla disperata ricerca di un segnale di vita e non lo trova. Grida. Li chiama entrambi per nome anche se non rispondono, li tiene per mano come per far loro coraggio, distesi ormai esanimi vicino al parchetto dei giochi di via della Corona Boreale: la bici bianca di David e il monopattino di Daniel sono lì a pochi metri, in terra.

La bici e il monopattino per terra. Sono le undici del mattino a Colle Romito, 2500 villette molto curate, ognuna col suo giardino, sembra una domenica tranquilla e invece adesso ci sono tre corpi per strada. Il terzo è quello del pensionato Salvatore Ranieri, 74 anni, «che ha insistito fino all’ultimo per venire qui a passare il weekend da Roma - racconta sua moglie Patrizia, accasciata nella macchina di un parente -. Io gli avevo detto: ma scusa, Salvatore, ha piovuto tutta la settimana, che ci andiamo a fare nella casa al mare? Ma lui aveva comprato pure non so quanta vernice perché voleva dare una mano di bianco alla villetta...».

Il coraggio del pensionato: «Ehi tu, lascia stare i bimbi». Anche il signor Ranieri era uscito di casa come David e Daniel per farsi due giri al parchetto con la sua bici verde. E quando ha visto Andrea Pignani, il killer, puntare la pistola contro i due bimbi, non ha esitato un attimo: «Oh scusa, ma che fai?», ha gridato verso quell’uomo con gli occhialetti, la maglia viola e lo zainetto a tracolla che aveva dato già inizio alla mattanza. Pignani gli ha sparato su una tempia a bruciapelo e il pensionato così è caduto dalla bici e non è riuscito più a fare niente per sviare il destino suo e delle due creature innocenti. Quando il padre di Daniel e David, richiamato dalle urla della nonna dei due piccolini che tutti gli anni li ospitava qui ad Ardea per le vacanze, lascia la casa dove lui invece si trova ai domiciliari per una storia di droga, il killer è già rientrato nella villetta di viale Colle Romito a dar da mangiare al suo cane Argo, un beagle a cui pare sia molto affezionato.

Nella casa del killer viveva uno scrittore di gialli. La casa ha 4 piani e 11 camere: prima di lui - che certo non lo sa - ci viveva uno scrittore di romanzi gialli, Savino Memeo, autore tra l’altro di Un delitto improbabile. Mentre questa invece, col passare delle ore, a tutti sembra sempre di più una strage annunciata, con Pignani che prima di spararsi ieri l’ultimo colpo in canna davanti alla madre Rita («Il mio ragazzo in fondo era un incompreso») andava spesso a sparare in aria nel bosco ma anche lungo le stradine del comprensorio ordinato di Colle Romito, dove ormai praticamente aveva litigato con tutti, anche col papà dei due ragazzini, Domenico, che adesso infatti non si dà pace: «Io sono finito dentro per un po’ di droga e lui invece se ne andava in giro con la pistola».

Gli spari al vicino con la carriola. Poco ci è mancato che Pignani ammazzasse anche un vicino in via delle Pleiadi che stava portando via su una carriola i rami potati degli oleandri del suo giardino. Una cosa che l’aveva disturbato, ma i colpi solo per miracolo non sono andati a segno.Alle cinque del pomeriggio la signora Patrizia, la moglie del pensionato Salvatore, non vuole ancora credere a quanto è successo. Esce dalla macchina, scavalca il nastro colorato fissato dai carabinieri per delimitare la scena e si avvicina al corpo di suo marito, pietosamente coperto da un telo. «Era così generoso - dice la donna con lo sguardo perso nel vuoto -. Gli piaceva fare mille lavoretti per la gente del comprensorio, se c’era una mattonella, un rubinetto da aggiustare, i vicini lo chiamavano e lui subito accorreva. Non è giusto ciò che gli hanno fatto, lui proprio non se lo meritava». Poi riconosce un sandalo.

Strage ad Ardea: uccide due fratellini e un anziano, poi si toglie la vita. L'assassino, un 35enne con problemi psichici e sottoposto a tso un anno fa, era in possesso della pistola del padre deceduto, una guardia giurata. Fabrizio Caccia, Rinaldo Frignani, Fulvio Fiano il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera.  Salvatore Ranieri, 74 anni, ha provato a difendere David e Daniel Fusinato, 5 e 10 anni, dagli spari dell’aggressore, Andrea Pignani: ed è stato ucciso. Domenica 13 giugno 2021 di sangue ad Ardea, cittadina di 50mila persone vicina al litorale a sud di Roma. Alle 11 del mattino, per motivi ancora da chiarire, un 35enne ha esploso dei colpi di pistola in via degli Astri, frazione residenziale di Colle Romito. Drammatico il bilancio: 4 morti, due fratellini, David e Daniel di 5 e 10 anni, un pensionato di 74 anni che passava in strada in bicicletta, e lo stesso autore del triplice delitto. L'assassino aveva 35 anni, si chiamava Andrea Pignani, viveva con la madre in una villetta acquistata nel 2019, a poche decine di metri dal campetto del triplice omicidio. Laureato in ingegneria informatica, disoccupato, un anno fa, a maggio, era stato sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) per aver aggredito la madre, ma non risulta che fosse attualmente in cura per problemi mentali. Secondo i carabinieri non usciva di casa praticamente da un anno. Secondo quanto ricostruito finora, Pignani è uscito e sulla sua strada ha incontrato Daniel e David che giocavano tranquilli. Gli ha sparato al collo e al petto e, racconta la nonna, "sono morti tenendo la mano del padre", Domenico Fusinato, ai domiciliari in un'altra villetta di Colle Romito per reati di droga, ma subito accorso appena sentiti gli spari. Nel frattempo Pignani aveva colpito e ucciso con un proiettile alla testa anche Salvatore Ranieri, 74 anni, che passava in bicicletta e non conosceva né il suo assassino né i fratellini. Una quarta persona, un uomo che stava andando a buttare la spazzatura, sarebbe sfuggito alla morte solo perché troppo distante per la gittata della pistola. Pignani è quindi rientrato in casa, si è chiuso dentro e per ore non ha risposto ai negoziatori arrivati sul posto per convincerlo ad arrendersi. Quando a metà pomeriggio un commando del Gis carabinieri è entrato nella villetta l'uomo si era già ucciso con la stessa pistola. ''Ho sentito un botto forte, il rumore di vetri rotti, uno sparo e poi dopo pochi secondi una scarica di mitraglietta, almeno 7 colpi'' ha riferito un vicino di casa di Pignani, raccontando l'inizio del blitz. L'uomo è stato trovato morto suicida in camera da letto. I vicini, altri abitanti del comprensorio, raccontano di quella pistola che tirava fuori per minacciare ogni volta che c'era una discussione, qualcosa che lo infastidiva, che fosse la potatura degli alberi o qualche rumore intorno a casa sua. Ma nessuno aveva sporto denuncia, secondo i carabinieri. Secondo il presidente di Colle Romito, Romano Catini, la presenza di una pistola - che era del padre del 35enne, una guardia giurata morta un anno fa - era stata più volte segnalata dai vicini spaventati. Ma agli inquirenti non risultano denunce. ''Era arrivato qui da pochi mesi e da subito aveva creato problemi al consorzio. Alcune volte era già capitato che l'uomo uscisse di casa e sparasse in aria. Avevamo segnalato la cosa, ma non si era capito se avesse un'arma vera o una scacciacani'' ha dichiarato invece il presidente del Consorzio di via di Colle Romito, Romano Catini. "Quando abbiamo sentito l'esplosione - ha continuato - pensavamo fosse un petardo tirato da qualche bambino. Poi ci siamo avvicinati alla zona e abbiamo scoperto che invece erano colpi di pistola". "La famiglia dell'omicida - ha poi rivelato ancora - era conosciuta nel quartiere per episodi di molestie e degrado. Più volte sono stati segnalati alle forze dell'ordine. Basti pensare che una persona della nostra vigilanza interna ha il compito di tenere d'occhio quella villetta". Si cerca un movente, ma non ci sarebbero stati contrasti tra Pignani e il padre dei bambini, quest'ultimo comparso nel 2018 in un'operazione dei carabinieri a Ostia contro gli scissionisti del clan Triassi, ritenuto avversario degli Spada. Difficile pensare a una vendetta spietata. Le indagini comunque proseguono per accertare l'esatta dinamica. Rimane il ricordo delle vittime. Di due bambini. racconta la nonna, "educati e rispettosi. Daniel, il più grande, aveva solo 9 e 10 in pagella". E del 74/enne Salvatore Ranieri, in vacanza con la moglie a Colle Romito, dove aveva una seconda casa. "Salvatore era andato a fare un giro in bicicletta. Mi sono preoccupata perché non era rientrato per pranzo, mi hanno detto che c'era stata una sparatoria e l'ho scoperto così" ha detto la moglie dell'anziano signore, vittima insieme ai due bambini. Qualcuno, ha riferito il sindaco, racconta che Ranieri "è morto per difendere i due bambini". Il sindaco di Ardea, Mario Savarese, racconta di un luogo tranquillo in cui nei decenni scorsi venivano a villeggiare anche personaggi politici noti. Alcuni abitanti di lungo corso raccontano invece di personaggi poco raccomandabili, alcuni dei quali ai domiciliari come il padre dei bimbi uccisi. Ma il vero movente di un massacro a freddo come questo sarà difficile da trovare, visto che l'autore si è poi suicidato. 

Stella Di Gennaro al Tg2: «I soccorsi sono arrivati troppo tardi, dopo mezz’ora». Ansa / CorriereTv il 13 giugno 2021. Ai microfoni del Tg2 Stella Di Gennaro, la nonna dei fratellini rimasti uccisi nella tragedia di Ardea (Roma), racconta quanto è successo: «Mio figlio ha sentito degli spari ed è corso subito al parco. Quando è arrivato erano ancora vivi, sono morti tra le sue braccia. I soccorsi sono arrivati troppo tardi, ci hanno messo mezz’ora».

Sparatoria ad Ardea, vicino a Roma. Morti due bambini di 5 e 10 anni e un anziano: l'assassino si barrica in casa, poi si toglie la vita. Luca Monaco e Clemente Pistilli su La Repubblica il 13 giugno 2021. I fratelli Daniel e David Fusinato, 10 e 5 anni, stavano giocando in un parco a poche decine di metri da casa loro. L'altra vittima si chiama Salvatore Ranieri e aveva 74 anni. Si è frapposto tra il killer e le piccole vittime. L'aggressore, Andrea Pignani, è un abitante della zona di 35 anni. Ha provato a uccidere anche un'altra persona. Ha ucciso due bambini che stavano giocando a poche decine di metri da casa, poi un anziano che passava in bicicletta. Dopo aver sparato almeno cinque colpi di pistola è scappato, si è barricato in casa e si è tolto la vita: i carabinieri lo hanno trovato cadavere tre ore dopo, quando hanno fatto irruzione nella villetta in cui l'uomo abitava con la madre, ad Ardea, nel consorzio Colle Romito. La persona che ha sparato è un giovane abitante della zona, Andrea Pignani, 35 anni, che già in passato aveva infastidito alcuni residenti. Le vittime sono i fratelli Daniel e David Frusinato, 10 e 5 anni, e un altro residente del consorzio, Salvatore Ranieri, 74 anni. L'anziano e i due bambini sono stati raggiunti da almeno cinque colpi di arma da fuoco mentre erano in un parco pubblico in via degli Astri. I bambini stavano giocando a poche decine di metri da casa loro quando sono stati colpiti al cuore e alla gola. Nel frattempo nel parco è arrivato in bicicletta anche l'anziano, che è stato a sua volta raggiunto da un proiettile. I militari e il 118 sono stati allertati contemporaneamente poco dopo le 11 dal numero unico di emergenza 112, al quale sono arrivate diverse chiamate per la segnalazione di una sparatoria in strada, a opera di un uomo armato di pistola, nella zona di Colle Romito alto, in un parco. Dopo aver sparato contro l'anziano e i bambini Andrea Pigneri si è barricato nella villetta in cui viveva con la madre. Sul posto sono arrivati i carabinieri del Gis, i Gruppi di intervento speciale, militari negoziatori e una squadra dell'Api del comando provinciale di Roma. L'uomo è rimasto barricato e per più di tre ore non ha dato risposta ai negoziatori che stavano cercando di convincerlo a uscire. Intorno alle 15.45 i militari hanno fatto irruzione nella villetta e l'hanno trovato morto nella sua camera da letto. Ci sarebbe anche un quarto uomo sfuggito miracolosamente alla morte.  A quanto pare infatti l'autore dei tre omicidi, in preda a una sorta di raptus, attorno alle 11 del mattino avrebbe sparato contro un uomo che, con una carriola, trasportava alcuni tronchi, essendo in corso nella zona dei lavori di potatura. Quest'ultimo sarebbe riuscito a scappare. A quel punto i bambini che erano nel parco avrebbero iniziato a urlare e il 74enne Salvatore Ranieri, che stava passando in bici, si sarebbe messo in mezzo tra i piccoli e Pignani, facendo di fatto da scudo a David e Daniel Fusinato. L'anziano sarebbe stato quindi freddato con un colpo esploso a bruciapelo, a una tempia. "Ho sentito quattro colpi e mi sono affacciato alla finestra. Ho visto i bambini a terra, poi un uomo anziano arrivare in bici. L'aggressore ha sparato altri due colpi contro di lui e poi è andato via, verso casa sua": è il racconto di Marco, un residente del consorzio Colle Romito la cui casa si affaccia sul parco in cui è avvenuta la sparatoria. "Quando abbiamo sentito l'esplosione pensavamo fosse un petardo esploso da qualche bambino. Poi ci siamo avvicinati alla zona e abbiamo scoperto che invece erano colpi di pistola", racconta il presidente del consorzio Colle Romito, Romano Catino, all'Ansa. "Abbiamo subito chiamato le forze dell'ordine che sono arrivate molto presto - spiega -. Poi ho mandato subito un messaggio nella chat del consorzio per invitare tutti a restare in casa. Per fortuna molti dei consorziati erano al mare". "La famiglia dell'omicida - rivela poi - era conosciuta nel quartiere per episodi di molestie e degrado. Più volte sono stati segnalati alle forze dell'ordine. Basti pensare che una persona della nostra vigilanza interna ha il compito di tenere d'occhio quella villetta". I sanitari del 118 sono arrivati sul posto con due elicotteri per trasportare i due bambini, di 5 e 10 anni, in ospedale. I medici hanno tentato fino all'ultimo di rianimare i due bambini e stabilizzarli prima di trasportarli in ospedale, ma i loro sforzi si sono purtroppo rivelati vani. "Gli operatori hanno impiegato tutti gli sforzi possibili per salvare le vittime con ripetuti tentativi di rianimazione, ma la situazione è apparsa fin da subito compromessa. Sono profondamente scosso per l'accaduto ed esprimo tutto il mio rammarico e le più sentite condoglianze ai familiari e all'intera comunità di Ardea che oggi vive un terribile lutto per questa tragedia", scrive l'assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato. "Sono appena tornato dal luogo dove è accaduto il fatto, la parte alta di Colle Romito, un villaggio residenziale. I presenti e le forze dell'ordine ci dicono che qualcuno ha sentito degli spari, la persona che potrebbe aver sparato è stata già identificata, sembra sia una persona instabile che già aveva manifestato comportamenti ostili", ha detto Mario Savarese, sindaco di Ardea, all'AGI.

Spara e uccide 74enne e 2 bimbi: "Era già stato segnalato". Clarissa Gigante il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Un vicino racconta a ilGiornale.it i momenti dopo la sparatoria: "Tornavo dal supermercato e ho visto i soccorsi. La famiglia di chi ha sparato segnalata in passato dal consorzio". "Ero al supermercato e ho sentito gli elicotteri e le sirene". A raccontarlo a ilGiornale.it è uno degli abitanti del consorzio Colle Romito di Ardea dove stamattina un uomo ha aperto il fuoco contro un anziano e due bambini in strada, uccidendoli, e poi si è barricato in casa. "La famiglia di chi ha sparato era già stata segnalata dal consorzio", ci spiega, raccontandoci che già in passato avevano creato problemi ai vicini, ma che finora non era stato fatto nulla di concreto. Lo conferma anche il sindaco: "La persona che potrebbe aver sparato è stata già identificata, sembra sia una persona instabile che già aveva manifestato comportamenti ostili. Si pensa che il tutto sia accaduto per futili motivi. Ma ancora non sappiamo nulla di preciso", ha detto Mario Savarese ai cronisti asserragliati davanti alla casa dell'aggressore, "Oggi ha messo in atto minacce a cui nessuno aveva dato credito e la reazione è stata sconsiderata e atroce. I motivi sono futili, non ce ne sono di altra natura, se non di litigi tra vicini. Dev'essere stata una questione di pochi minuti degenerata". E lo conferma anche lo stesso presidente del consorzio: "Era arrivato qui da pochi mesi e da subito aveva creato problemi", ha spiegato Romano Catini, "Alcune volte era già capitato che l'uomo uscisse di casa e sparasse in aria. Avevamo segnalato la cosa ma non si era capito se avesse un'arma vera o una scacciacani". Resta da capire quindi se la tragedia poteva essere evitata. Tra le villette e nei giardini del consorzio, abitate per lo più da famiglie, è scattata la paura al suono degli spari. Gli abitanti sono barricati in casa, nessuno osa uscire. "I bimbi morti li conosciamo, si chiamavano Daniel e David Fusinato", ci racconta ancora il residente. I piccoli avevano solo 10 e 5 anni. A ucciderli sarebbe stato Andrea Pignani, 34enne con problemi psichici che si è rinchiuso nel suo appartamento di via Colle Romito. Si tratta di un consorzio di villette a schiera unifamiliari e bifamiliari con giardino, parchi e strutture sportive. Una zona abitata per lo più da famiglie. Come quella di Daniel e David, la cui vita è stata strappata in una domenica estiva, la prima dalla chiusura della scuola. Erano nel parco vicino al campo di calcio, a 30 metri da casa loro, probabilmente a giocare prima del pranzo. Proprio in quel momento nella stessa zona passava il 74enne Salvatore Ranieri, anche lui raggiunto dai proiettili. Subito soccorsi, i tre sono stati trasportati in elisoccorso in ospedale, ma per loro non c'è stato nulla da fare. Non è chiaro chi dei tre fosse l'obiettivo: non ci sarebbe stata nessuna lite prima dei tre colpi di pistola. L'uomo si è poi barricato da solo in casa sua, mentre all'esterno, insieme ai carabinieri è rimasta la madre. Inutili i tentativi di contatto con il killer: dopo ore si è sentito un altro colpo di pistola, i militari hanno fatto irruzione e hanno trovato il cadavere del 34enne nella sua camera da letto. Il movente resta ancora un mistero.

Clarissa Gigante. Sono nata nell'82 a Rosciano, paesino sulle colline della Val Pescara, trapiantata a Milano passando per Perugia. Apolide nell'animo. Ho studiato Scienze della comunicazione e Comunicazione multimediale. Non paga, ho frequentato anche una scuola di giornalismo. Sono arrivata al Giornale.it a febbraio 2011. Sono appassionata della comunicazione in tutte le sue forme. Seguo con curiosità le evoluzioni del web e delle interazioni sociali in rete. Sempre online vado a caccia di notizie curiose e "non ufficiali". Amo la tecnologia che asseconda la mia pigrizia, non vivo senza una connessione a internet e senza un pc nelle vicinanze...

“Sono morti stringendo la mano al padre”: il racconto choc della nonna. Valentina Dardari il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Secondo la donna i soccorsi sono stati lenti: "L'ambulanza è arrivata troppo tardi, ci ha messo mezz'ora”. Non si dà pace la nonna materna dei due fratellini che nella tarda mattinata di oggi, domenica 13 giugno, sono stati uccisi a colpi di pistola, mentre si trovavano in un parco giochi ad Ardea, sul litorale romano, nella zona residenziale del consorzio Colle Romito. A ucciderli un 35enne, Andrea Pignani, ingegnere informatico disoccupato, solo e isolato. Stella Di Gennaro, intervistata da Repubblica, ha parlato dei suoi nipotini, due bravi ragazzini molto rispettosi che studiavano, andavano a scuola, molto educati. “Daniel, il più grande, aveva solo 9 e 10 in pagella. Ieri era venuto a casa mia e stava andando via senza salutarmi. Invece è arrivato all’ascensore, è tornato indietro e mi ha voluto dare un bacetto" ha ricordato la nonna con le lacrime agli occhi. E quella è stata l’ultima volta che lo ha visto. Questa estate sarebbero andati al mare con la mamma e Daniel, che giocava a beach volley, avrebbe partecipato anche ai tornei in spiaggia. Invece il più piccolo, David, di soli 5 anni, non faceva ancora niente e il prossimo anno sarebbe andato a scuola, in prima elementare. David era considerato la mascotte di casa e per lui questo appena passato era l’ultimo anno di asilo. “I soccorsi sono arrivati troppo tardi. Dopo mezz’ora” ha asserito la nonna delle due piccole vittime che, come ha raccontato la donna, “respiravano ancora e davano la mano al padre”. I bimbi non hanno parlato perché non avevano la forza di farlo, ma sono morti tenendo la mano del loro papà. "Quanto accaduto ad Ardea nella mattinata di oggi ha lasciato tutti sgomenti, tutti i sanitari che si sono adoperati con tempestività e massimo impegno per prestare i primi soccorsi che sono arrivati sul posto in dieci minuti dalla chiamata di soccorso e tentare ripetutamente di salvare le vittime di questa inaspettata tragedia, esprimono il massimo cordoglio alle famiglie. Questo fatto ci ha profondamente toccati, alle famiglie dei bambini e dell'anziano esprimiamo le più sentite condoglianze", questo è quanto ha dichiarato in una nota l'Ares 118 a seguito della sparatoria avvenuta ad Ardea in cui sono rimasti uccisi due bambini e un anziano. I due fratellini sono morti raggiunti da alcuni proiettili sparati dal 35enne con la pistola d’ordinanza del padre, una guardia giurata morta a novembre del 2020. L’arma, una Beretta calibro 7,65, dopo il decesso del genitore era sparita, probabilmente nascosta dal figlio, che l’ha tirata fuori proprio oggi per uccidere i fratellini, un anziano che passava in bicicletta e se stesso, dopo che si era barricato nella villetta dove viveva con la madre. Agli atti non ci sarebbero stati documenti che potessero attestare il precario stato di salute mentale dell’omicida-suicida. L’unico episodio risale a maggio dello scorso anno quando, dopo aver minacciato la mamma con un coltello, era stato trasferito in automedica in ospedale per un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio. Il giorno seguente era però stato dimesso.

Solo, isolato e disoccupato: profilo del killer di Ardea. Valentina Dardari il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. L’uomo sembra non avesse amici e non si curava. A detta della madre “era solo e isolato”. A poche ore dalla sparatoria di Ardea, viene delineato un profilo del killer, Andrea Pignani, un ingegnere informatico senza lavoro che nella tarda mattinata di oggi, domenica 13 giugno, sul litorale Romano ha ucciso a colpi di pistola un anziano e due fratellini. Almeno cinque i colpi sparati e l’ultimo verso se stesso per togliersi la vita, quando ormai le forze dell’ordine stavano per fare irruzione nella sua abitazione, la villetta dove si era barricato subito dopo essere fuggito dal luogo del delitto. Andrea Pignani, 35 anni, era figlio di una guardia giurata deceduta nel novembre del 2020. Come ricostruito dai carabinieri del Reparto operativo di Roma e della compagnia di Anzio, il killer era un ingegnere informatico disoccupato. Dal giorno della morte del padre, la pistola d’ordinanza era scomparsa. La madre del giovane ha confermato ai militari:“Non siamo più riusciti a trovarla". Sembra invece che la pistola usata per i tre omicidi e il suicidio fosse la stessa. Probabilmente Pignani l’aveva nascosta e questa mattina l’ha presa per spezzare la vita di due bambini, Daniel Fusinati di 10 anni e il suo fratellino di 5, e quella di Salvatore Ranieri che stava passando in sella alla sua bici. La madre, come riportato da Repubblica, ha spiegato che il figlio "era disoccupato da tempo, era solo, isolato. Non aveva amici e non si curava". L’uomo, che viveva con la madre, non è risultato in carico a nessun centro di igiene mentale, né a quello di Ardea, né presso uno studio privato. Dopo aver sparato e ucciso tre persone, il 35enne è tornato alla sua abitazione, si è barricato in casa e là è rimasto fino al momento in cui ha deciso di togliersi la vita. La mamma invece è uscita dalla villetta ed è subito stata protetta dai carabinieri, con i quali ha cercato di mettersi in contatto telefonico con Andrea, senza però riuscirci. La donna verrà sicuramente ascoltata ancora dai militari nelle prossime ore, per aiutarli a capire cosa sia scattato nella mente del figlio per portarlo a compiere un simile gesto. Almeno secondo quanto appurato fino a questo momento non ci sarebbero legami di parentela tra l’omicida e le sue vittime, e neanche con Domenico, il papà dei due bambini. Neanche litigi. Gli investigatori starebbero pensando piuttosto a un gesto del tutto istintivo, di una persona instabile mentalmente che sarebbe dovuta essere in cura. L’unico episodio l’anno scorso, quando l’uomo era stato sottoposto a Tso, Trattamento sanitario obbligatorio, per aver minacciato la madre con un coltello. Il giorno seguente era già stato dimesso dalla struttura ospedaliera.

"Aveva un buco in testa": lo scempio su bimbi e il 74enne ad Ardea. Valentina Dardari il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Un testimone, arrivato poco dopo la sparatoria, ha raccontato di aver visto sangue ovunque. Uno scempio quello che Andrea Pignani, 34enne di Ardea, ha compiuto nella tarda mattinata di oggi, domenica 13 giugno sul litorale romano, quando ha sparato a due fratellini, Daniel e David Fusinati, di 10 e 5 anni, e a un anziano che stava andando in bicicletta, Salvatore Ranieri. Un testimone, Francesco Rizzo, ha raccontato: “Sono arrivato dopo 5, 10 minuti, ho visto l'anziano morto a terra e i bambini ai quali i medici stavano facendo il massaggio cardiaco. L'anziano aveva un buco di proiettile in testa con sangue mentre i bambini avevano sangue sul petto". Una scena da incubo quella che il testimone si è trovato davanti agli occhi per strada. Rizzo ha anche parlato dell’omicida, che si è poi tolto la vita utilizzando la stessa pistola usata per lo scempio, asserendo di aver “sentito gente del posto che si lamentava in passato, perché questa persona sparava in strada. Abito qui da 5 anni, è un posto tranquillo, mai successo nulla, giusto qualche furto". L’arma usata dal 34enne, che lo scorso anno era stato sottoposto a Tso, Trattamento sanitario obbligatorio per aver minacciato la madre con un coltello, era una Beretta calibro 7,65. Secondo quanto appreso dall’Adnkronos, la pistola apparteneva al padre morto a novembre 2020 che lavorava come guardia giurata. Il decesso dell'uomo sembra non fosse noto alla stazione dei carabinieri di Tor San Lorenzo. Ai militari sarebbe dovuta pervenire una segnalazione sulla detenzione della pistola da parte della famiglia, ma questo non è mai avvenuto. Agli atti non ci sarebbero stati documenti che potessero attestare il precario stato di salute mentale dell’omicida-suicida, solo l'intervento del maggio dello scorso anno quando, dopo aver minacciato la mamma era stato trasferito in automedica in ospedale per un Tso. Il giorno dopo, secondo quanto avrebbe dichiarato oggi la madre, il figlio sarebbe stato dimesso. Romano Catini, presidente del Consorzio, ha raccontato che Pignani "era arrivato qui da pochi mesi e da subito aveva creato problemi. Alcune volte era già capitato che l'uomo uscisse di casa e sparasse in aria. Avevamo segnalato la cosa ma non si era capito se avesse un'arma vera o una scacciacani". Catini ha anche ricordato che"questa mattina l'uomo e il padre dei bambini stavano litigando, per futili motivi". E ancora: "Prima di sparare a loro, questa mattina, aveva già esploso dei colpi contro un'altra persona, ma non l'ha colpita".

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.   

"Era una promessa del calcio": chi sono le vittime di Ardea. Francesca Galici il 13 Giugno 2021 su Il Giornale. Avevano 84, 10 e 5 anni, sarebbero potuti essere nonno e nipoti le vittime della tragedia di Ardea dove pare che l'anziano sia morto per difendere i due bimbi. Avevano 5 e 10 anni e domenica mattina stavano giocando in bicicletta quando, senza nessun motivo, sono stati raggiunti dai proiettili di una pistola. La loro vita è stata spezzata per sempre sull'asfalto di Ardea, dove in una torrida giornata di giugno l'aria profuma di mare. Stavano giocando davanti alla casa del loro assassino, in un'area verde, come avevano fatto chissà quante altre volte nel corso della loro breve vita. Erano spensierati, loro. La scuola è finita da poco e davanti avevano tre mesi di giochi e di divertimento insieme agli amici del quartiere. Insieme a Daniel e a David Fusinato, in quel momento, pare ci fossero anche altri loro coetanei che fortunatamente sono rimasti illesi. Quell'uomo, già segnalato, dalle forze dell'ordine era considerato un soggetto pericoloso. Si è poi suicidato dopo essersi barricato all'interno della villetta ma il lavoro degli inquirenti non è finito qui. I carabinieri vogliono andare fino in fondo per capire che cosa ha spinto un uomo di 34 anni a sparare a dei bambini e a un anziano signore, anche lui caduto sotto i colpi di pistola, prima di togliersi la vita. "Questa mattina i due ragazzi stavano giocando di fronte alla loro casa. Sono stati avvicinati dall'uomo, uno è stato sparato al petto, l'altro alla gola. È stata come una esecuzione", ha dichiarato l'avvocato Diamante Ceci, difensore di Domenico Fusinato, padre dei due piccoli uccisi ad Ardea. "L'omicida alcuni giorni fa aveva minacciato la propria madre con un coltello. Nel novembre scorso è morto il padre che deteneva l'arma regolarmente. Nessuno dei suoi parenti ha restituito quella pistola. Oggi l'ha trovata, è uscito di casa e ha ucciso tre persone. La terza vittima è stata ammazzata con un colpo alla testa, si tratta della persona anziana che era venuta ad Ardea a trascorrere il week end", ha proseguito il legale difensore. L'anziano signore pare sia morto per difendere i bambini, così ha riferito il sindaco di Ardea, Mario Savarese, dopo aver parlato con i suoi concittadini. "Salvatore era andato a fare un giro in bicicletta. Mi sono preoccupata perché non era rientrato per pranzo, mi hanno detto che c'era stata una sparatoria e l'ho scoperto così", ha detto la moglie di Salvatore Ranieri, 84 anni. Daniel, il più grande dei bimbi, è morto mentre stringeva la mano di suo padre. Era il portiere della squadra dei Pulcini dell’Ostiamare e pare fosse una promessa del calcio romano, tanto che nell'aria c'era per lui la possibilità di andare a giocare nella formazione dei Giovanissimi della Lazio. Un sogno che non si avvererà mai per lui, spezzato troppo presto e senza una spiegazione che possa alleviare il dolore dei suoi genitori.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 14 giugno 2021. «Il cuore non batte, aiutatemi, quando arriva l'ambulanza?». Domenico Fusinato, il papà di Daniel e David, 10 e 5 anni, si china su di loro alla disperata ricerca di un segnale di vita e non lo trova. Grida. Li chiama per nome anche se non rispondono, li tiene per mano come per far loro coraggio, distesi ormai esanimi vicino al parchetto dei giochi di via della Corona Boreale: la bici bianca di David e il monopattino di Daniel sono lì a pochi metri, in terra. Sono le undici del mattino a Colle Romito, 2.500 villette molto curate, ognuna col suo giardino, sembra una domenica tranquilla e invece adesso ci sono tre corpi per strada. Il terzo è quello del pensionato Salvatore Ranieri, 74 anni, «che ha insistito fino all' ultimo per venire qui a passare il weekend da Roma - racconta sua moglie Patrizia, accasciata nella macchina di un parente -. Io gli avevo detto: ma scusa, Salvatore, ha piovuto tutta la settimana, che ci andiamo a fare nella casa al mare? Ma lui aveva comprato pure non so quanta vernice perché voleva dare una mano di bianco alla villetta...». Anche il signor Ranieri era uscito di casa come David e Daniel per farsi due giri al parchetto con la sua bici verde. E quando ha visto Andrea Pignani, il killer, puntare la pistola contro i due bimbi, non ha esitato un attimo: «Oh scusa, ma che fai?», ha gridato verso quell' uomo con gli occhialetti, la maglia viola e lo zainetto a tracolla che aveva dato già inizio alla mattanza. Pignani gli ha sparato su una tempia a bruciapelo e il pensionato così è caduto dalla bici e non è riuscito più a fare niente per sviare il destino suo e delle due creature innocenti. Quando il padre di Daniel e David, richiamato dalle urla della nonna dei due piccolini che tutti gli anni li ospitava qui ad Ardea per le vacanze, lascia la casa dove lui invece si trova ai domiciliari per una storia di droga, il killer è già rientrato nella villetta di viale Colle Romito a dar da mangiare al suo cane Argo, un beagle a cui pare sia molto affezionato. La casa ha 4 piani e 11 camere: prima di lui - che certo non lo sa - ci viveva uno scrittore di romanzi gialli, Savino Memeo, autore tra l'altro di Un delitto improbabile. Mentre questa invece, col passare delle ore, a tutti sembra sempre di più una strage annunciata, con Pignani che prima di spararsi ieri l'ultimo colpo in canna davanti alla madre Rita («Il mio ragazzo in fondo era un incompreso») andava spesso a sparare in aria nel bosco ma anche lungo le stradine del comprensorio ordinato di Colle Romito, dove ormai praticamente aveva litigato con tutti, anche col papà dei due ragazzini, Domenico, che adesso infatti non si dà pace: «Io sono finito dentro per un po' di droga e lui invece se ne andava in giro con la pistola». Poco ci è mancato che Pignani ammazzasse anche un vicino in via delle Pleiadi che stava portando via su una carriola i rami potati degli oleandri del suo giardino. Una cosa che l'aveva disturbato, ma i colpi solo per miracolo non sono andati a segno. Alle cinque del pomeriggio la signora Patrizia, la moglie del pensionato Salvatore, non vuole ancora credere a quanto è successo. Esce dalla macchina, scavalca il nastro colorato fissato dai carabinieri per delimitare la scena e si avvicina al corpo di suo marito, pietosamente coperto da un telo. «Era così generoso - dice la donna con lo sguardo perso nel vuoto -. Gli piaceva fare mille lavoretti per la gente del comprensorio, se c'era una mattonella, un rubinetto da aggiustare, i vicini lo chiamavano e lui subito accorreva. Non è giusto ciò che gli hanno fatto, lui proprio non se lo meritava». Poi riconosce un sandalo.

Alessia Marani per "il Messaggero" il 14 giugno 2021. «Eravamo arrivati venerdì, dovevamo passare un week-end tranquillo, in serenità, invece Salvatore, il mio angelo ha trovato la morte. Una morte senza un perché, me lo hanno ammazzato senza motivo». Patrizia Santina Caschera, 65 anni, è la moglie di Salvatore Ranieri, il 74enne ucciso ieri mattina nel consorzio di villette di Colle Romito, sul litorale romano, per mano di Andrea Pignani, il 35enne che ha sparato anche ai due bambini di 5 e 10 anni prima di barricarsi in casa e togliersi, a sua volta, la vita. La donna siede su un muretto, al sole, di fronte al corpo del marito coperto da un lenzuolo, accanto a lui, a terra, la sua bicicletta. Qualche residente le porge un bicchiere d' acqua. È sola, piombata in un incubo senza via di uscita, la supportano dei vicini del consorzio. I carabinieri le chiedono i documenti del marito. Lei vorrebbe solo che questo strazio finisse: «Sono ore che il suo corpo è a terra, non è uno spettacolo».

Signora Patrizia conosceva l'uomo che ha sparato?

«No, non ho capito nemmeno chi sia. Non c' era ragione per sparare a un uomo buono come Salvatore». 

Dicono che suo marito sia intervenuto per difendere i due bambini dal folle omicida...

«Questo non lo so con sicurezza, ma così mi hanno detto. Forse, però, non ha avuto nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo per davvero». 

Si trovava lì per caso, vicino al parco delle Pleiadi?

«Era uscito in bicicletta. Lui non vedeva l'ora di venire qui ad Ardea per prendere la bici e fare una passeggiata. Ma era uscito alle dieci, a mezzogiorno non lo vedevo rientrare e così ho cominciato a preoccuparmi. Non rispondeva al telefono. Ho sentito le sirene, le ambulanze, gli elicotteri atterrare. Poi sono uscita e mi sono trovata davanti questa scena». 

Che uomo era Salvatore?

«Una persona buona e gioviale. Dopo tanti anni trascorsi alla guida degli autobus di linea dell'Atac a Roma era andato in pensione e questo era diventato il nostro angolo di pace e tranquillità. Appena potevamo, lasciavamo la capitale per trascorrere qui il fine settimana.

Eravamo arrivati venerdì sera e oggi ce ne saremmo riandati via, dal momento che io ancora lavoro. Mi occupo delle televendite al Centro Serena, una emittente tv». 

Conoscevate i due bambini e la loro famiglia?

«No. Non li conoscevamo. Forse, chissà, li avevamo visti giocare in giro, ma non so chi siano, neanche i loro genitori, poveretti. Io so solo che adesso mi è crollato di nuovo il mondo addosso, non so se ce la farò a superare questa enorme tragedia che ci è piombata addosso». 

Avevate figli?

«Salvatore sì, io no. Il nostro era un amore adulto, nato dopo nostre esperienze passate. Otto anni fa rimasi vedova dal mio primo marito, una persona anche lui straordinaria. Io stetti malissimo, pensavo di non potermi più rialzare. Invece conobbi Salvatore, era la mia luce, un dono del Cielo e ora però quell'uomo folle me lo ha portato via, gli ha sparato in testa, come a un cane. Mi stanno chiamando tanti amici e parenti perché gli volevano bene in parecchi». 

La vostra casa è a Roma?

«Sì, abitiamo vicino al policlinico di Tor Vergata. Io non ho parenti e amici qui nella Capitale, perché sono originaria di Sora, Frosinone, mi era rimasto solo lui. Salvatore era nato a Valmontone. Adesso non so che farò. La nostra era una vita semplice, interrotta senza un motivo. Pensavo di avere superato il dolore più grande, invece mi ero sbagliata, è una tragedia». 

Come si spiega quello che è successo oggi?

«Non c' è una spiegazione. Lui mi ha salutato, è uscito di casa in sella alla sua amata bicicletta, ci rivediamo prima di pranzo mi aveva detto. Io stavo sistemando delle cose in casa. Invece l'ho rivisto da morto». 

Dell' uomo che ha sparato cosa pensa?

«Che non doveva avere un'arma. Che non doveva essere lasciato libero di uccidere».

Valentina Errante Alessia Marani per "il Messaggero" il 14 giugno 2021. Voci e racconti che si rincorrono. E non solo nel comprensorio di Colle Romito. Ma in tutta Ardea. Andrea Pignani, 35 anni, una laurea in ingegneria informatica in tasca e nessun lavoro, aveva problemi psichiatrici ed era conosciuto e temuto per la sua aggressività. Non avrebbe dovuto maneggiare la beretta 7.65 con la quale ieri ha ucciso a sangue freddo un uomo e due bambini prima di suicidarsi. Adesso per ricostruire cosa sia accaduto prima e cosa sia stato fatto per evitare una tragedia che ora sembra annunciata, l'inchiesta del pm di Velletri Vincenzo Bufano ruota proprio intorno a quell' arma e sul perché nessuno si fosse fatto carico ufficialmente del disagio mentale di Pignani. Il magistrato ha aperto un fascicolo per omicidio, ma presto potrebbe ipotizzare altri reati. A rischiare di finire sotto accusa sono la mamma e la sorella di Pignani. La pistola, regolarmente detenuta dal padre dell'omicida, che era una guardia giurata, non è stata né restituita né denunciata alla morte dell'uomo, avvenuta a novembre. Ieri le due donne sono state convocate nella caserma dei carabinieri che conducono le indagini e sono state sentite dal pm. Ma non sono state le sole a rispondere alle domande del magistrato. Anche il sindaco, Mario Savarese, è stato invitato dai militari per stabilire, probabilmente, se nella cittadina si avesse consapevolezza della pericolosità dell'uomo, sottoposto a maggio dello scorso anno a un Trattamento sanitario obbligatorio dopo che i militari erano intervenuti su richiesta della madre aggredita con un coltello. In serata è stato convocato in caserma anche il presidente del consorzio di Colle Romito, Romano Catini. Le due donne, sentite come testimoni, hanno sostenuto che, nonostante avessero cercato l'arma, non fossero riuscite a trovarla. Ma non risulta nemmeno una denuncia di smarrimento della pistola, detenuta dalla famiglia abusivamente. In serata la loro casa è stata sequestrata e loro accompagnate altrove. «Purtroppo - spiega Vincenzo Del Vicario, del Savip sindacato di vigilanza privata - non esistono sistemi automatizzati e interconnessi per il monitoraggio delle armi e una guardia giurata può detenere fino 3 pistole e 200 cartucce». Ieri riecheggiavano nel parco delle Pleiadi dove sono stati uccisi i suoi due bambini, le urla di Domenico Fusinato, il padre di Daniel e David, difeso dall' avvocato Diamante Ceci: «A me mi tengono ai domiciliari per un po' di droga e questo con la pistola nessuno lo controllava, e guardate cosa ha fatto». La madre di Pignani ha raccontato agli inquirenti che il figlio da sempre era stato problematico, fin dai tempi in cui abitavano alla Cecchignola, prima di trasferirsi a fine 2019 nella villetta di Colle Romito. Schivo e introverso, la sua condizione era peggiorata «dopo che era stato lasciato dalla fidanzata, una giovane portoghese. Si era rintanato nella mansarda, non usciva quasi mai». Eppure la sua presenza si era fatta sentire all' interno del consorzio, sebbene nessuno, a quanto risulta agli atti degli investigatori, abbia trovato il coraggio o deciso mai di denunciarlo apertamente. Il presidente Catini ha parlato di «vari bisticci con i consorziati, contro i quali brandiva l'arma. Qualche volta ha anche sparato in aria, ma pensavamo fosse una scacciacani». Ultimamente aveva preso di mira anche una ottantenne delegata del consorzio, «minacciata e spaventata». Il dirimpettaio dei Pignani racconta di continui dispetti: «Un mese fa - dice - ero in auto ad aspettare mia moglie e all' improvviso lui mi ha tirato addosso gli escrementi del cane. Non era la prima volta». Elio M., che si occupa della manutenzione delle strade e della potatura delle piante, ricorda: «Quel ragazzo poco tempo fa si affacciò dalla finestra e cominciò a tirare le arance contro i miei operai. Urlava loro di tutto, io sono andato, l'ho affrontato a brutto muso e gli ho detto che non doveva più ripetersi». C'è un episodio, poi, di cui si parla a Colle Romito, anche questo mai denunciato alle forze dell'ordine. Si racconta di un giovane con le fattezze di Pignani che non più tardi di due settimane fa sparò in aria nel boschetto «per spaventare quattro bambini». Ma i loro genitori non ne avrebbero parlato «intenzionati a farsi giustizia da soli» quando lo avessero rincontrato. Voci e racconti che si rincorrono e su cui ora carabinieri e procura intendono fare luce.

I nodi da sciogliere sui problemi psichici e le denunce "fantasma". Strage di Ardea, il giallo della pistola di Pignani: l’arma "clandestina" dopo la morte del padre. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Giugno 2021. Una lunga sequela di dubbi e interrogativi che meritano risposta. Sulla strage di Ardea sono ancora molti i punti oscuri sugli omicidi di Daniel e David Fusinato, i fratellini di 10 e 5 anni, e di Salvatore Ranieri, pensionato 74enne, tutti morti per mano di Andrea Pignani. L’ingegnere informatico disoccupato, 35enne con gravi disturbi psichici, domenica ha impugnato la pistola del padre uccidendo i tre. Quindi è scappato nella villetta di viale Colle Romito in cui abitava con madre e sorella dal 2018, dove si è barricato e si è ucciso prima dell’intervento dei carabinieri. Sono tre i punti chiave che andranno chiariti nei prossimi giorni: la pistola utilizzata da Pignani e i suoi problemi psichici, oltre alle presunte denunce nei suoi confronti.

LA RICOSTRUZIONE – Secondo quanto accertato finora dagli investigatori, Pignani sarebbe uscito da casa intorno alle 11 di domenica mattina con felpa, zainetto e guanti e avrebbe percorso con la pistola in pugno alcune strade del comprensorio di Colle Romito. Il modo in cui Pignani era uscito di casa, insomma, farebbe intendere che avesse l’intenzione di uccidere. Quindi il 34enne avrebbe puntato l’arma e ucciso i due bambini e il pensionato in bicicletta: vittime scelte a caso e cercate dal killer? Questo è probabilmente l’elemento più complicato da chiarire per gli inquirenti.

L’ARMA – La pistola utilizzata da Pignani per compiere la strage, una Beretta modello 81 con proiettili calibro 7.65, era di fatto diventata clandestina. L’arma era infatti di proprietà del padre, guardia giurata fino al 1986, scomparso nel novembre dello scorso anno. Nessuno però in famiglia ne aveva denunciato la detenzione o lo smarrimento. “Non la trovavamo”, si sarebbero giustificati così i famigliari del 34enne, che secondo la legge come eredi avrebbero dovuto denunciare alle forze dell’ordine il possesso dell’arma. “Si chiarisca anche il ruolo della madre e della sorella di Pignani, perché l’uomo aveva la pistola del padre morto a novembre?”, è invece la richiesta di Diamante Ceci, legale della famiglia di Daniel e David Fusinato.

I PROBLEMI PSICHICI – Altro punto fondamentale da chiarire riguarda i problemi psichici di Pignani. L’avvocato Ceci ha sottolineato che l’uomo “dopo avere minacciato la madre con un coltello, nel maggio scorso, è stato sottoposto ad un Tso e rilasciato dopo appena un giorno, mentre sembra che fosse stato disposto per quindici giorni”.

La vicenda in questione è avvenuta nel maggio 2020: Pignani venne bloccato da una pattuglia dai Carabainieri nella sua abitazione a Colle Romito per aver minacciato la madre con un coltello nel corso di una lite. Sottoposto a Tso, il giorno successivo il 34enne venne dimesso dall’ospedale di Ariccia con alcune prescrizioni mediche, ma non è chiaro se queste siano state rispettate. Ma secondo l’Ansa Pignani fu sottoposto solamente a una “consulenza psichiatrica” per uno “stato di agitazione psicomotoria” l’11 maggio scorso presso il Pronto Soccorso del Nuovo Ospedale dei Castelli di Ariccia. Questo sarebbe infatti emerso dagli accertamenti condotto dai carabinieri e dalla Procura di Velletri: l’ingegnere informatico fu accompagnato “volontariamente” da un’ambulanza dopo una lite con la madre. Pignani non era comunque in cura “per patologie di carattere psichiatrico”.

LE DENUNCE – Già ieri, ‘a caldo’, il presidente del Consorzio Colle Romito, Romano Catini, aveva denunciato la pericolosità di Pignani. “Lo facevamo tenere d’occhio alla nostra vigilanza interna, c’erano state denunce. Ho saputo da altri consorziati che in passato, a margine di litigi banali, aveva estratto l’arma è sparato in aria”, aveva dichiarato. Parole che però non sono confermate da atti ufficiali. Alle forze dell’ordine non risultano denunce o esposti nei confronti di Andrea Pignani, se non quello della madre Rita Rossetti per l’episodio dell’aggressione con coltello. “Non risultano in passato presentate denunce o esposti da chicchessia per precedenti minacce che l’uomo aveva posto in essere nei confronti di familiari o terze persone armato di pistola”, ha spiegato il colonnello Michele Roberti, comandante del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma.

IL RAPPORTO CON I FUSINATO – Sempre Catini ieri aveva affermato che Pignani ieri mattina “aveva litigato con il padre dei bambini. Bisticciava con i vicini, per futili motivi”. Una ricostruzione smentita dall’avvocato della famiglia Fusinato, Ceci. “Prima di quanto avvenuto non c’è stata alcuna lite tra i miei assistiti e Andrea Pignani. Tra loro non c’era alcun legame, non si conoscevano. Le vicende giudiziarie legate a Domenico Fusinato non c’entra nulla con quanto accaduto”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da leggo.it il 14 giugno 2021. Ardea, il giorno dopo la strage il dolore resta ma viene affiancato dalla rabbia. È quello che traspare dalle parole del legale dei genitori di Daniel e David Fusinato, i due fratellini uccisi insieme a Salvatore Ranieri da Andrea Pignani, 35enne con problemi psichici che ieri mattina ha iniziato a sparare colpi di pistola nel consorzio di Colle Romito. L'uomo si è poi barricato in casa e suicidato. «Una pattuglia dei carabinieri era passata sul posto appena cinque minuti prima che venissero esplosi i colpi: i militari erano venuti a controllare che il mio assistito, papà di Daniel e David, rispettasse l'obbligo dei domiciliari. Sono stati proprio loro i primi a intervenire. La mamma ha visto i figli morire, li ha trovati in una pozza di sangue e ancora respiravano» - ha spiegato Diamante Ceci, legale della famiglia Fusinato - «La famiglia aveva deciso di vivere in quel comprensorio perché era un posto tranquillo dove crescere i bambini. Si erano trasferiti in quella casa da circa un anno e mezzo. Ho avuto modo di sentire i miei assistiti questa mattina, sono distrutti ma chiedono rispetto per questo dramma assurdo che stanno vivendo». La legale della famiglia Fusinato non nasconde l'amarezza per una strage inaccettabile ma non inevitabile. «Ci auguriamo che la Procura di Velletri faccia chiarezza su tutto, anche sui soccorsi che secondo alcuni testimoni sarebbero arrivati dopo 40 minuti. Si chiarisca anche il ruolo della madre e della sorella del killer. Perché aveva la pistola del padre morto a novembre? Perché, dopo aver minacciato la madre con un coltello, era stato sottoposto ad un Tso e rilasciato il giorno dopo?» - spiega l'avvocato - «Prima di quanto avvenuto non c'era mai stata alcuna lite tra la famiglia Fusinato e Andrea Pignani, non si conoscevano neanche. Attendiamo ancora le condoglianze del sindaco di Ardea». Intanto, sul luogo della strage, residenti e non stanno compiendo questa mattina un vero e proprio pellegrinaggio in memoria di Daniel, David e Salvatore. C'è chi lascia dei fiori, chi un pallone, chi altri giocattoli e diversi messaggi. «Volate tra gli angeli: ciao Daniel, ciao David» - si legge in vari biglietti - «Quando un'anima innocente viene uccisa per mano di un adulto, siamo tutti colpevoli. Perdonateci piccoli, se potete. Che la terra vi sia lieve». La procura di Velletri ha avviato un'indagine per omicidio e domani sarà affidato l'incarico per effettuare le autopsie delle vittime, che saranno svolte presso l'istituto di medicina legale del Policlinico Tor Vergata. L'indagine dovrà innanzitutto chiarire perché Andrea Pignani avesse in casa la pistola appartenuta al padre, guardia giurata, morto nel novembre scorso: a tal proposito, la madre e la sorella del killer saranno interrogate di nuovo. Da una prima ricostruzione, Andrea Pignani sarebbe uscito di casa intorno alle 11, con felpa, zainetto e guanti, percorrendo alcune strade di Colle Romito con la pistola in pugno. Qui avrebbe sparato ad un anziano che stava lavorando con una carriola, ma mancandolo: l'uomo è riuscito a mettersi in salvo. Poi, però, il 35enne ha incontrato i due fratellini e sparato al più grande, Daniel; a quel punto è intervenuto il 74enne Salvatore Ranieri, che avrebbe tentato di soccorrere il bambino di dieci anni ma è stato colpito alla nuca. Subito dopo, Pignani ha ucciso anche il piccolo David, per poi tornare a piedi verso casa, barricandosi all'interno.

Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera" il 15 giugno 2021. È stato forse il suo istinto materno a farla correre fuori casa e andare dritta sul luogo dove i suoi figli erano stati appena colpiti, quando gli altri in casa ancora si interrogavano su quelle esplosioni arrivate da fuori. Via Orsa Maggiore e via Corona Boreale sono separate solo da un campo da calcio, la visuale è aperta e percorrendo quei 100 metri Carol ha avuto la temuta conferma al suo presentimento. È stata la prima ad arrivare da Daniel e David, a tenere le loro teste mentre chiamava disperata il marito Domenico: «Non era il rumore dei petardi che si sente ogni tanto - ripete ventiquattro ore dopo a chi le sta vicino, cercando di offrirle un impossibile conforto - e neanche quello degli spari ai cinghiali. Sono arrivata lì ed erano in una pozza di sangue». Il giorno dopo aver perso i figli, i pianti della famiglia Fusinato non sono più coperti dalle urla della loro stessa disperazione ma lasciano il posto a un dolore più intimo, alla consapevolezza di una vita distrutta per sempre e con lo strazio ulteriore della mancanza di un perché. Per realizzare quanto accaduto e iniziare a elaborare il lutto basterebbe forse anche una colpa da potersi attribuire, ma gli spari di Andrea Pignani contro quei due innocenti in bici non hanno una spiegazione e il senso di privazione non può aggrapparsi a niente per cominciare il lunghissimo percorso verso la cicatrizzazione della ferita, se mai arriverà. «Avevamo scelto questa villa per il loro bene, per permettergli di vivere al meglio la famiglia anche con il padre ai domiciliari - ripete Carol, 33 anni -. Il giardino, i viali tranquilli, il campo vicino per giocare. La possibilità di avere la nonna qui a fianco a darci una mano». Gli interrogativi non danno tregua perché non ci sono risposte: «Dovevamo vigilare di più? E come? Erano appena usciti di casa e a minuti sarebbero tornati come sempre senza problemi. Mi hanno detto "arriviamo in tempo per il pranzo" e invece non li ho più visti». Da un anno e mezzo i Fusinato vivono qui. La routine era finora scandita dalla sveglia presto della mamma per accompagnare i bambini a scuola a Ostia, dove hanno sempre vissuto e dove anche lei lavora. Il loro unico orizzonte è ora invece il via libera all'autopsia sui bambini, che il pm dovrebbe disporre già oggi, in modo da poterli poi riavere almeno per i funerali. Ma dal chiuso della villetta la famiglia fa trapelare anche la propria indignazione su come la vicenda è stata raccontata. «Come è possibile che quell'uomo girasse armato e io ho dovuto chiedere il permesso per stare vicino ai miei figli?» è il concetto ripetuto anche ieri dal papà Domenico, il più determinato nel tenere lontani i giornalisti. E poi i soccorsi. «Ci sono voluti 40 minuti per vedere arrivare l'ambulanza, chi mi dice che i miei figli non si potevano salvare?». Da parte sua l'Ares precisa che «la prima telefonata al 112 è delle ore 10.57 e 32 secondi, che immediatamente è stata trasferita ai carabinieri perché erano segnalati spari, e al 118. Ci siamo allertati inviando subito la prima ambulanza con medico a bordo, che è giunta sul posto esattamente dopo 11 minuti». L'amarezza si mescola allo sconforto. «Sono circolate ricostruzioni senza fondamento su presunte liti o vendette legate alla detenzione di Domenico Fusinato. Ma lui quell'uomo non l'aveva mai visto - ribadisce l'avvocato della famiglia, Diamante Ceci -. Tanto più che il braccialetto elettronico avrebbe segnalato ogni allontanamento dalla villa». E qui entra in gioco un'altra beffa del destino. Proprio gli arresti domiciliari a cui era sottoposto il padre dei bambini avrebbero potuto forse salvarli. Pochi minuti prima che Daniel e David uscissero in bicicletta era passata l'auto dei carabinieri per il controllo periodico sulla presenza in casa del detenuto. Un passaggio che di norma dura giusto qualche attimo. Quello in più che sarebbe invece servito per incrociare Pignani e impedirgli di uccidere quei bambini.

Alessia Marani per "Il Messaggero" il 15 giugno 2021. «L'ho visto rientrare in casa con la pistola, era trafelato e confuso, il viso tirato, ho capito subito che aveva combinato qualcosa di molto brutto e sono uscita fuori». Rita Rossetti, 64 anni, la mamma del killer dei due bambini e dell'anziano di Ardea parla con voce disperata, ma allo stesso tempo rassegnata, con i negoziatori del Gis, il Gruppo intervento speciale dei carabinieri che domenica pomeriggio ha fatto irruzione nella villetta di viale Colle Romito 238, trovando l'uomo, Andrea Pignani, 34 anni, già morto suicida. Non c'è stato bisogno di trattativa. Le parole della donna le hanno ascoltate anche i vicini durante il breve lasso di tempo prima che, nella via, piombassero i militari locali allertati dalle chiamate al 112. Gli altri abitanti sono poi corsi a barricarsi nelle loro abitazioni in attesa che i carabinieri decretassero la fine dell'emergenza. Rita racconta di quel figlio che ormai «si comportava come un estraneo». Spiega che «da circa un anno viveva pressoché autonomamente nel piano superiore e nella mansarda di casa». Quando aveva bisogno di acquistare qualcosa «lo faceva ordinandolo su internet». Ma che cosa potrebbe avere spinto Andrea, ingegnere informatico ormai disoccupato, a uscire di casa intorno alle 11 del mattino bardato con una felpa e i guanti, uno zainetto sulle spalle e la pistola in pugno diretto al parco delle Pleiadi per poi sparare a bruciapelo a David e Daniel Fusinato, fratellini di 5 e 10 anni, e a Salvatore Ranieri, pensionato di 74 anni che passava in bicicletta? Un dirimpettaio che stava aggiustando delle tegole sul tetto ha incrociato il suo sguardo: «Era fisso, perso nel vuoto, e mi sono chiesto: ma dove va con quel felpone, vestito così pesante? La pistola non mi pare di averla vista, ma a ben pensarci, ora, aveva come un rigonfiamento sulla cintola e quel raid sembra premeditato. Ha agito come un combattente». Impossibile, al momento, dire con esattezza cosa abbia mosso i suoi passi. Una delle ipotesi degli inquirenti è che Pignani, sentendosi perseguitato e in pericolo, per uscire di casa avesse preso delle precauzioni pronto a difendersi da nemici immaginari. Quel che è certo, infatti, - e lo spiega sempre mamma Rita - è che «Andrea soffriva di manie di persecuzione. Si sentiva osservato, seguito. Era convinto che tutto il mondo ce l'avesse con lui, compresi noi genitori e la sorella. Diceva che ci eravamo tutti coalizzati contro di lui, anche i colleghi dell'ufficio di consulenza in cui lavorava». Non solo. Quel figlio ormai così chiuso in se stesso «ci incolpava di tutto, anche di rivelare suoi presunti segreti a terze persone. Aveva preteso che togliessimo tutte le sue foto che erano in casa e ha voluto cancellarle pure dai social e da tutti i nostri telefonini. L'unico essere a cui era rimasto affezionato era il suo cagnolino». La signora Rita parla della «patologia» che si era impossessata di Andrea trasformandolo in una persona indecifrabile. Che non stava bene se ne erano accorti tutti in famiglia, anche il padre Stefano, ex dipendente delle Poste e ancora prima guardia giurata - era sua la 7,65 con cui Pignani ha sparato - morto nel novembre scorso e la sorella, sposata e residente altrove, con cui non si sentiva più da Natale. All'inizio di aprile, poi, Andrea aveva interrotto anche la sua relazione con la fidanzata, una ragazza originaria del Messico. Ma come mai quel figlio non era seguito da nessuno per quei suoi evidenti disagi psichici? Chi conosce Rita sa che la donna era ormai molto provata da un anno e mezzo segnato da cambiamenti che hanno finito per stravolgerle l'esistenza: dopo il pensionamento, con il marito, avevano deciso di lasciare il loro appartamento alla Cecchignola in cerca di tranquillità nella casa a dimensione di villeggiatura, vicino al mare, e avevano acquistato la villetta all'interno del consorzio di Colle Romito, a Sud di Roma, al confine con Anzio. Era l'ottobre del 2019. Poi, però, Stefano si ammala, le condizioni di Andrea si aggravano e, addirittura i carabinieri l'11 maggio del 2020 debbono intervenire perché l'aveva minacciata con un coltello. Andrea era finito all'ospedale dei Castelli e dopo una consulenza psichiatrica era stato riaffidato al padre come «paziente urgente-differibile che necessita di un trattamento non immediato». Chi doveva imporlo? Sempre Rita ha provato a spiegare che «ormai Andrea si era completamente estraniato, non comunicava e non ci ascoltava». E «non accettava alcun aiuto». Disperata e rassegnata Rita, apposti dai carabinieri i sigilli alla villa finita sotto sequestro, domenica sera è stata vista lasciare Colle Romito trascinando un trolley a testa bassa.

Cappuccio in testa, guanti e Beretta. "Ha sparato ai primi che ha incontrato". Stefano Vladovich il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Nessuna precedente segnalazione per Pignani, né alcun Tso. "Non aveva mai litigato con i Fusinato, non si conoscevano". Felpa e cappuccio in testa. Guanti da chirurgo e camminata svelta. Chi ha intravisto, l'altra mattina, Andrea Hyde Pignani, lo ricorda così. «Sembrava andasse da qualche parte, non pensavamo nascondesse una pistola» raccontano gli abitanti del residence. Invece Mister Hyde si era già trasformato in un feroce omicida. Un assassino di bambini e vecchi innocenti. Nessun litigio pregresso con Domenico Fusinato, nessuno sparo in aria prima di quella maledettissima domenica di sangue. I carabinieri hanno interrogato fino a tarda sera Romano Catini, presidente del Consorzio Colle Romito, che raccontava storie di pistole e terrore nel quartiere. Tutte regolarmente «segnalate a polizia, carabinieri e guardie municipali» diceva a cronisti e corrispondenti di agenzie di stampa. Un soggetto pericoloso, tanto che la sua abitazione era costantemente monitorata dalla vigilanza privata, sosteneva Catini. Affermazioni tutte categoricamente smentite dagli inquirenti. «Dagli accertamenti eseguiti - sottolineano - non risultano ulteriori denunce o segnalazioni a suo carico ne risulta che l'omicida fosse in cura per patologie di carattere psichiatrico nè tanto meno che fosse in possesso di certificazione medica rilasciata da strutture sanitarie» scrivono i carabinieri. Insomma, tutto falso. Un mistero che si aggiunge a una serie inspiegabile di fake news sulla strage di Ardea. È lo stesso sindaco del piccolo Comune arroccato tra Pomezia e Anzio, Mario Savarese, a smentire il presunto Tso, Trattamento sanitario obbligatorio, eseguito a Pignani. «Non ho firmato alcun Tso per il soggetto in questione - spiega il primo cittadino di Ardea - In quattro anni ne ho disposto solo uno e non è nei confronti di questa persona. Ho saputo che è stata in cura ma senza il coinvolgimento di questa amministrazione». I servizi sociali, sottolinea Savarese, non sono mai stati attivati per Pignani. Resta il ricovero al pronto soccorso del Nuovo Ospedale di Ariccia tra l'11 e il 12 maggio 2020. Una bruttissima storia funestata da altre fake news che si sono rincorse fino a tarda sera. A cominciare dalle notizie diffuse da alcuni abitanti prima dell'irruzione delle teste di cuoio. «Un uomo ha ammazzato i figli, poi il suocero perché la moglie l'aveva lasciato per un nuovo compagno» dicevano. Qualcuno le scrive persino su alcuni siti locali, correndo ai ripari man mano che la tragedia e la trattativa estenuante davanti al civico 238 di viale di Colle Romito, va avanti. Altro punto fermo da parte degli investigatori: Pignani non conosceva affatto la famiglia Fusinato, anche lei da trasferita da un paio di anni sulla Marina di Ardea. Ma allora, cosa è accaduto nella mente del 35enne per accanirsi con fermezza su due bambini che corrono in bici al parco giochi? La terza vittima, e questo è certo, muore da eroe cercando di fermare il folle assassino che ha appena centrato al cuore e alla testa i due fratellini con una mira da tiratore scelto. Quando la moglie di Salvatore Ranieri, 74 anni, non lo vede tornare a casa (era uscito alle 11), si preoccupa e lo va a cercare. Nessuno pensa di avvertire Patrizia Caschera, sposata da 10 anni con Salvatore. «Ho visto la bicicletta a terra e ho capito subito. Lui era steso sull'asfalto, con una macchia di sangue in petto» racconta la poveretta. Nel tardo pomeriggio, assieme alle foto dei bambini sorridenti e alla fototessera di Ranieri, qualcuno diffonde anche l'immagine del killer. Il soggetto tutto sembra tranne che un ingegnere informatico fuori di testa. Altra fake: si tratta di un giovane di Latina, vivo e vegeto e, soprattutto, innocente. Chi l'ha tirata fuori e perché? È un altro dei misteri di questa maledettissima storia che ha sconvolto la piccola comunità litoranea. Sul luogo della strage, intanto, fiori e pupazzi di peluche per ricordare i fratellini massacrati dal folle.

Strage di Ardea, Daniel e David uccisi entrambi con un solo colpo di pistola. La Repubblica il 16 giugno 2021. E' quanto emerge dai primi risultati delle autopsie svolte presso l'istituto di medicina legale di Tor Vergata. L'esame autoptico ha confermato che il più grande dei due bambini, di dieci anni, è stato colpito al petto, il più piccolo, di appena cinque anni, alla gola. Sono stati raggiunti da un solo colpo di pistola ciascuno Daniel e David, i due bambini uccisi domenica mattina ad Ardea, in provincia di Roma. E' quanto emerge dai primi risultati delle autopsie svolte oggi presso l'istituto di medicina legale di Tor Vergata. L'esame autoptico ha confermato che il più grande dei due bambini, di dieci anni, è stato colpito al petto, il più piccolo, di appena cinque anni, alla gola. Giovedì verrà svolta l'autopsia sul corpo del killer Andrea Pignani. Per la terza vittima uccisa da Pignani, il 74enne Salvatore Raineri, l'autopsia conferma la morte per un colpo di pistola alla testa. Dopo l'autopsia è previsto l'ultimo saluto alle vittime nella Capitale. I funerali dovrebbero esserci tra giovedì e venerdì, quello dei bimbi ad Ostia. Intanto le indagini dei carabinieri vanno avanti per chiarire ogni aspetto. Sequestrati computer e cellulare di Andrea Pignani, l'ingegnere informatico che domenica mattina ha premuto il grilletto più volte nel comprensorio in riva al mare. Verranno effettuate verifiche per stabilire se ci siano all'interno elementi utili, se ad esempio l'uomo abbia avuto qualche contatto pregresso da cui si potesse intuire qualcosa. A quanto ricostruito finora, il mondo del 35enne era praticamente limitato alle mura della sua stanza in cui trascorreva intere giornate. Una camera che sarebbe stata quasi inaccessibile agli altri. I carabinieri stanno accertando anche l'eventuale presenza di telecamere che possano aver ripreso quegli istanti o inquadrato il killer lungo il tragitto.

Non è l'arena, "Strage di Ardea agghiacciante. Ha freddato il primo bimbo e quando ha sentito le urla del fratellino ha ammazzato pure lui". Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Si parla della strage di Ardea da Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 e la ricostruzione dell'inviato del programma Carlo Marsilli è sconvolgente. "Prima della strage Andrea Pignani avrebbe avuto un litigio con il padre dei bambini, Domenico Fusinato pregiudicato per fatti connessi a droga".  Quindi il giornalista mostra la strada dove è avvenuta la strage con i cerchi dei due bambini, Daniel e David, e dell'uomo di 74 anni, Salvatore Ranieri, che sono stati freddati da Pignani. "Se la dinamica venisse confermata", prosegue Marsili, sarebbe agghiacciante. Stamattina (domenica 13 giugno, ndr) un ingegnere di 34 anni avrebbe avuto un alterco con Fusinato. L'uomo sarebbe andato a casa e sarebbe tornato qui in questo parco con una pistola. In quel punto ha trovato uno dei figli di Fusinato, il bambino di 5 anni e gli ha sparato uccidendolo". Quindi la seconda esecuzione: "Nel momento in cui si allontanava ha sentito le grida del fratello del bimbo ucciso ed è tornato indietro e ha freddato anche il secondo bambino". Poi passa la terza vittima, l'uomo di 74 anni, in bicicletta, "che gli chiede cosa sta facendo e lui gli spara in testa", aggiunge Marsili. "Pignani si incammina verso casa e incontra una persona che sta scaricando l'erba ma manca il colpo. Infine si barrica nella casa della madre dove viene trovato senza vita". E conclude l'inviato: "E' una ricostruzione che deve ancora essere verificata". Ma se fosse così sarebbe davvero terrificante. Pignani a maggio 2020 aveva minacciato la madre con un coltello ed era stato sottoposto a un Tso, ma non risultava affetto da patologie psichiatriche. Per la strage ha usato una pistola Beretta, calibro 7,65, che apparteneva al padre, una guardia giurata deceduta da diversi mesi. Né Pignani né la famiglia avevano segnalato ai carabinieri che possedevano la pistola come invece sarebbe richiesto fare in caso di morte del proprietario.

Strage di Ardea, il gesto eroico di Daniel per salvare il fratellino. Rosa Scognamiglio il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Daniel Fusinato, uno dei due bimbi morti nella sparatoria di Ardea, avrebbe tentato di proteggere il fratellino dagli spari del killer. Quando il killer ha esploso il primo colpo di pistola, Daniel è tornato indietro nel tentativo di salvare la vita al suo fratellino, David, di soli 5 anni. Ha provato a fargli scudo con il corpo finché Andrea Pignani, l'autore della strage di Ardea, non ha sparato anche lui. Sono questi i dettagli che emergono a 48 ore dal triplice omicidio consumatosi nella tarda mattinata di domenica 14 giugno in via delle Pleiadi, a Colle Romito, e sul quale stanno tentando di far luce gli investigatori. Intanto, nel pomeriggio di martedì 15 giugno, all'istituto di medicina generale del policlinico Tor Vergata, sono iniziate le autopsie sui corpi delle vittime. I funerali dovrebbero aver luogo tra giovedì e venerdì, quello dei bimbi ad Aosta.

Il gesto eroico di Daniel. Pignani conosceva i fratellini Fusinato? Ha sparato a caso? E ancora, aveva mai dato segni di squilibrio mentale? Al momento, non vi è ancora alcuna risposta certa né sul movente del delitto né sui trascorsi di Andrea Pignani, l'ingegnere informatico di 34 anni che domenica ha aperto il fuoco contro i due bambini di Aosta e Salvatore Ranieri, la terza vittima della strage. Secondo l'ultima ricostruzione dei carabinieri, il killer ha ucciso con un primo colpo alla gola David. Una scena tanto drammatica quanto inattesa che si sarebbe consumata sotto gli occhi di Salvatore Ranieri, ex autista dell'Atac, che era di passaggio in zona in sella alla sua bicicletta Stando a quanto riporta il quotidiano Il Messaggero, il pensionato avrebbe assistito agli spari gridando in faccia al killer tutta la sua rabbia. Un testimone ha riferito di averlo visto affrontare il 34enne per qualche secondo, come a fare da scudo ai due bambini. Pignani, allora, gli ha sparato alla testa, a bruciapelo, uccidendolo all'istante. Daniel Fusinato, intanto, non si era allontanato verso casa ma è tornato indietro per aiutare il fratellino. Gli si è gettato sopra per aiutarlo, per difenderlo dall'assassino. Pignani, Hyde sui social, l'ha centrato con un colpo al petto. Per i due bambini, nonostante i soccorsi di Giuseppe Romano, 68 anni, medico di Ardea, non c'è stato nulla da fare.

Le indagini. Le indagini dei carabinieri dovranno chiarire tutti gli aspetti di questa drammatica vicenda, specie quelli riguardanti il killer. A tal riguardo, saranno effettuate verifiche sui dispositivi tecnologici di Pignani per capire approfondire il suo passato. A quanto ricostruito finora, il mondo del 35enne era praticamente limitato alle mura della sua stanza in cui trascorreva intere giornate. Una camera che sarebbe stata quasi inaccessibile a tutti. Poco più di un anno, a maggio 2020, dopo una lite con la madre in cui l'avrebbe minacciata con un coltello Pignani fu portato all'ospedale dei Castelli di Ariccia e sottoposto a "consulenza psichiatrica" per uno "stato di agitazione psicomotoria". A quanto emerso dagli accertamenti degli investigatori fu dimesso la mattina successiva con una diagnosi di "stato di agitazione - paziente urgente differibile che necessita di trattamento non immediato" e fu affidato al padre.

L'arma del delitto. Rimane al vaglio la posizione della madre dell'ingegnere per quanto riguarda la mancata denuncia della pistola di proprietà del marito che non fu denunciata alla sua morte, avvenuta nei mesi scorsi. La donna rischia l'accusa di detenzione abusiva di armi. La pistola, una Beretta modello 81 calibro 7,65 utilizzata dall'omicida, era detenuta regolarmente dal padre di Pignani, ex guardia giurata, ma alla sua morte non fu denunciata. "Non la trovavamo" si sarebbero giustificati i familiari. Ma la donna, essendo l'erede convivente del marito, avrebbe dovuto segnalare l'esistenza dell'arma anche se questa non era stata da lei ritrovata.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Edoardo Izzo per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Ha scelto a caso chi uccidere. Il trentacinquenne Andrea Pignani che domenica mattina a due passi da casa - a Colle Romito (Ardea, Roma) - ha freddato a colpi di pistola due bambini e un anziano, avrebbe colpito le prime persone che ha incontrato sul suo percorso. Ha indossato felpa, guanti e zainetto ed è uscito per uccidere. Nessun contatto precedente, nessuno screzio con il papà delle due giovani vittime, che abitavano a poche centinaia di metri da lui. Una strage generata da una follia sotterranea: l'uomo non era stato sottoposto a Tso né aveva contatti con i servizi di igiene mentale del territorio. Nel day after della tragedia che ha sconvolto il tranquillo consorzio sul litorale laziale è il momento delle smentite e delle puntualizzazioni. Dalle prime attività di indagine svolte dai carabinieri di Frascati e di Anzio coordinati dalla procura di Velletri, emerge a carico di Pignani solamente una lite in ambito familiare, un grave alterco con la madre avvenuto l'11 maggio 2020, che aveva reso necessario l'intervento di una pattuglia di carabinieri nella loro abitazione di viale Colle Romito. In quell' occasione l'uomo venne fatto accompagnare da un'ambulanza al pronto soccorso del Nuovo ospedale dei Castelli di Ariccia, dove arrivò volontariamente nel pomeriggio con codice azzurro «in stato di agitazione psicomotoria». Sottoposto a consulenza psichiatrica, fu dimesso la mattina successiva con questa diagnosi: «stato di agitazione - paziente urgente differibile che necessita di trattamento non immediato». «Si affida al padre», venne scritto nei documenti sanitari: ovvero all' ex vigilante, scomparso sette mesi fa, legale detentore della pistola Beretta utilizzata domenica per la strage. La Asl Roma 6 ha manifestato ieri la propria vicinanza alle famiglie coinvolte nella drammatica vicenda di Ardea, segnalando di aver attivato un intervento di supporto psicologico con i servizi dedicati e precisando che Pignani «non è mai stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio presso le strutture aziendali e non era in carico ai servizi territoriali di salute mentale». Questione delicata e tutta da chiarire quella relativa alle segnalazioni alle forze dell'ordine delle intemperanze precedenti dell'omicida. Secondo quanto dichiarato a caldo dal presidente del consorzio, Romano Catini, «era già capitato che l'uomo uscisse di casa e sparasse in aria». La famiglia, secondo Catini, «era conosciuta nel quartiere per episodi di molestie e degrado» e «più volte sono stati segnalati alle forze dell'ordine» oltreché alla vigilanza interna del consorzio. Dagli accertamenti eseguiti dai pm di Velletri non risultano però denunce o segnalazioni a carico dell'omicida. Ed è stata ancora la procura a chiarire che «non è emerso alcun contatto tra l'omicida e le sue vittime né alcun rapporto di conoscenza». A smentire con indignazione le voci diffuse da «fonti inattendibili» su un presunto litigio tra il papà dei due bimbi uccisi e Pignani era stata ieri Diamante Ceci, la legale dell' uomo, agli arresti domiciliari perché coinvolto nel 2018 in una vicenda di droga nell' area di Ostia: «La famiglia si era trasferita qui da un anno e mezzo perché era un posto tranquillo dove crescere i bambini», ha spiegato, sottolineando che proprio cinque minuti prima della sparatoria una pattuglia dei carabinieri di Marina di Ardea aveva accertato la presenza in casa del suo assistito, mentre i due bambini erano già andati a giocare al campetto vicino, dove sarebbero stati di lì a poco brutalmente uccisi. Secondo il legale sarebbe stata proprio la madre, che ha trovato i due figli ancora in vita immersi in una pozza di sangue, a chiedere aiuto. Una richiesta disperata, viste le gravissime ferite riportate dai due piccoli. Sopita sul nascere la polemica sul ritardo dei soccorsi. Voci circolate avevano riferito di un'attesa di 40 minuti dalla chiamata. Ma una nota diffusa ieri dall' Ares 118 ha specificato che la prima telefonata al 112 - delle ore 10. 57 - è stata immediatamente trasferita ai Carabinieri perché erano segnalati spari e al 118, mentre la prima ambulanza con medico a bordo che è giunta sul posto esattamente dopo 11 minuti dall' allarme.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 15 giugno 2021. La camera da letto era diventata la sua palestra per prepararsi a combattere col mondo. Un sacco da boxe, due grandi manubri per sollevare i pesi e potenziare la muscolatura: questo hanno trovato gli inquirenti, tra l'armadio e il letto, nel primo sopralluogo dopo la strage. A cosa si stava preparando, Andrea Pignani, si è visto poi domenica, a Colle Romito. Quando prima di suicidarsi ha ammazzato senza pietà con la pistola del padre morto i due fratellini David e Daniel e il signor Ranieri intervenuto alla disperata per fermarlo. E invece non l'ha fermato mai nessuno, Andrea Pignani, anche se da tempo ormai non stava bene. «Di recente abbiamo avuto un alterco - racconta un vicino - perché seguiva me e mia moglie, allora gli ho chiesto duramente cosa volesse. Mi ha risposto minaccioso: io abito qui, devi stare calmo, stai attento a come parli. Poi l'ho rivisto dopo la strage: fermo davanti casa sua come se nulla fosse. Era strano, sì, ma non avevo mai pensato potesse essere pericoloso. Timido, con gli occhiali, lo zainetto, il classico tipo a cui non presti attenzione». Succede spesso così. Agli atti della Procura di Velletri «figura solo una lite in ambito familiare, verificatasi con la madre l'11 maggio 2020, che rese necessario l'intervento di una pattuglia di carabinieri». L'11 maggio, tredici mesi fa: Andrea nella casa di viale Colle Romito aveva minacciato sua madre con due coltelli al termine di un litigio «per futili motivi», così arrivò una pattuglia e Andrea salì poi docilmente sull' ambulanza, tanto che il medico ritenne non necessario applicare il Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. L'ambulanza partì da Ardea diretta al Nuovo Ospedale dei Castelli di Ariccia dove Pignani giunse «in stato di agitazione psicomotoria» con codice azzurro. Fu sottoposto a consulenza psichiatrica, lo visitarono, gli diedero un calmante e dopo una notte tranquilla venne dimesso la mattina seguente con la diagnosi di «stato di agitazione, paziente urgente differibile che necessita di trattamento non immediato». E fu riaffidato a suo padre Stefano, con cui tornò a casa. In pratica, quel giorno gli fu solo consigliato (ma non imposto) di rivolgersi a un centro di igiene mentale e infatti - così ha scritto ieri la Asl Rm6 - Pignani «non era in carico ai servizi territoriali di salute mentale». Ma lui non si presentò mai al Cim e nessuno lo andò mai a cercare per curarlo, anche perché - aggiunge la Procura - «dagli accertamenti eseguiti non risultano ulteriori denunce o segnalazioni a suo carico». Andrea Pignani, così, è andato avanti da solo. E le cose sono peggiorate. «Mai sazio, come la fiamma mi ardo e mi consumo, luce diventa tutto ciò che afferro», scrisse in un post citando Nietzsche. Dalla mansarda di viale Colle Romito - dove da qualche mese si era isolato, senza più rapporti né con la madre Rita né con la sorella Cristina dopo la morte per cancro del padre Stefano, a novembre scorso, cui invece era legatissimo - gli investigatori ieri hanno portato via i suoi due computer e il telefonino. Perché se è vero, come dice il sindaco di Ardea, Mario Savarese, che questa assomiglia sempre di più a «una strage americana», un cocktail assurdo di caso, violenza e follia, allora sarà importante cercare le risposte anche là, nella memoria di quegli apparecchi elettronici, dove magari l'ingegnere informatico può aver lasciato la soluzione. «Ma io non credo al raptus - dice lo psicologo Morris Orakian, che è anche il vicesindaco di Ardea -. Penso piuttosto a un disturbo di personalità molto complesso...». Di certo in 35 anni non gli fu mai diagnosticato anche se è suggestivo il singolare nickname che si era scelto per i social: Mr Hyde 86 (il suo anno di nascita). Si faceva chiamare così, come l'alter ego del dottor Jekyll: le due nature dell'animo umano, quella buona (Jekyll) e quella malvagia (Hyde). Ma aveva appena 124 amici su Facebook e 38 followers su Flickr. Come ha raccontato sua madre Rita: «Era disoccupato, era solo, isolato, non aveva amici e non si curava». Ad aprile, poi, due mesi fa, lo lasciò pure la fidanzata. L' ultimo shock.

Fra. Gri. per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Alla fine, sembra tutto un banale problema burocratico. Il papà di Andrea Pignani, ex guardia giurata, muore nel novembre scorso. La mamma non sa o non capisce, comunque non si rivolge alle forze dell'ordine. La pistola sparisce. E ricompare nelle mani del figlio fuori di testa che fa una strage. E ora, il giorno dopo, tutti a interrogarsi: ma come è possibile? Anche Enrico Letta: «Chiediamo al governo di rivedere le norme sulle armi». E la ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Lavoriamo per capire come mai quell' arma era ancora lì dove non doveva essere». Promette, la ministra, che a breve sarà pronto un regolamento che dovrebbe evitare casi simili. È almeno dal 2010 che questo regolamento dovrebbe aver visto la luce. Decreto legislativo numero 204, articolo 2: «Sentito il Garante per la Privacy, sono definite le modalità dello scambio protetto di dati tra il Servizio sanitario nazionale e le forze dell'ordine nei procedimenti per qualunque licenza di porto d' armi». Siamo alle solite. In Italia le amministrazioni non dialogano tra di loro. Così le informazioni di tipo sanitario, anche quelle più rilevanti tipo i trattamenti psichiatrici, restano patrimonio delle Asl e non sono condivise con le forze di polizia. Né sono collegate le anagrafi e il ministero dell'Interno; perciò se muore una persona che detiene regolarmente armi, non scatta nessun allarme presso le forze di polizia. E secondo stime sono almeno 10 milioni le armi in giro e 2 milioni i titolari di qualche licenza: da caccia, da tiro sportivo, da difesa personale. «Occorre una profonda riflessione sul tema della circolazione delle informazioni rilevanti in materia di armi, concernenti sia il titolare della detenzione o della licenza, sia dei suoi conviventi», sottolinea Enzo Letizia, segretario dell'associazione dei funzionari di polizia. La realtà è che nessun agente o carabiniere sa di eventuali problemi psichiatrici quando è chiamato a intervenire. Nel caso della famiglia Pignani, il babbo aveva continuato a tenere in casa una pistola 7, 65. Regolarmente autorizzato. Alla sua morte, però, la moglie non si è posta il problema. «La pistola l'avevamo cercata, ma non l'abbiamo trovata», ha poi spiegato ai carabinieri. Ora rischia un procedimento penale. Per le guardie giurate era stato pensato un regime ancor più stringente. Racconta un sindacalista del settore, Vincenzo Del Vicario: «Non parliamo di fantascienza, ma di un sistema informatizzato che era stato realizzato dal ministero dell'Interno e pagato milioni di euro con fondi pubblici. Era anche entrato regolarmente in funzione ma poi, per motivi misteriosi, non è stato mai utilizzato. Si chiamava Space». Con fondi europei, il sistema Space prevedeva schede dettagliate sulla guardia giurata, l'arma in dotazione, i proiettili, le verifiche sanitarie. E ovviamente era previsto il caso del vigilante andato in pensione, per tracciarne l'arma. Tutto bellissimo, tutto rimasto sulla carta. «Basterebbe una app - dice ancora Enzo Letizia - e si potrebbero superare così le perplessità eventuali sulla privacy».

Luca Di Bartolomei per leggo.it il 15 giugno 2021. Sono stato l'ultima persona a vedere Agostino, mio padre, il calciatore amato da tutti, il 30 maggio del 1994 prima che si sparasse dritto al cuore con la sua pistola. E non passa giorno da quando anche io sono diventato padre che non sia atterrito dalla possibilità che una pistola in mano a una persona qualunque possa strapparmi ancora qualcuno a me caro: un figlio, un amico, un collega di lavoro. Le terribili notizie che domenica arrivavano da Ardea mi hanno afferrato come un amo, impedendomi di allontanarmi dalla tragedia che si consumava in diretta. Più leggevo, più i particolari si arricchivano e più io pensavo a Domenico, il padre dei piccoli David e Daniel che li ha visti morire tenendoli per mano. Ed è da quel momento che dentro di me una sensazione di vuoto e di nausea si fanno spazio. Viviamo in un Paese con 10 milioni di pistole dove anni di crisi sociale sono stati acuiti dalla pandemia. In un'Italia spaventata e insieme armata quante Ardea rischiamo se non facciamo qualcosa? Questa tragedia ci dice che qualcosa non ha funzionato: una situazione di forte confusione e disorganizzazione. Prendete questi elementi: una persona che aggredisce con un coltello la madre, conosciuto da tutti come instabile, con un'arma nel nucleo familiare. Elementi che dovrebbero far scattare qualche punto interrogativo se non un allarme delle forze dell'ordine. Poter incrociare i database sui detentori di armi - in mano alle questure e quindi al ministero dell'Interno - con quelli dei soggetti in cura per disturbi mentali, che sono in possesso delle Asl e del ministero della Salute aiuterebbe. Ma questo non avviene: queste informazioni non si parlano tra loro. Ed anche quando potrebbero capita che si arrivi tardi, troppo tardi. Come nel caso del femminicidio di Ventimiglia: dove pur a fronte due denunce per minacce non si è attivato il codice rosso. Non voglio muovere accuse, ma mentre si parla tanto di digitalizzazione che aspettiamo a superare questa assurda incomunicabilità? A qualcuno potrà sembrare un tema marginale. Eppure qualche numero dovrebbe farci riflettere: nella sola Roma ci sono 256 mila possessori di armi da fuoco, circa uno ogni 10 abitanti. Sono moltissimi e per di più i controlli sono insufficienti. Passano in media 5 anni tra una verifica sullo stato di salute del possessore e l'altra. Non amo le armi, ma non voglio farne una questione di principio, bensì una questione di sicurezza per tutti. Nei primi quattro mesi del 2021 vi sono stati 91 omicidi, in 38 casi (oltre il 40%) si tratta di donne uccise in ambito familiare-affettivo (se così vogliamo dire), quasi sempre con colpi di arma da fuoco. Quasi sempre da pistole legalmente detenute. Davanti a noi abbiamo passaggi sociali difficilissimi: cosa stiamo rischiando?

Giampiero Mughini per Dagospia il 15 giugno 2021. Caro Dago, se capisco bene quel gran pezzo di merda che ha ucciso a sangue freddo tre persone innocentissime di tutto era solo un pezzo di merda, uno che non s’era fatto notare prima, uno che girovagava per le strade d’Italia senza che nessuno lo conoscesse o lo riconoscesse in base a criteri diffusi. Non esistono criteri diffusi atti a spiegare una personalità del genere. Era solo un caso umano che non ammette spiegazioni facili, e ce ne sono tantissimi. Era uno contro cui la società di massa non ha difese, e ce ne sono tanti, gente che in un modo o in un altro può esplodere a un momento all’altro e colpire a morte chi ha il torto di trovarsi nei paraggi. Con uno simile non c’è analisi che tenga, non v’è ragionamento che tenga, non c’è parametro intellettuale e forse neppure psichiatrico che tenga. Molti tenteranno di spiegare e ne parleranno a lungo e ne riempiranno gli schermi televisivi magari per rassicurarci che non ci sarà mai più da qualche parte in Italia un accadimento talmente sanguinoso. E invece si sbagliano, perché ogni individuo è un pozzo ed è inattingibile dalla ragione per come siamo abituati a usarla. Non sappiamo nulla di lui sino al momento in cui estrae la pistola e spara. C’è che siamo una specie animale diversa da tutte le altre, una specie capace di una violenza sconfinata e improvvisa e irragionevole. Il triplice assassino era laureato nientemeno che in ingegneria informatica. Significa nulla. Era solo un pezzo di merda, come in America (che è un grande Paese al quale dobbiamo l’aver sconfitto il nazismo) ce ne sono tanti. Non illudetevi, contro di loro non possiamo fare nulla. Non possiamo fare nulla contro chi è talmente umano, fin troppo umano. Talmente umano da essere mostruoso.

Mirko Polisano per "il Messaggero" il 16 giugno 2021. Un gesto eroico di un bambino di 10 anni che forse si sarebbe potuto salvare e invece è stato colpito mentre cercava di soccorrere il fratello più piccolo sanguinante a terra. È quanto emerge da un'ultima ricostruzione dei carabinieri sulla strage di Ardea: Daniel che decide di non scappare per cercare di salvare il piccolo David, cinque anni. Inseparabili fino alla fine. I militari al lavoro sulla dinamica avrebbero accertato che Pignani avrebbe colpito prima David, il piccolo di 5 anni e poi il 74enne, Salvatore Ranieri. Daniel in quell' istante forse sarebbe potuto fuggire al mirino del killer ma ha preferito fermarsi accanto al fratellino, perdendo la vita anche lui. L' autopsia, conclusa ieri sera a Tor Vergata, conferma: un colpo di pistola ciascuno, al petto David e alla gola Daniel. A soli dieci anni Daniel, promessa del calcio, si è reso protagonista di un gesto eroico molto più grande della sua piccola età: avrebbe potuto mettersi in salvo, molto probabilmente scappando verso casa e invece si è messo a correre in direzione del fratello. Senza pensarci sopra due volte. Poco prima, era stato Salvatore Ranieri a tentare un'altra impresa eroica. Visto il piccolo David a terra ferito dal killer, il 74enne pensionato ex autista dell'Atac non è scappato via. Per Ranieri, colpito alla testa a bruciapelo, non c' è niente da fare. Muore praticamente sul colpo mentre cerca di fermare il killer spietato. Fallito il tentativo, Pignani tira poi ancora il grilletto mirando verso Daniel, che d' istinto si sarebbe proteso verso il fratello piuttosto che tentare di scappare. «Mia figlia non riesce nemmeno a parlare. Il nostro dolore è indicibile». Nonna Stella ha un filo di voce ed è distrutta dall' altro capo del citofono della sua abitazione di Ostia Nuova. «I nostri bambini ora sono angeli che ci devono proteggere», prosegue. Daniel e David, dieci e cinque anni, uccisi per pura follia a pochi passi da un campo da calcio nel comprensorio di Colle Romito ad Ardea, alle porte della Capitale. A sparare, Andrea Pignani ingegnere trasformatosi in killer la mattina di domenica scorsa. «Lasciateci nel nostro dolore», chiosa nonna Stella prima di essere interrotta da un piano. Restano da fare gli esami autoptici del pensionato Salvatore Ranieri, oggi, poi giovedì sarà la volta del killer per il quale verranno svolti anche gli accertamenti tossicologici. Poi l'ultimo saluto alle vittime nella Capitale. I funerali dovrebbero esserci tra giovedì e venerdì, quello dei bimbi ad Ostia. Intanto le indagini dei carabinieri vanno avanti per chiarire ogni aspetto. Sono stati sequestrati computer e cellulare di Andrea Pignani, il killer di Colle Romito. Verranno effettuate verifiche per stabilire se ci siano all' interno elementi utili, se ad esempio l'uomo abbia avuto qualche contatto pregresso da cui si potesse intuire qualcosa. A quanto ricostruito finora, il mondo del 35enne era praticamente limitato alle mura della sua stanza in cui trascorreva intere giornate. Una camera che sarebbe stata quasi inaccessibile agli altri. E rimane al vaglio la posizione della madre dell'ingegnere per quanto riguarda la mancata denuncia della pistola di proprietà del marito che non fu denunciata alla sua morte, avvenuta nei mesi scorsi. La donna rischia l'accusa di detenzione abusiva di armi. La pistola, una Beretta modello 81 calibro 7,65 utilizzata dall' omicida, era detenuta regolarmente dal padre di Pignani, ex guardia giurata, ma alla sua morte non fu denunciata. «Non la trovavamo» si sarebbero giustificati i familiari. Ma la donna, essendo l'erede convivente del marito, avrebbe dovuto segnalare l'esistenza dell'arma anche se questa non era stata da lei ritrovata. I carabinieri stanno accertando anche l'eventuale presenza di telecamere che possano aver ripreso quegli istanti o inquadrato il killer lungo il tragitto. Aveva guanti, felpa, zainetto e una pistola in pugno. 

Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 16 giugno 2021. Quattro schermi, due webcam, due «torri» con relativo hard disk, tutto rigorosamente spento. Quello che i carabinieri della compagnia di Anzio hanno sequestrato nella mansarda-caverna di Andrea Pignani è non solo la scenografia della sua vita da recluso ma anche il tesoro investigativo che potrebbe celare la chiave per aprire lo scrigno della mente del 34enne ingegnere informatico, e con essa risolvere il mistero della strage di Ardea. Escluso il raptus estemporaneo, l'azione con la quale Pignani ha puntato le sue tre vittime, i fratellini Daniel e David Fusinato e il pensionato Salvatore Ranieri, assomiglia sempre più a una manovra studiata o quanto meno ispirata da qualcosa o qualcuno. Un gioco di ruolo? Il rituale di una sorta di setta segreta? Una dissociazione per la quale il killer ha trasportato nella realtà un personaggio vissuto per ore nel 3D di un gioco violento? L' abbigliamento (zaino, guanti, cappuccio della felpa in testa nonostante il gran caldo di domenica), i colpi esplosi a bruciapelo dopo aver incrociato le vittime (e non, ad esempio, appostandosi per prendere la mira), farebbero pensare a qualcosa del genere. Decisivo in questo senso sarà anche l'esame balistico completo per risalire all' esatta successione dei colpi sparati dall' assassino con la vecchia Beretta 81, calibro 7,65, del padre. La ricostruzione secondo la quale Ranieri sarebbe intervenuto per difendere i due bambini ha bisogno di ulteriori conferme. Nei pc (e nel telefono) del killer gli esperti dell'Arma cercano inoltre una chat, una conversazione, la frequentazione di un sito che possano aver fomentato Pignani spingendolo ad agire dopo mesi e mesi da recluso, in cui magari questo piano gli girava per la testa. Ieri, intanto, all'istituto di medicina legale di Tor Vergata sono cominciate le autopsie sui fratellini, disposte dalla Procura di Velletri. Poi toccherà a Ranieri. Infine lo stesso Pignani, che nella sua caverna è tornato a recludersi un'ultima volta per poi uccidersi. Anche questo è un gesto dal significato da interpretare, così come il fatto che i pc fossero spenti. La sua ultima azione prima di togliersi la vita o un congedo definitivo dal suo mondo virtuale, avvenuto prima di scendere in strada armato? I funerali delle vittime dovrebbero tenersi entro un paio di giorni. Daniel e David verranno salutati a Ostia dove sono nati e cresciuti prima di trasferirsi, un anno e mezzo fa, nel villino di Marina di Ardea. Da dove tutte le mattine, assieme alla mamma, partivano per tornare nella vecchia scuola. Sul fronte delle indagini resta da definire la posizione della madre di Pignani per la mancata denuncia di smarrimento della pistola che il marito aveva per anni tenuto con sé, dopo i pochi mesi di lavoro come vigilante. Davvero credeva che l'arma fosse andata persa, magari presa a sua insaputa dal figlio, o ha sottovalutato l'uso che il 34enne avrebbe potuto farne, sebbene lei stessa fosse stata minacciata (con due coltelli) nel maggio 2020? La donna ha trovato rifugio a casa della figlia, che da tempo aveva troncato - altro aspetto da chiarire - i rapporti con il fratello. Dopo la concitazione di questi giorni, Colle Romito è tornato silenzioso come negli altri giorni feriali. Viali deserti, i pochi ragazzini presenti liberi di scorrazzare in giro, nessun pericolo da temere. Come doveva apparire anche domenica, prima che Pignani uscisse dalla sua caverna.

Mirko Polisano per "il Messaggero" il 18 giugno 2021. Che Andrea Pignani, il killer di Ardea fosse stato istigato a uccidere? Il 35enne è stato spinto ad ammazzare? Aveva qualche complice da scovare nelle oscurità del web? È sulla risposta a queste tre domande che si stanno concentrando le indagini degli inquirenti che stanno cercando di capire cosa c'è dietro - il vero movente - la sparatoria e il triplice omicidio di domenica mattina a Colle Romito dove hanno perso la vita - senza ancora sapere perché - i fratellini di Ostia Daniel e David Fusinato di dieci e cinque anni e Salvatore Ranieri, il 74enne romano dipendente dell'Atac in pensione. E così ieri mattina, i carabinieri si sono ripresentati nella villa dell'omicida per un «sopralluogo tecnico». In realtà, il blitz è stata una perquisizione in piena regola.

LE IPOTESI. I militari hanno portato via alcune foto del 35enne presenti nella sua camera da letto, dopo aver sequestrato cellulare e il pc dell'uomo. L' intento è quello scavare nelle ultime ore di vita di Pignani alla ricerca di un indizio, di un qualcosa che possa aver fatto scattare la furia omicida. Pignani potrebbe essere finito nelle tenebre del «deep web», quella parte di internet non accessibile attraverso i normali browser e in cui gli utenti non sono identificabili se non attraverso complicate procedure informatiche. Qualcuno può averlo istigato a uccidere? Pignani - secondo le ricostruzioni e le testimonianze - era vestito con una felpa nera, guanti e cappellino. E così è uscito con pistola alla mano. Quasi come fosse un personaggio uscito da un videogioco. Poi ha aperto il fuoco contro tre sconosciuti e innocenti. Eppure, le «stanze degli orrori» popolano la parte oscura del web e parlano di come portare a termine omicidi di minori, sfregi alle donne e torture. Le analisi sui computer accerteranno se Pignani sia precipitato in questi abissi della tecnologia. Gli investigatori hanno anche portato via alcune foto che ritraevano Pignani. Qualcuno prima di requisirle ha chiesto se fosse lui la persona ritratta nello scatto. Che possa anche aver cambiato aspetto negli ultimi mesi? D' altronde il suo nick sui social era abbastanza eloquente: Mr Hide. Colle Romito, quartiere stretto tra le località turistiche di Tor San Lorenzo e Lido dei Pini sul litorale di Ardea, ieri ha rivissuto per qualche ora un assedio simile a quello di domenica: auto dei carabinieri a chiudere le strade, curiosi che cercavano di capire cosa stesse accadendo. Pignani si sarebbe poi suicidato dopo il suo rientro a casa sparandosi un colpo alla tempia (come rivelato dall' autopsia) con la stessa arma con cui poco prima aveva ucciso le tre persone. La pistola, una Beretta calibro 7.65 apparteneva al padre del 35enne, ex guardia giurata morto a novembre: da allora quell' arma non era stata mai dichiarata al commissariato di Anzio. Per questo ora è stata iscritta nel registro degli indagati Rita Rossetti, 64 anni, madre di Andrea Pignani, per omessa denuncia.

LA COMUNITÀ. Una comunità, quella di Colle Romito, ancora scossa dalla tragedia. Un disagio percepito anche dalla Asl Roma 6, che ha messo a disposizione dei cittadini maggiormente coinvolti dalla tragedia un team di psicologi e psichiatri che possano aiutare le persone a elaborare il lutto, soccorritori compresi. La stessa iniziativa è stata promossa dalla Asl Roma 3 verso i piccoli compagni di scuola di Daniel. L' autorità giudiziaria ha nel frattempo autorizzato la famiglia Fusinato a organizzare il funerale di Daniel e David, chiedendo alla stampa - attraverso il proprio legale Diamante Ceci - «che la presenza sia marginale, discreta e rispettosa del loro incommensurabile dolore». L' ultimo saluto domani alle 14 nella chiesa Regina Pacis di Ostia. La questione delle armi intanto arriva in Parlamento con un'interrogazione sui ritardi nella realizzazione del database inter-istituzionale. Se avesse funzionato, forse avremmo raccontato un'altra storia.

Ardea, la lettera della madre del killer: “Gesto folle ed efferato, non mi do pace”. Debora Faravelli il 19/06/2021 su Notizie.it. La madre del killer della strage di Ardea ha scritto una lettera rivolta ai parenti delle tre persone uccise dal figlio. La madre di Andrea Pignani, l’autore della strage di Ardea che ha ucciso due bimbi e un anziano per poi suicidarsi, ha scritto una lettera rivolta ai familiari delle vittime. Come madre e come moglie, ha iniziato Rita Rossetti, si è sentita addolorata e sconvolta per quello che ha definito come un gesto folle, efferato e violento perpetrato da suo figlio “davanti al quale non mi do pace né ragione come voi”. Il delitto, ha continuato, ha gettato nel dolore e nella disperazione non solo le famiglie delle tre persone uccise ma anche la sua: “Come si può arrivare a tanta ferocia? Il gesto di mio figlio non può essere giustificato in alcun modo.  Ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano il segno e ti cambiano la vita inesorabilmente, perché indietro non si torna”. L’unica richiesta della donna è quella di permetterle di stringersi con tutto il suo dolore a quello dei parenti delle vittime. Rita ha poi incontrato alcuni cronisti e ricostruito quanto accaduto la mattina di domenica 13 giugno. Quando la donna ha visto uscire il figlio, ha spiegato, gli ha chiesto dove andasse e lui gli ha risposto tranquillo che andava a fare una passeggiata. Aveva però notato che si era messo i guanti, la felpa e il cappuccio nonostante fosse una giornata calda di sole, ma lei non gli disse nulla “anche per non irritarlo”. Poi l’ultimo sms di Andrea, che Rita ha ricevuto alle 17 quando era già nella caserma dei Carabinieri: “Quando leggerai questo messaggio, io sarò già morto. Andrea”. Lo stesso che Andrea ha inviato alle 18 alla ex fidanzata messicana dopo averli programmati entrambi (il decesso è avvenuto prima). “Se avessi saputo che negli ultimi tempi andava in giro a sparare con la pistola, come dicono, sarei stata io la prima a denunciarlo! Ma non disconosco mio figlio e gli vorrò sempre bene malgrado quello che ha fatto”, ha concluso la donna. 

Ardea, la rivelazione sul killer: "Prendeva degli integratori per dimagrire, poi sono cominciate le stranezze". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. "Come madre e moglie sono profondamente addolorata e sconvolta per il gesto folle, efferato e violento di mio figlio, davanti al quale non mi do pace né ragione, come voi": inizia così la lettera della madre del killer di Ardea, Andrea Pignani, che domenica scorsa ha sparato e ucciso due fratellini di 5 e 10 anni e un anziano signore intervenuto per difenderli. Poi si è barricato in casa e si è suicidato. Nella lettera, la signora si rivolge ai genitori dei due bambini e ai parenti del 74enne eroe: "Il gesto insano che ha provocato la morte di Salvatore, Daniel e David, anime innocenti, ha gettato nel dolore e nella disperazione le vostre famiglie e la mia. Come si può arrivare a tanta ferocia?". "Il gesto di mio figlio non può essere giustificato in alcun modo. Mi sento impotente davanti alla vostra tragedia e so che non ci sono parole giuste - ha continuato la madre dell'assassino -. Ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano il segno e ti cambiano la vita inesorabilmente, perché indietro non si torna". La donna poi ha rivelato al Corriere della Sera quali siano stati gli ultimi momenti col figlio prima che uscisse di casa per uccidere: "Domenica mattina, verso le 11, quando l’ho visto uscire, gli ho chiesto: 'dove vai?' Lui mi ha risposto tranquillo: 'Vado a fare una passeggiata'. Ma io avevo notato che s’era messo i guanti, la felpa, il cappuccio, nonostante fosse una giornata calda di sole. Però, a 35 anni, non gli potevo mica dire: "ma dove esci conciato così?" Anche per non irritarlo: lui prendeva sempre le goccine per dormire, dormiva poco". Prima di morire, poi, Pignani aveva programmato dei messaggi. Uno alla madre alle 17: "Quando leggerai questo messaggio, io sarò già morto. Andrea". E l'altro alle 18 alla ex fidanzata messicana, con cui la relazione era finita ad aprile scorso. Per piacere a lei, 5 anni fa, iniziò una dieta per dimagrire, prendendo integratori. Ed è lì - spiega il Corriere - che cominciarono le stranezze. 

Ardea come Guidonia: "Vittime senza giustizia". Stefano Vladovich il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. La figlia del vigilante ucciso in strada nel 2007: "Stato assente". Oggi test tossicologici su Pignani. Strage di Ardea. Andrea Pignani, «Mister Hyde», il 35enne che ha ucciso due bambini e un anziano senza motivo, era sotto effetto di droghe o psicofarmaci? Lo stabilirà l'esame tossicologico assieme all'autopsia prevista per domani all'Istituto di Medicina Legale di Tor Vergata. Iniziati ieri, invece, gli esami autoptici sui corpi dei piccoli David e Daniel Fusinato, di 5 e 11 anni e su quello di Salvatore Ranieri, 74 anni, colpiti ognuno con due colpi calibro 7,65 esplosi dal folle omicida al parco giochi. Uno squilibrato con manie di persecuzione. La pistola, nascosta in mansarda dalla morte del padre Stefano, ex guardia giurata, non era stata sequestrata. Scomparsa per la madre dell'omicida, Frida Rossetti. E mentre monta la polemica sull'assenza di un sistema informatizzato centrale, lo Space, «spento» dal 2009 nonostante siano stati spesi tre milioni di euro, parla la figlia di Luigi Zippo, il vigilante ucciso da Angelo Spagnoli, ex capitano dell'esercito, il «cecchino di Guidonia» che nel novembre del 2007 si barrica sulla terrazza di casa con un arsenale da guerra e uccide due passanti, ferisce gravemente un ispettore di polizia prima di venire bloccato e internato nel manicomio criminale di Aversa. «Giustizia? Non sappiamo cosa sia - racconta a il Giornale Nadia Zippo -. Spagnoli aveva migliaia di munizioni, pistole, fucili di precisione, lanciafiamme. Tutte regolarmente registrate a lui e alla sorella. Com'è possibile visto che nel 1991 era stato congedato dall'Esercito perché borderline?». Spagnoli viene giudicato non punibile per infermità mentale, la sorella convivente, che non poteva non sapere, viene prosciolta nei primi due gradi di giudizio. «Ci resta la Cassazione per ottenere quello che ci è stato negato. Giustizia». È il 3 novembre quando Spagnoli mette in atto un vero e proprio attacco ai passanti di via Fratelli Gualandi, a Guidonia. Il primo a morire è Pino Di Gianfelice, proprietario di un negozio di tatuaggi. Era con la moglie e la figlioletta Di Gianfelice, quando dal terrazzo di una palazzina a due piani vede delle fiamme. Si ferma e citofona. Il folle gli grida di andarsene, di farsi i fatti suoi. Per convincerlo gli spara con il lanciafiamme, poi lo colpisce a morte con il fucile. «Papà tornava a casa - continua Nadia Zippo -, aveva terminato il turno di lavoro. Vede l'uomo a terra, cerca di soccorrerlo. Per tutta risposta l'ex militare gli spara con un fucile di grosso calibro. Papà viene colpito alla tempia, è grave. Quando arriva la polizia nessuno lo può aiutare. Il pazzo li tiene tutti lontano sparando all'impazzata. È rimasto a terra tre ore, è morto due giorni dopo al San Filippo Neri». Il cecchino impazzito ferisce anche un ispettore di polizia, Pasquale Bufaletti: un colpo lo passa da parte a parte bloccandosi sul giubbotto antiproiettile. Il killer si fermerà solo quando avrà finito tutte le sue munizioni. Stefano Vladovich

·        Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

9 parabellum: perforante, rimbalzante e fesserie assortite… Non solo La Repubblica, ma anche altri organi di informazione, come Wired, si lanciano a capofitto in considerazioni pseudo-tecniche sulla “pericolosità” o “potenza” del 9 mm parabellum: non è dato sapere quali siano le fonti, ma non ne imbroccano neanche mezza. Ruggero Pettinelli il 25 Dicembre 2021 su armietiro.it. La rimozione del divieto di vendita di armi corte in 9×19 mm, approvata dalla Camera il 21 dicembre scorso, non è proprio andata giù agli organi di informazione generalisti. Non ci voleva Nostradamus per saperlo, in verità. Anzi, ha scatenato una vera e propria crociata contro il “micccidiale” (ci vogliono almeno tre “c”) “parabbbellum” (e qui è d’obbligo come minimo la tripla “b”) che, al primo colpo sparato, trapassa chilometri di palazzi, distrugge intere civiltà precolombiane e, nel frattempo, si serve un bel caffè.

Ha esordito il quotidiano La Repubblica esattamente il giorno dopo l’approvazione della norma in questione, con un articolo caratterizzato da cifre del tutto campate per aria e nel quale, in chiusura, si precisache “La munizione finora vietata si contraddistingue solo per un notevole potere penetrante, che negli ambienti chiusi rende micidiali pure il rimbalzo dei colpi”.

L’affermazione è stata prontamente rilanciata anche da vari opinionisti da Social e sedicenti tali, la palma però della (dis)informazione più specifica sull’argomento spetta senza dubbio alcuno alla rivista Wired, che già dal titolo sbrocca di brutto: “In Italia è caduto il divieto sulla vendita di un tipo di armi e proiettili più potenti”. Bum. Dopo aver letto un siffatto titolo, anche a voi non viene voglia di cercare immediatamente in giro un elmetto da indossare prontamente? Le partorienti di questa fine d’anno daranno come minimo alla luce bambini con la voglia a forma di giubbetto antiproiettile…

Il testo dell’articolo esordisce precisando che “Le munizioni parabellum, caratterizzate da un alto potere perforante e finora riservate esclusivamente ai militari e alle forze dell’ordine, saranno ora in vendita in Italia per chiunque abbia il porto d’armi civile o sportivo” (civile? Mah).

Commentando l’iniziativa del senatore Fazzolari, Wired afferma che “La mossa ha fatto cadere un divieto storico dell’ordinamento italiano (prima convenzione e poi legge dal 2010) sulla vendita civile di munizioni perforanti i cui colpi possono rimbalzare, causando vittime collaterali”.

Saremmo già a posto così, ma evidentemente non ci si vuole far mancare nulla: “molti osservatori, dopo il semaforo verde alla liberalizzazione, evidenziano i problemi di ampliamento all’accesso ad armi e munizioni più potenti. Le munizioni parabellum infatti, sono particolarmente pericolose negli ambienti chiusi, perché i proiettili possono perforare facilmente superfici e corpi e sono caratterizzate dalla possibilità di poter rimbalzare, in modo tale da estendere il potenziale offensivo. Una norma, insomma, molto contestata, di cui forse l’Italia non aveva un impellente bisogno”.

I fatti come stanno?

Sarebbe molto bello che questi “osservatori” fossero citati con nome e cognome, per capire se si tratta eventualmente del classico maresciallo dei carabinieri (con tutto il dovuto rispetto per l’Arma dei carabinieri), vicino alla pensione, che ha attinto a fumosi e fallaci ricordi inculcatigli all’inizio del suo tirocinio, o se invece sussista un vero e proprio dolo nel fornire informazioni siffatte al giornalista (il quale tuttavia avrebbe l’obbligo di verificarle…), il che renderebbe la questione più grave, principalmente per il livello già infimo nel quale si trova l’informazione in generale in Italia. Ai posteri l’ardua sentenza, noi però un piccolo sospetto ce l’abbiamo…

Si può fare corretta informazione sul 9 mm parabellum? Evidentemente la risposta è no, ma noi ci proviamo lo stesso, anche se ovviamente a nessuno, al di fuori del ristretto ambiente degli appassionati, sembra che importi una beneamata cicca.

Fatto numero 1: il calibro 9×19 mm parabellum, dal punto di vista della potenza, è esattamente identico al 9×21, che da circa 35 anni è in vendita sul mercato civile italiano. Questo non siamo noi a dirlo, è l’organismo internazionale (Cip, Commissione internazionale permanente per la prova delle armi da fuoco portatili) preposto ad affermarlo, avendo fissato identiche dimensioni esterne e identiche pressioni di esercizio per i due calibri. L’unica differenza tra 9×19 e 9×21 è che quest’ultimo ha il bossolo di 2 millimetri più lungo (quindi, paradossalmente, potrebbe contenere una maggior carica di polvere), ma questa maggior lunghezza non può essere in alcun modo sfruttata perché la lunghezza totale della cartuccia è la stessa del 9×19. In altre parole: il bossolo è più lungo di 2 mm ma il proiettile risulta più affondato nel bossolo di 2 mm. Bilancio, come si dice, a zero.

Fatto numero 2: parliamo invece delle fantomatiche capacità “perforanti” e “rimbalzanti” del 9 parabellum. Cominciamo con il dire che entrambi questi aspetti non hanno niente (ripetiamo: niente) a che vedere con il calibro. Hanno, invece, ha che vedere con il tipo di proiettile normalmente associato a questo calibro, nell’impiego presso le forze dell’ordine italiane. Le quali hanno appunto l’obbligo di utilizzare un proiettile completamente blindato, o camiciato che dir si voglia, volendo citare definizioni più o meno gergali piuttosto diffuse. Il quale all’impatto, diversamente dal proiettile in piombo nudo, tende a non schiacciarsi (o perlomeno lo fa con molta maggior difficoltà) e quindi può vantare una penetrazione superiore (ma una inferiore efficacia terminale) e, impattando contro superfici dure con un determinato angolo, può determinare un rimbalzo più facilmente rispetto al proiettile in piombo nudo. Tutte caratteristiche che possono mettere a rischio cittadini innocenti nel momento in cui le forze dell’ordine debbano far uso delle armi in strada, contro la criminalità. Perché forse sfugge agli “osservatori” che il problema con un proiettile (non un calibro…) “perforante” o “rimbalzante” si presenta al massimo grado quando ci si trova nel mezzo di una strada di una grande città, gremita magari di cittadini. Non quando un singolo detentore di armi cerca di difendersi da un aggressore all’interno della propria casa, solo e magari di notte.  No? 

Prima notizia in anteprima mondiale: queste caratteristiche del 9×19 mm blindato sono identiche a quelle di un 9×21 blindato.

Seconda notizia in anteprima mondiale: l’obbligo di utilizzare palle blindate nel 9×19 mm compete a oggi alle sole forze dell’ordine italiane (oltre che alle forze armate), non ai privati, ai quali è consentito scegliere tra una molteplicità di caricamenti. Come avviene per qualsiasi altro calibro. Inoltre, come già ricordato, sono completamente diversi i contesti nei quali le forze dell’ordine o eventualmente il privato cittadino fanno uso dell’arma. 

Terza notizia in anteprima mondiale: in Italia, da decenni, sono in vendita armi camerate per calibri molto più potenti rispetto al 9×19 o al 9×21. Quindi non è che il 9×19 sia stato finora dato alle forze dell’ordine perché “è più potente”.

La maggior parte delle critiche rivolte al caricamento blindato del 9×19 mm, sono proprio relative al suo impiego da parte delle forze dell’ordine e sono normalmente rivolte al fatto che numerosi altri Paesi dell’Unione europea, sempre per le proprie forze dell’ordine, hanno già da anni (in alcuni casi da decenni) sostituito i caricamenti blindati con proiettili di nuova concezione, ad alto contenuto tecnico, volti proprio a limitare i rimbalzi e accrescere l’efficacia terminale. Quindi queste caratteristiche di “perforanza” e “rimbalzanza” non costituiscono proprio per niente un “plus” nei confronti degli equipaggiamenti delle forze dell’ordine, bensì sono l’ennesimo anacronismo che affligge gli equipaggiamenti di chi deve vegliare sulla sicurezza dei cittadini.

A questo punto la domanda da porsi è: se le fonti di informazione “generaliste” commettono di questi svarioni su una questione tutto sommato banale ed elementare come questa, cosa, in nome del cielo, ci danno da bere quando ci si intrattiene sui grandi temi? Parliamo della pandemia, della bioetica, dell’astrofisica, di quello che volete. A voi non fa paura?

Vittorio Feltri, l'affondo: "Non si eliminano gli omicidi vietando le pistole. Allora vietiamo anche i coltelli?" Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. In questi giorni, come accade periodicamente, si discute sul possesso di armi da fuoco, le quali nella ma nidi gente scellerata provocano tragedie. Qualcuno, incompetente ma in buona fede, suggerisce quale antidoto la sospensione definitiva del commercio di tali strumenti di morte, nella convinzione che la maggioranza dei delitti si consumi tramite l'utilizzo di essi. In realtà le vittime di sparatorie sono relativamente poche in Italia, e anche queste soccombono perché uccise da chi detiene abusivamente un'arma. Per possedere la quale legalmente bisogna superare una serie di esami piuttosto severi. Anzitutto, il richiedente del porto di una pistola è costretto a fare una domanda circostanziata: certificato medico, la motivazione che giustifichi la necessità di legittima difesa, superare una prova non banale al poligono di tiro. In pratica è difficile ottenere il permesso di andare in giro col cannone in tasca. Dico questo per esperienza personale, avendo avuto la licenza di maneggiare una rivoltella perché abilitato dallo Stato, che ha riconosciuto serie le minacce che ho ricevuto. Grazie a Dio non ho mai avuto bisogno di premere il grilletto. E quand'anche mi fosse capitato di farlo, avrei mirato per colpire il muro onde spaventare chi mi voleva nuocere, non per ucciderlo, ovvio, primum evitare grane. Ma questi sono dettagli che inquadrano il problema dei conflitti a fuoco. La realtà di cui non si tiene mai conto è che l'80 per cento degli assassinii non avviene in seguito a una sparatoria, bensì a causa di pugnalate. Infatti qualunque scemo dispone di un coltello e spesso, non sempre per fortuna, lo usa per farsi giustizia sommaria. Le statistiche e la cronaca dimostrano che l'oggetto più usato per ammazzare non è affatto il revolver bensì una lama affilata facile da procurarsi, senza permessi e senza superare test, è sufficiente rovistare in un cassetto della cucina. Coloro che si danno da fare per bloccare lo smercio di fucili e colt, persuasi che la responsabilità degli omicidi siano i proiettili, dovrebbero semmai battersi contro la diffusione delle posate, ciascuna delle quali può diventare letale come in effetti avviene. Tra l'altro, proprio in questi giorni, abbiamo letto la notizia di una povera donna mandata all'altro mondo da un paio di disgraziati che l'hanno freddata con un ferro da stiro che le ha fracassato il cranio. Cosa facciamo, vietiamo la vendita dello strumento familiare alle stiratrici? Se uno ti vuole stecchire può usare, come spesso accade, anche un randello più o meno nodoso. Che ciascuno si procura agevolmente staccando un ramo da una pianta. Gli assassini sono pieni di fantasia e non li fermi abbassandola saracinesca delle armerie. La colpa delle tragedie non è mai dell'oggetto contundente ma di chi lo maneggia.

Monica Serra per "La Stampa" il 18 ottobre 2021. Nonna Ornella si trascina fuori dalla casa dai muri gialli a Portese, piccola frazione di villette, vigne e ulivi, attaccata a San Felice del Benaco, sulle colline della sponda bresciana del Garda. È già in lacrime quando arriva al cancello di ferro: «Mio figlio non c'è, non so spiegare come sia potuto succedere. Una tragedia enorme», si porta le mani al viso. Con gli occhi assenti, volge lo sguardo verso l'appartamento accanto al suo, quello del figlio Roberto, chiuso e sigillato dai carabinieri. Meno di ventiquattr' ore fa, lì dentro, nella camera da letto, ha perso la vita la nipotina di soli 15 anni uccisa da un colpo al petto partito da uno dei fucili che papà Roberto B., 57 anni, stava mostrando all'altro figlio, di 13 anni. «Lasciateci in pace - implora la signora - siamo tutti disperati. È una tragedia». Con i contorni che gli investigatori devono chiarire. È stato il padre, inizialmente arrestato dai carabinieri, e interrogato per tutta la notte dalla procura di Brescia diretta da Francesco Prete, a raccontare dell'incidente. Medico legale di professione e cacciatore per hobby, «accanito e un po' fanatico» sussurra qualcuno in paese, agli investigatori ha detto che sabato pomeriggio era in camera da letto col figlio. Gli stava mostrando le sue armi, dieci in tutto, otto fucili e due pistole, alcune ereditate e regolarmente detenute: «Ero convinto fossero tutte disarmate», avrebbe giurato. Nell'ultimo fucile però era rimasta una cartuccia. Il ragazzino ce l'aveva in mano, lo provava - avrebbe spiegato papà Roberto - quando la sorellina è entrata nella stanza. Sarebbe così partito il colpo, secco, che l'ha raggiunta al petto. Al termine del lungo e sofferto interrogatorio, l'uomo è stato rilasciato dal pm. È indagato a piede libero per omicidio colposo, e gli investigatori in queste ore cercano conferme alla sua versione. Anche perché restano diversi punti oscuri da chiarire. A partire dal fatto che in quella casa (già colpita otto anni fa dalla tragedia della morte del nonno che con una pistola si è tolto la vita) le armi - da quel che emerge - erano sparse e non ben custodite, nonostante la presenza di due adolescenti. C'è poi qualcuno dei vicini, e anche in paese, che racconta di una lunga lite andata avanti per ore tra i due ragazzini prima dello sparo. Solo voci a cui la procura non ha trovato alcun riscontro. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio quando i vicini hanno sentito uno sparo di quelli che in questo periodo sono abituati a riconoscere, in queste zone di caccia dove quasi tutti hanno un'arma in casa. Ma il colpo era vicino. Troppo vicino. Dopo solo le urla strazianti di papà Roberto. «Eravamo in giardino e ci siamo precipitati qui fuori», racconta una giovane coppia a passeggio col cane. «Poco dopo è uscito il ragazzino. Piccolo, minuto, coi vestiti tutti sporchi di sangue. Piangeva e aspettava l'ambulanza accasciato per terra, qui all'angolo, per fargli strada. Neanche ai suoi amichetti è riuscito a dire cosa fosse successo». I primi ad arrivare, anche in elicottero, sono stati i soccorsi del 118 che in ogni modo hanno provato, così come il papà medico, a salvare la vita della quindicenne. Ma invano: la ragazzina era già morta. «La famiglia la conosco, vivono qui da quindici anni, Roberto per dieci anni ha fatto l'assessore al Welfare col vecchio sindaco, anche se sono molto riservati - spiega un altro vicino -. Ci incontravamo la sera al parco coi cani, loro hanno un levriero, ci salutavamo, niente di più». Sabato sera, nel trambusto, è arrivato pure il parroco, don Graziano, che ieri ha dedicato la sua omelia alla tragedia. «La nostra comunità è distrutta - dice il primo cittadino di San Felice, Simone Zuin -, conosco bene la famiglia, i nostri figli sono cresciuti assieme. Sono brave persone, tranquille. Ci stringiamo silenziosamente attorno a loro in questo momento di enorme sofferenza».

"Faccio parlare la polvere da sparo: così inchiodo i killer". Sofia Dinolfo il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. Il perito balistico Raffaella Sorropago spiega a IlGiornale.it come dalla polvere da sparo si possa risalire all'autore di un omicidio. L’analisi dei residui da sparo unitamente alla ricostruzione della scena del crimine sono tra le attività compiute dal perito balistico, che consentono di individuare i dettagli di un delitto. Il lavoro svolto da questo professionista permette di attribuire le responsabilità all’autore delle azioni di fuoco, incidendo sull’evoluzione dell’eventuale procedimento penale. Ottima conoscenza delle armi, della loro funzionalità e di tutti gli elementi a essi collegati sono alla base di questa attività insieme a una preparazione che riguarda i principi fisici relativi alle traiettorie e ai rimbalzi. E ancora una conoscenza relativa ai principi chimici attinenti ai residui di sparo e alle ferite da armi da fuoco accompagnate da un certo fiuto investigativo fanno del perito balistico una figura indispensabile per le indagini di casi che, diversamente, rimarrebbero irrisolti. “Su ogni scena del crimine - dice a IlGiornale.it il perito balistico Raffaela Sorropago – ci sono diversi reperti balistici che ci permettono di risolvere tante incognite”. Sorropago ci ha fatto entrare nel suo mondo spiegandoci i dettagli della sua attività. È stata lei lo scorso anno a eseguire la perizia balistica per l'omicidio compiuto nella villa di Bazzano permettendo di risalire all’autore del reato.

Quali sono i reperti balistici che è possibile individuare sulla scena del crimine?

“Ogni scena del crimine è unica perché in ognuna è possibile individuare reperti balistici diversi. Questi ultimi sono rappresentati da ciò che rimane dopo lo sparo, come ad esempio il bossolo, il proiettile e quant’altro prodotto durante la combustione della cartuccia. Anche ciò che non si vede a occhio nudo come i residui dello sparo (Gsr). Sugli elementi repertati vengono effettuati gli accertamenti. Ma l’analisi della scena del crimine in caso di utilizzo di un’arma da fuoco è composta anche dallo studio di tutte le informazioni che ricostruiscono l’azione criminosa e quindi innanzitutto la tipologia di arma e munizionamento utilizzato, le traiettorie seguite dal proiettili, i punti di impatto, la posizione dell’aggressore e della vittima, lo studio delle ferite e cosi via”.

Andiamo per gradi. Quali sono gli elementi che lei raccoglie per ordine di importanza sul luogo del delitto?

“Non esiste un ordine di importanza preciso, ma ci sono delle regole generali da seguire per non inficiare la ricerca, la repertazione e l’analisi degli specifici reperti di quella particolare scena del crimine. La condizione ideale sarebbe di arrivare sulla scena nell’immediatezza dei fatti per evitare che nel frattempo siano avvenuti inquinamenti accidentali (causati ad esempio dai curiosi) o necessari (come l’intervento del personale sanitario). Ci sono poi delle accortezze che devono essere messe in pratica per non inficiare gli accertamenti tecnici da eseguire. Se ad esempio occorre estrarre dal cadavere un proiettile per poter fare delle comparazioni balistiche e individuare l’arma che ha sparato, il prelievo dal corpo andrà fatto delle pinzette di plastica per evitare che lo sfregamento del metallo contro metallo possa rovinare le strie. Inoltre è bene essere dei buoni conoscitori delle scienze forensi per non ostacolare con il nostro intervento il lavoro dei colleghi. Se dobbiamo ad esempio effettuare degli accertamenti balistici su un bossolo, prima di toccarlo dobbiamo accertare che il dattiloscopista abbia già rilevato le impronte digitali”.

Può capitare di dover fare a meno di uno di questi elementi?

“A volte sì, altre no. In generale ogni caso è a sé. Posso essere chiamata a ricostruire completamente una scena del crimine e la relativa crimino-dinamica, come pure a occuparmi di un elemento specifico, come nel caso dell’analisi dei residui di sparo o per le comparazioni balistiche. A volte vengo nominata per lo studio di un’azione criminale, a volte per un incidente di caccia”.

Per ricostruire la scena del crimine e per effettuare la perizia balistica si avvale di diversi scatti fotografici. Oggi però, a differenza degli anni passati, appare sempre più importante anche l’uso del drone. Perché?

“Gli scatti fotografici sono indispensabili perché ci permettono di analizzare tutto ciò che va dal generale al particolare e di avere una visione molto da vicino di quello che andremo ad analizzare. Vengono generalmente effettuati con le squadrette metriche che ci permettono di verificare misure e proporzioni. Il drone è uno strumento coadiuvante nell’analisi della scena del crimine perché consente di registrare un’immagine dall’alto e anche in movimento. Grazie a quanto registrato da questo strumento, gli addetti ai lavori ossia giudici, pm e avvocati, all’interno del processo, possono accedere 'virtualmente' alla scena del crimine. Il drone consente di dare un’immagine precisa ampia, corretta, rispettando distanze e proporzioni di quello che è oggetto di valutazione”.

Nel caso in cui dopo l’omicidio il corpo della vittima venisse spostato di qualche metro o addirittura portato altrove si può comunque riscontrare un nesso di causa tra l’esplosione del colpo e l’evento mortale?

“Nel caso in cui il proiettile sia rimasto all’interno del corpo è possibile, studiando il tramite della ferita, recuperare il proiettile e accertare che la morte sia avvenuta a causa di un’azione di fuoco. Anche nel caso in cui il proiettile abbia penetrato il corpo ma sia fuoriuscito è possibile, però in sede autoptica, studiare la ferita e verificare tutta una serie di elementi (il tatuaggio, l’affumicatura, ecc.) caratteristici di un colpo d’arma da fuoco, che possano comunque accertare la situazione”.

Per quanto tempo è possibile rilevare i residui di sparo sul luogo del delitto o sull’autore dello sparo?

“Questo quesito è oggetto di studio da circa 100 anni. Si ritiene che i residui di sparo possano rimanere per tanto tempo nei luoghi o sugli indumenti. Questo perché si tratta di microparticelle di metalli pesanti che non vengono né assorbiti dalla pelle né dall’ambiente ma devono essere rimossi appositamente. Nel primo caso ad esempio possono essere eliminate con il lavaggio delle mani. Di conseguenza nell’ambiente possono persistere giorni, mesi o anni tranne che non vengano effettuate attività di pulizia o intervengano fattori esterni, come ad esempio agenti atmosferici capaci di determinare la dispersione dei residui da sparo”.

Cos’è la Bpa?

“È l’analisi delle tracce ematiche attraverso quelli che sono i concetti di biologia, di fisica e di matematica, al fine di definire e ricostruire quella che è stata la crimino-dinamica di un’azione delittuosa. Si studia la forma, la grandezza la posizione delle macchie di sangue per determinare quali sono stati gli elementi fisici che hanno dato vita a queste tracce”.

Qual è il caso che l’ha colpita di più e perché?

“L’omicidio nella villa di Bazzano dello scorso anno. Sono stata nominata consulente tecnico dal pm ed è stato un caso molto complesso da seguire. È stato di grande soddisfazione apprendere la notizia che la condanna inflitta dal giudice ha seguito la linea dei risultati dei miei sopralluoghi e studi”.

Sofia Dinolfo.

Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza.

Fra. Gri. per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Alla fine, sembra tutto un banale problema burocratico. Il papà di Andrea Pignani, ex guardia giurata, muore nel novembre scorso. La mamma non sa o non capisce, comunque non si rivolge alle forze dell'ordine. La pistola sparisce. E ricompare nelle mani del figlio fuori di testa che fa una strage. E ora, il giorno dopo, tutti a interrogarsi: ma come è possibile? Anche Enrico Letta: «Chiediamo al governo di rivedere le norme sulle armi». E la ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Lavoriamo per capire come mai quell' arma era ancora lì dove non doveva essere». Promette, la ministra, che a breve sarà pronto un regolamento che dovrebbe evitare casi simili. È almeno dal 2010 che questo regolamento dovrebbe aver visto la luce. Decreto legislativo numero 204, articolo 2: «Sentito il Garante per la Privacy, sono definite le modalità dello scambio protetto di dati tra il Servizio sanitario nazionale e le forze dell'ordine nei procedimenti per qualunque licenza di porto d' armi». Siamo alle solite. In Italia le amministrazioni non dialogano tra di loro. Così le informazioni di tipo sanitario, anche quelle più rilevanti tipo i trattamenti psichiatrici, restano patrimonio delle Asl e non sono condivise con le forze di polizia. Né sono collegate le anagrafi e il ministero dell'Interno; perciò se muore una persona che detiene regolarmente armi, non scatta nessun allarme presso le forze di polizia. E secondo stime sono almeno 10 milioni le armi in giro e 2 milioni i titolari di qualche licenza: da caccia, da tiro sportivo, da difesa personale. «Occorre una profonda riflessione sul tema della circolazione delle informazioni rilevanti in materia di armi, concernenti sia il titolare della detenzione o della licenza, sia dei suoi conviventi», sottolinea Enzo Letizia, segretario dell'associazione dei funzionari di polizia. La realtà è che nessun agente o carabiniere sa di eventuali problemi psichiatrici quando è chiamato a intervenire. Nel caso della famiglia Pignani, il babbo aveva continuato a tenere in casa una pistola 7, 65. Regolarmente autorizzato. Alla sua morte, però, la moglie non si è posta il problema. «La pistola l'avevamo cercata, ma non l'abbiamo trovata», ha poi spiegato ai carabinieri. Ora rischia un procedimento penale. Per le guardie giurate era stato pensato un regime ancor più stringente. Racconta un sindacalista del settore, Vincenzo Del Vicario: «Non parliamo di fantascienza, ma di un sistema informatizzato che era stato realizzato dal ministero dell'Interno e pagato milioni di euro con fondi pubblici. Era anche entrato regolarmente in funzione ma poi, per motivi misteriosi, non è stato mai utilizzato. Si chiamava Space». Con fondi europei, il sistema Space prevedeva schede dettagliate sulla guardia giurata, l'arma in dotazione, i proiettili, le verifiche sanitarie. E ovviamente era previsto il caso del vigilante andato in pensione, per tracciarne l'arma. Tutto bellissimo, tutto rimasto sulla carta. «Basterebbe una app - dice ancora Enzo Letizia - e si potrebbero superare così le perplessità eventuali sulla privacy».

Luca Di Bartolomei per leggo.it il 15 giugno 2021. Sono stato l'ultima persona a vedere Agostino, mio padre, il calciatore amato da tutti, il 30 maggio del 1994 prima che si sparasse dritto al cuore con la sua pistola. E non passa giorno da quando anche io sono diventato padre che non sia atterrito dalla possibilità che una pistola in mano a una persona qualunque possa strapparmi ancora qualcuno a me caro: un figlio, un amico, un collega di lavoro. Le terribili notizie che domenica arrivavano da Ardea mi hanno afferrato come un amo, impedendomi di allontanarmi dalla tragedia che si consumava in diretta. Più leggevo, più i particolari si arricchivano e più io pensavo a Domenico, il padre dei piccoli David e Daniel che li ha visti morire tenendoli per mano. Ed è da quel momento che dentro di me una sensazione di vuoto e di nausea si fanno spazio. Viviamo in un Paese con 10 milioni di pistole dove anni di crisi sociale sono stati acuiti dalla pandemia. In un'Italia spaventata e insieme armata quante Ardea rischiamo se non facciamo qualcosa? Questa tragedia ci dice che qualcosa non ha funzionato: una situazione di forte confusione e disorganizzazione. Prendete questi elementi: una persona che aggredisce con un coltello la madre, conosciuto da tutti come instabile, con un'arma nel nucleo familiare. Elementi che dovrebbero far scattare qualche punto interrogativo se non un allarme delle forze dell'ordine. Poter incrociare i database sui detentori di armi - in mano alle questure e quindi al ministero dell'Interno - con quelli dei soggetti in cura per disturbi mentali, che sono in possesso delle Asl e del ministero della Salute aiuterebbe. Ma questo non avviene: queste informazioni non si parlano tra loro. Ed anche quando potrebbero capita che si arrivi tardi, troppo tardi. Come nel caso del femminicidio di Ventimiglia: dove pur a fronte due denunce per minacce non si è attivato il codice rosso. Non voglio muovere accuse, ma mentre si parla tanto di digitalizzazione che aspettiamo a superare questa assurda incomunicabilità? A qualcuno potrà sembrare un tema marginale. Eppure qualche numero dovrebbe farci riflettere: nella sola Roma ci sono 256 mila possessori di armi da fuoco, circa uno ogni 10 abitanti. Sono moltissimi e per di più i controlli sono insufficienti. Passano in media 5 anni tra una verifica sullo stato di salute del possessore e l'altra. Non amo le armi, ma non voglio farne una questione di principio, bensì una questione di sicurezza per tutti. Nei primi quattro mesi del 2021 vi sono stati 91 omicidi, in 38 casi (oltre il 40%) si tratta di donne uccise in ambito familiare-affettivo (se così vogliamo dire), quasi sempre con colpi di arma da fuoco. Quasi sempre da pistole legalmente detenute. Davanti a noi abbiamo passaggi sociali difficilissimi: cosa stiamo rischiando?

E’ spento da 11 anni il data base per tracciare le armi.

Stefano Vladovich per "il Giornale" il 15 giugno 2021. Spento dal 2009. Il sistema che avrebbe dovuto monitorare la presenza di armi passate in «eredità» a figli e parenti di poliziotti, guardie giurate, militari, cacciatori, collezionisti non funziona. In assenza di denuncia e consegna da parte dei familiari delle armi detenute in casa nessuno interviene. Ecco perché Andrea Pignani, il 35enne ingegnere informatico che domenica con la pistola del padre defunto, una Beretta modello 81 calibro 7,65, ha ucciso ad Ardea due bambini e un 74enne per poi togliersi la vita, andava in giro armato. «Io ai domiciliari, quel pazzo per strada con una pistola in mano» urla di rabbia il papà di David e Daniel, 5 e 11 anni ancora da compiere, Domenico Fusinato, quando portano via i corpi crivellati. A puntare il dito su un sottobosco di armi, su un arsenale «sotterraneo» lasciato in balìa di pazzi e criminali, è ancora Vincenzo Del Vicario, segretario nazionale del Savip, il Sindacato autonomo di vigilanza privata, che spiega come nasce il progetto Space, promosso dal ministero dell'Interno, finanziato dalla Comunità Europea e inspiegabilmente accantonato. «Nasce nel 2000 inizialmente destinato solo al Mezzogiorno - dice Del Vicario - Un portale in grado di gestire licenze, autorizzazioni, visualizzando in tempo reale il quadro di tutta la movimentazione di armi ed esplosivi. Si sarebbe dovuto interfacciare con l'Inps e le autorità sanitarie, in maniera tale che se il possessore di un'arma muore, immediatamente le autorità di polizia intervengono». Nonostante tre milioni di euro spesi per il progetto, Space è morto e sepolto. «Attualmente la tracciabilità è garantita attraverso il Ced - dice il ministro dell'Interno Lucia Lamorgese -, ma è in via di conclusione un regolamento che disciplina il sistema informatico di questi dati. È stato un testo condiviso già con le altre forze di polizia, è stato anche portato alla condivisione con le associazioni del relativo comparto. C' è stato un po' di tempo, è verissimo, speriamo che nel giro di pochissimo questo regolamento che doveva essere adottato da fine 2018 veda la luce». E così l'ex guardia giurata Stefano Pignani, passato nel 1986 alle Poste Italiane con la qualifica di portalettere, resta in possesso, regolarmente, della sua Beretta d' ordinanza. Ma quando, alla fine dell'anno passato, l'uomo muore, nessuno si pone il problema di quella pistola semiautomatica rimasta in casa di un soggetto, il figlio, che era stato già ricoverato per problemi psichiatrici. È l'11 maggio 2020 quando in viale di Colle Romito 238 arriva una pattuglia dei carabinieri. Il giovane ce l'ha con i genitori, in particolare con la madre. Spacca tutto quello che trova Andrea, che su fb si fa chiamare mister hyde. La sorella chiama il 112. Lo fermano i sanitari arrivati con i carabinieri. Lo bloccano, lo sedano e lo portano al Noc, il Nuovo Ospedale dei Castelli ad Ariccia. La diagnosi: «Stato di agitazione psicomotoria», codice azzurro. Il paziente viene sottoposto a consulenza psichiatrica. «Veniva dimesso la mattina dopo - chiariscono i carabinieri del comando provinciale di Roma con una nota - con diagnosi di stato di agitazione - paziente urgente differibile che necessita di trattamento non immediato. Si affida al padre». Il giovane torna a casa ma non si sottopone a nessuna cura. Lo lascia la fidanzata, una ragazza straniera, a novembre muore il padre. Qualcosa, a questo punto, scatta nella sua psiche già compromessa. «Siamo venuti ad abitare a Colle Romito due anni fa da Roma, dalla Cecchignola» racconta Frida Rossetti, la madre. L' ennesimo cambiamento che, evidentemente, turba ancora di più l'assassino.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 19 settembre 2021. Sono di ogni estrazione sociale, sono giovani e anziane, liberal e conservatrici, e hanno tutte in comune le stesse paure. Hanno paura delle sommosse sociali, delle aggressioni sessuali, dei disordini politici, addirittura di possibili tumulti in seguito a cataclismi climatici. Per 3 milioni e mezzo di americane la risposta a queste paure è stata di comprare un'arma. Un nuovo sondaggio, il National Firearm Survey, creato dalla Harvard University e dalla Northeastern University, rivela un'inversione di tendenza che non ha precedenti nella storia americana. Finora le donne hanno rappresentato tra il 10 e il 20% dei possessori d'armi. Adesso ci avviciniamo quasi al 50%. Tra il gennaio del 2019 e l'aprile del 2021 gli acquisti femminili di pistole sono state di poco inferiori a quelle degli uomini. Sempre secondo il sondaggio, il più grande mai tenuto, che ha interpellato ben 19.000 persone, il 55% delle donne neo-armate è di razza bianca il 20% è afroamericano e il 19% ispanico. Molte delle novelle Calamity Jane hanno anche seguito corsi per imparare a usare la loro nuova pistola. Varie associazioni sono nate proprio per venire incontro a questo nuovo tipo di clientela. A Baltimora l'ex poliziotta Rebecca Sewell ha fondato l'associazione Girlz With Guns, (ragazze con la pistola) e insegna le leggi del porto d'armi nello stato del Maryland, ma insegna anche a pulire e mantenere l'arma funzionante e anche a sparare. A San Diego l'associazione NotMe (IoNo) è nata come reazione alle rivelazioni di #MeToo e dal 2019 ha già laureato ben 400 nuove portatrici di pistole. La fondatrice Wendy Hauffen, esperta di armi, ha deciso che doveva insegnare alle donne a difendersi dagli assalti sessuali e dalla violenza domestica: «Le mie clienti saranno pronte a difendersi» sostiene. Le americane che decidono di armarsi sono di ogni estrazione politica anzi possiamo dire che si tratti di un movimento bipartisan. Ad esempio Elaine Pierce di San Diego, in California, una signora di 74 anni, ha deciso di acquistare una pistola dopo aver visto alcune manifestazioni di Black Lives Matter degenerare in atti di violenza in un sobborgo vicino al suo: «Mi spaventa il fatto che si voglia diminuire il finanziamento alla polizia, perché finora la polizia ci ha protetto, ma se non ci sarà la polizia voglio essere in grado di proteggermi da me» ha spiegato. A Los Angeles, invece, la sociologa Nielan Barnes di 53 anni ha scelto di armarsi e di seguire un corso di addestramento con la sua nuova Glock fiammante dopo aver visto sfilare davanti casa sua i sostenitori di Donald Trump, con i cartelli che inneggiavano ai nazisti: «Non rientriamo esattamente nei parametri del femminismo tradizionale sostiene - ma in un certo senso lo siamo, non vogliamo essere vittime e vogliamo gestire il nostro destino». Attraverso i decenni l'industria delle armi ha cercato più volte di conquistare il mercato femminile, con scarso successo. Per anni si era pensato che la soluzione fosse di ridurre le dimensioni delle pistole e renderle oggetti graziosi, magari in colori pastello. Oggi invece l'industria viene incontro al mercato femminile disegnando pistole tradizionali che siano semplicemente più maneggevoli da mani più piccole. Per non disamorare il mercato femminile, inoltre, l'industria delle armi ha anche smesso di fare pubblicità ricorrendo a immagini sessiste, ad esempio donne in bikini o bellezze procaci che abbracciano sensualmente uomini armati.

È vero che negli Usa le armi uccidono più degli incidenti e delle guerre? Agi il 06 agosto 2019. I numeri delle vittime di armi da fuoco negli Stati Uniti, e la situazione in Italia. Due sparatorie negli Stati Uniti, durante il weekend del 3-4 agosto, hanno causato diverse vittime. A El Paso, in Texas, un estremista di destra è entrato in un centro commerciale e ha sparato con un kalashnikov prendendo di mira gli immigrati ispanici: i morti sono ad ora 20. Poche ore dopo a Dayton, in Ohio, un altro attentatore - anche in questo caso un giovane bianco, di cui non si conoscono al momento le motivazioni - ha fatto una carneficina in un locale, uccidendo 7 persone. Come riporta Gun Violence Archive, gruppo di ricerca no profit che tiene traccia delle “sparatorie di massa”, intese come sparatorie con 10 o più vittime tra morti e feriti, con questi due attacchi sale a 251 il totale nel solo 2019. Questi fatti di cronaca hanno riacceso il dibattito sulle armi negli Stati Uniti. Nel Paese il loro possesso è un diritto costituzionale (sancito dal secondo emendamento), ma c’è discussione sui limiti che questo diritto possa e debba incontrare. Vediamo quali sono i numeri delle vittime di armi da fuoco negli Stati Uniti. 

Quanti morti fanno le armi negli Usa?

Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, che fa parte del Dipartimento della Salute statunitense, nel 2017 i morti per armi da fuoco sono stati 39.773, con un trend in crescita negli ultimi vent’anni.

Di questi, più della metà sono stati suicidi (23.854), mentre gli omicidi sono stati 14.542, le morti accidentali 486 e i morti in guerra o per intervento armato legittimo 553.

Soffermiamoci sugli omicidi: nel 2017 sono stati in totale 19.510 nel Paese, dunque quelli commessi con armi da fuoco (14.542) rappresentano la grande maggioranza, i tre quarti del totale. 

Un confronto con l’Italia

Giusto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, negli Stati Uniti risiedono circa 330 milioni di persone, in Italia circa 60 milioni: cinque volte e mezzo di più. In compenso, gli omicidi nel 2017 sono stati circa cinquantacinque volte di più (19.510 negli Usa e 357 in Italia). Detto in altre parole, gli omicidi negli Usa - normalizzando il dato della popolazione - sono dieci volte più frequenti che in Italia, dove il possesso di armi da fuoco è regolato dalla legge in senso restrittivo. A questo proposito, è utile guardare anche al tasso di omicidi ogni 100 mila persone. Secondo quanto riporta l’Unodc, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, nel 2016 (i dati sono qui scaricabili) il tasso per gli Usa è stato di 5,4, mentre per l’Italia di 0,7. Un rapporto di quasi 8 a 1. Se poi guardiamo in particolare agli omicidi commessi con armi da fuoco, qui i dati relativi all’Italia dell’Unodc si fermano al 2014, quando ci furono 475 omicidi, di cui 175 con armi da fuoco. Negli Usa invece ci furono 14.164 omicidi di cui 8.342 con armi da fuoco. I tassi ogni 100 mila abitanti sono quindi rispettivamente dello 0,3 e del 2,6. Dunque anche in un anno, il 2014, in cui gli omicidi erano di più in Italia che nei tempi più recenti, e meno negli Usa rispetto agli ultimi anni (oltretutto con un’incidenza delle armi da fuoco inferiore), il tasso americano è stato quasi 9 volte superiore a quello italiano. 

Due confronti: gli incidenti d’auto e le guerre

Facciamo un altro confronto, quello con le vittime di incidenti stradali. In Italia negli ultimi anni sono state circa 3.500 ogni dodici mesi (3.378 nel 2017) e, come abbiamo verificato di recente, rappresentano la prima causa di morte tra i giovani. Rispetto ai morti per omicidio, sono in rapporto quasi di 1 a 10 (357 a 3.378). Negli Stati Uniti la situazione è molto diversa. I morti per incidenti stradale in tempi recenti sono stati - secondo quanto riporta il National Safety Council - circa 40 mila all’anno (40.231 nel 2017). Più o meno lo stesso numero dei morti per armi da fuoco, includendo anche i suicidi. Rispetto ai morti per omicidio, sono in rapporto di 1 a 2 (19.510 a 40.231). Il numero dei morti per armi da fuoco è ancora più impressionante se poi consideriamo che nel corso dei conflitti combattuti dagli Usa dal 2001 in poi - in Iraq e Afghanistan, ma non solo - sono morti in azione meno di 5.500 soldati (in particolare 3.490 in Iraq e 1.847 in Afghanistan). In un periodo equivalente (1999-2017) sono morte per armi da fuoco 612.310 persone (se togliamo i suicidi, 251.877): un numero di due ordini di grandezza superiore. Il numero dei caduti in guerra è meno della metà degli americani che si sono uccisi per sbaglio con armi da fuoco (11.914) nel medesimo periodo di tempo. 

Conclusione

Negli Stati Uniti è altrettanto probabile morire in un incidente d’auto che morire uccisi da un proiettile. Nel 2017 le vittime di queste due categorie di eventi sono state in entrambi i casi circa 40 mila.

Le armi da fuoco libere fanno poi nettamente più morti (americani) che le guerre condotte da Washington negli ultimi 18 anni. Basti pensare che i soli morti “accidentali” per armi da fuoco tra il 1999 e il 2017 sono più del doppio dei soldati uccisi in missione dal 2001 al 2019 (le vittime di armi da fuoco, nel complesso, sono più di 100 volte tanto).

Rispetto all’Italia, i morti per omicidio negli Usa sono 55 volte tanto. In un Paese come gli Stati Uniti che ha una popolazione 5,5 volte maggiore a quella italiana, significa comunque un rapporto di 1 a 10.

Il rapporto tra le vittime stradali e le vittime di omicidio negli Usa è poi di 2 a 1. In Italia è di quasi 10 a 1. Insomma, negli Usa è nettamente più facile essere uccisi che in Italia, e nei tre quarti dei casi l’omicidio negli Stati Uniti avviene con un’arma da fuoco.

Il porto d’armi in Italia: libertà e sicurezza alla luce delle più recenti innovazioni giurisprudenziali.  Rivista Cammino Diritto (Periodico online) ISSN2532-9871- Codice CINECA E243140 Rivista Scientifica ANVUR. Iscrizione Tribunale di Salerno n°12/2015 Direttore Scientifico Avv. Alessio Giaquinto. Autore Roberto Saglimbeni. Pubblicata giovedì 14 maggio 2015.

Analisi delle principali indicazioni legislative in materia di detenzione e trasporto d’armi per uso sportivo, venatorio, di difesa o di collezione in un´ottica di bilanciamento tra interesse privato e incolumità pubblica, come evidenziato dalla sentenza n° 635/2015 del Tar della Toscana che ha negato la licenza sulla base di un "fatto storico" indicativo di pericolosità del soggetto, anche se non sfociato in una condanna definitiva. Indice:

1) Inquadramento generale e cenni storici

2) Il sistema odierno: nulla osta e porto d'armi Uso sportivo Difesa personale Uso venatorio Collezionismo

3) Limiti quantitativi e accertamento medico dell'idoneità

4) La sentenza n° 635/2015 del Tar della Toscana

 

1) Inquadramento generale e cenni storici.

La tematica del porto d'armi oscilla storicamente tra aspirazioni di libertà dei singoli, connesse principalmente ad esigenze di difesa personale, e garanzie di sicurezza generale che costituiscono la preoccupazione preponderante dell'ordinamento. Se in tempi antichi l'uso di armi per autotutela era generalmente riconosciuto (per usare le parole del giurista latino Paolo non manifesta un animus occidendi chi porta un'arma tutandaesaluti), con l'età moderna e il diffondersi delle armi da fuoco lo Stato di Diritto inizia a prendere coscienza della necessità di regolamentare l'utilizzo privato di strumenti atti ad offendere l'incolumità altrui: e così nella Francia di Luigi XV era vietato il porto d'armi a chiunque non fosse nobile o dipendente reale, mentre nel Regno di Sardegna il suddito trovato in possesso di archibugi o fucili rischiava una pena detentiva fino a due anni.

Il legislatore italiano di epoca liberale fa proprio questo retroterra culturale sposando la teoria secondo cui la convivenza nella società moderna non richiede, in linea di principio , il libero possesso di armi per tutelare la propria incolumità, essendo lo Stato (e, nello specifico, gli organi di polizia) un guardiano sufficientemente vigile: la legge di pubblica sicurezza del Regno d'Italia (1865) sottopone dunque l'acquisto di armi al possesso di una licenza, come d'altronde fa lo stesso codice Zanardelli (1889) laddove dispone che "chiunque, senza licenza dell'Autorità competente, e fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta armi per le quali occorra la licenza è punito con l'arresto sino ad un mese o con l'ammenda sino a lire duecento." In continuità con tale disciplina il Codice Rocco (1930) accentua il regime autorizzatorio e, all'art. 585, pone una distinzione tra armi proprie ed armi improprie, disponendo che:

1. Si definiscono armi proprie " quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l'offesa alla persona";

2. Si definiscono armi improprie " tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è dalla legge vietato il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo." (ovvero forbici, coltelli da lavoro, utensili etc.)

Il quadro normativo, in verità ampio e disorganico, è completato nelle sue linee essenziali dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, promulgato con regio decreto n° 773/1931 e tutt'ora in vigore (seppur con molte modifiche), e dalla L. 110/1975, dettante "Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi". In particolare il TULPS dispone norme particolarmente rigorose in materia di commercio d'armi (art. 34), permessi (art. 35) e poteri prefettizi (artt. 39-40), mentre la L. 110/75 pone la disciplina di dettaglio del regime autorizzatorio cui è sottoposto il possesso legittimo di armi nel nostro paese.

2) Il sistema odierno: nulla osta e porto d'armi.

L'ordinamento vigente in materia di armi segue due direttrici ben delineate: la sicurezza della collettività, garantita da una serie di controlli su armi, richiedenti autorizzazioni, commercianti e operatori del settore, e la libera scelta del cittadino che, rispettando i requisiti di legge, può legittimamente possedere un'arma per uno degli scopi predeterminati dallo Stato. Tali scopi sono:

1. Uso sportivo

2. Difesa personale

3. Uso venatorio

4. Collezionismo

Ciascun ambito è astrattamente riconducibile al modello del "porto d'armi" ma, in realtà, presenta specificità tecnico-pratiche che costringono ad un'analisi sostanzialmente separata. A monte, però, è comunque rilevante la distinzione tra porto d'armi e semplice nulla osta: quest'ultimo, infatti, è una mera autorizzazione all'acquisto e alla detenzione di armi e, come tale, non consente di portarle fuori dalla propria abitazione. Il nulla osta è rilasciato dal Questore su istanza dell'interessato, laddove questi presenti la documentazione richiesta, che consiste nel certificato di idoneità al maneggio di armi (rilasciato da una Sezione di Tiro a Segno Nazionale o comprovato dal servizio militare o di polizia entro i 10 anni precedenti), in un attestato di idoneità psico-fisica rilasciato dall'ASL e in una dichiarazione sostitutiva nella quale il richiedente attesti di essere nelle condizioni previste dalla legge e, dunque, nel non essere obiettore di coscienza e nel non aver commesso un reato che costituisce condizione ostativa al rilascio del nulla osta. La disciplina del porto d'armi, invece, è decisamente più articolata e, come tale, merita un'analisi dettagliata.

Uso sportivo. Il porto d'armi per uso sportivo costituisce un'autorizzazione necessaria per esercitare quelle discipline sportive che richiedono l'utilizzo di armi da fuoco (principalmente il tiro a volo, il tiro a segno e gli sport collegati). L'organo competente al rilascio è il Questore e l'autorizzazione ha una validità di 6 anni rinnovabili. In prima istanza il soggetto richiedente deve presentare la dichiarazione di idoneità psico-fisica rilasciata dall'ASL e il certificato di idoneità (nelle forme già esaminate), che costituiscono la documentazione di base, e in più deve risultare iscritto presso una federazione di tiro affiliata al Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI). L'utilizzo dell'arma è limitato sia nello spazio che nelle modalità: il soggetto può infatti avvalersene solo per le finalità sportive certificate dall'autorità di pubblica sicurezza, nella fase di trasporto dall'abitazione al poligono di tiro deve mantenere l'arma scarica all'interno della custodia e per di più è tenuto (*) ad avere sempre con sé la c.d. "carta verde" vidimata che autorizza il trasporto stesso.

Difesa personale. Il porto d'armi per difesa personale, che costituisce la base logica di qualunque ragionamento in materia, è soggetto ad una disciplina molto stringente che tende a concedere al privato la possibilità di detenere un'arma solo dopo una valutazione discrezionale dei motivi della richiesta, restringendo la concessione ai casi di stretta e comprovata necessità. Tale valutazione è operata dal Prefetto e costituisce documento integrante della procedura di rilascio del porto d'armi, unitamente ai documenti generali richiesti per le altre procedure. La particolarità del porto d'armi per difesa personale e le legittime preoccupazioni in ordine a un utilizzo eccessivamente liberale dello stesso ne giustificano la contingentazione temporale (la validità è infatti limitata a un anno) e procedurale (per il rinnovo è necessario seguire lo stesso iter per il rilascio, esclusa l'idoneità al maneggio già comprovata in sede di prima concessione): il soggetto che intende ottenere il rinnovo dovrà dunque dimostrare all'autorità prefettizia la continuità dei gravi motivi che giustificano il porto d'armi o la sopravvenienza di altri altrettanto gravi.

Uso venatorio. La principale specificità del porto d'armi ad uso venatorio è la necessità del richiedente di essere in possesso di un'abilitazione all'attività venatoria ai fini della richiesta dell'autorizzazione all'autorità di pubblica sicurezza (ovvero il Questore). Tale abilitazione è rilasciata in seguito al superamento di un esame pubblico nel quale l'organo giudicante è un'apposita commissione regionale: il candidato deve dimostrare di conoscere le norme di settore sia sull'utilizzo delle armi che sul rispetto dell'ambiente e degli animali, dando in questo modo prova di voler esercitare l'attività venatoria in modo cosciente e responsabile. L'abilitazione alla caccia non sostituisce in alcun modo né la dichiarazione di maneggio di armi (rilasciata dalla Federazione del Tiro a Segno o sostituita da dichiarazione di servizio militare entro i 10 anni dalla richiesta) né il certificato di idoneità rilasciato dall'ASL. Il porto d'armi ad uso venatorio ha una durata di 6 anni ed il rinnovo prevede lo stesso iter previsto per l'uso sportivo.

Collezionismo. Una forma particolare di concessione è la licenza per concessione. Dal punto di vista strettamente tecnico tale licenza non costituisce un vero e proprio "porto" d'armi in quanto al suo titolare non è concesso di portare con sé le armi al di fuori dall'abitazione o dal luogo designato per la collezione. Nondimeno, in virtù del regime per il rilascio, è utile classificarla con i regimi di porto d'armi: è infatti necessaria la certificazione dell'ASL, così come l'autodichiarazione di idoneità, mentre non è richiesta la capacità di maneggio, considerato anche il divieto di tenere munizioni. La licenza per collezione ha normalmente ad oggetto armi artistiche, antiche (anteriori al 1890) o rare ma può essere rilasciata anche per armi ad uso comune e non è soggetta a scadenze temporali.

3) Limiti quantitativi e accertamento medico dell'idoneità

L'art. 10 della L. 110/1975 detta delle tassative limitazioni alla quantità di armi che un privato può legittimamente possedere. Il soggetto può infatti avere nella sua disponibilità un numero di armi comuni da sparo non superiore a 3 e un numero di armi sportive non superiore a 6, mentre il numero di armi da caccia è illimitato. L'indicazione quantitativa può tuttavia essere derogata col rilascio di una licenza di collezione che permette di possedere un numero superiore di armi ma sempre entro i limiti oggettivi di un esemplare per ogni modello. L'esame medico per accertare l'idoneità psico-fisica è svolto dall'ASL secondo i criteri fissati dal Ministero della Sanità nel D.M. 28 Aprile 1998. Il decreto distingue i requisiti necessari per attività sportive e di hobby da quelli per la difesa personale, e in particolare:

1. Per le attività sportive e venatorie una capacità visiva non inferiore a 8/10 anche mediante l'ausilio di supporti ottici dall'occhio che vede meglio, una corretta percezione sensoriale, l'assenza di disfunzioni neurologiche e fisiche (anche mediante l'utilizzo di protesi). Le capacità uditive devono essere contenute entro un certo range, il cui superamento permette l'esercizio della caccia solo in appostamento.

2. Per la difesa personale aumentano sia i requisiti visivi (è necessaria la binocularità e i 10/10, con limitazioni stringenti nell'uso di lenti) sia quelli uditivi. Sul piano psicofisico l'autorizzazione non può essere rilasciata a soggetti che abbiano sofferto di crisi epilettiche nei due anni precedenti la richiesta.

Per entrambi gli ambiti il rilascio dell'autorizzazione è comunque subordinato all'assenza di disturbi di personalità, comportamentali e psichici, nonché di dipendenze da alcol, droghe e psicofarmaci. Il controllo è effettuato da un medico monocratico e contro il suo giudizio è sempre ammesso il ricorso a un collegio medico istituito presso l'ASL provinciale.

4) La sentenza n° 635/2015 del Tar della Toscana

L'analisi della disciplina ha permesso di evidenziare come ogni fase del procedimento di concessione delle autorizzazioni in materia di armi ai privati sia ispirato ai principi di tutela e sicurezza pubblica. Al di là di poteri speciali in materia affidati dal TULPS al Prefetto (art. 45 "Qualora si verifichino in qualche provincia o Comune condizioni anormali di pubblica sicurezza, il Prefetto può revocare, in tutto o in parte, con manifesto pubblico, le licenze di portare armi.") è più in generale l'intero impianto procedimentale a farsi carico delle esigenze di garanzia generali che l'utilizzo di armi da parte di un privato finisce irrimediabilmente per generare. Alla luce di quanto detto è dunque più comprensibile la sentenza del Tar della Toscana che in data 20 Aprile 2015 ha respinto il ricorso di un soggetto che si era visto revocare il porto d'armi per uso venatorio in conseguenza di un episodio di molestie sessuali a carico di una minore di anni 15 che non era sfociato in una condanna penale per mancanza di querela di parte. Nello specifico, argomenta il Tar, "la giurisprudenza ha più volte rilevato come in materia di rilascio del porto d'armi, l’Amministrazione abbia un’ampia discrezionalità nel valutare l'affidabilità del soggetto di fare buon uso delle armi, onde il provvedimento di rilascio del porto d'armi e l'autorizzazione a goderne in prosieguo richiedono che l'istante sia una persona esente da mende e al disopra di ogni sospetto e/o indizio negativo ". Il giudice amministrativo segnala dunque come il potere dell'amministrazione sia sostanzialmente discrezionale in quanto l'interesse privato al porto d'armi resta sempre e comunque subordinato a quello pubblico, del quale è tutore e garante l'autorità stessa.

Il giudizio della Questura di Siena sull'idoneità del soggetto assume dunque carattere prognostico e può essere contestato solo sotto il pro- filo della ragionevolezza e della coerenza, mentre non è sindacabile l'aspetto puramente discrezionale che può comportare " valutazioni della capacità di abuso fondate su considerazioni probabilistiche e su circostanze di fatto assistite da meri elementi di fumus, in quanto nella materia de qua l'espansione della sfera di libertà dell'individuo è, appunto, destinata a recedere di fronte al bene della sicurezza collettiva " (Consiglio di Stato, sezione IV, n° 4604/2006,come richiamata dal Tar della Toscana).

Anche in questa pronuncia è dunque evidente il carattere manifestamente autorizzatorio della procedura, che mantiene aspetti discrezionali non sopprimibili e che non di rado possono portare a sacrificare le aspirazioni dei privati in nome del benessere collettivo. La delicatezza e l'importanza della tematica rendono poi giustificato il timore dell'autorità di pubblica sicurezza nel concedere troppo facilmente il porto d'armi e legittimano il rifiuto dello stesso sulla fase di mere presupposizioni o indizi non qualificanti in altri ambiti dell'ordinamento, laddove, al contrario, sul piano privato è sempre e comunque richiesta la correttezza formale e sostanziale della documentazione prodotta senza che siano lasciati ambiti di valutazione discrezionale al richiedente.

(*) In virtù di una circolare ministeriale del1998 (GU Serie Generale n.48 del 27-2-1998) la carta verde non è più il solo strumento che autorizzi al trasporto di armi per uso sportivo ex art. 3 della legge 25 marzo 1986, n. 85, costituendo la licenza di trasporto già titolo per trasferire l'arma da un luogo ad un altro. La carta verde altrettanto consente di "trasportare dal luogo di detenzione alla sezione (o sezioni) del tiro a segno nazionale cui sono iscritti tutte le armi comuni da sparo utilizzabili nella o nelle sezioni di appartenenza".

Perché gli americani non rinunciano alle armi. Andrea Nobili Tartaglia su Agi il 04 agosto 2019. L'ennesima strage negli Usa rilancia la questione della libertà di circolazione delle armi. Ma possederne una è un diritto che risale alla guerra di Indipendenza. Lo spiega all'AGI il docente di Diritto Costituzionale Franco Ferrari. In America portare un'arma addosso non è solo legale, è anche e soprattutto un diritto garantito dal secondo emendamento del Bill of Rights del 1791 e protetto dalla Corte Suprema con le sue sentenze. Lo spiega all'Agi il professor Giuseppe Franco Ferrari, docente di Diritto Costituzionale all'Università Bocconi di Milano, già docente di Diritto pubblico comparato. "Risale alla guerra d'Indipendenza contro gli inglesi. Nel secondo emendamento usarono una formula "doppia", che ha dato vita a un dibattito tuttora non concluso. Il Bill of Rights parla del diritto di organizzare una milizia e del diritto di portare armi. Il dibattito verte sul fatto se il diritto di portare armi era correlato alla milizia, il corpo militare volontario dei "minutemen" cioè pronti in un minuto, e quindi alla guardia paramilitare o se invece era un diritto diverso. La Corte Suprema, nel 2008 dopo attenta analisi storica, a maggioranza di 5 contro 4 ha deciso che era un diritto autonomo. Quindi addirittura un diritto fondamentale, un requisito della cittadinanza americana protetto dal Bill of Rights anche sopra l'eventuale legislazione dei singoli stati membri. La Corte ha detto che non solo è diritto fondamentale ma che è separato dall'organizzazione della milizia". Quando nacque il diritto ad andare in giro armati "c'era una guerra d'indipendenza da combattere. Guerra seguita alla necessità di difendersi sia dagli animali nelle zone rurali che dagli indigeni. Sia nell'immediato dopo-Indipendenza che nella corsa all'Ovest", ricorda Ferrari. Al più gli Stati possono organizzare il sistema di vendite e di controlli ma non possono vietare le armi.

"Ci sono alcuni Stati, 12 su 50, che hanno una regolamentazione più stretta. In genere c'è più rigore per le pistole, che possono essere nascoste addosso, che per le armi a canna lunga. In alcuni Stati, la pistola deve essere bene in vista, non nascosta sotto una giacca ad esempio". Le limitazioni sono poche con controlli "limitati agli acquisti fatti in negozi o supermercati. Non sono necessari controlli per la vendita di armi fra privati". Quella americana "è una situazione unica al mondo. In Europa non esiste niente del genere. Di qua dall'Atlantico le armi sono sempre state affidate a militari o forze dell'ordine e possedere un'arma è un'eccezione". Situazione unica e destinata a restare immutata a lungo: "non c'è probabilità che le cose cambino. In America ci sono solo tre leggi sulle armi: quella di Roosvelt nel 1934, quella di Johnson del 1968 e una parte di quella di Clinton nel 1993 che è stata parzialmente dichiarata incostituzionale. A legiferare sono stati tre presidenti democratici ma, con l'attuale composizione della Corte Suprema, è difficile che qualcosa possa cambiare anche in caso di sconfitta del presidente Donald Trump alle politiche del 2020".

La relazione tra omicidi volontari e porto d'armi non è per niente scontata. Gabriele Fazio su Agi il 19 dicembre 2018. Un'indagine della Sapienza su Sicurezza e legalità fornisce un dato statistico forse nuovo. Rispetto al totale degli omicidi volontari commessi con un'arma da fuoco, soltanto il 5% risulta a carico di detentori autorizzati. Il nostro sistema di controllo dei requisiti psicofisici (il più restrittivo d’Europa) funziona. È questa la notizia che emerge da una ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, realizzata da un team coordinato dal professor Paolo De Nardis e intitolata “Sicurezza e legalità: le armi nelle case degli italiani”. È la prima volta che viene svolto nel nostro paese uno studio approfondito, scientifico, sugli omicidi commessi con armi legalmente detenute. Ma attenzione, l’analisi, che copre un periodo che va dal 2007 al 2017, prende in considerazione solo gli omicidi volontari compiuti sul territorio italiano praticati con armi da fuoco legittimamente detenute da legittimi detentori autorizzati. Quindi dai risultati restano fuori gli omicidi commessi per difesa legittima riconosciuta dall’autorità giudiziaria. Inclusi invece gli omicidi per eccesso, anche colposo, di difesa. Fuori dai conti anche gli omicidi commessi da dipendenti pubblici che, per la natura delle attività svolte, hanno la facoltà di portare un’arma per motivi di servizio (Polizia, Forze Armate, etc.). Ma soprattutto, c’è da sottolineare si legge sulla ricerca, che “non esistono dati ufficiali in merito al numero di armi legalmente detenute in Italia. Ciò dipende dal fatto che la gran parte delle armi esistenti e legalmente detenute sono state denunciate dai proprietari, anche in tempi molto remoti, presso l’ufficio locale di pubblica sicurezza competente per territorio che le ha iscritte sui registri cartacei. Con l’avvento dell’informatizzazione, solo una piccola parte delle armi registrate in pregresso sui registri cartacei sono state caricate nella banca dati del sistema informativo delle Forze di polizia”.

I risultati della ricerca

La ricerca parte da un breve accenno storico che ci ricorda come le armi, in realtà, solo relativamente da poco tempo sono sparite dalla quotidianità italiana, da quando tv e videogames hanno sdoganato una sorta di violenza che ha portato anche i detentori legali a riflettere, per sicurezza, sul toglierle di mezzo; e da allora sono rimaste etichettate più come oggetto legato al pericolo e alla morte che, per esempio, alla caccia.

Come detto, i risultati sono tutto sommato sono incoraggianti: rispetto al totale degli omicidi volontari commessi con arma da fuoco, solo il 5% risulta a carico di detentori autorizzati. E il dato riguardo gli omicidi sarebbe ancora più basso se si escludessero quelli per alleviare le sofferenze altrui, quindi veri e propri atti di eutanasia. Chi si macchia di omicidio con la propria arma da fuoco detenuta legalmente i dati ci dicono sia un uomo (nel 98,93% dei casi) e spesso supera la sessantina, nel 28,77% delle volte pensionato.

Prevedibilità degli omicidi

La ricerca rivela un altro dato sul quale sarebbe bene prestare un’attenzione maggiore: nel 45,62% dei casi questo genere di omicidi era prevedibile. Scrivono i ricercatori della Sapienza: “Nel 5,6% dei casi, per esempio, l’agente era stato fatto oggetto di denunce per reati contro la persona o diffide di pubblica sicurezza: ciò nonostante nessuna azione interdittiva è intervenuta. Nel 22% circa dei casi l’agente ha tenuto dei comportamenti pregressi in qualche modo indicatori di una propensione all’abuso delle armi (maltrattamenti non denunciati, atti di intimidazione o di violenza fisica o verbale, etc.) mentre in oltre il 15% dei casi mostrava dei problemi psicologici di rilievo (depressione, paranoia, etc.), e in oltre il 9% dei casi problemi fisici rilevanti. Da non sottovalutare le difficoltà economiche, presenti in oltre il 15% dei casi, che sono state talvolta l’elemento scatenante di eventi particolarmente sanguinosi”. Per questo la ricerca suggerisce un monitoraggio più attento, perlomeno per quanto riguarda certi soggetti a rischio, un “alert” che approfondisca i controlli. Intervento che potrebbe valere anche per quanto riguarda le cause di separazione, considerato che il 68% di questi omicidi è di matrice familiare; si suggerisce insomma un’analisi più accurata in quei momenti della vita dove si è più instabili e non fa bene avere un’arma accanto, una certa anzianità compresa. Riguardo le vittime, anche solo per riportare alla fredda realtà dei numeri i ciclici tormentoni di cronaca, il 63% delle volte sono donne si, ma solo nel 5% dei casi si può parlare dei cosiddetti “femminicidi”, quindi “omicidi di donne espressione di violenza di genere”; e si registra solo l’1% di omicidi legati ad atti di razzismo. I riflettori si accendono spesso più forti del dovuto quando si parla di legittima difesa, se si pensa che solo nel 2,45% dei casi parliamo di omicidio per eccesso di difesa (anche colposo). È evidente che il sistema, per quanto buono, è certamente migliorabile.

Più armi vuol dire più crimine? Brian Sciretti il26 Marzo 2019 su istitutoliberale.it. Da quando in Italia si discute di modificare in senso leggermente meno restrittivo le norme sulla legittima difesa qualcuno strilla al far west, alle armi facili e dunque all’aumento delle morti, spesso citando statistiche americane, che includono i suicidi.

Ma è davvero così?

LE ARMI IN AMERICA

Negli Stati Uniti d’America il diritto a portare e possedere armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione che stabilisce come sia necessario, per uno Stato, una milizia ben regolamentata.

I Padri Fondatori, ben memori dell’esperienza di guerra necessaria per liberarsi dal colonialismo inglese e dei pericoli presenti nel Continente, preferirono una nazione dove -potenzialmente – ogni cittadino avrebbe potuto avere un’arma, rispetto ad uno Stato dove solo l’Esercito è armato.

Si tratta di una finezza non avuta dai costituenti europei, nonostante vari Stati europei siano nati da esperienze di resistenza armata: In un certo senso i Padri Fondatori hanno avuto l’intuizione che il Popolo avesse la necessità di rescindere, anche tramite forze in armi, dall’adesione al governo; quelli italiani si sono detti “siamo una democrazia e lo saremo per sempre”.

I vari Stati dell’Unione, comunque, possono porre limiti al porto in pubblico e sottoporlo a licenze, che attendono a concessioni somministrate alla richiesta, se si posseggono determinate caratteristiche di legge o discrezionalmente.

Nessuno nega che in USA ci sia un problema di violenza. Tutti gli americani con cui ho parlato, dai sandersiani convinti ai trumpisti, passando per i libertarian: concordano sul fatto che le armi da fuoco siano semplicemente un mezzo di espressione, se non le avessero userebbero altre armi, ma al contempo sono anche un mezzo di difesa, infatti alcune importanti stragi sono avvenute in luoghi “gun-free”.

LE ARMI IN EUROPA: SVIZZERA E CECHIA

In linea di massima l’Europa ha leggi abbastanza restrittive in materia di armi. Questi due Stati, tuttavia fanno eccezione e hanno normative abbastanza liberali.

La Svizzera, di per se, ha una normativa non troppo speciale: Per comprare un’arma viene richiesto un permesso che si ottiene con relativa semplicità, se si hanno i requisiti, mentre per il porto in pubblico serve un ulteriore permesso, concesso con parsimonia.

Tuttavia in Svizzera esiste il servizio di leva, i cittadini portano a casa il fucile d’assalto e una volta terminata la leva possono acquistarlo.

Ciò porta a un ciclo virtuoso: Se avere un’arma in strada è relativamente raro, è però possibile difendersi nel proprio domicilio e, in caso, difendersi da un invasore armato o da una deriva dittatoriale del governo federale. 

Sticker pro-armi ceco che recita “Vorresti davvero non aver nessun portatore di armi legale nelle vicinanze?”

In Cechia, invece, c’è un modello più individualista e la permissiva normativa – “diamo a Cesare quel che è di Cesare”, che è stata approvata persino dal socialdemocratico Zeman – permette il possesso e il porto a chi ha i requisiti di legge.

Inoltre, una volta ottenuto il permesso, è abbastanza semplice comprare pistole e fucili ad azionamento singolo, mentre è richiesto un ulteriore permesso per le armi semiautomatiche.

Questa volontà di mantenere le armi libere è stata una delle varie ragioni di contrasto tra il governo e il popolo ceco, inclusi i partiti più europeisti come TOP 09, e l’Europa unita: I Cechi credono che sia meglio avere una nazione armata, anche per combattere il terrorismo.

E, quando sentiamo in TV “le squadre anti-terrorismo posso intervenire in mezz’ora” dovremmo anche chiederci: quante persone disarmate può uccidere un terrorista in quel periodo di tempo?

E L’ITALIA?

In Italia è relativamente facile ottenere il permesso per tenere un’arma in casa, se si rispettano i requisiti di legge. La stessa cosa vale per le licenze di tiro sportivo e per la caccia.

Non vale per la difesa personale: Infatti è abbastanza difficile ottenere un permesso per difesa personale, che comunque vale solo un anno, e viene rilasciato tipicamente a gente che maneggia denaro o gioielli, o a medici notturni.

Ironico il fatto, comunque, che armi non letali come il Taser o le pistole a proiettili di gomma non possano essere portate, mentre le pistole classiche sì: In Italia, in sostanza, non puoi difenderti in maniera non letale, nemmeno se vuoi farlo.

Nel nostro paese, comunque, questo approccio è dovuto anche ad un problema culturale: raro è infatti trovare un serio fronte in favore delle armi sicure e legali; si passa da chi ritiene necessario disarmare i cittadini, e per il quale è meglio un cittadino onesto morto e un ladro in vita, rispetto all’inverso – colpevolizzando la legittima difesa- e chi invece vuole le armi libere senza alcun criterio di regolamentazione.

Da liberali dovremmo porci contro chi ci vuole sudditi dello Stato, tutti disarmati e in balia del primo che si procura una Glock al mercato nero (perché le leggi non possono nulla contro chi già sta agendo illegalmente), ma anche contro chi pensa di risolvere le dispute a colpi di rivoltella.

Il possesso di un’arma dovrebbe essere un diritto che attiva di conseguenza una serie di doveri civici. Ed, esattamente come la possibilità di guidare un veicolo, dovrebbero essere contemplate cause che lo limitino o lo impediscono totalmente, da certificarsi tramite un corso ed una visita medica, senza per questo limitare immotivatamente la libertà personale.

L’Ipocrisia della sinistra: contro le armi difendersi con falce e martello.

Armi per tutti: la deriva americana di Lega e destra. Marco Brando il 19 luglio 2021 su strisciarossa.it. Il ministro dell’Interno Matteo “Benito” Salvini, dopo avere ordinato di fermare i migranti sul celeberrimo bagnasciuga, per tirare fuori gli istinti più bellicosi dei suoi adepti continua, è il caso di dirlo…, a spararle grosse: «Difendersi in casa propria senza se e senza ma è un diritto sacrosanto!». Il leader della nuova Lega, durante una conferenza stampa a Fermo, ha ribadito ciò che aveva promesso durante la campagna elettorale. Cosicché non solo frustra le speranze della sua amica Giorgia Meloni, capa dei Fratelli d’Italia, che tenta invano di dire qualcosa più di destra; Salvini si prepara anche a giocare una partita fondamentale dedicata al decreto legge sulla legittima difesa, nonostante le norme in vigore tutelino già le vittime e non i delinquenti. La discussione in Commissione Giustizia è iniziata il 18 luglio. Proprio in un sussulto di “legittima difesa” nei confronti delle invasioni di campo da parte di Salvini, il M5S sta cercando, almeno in questo caso, di non appiattirsi sulle posizioni fascistoidi del suo alleato: «In considerazione della delicatezza della materia trattata, della complessità e dell’impatto a livello sociale è necessaria un’analisi approfondita delle norme esistenti e dei testi presentati», ha chiarito il senatore grillino, nonché membro della commissione, Francesco Urraro. Un intervento in questo campo «in nessun modo potrà portare alla liberalizzazione delle armi in Italia», ha sbottato il ministro pentastellato della Giustizia, Alfonso Bonafede, rivendicando la sua competenza in materia: su detenzione e porto di armi «ci sono disposizioni normative rigorosissime su cui il governo non ammette l’esigenza di intervenire», poiché rappresentano «strumenti irrinunciabili per la lotta alla criminalità». È un tentativo per reagire a quella sindrome di Stoccolma (la dipendenza psicologica che lega la vittima al suo aggressore) che ha colpito la stragrande maggioranza dello stato maggiore grillino di fronte alle smargiassate leghiste? Vedremo. Cinque le proposte all’ordine del giorno: oltre a quella della Lega, una di iniziativa popolare, due di Forza Italia e una di Fratelli d’Italia. ln pole position c’è quella del leghista Massimiliano Romeo: interviene sull’articolo 52 del Codice penale, prevedendo «una presunzione di legittima difesa per gli atti diretti a respingere l’ingresso, mediante effrazione, di sconosciuti in un’abitazione privata ovvero presso un’attività commerciale professionale o imprenditoriale con violenza o minaccia di uso di armi». È così depennata la valutazione di proporzionalità tra difesa e offesa, prevista dalla legge ora in vigore. Il ddl Romeo introduce anche un inasprimento (unico aspetto condivisibile) delle pene per i reati di furto, scippo e rapina. I più assatanati sono nelle file di Fratelli d’Italia, anche se contano poco: il primo firmatario è l’ex ministro ed ex missino Ignazio La Russa. «Per noi la difesa in casa propria o nel luogo di lavoro è sempre legittima. Chi si difende non può essere processato così come chi aggredisce non può avere sconti di pena e men che meno può avanzare richieste di risarcimento», ha spiegato. Il testo riconosce la legittima difesa persino quando il fatto avvenga nelle immediate vicinanze dei luoghi “da proteggere”, nel caso si sospetti di avere a che fare con un criminale. La minoranza di centrosinistra e di sinistra è contraria a queste ipotesi. «Noi paghiamo le tasse e pretendiamo che lo Stato garantisca la nostra sicurezza. I cittadini hanno il diritto di essere difesi, non che lo Stato dica: arrangiati. È come se devi mandare tuo figlio a scuola e ti dicono di prenderti un insegnante a casa», ha scritto su Twitter il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti. E il segretario del Pd Maurizio Martina ha commentato su Facebook: «È una legge Far West. La chiamano “legittima difesa” ma si legge più armi per tutti. Non ci stiamo. Guardiamo agli Stati Uniti, il Paese dove circolano più armi e ci sono leggi sulla legittima difesa che piacciono alla destra. È questa la sicurezza?». Giova ricordare che un anno fa una riforma più favorevole alla legittima difesa, ma meno dura di quella leghista, era stata varata dal centrosinistra (tanto per seguire la destra in queste trincee) e approvata alla Camera, arenandosi poi al Senato, grazie anche a una retromarcia di Matteo Renzi. Questo è il quadro della situazione in Parlamento. E fra noi? Date per acquisite ovvie considerazioni sulla sacralità della vita umana, che sconsigliano l’incoraggiamento di sparatorie a casaccio, appare chiaro che la strategia di Salvini, già sperimentata con successo sul fronte dei migranti, ha lo scopo di trovare macabro consenso tra la gente, cercando di far passare il principio che la giustizia fai-da-te può diventare uno sport di massa. Non solo. La nuova legge metterebbe in discussione il “principio di risposta proporzionale” che sta alla base del nostro ordinamento. Ci farebbe imboccare un sentiero molto franoso, perché ancora una volta fa leva sulle pulsioni più superficiali e irrazionali degli italiani per fini che guardano a eventuali elezioni sempre dietro l’angolo, vista la fragilità del “sistema Italia”. Eppure gli italiani armati sono già tantissimi e crescono a ritmi incessanti, grazie a una legge che consente di detenere armi con facilità: bastano un’autocertificazione, qualche controllo medico, un breve corso al poligono. A qualunque incensurato, senza malattie nervose e psichiche, non tossicomane o alcolizzato, è generalmente consentito – con un nullaosta o con una licenza di tiro sportivo – di tenere a casa tre armi comuni da sparo, sei di tipo sportivo, otto armi antiche, un numero indefinito di fucili e carabine da caccia, 200 munizioni per armi comuni, 1.500 cartucce per fucili da caccia e 5 chili di polveri da caricamento. Per sfuggire ai limiti imposti dalla legge sul “porto d’armi per difesa personale”, negli ultimi anni sempre più persone puntano sulle licenze per “attività venatoria” e per “uso sportivo”. Queste ultime sono passate da 127.000 del 2002 a oltre 456.000 nel 2016. Alla base c’è un grande equivoco, cioè la convinzione che possedere un’arma ci protegga da eventuali aggressioni. Peccato che i criminali veri siano tutti molto più esperti nell’uso delle armi rispetto a un qualsiasi cittadino, per quanto affetto dalla sindrome di Rambo. Sarebbe il caso di non arrivare alla situazione statunitense. Dopo ogni strage americana da parte dei killer della porta accanto, l’attuale presidente Donald Trump (ammirato da Salvini, ovvio…) dice che le armi non c’entrano, è tutta colpa di qualche tipo “disturbato”. Senza dimenticare che i “disturbati” statunitensi (nel senso psichiatrico del termine) sono, secondo la Nationals Alliance on Mental Illness, il 18,5% dei cittadini, cioè 43 milioni di persone. Tutte con la possibilità di acquistare armi come noi acquistiamo lo smartphone oppure di prendere in prestito quelle accumulate dal genitore o nonno o fratello o amico. Il Congressional Research Service afferma che negli Usa circolano 357 milioni di armi da fuoco con una popolazione di 318,9 milioni di persone. Risultato: sono quasi quotidiane le mass shootings, cioè le sparatorie compiute “colpendo nel mucchio” senza avere come obiettivo una persona precisa; nel 2017, per esempio, ci sono stati 117 morti e i 587 feriti. Però negli Stati Uniti c’è una lobby delle armi che sostiene, e spesso fa eleggere, i candidati alla Presidenza graditi: è il caso di Trump. E ora, dalle nostre parti, furoreggia il Salvini di turno. La situazione è così tragicomica che potremmo anche aspettarci la promessa di un “reddito di legittima difesa”, per agevolare l’acquisto di fucili e pistole o di una mazza ferrata, per i nostalgici del vecchio Alberto da Giussano di bossiana memoria. L’industria delle armi forse si sta già attrezzando. Ovviamente, dirà presto un sagace ministro dell’Economia, sarà una “volano per l’economia”. Che fortuna…Marco Brando

Il ministro della Difesa attacca la normativa vigente. "Abbiamo disarmato solo i cittadini onesti". "Porto d'armi all'americana". Martino vuole leggi più facili. Proteste dal centrosinistra: "Errore gravissimo". Daniele Mastrogiacomo il 23 aprile 2002 su La Repubblica. Libertà di armarsi, come negli Usa. Con uno slancio "liberista", il ministro della Difesa Antonio Martino si dichiara favorevole all'applicazione, anche nel nostro paese, del secondo emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce a tutti i cittadini il diritto di portare armi. Dichiarazione destinata a sollevare più di una polemica proprio nel momento in cui al ministero dell'Interno si incomincia a riflettere su un'ipotesi di riordino della legge sul porto d'armi. Invitato ai microfoni di Radio Radicale, il ministro ha risposto ad un cittadino che gli chiedeva se fosse d'accordo a introdurre anche in Italia una normativa che si richiamasse al secondo emendamento della Costituzione Usa. "Sfidando un po' il senso comune dei benpensanti - ha dichiarato Martino - sono perfettamente d'accordo. La legislazione restrittiva in materia di possesso di armi ha disarmato quanti obbediscono alle leggi, non i delinquenti. Quando sono state introdotte queste restrizioni non ho visto alle Questure le file dei mafiosi che consegnavano la lupara o i terroristi che consegnavano il kalashnikov. Ho visto ufficiali in pensione che consegnavano la pistola d'ordinanza". Quindi, ha concluso: "Noi abbiamo disarmato quelli che obbediscono alle leggi e abbiamo finito per lasciare armati quelli che alle leggi non obbediscono. Quindi, anche se non è politically correct, sono d'accordo con lei". Armi a tutti, dunque? La dichiarazione, vista la carica dell'autore, suscita una pioggia di reazioni. Giuseppe Molinari, capogruppo della Margherita in Commissione Difesa, definisce le parole del ministro della Difesa "sconcertanti". "Il qualunquismo", aggiunge il deputato, "con cui un responsabile di governo affronta una questione così delicata dovrebbe allarmare tutti. Proprio negli Usa, presi ad esempio da Martino, vi è un ampio movimento di opinione che chiede una restrizione di queste norme anche in considerazione dei tragici episodi che ripetutamente scuotono quel paese". Paolo Cento, dei Verdi, coglie il risultato elettorale francese per invitare il ministro ad imparare da Chirac e non inseguire "l'estrema destra nel cavalcare le insicurezze dell'opinione pubblica evocando addirittura la libera detenzione delle armi per i cittadini privati". L'esponente dei Verdi ricorda che proprio alla Camera è in calendario il dibattito sulla legge 185 che regola il commercio delle armi. La nuova normativa prevede l'abolizione di una serie di restrizioni che renderebbero l'export molto più libero. "Non so - aggiunge Paolo Cento - se dietro quelle parole ci sia solo un calcolo politico o la pressione degli industriali delle armi. Solo parole, comunque, gravi e pericolosissime". Il sociologo Domenico De Masi è convinto che si tratti di "un grosso errore". Giudizi negativi anche da parte degli obiettori di coscienza e degli stessi sindacati di polizia: "Martino farebbe bene a documentarsi meglio dei guasti enormi prodotti dalla libera circolazione delle armi negli Usa".

Stati Uniti, ora anche l'estrema sinistra si arma: l'ombra della guerra civile? Thomas Seymat e Antonio Storto il 28/08/2020 su it.euronews.com. La recente sparatoria di Kenosha, Wisconsin, dove due persone sono morte, non ha fatto che confermarlo: gli Stati Uniti si stanno riempiendo di milizie ed individui armati. Un fenomeno che - con le manifestazioni, le contro-manifestazioni e i disordini cresciuti attorno al movimento Black Lives Matter - ha iniziato a estendersi a macchia d'olio. Secondo i media locali, il principale sospettato per le sparatorie mortali, un ragazzo di appena 17 anni, è stato visto in presenza di uomini armati, circostanza che è stata in seguito confermata dalle forze dell'ordine. "Si tratta di una milizia" ha detto lo sceriffo della contea di Kenosha "come un gruppo di vigilanti". Questi gruppi - politicamente schierati a destra e i cui raduni sono in molti casi caratterizzati dal risuonare di slogan razzisti e dallo sventolio di bandiere confederate - fanno dell'ostentazione delle armi (che in molti stati degli Usa possono essere legalmente portate in pubblico) un punto fermo nella propria linea di condotta. Una tattica che la sinistra statunitense, in massima parte favorevole al controllo e alle restrizioni sulle armi da fuoco, si era finora astenuta dall'adottare. Ma nel tumulto del 2020, anche le mentalità sembrano cambiare rapidamente. "Negli ultimi 3 o 4 mesi, il dibattito sulle armi da fuoco in questo Paese, soprattutto a sinistra, è cambiato enormemente", ha dichiarato Robert Evans a Euronews. Giornalista di guerra, con trascorsi in Iraq e in Ucraina, Evans è attualmente tornato nella sua Portland, in Oregon, dove si sta occupando delle quotidiane manifestazioni contro la violenza poliziesca a danno degli afroamericani. Solo pochi giorni fa, durante un reportage, un contro-manifestante di estrema destra gli ha rotto un dito con un manganello. Il giornalista, che non fa segreto delle sue simpatie libertarie, è anche un esperto di armi da fuoco: ne possiede diverse e - dopo aver ricevuto minacce di morte - ammette di uscire regolarmente armato da casa, anche durante i suoi reportage. Nei suoi podcast, inoltre, ha apertamente incoraggiato i manifestanti di sinistra ad armarsi. "Non credo sia un bene per una democrazia - continua Evans - vivere in un Paese con 400 milioni di armi da fuoco registrate per uso civile, quasi tutte nelle mani di una singola parte dello spettro politico. È la premessa per un disastro". Il timore di Evans è che gli Stati Uniti siano sull'orlo di una nuova guerra civile: un tema che, già l'anno scorso, aveva sviscerato in uno dei suoi podcast. Dall'inizio del 2020 e della pandemia, secondo il giornalista, un gran numero di persone, "soprattutto persone di sinistra", lo avrebbero contattato "per chiedermi consigli su quali armi comprare, come allenarsi, e via dicendo". Le divisioni ideologiche riguardo alle armi da fuoco negli Stati Uniti sono state finora molto nette e profonde. Uno studio del 2017 pubblicato dal Pew Research Center mostra che i repubblicani e gli indipendenti con simpatie repubblicana hanno il doppio delle probabilità, rispetto ai democratici e agli indipendenti con simpatie democratiche, di possedere almeno una pistola (44 per cento contro il 20 per cento). Altri studi mostrano con chiarezza la stessa tendenza: secondo il Brookings Institute, un think tank con sede a Washington DC, negli stati che hanno votato per i repubblicani alle elezioni presidenziali del 2016 il 39 per cento dei residenti possiede armi da fuoco, contro il 25 per cento degli stati che hanno votato democratico. La maggior parte delle centinaia di milioni di armi da fuoco in circolazione negli Stati Uniti sono concentrate nelle mani di pochi americani. Stando a un'indagine condotta nel 2015 da Harvard e dalla Northeastern University, il 50% di queste armi apparterrebbe al 3% appena degli adulti americani: un gruppo di "super proprietari", che hanno accumulato una media di 17 armi ciascuno. "La possibilità di usare un'arma per autodifesa - continua Evans - a sinistra è più accettata oggi che in qualsiasi altro momento che io possa ricordare". Un cambiamento storico, che secondo il giornalista è legato a condizioni eccezionali: crisi sanitarie ed economiche, manifestazioni e repressione poliziesca, la rinascita dell'estrema destra militante e armata. "Non è un bene che la popolazione abbia tanta paura - continua Evans - ma credo ci sia stato un cambiamento radicale nell'atteggiamento della sinistra verso il possesso d'armi da fuoco, proprio a causa dell'insicurezza che tutti in questo momento percepiscono". Simbolo di questa paura, l'acquisto di munizioni che tra febbraio e aprile è cresciuto del 600% negli Stati Uniti. Questa tendenza della sinistra a voler esercitare un diritto "costituzionalmente garantito dal Primo Emendamento", sebbene accelerata dalle turbolenze del 2020, sembra trovare origine nell'inizio del primo mandato di Donald Trump. Un reportage fotografico dell'Associated Press, pubblicato nell'ottobre 2017, mostra una sessione di tiro al bersaglio per il Trigger Warning Queer & Trans Gun Club di Victor, New York. Il club di tiro al bersaglio è composto da gay, lesbiche e trans, i quali "preoccupati che gli estremisti di destra diventino più audaci e pericolosi - ha spiegato il fotografo Adrian Kraus - hanno deciso di impugnare le armi".

Secondo Kraus, il club si riunisce una volta al mese in un campo a nord di New York. McSpadden non aveva mai toccato un'arma da fuoco prima che il club fosse fondato l'anno precedente, nel 2016. "In generale, dal 2016, gruppi schierati a sinistra come il John Brown Gun Club, lo Huey P. Newton Gun Club e la Socialist Rifle Association sono andati via via moltiplicandosi", ha detto Evans a Euronews. Dopo la morte di George Floyd, avvenuta il 25 maggio del 2020, questi gruppi di estrema sinistra - che oltre ad armarsi incoraggiano altri a fare altrettanto - si sono trovati sempre più al centro della scena. "Le azioni della polizia e dello Stato contro la comunità nera forniscono una giustificazione più che sufficiente perché questa comunità si faccia carico della propria difesa", ha detto il comitato centrale della Socialist Rifle Association (SRA) in una dichiarazione dopo la morte di Floyd. Tra le iniziative adottate da questa organizzazione di ispirazione marxista ci sono "le marce pacifiche, il mutuo aiuto e il possesso di armi da fuoco". "Queste pratiche - afferma il gruppo - se usate con saggezza, sono strumenti per difendere una comunità dall'oppressione". Ma, dice l'SRA, "dobbiamo fare attenzione a distinguere tra l'uso delle armi da fuoco in difesa di una comunità e l'uso indisciplinato o reazionario per altri motivi". Lanciata tra il 2017 e il 2018, la SRA ha, secondo il suo sito web, "quasi seimila membri e più di sessanta sezioni ratificate" in tutti gli Stati Uniti. Inoltre, se una delle attività del gruppo consiste nell'educazione alle armi da fuoco, " le manifestazioni armate sotto lo stendardo dell'SRA sono comunque vietate, perché non è questo il nostro scopo". Ma anche altri gruppuscoli della sinistra radicale americana iniziano a mostrarsi armati alle manifestazioni. Anarchici e antifascisti del John Brown Gun Club - gruppo che prende il nome da un abolizionista bianco dai metodi violenti, presente soprattutto nell'area di Seattle - chiedono "una resistenza attiva contro gli effetti sociali corrosivi e distruttivi del suprematismo bianco, del sessismo, dell'intolleranza e dello sfruttamento economico". Nel luglio 2019, Willem van Spronsen, un ex membro di questo gruppo, è stato ucciso dalla polizia nella città di Tacoma, Washington, mentre lanciava ordigni incendiari contro i veicoli nel parcheggio di un centro privato di detenzione per immigrati. Secondo una lettera di rivendicazione trovata postuma, van Spronsen aveva intenzione di protestare contro la politica di arresto e di deportazione dell'Immigration Customs and Enforcement (ICE), l'agenzia governativa che negli Usa si occupa di immigrazione. "Incoraggio vivamente i compagni e i nuovi compagni ad armarsi" si legge nella dichiarazione. "Ora siamo responsabili della difesa degli individui contro uno stato predatorio". Questi gruppi cominciano ad attirare l'attenzione dei ricercatori. A proposito del Redneck Revolt, un altro gruppo di sinistra radicale, favorevole alle armi, la dottoressa Teal Rothschild, sociologa dell'Università Roger Williams, ha scritto nel 2019: "L'ideologia di Redneck Revolt è semplice: i bianchi poveri e i poveri di colore devono combattere insieme contro il loro comune nemico, il ricco. Il loro compito è attaccare la supremazia bianca, che credono sia radicata nel capitalismo". Il gruppo, fondato nel 2009 e rimodellato nel 2016 come "formazione per la difesa della comunità, antirazzista e antifascista", sottolinea l'origine proletaria dei suoi membri e il diritto di portare armi che "è legato al dovere di rovesciare lo Stato, se necessario", spiega il sociologo. Di conseguenza, negli Stati in cui è legale possedere e portare armi da fuoco in pubblico, i membri del Redneck Revolt organizzano manifestazioni e azioni durante le quali si mostrano armati. Secondo Rothschild, i servizi che i membri di questo gruppo forniscono vanno dall'addestramento all'uso delle armi da fuoco al primo soccorso, dalle forniture di generi di prima necessità (come vestiti e abbigliamento) fino all'educazione alla giustizia razziale e alle questioni di genere. "Questi sforzi sono concepiti per mettere in contatto popolazioni diverse con nuove pratiche". Questo lavoro sulla giustizia razziale e di genere "è rivolto particolarmente ai bianchi nelle zone rurali - osserva la sociologa - mentre la formazione sulle armi da fuoco è indirizzata a persone che sono più generalmente escluse da questa cultura: donne e persone di colore". Redneck Revolt sponsorizza addirittura giornate ai poligoni di tiro per donne e transessuali. La Dr. Rothschild ha detto a Euronews che di recente "molti abitanti di queste zone hanno partecipato agli eventi di Black Lives Matters. Penso che il loro obiettivo sia quello di sfidare lo Stato attraverso il razzismo che considererebbero sanzionato dallo Stato - e perpetrato dalla polizia". Ma non solo la sinistra radicale e i membri della comunità LGBTQ si sono interessati alle armi negli ultimi anni. Anche tra gli afroamericani le armi da fuoco riprendono terreno, sebbene esistano ancora delle evidenti divisioni su base etnica. Secondo il già citato studio del Pew Research Center, mentre nel 2017 circa la metà degli uomini bianchi (48%) affermava di avere una pistola, solo un quarto degli uomini non bianchi (24% ciascuno) ne possedeva una, così come il 16% delle donne non bianche. Negli Stati Uniti, il rapporto degli attivisti neri con le armi da fuoco è tumultuoso e non priva di ironia. A partire dal 1966, il Black Panther Party pattugliava le strade di Oakland pistole alla mano, per monitorare la polizia e prevenirne le violenze. Un anno dopo, il 2 maggio 1967, i membri del BPP entrarono con le armi nel Campidoglio della California, a Sacramento, dove siedono l'Assemblea dello Stato, il Senato e il Governatore, per protestare contro un disegno di legge che mirava a limitare il trasporto di armi in pubblico. "È giunto il momento che i neri si armino" disse un portavoce, mentre il gruppo marciava attraverso l'edificio. La manifestazione spaventò a tal punto i politici, tra i quali c'era l'allora governatore della California Ronald Reagan, che contribuì a far passare il Mulford Act, una legge che in California vieta il porto di armi da fuoco cariche nei luoghi pubblici. Perfino la National Rifle Association (NRA), che si è sempre ferocemente opposta a ogni limitazione controllo sulle armi in America, combatté a fianco del governo californiano per l'approvazione della legge, nel tentativo di tenere le armi fuori dalla portata degli afroamericani, mentre crescevano le tensioni razziali. Lo Huey P. Newton Gun Club è un gruppo afroamericano favorevole alle armi con sede in Texasm che prende il nome da uno dei fondatori del Black Panther Party. "Nel 2020 siamo cresciuti molto come organizzazione" ha detto a Euronews il fondatore, Yafeuh Balogun "perché i poveri in generale sentono di aver bisogno di protezione". Secondo il loro sito web, il gruppo organizza corsi di tiro e conferenze. Su un piano più istituzionale, la National African American Gun Association è "una rete per tutti i proprietari di armi afroamericani, le loro organizzazioni, i club di tiro e gli appassionati di outdoor". Nel luglio 2019, Philip Smith, presidente e fondatore del gruppo, ha dichiarato a NPR Radio che i membri erano cresciuti dopo l'insediamento del presidente Trump. Secondo Smith, parte di questo aumento è dovuto a un clima politico nel quale le persone con idee razziste si sentono incoraggiate a parlare e ad agire di conseguenza. Una simile idea è stata espressa anche dal fondatore del NAAGA in una dichiarazione dopo la morte di George Floyd: "Ahmaud Arbery] Breonna Taylor e ora George Floyd si sono aggiunti alla lista apparentemente infinita di persone che ci sono state strappate prematuramente da un sistema razzista e dal complesso di inferiorità bianca istituzionalizzato che richiede il nostro sangue e le nostre ossa per soddisfare la sua fame perpetua. Questo è il paese in cui viviamo".

LA SINISTRA E LE ARMI. Pubblicato da Giancarla Codrignani il 21 Maggio 2021 su vorreicapire.it. Un’antica ambiguità. La rivoluzione è sempre stata violenta e armata. Nel dopoguerra non ci sono state correzioni teoriche e anche nell’affiancare il problema della nonviolenza e dell’obiezione di coscienza alla leva.e alla produzione delle armi è rimasto sospesa la scelta di verità. Quando alcuni obiettori organizzarono un incontro (in un centro dentro le mura vaticane) sostenendo che anche i partigiani erano degli obiettori (giustamente perché non era moralmente legittimato, ma nel Norditalia governava.la repubblica di Salò) Maurizio Ferrara, inviato stoltamente a rappresentare il Pci, se non disse che erano dei vigliacchi contro gli eroi insorti in armi ci mancò poco. E quando avanzava in Parlamento la legge per il controllo sulla produzione bellica, ai lavoratori di Brescia fui mandata io, che non rappresentavo il Pci se non indirettamente e dissi quello che non poteva dire qualunque dirigente comunista, che cioè il problema investiva la coscienza dei lavoratori italiani tutti senza colpevolizzare i metalmeccanici del settore. Da quando la sinistra “governare” (?), il ministro della Difesa è sempre stato più o meno di sinistra (Roberta Pinotti, Elisabetta Trenta (M5S9 e Lorenzo Guerini). Anche se i bilanci sono stati contenuti comparativamente con la crescita degli altri paesi europei, il mercato delle armi ha continuato a prosperare con l’interesse dei nostri ministri, perfino personalmente per gli intrecci fra ministeri, servizi e imprese. Come Marco Minniti che ha lasciato il Parlamento per dirigere la Fondazione Med-Or di Leonardo ex-Finmeccanica o Nicola Latorre dalemiano che guida l’Agenzia Industrie della Difesa (oggi sotto osservazione della Corte dei Conti. La denuncia è della rivista cattolica Nigrizia e Gianni Ballarini denuncia l’incremento di un mld e 600 ml. del 2021 (24,54 mld.) rispetto al 2020, mentre le spese in conto capitale (che servono per gli investimenti per nuovi sistemi d’arma) sono passate dal 9,5 nel 2019 al 13,4 % nel 2020 e altre cifre stanno nel ministero dell’economia o Industria per qualche altro miliardo. Guerini ha partecipato alle riunioni Nato con larga disponibilità e sostiene la promozione del settore “per il rilancio economico, l’occupazione, le prossime generazioni. Il sottosegretario Giorgio Mulè ha approvato .a maggio 2021 “le linee guida di politica estera, di difesa e di cooperazione del governo britannico: mostrano la volontà di mantenere alto l’impegno inglese per la sicurezza in Europa”, ora occorre “ancorare a una visione strategica e di difesa degli interessi nazionali una politica industriale che sappia tenere testa, con competenza, know how, capacità e innovazione tecnologica all’aggressiva e spesso spietata concorrenza internazionale e, in particolare, cinese”. Sarebbe questa una politica della sicurezza progressista “per la pace”?

Giancarla Codrignani. Giancarla Codrignani è docente e giornalista. Si è sempre interessata di analisi politica. Esperta di problemi internazionali e di conflitti, è stata per tre legislature, nel gruppo storico della Sinistra Indipendente, parlamentare della Repubblica, impegnando la sua competenza nelle scelte politiche pacifiste e – laicamente – di area cattolica. Ha partecipato al movimento femminista e ha continuato ad essere coinvolta nelle problematiche di genere nell’amministrazione di Bologna e nell’Associazione Orlando. Scrive su Noi Donne e pubblica saggi e interventi politici su giornali e riviste anche on-line. 

Una società armata è una società libera. Carlo Stagnaro, Istituto Bruno Leoni su Ethics & Politics, 2. 2003, su units.it. “L’errore più folle che possiamo commettere è forse quello di lasciare che le razze da noi soggiogate posseggano armi. La storia mostra che tutti i conquistatori che hanno consentito alle razze a loro soggette di portare armi hanno in tal modo approntato la propria caduta” – Adolf Hitler 

1. Introduzione 

Negli Stati Uniti, come in ogni altro Paese al mondo, accade di tanto in tanto che qualche pazzo si renda responsabile di una strage. Puntualmente, i commentatori accusano di ciò il diritto, riconosciuto e costituzionalmente tutelato negli USA, di detenere e portare armi. Il vero responsabile degli omicidi, insomma, non sarebbe l’individuo che li compie, ma, piuttosto, il mezzo con cui vengono perpetrati (la rivoltella, il fucile, la pistola,…) e, per estensione, la possibilità di averlo. In generale, vi sarebbe una sorta di proporzionalità tra il numero di armi da fuoco presenti su un dato territorio e possedute da privati cittadini (cioè la facilità con cui le armi circolano) e il numero di crimini commessi. Sarebbe quindi necessaria una regolamentazione rigorosa, volta a colpire i secondi diminuendo le prime. Nella nazione a stelle e strisce è accesissima la discussione sull’opportunità di rivedere in senso restrittivo le norme che consentono ai cittadini di armarsi quasi senza incontrare ostacoli. Per contro, in Italia quello sul porto d’armi è un dibattito inesistente. In pratica, è consolidata l’idea che sia necessario un controllo statale sugli armamenti. Questo significa accettare che lo Stato sia “un gradino più in alto” della società. Non si tratta di una superiorità dovuta all’ovvio squilibrio di poteri: piuttosto una superiorità ontologica, insita nella natura stessa dello Stato e dei cittadini. La società non sarebbe responsabile, ovvero (passando dal sostantivo collettivo, privo di significato, alle individualità che lo compongono) i cittadini sarebbero in pratica dei minorenni incapaci di badare a se stessi e di convivere con gli altri – dunque bisognosi di tutela. Per contro, lo Stato e tutti gli uomini che ne fanno parte sarebbero dotati di una lungimiranza fuori del comune, e quindi sarebbero “giustamente” investiti del compito di vigilare sull’ordine e sulla giustizia. Tenterò in questa sede di ribaltare tali posizioni. Partendo dalla constatazione che, in sé e per sé, il fatto di detenere e portare armi non è diverso dal detenere e portare qualunque altro tipo di oggetto, sosterrò il diritto naturale di ognuno ad avere con sé un qualunque strumento di difesa. Presenterò inoltre il problema dal punto di vista del diritto all’autodifesa e, in generale, alla resistenza di fronte all’aggressione. Cercherò quindi di mostrare come, anche da un punto di vista puramente utilitaristico, il libero porto d’armi sia condizione necessaria per l’evoluzione della società lungo binari civili. Lo farò portando a sostegno di questa tesi i risultati di alcuni studi statistici. Argomenterò poi che chi predica il controllo degli armamenti parte da presupposti irrazionali. Esprimerò alcune considerazioni sul problema immediatamente susseguente a quello della legislazione sulle armi, ovvero l’oggettivo “monopolio della violenza” che si viene a creare nelle mani dello Stato. Concluderò tirando le somme di quanto detto e ripresentando le tesi che sostengo alla luce delle argomentazioni introdotte. 

2. Il diritto di portare armi 

Curiosamente, quando si parla di porto d’armi non si inquadra mai la questione nell’ottica più generale del diritto – o meno – alla proprietà privata. Qualcuno potrà ritenere che essa non sia un diritto di ogni individuo: e allora la lettura di questo articolo è inutile, in quanto l’esistenza del diritto alla proprietà privata verrà data per scontata. Se però si accetta l’affermazione che, ad esempio, “il mio orologio è mio”, le cose sono diverse. Non è qui il caso di indagare sulla natura profonda del diritto alla proprietà, sulla sua nascita e sulla sua evoluzione durante le diverse epoche storiche. Basti dire che esso esiste: nessuno di noi ha bisogno di spiegare agli altri che non possono entrare in casa sua senza il suo esplicito consenso. Orbene, ammettere l’esistenza e la necessità del diritto alla proprietà privata significa ammettere che chiunque può fare ciò che crede delle proprie cose, purché le abbia ottenute con mezzi legittimi (scambi, donazioni, acquisti…) e non le utilizzi per fini aggressivi. Tornando all’esempio precedente, se io ho comprato un orologio con soldi non rubati posso farne quel che desidero, purché le mie azioni non interdicano l’analogo esercizio dei propri diritti da parte di altre persone. Vale a dire: non posso scagliare l’orologio dalla finestra in testa a un passante. Al di là di questo, però, ho piena libertà di determinarne l’utilizzo: posso portarlo al polso o lasciarlo in casa, regalarlo a un’amica o tenerlo chiuso in un cassetto, distruggerlo, metterlo nel forno o gettarlo nella vasca da bagno. Nessuno ha il diritto d’impedirmi di fare una qualsiasi di queste cose. Mi si potranno rivolgere delle obiezioni, delle critiche o delle osservazioni, ma nulla più. Nessuno nega che lo stesso valga per un coltello. Infatti, le case di tutti sono piene di coltelli, di ogni forma e dimensione, alcuni dei quali molto affilati. Non vi è alcun motivo razionale per dire: tu puoi tenere nell’armadio un orologio ma non un coltello. Eppure un coltello è un oggetto pericoloso: può essere impiegato per ferire o uccidere una persona che si trovi in casa, o lanciato a individui lontani. Da questo punto di vista, un fucile non è differente da un coltello o un orologio. Un fucile può essere più facilmente letale rispetto a questi due oggetti (ma non rispetto, per esempio, a un’automobile). Ma, anche nel caso di un comportamento folle, non è il possesso del fucile che va criminalizzato, ma l’utilizzo che se ne fa. In altri termini, non è il fucile, ma colui che preme il grilletto il responsabile del ferimento o della morte di altre persone. Vietare il possesso di un’arma da fuoco in quanto “arma da fuoco” significa in realtà porre una limitazione arbitraria al diritto (universale) alla proprietà privata. Il fatto è che – in sé e per sé – un’arma da fuoco non è diversa da una spada, da una forchetta, da un’automobile o da un orsacchiotto di peluche. Un’arma è semplicemente un oggetto, non gode di volontà propria, non è in grado di muoversi autonomamente o di decidere che farà domani pomeriggio. Né un’arma è un oggetto in grado di sprigionare un influsso misterioso, tale da trasformare in un brutale macellaio quella che, altrimenti, sarebbe una persona mansueta. Tutto dipende dalla volontà, dall’intelligenza e dalle intenzioni del proprietario. A priori, un’arma da fuoco non è più pericolosa di un piccone o di una sedia. Il fatto puro e semplice di avere un’arma in casa, insomma, non implica che il suo possessore sia un pazzo assassino e che, nel volgere di pochi giorni, si renderà protagonista di una strage fra civili innocenti e inermi. Ancora una volta, a costo di essere ripetitivi, bisogna sottolineare che – tutte le volte che assistiamo a un delitto – va punito l’esecutore, non il mezzo. V’è anche un altro aspetto della questione. Dire che noi tutti abbiamo diritto a essere proprietari di qualcosa implica, naturalmente, che nessuno può derubarci di ciò che è nostro. Delle due, quindi, l’una: o riteniamo che sulla faccia della terra esistano solo persone brave, buone, belle e simpatiche, e allora non esiste il problema e questo saggio è una mirabile sintesi di tempo perso e spazio sprecato. Oppure, più realisticamente, riconosciamo che i criminali, piaccia o no, esistono: bisogna quindi escogitare un metodo per garantire i diritti di cui godiamo. Un modo potrebbe essere “delegare” l’onere di difenderci dai malviventi a qualcuno: lo Stato, ad esempio. Questa è una soluzione chiaramente ingiusta: perché mai noi dovremmo essere obbligati ad acquistare un servizio da qualcuno, indipendentemente dalla nostra volontà? Questo per non dire dell’inefficienza di una tale soluzione, su cui torneremo tra poco. L’unica alternativa alla delega, però, è assumersi in proprio la responsabilità di difendere ciò che legittimamente ci spetta. La produzione privata della sicurezza non va confusa con un “regresso a un passato barbaro” fatto di faide e “giustizia privata”. Si tratta piuttosto dell’esplicita ammissione che il proprietario è la persona più indicata a difendere la proprietà. D’altro canto, già oggi il mercato fornisce innumerevoli mezzi per provvedere privatamente alla sicurezza: dai vigilantes alle porte blindate. Naturalmente, ogni tipo di reazione (difesa) deve essere commisurata all’azione (offesa) secondo un criterio di proporzionalità: e la valutazione della proporzionalità è precisamente il compito dei tribunali. Basti qui osservare che il diritto alla proprietà privata implica, e non esclude, il corrispettivo diritto all’autodifesa. È cruciale, però, comprendere come, per usare le parole di Bruno Leoni, “normalmente ciascun individuo considera come legittima, perché perfettamente compatibile con quelle degli altri, la pretesa che gli altri non turbino certe situazioni in cui l’individuo si trova. La difesa personale, ad esempio, è basata sul concetto che nessuno debba offenderci ed è ammessa dalla legge; l’incolumità personale e l’integrità personale corrispondono alla pretesa che ciascuno ha di non essere assaltato e violentato. Tutte queste pretese sono normalmente considerate come compatibili, anzi lo sono perché se non lo fossero non sussisterebbero le convivenze pacifiche” (corsivo aggiunto). È banale, a questo punto, l’osservazione che l’autodifesa è più efficiente e sicura se può avvalersi di strumenti quali possono essere le armi da fuoco: ma, per essere utilizzate, occorre che siano anche possedute… Certo, sono giuste e legittime le preoccupazioni che taluno avanza sul rischio di ferimento, o addirittura di uccisione, dell’aggressore: ma tale rischio è anche soltanto paragonabile al ben più concreto rischio di ferimento, o di uccisione, dell’aggredito? Il primo, aspirando a trarre il proprio reddito dalla negazione dei diritti altrui, in qualche maniera rinuncia ai propri diritti. Vi sono situazioni in cui non è facile discernere le intenzioni dell’intruso; in queste situazioni, una pistola nelle mani dell’aggredito può fare la differenza. Per giunta, negare il diritto di avere un’arma a un cittadino onesto per timore delle sue azioni future significa introdurre nell’ordinamento giuridico un principio contrario a ogni logica. Considerare criminale il mero possesso di un’arma implica una “presunzione di colpevolezza”; pretendere che il cittadino dimostri di avere la necessità di un’arma per ottenere un permesso, comporta trasferire l’onere della prova dall’accusante (chi paventa gesti di follia da parte del privato cittadino) all’accusato (il cittadino stesso). In altre parole, implicitamente, le leggi sul controllo delle armi proclamano colpevoli cittadini che non hanno commesso alcun crimine, e individuano un reato in assenza di vittime. Alla luce di tutto questo, insomma, nasce spontanea l’osservazione: possedere armi è un diritto in sé ed è praticamente richiesto affinché ogni cittadino possa esercitare il diritto all’autodifesa, complemento e garanzia a favore della proprietà privata. 

3. Pallettoni per un amico utilitarista 

Qualunque riflessione sul diritto all’autodifesa, e la deduzione da esso del diritto a detenere e portare armi, non può convincere quanti non credono all’esistenza dei diritti naturali. È allora necessario assumere un’ottica diversa, e chiedersi: la libera circolazione delle armi è utile oppure no alla società nel suo complesso? Per rispondere, bisognerebbe prima comprendere cosa sia “utile” e cosa no. È una domanda senza risposta: l’idea di “utilità” è soggettiva, e non può essere estesa a un gruppo. Per giunta, è sottilmente cinico paragonare i benefici dell’uno coi costi dell’altro. Tuttavia, è ragionevole pensare che una società più pacifica, ordinata, e con meno crimini (o con crimini meno gravi) sia preferibile a una società violenta, disordinata, e con più crimini (o crimini più gravi). Un primo argomento può essere quello del confronto tra i paesi in cui le armi hanno un’ampia circolazione e quelli in cui invece sono pesantemente regolamentate. L’Italia, naturalmente, appartiene alla seconda categoria. Sebbene la legislazione contro le armi venga generalmente “venduta” come una necessità per arginare il crimine, la sua efficacia sembra lasciare molto a desiderare. La percentuale di crimini – da quelli minimi, come scippi, furti o borseggi, a quelli più gravi, come rapimenti o omicidi – è assai elevata – e la larga maggioranza di questi crimini restano impuniti, o addirittura “senza colpevole”. D’altra parte, la Svizzera è un paese in cui addirittura ogni famiglia possiede proprie armi: non solo perché la legislazione in merito è estremamente elastica, ma soprattutto perché – essendo l’organizzazione militare fondata sul sistema della milizia territoriale – tutti i cittadini hanno in dotazione un’arma potentissima come il fucile d’assalto. Ciò nonostante, il tasso di omicidi con arma da fuoco è pressoché identico nei due Paesi. Sebbene negli Stati Uniti il numero di pistole in circolazione sia più che raddoppiato negli ultimi trent’anni, sia i suicidi sia gli omicidi (commessi con pistole o senza) sono rimasti stabili. Non vi è alcun legame, dunque, tra questi fenomeni e non è corretto affermare che in una società armata suicidi ed omicidi tendano ad aumentare. Anzi, secondo i dati del Dipartimento di Giustizia americano, il rischio di ferimento durante un’aggressione per una donna che non opponga alcuna resistenza è 2,5 volte più grande che nel caso di resistenza armata; la resistenza senza armi è 4 volte più pericolosa che la resistenza con le armi. Per un uomo, i due rapporti assumono rispettivamente i valori di 1,4 e 1,5. Inoltre, sembra che nel 98% dei casi sia sufficiente che la vittima di un’aggressione brandisca una pistola perché il criminale desista dalle proprie intenzioni. Questo significa che nel 98% delle aggressioni contro uomini armati, il delinquente fa un buco nell’acqua e, ciò che è più importante, non vi è alcuno spargimento di sangue. Inutile chiedersi quale sia tale percentuale nel caso in cui la vittima sia disarmata. Invero, la semplice possibilità che in una casa siano presenti delle armi diminuisce notevolmente il rischio che i suoi abitanti corrono ogni giorno e notte. In Canada e Gran Bretagna, dove la regolamentazione sulle armi è severa, circa la metà dei furti nelle abitazioni avviene in presenza dei proprietari, che quindi corrono un serio pericolo. Per contro, negli Stati Uniti la percentuale di hot burglaries (come viene definito questo genere di reato) è appena del 13%. Un sondaggio condotto nelle carceri americane tra i detenuti ha rivelato che questi ultimi, nell’esercizio della loro “professione”, temono di gran lunga di più i cittadini armati che non la polizia. Coerentemente, i reati contro la proprietà sono crollati di pari passo col boom della disponibilità di pistole negli Stati Uniti. Le morti accidentali per arma da fuoco, d’altro canto, avvengono di rado. Secondo un’indagine, il decesso è 2 volte più probabile per soffocamento dopo aver ingoiato un oggetto, 7 volte più probabile per avvelenamento, 10 volte più probabile per una caduta, e 31 volte più probabile per un incidente automobilistico. Va anche aggiunto che, dal momento in cui la legge che limita il possesso di armi da fuoco entrerà in vigore, i cittadini onesti si affretteranno a rispettarla. Alcuni rinunceranno all’arma, altri seguiranno le procedure richieste per poterla mantenere: la denunceranno, compileranno moduli, verseranno le decime allo Stato, eccetera. Ma pare davvero ingenuo pensare anche solo per un attimo che i criminali si comportino nella stessa maniera. Essi, anzi, essendo – per definizione – fuorilegge, si troveranno in una situazione estremamente favorevole alla propria “attività” (nella quale dunque riceveranno un incentivo). Se infatti in una società “armata” bisogna sempre mettere in conto la possibilità di una reazione da parte dell’aggredito, in una società “disarmata” il bandito che si presenta alla vittima con una pistola in pugno avrà una vita assai più facile. È del tutto evidente che la politica del disarmo forzato danneggerà soprattutto quelle categorie e quelle fasce sociali che da un lato sono più frequentemente esposte ad aggressioni, e dall’altro non possono permettersi di assumere guardie private. Un sondaggio eseguito nel 1975 negli USA dice a che i più numerosi possessori di un’arma da fuoco a scopo puramente difensivo sono soprattutto neri, persone appartenenti a ceti dal basso reddito e anziani. 

4. I casi inglese e australiano                                                                                                  

Un’indagine condotta attraverso trentaquattromila interviste telefoniche in diciassette diversi paesi, ha mostrato che, in generale, il crimine colpisce maggiormente laddove detenere, portare o usare un’arma per autodifesa è più difficile. Il caso della Gran Bretagna, in particolare, è emblematico: le leggi approvate nel 1996 sulla spinta emotiva del massacro di Dunblane (quando un giovane assassino uccise sedici bambini e un insegnante) hanno pressoché vietato il possesso di armi. Addirittura, i tiratori professionisti dovettero recarsi all’estero per esercitarsi in occasione delle Olimpiadi. Ebbene, in Inghilterra il 26% degli intervistati, vale a dire oltre un quarto, ha dichiarato di essere stato vittima di un crimine nel corso del 1999. Il 2,6% è stato vittima di un furto d’auto. Il 3,6% ha subito un’aggressione, contro l’1,9% dei “violenti” Stati Uniti. Il rischio di rapina per i sudditi di Elisabetta II è dell’1,2% (poco meno della Polonia, che guida la triste classifica con l’1.8%). Dati simili – spesso peggiori – sono quelli dell’Australia, che nel 1996 ha introdotto leggi severissime contro il possesso di armi. Le nazioni in cui è più facile cadere vittima di un crimine, oltre al Paese dei canguri e al Regno Unito, sono l’Olanda (25%), la Svezia (24%) e il Canada (24%). Negli USA la percentuale scende al 21%, mentre i cittadini più sicuri sono giapponesi, portoghesi e irlandesi del nord, ognuno dei quali ha “solo” quindici probabilità su cento di subire un crimine. Non bisogna dunque credere che più armi significhino più violenza. I criminali non hanno difficoltà a procurarsi armi attraverso il mercato nero; quindi le leggi che vietano o limitano il possesso di armi per legittima difesa colpiscono esclusivamente i cittadini onesti – mettendo a repentaglio la loro incolumità e sottraendo loro la possibilità di difendersi e resistere all’aggressione. Nel giro di un solo anno, tra il 1999 e il 2000, il crimine violento nel Regno Unito è aumentato del 16%, gli scippi del 26%, le aggressioni di quasi il 40%. Dall’introduzione della severissima legislazione sulle armi, il crimine violento è pressoché raddoppiato. Questo, secondo Joyce Lee Malcolm, costituisce una “chiara dimostrazione della futilità del controllo delle armi”. John Lott sottolinea la spaventosa crescita che ogni tipo di crimine ha subito dopo il bando delle armi da fuoco in Australia: le rapine a mano armata sono aumentate del 51%, quelle senza armi del 37%, le aggressioni del 24% e i rapimenti del 43%. Se gli omicidi in generale sono scesi di un misero 3%, gli omicidi inintenzionali sono aumentati del 16%. Entrambi i paesi, poi, sono autentici paradisi del controllo delle armi: essendo circondati dall’oceano rendono difficile il contrabbando. Eppure questo non ha impedito ai delinquenti di ottenere ciò di cui avevano bisogno. Per contro, secondo Lott, “l’America ha assistito a un cambiamento notevole a partire dal 1985, quando solo otto stati avevano le leggi più liberali sul porto d’armi, che garantivano automaticamente il permesso ai richiedenti privi di precedenti penali, dopo che avevano pagato il dovuto e, qualche volta, superato un corso d’addestramento. Oggi queste norme vigono in 33 stati. Morti e feriti nelle sparatorie pubbliche sono crollati del 78% in quegli stati. Al contrario, in Europa il crimine violento è in crescita. Sono molti i fattori responsabili di ciò, ma è chiaro che leggi severe sulle armi non aiutano”. 

5. Sul “monopolio delle armi” 

Generalmente, il problema del libero porto d’armi viene affrontato nell’ottica del confronto tra i comuni cittadini (gli onesti) e i criminali, scandagliando le convenienze e gl’interessi degli uni e degli altri. Da un certo punto di vista, però, l’influenza del crimine sulla vita quotidiana è estremamente ridotta, poiché il crimine è un evento eccezionale. Può capitare, nella vita, di essere derubati; ma certo ciò non accade, se non in casi assai rari, ogni giorno, ogni mese, ogni anno. Invero, i primi fautori del diritto a detenere e portare armi non si concentrarono tanto su questo aspetto, quanto sulla necessità di lasciare ai cittadini una chance contro eventuali involuzioni tiranniche dello Stato. È lo Stato, il Potere, il nemico contro il quale occorre stare in guardia. D’altronde, per quanto sia banale, lo Stato, come tale, non esiste. “Stato” è un espediente linguistico per indicare persone in carne e ossa, che vivono grazie all’imposizione di tasse e debbono il proprio status di prestigio alla negazione dell’altrui libertà. La diffusione del possesso privato di armi, insomma, costituisce non solo il baluardo contro la potenziale aggressività dello Stato, ma pure un forte deterrente nei suoi confronti. Nelle sue lettere, Thomas Jefferson tesse l’elogio delle ribellioni – e addirittura ne invoca la necessità – per preservare la società dalla tirannide: “Quale Paese può conservare la propria libertà se ai suoi governanti non viene periodicamente rammentato che la popolazione conserva il proprio spirito di resistenza? Che il popolo prenda pure le armi”. Questa consapevolezza è alla base del secondo emendamento alla Costituzione americana. Esso recita: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, non si potrà violare il diritto dei cittadini di possedere e portare armi”. Naturalmente, sono molte le interpretazioni e le letture che vengono date di queste pur chiare parole: tuttavia è chiaro che tale disposizione mira a proteggere il diritto di ciascun individuo a difendersi contro le aggressioni, siano esse “private” (da parte di criminali comuni) o “pubbliche” (da parte dello Stato). Non è esagerato, insomma, vedere proprio nel secondo emendamento l’origine, o almeno uno dei principali elementi, della libertà americana. In America non vi è mai stato un Hitler o uno Stalin semplicemente perché, una volta salito al potere, si sarebbe trovato di fronte una moltitudine di cittadini non disposti a sottomettersi. E, soprattutto, ognuno di questi cittadini sarebbe stato potenzialmente un detentore di armi: cioè la minaccia della guerra civile pende su ogni dittatore come una spada di Damocle. Per contro, una delle prime mosse del Führer, una volta conquista Berlino, fu proprio quella di disarmare i cittadini tedeschi di origine ebraica (non prima di aver compilato un elenco di tutti i possessori di armi). 

6. Etica, armi e cristianesimo 

La libertà di essere armati prelude alla possibilità di resistere all’aggressione; d’altro canto, la pretesa di disarmare il prossimo per timore della sua condotta implica la negazione di tale opportunità. Quanti, muovendo da una prospettiva cristiana, si fanno forti del Sermone della Montagna per negare questa prospettiva, danno una lettura parziale delle parole di Gesù. Il cristiano non è moralmente obbligato a subire ogni angheria; quando Cristo invita a porgere l’altra guancia, sta evidentemente condannando la vendetta, non la resistenza. D’altronde, l’effetto delle leggi non è la volontaria sottomissione del mansueto, ma l’obbligo per tutti quanti di accettare l’arbitrio dei criminali e del Potere politico. Porgere l’altra guancia è una decisione personale, al più un sacrificio individuale. Ma le leggi sul controllo delle armi costringono l’intera società – tranne un ristretto gruppo di fortunati o privilegiati – a porgere l’altra guancia. In sostanza, chi le approva pretende di porgere l’altrui guancia! Del resto, San Paolo afferma a chiare lettere: “Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore” (Romani 12: 19). Nondimeno, è il santo di Tarso ad affermare che “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5: 8). Ma prendersi cura dei propri cari significa, in primo luogo, difenderli: infatti, l’intera tradizione cattolica, da S. Agostino a S. Tommaso, da Antonio Rosmini a Papa San Pio X ai più recenti pronunciamenti della Santa Sede, ha sempre affermato il diritto a resistere all’aggressione, anche nella forma estrema di omicidio per legittima difesa. Di più: la tradizione, la dottrina e il magistero della Chiesa sono concordi nel riconoscere nella difesa dei cari un dovere, più che un diritto. Impedire ai cittadini di armarsi equivale e sopprimere questo diritto e dovere. Sovente viene impiegato, contro la libera circolazione delle armi da fuoco, l’argomento che spetta alle forze di polizia sbarazzarsi del crimine. Le forze di polizia costituiscono un grande ostacolo sulla via dei criminali; infatti, i criminali s’industriano per colpire quando e dove le forze di polizia sono assenti. Ma anche a prescindere dalla effettiva efficacia dei tutori dell’ordine, è alquanto immorale rifiutarsi d’impugnare un’arma per difendere se stessi e i propri cari, e pretendere che qualcun altro lo faccia per noi in cambio di un misero stipendio. La domanda da porsi, allora, è duplice: la nostra vita, e la vita dei nostri cari, merita di essere protetta? E, in caso affermativo, a chi spetta tale responsabilità? Come scrive Jeff Snyder, “Una persona che attribuisca valore alla propria vita e prenda sul serio le proprie responsabilità verso la sua famiglia e la sua comunità deve possedere e saper usare i mezzi necessari a praticare l’autodifesa, e sa ripagare con la loro stessa moneta quanti hanno minacciato di morte o di violenza lui stesso o i suoi cari. Egli non si accontenterà di dover dipendere unicamente dagli altri per quanto riguarda le misure precauzionali. Evitiamo le ambiguità: sarà armato, sarà addestrato all’uso delle armi e saprà come reagire di fronte alla violenza”. Per i libertari, il diritto a detenere e portare armi è cruciale in quanto rappresenta il baluardo ultimo dei diritti individuali, il mezzo attraverso cui un individuo può tutelare la propria incolumità quando non vi sono alternative. 

7. L’irrazionalità delle critiche al libero porto d’armi 

La liberalizzazione delle armi favorisce i comuni cittadini, soprattutto quelli che vivono in condizioni disagiate. Chi e perché, allora, ritiene sia preferibile una legislazione restrittiva? I politici, naturalmente, poiché ogni restrizione alle libertà individuali genera un aumento del loro “peso specifico” all’interno della società. Per riprendere la terminologia di Albert Jay Nock, grazie al monopolio della violenza e all’interdizione delle armi il “potere statale” si espande a scapito del “potere sociale”. Vanno poste in discussione, allora, le affermazioni di alcuni intellettuali, che forniscono con le proprie parole una legittimazione teorica ai fautori dell’espansionismo governativo. Un forte attacco alla regolamentazione delle armi giunge da Don B. Kates, Jr., secondo cui gli uomini di sinistra (principali avversari della libera circolazione delle armi da fuoco) non applicano alle armi la stessa logica che adottano per difendere la liberalizzazione della marijuana. Gli antiproibizionisti sanno bene che il divieto non elimina la droga; a maggior ragione, dovrebbero comprendere che la regolamentazione non può far piazza pulita della violenza. Alcuni anni fa Kates sottolineò che, secondo alcuni sondaggi, nel momento in cui fossero state adottate rigide misure contro la proliferazione degli armamenti, circa l’80% degli allora 50 milioni di possessori di armi americani (oggi 70), si sarebbero rifiutati di sottostarvi. L’impossibilità di un’applicazione rigorosa darebbe così luogo a discriminazioni sempre più evidenti, e in particolare le leggi sarebbero utilizzate “solo contro coloro che non riscuotono le simpatie della polizia. Non c’è bisogno di ricordare le ricerche odiose e le tattiche di cattura alle quali ricorrono poliziotti e agenti federali per poter intrappolare i trasgressori di queste leggi”. Kates evidenzia pure la differente condizione sociale di chi desidera la regolamentazione delle armi e chi, invece, vi si oppone: “la proibizione delle armi da fuoco è il frutto dell’ingegno dei liberal bianchi appartenenti al ceto medio, i quali ignorano la situazione dei poveri e delle minoranze che vivono in zone in cui la polizia ha rinunciato a contrastare il crimine. Tali liberal non sono stati infastiditi neppure dalle leggi sulla marijuana, negli anni Cinquanta, quando le retate avvenivano solo nei ghetti. Al sicuro nei loro sobborghi sorvegliati dalla polizia o in appartamenti dotati di antifurto e protetti da guardie private (che nessuno propone di disarmare) i liberal ignari deridono il possesso di armi definendolo un anacronismo da vecchio West”. Per inciso, proprio il selvaggio West rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’archetipo di società armata e quindi violenta. La società dell’Ovest degli Stati Uniti nel secolo scorso, però, era tutt’altro che violenta. Anzi, il West è stato un esperimento davvero riuscito di ordine spontaneo senza Stato: una società pacifica e laboriosa, nella quale la grande maggioranza dei cittadini si faceva in santa pace “gli affari propri”. Di più: anche i rapporti coi Pellerossa si limitarono a scaramucce di poco conto, almeno fino all’adozione di un esercito stanziale, ovvero alle due fasi seguenti alla Guerra col Messico e, soprattutto, alla cosiddetta Guerra Civile. Tornando all’attualità, sulla base dei dati relativi alla criminalità, Kates dimostra la validità dell’autodifesa con armi da fuoco. A Chicago, ad esempio, è emerso che i civili armati hanno ucciso per motivi giustificati il triplo dei criminali violenti uccisi dalla polizia. In generale, i civili armati hanno ucciso, catturato, ferito o almeno allontanato gli aggressori nel 75% dei casi di scontro violento, contro il 61% della polizia. La tipica obiezione che viene rivolta a questi dati è del genere: “il possesso indiscriminato di armi da fuoco produce un aumento nei ferimenti, o addirittura nelle uccisioni, dei criminali”. Vero. Ma produce tutto ciò ai danni, appunto, dei criminali: quindi di chi implicitamente ha accettato tale rischio in cambio di una violazione altrettanto violenta dei diritti di cittadini onesti e pacifici. Senza contare che tale aumento di ferimenti e uccisioni funge esso stesso da deterrente nei confronti del crimine. Ma, argomenta ancora Kates, “evitare il ferimento è di enorme e vitale importanza per un accademico liberal bianco che ha un ricco conto in banca. Sarà per forza di cose meno importante per il normale lavoratore o per il beneficiario dell’assistenza sociale che viene derubato delle sostanze con cui deve mantenere la propria famiglia per un mese - o per il commerciante nero che non può stipulare una polizza contro i furti e che quindi dovrà chiudere la propria attività a causa dei successivi furti”. È questo, forse, l’aspetto più odioso delle politiche di controllo delle armi. Esse infatti penalizzano realmente e fortemente chi già di per sé non vive nelle condizioni migliori. Secondo uno studio condotto nel 1975 dall’istituto Decision Making Information, i sottogruppi più consistenti di persone che possedevano una pistola per autodifesa erano composti da neri, da persone dal basso reddito e da anziani. “Questa sono le persone – conclude Kates – che si vuole mandare in galera perché insistono nel possedere l’unico mezzo di protezione disponibile per la difesa delle loro famiglie”. 

8. Conclusione: Si vis pacem, para bellum

In primo luogo, si è visto come le armi in quanto tali siano semplici oggetti. Se esiste un diritto naturale alla proprietà, allora esso deve valere pure per le armi da fuoco. Il fatto che delle armi (come di altri oggetti) si possa fare un uso criminale, non dice nulla sulle armi: dice semmai qualcosa sul loro possessore. Secondariamente, la possibilità di detenere e portare armi ha una valenza particolare: che va ben oltre il possesso puro e semplice dell’arma stessa. Riconoscere di diritti di proprietà su qualcosa (una casa, ad esempio) significa anche riconoscere il diritto di difendere questo “qualcosa” da eventuali aggressioni. Tale difesa, però, sarà necessariamente commisurata all’aggressione in atto: se questa è violenta, con ogni probabilità e diritto lo sarà anche quella. In questo senso, le armi sono una garanzia e una tutela della proprietà privata, perché rendono enormemente più facile l’impresa di difenderla. Ancora: il fatto che la società sia armata impedisce, o almeno riduce enormemente, la probabilità che si venga a creare un pericoloso monopolio della forza in balia del Potere politico. In Paesi come la Svizzera o gli Stati Uniti un tiranno troverebbe assai difficile impadronirsi del potere, perché dovrebbe fronteggiare i cittadini armati – che dispongono di mezzi assai più convincenti delle schede elettorali per far sentire la propria voce. Infatti, un antico adagio attribuito a Benjamin Franklyn recita: la democrazia sono due lupi e una pecora che votano su cosa mangiare; la libertà è una pecora ben armata che contesta il risultato delle votazioni. Per contro, più la regolamentazione sulle armi è severa, più si affievoliscono questi paletti a difesa delle libertà individuali. I cittadini disarmati non sono nella condizione di potersi difendere dai criminali, che così sono incentivati a proseguire nella “professione”. Non solo: se la società è disarmata, la presenza di un esercito in armi costituisce una costante e grave minaccia alla libertà, in quanto un tiranno potrebbe far leva proprio su di esso per accaparrare il trono. Anche una legge relativamente tollerabile che preveda la semplice registrazione e immatricolazione delle armi sortisce risultati negativi: non solo, infatti, essa è una evidente violazione della privacy dei cittadini, ma permette anche alle “autorità” di avere una costante schedatura delle proprie “vacche da mungere”. E, naturalmente, i cittadini – sentendosi spiati e giudicandola, a ragione, una cosa spiacevole – saranno disincentivati nell’acquisto e nel possesso di armi da fuoco. Inoltre, le argomentazioni a difesa della regolamentazione sono tutt’altro convincenti. È del tutto evidente, infatti, che una legislazione onerosa punisce per primi coloro che sono più indifesi, cioè le fasce sociali più deboli. E non è un caso che essa venga richiesta a gran voce da persone solitamente benestanti, che possono permettersi moderni sistemi antifurto o addirittura la sorveglianza di guardie giurate. Ma le cose non sono così semplici per chi ha difficoltà persino a stipulare delle polizze e, quindi, vede da ben altra angolazione certe tesi “solidaristiche”. Portare armi, insomma, non è soltanto un diritto. È anche una necessità, una garanzia, un indice di quanto una società sia liberale. Il fatto che un cittadino sia armato rende arduo che un altro cittadino lo aggredisca e, quand’anche questo avvenisse, rende la vita ben più difficile all’aggressore. Il fatto che l’intera società sia armata fa sì che la politica abbia una grossa difficoltà a spingere nella direzione di un’involuzione tirannica. Non a caso nei Paesi che, nel mondo contemporaneo, godono di una maggiore libertà, il diritto di detenere e portare armi è (sebbene in modi e forme differenti) riconosciuto e tutelato. Tutto questo fa della presa di posizione a favore del libero porto d’armi un punto centrale all’interno del pensiero libertario contemporaneo. La riappropriazione delle armi privatamente detenute – così come la formazione di milizie volontarie – è cruciale per il mantenimento, o la conquista, della libertà in un universo anarco-capitalista. Ma è ancora più importante in una società largamente statalizzata come la nostra, in quanto costituisce la premessa indispensabile del contenimento e poi della riduzione del Potere. Analogamente, è fondamentale all’interno di un ipotetico Stato minimo, dacché solo la minaccia di una cittadinanza armata potrebbe arrestare la degenerazione, altrimenti inevitabile, dello Stato minimo in Stato massimo. A ragione, allora, Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, che ha definito il diritto a detenere e portare armi come “la nostra prima libertà”. D’altra parte, è questo il senso dell’antico motto latino: si vis pacem, para bellum. Se vuoi evitare di essere aggredito, fai capire ai potenziali aggressori che sei pronto a difenderti con le unghie, con i denti e, alla bisogna, con un’arma da fuoco. Pare, in definitiva, che mai uno slogan pubblicitario sia stato più azzeccato e realistico di quello adottato negli Stati Uniti verso la metà del XIX secolo dalla nota casa produttrice di pistole: “Dio avrà anche creato gli uomini, ma Samuel Colt li ha resi uguali”.

Maddalena Berbenni per il "Corriere della Sera" il 10 agosto 2021. La bottiglia di birra va in frantumi e Marwel Tayari crolla sull'asfalto. È il punto di partenza dell'indagine sull'omicidio del tunisino di 34 anni, disoccupato e con una scia di precedenti penali, per lo più per spaccio ma la moglie lo aveva denunciato anche per maltrattamenti. Era uscito di carcere da 8 mesi. Ora in cella c'è Alessandro Patelli, 19 anni, giardiniere incensurato, accusato di avere ucciso il nordafricano al culmine di una lite banalissima. I due non si conoscevano. Tayari era seduto con la moglie Eleonora Turco e le due figlie di 12 e 2 anni davanti al palazzo del ragazzo, vicino alla stazione di Bergamo. Gli ha chiesto di fare attenzione quando lui è uscito di corsa e li ha sfiorati. Si sono scambiati poche frasi ed è finita con 6 coltellate: all'addome, alla giugulare, a una spalla e a una coscia. «Il ragazzo è disperato», riferisce il suo avvocato Enrico Pelillo. Forse domani, l'interrogatorio di convalida. Il pm Paolo Mandurino contesta a Patelli l'aggravante dei futili motivi, non la premeditazione, perché la tragedia si è consumata in una manciata di minuti. Non è poco per la difesa, ma d'altro canto dal primo racconto del 19enne sarebbero emerse alcune incongruenze. La bottiglia, appunto. Davvero Patelli ha reagito per difesa? Gli inquirenti hanno dubbi. Tayari lo aveva fatto cadere a terra con uno sgambetto, scivolando a sua volta. «Ho avuto paura che mi colpisse», si è giustificato lui, perché nel frattempo il tunisino si era rialzato. Ma il 19enne, molto più esile, non aveva un graffio, era sceso in strada con il casco da motociclista già indosso e ha inferto non uno ma sei colpi. Inoltre, i vetri erano accanto al cadavere, non dove è avvenuta la colluttazione, un dettaglio che ricalca le versioni della moglie della vittima e di un senzatetto che ha visto la scena: «Mio marito aveva appoggiato la bottiglia e l'ha ripresa solo quando era già ferito - ribadisce Turco -. Quando è sceso la seconda volta quel ragazzo aveva già il coltello in mano. Mio marito era un leone, ma in questo caso si è trattenuto perché c'erano le bambine ed è morto davanti a loro. Non parlava più, si è gelato e ha smesso di respirare. Quando ho capito che il cuore aveva smesso di battere, gli ho chiuso gli occhi. Ora voglio una giustizia vera». Il senzatetto non ha visto il coltello tra le mani di Patelli, ma ha confermato che la bottiglia era a terra. L'arma è un coltellino a scatto che il ragazzo sostiene di usare solo nel terreno che coltiva a Trescore, dove era diretto. Ma allora perché non lasciarlo lì? Nella sua camera, inoltre, è stato trovato un secondo coltello da caccia, su cui aveva taciuto.