Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

L’ACCOGLIENZA

 

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Muri.

Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Quei razzisti come…

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come gli svizzeri.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i polacchi.

Quei razzisti come i lussemburghesi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i bulgari.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i somali.

Quei razzisti come gli etiopi.

Quei razzisti come i liberiani.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i Burkinabè.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come i sudsudanesi.

Quei razzisti come i giordani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i siriani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli emiratini.

Quei razzisti come i dubaiani.

Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Quei razzisti come gli yemeniti.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come gli azeri.

Quei razzisti come i russi.

 

INDICE TERZA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

L’11 settembre 2001.

Il Complotto.

Le Vittime.

Il Ricordo.

La Cronaca di un’Infamia.

Il Ritiro della Vergogna.

La presa del Potere dei Talebani.

Media e regime.

Il fardello della vergogna.

Un esercito venduto.

Il costo della democrazia esportata.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

L’Economia afgana.

Il Governo Talebano.

Chi sono i talebani.

Chi comanda tra i Talebani.

La Legge Talebana.

La Religione Talebana.

La ricchezza talebana.

Gli amici dei Talebani.

Gli Anti Talebani.

La censura politicamente corretta.

I bambini Afgani.

Gli Lgbtq afghani.

Le donne afgane.

I Terroristi afgani.

I Profughi afgani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i giapponesi.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come gli australiani. 

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i brasiliani. 

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Gli olocausti comunisti.

E allora le foibe?

Il Genocidio degli armeni.

Il Genocidio degli Uiguri.

La Shoah dei Rom.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Chi comanda sul mare.

L’Esercito d’Invasione.

La Genesi di un'invasione.

Quelli che …lo Ius Soli.

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Due “Porti”, due Misure.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Tunisia?

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

TERZA PARTE

 

·        Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

Dieci libri per capire l'indomabile Afghanistan. Stenio Solinas il 5 Settembre 2021 su Il Giornale. Il territorio impervio, la politica, le guerre, l'arte sublime: ecco gli scrittori da leggere o rileggere, da Hopkirk a oggi. L'Eldorado di tutte le avventure, il crocevia delle spezie e dei tormenti, lo zenith e il nadir della natura e della cultura, i paesaggi primordiali, le nevi eterne, le carovane dei cammelli, le statue giganti, i monili perfetti, le cupole intarsiate. Foto di vecchi fieri e giovani insolenti, corse di cavalli, combattimenti di uccelli, fiorire di rose, solitudini di tende, convivialità di sale da tè, di narghilè, di pane semplice, di latte cagliato... L'Afghanistan come miraggio, l'Afghanistan come ricordo, l'Afghanistan come rimorso. Vent'anni fa, una mostra del Musée Guimet di Parigi, Afghanistan. Une histoire millénaire, raccontava una successione straordinaria di forme d'arte per quello che fu l'Estremo Oriente dei tempi di Alessandro il Grande, la terra di confine per i pellegrini cinesi della dinastia Tang, la via (...) (...) della Seta e il «regno dell'insolenza» dell'età di Tamerlano, il luogo strategico del «grande gioco» anglo-russo fra XVIII e XIX secolo. Nella copertina del catalogo faceva bella mostra di sé il Génie aux fleurs, la bellissima divinità dai tratti ellenici di Hadda, IV secolo. Hadda è a 12 chilometri da Jalalabad e provenivano da qui le circa 15mila statue in stucco e argilla conservate nei suoi siti buddisti: e mai nell'Asia centrale era dato ritrovare una tale maestria tecnica e una conoscenza così grande del mondo greco-romano. Monaci, soldati, demoni, volti di asceti, risultato di centri di civiltà ellenica nella regione più che della diaspora greco-bactriana dell'Hindokush a seguito dell'invasione dei nomadi dall'Asia centrale. Hindokush, secondo quanto racconta Ibn Battuta, il Marco Polo arabo, voleva dire «che uccide gli hindou» e per lui l'Afghanistan era quel blocco di montagne dove il Profeta si arrestò, al confine con l'India. Sui contrafforti dell'Himalaya, fra Afghanistan e Pakistan, c'era il Kafiristan, il Paese dei pagani non convertiti all'islam, grandi, biondi, bevitori di vino. Alla fine del XIX secolo diverrà il Nuristan, il Paese della luce, e sarà islamizzato: i templi distrutti, le statue in legno razziate. Nel suo L'uomo che volle farsi re, Kipling lo descrive come il luogo «dove le strade non sono più larghe del dorso di una mano» e dà ai kafiri un'origine greca. Come per tutti gli inglesi, anche per Kipling quella per l'Afghanistan fu una fascinazione piena di sensi di colpa e soprassalti di simpatetico orgoglio. Nei coevi romanzi di Sherlock Holmes c'è sempre qualche reduce di quei conflitti, compreso il Dottor Watson che ne porta ancora sul corpo le cicatrici. In Kim, appunto di Kipling, l'Afghanistan è uno dei teatri del «Grande Gioco» dove gli inglesi sono chiamati a recitare una parte da protagonista. La posta in palio è sì politico-diplomatica, il controllo dell'Asia centrale, ma ciò che la contraddistingue e, due secoli dopo, la rende ancora affascinante, è l'incredibile qualità e quantità d'impegno, di coraggio, di spregiudicatezza, di costanza e di dolore da quei giocatori profusa. Chi ne ha dato la migliore rappresentazione è ancora un inglese, Peter Hopkirk, nel suo Il Grande Gioco (Adelphi). Data l'immensità dello scacchiere in cui si svolse, la definizione data da un ministro zarista dell'epoca di «un torneo di ombre», non suona stonata. Come ombre, infatti, gli uomini che vi presero parte, ufficiali, commercianti, esploratori, dilettanti di razza, semplici avventurieri, apparivano e scomparivano nei luoghi più impensati, erano dati per morti quando erano ancora vivi, si credeva che sarebbero tornati quando già le loro ossa imbiancavano lungo un sentiero o sotto un costone roccioso. Ma mentre di esse continua a proiettarsi la figura, è la luce su quello scacchiere proiettata, a essersi spenta. Come notò nel suo libro Hopkirk, nulla di quel disegno politico, costruito e perseguito per più di mezzo secolo, è rimasto in piedi. Archiviato per primo l'impero britannico, la disintegrazione post-Ottantanove in Asia della supremazia di Mosca ha portato alla nascita di otto Paesi con relative guerre che hanno sconvolto la regione. «L'Asia centrale è tornata a essere terreno di lotta nel grande calderone della storia». C'è un nuovo «Grande gioco» ha scritto Hopkirk, nel quale «è impossibile indovinare quale delle potenze e fazioni rivali si aggiudicherà la posta economica in palio». Stati Uniti, Russia, Cina e poi India, Turchia, Iran e Pakistan hanno preso il posto dei due contendenti di un tempo. Per un breve momento, la prima metà all'incirca del Novecento, quell'interesse geopolitico sembrò potersi tramutare in passione artistica. Pochi libri hanno colpito l'immaginazione come La via per l'Oxiana, di Robert Byron, e pochi lamenti funebri per la scomparsa di un mondo equivalgono quello di Bruce Chatwin, Lamento per l'Afghanistan, appunto, scritto all'indomani dell'invasione sovietica del 1979: «Non torneranno in vita le cose che abbiamo amato. Le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui monti; i campi di asfodeli che venivano dopo quelli dei tulipani, o le pecore dalla grossa coda che chiazzavano le colline sopra Chageran... Non ci sdraieremo più davanti al Castello rosso a guardare gli avvoltoi roteanti sopra la valle in cui fu ucciso il nipote di Genghiz... Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamian, diritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di carenaggio. Non dormiremo nelle tende dei nomadi, né daremo la scalata al minareto di Jam». Ancora sul finire degli anni Sessanta l'Afghanistan significava raffinato splendore, nobile povertà, rose e fucili, camion e bazar, campagne di scavi e ottusità militare, ricerca del passato in luoghi dove il tempo sembrava essersi cristallizzato. Che cosa fosse andare in Afghanistan allora lo ha ben spiegato un archeologo italiano, Maurizio Tosi, a Nicholas Shakespeare, scrittore di talento nonché autore dell'unica biografia autorizzata di Bruce Chatwin: «Te ne stai in un paesaggio arido guardando una carovana nomade di cavalli e cammelli in marcia con greggi e mercanzie e dietro si innalzano le più meravigliose rovine di splendidi edifici eretti da re che governavano contadini e artigiani in grandi città». Tosi è l'archeologo cui l'inglese Peter Levi ha dedicato Il giardino luminoso del re angelo (Einaudi). Di origine turco-ebraica, Levi andò in Afghanistan sulle orme di Alessandro Magno, e già questo la dice lunga sul personaggio e il perché di quel viaggio. Scrive Tosi che «cercare i greci in Afghanistan nella mente di un giovane don di Oxford, ebreo, cattolico e inglese, aveva un doppio effetto catalizzatore e il senso di un'esperienza iniziatica che da sempre i poeti d'Oriente e d'Europa hanno attribuito all'avventura di Alessandro». Il titolo del volume deriva dal mausoleo di Babur, a Kabul. È un giardino che domina il fiume: costruito in marmo di Kandahar, l'iscrizione che ne dominava l'ingresso diceva: «Solo una moschea di straordinaria bellezza, un tempio di sublime nobiltà, costruito per la preghiera dei santi e l'epifania dei cherubini, era degno di sorgere in questo giardino luminoso del re angelo prediletto da dio». È un bel titolo, degno di un poeta, più che di uno studioso. Alla fine degli anni Novanta, ancora un inglese, Jason Elliot, con il suo Una luce inattesa. Viaggio in Afghanistan (Neri Pozza) riuscì a dare conto di una fascinazione ancora non spenta e lo fece in un momento particolare e surreale, quello di un Paese bombardato e liberato di cui l'Occidente non sapeva bene che fare, un regno del male bonificato senza che per questo il male fosse stato estirpato, una sorta di protettorato militare di cui si ignorava la durata. Eppure, pochi resoconti di viaggio hanno la freschezza e la grazia di questa peregrinazione dove l'imprudenza si tinge di impudenza, la voglia di capire non si trasforma in ansia di giudicare, l'ammirazione non cede all'imitazione. Elliot andò in Afghanistan a diciott'anni, ai tempi dell'invasione sovietica, quando i mujaheddin erano per l'Occidente l'icona del patriota in armi. Ci ritornò dieci anni dopo, quando molti di essi si chiamavano taliban e si apprestavano a divenire il bersaglio dell'esecrazione internazionale. Non si trattava di alieni, non venivano da Marte... Senza saperlo, Elliot si muoveva sulle tracce del presente in luoghi che non lasciavano intravvedere il futuro e il contrasto fra una quotidianità orgogliosamente perseguita e un domani capricciosamente negato colora Una luce inattesa della tinta struggente di una disillusa speranza. Comunque la si voglia girare, la militarizzazione occidentale dell'Afghanistan si è sempre rivelata fallimentare. Lo ha spiegato molto bene William Dalrymple, nel suo Il ritorno di un re (Adelphi), dove sono messi molto bene in evidenza i parallelismi delle due successive disastrose intromissioni occidentali fra XIX e XX secolo: «Centosettant'anni dopo, le stesse rivalità tribali, le stesse battaglie negli stessi luoghi all'ombra di nuove bandiere, nuove ideologie e nuovi burattini. Le stesse città erano presidiate da truppe straniere che parlavano la stessa lingua e subivano attacchi dalle stesse colline circostanti e dagli stessi passi. In entrambi i casi, gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d'anni. In entrambi i casi invece non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio». C'è però nel libro di Dalrymple un altro elemento non secondario, ovvero il ribaltamento dell'orientalismo di natura occidentale consistente nel raccontare con fonti proprie terre e costumi altrui. Sono le fonti afghane coeve che Dalrymple recupera... Così, come in un gioco di specchi, gli occidentali sono visti dagli altri e non secondo l'immagine spesso oleografica con cui hanno raccontato sé stessi. Le truppe inglesi si distinguono per crudeltà e lussuria, i romantici avventurieri cedono il passo a diabolici trafficoni, il «fronte interno» della resistenza afghana, descritto dalla memorialistica inglese come un insieme di traditori barbuti e fanatici, cede il passo a esseri umani dotati di una «loro sfera emotiva di opinioni, di motivazioni personali» che permette di capire «come mai molti di essi scelsero di rischiare la vita e imbracciare le armi contro le forze a prima vista invincibili della Compagnia delle Indie». Un'antica leggenda afghana dice che «quando Allah ebbe fatto il resto del mondo vide che gli era rimasta una quantità di materiale di scarto, che non si adattava a nessun posto. Raccolse tutti questi residui e li gettò sulla terra. E quello fu l'Afghanistan». Come si vede il senso di precarietà e di estraneità è qualcosa di insito nell'animo di questo popolo. Se dovessimo alla fine consigliare un saggio non di ciò che è stato, ma dell'incredibile quanto inestricabile groviglio di contraddizioni che lo rappresenta, sceglieremmo Descent into Chaos di Ahmed Rashid, uscito una dozzina d'anni fa e pubblicato in Italia col titolo Caos Asia (Feltrinelli). Rashid predisse allora quello che oggi è sotto i nostri occhi. Si è sbagliato, scrisse, sin dall'inizio, a partire dalla cosiddetta «guerra al terrorismo», uno slogan retorico e generico, dello stesso tenore della guerra alla droga, al cancro, alla povertà. «Non ci può essere una guerra contro il terrorismo, perché questi non può essere una parte in causa di un conflitto. Inoltre, non esisteva una definizione internazionalmente accettata del termine, dato il cliché che ciò che è terrorista per qualcuno è per qualcun altro un combattente per la libertà»...Stenio Solinas

C’era una volta un re (afghano). Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 25 agosto 2021. C’era una volta un Re, e non uno di quelli da burletta, ma un sovrano residente nel quartiere Olgiata, a Roma. Un monarca cortesissimo con chiunque gli venisse incontro lungo il marciapiede – ogni passante, e così i vigili urbani in servizio – di tanto in tanto rapito dai cirri in cielo come a interrogare le traiettorie degli uccelli e così da loro decifrare i dispacci segreti inviati a lui dai cieli d’Afghanistan. Era Mohammad Zahir Shah, spodestato dai sovietici e tornato a Kabul nel 2002, richiesto dalla Loy Jirga – l’assemblea del popolo – affinché tornasse sul Trono. Ma gli americani dissero no. E così fu che senza quel Re non ci fu più Afghanistan.

Che storia ha l’Afghanistan. È molto travagliata, ha riguardato grandi imperi ed è piena di invasioni straniere, ben prima di quella degli Stati Uniti. Il Post.it il 29 agosto 2021. Dopo la conquista di Kabul da parte dei talebani, due settimane fa, molti giornali hanno recuperato un vecchio e notissimo cliché sull’Afghanistan. Il paese, secondo una definizione che ha origini contestate, sarebbe “la tomba degli imperi”, sia perché in molti hanno provato a conquistarlo senza riuscirci, sia perché, come nel caso dell’Unione Sovietica, invadere l’Afghanistan fu l’ultimo atto prima del crollo definitivo. In realtà, l’Afghanistan ha conosciuto diverse invasioni straniere di discreto successo, e la sua fama – dovuta a molte condizioni, tra cui le asperità del terreno e del clima – si può dire guadagnata soltanto a partire dal Diciannovesimo secolo. Soprattutto, la storia del paese è molto più profonda, e le sue relazioni con le grandi potenze degli ultimi secoli hanno un’enorme complessità. La storia anche remota dell’Afghanistan ha contribuito a generare molti problemi che si trascinano ancora oggi, e che in parte hanno influenzato la situazione degli ultimi anni.

Le origini. L’Afghanistan era noto con questo nome (che significa “terra degli afgani”) già nel Settecento, all’epoca della dominazione della dinastia Durrani, il cui capostipite Ahmad Shah Durran-i-Durrani è considerato il padre del moderno Afghanistan. Nonostante in antichità questa parte di territorio nel mezzo dell’Asia Centrale fosse considerata impossibile da conquistare, in realtà è stata attraversata e spesso conquistata da diversi imperi, tra cui quello di Alessandro Magno – fondatore di Herat, oggi terza città più grande del paese – e quello mongolo, che nel 1221 invase l’Afghanistan distruggendo le coltivazioni e rendendolo un territorio prevalentemente deserto.

Come ha scritto lo storico militare Stephen Tanner nel suo libro Afghanistan: A Military History from Alexander the Great to the War against the Taliban, l’invasione mongola ha inciso moltissimo sui caratteri dell’Afghanistan nei secoli a venire: Il fatto che l’Afghanistan sia considerato oggi non un paese fragile, ma duro e ostile – pronto alla guerra, piuttosto che disposto alla resistenza passiva – dipende dalla pressoché totale distruzione dell’elemento sedentario della sua popolazione proprio in quest’epoca. Città e fattorie, che basavano la propria vita su tecniche di coltivazione vecchie di secoli, si trovarono indifese sul cammino delle orde mongole, mentre una larga parte delle popolazioni nomadi fu in grado di eludere il loro attacco. Già all’epoca, e anche nei secoli precedenti, queste terre erano abitate da una grande varietà di popoli con culture e lingue molto differenti. Semplificando all’estremo, oggi si distinguono tre grandi gruppi: i pashtun, che vivono prevalentemente lungo il confine pachistano (in larga parte, i talebani fanno parte di questa etnia); gli hazari, musulmani sciiti; e i gruppi etnici dell’Asia Centrale (turcomanni, tagiki e uzbeki). Anche se costituito da territori aspri e desertici, l’Afghanistan è sempre stato suo malgrado l’obiettivo dell’espansionismo di imperi vicini e lontani, principalmente per la sua posizione strategica. Incuneato tra il subcontinente indiano, la Cina, l’ex impero zarista e l’Iran, l’Afghanistan era un passaggio obbligato verso tutte queste zone del mondo, e infatti nel corso dei secoli è stato attraversato da importanti strade carovaniere della zona, fonti di grossi guadagni al tempo in cui non c’erano le varie compagnie europee delle Indie (fondate nel Seicento) e le vie commerciali transoceaniche non erano ancora sviluppate. Tuttavia, gli eventi storici che più hanno contribuito a portare il paese a dove si trova oggi sono accaduti negli ultimi due secoli, a partire dalla disputa nota come The Great Game, il “grande gioco” tra Russia e Regno Unito. Si ritiene che il nome sia dovuto a una corrispondenza del 1840 tra l’ufficiale Henry Rawlinson e un maggiore appena nominato rappresentante politico a Kandahar, in cui il primo disse al secondo di trovarsi di fronte a «un grande e nobile gioco», riferendosi alla sua missione. Il termine è stato poi reso popolare dallo scrittore Rudyard Kipling nel suo romanzo Kim.

L’Ottocento. All’inizio dell’Ottocento erano almeno tre le potenze che avevano interessi nell’Asia Centrale: l’impero britannico, che stava consolidando il proprio dominio nella vicina India, la Francia di Napoleone e la Russia zarista. Dopo l’uscita di scena di Napoleone, nel 1815, rimasero russi e inglesi a contendersi il territorio: i primi puntavano a espandersi verso Kabul, i secondi temevano un’avanzata russa verso i propri possedimenti a sud, nella valle dell’Indo, e si erano alleati con i sikh, storici e odiati rivali degli afgani. All’epoca il dominio sul paese era conteso tra l’emiro Dost Mohammed e Shah Shujah Durrani, uno degli ultimi membri della famiglia ormai decaduta del fondatore dell’Afghanistan moderno, sostenuto dal Regno Unito ma in gran parte privo di controllo sul territorio. Shah Sujah nel 1838 firmò a Lahore un trattato assieme a inglesi e ai loro alleati sikh che avrebbe cambiato in maniera profonda la storia dell’Afghanistan. In cambio della protezione di inglesi e sikh, infatti, Shah Sujah cedette di fatto la ricca e fertile valle di Peshawar, che nel tempo entrò a far parte dell’Impero britannico e poi del moderno Pakistan. Fu il primo embrione della divisione del popolo di etnia pashtun, che abitava nella zona e nelle valli vicine e si trovò diviso tra due imperi e poi due paesi differenti. Ancora oggi questa divisione è al centro del rapporto al tempo stesso conflittuale e simbiotico che permane tra Afghanistan e Pakistan.

Nel suo libro Le guerre afgane, lo storico Gastone Breccia scrive: Molti guai di oggi – la divisione dell’etnia pashtun tra Pakistan e Afghanistan, l’ingovernabilità delle aree tribali tra i due paesi, l’intolleranza religiosa dei musulmani della zona – hanno la loro origine negli accordi di Lahore del 1838, sottoscritti da un sovrano ancora senza terra e senza prestigio a esclusivo vantaggio di due potenze straniere, che non sarebbero mai state davvero amiche dell’Afghanistan e della sua gente. Nel dicembre del 1838, 10mila soldati inglesi entrarono in Afghanistan formalmente per aiutare Shah Shujah a liberare la città di Herat, in quel momento assediata dai persiani (alleati della Russia). Nel giro di poco tempo però i persiani si ritirarono, e l’invasione inglese si trasformò in una mera operazione militare per includere l’Afghanistan nella sfera d’influenza dell’Impero, nota come Prima guerra anglo-afgana. Inizialmente l’operazione ebbe successo: Shah Sujah fu insediato a capo dell’Afghanistan. Ma nel giro di poco tempo gli inglesi incontrarono enormi resistenze da parte dei gruppi armati locali sostenitori di Dost Mohammed. La dinamica della campagna britannica e della reazione afgana secondo Breccia è per certi versi paragonabile alla situazione del 2001. Come gli Stati Uniti, anche gli inglesi raggiunsero il loro obiettivo iniziale, ma si trovarono di fronte al problema di come mantenere il controllo della situazione. In una lettera che Breccia cita nel suo libro, l’ufficiale Henry Rawlinson – quello che parlava del “grande e nobile gioco” – prospettò alcune alternative simili a quelle che probabilmente si sono trovati davanti gli strateghi americani un secolo e mezzo dopo: «I mullah stanno predicando contro di noi da un capo all’altro della regione» scrisse Rawlinson. «Vi sono soltanto tre linee d’azione che possiamo seguire di qui in avanti: possiamo abbandonare il paese, e sperare di mantenere Shah Shujah sul trono grazie alla nostra influenza politica […]; in alternativa, faremmo bene a mettere a ferro e fuoco alcuni dei distretti dove si annidano gli insorti […]; la terza possibilità, infine, è quella di tentare di mantenere il controllo militare del paese, ma pagando un prezzo immenso in denaro e sangue, e rinunciando in partenza alla prospettiva di poter stabilire un limite di tempo sicuro per questa emorragia inflitta al nostro tesoro indiano. In ogni caso, gli inglesi non dovettero decidere perché nel giro di un paio d’anni le rivolte ebbero la meglio e l’esercito inglese – l’Armata dell’Indo – venne costretto alla ritirata in maniera piuttosto disonorevole. Lo Shah Shujah venne assassinato nell’aprile 1842 e Dost Mohammed si insediò a capo del paese. Nonostante l’esito disastroso della Prima guerra anglo-afgana, tra il 1878 e il 1880 se ne combatté una seconda, in una rinnovata fase del Great Game tra Russia e impero britannico. Il secondo conflitto andò un po’ meglio per i britannici, che ottennero una certa influenza sul governo afghano. Poco dopo la fine della guerra, nel 1893, il diplomatico britannico Mortimer Durand negoziò con l’emiro afghano Abdur Rahman Khan i limiti delle rispettive sfere di influenza. Il risultato fu la cosiddetta linea Durand, lunga 2.670 chilometri, che ancora oggi definisce il confine tra Afghanistan e Pakistan, e che con il tempo sancì definitivamente la divisione della popolazione pashtun. Nella Terza guerra anglo-afgana, anche nota come Guerra di indipendenza e combattuta nel 1919, gli afgani riuscirono infine a guadagnare autonomia sui britannici. Dopo questa guerra, il Regno Unito riconobbe l’Afghanistan come stato indipendente.

Il Novecento. Durante la Seconda guerra mondiale il paese rimase neutrale. Dopo il 1945, con la rapida dissoluzione dell’impero coloniale britannico, il governo di Kabul e l’emiro Mohammad Zahir Shah tentarono di superare la linea Durand per far nascere un Pashtunistan, uno stato pashtun, e risolvere così le annose dispute territoriali e religiose con il Punjab pakistano, ma l’operazione non ebbe successo. Negli anni Cinquanta si cominciò a formare un nuovo Great Game, in parallelo alla Guerra Fredda. Al posto della Russia degli zar c’era quella sovietica, al posto del Regno Unito gli Stati Uniti. Nel 1953 divenne primo ministro Mohammad Daoud, cugino dell’emiro, che cercò di avvicinarsi agli americani, data la storica diffidenza nei confronti dei russi. Le missioni diplomatiche andarono però piuttosto male e l’Afghanistan cominciò ad avvicinarsi sempre di più all’orbita sovietica: il primo viaggio all’estero di Nikita Krusciov, successore di Stalin, fu proprio in Afghanistan. Nel 1973 Daoud organizzò un colpo di stato, abolì la monarchia e dichiarò l’Afghanistan una repubblica: per farlo, si servì dell’appoggio di un partito comunista afgano clandestino (PDPA, Partito democratico del popolo afgano) costituito pochi anni prima con l’aiuto dei sovietici, che ben presto se ne servirono per preparare il terreno per una futura egemonia. Il 17 aprile 1978 uno dei fondatori del PDPA, Mir Akbar Khyber, venne assassinato in circostanze oscure, e i suoi funerali si trasformarono in una grossa manifestazione antigovernativa. Daoud tentò di arrestare i dirigenti del partito, ma si mosse troppo tardi e il 27 aprile ci fu un nuovo colpo di stato: l’Afghanistan era diventato una repubblica socialista, con a capo (in un governo inizialmente collegiale, poi autocratico) Hafizullah Amin, di professione insegnante. A prima vista poteva sembrare una notizia positiva per i sovietici, ma presto si capì che i comunisti afgani erano incontrollabili. Nel corso dei venti mesi in cui il PDPA e Amin governarono l’Afghanistan, si calcola che più di 20 mila persone siano state uccise. Moltissime appartenevano allo stesso partito, sottoposto da Amin e dai suoi colleghi a feroci e periodiche purghe. A chi gli consigliava un approccio graduale, Amin mostrava il ritratto di Stalin che teneva in un ufficio e ricordava che l’unico modo di modernizzare un paese arretrato era usare la stessa ferocia applicata dal dittatore sovietico. Questi metodi provocarono forti e brutali insurrezioni nel paese, con gruppi armati di mujaheddin (così venivano e vengono ancora oggi chiamati i guerriglieri nel paese) sostenuti dal Pakistan che ben presto cominciarono a conquistare ampie zone rurali, e perfino minacciare grandi città come Herat. All’inizio l’Unione Sovietica tentò di restare fuori da quello che accadeva nel paese, ma poi dovette cedere. Lo storico e diplomatico britannico Rodric Braithwaite ha raccontato nel suo libro Afgantsy che ciò che fece scattare i sovietici fu l’assassinio da parte di Amin del presidente afgano, Nur Muhammad Taraki, il leader locale più vicino a Mosca. A quel punto i sovietici capirono di aver perso il controllo: il paese era diviso tra Amin, un dittatore sanguinario che non rispondeva agli ordini di Mosca, e la guerriglia anticomunista. Il 25 dicembre 1979 – la data con cui tradizionalmente si fa coincidere l’inizio dell’invasione – arrivarono a Bargram, poco lontano da Kabul, enormi aerei da trasporto sovietici carichi di soldati. I vertici sovietici avevano in mente due obiettivi: una rapida operazione di contro-insurrezione contro la guerriglia e un’altrettanto rapida sostituzione di Amin, possibilmente con meno vittime possibili. Il 28 dicembre i sovietici riuscirono ad avere la meglio su Amin, dopo una lunga battaglia attorno al palazzo presidenziale, e a nominare un sostituto, Babrak Karmal, il quale annunciò via radio che la “macchina della tortura di Amin” era stata distrutta e che il paese si avviava verso una nuova epoca di pace e prosperità. Ma l’altro obiettivo, quello di sconfiggere la guerriglia, si rivelò impossibile da realizzare. Iniziò una lunga occupazione, in cui i sovietici rimasero impelagati per dieci anni senza riuscire a domare le insurrezioni e la resistenza dei mujaheddin, che a un certo punto furono sostenuti anche dagli Stati Uniti. Tra tutti gli avvenimenti recenti e meno recenti della storia afgana, l’invasione sovietica è probabilmente quello che più di tutti ha contribuito a radicalizzare la politica del paese e impoverire la società afgana. Le truppe sovietiche si ritirarono nel 1989 e lasciarono un Afghanistan lacerato dai conflitti interni alle stesse fazioni che avevano combattuto contro di loro, e iniziò una sanguinosa guerra civile. Nel 1994 il mullah Omar, che aveva combattuto tra i mujaheddin, formò il gruppo islamista radicale dei talebani che nel 1996 prese il potere e che ospitò in Afghanistan le basi dell’organizzazione terroristica al Qaida. Nel 2001 il leader di al Qaida, Osama bin Laden, organizzò l’attentato terroristico contro le Torri Gemelle di New York e contro l’edificio del Pentagono a Washington. In risposta, gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan. 

 A Kabul la sera andavamo all'Atmosphere. di Giuliano Battiston su La Repubblica il 31 agosto 2021. Cucina francese, superalcolici e wifi: gli expat occidentali raccontano le notti in cui si illudevano che la capitale afghana fosse una città normale. Una stagione finita ben prima del ritorno dei talebani. In Afghanistan Bruce Chatwin inseguiva i kafir, la misteriosa popolazione del Kafiristan, la terra degli “infedeli” che per ultima si convertì all’Islam diventando Nuristan, la terra della luce. Gli expat cercavano invece i cocktail dell’Atmò, il più famoso locale per stranieri di Kabul. Il 15 agosto 2021 la capitale è finita nelle mani dei talebani, dopo una rapidissima offensiva militare che ha messo fine alla Repubblica islamica d’Afghanistan, nata nel 2001 dopo il rovesciamento dell’Emirato.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 25 agosto 2021. L'Afghanistan ha meno di 300 anni e non ha avuto un Garibaldi o un Dante ad unirlo. Piuttosto è il prodotto dello spazio vuoto tra pieni altrui. Fino a che deve difendersi da un'aggressione esterna ha dimostrato efficienza: il soprannome di tomba degli imperi, non si guadagna per caso. Nei venti anni di occupazione terminati il 15 agosto, l'Occidente ha cambiato la Costituzione, centralizzato l'amministrazione, introdotto l'idea di una testa un voto. Ma tutto questo è svanito davanti a dei guerrieri barbuti arrivati nella capitale in motocicletta senza una fucilata dai «nuovi afghani democratici». Prima di noi i sovietici non si erano comportati molto diversamente (eccetto per il dettaglio del voto). Anche loro avevano cambiato la Costituzione, abolito la monarchia, centralizzato lo Stato, portato modernità. In entrambi i casi (sovietico e occidentale) l'opposizione è venuta dalle campagne, dalle province, dalla rete tribale ed etnica. I talebani devono ora costruire un loro Stato. Cercheranno di evitare gli errori di chi hanno sconfitto. Forse cercheranno anche di non ripetere gli errori del loro primo Emirato. I secoli sono lenti a passare se il figlio fa lo stesso lavoro del padre e del nonno e, a guardare le miniature del 1700, il modo di annodare i turbanti è cambiato di poco. Allora l'Afghanistan non esisteva, c'era invece l'Impero Mogul. Era un potere moribondo di cavalli e spade che univa gli altopiani a nord dell'Hindo Kush all'India. Ne approfittò la Persia per saccheggiare qualsiasi città si trovasse sulla strada verso Delhi. Le stragi furono raccapriccianti, ma il bottino magnifico. Per tre anni lo shah smise di chiedere tasse. Spariti i Moghul, ritiratosi il persiano, le tribù dell'altopiano pensarono a come difendersi dal prossimo invasore. Erano genti diverse, con lingue diverse, di etnia diversa. Li univa solo la fede nell'Islam sunnita e il fatto di avere nemici pericolosi. A nord i cristiani ortodossi russi. A sud i pagani Hindu e buddisti. A ovest gli «eretici» sciiti persiani. Il loro non era uno spazio definito se non come risultato dell'assenza degli altri. Le tribù si riunirono in assemblea (Loya Jirga) e scelsero il re, il Dur-i-Durran, perla delle perle. La tribù Abdali cambiò subito il nome in Durrani. Erano pashtun (come oggi i talebani), ma a quella Loya Jirga c'erano delegati delle tribù tajike, hazara, baluchi, uzbeke, le stesse etnie che ancora oggi vivono nel Paese. Da allora la storia afghana è stata una costante concorrenza tra il ruolo dell'amministrazione comune e quello delle tribù con supremazia delle seconde. Il rapporto di forza cambia quando l'emiro può usare le armi abbandonate dai britannici nel 1919 e, paradossalmente, uno dei suoi successi di centralizzazione fu la diffusione del burqa usato fino ad allora solo dalle sue concubine. Fino al golpe filosovietico del 1979 la Loya Jirga continua però ad avere un ruolo fondamentale. I talebani convocheranno una nuova assemblea tribale? Gli americani lo fecero, ma non bastò perché la parte talebana ne venne esclusa e il nuovo capo, Hamid Karzai, pashtun come da tradizione, era stato imposto dall'esterno non selezionato tra le tribù. I talebani parlano di «mettersi alle spalle il passato», di «amnistia», hanno persino fatto l'elogio del loro più accanito nemico, il tajiko Ahmad Shah Massoud, chiamandolo «eroe nazionale». Durante il loro primo Emirato combatterono le minoranze, tentarono di imporre a tutti il loro «Amir-ul-mominin», il comandante dei fedeli, mullah Omar. Volevano espandere la loro visione dell'Islam o, forse meglio, il loro codice di condotta tribale, il pashtun wali, che va oltre i precetti religiosi e comprende la segregazione dei sessi come l'ospitalità. I primi talebani erano guerrieri, montanari e analfabeti. Oggi i loro leader hanno trascorso all'estero gran parte di questi venti anni. Hanno visto un mondo diverso anche se islamico. Hanno vissuto nel Pakistan repubblicano dei grandi partiti familiari e ideologici erede del colonialismo britannico. Paese potente e filoamericano dove convivono lapidazione e bomba atomica. Hanno vissuto nelle monarchie del Golfo, con le loro donne velate e i grattacieli dove tutto è possibile, anche una televisione come Al Jazeera, con giornaliste donne a fare domande scomode a qualunque uomo potente. Hanno conosciuto la prima Repubblica Islamica del mondo, l'Iran che offre loro un modello perfetto con una Guida suprema religiosa che decide e uno eletto che fa solo da facciata. Cos'hanno in mente quando parlano di «governo inclusivo»? Il tajiko Ahmad figlio del leggendario Ahmad Shah Massoud che non si è arreso alla occupazione talebana sostiene che una «Confederazione su modello svizzero potrebbe funzionare». In ogni caso, il modello talebano non potrà dimenticare la storia dei suoi abitanti: quelli che non sono persiani, indù, cristiani, buddisti... e non hanno altro posto dove vivere.

L’11 settembre 2001.

Attentati dell'11 settembre 2001. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Gli attentati dell'11 settembre 2001 furono una serie di quattro attacchi suicidi coordinati compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d'America da un gruppo di terroristi appartenenti all'organizzazione terroristica al Qaida. Gli attacchi causarono la morte di 2.977 persone (più 19 dirottatori) e il ferimento di oltre 6.000. Negli anni successivi si verificarono ulteriori decessi a causa di tumori e malattie respiratorie legate alle conseguenze degli attacchi. Per questi motivi e per gli ingenti danni infrastrutturali causati, tali eventi sono spesso considerati dall'opinione pubblica come i più gravi attentati terroristici dell'età contemporanea. La mattina di Martedì 11 settembre 2001 quattro aerei di linea, appartenenti a due delle maggiori compagnie aeree statunitensi (United Airlines e American Airlines) furono dirottati da 19 terroristi appartenenti ad al Qaida. Due aerei (il volo American Airlines 11 e il volo United Airlines 175) furono fatti schiantare rispettivamente contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center, nel quartiere della Lower Manhattan di New York. Nel giro di 1 ora e 42 minuti entrambe le torri crollarono. I detriti e gli incendi causarono poi il crollo parziale o totale di tutti gli altri edifici del complesso del World Trade Center. Un terzo aereo, il volo American Airlines 77, fu fatto schiantare contro il Pentagono, sede del Dipartimento della Difesa, nella contea di Arlington in Virginia. L'attacco causò il crollo della facciata ovest dell'edificio. Un quarto aereo, il volo United Airlines 93, venne fatto inizialmente dirigere verso Washington ma precipitò successivamente in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania, a seguito di una eroica rivolta dei passeggeri. I sospetti ricaddero quasi subito sull'organizzazione terroristica di al-Qaida. Gli Stati Uniti reagirono aprendo la stagione della “guerra al terrorismo” e attaccando l'Afghanistan al fine di deporre il regime dei Talebani, neutralizzare al-Qaida e catturare o uccidere il suo leader Osama bin Laden. Il Congresso approvò il Patriot Act, mentre altri Paesi rafforzarono le proprie legislazioni in materia di terrorismo e rafforzarono le misure di sicurezza interna. Sebbene Osama Bin Laden inizialmente negò ogni tipo di coinvolgimento, nel 2004 si dichiarò responsabile dei fatti dell'11 settembre. L'organizzazione terroristica islamica da lui guidata citò come moventi il supporto statunitense ad Israele, la presenza di truppe statunitensi in Arabia Saudita e le sanzioni contro l'Iraq. La distruzione del World Trade Center danneggiò l'economia della Lower Manhattan ed ebbe un significativo impatto sui mercati globali, causando anche la chiusura di Wall Street fino al 17 settembre. La rimozione dei detriti dal sito del World Trade Center (poi denominato Ground Zero) fu completata solo nel maggio 2002. I danni al Pentagono furono riparati nel giro di un anno. Il 18 novembre 2006 iniziò la costruzione del One World Trade Center, inaugurato il 3 novembre 2014. Tra i vari monumenti e memoriali eretti in onore delle vittime degli attentati, a New York, sui luoghi dove sorgeva il complesso del World Trade Center, si trova il National September 11 Memorial & Museum; nella Contea di Arlington è stato inaugurato il Pentagon Memorial; nei pressi di Shanksville, Pennsylvania, è invece situato il Flight 93 National Memorial.

Premessa. Le origini di Al-Qāʿida sono da ricercare nell'invasione sovietica dell'Afghanistan del 1979. Dopo l'invasione, Osama bin Laden si recò in Afghanistan per collaborare con l'organizzazione dei mujahidin arabi e per la creazione di Maktab al-Khidamat, una formazione il cui scopo era quello di raccogliere fondi e assoldare mujaheddin stranieri per resistere all'Unione Sovietica. Nel 1989, con il ritiro delle forze sovietiche dal conflitto afghano, il Maktab al-Khidamat si trasformò in una "forza di intervento rapido" del jihād contro i nemici del mondo islamico. Sotto la guida di Ayman al-Zawahiri, Bin Laden assunse posizioni più radicali nei confronti dell'Occidente. Nel 1996, Osama Bin Laden promulgò la prima fatwā, intimando ai soldati americani di lasciare il territorio dell'Arabia Saudita. Una seconda fatwā fu promulgata nel 1998, con un attacco diretto alla politica estera degli Stati Uniti d'America, con particolare riferimento ad Israele ed alla persistente presenza di truppe statunitensi in Arabia Saudita, anche dopo la fine della guerra del Golfo. Bin Laden citò testi dell'Islam per esortare i musulmani ad intraprendere azioni di forza contro gli statunitensi fino a quando i problemi sollevati non fossero stati risolti. Egli fece notare come «durante tutta la storia dei popoli islamici, gli ʿulamāʾ abbiano unanimemente affermato l'idea che il jihād rappresenti un dovere individuale se il nemico devasta i Paesi musulmani».

Osama Bin Laden. Osama Bin Laden diresse gli attentati, ma in un primo momento negò ogni tipo di coinvolgimento salvo poi ritrattare. Il 16 settembre 2001, Al Jazeera trasmise un comunicato di Bin Laden nel quale dichiarò: “Sottolineo che non ho compiuto io questo atto, il quale sembra essere stato compiuto da individui con proprie motivazioni”. Nel novembre 2001, forze statunitensi ritrovarono un nastro in una casa distrutta a Jalalabad, in Afghanistan. Nel video si vede Bin Laden dialogare con Khaled al-Harbi e ammettere di essere a conoscenza degli attacchi prima del loro compimento. Il 27 dicembre 2001, fu diffuso un secondo filmato, nel quale, pur continuando a negare ogni responsabilità, affermò: «È divenuto chiaro che l'Occidente in generale e l'America in particolare nutrono un inimmaginabile odio verso l'Islam… è l'odio dei crociati. Il terrorismo contro l'America merita di essere premiato perché è una risposta all'ingiustizia, diretta a costringere l'America a fermare il suo supporto ad Israele, che uccide la nostra gente… Noi sosteniamo che la fine degli Stati Uniti è imminente... perché il risveglio della nazione islamica è giunto». Tuttavia, poco prima delle elezioni presidenziali americani del 2004, Bin Laden usò un video messaggio per ammettere il coinvolgimento di al-Qāʿida negli attentati dell'11 settembre 2001. Egli ammise il suo diretto coinvolgimento negli attacchi, dicendo di averli compiuti perché: «... siamo liberi… e vogliamo riconquistare la libertà per la nostra nazione. Come voi minacciate la nostra sicurezza, così noi minacciamo la vostra.» Bin Laden disse di aver personalmente diretto i suoi seguaci ad attaccare il World Trade Center e il Pentagono. Un altro video ottenuto da Al Jazeera nel settembre 2006 mostra bin Laden e Ramzi bin al-Shibh, così come due dirottatori, Hamza al-Ghamdī e Wāʾil al-Shehrī, durante i preparativi per l'attacco. Gli Stati Uniti non hanno mai incriminato bin Laden per gli attentati dell'11 settembre, ma egli era già stato inserito nella lista dell'FBI dei più ricercati per gli attacchi alle ambasciate americane di Dar es Salaam in Tanzania e di Nairobi in Kenya20]. Osama Bin Laden è stato ucciso il 2 maggio 2011 dalle forze speciali americane, dopo una caccia all'uomo durata dieci anni, ad Abbottabad, in Pakistan. Khalid Shaykh Muhammad. Yosri Fouda, giornalista per il canale televisivo arabo Al Jazeera, riportò che nell'aprile 2002 Khalid Shaykh Muhammad ammise il suo coinvolgimento negli attacchi, insieme a Ramzi bin al-Shibh. Il Rapporto della Commissione sull'11 settembre stabilì che il forte risentimento di Muhammad verso gli Stati Uniti traeva origine dal “violento disaccordo sulla politica estera statunitense favorevole ad Israele". Muhammad era stato inoltre un consigliere e finanziatore dell'attentato al World Trade Center del 1993 e zio di Ramzi Yusuf, leader del gruppo degli attentatori in quell'attacco. Muhammad fu arrestato il 1º marzo 2003 a Rawalpindi, in Pakistan, da ufficiali pakistani sotto il comando della CIA. Fu in seguito tenuto in più prigioni segrete della CIA e nel campo di prigionia di Guantanamo, dove fu interrogato e torturato con metodi come il waterboarding. Durante le udienze nella prigione di Guantanamo, Muhammad confessò nuovamente la propria responsabilità per gli attentati, dichiarando che “era stato responsabile degli attacchi dell'11 settembre dalla A alla Z” e che tale dichiarazione non era compiuta sotto costrizione alcuna.

Altri membri di al-Qāʿida. Durante il processo di Zakariyya Musawi, cinque persone furono identificate come soggetti aventi una conoscenza dettagliata delle operazioni. Esse erano: bin Laden, Khalid Shaykh Muhammad, Ramzi bin al-Shibh, Abu Turab al-Urdunni e Mohammed Atef. Ad oggi, solo figure marginali sono state processate o condannate per gli attacchi. Il 26 settembre 2005, la Audiencia Nacional spagnola condannò Abu Dahdah a 27 anni di prigione per cospirazione negli attacchi dell'11 settembre e per essere membro di un'associazione terroristica quale al Qaida. Allo stesso tempo, altri 17 membri di al-Qāʿida furono condannati a pene tra i sei e i gli 11 anni. Il 6 febbraio 2006, la Suprema corte spagnola ha ridotto la pena di Abu Dahdah a 12 anni perché ha considerato non provata la sua partecipazione alla cospirazione. Sempre nel 2006, Musawi, che alcuni inizialmente sospettarono essere il ventesimo dirottatore, fu condannato per cospirazione al fine di commettere atti di terrorismo e di pirateria aerea. Fu condannato all'ergastolo negli Stati Uniti. Munir el-Mutasaddiq, un associato del nucleo di dirottatori di Amburgo, trascorse 15 anni in un una prigione tedesca per il suo ruolo nella preparazione del dirottamento. Rilasciato nell'ottobre del 2018, fu deportato in Marocco. La “cellula di Amburgo” includeva musulmani radicalizzati che divennero poi cruciali negli attacchi dell'11 settembre. Mohammed ʿAhā, Marwan al-Shehhi, Ziyād Jarrāh, Ramzi bin al-Shibh e Sa'id Bahaji erano tutti membri della cellula di Amburgo.

Moventi. La dichiarazione di una “guerra santa” contro gli Stati Uniti e la fatwā del 1998, promulgata da bin Laden, insieme ad altre che invitavano ad uccidere americani, sono viste dagli investigatori come moventi dei fatti. Nella “Lettera all'America” del 2002, bin Laden ammette esplicitamente che le motivazioni degli attentati includono:

supporto statunitense ad Israele;

supporto agli “attacchi contro musulmani" in Somalia;

supporto alle Filippine contro i musulmani nell'insurrezione islamica nelle Filippine;

supporto alle "aggressioni" israeliane contro i musulmani in Libano;

supporto alle atrocità russe contro i musulmani in Cecenia;

presenza di governi filo-americani nel Medio Oriente;

supporto all'oppressione indiana contro musulmani in Kashmir;

presenza di truppe statunitensi in Arabia Saudita;

sanzioni contro l'Iraq.

Dopo gli attacchi, Bin Laden ed Al-Zawahiri rilasciarono videoregistrazioni e registrazioni audio, alcune dei quali ribadivano le ragioni degli attacchi. Bin Laden riteneva che Maometto avesse bandito la “costante presenza di infedeli in Arabia”. Nel 1996, bin Laden aveva lanciato una fatwā chiedendo l'abbandono immediato delle forze statunitensi. Nella fatwā del 1998 Al-Qāʿida scrisse: «...per oltre sette anni gli Stati Uniti hanno occupato i territori dell'Islam, il più sacro dei luoghi, la penisola araba, saccheggiando le sue ricchezze, dando ordini ai suoi governanti, umiliando la sua gente, terrorizzando i suoi vicini e trasformando le sue basi nella penisola in un avamposto tramite cui combattere i popoli musulmani vicini.» In un’intervista del dicembre 1999, Bin Laden disse di considerare gli americani troppo vicini a La Mecca e di valutare questa come una provocazione a tutto il mondo musulmano. Un’analisi del terrorismo suicida ha suggerito che se le truppe americane non fossero state in Arabia Saudita, probabilmente Al-Qāʿida non sarebbe stata in grado di reclutare attentatori suicidi. Nella fatwā del 1998, Al-Qāʿida identificò le sanzioni all'Iraq come una delle ragioni per cui uccidere americani, condannando il blocco prolungato ed altre azioni che costituivano, secondo esso, una dichiarazione di guerra contro "Allah, il suo messaggero e i musulmani”. La fatwa dichiarò che: «...l'ordine di uccidere americani e i loro alleati, civili e militari, è dovere di ogni musulmano che può farlo, in ogni nazione in cui è possibile, al fine di liberare la moschea di al-Aqsa e la santa moschea di La Mecca dalle loro mani, e affinché le loro armate se ne vadano dalle terre dell'Islam, sconfitti e incapaci di minacciare nessun musulmano.» Nel 2004, bin Laden disse che l'idea di distruggere le Torri Gemelle gli venne nel 1982, quando fu testimone del bombardamento israeliano di alti appartamenti durante la Guerra del Libano del 1982. Alcuni analisti sostengono che fu proprio il supporto americano ad Israele una della motivazioni degli attacchi. Nel 2004 e nel 2010, bin Laden collegò ancora una volta gli attentati dell'11 settembre al supporto americano ad Israele, anche se la maggior parte delle lettere esprimevano il disprezzo di bin Laden per il Presidente Bush e la sua speranza di distruggere e far fallire gli Stati Uniti. Altre motivazioni sono state suggerite, in aggiunta a quelle dichiarate da bin Laden e da Al-Qāʿida, tra cui il supporto occidentale a regimi autoritari islamici e non, in Arabia Saudita, Iran, Egitto, Iraq, Pakistan e nord Africa e la presenza di truppe occidentali in alcune di queste nazioni. Alcuni autori suggeriscono l'umiliazione che conseguì alla caduta del mondo islamico sotto il mondo occidentale - la cui discrepanza fu resa plastica soprattutto dalla globalizzazione - e il desidero di coinvolgere gli Stati Uniti in un vasto conflitto contro il mondo islamico nella speranza di motivare altri alleati a supportare Al-Qāʿida. Similmente, altri hanno contestato questa ricostruzione, secondo cui l'11 settembre fu una mossa strategica che aveva l'obiettivo di provocare gli Stati Uniti e coinvolgerli in una guerra che avrebbe incitato una rivoluzione panislamica.

Pianificazione. Lo stesso argomento in dettaglio: Dirottatori degli attentati dell'11 settembre 2001 e Ventesimo dirottatore. Gli attacchi furono concepiti da Khalid Shaykh Muhammad, che li descrisse per la prima volta a bin Laden nel 1996. A quel tempo, bin Laden ed Al-Qāʿida stavano vivendo un periodo di transizione, essendo appena ritornati in Afghanistan dal Sudan. Gli attentati alle ambasciate statunitensi del 1998 e la fatwā dello stesso anno segnarono un punto di svolta e lo stesso bin Laden iniziò a riflettere su un attacco diretto agli Stati Uniti. Sul finire del 1998 e l'inizio del 1999, bin Laden approvò il piano e diede il via libera a Muhammad per iniziare ad organizzare. Muhammad, Bin Laden e Mohammed Atef tennero una serie di incontri all'inizio del 1999. Atef fornì supporto alle operazioni, tra cui la scelta dell'obiettivo e aiutò ad organizzare i viaggi dei dirottatori. Bin Laden non approvò tutti i piani di Muhammad, rigettando possibili obiettivi come la U.S. Bank Tower a Los Angeles per mancanza di tempo. Bin Laden fornì leadership e supporto finanziario. Fu inoltre coinvolto nella selezione dei dirottatori. Inizialmente scelse Nawaf al-Hazmi e Khalid Al Mihdhar, entrambi reduci delle guerre in Bosnia. I due arrivarono negli Stati Uniti nel gennaio del 2000. In quel periodo presero lezioni di volo a San Diego, in California, ma entrambi parlavano poco la lingua e non brillarono nelle lezioni. Furono comunque scelti come dirottatori “secondari”. Sul finire del 1999, un gruppo di uomini provenienti da Amburgo arrivò in Afghanistan. Tra di loro vi erano Mohammed Atta, Marwan al-Shehhi, Ziad Jarrah e Ramzi Bin al-Shibh. Bin Laden li scelse per via della loro educazione, per la loro capacità nel parlare l'inglese e per la loro esperienza nel vivere in Occidente. Nuove reclute vennero costantemente vagliate per capacità speciali ed Al-Qāʿida di conseguenza scoprì che Hani Hanjour era già in possesso di una licenza da pilota. Muhammad disse in seguito che egli aiutò i dirottatori a mimetizzarsi, insegnando loro come ordinare cibo in ristorante e vestirsi in abiti occidentali. Hanjour arrivò in San Diego l'8 dicembre 2000, incontrandosi con Hazmi. Entrambi partirono poi per l'Arizona, dove Hanjour ricominciò ad esercitarsi. Marwan al-Shehhi giunse alla fine del maggio 2000, mentre Atta arrivò il 3 giugno 2000 e Jarrah il 27 giugno 2000. Bin al Shibhri chiese più volte un visto per gli Stati Uniti, ma essendo yemenita, esso gli fu negato. Bin al Shibh rimase ad Amburgo, fornendo collegamento tra Atta e Mohammed. I tre membri della cellula di Amburgo presero lezioni di volo in Florida. Nella primavera del 2001, i dirottatori secondari iniziarono ad arrivare negli Stati Uniti. Nel luglio 2001, Atta incontrò bin al-Shibh in Spagna, dove stabilirono dettagli del piano, incluso la scelta finale dell'obiettivo. Bin al-Shibh riferì anche il desiderio di Bin Laden che l'attacco fosse compiuto al più presto. Alcuni attentatori ebbero il loro passaporto grazie a corrotti ufficiali sauditi che erano famigliari o usarono passaporti falsi per entrare. Da talune fonti, si è ipotizzato che la data dell'attacco fosse stata scelta per la sua somiglianza con il numero telefonico di emergenza 911 (negli USA è abituale indicare prima il mese poi il giorno nelle date). Altre fonti sostengono che si tratti di un riferimento alla Battaglia di Vienna dell'11 settembre 1683 passata alla storia per aver segnato un punto di svolta profondo tra i mondi cristiano e islamico.

Prevenzione. Alla fine del 1999, il socio di Al Qaida Walid bin Attash ("Khallad") contattò Mihdhar, dicendogli di incontrarlo a Kuala Lumpur, in Malesia; anche Hazmi e Abu Bara al Yemeni sarebbero stati presenti. La NSA intercettò una telefonata che menzionava l'incontro, Mihdhar, e il nome "Nawaf" (Hazmi). Nonostante l'agenzia temesse che "qualcosa di nefasto potesse essere in corso", non prese ulteriori provvedimenti. La CIA era già stata avvisata dall'intelligence saudita in merito allo status di Mihdhar e Hazmi come membri di al-Qaida, e una squadra della CIA fece irruzione nella camera d'albergo di Dubai di Mihdhar e scoprì che Mihdhar aveva un visto statunitense. L'Alec Station avvisò le agenzie di intelligence in tutto il mondo di questo avvenimento, ma non condivise queste informazioni con l'FBI. La Filiale Speciale della Malesia osservò l'incontro del 5 gennaio 2000 dei due membri di al-Qaida e informò la CIA che Mihdhar, Hazmi e Khallad stavano volando a Bangkok, ma la CIA non lo notificò ad altre agenzie, né chiese al Dipartimento di Stato di inserire Mihdhar nella sua lista. Un intermediario dell'FBI con l'Alec Station chiese il permesso di informare l'FBI dell'incontro, ma gli venne detto che l'evento non fosse un problema riguardante l'FBI". Alla fine di giugno, il funzionario antiterrorismo Richard Clarke e il direttore della CIA George Tenet erano convinti che una serie di attacchi stesse per arrivare, anche se la CIA riteneva che gli attacchi sarebbero probabilmente avvenuti in Arabia Saudita o in Israele. All'inizio di luglio, Clarke mise le agenzie nazionali in "stato di allerta", dicendo loro: "Qualcosa di veramente spettacolare sta per accadere qui. Presto". Chiese all'FBI e al Dipartimento di Stato di allertare le ambasciate e i dipartimenti di polizia, e il Dipartimento della difesa di andare alla "Condizione delta", il massimo livello d'allerta del paese. In seguito Clarke scrisse: "Da qualche parte nella CIA c'erano informazioni secondo cui due noti terroristi di al Qaida erano venuti negli Stati Uniti. All'FBI c'erano informazioni che accadevano cose strane nelle scuole di volo negli Stati Uniti. Avevano informazioni specifiche sui singoli terroristi. Nessuna di queste informazioni è arrivata a me o alla Casa Bianca." Il 13 luglio, Tom Wilshire, un agente della CIA assegnato alla divisione internazionale del terrorismo dell'FBI, inviò per e-mail ai suoi superiori al Centro antiterrorismo della CIA chiedendo il permesso di informare l'FBI che Hazmi era nel paese e che Mihdhar aveva un visto per gli Stati Uniti. La CIA non ha mai risposto. Lo stesso giorno di luglio, Margarette Gillespie, un'analista dell'FBI che lavorava nel CTC, fu incaricata di rivedere il materiale sull'incontro in Malesia. Non venne informata della presenza dei partecipanti negli Stati Uniti. La CIA diede a Gillespie le foto di sorveglianza di Mihdhar e Hazmi dall'incontro per mostrarle all'antiterrorismo dell'FBI, ma non le disse il loro significato. Il database Intelink la informava di non condividere materiale di intelligence sulla riunione con investigatori criminali. Quando vennero mostrate le foto, all'FBI non furono concessi ulteriori dettagli sul significato e non fu loro fornita la data di nascita di Mihdhar né il numero del passaporto. Alla fine di agosto 2001, Gillespie disse all'INS, al Dipartimento di Stato, al Servizio doganale e all'FBI di mettere Hazmi e Mihdhar nelle loro liste di controllo, ma all'FBI fu proibito di usare agenti criminali nella ricerca del duo, che ostacolò i loro sforzi. Sempre a luglio, un agente dell'FBI con sede a Phoenix inviò un messaggio al quartier generale dell'FBI, Alec Station e agli agenti dell'FBI a New York, avvertendoli della "possibilità di uno sforzo coordinato di Osama bin Laden per inviare studenti negli Stati Uniti per frequentare università e college dell'aviazione civile". L'agente, Kenneth Williams, suggerì la necessità di intervistare tutti i dirigenti delle scuole di volo e identificare tutti gli studenti arabi in cerca di addestramento di volo. A luglio, la Giordania avvisò gli Stati Uniti che al-Qaida stava pianificando un attacco agli Stati Uniti; "mesi dopo", la Giordania notificò agli Stati Uniti che il nome in codice dell'attacco era "The Big Wedding" ("Il grande matrimonio") e che riguardava aeroplani. Il 6 agosto 2001, "l'Informativa presidenziale giornaliera" della CIA, designata "solo per il presidente", fu intitolato "Bin Ladin determinato a colpire gli Stati Uniti". Il memo notò che le informazioni dell'FBI "indicavano modelli di attività sospette in questo paese coerenti con i preparativi per dirottamenti o altri tipi di attacchi". A metà agosto, una scuola di volo del Minnesota avvisò l'FBI di Zakariyya Musawi, che aveva posto "domande sospette". L'FBI scoprì che Musawi era un radicale che aveva viaggiato in Pakistan e l'INS lo arrestò per aver soggiornato oltre la scadenza del visto francese. La loro richiesta di ricerca sul suo portatile fu respinta dal quartier generale dell'FBI a causa della mancanza di un indizio di colpevolezza. I fallimenti nella condivisione dell'intelligence furono attribuiti alle politiche del Dipartimento di Giustizia del 1995 che limitavano la condivisione dell'intelligence, combinate con la riluttanza della CIA e dell'NSA a rivelare "fonti e metodi sensibili" come i telefoni sotto controllo. Testimoniando davanti alla Commissione sull'11 settembre ad aprile 2004, l'allora procuratore generale John Ashcroft ricordò che "la più grande causa strutturale per il problema dell'11 settembre era il muro che segregava o separava investigatori del crimine e agenti di intelligence". Clarke scrisse anche: "Ci sono stati fallimenti nei fallimenti delle organizzazioni nel reperire informazioni nel posto giusto al momento giusto".

Gli attacchi.  Il mattino dell'11 settembre 2001, un martedì, diciannove dirottatori presero il comando di quattro aerei di linea passeggeri (due Boeing 757 e due Boeing 767) in viaggio verso la California (tre diretti all'Aeroporto Internazionale di Los Angeles ed uno all'Aeroporto Internazionale di San Francisco), decollati dall'Aeroporto Internazionale Logan di Boston, dall'Aeroporto Internazionale di Newark, in New Jersey, e dall'Aeroporto Internazionale di Washington-Dulles, in Virginia. Tutti gli aerei furono appositamente scelti perché pronti a lunghi voli e, quindi, carichi di carburante. Riassumendo, i quattro voli erano:

volo American Airlines 11: un aereo Boeing 767, partito dall'Aeroporto Internazionale Logan di Boston alle 7:59 e diretto a Los Angeles con a bordo 76 passeggeri, 11 membri dell'equipaggio e 5 dirottatori. Gli attentatori fecero schiantare il volo contro la Torre Nord del World Trade Center alle 8:46;

volo United Airlines 175: un aereo Boeing 767, partito anch'esso dall'Aeroporto Internazionale Logan di Boston, alle 8:14 e diretto a Los Angeles con a bordo 51 passeggeri, 9 membri dell'equipaggio e 5 dirottatori. L'aereo si andò a schiantare contro la Torre Sud del World Trade Center alle 9:03;

volo American Airlines 77: un aereo Boeing 757, decollato dall'Aeroporto Internazionale di Washington-Dulles alle 8:20 e diretto a Los Angeles con a bordo 53 passeggeri, 6 membri dell'equipaggio e 5 dirottatori. L'aereo si schiantò contro la facciata ovest del Pentagono, nella Contea di Arlington, in Virginia, alle 9:37;

volo United Airlines 93: un aereo Boeing 757, decollato dall'Aeroporto Internazionale di Newark, in New Jersey, alle 8:42, e diretto a San Francisco, con a bordo 33 passeggeri, 7 membri dell'equipaggio e 4 dirottatori. A causa di una rivolta dei passeggeri, l'aereo non colpì l'obiettivo previsto e precipitò in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania, alle 10:03. Si ritiene che l'obiettivo di questo sarebbe potuto essere il Campidoglio di Washington o la Casa Bianca.

La copertura mediatica degli avvenimenti fu molto estesa sia durante gli attacchi che dopo, iniziando pochi attimi dopo il primo attacco al World Trade Center.

I dirottamenti e gli attentati.

Alle 8:46, cinque dirottatori fecero schiantare il volo American Airlines 11 sulla facciata settentrionale della Torre Nord del World Trade Center (WTC 1). Alle 9:03, altri cinque dirottatori, al comando del volo United Airlines 175, fecero schiantare il velivolo nella facciata meridionale della Torre Sud (WTC 2). Cinque dirottatori, poi, diressero il volo American Airlines 77 contro la facciata ovest del Pentagono alle 9:37. Infine, alle 10:03, un quarto aereo, il volo United Airlines 93, precipitò in un campo in Pennsylvania al termine di uno scontro tra passeggeri e dirottatori. Si ritiene che l'obiettivo del volo 93 sarebbe potuto essere il Campidoglio di Washington o la Casa Bianca. Le registrazioni della scatola nera di quest'ultimo volo hanno infatti rivelato che l'equipaggio e i passeggeri tentarono di sottrarre il controllo dell'aereo ai dirottatori dopo aver saputo, per via telefonica, che quella mattina altri aerei erano stati dirottati e si erano schiantati contro degli edifici. Secondo la trascrizione della registrazione, uno dei dirottatori diede l'ordine di virare il velivolo quando fu chiaro che ne avrebbero perso il controllo a causa dei passeggeri. Poco dopo, l'aeroplano si schiantò in un campo vicino Shanksville, nella contea di Somerset (Pennsylvania), alle 10:03:11. In un'intervista rilasciata al giornalista di al Jazeera Yosri Foda, Khalid Shaykh Muhammad affermò che l'obiettivo del volo 93 era il Campidoglio di Washington, il cui nome in codice era «la facoltà di Legge». Nel corso dei dirottamenti, alcuni passeggeri e membri dell'equipaggio furono in grado di effettuare chiamate con l'apparecchio radiotelefonico aria-superficie della GTE e con i telefoni cellulari; costoro furono in grado di fornire dettagli su quanto stava accadendo. Si riuscì a comprendere come diversi dirottatori fossero a bordo di ciascun aeroplano e che costoro avevano usato spray urticante e lacrimogeni per sopraffare i membri dell'equipaggio e tenere i passeggeri fuori dalla cabina della prima classe. Si capì, inoltre, che alcune persone a bordo degli aerei erano state accoltellate. I terroristi avevano preso il controllo dei velivoli usando coltelli e taglierini per uccidere alcuni assistenti di volo e almeno un pilota o un passeggero, tra cui il comandante del volo 11, John Ogonowski. La Commissione d'indagine sugli attentati dell'11 settembre 2001 stabilì che due dei dirottatori avevano precedentemente acquistato attrezzi multifunzione di marca Leatherman. Un assistente di volo dell'American Airlines 11, un passeggero del volo 175 e alcuni passeggeri del volo 93 riferirono che i dirottatori avevano delle bombe, ma uno dei passeggeri disse anche di ritenere che si trattasse di ordigni inerti. Nessuna traccia di esplosivi fu trovata nei luoghi degli impatti. Il Rapporto della Commissione sull'11 settembre afferma che le bombe erano probabilmente false. Quel giorno, tre edifici del complesso del World Trade Center crollarono a causa di cedimenti strutturali. La Torre Sud (WTC 2), la seconda ad essere stata colpita, crollò alle 9:59, 56 minuti dopo l'impatto con il volo United Airlines 175, che aveva causato un'esplosione ed un conseguente incendio per via del carburante presente nell'aereo; la Torre Nord (WTC 1) crollò alle 10:28, dopo un incendio di circa 102 minuti. Il collasso del WTC 1 produsse dei detriti che danneggiarono la vicina 7 World Trade Center (WTC 7), la cui integrità strutturale fu ulteriormente compromessa dagli incendi, che portarono al crollo della penthouse est alle 17:20 di quello stesso giorno; l'intero edificio collassò completamente meno di un minuto dopo, alle 17:21 ora locale. Nella contea di Arlington, anche la facciata ovest del Pentagono subì ingenti danni. Il National Institute of Standards and Technology promosse delle investigazioni sulle cause del collasso dei tre edifici, successivamente allargando le indagini sulle misure per la prevenzione del collasso progressivo, chiedendosi ad esempio se la progettazione aveva previsto la resistenza agli incendi e se era stato effettuato un rafforzamento delle strutture in acciaio. Il rapporto riguardo alle Torri Nord e Sud fu terminato nell'ottobre 2005, mentre l'indagine sul WTC 7 è stata pubblicata il 21 agosto 2008: il crollo dell'edificio è stato causato dalla dilatazione termica, prodotta dagli incendi incontrollati per ore, dell'acciaio della colonna primaria, la numero 79, il cui cedimento ha dato inizio a un collasso progressivo delle strutture portanti vicine. Venuta a conoscenza dei dirottamenti e dei seguenti attacchi coordinati, alle 9:42 l'Amministrazione dell'Aviazione Federale (Federal Aviation Administration, FAA) bloccò tutti i voli civili all'interno dei confini degli Stati Uniti e ordinò a quelli già in volo di atterrare immediatamente. Tutti i voli civili internazionali furono fatti ritornare indietro o indirizzati ad aeroporti in Canada o Messico. A tutto il traffico aereo civile internazionale fu proibito di atterrare negli Stati Uniti per tre giorni. Gli attacchi crearono grande confusione tra le agenzie di notizie e i controllori del traffico aereo in tutti gli Stati Uniti per via di notizie non confermate e spesso contraddittorie: una delle ricostruzioni più diffuse raccontava di un'autobomba esplosa nella Segreteria di Stato degli Stati Uniti a Washington. Poco dopo aver dato notizia dell'incidente al Pentagono, la CNN e altre emittenti raccontarono anche di un incendio scoppiato al National Mall di Washington. Un altro rapporto fu diffuso dalla Associated Press, secondo il quale un Boeing 767 della Delta Air Lines, il volo 1989, era stato dirottato: anche questa notizia si rivelò poi un errore, in quanto si era effettivamente pensato che vi fosse quel pericolo, ma l'aereo rispose ai comandi dei controllori di volo e atterrò a Cleveland (Ohio).

Vittime. Le vittime degli attentati furono 2 977, esclusi i diciannove dirottatori: 246 su quattro aeroplani (87 sul volo American Airlines 11, 60 sul volo United Airlines 175, 59 sul volo American Airlines 77 e 40 sul volo United Airlines 93; non ci fu alcun superstite), 2.606 a New York e 125 al Pentagono. Altre 24 persone sono ancora elencate tra i dispersi. Oltre alle vittime civili c'erano anche 343 vigili del fuoco, 72 agenti delle forze dell'ordine e 55 militari che sono stati uccisi negli attacchi. Furono più di 90 i Paesi che persero cittadini negli attacchi al World Trade Center. Il NIST ha stimato che circa 17 400 civili erano presenti nel complesso del World Trade Center al momento degli attacchi, mentre i dati sui turisti elaborati dalla Port Authority of New York and New Jersey ("Autorità portuale di New York e del New Jersey") suggeriscono una presenza media di 14 154 persone sulle torri gemelle alle 8:45 del mattino. La gran parte delle persone al di sotto delle zone di impatto evacuò in sicurezza gli edifici, come pure 18 persone che si trovavano nella zona di impatto della Torre Sud; Al contrario, 1 366 delle vittime si trovavano nella zona di impatto o nei piani superiori della Torre Nord; secondo il Rapporto della Commissione, centinaia furono le vittime causate dall'impatto, mentre le restanti rimasero intrappolate e morirono a seguito del collasso della Torre. Quasi 600 persone furono invece uccise dall'impatto o morirono intrappolate ai piani superiori nella Torre Sud. Almeno 200 persone saltarono dalle Torri in fiamme e morirono, come raffigurato nell'emblematica foto The Falling Man ("L'uomo che cade"), precipitando su strade e tetti degli edifici vicini, centinaia di metri più in basso. Alcune persone che si trovavano nelle Torri al di sopra dei punti d'impatto salirono fino ai tetti degli edifici sperando di essere salvati dagli elicotteri, ma le porte di accesso ai tetti erano chiuse; inoltre, non vi era alcun piano di salvataggio con elicotteri e, quella mattina dell'11 settembre, il fumo denso e l'elevato calore degli incendi avrebbe impedito agli elicotteri di effettuare manovre di soccorso. Le vittime tra i soccorritori furono 411. Il New York City Fire Department (i vigili del fuoco di New York) perse 341 vigili del fuoco e 2 paramedici, tra cui il cappellano Mychal Judge (per il quale fu avviata una campagna di beatificazione); il New York City Police Department (la polizia di New York) perse 23 agenti, il Port Authority Police Department (la polizia portuale) 37. I servizi di emergenza medica privata persero altri 8 tecnici e paramedici. La Cantor Fitzgerald L.P., una banca di investimenti i cui uffici si trovavano ai piani 101-105 del WTC 1, perse 658 impiegati, più di qualunque altra azienda. La Marsh Inc., i cui uffici si trovavano immediatamente sotto quelli della Cantor Fitzgerald ai piani 93-101 (dove avvenne l'impatto del volo 11), perse 295 impiegati, mentre 175 furono le vittime tra i dipendenti della Aon Corporation. Dopo New York, lo Stato che ebbe più vittime fu il New Jersey, con la città di Hoboken a registrare il maggior numero di morti. È stato possibile identificare i resti di sole 1 600 delle vittime del World Trade Center; gli uffici medici raccolsero anche «circa 10 000 frammenti di ossa e tessuti non identificati, che non possono essere collegati alla lista dei decessi». Altri resti di ossa furono trovati ancora nel 2006, mentre gli operai approntavano il Deutsche Bank Building per la demolizione. La morte per malattie ai polmoni di alcune altre persone è stata fatta risalire alla respirazione delle polveri contenenti centinaia di composti tossici (come amianto, mercurio, piombo, ecc.) causate dal collasso del World Trade Center. La gravità dell'inquinamento ambientale derivante da tali polveri – che investirono tutta la punta sud dell'isola di Manhattan – fu resa nota al grande pubblico solo a distanza di circa quattro anni dall'evento: sino ad allora le agenzie governative statunitensi avevano sottovalutato o nascosto il rischio ambientale, forse allo scopo di non causare ulteriore panico e di rendere più spediti i soccorsi, lo sgombero delle macerie, il ripristino delle normali attività della città così gravemente ferita. Danni. Oltre alle Torri Gemelle, i due grattacieli di 110 piani, numerosi altri edifici del World Trade Center furono distrutti o gravemente danneggiati, inclusi il 7 World Trade Center, il Six World Trade Center, il Five World Trade Center, il Four World Trade Center, il Marriott World Trade Center e la chiesa greco ortodossa di San Nicola. Il Deutsche Bank Building, situato di là dalla Liberty Street rispetto al complesso del World Trade Center, è stato demolito in quanto l'ambiente all'interno dell'edificio era tossico e inabitabile. La Fiterman Hall del Borough of Manhattan Community College, situato al 30 West Broadway, ricevette gravi ed estesi danni durante gli attacchi, tanto da farne programmare la demolizione. Altri edifici limitrofi, come il 90 West Street e il Verizon Building, subirono gravi danni, ma sono stati riparati. Gli edifici del World Financial Center, la One Liberty Plaza, il Millennium Hilton, e 90 Church Street riportarono danni moderati. Anche gli impianti di telecomunicazioni situati sulla torre settentrionale andarono distrutti, incluse le antenne di trasmissione radio e televisive e i ponti radio, ma le stazioni degli organi di informazioni re-instradarono rapidamente i segnali e ripresero le trasmissioni. Nella contea di Arlington, una porzione del Pentagono fu gravemente danneggiata dall'impatto e dal successivo incendio, e una sezione dell'edificio crollò.

Operazioni di salvataggio e soccorso. Successivamente agli attacchi alle Torri gemelle, il New York City Fire Department inviò rapidamente sul sito 200 unità, pari a metà dell'organico del dipartimento, che furono aiutati da numerosi pompieri fuori-servizio e da personale dei pronto soccorso. Il New York City Police Department inviò delle unità speciali dette "Emergency Service Units" e altro personale. Durante i soccorsi, i comandanti dei vigili del fuoco, della polizia e dell'Autorità portuale ebbero difficoltà a condividere le informazioni e a coordinare i loro sforzi, tanto che vi furono duplicazioni nelle ricerche dei civili dispersi invece che ricerche coordinate. Con il peggiorare della situazione, il dipartimento di polizia, che riceveva informazioni degli elicotteri in volo, fu in grado di diffondere l'ordine di evacuazione che permise a molti dei suoi agenti di allontanarsi prima del crollo degli edifici; tuttavia, poiché i sistemi di comunicazione radio dei dipartimenti di polizia e di vigili del fuoco erano incompatibili, questa informazione non fu inoltrata ai comandi dei vigili del fuoco. Dopo il collasso della prima Torre, i comandanti dei vigili del fuoco trovarono difficoltà a inviare gli ordini di evacuazione ai pompieri all'interno della torre, a causa del malfunzionamento dei sistemi di trasmissione all'interno del World Trade Center. Persino le chiamate al 911 (il servizio di emergenza) non furono correttamente inoltrate. Un'enorme operazione di ricerca e salvataggio fu lanciata dopo poche ore dagli attacchi; le operazioni cessarono alcuni mesi dopo.

Attentatori e loro moventi. Gli attentatori dell'11 settembre appartenevano al gruppo al-Qa'ida guidato da Osama bin Laden e gli attacchi sono il risultato degli obiettivi formulati nella fatwā emessa dallo stesso Osama bin Laden oltre che Ayman al-Zawahiri, Abū Yāsir Rifāʿī Ahmad Hāhā, Mir Hamza e Fazlur Rahman, la quale dichiarava che fosse «dovere di ogni musulmano uccidere gli americani in qualunque luogo».

Al-Qāʿida. L'origine di al-Qāʿida risale al 1979, anno dell'invasione sovietica dell'Afghanistan; poco dopo l'invasione, Osama bin Laden si recò in Afghanistan per collaborare con l'organizzazione dei mujahidin arabi e alla creazione di Maktab al-Khidamat, una formazione il cui scopo era quello di raccogliere fondi e assoldare mujaheddin stranieri per resistere all'Unione Sovietica. Nel 1989, con il ritiro delle forze sovietiche dal conflitto afghano, il Maktab al-Khidamat si trasformò in una "forza di intervento rapido" del jihād contro i nemici del mondo islamico. Sotto l'influenza di Ayman al-Zawahiri, bin Laden assunse posizioni più radicali. Nel 1996, bin Laden promulgò la prima fatwā, con la quale intendeva allontanare i soldati statunitensi dall'Arabia Saudita. In una seconda fatwa diffusa nel 1998, bin Laden avanzò obiezioni sulla politica estera statunitense nei riguardi di Israele, come pure sulla presenza di truppe statunitensi in Arabia Saudita anche dopo la fine della guerra del Golfo. Bin Laden ha citato testi dell'Islam per esortare ad azioni di forza contro soldati e civili statunitensi fin quando i problemi sollevati non saranno risolti, notando che «durante tutta la storia dei popoli islamici, gli ʿulamāʾ hanno unanimemente affermato che il jihād è un dovere individuale se il nemico devasta i paesi musulmani».

Organizzazione degli attacchi. Fu anche coinvolto nella scelta dei partecipanti all'attentato, tanto che fu lui a scegliere Mohamed Atta come il capo dei dirottatori. Khālid Shaykh Muhammad fornì il supporto operativo, selezionando gli obiettivi e organizzando i viaggi per dirottatori - quasi ventisette membri di al-Qāʿida tentarono di entrare negli Stati Uniti d'America per prendere parte agli attacchi dell'11 settembre -; bin Lāden modificò alcune decisioni di Khālid Shaykh Muhammad, respingendo alcuni potenziali obiettivi come la U.S. Bank Tower di Los Angeles. La National Commission on Terrorist Attacks upon the United States (Commissione Nazionale sugli Attacchi Terroristici contro gli Stati Uniti) fu formata dal governo degli Stati Uniti ed è comunemente nota come 9/11 Commission; il 22 luglio 2004 la commissione rilasciò un rapporto nel quale concludeva che gli attacchi erano stati progettati e messi in atto da membri di al-Qāʿida. La commissione affermò che «gli organizzatori dell'attentato dell'11 settembre spesero in totale tra 400 000 e 500 000 dollari per progettare e mettere in atto il loro attentato, ma che la precisa origine dei fondi utilizzati per eseguire gli attacchi è rimasta sconosciuta».

Dirottatori. Quindici dirottatori provenivano dall'Arabia Saudita, due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall'Egitto e uno dal Libano. In contrasto con il consueto profilo degli attentatori suicidi, i dirottatori erano adulti maturi e ben istruiti, le cui visioni del mondo erano ben formate. Dopo alcune ore dagli attacchi, l'FBI fu in grado di determinare i nomi e, in molti casi, i dettagli personali dei sospetti piloti e dirottatori. Il bagaglio di Mohamed Atta, che non fu trasbordato dal suo volo da Portland sul volo 11, conteneva documenti che rivelarono l'identità di tutti i 19 dirottatori e altri importanti indizi sui loro piani, sulle loro intenzioni e sui loro precedenti. Il giorno degli attacchi, la National Security Agency intercettò delle comunicazioni che portavano a Osama bin Laden, come avevano fatto i servizi segreti tedeschi. Il 27 settembre 2001, l'FBI rese pubbliche le foto dei diciannove dirottatori, assieme alle informazioni sulle possibili nazionalità e nomi falsi di molti. Le indagini dell'FBI sugli attacchi, note come "PENTTBOM", furono le più vaste e complesse nella storia dell'ente, coinvolgendo più di 7 000 agenti speciali. Il governo degli Stati Uniti determinò che al-Qāʿida, diretta da Osama bin Lāden, era responsabile per gli attacchi, con l'FBI che afferma che «le prove che mettono in relazione al-Qāʿida e bin Lāden agli attacchi dell'11 settembre sono chiare e irrefutabili»; Il governo del Regno Unito raggiunse la stessa conclusione. La dichiarazione di una guerra santa contro gli Stati Uniti d'America e la fatwā firmata da Osama bin Lāden e altri nel 1996, in cui si chiedeva l'uccisione di civili statunitensi, sono viste come indizi del suo movente negli attacchi dell'11 settembre da parte degli investigatori. Inizialmente bin Lāden negò il proprio coinvolgimento negli attacchi, per poi ammetterlo. Il 16 settembre 2001, bin Lāden negò ogni coinvolgimento negli attacchi leggendo una dichiarazione trasmessa dal canale satellitare del Qatar Al Jazeera: «Sottolineo che non ho attuato questo gesto, che sembra essere stato portato avanti da individui con motivazioni proprie»; questa smentita fu trasmessa dalle testate giornalistiche statunitensi e mondiali. Nel novembre 2001 forze statunitensi recuperarono una registrazione in una casa distrutta a Jalalabad, in Afghanistan, in cui bin Lāden parla a Khāled al-Ḥarbī: nella videoregistrazione bin Lāden ammette di aver saputo in anticipo degli attacchi. La registrazione fu trasmessa da varie emittenti giornalistiche a partire dal 13 dicembre 2001; la distorsione delle immagini è stata attribuita ad artefatti causati dalla copia del nastro. Il 27 dicembre 2001 fu pubblicato un secondo video di bin Lāden, in cui affermava che «il terrorismo contro gli Stati Uniti merita di essere lodato perché fu una risposta ad un'ingiustizia, avente lo scopo di forzare gli Stati Uniti a interrompere il suo sostegno a Israele, che uccide la nostra gente», senza però ammettere la responsabilità degli attacchi. Poco prima delle elezioni presidenziali statunitensi del 2004, bin Lāden rivendicò pubblicamente, con una registrazione video, il coinvolgimento di al-Qāʿida negli attacchi agli Stati Uniti, ammettendo il proprio legame diretto con gli attentati; affermò che gli attacchi erano stati portati perché «siamo liberi e vogliamo riottenere libertà per la nostra nazione. Così come voi indebolite la nostra sicurezza noi indeboliamo la vostra». Osama bin Lāden afferma di aver personalmente diretto i 19 dirottatori: nel video afferma che «concordammo assieme al comandante Muhammad Atta, che Allah abbia pietà di lui, che tutte le operazioni avrebbero dovuto essere completate in venti minuti, prima che Bush e la sua amministrazione se ne accorgessero». Un altro video ottenuto da Al Jazeera nel settembre 2006 mostra Osama bin Lāden con Ramzi bin al-Shibh – il più delle volte scritto Ramzi Binelshibh – e due dirottatori, Hamza al-Ghamdi e Wa'il al-Shehri, mentre preparano gli attacchi. In un'intervista del 2002 con il giornalista di al Jazeera Yosri Foda, Khalid Shaykh Muhammad ammise il proprio coinvolgimento nella "operazione del santo Martedì", assieme a Ramzi bin al-Shibh. Il Rapporto della Commissione sull'11 settembre ha determinato che l'animosità di Khalid Shaykh Muhammad, il «principale architetto» degli attacchi dell'11 settembre, verso gli Stati Uniti ebbe origine «non dalla sua esperienza di studente fatta lì, ma piuttosto dalla sua violenta opposizione alla politica estera statunitense in favore di Israele». Mohammed Atta condivideva le stesse motivazioni di Khalid Shaykh Muhammad. Ralph Bodenstein, un ex-compagno di classe di Atta, lo descrisse come «molto imbevuto, veramente, sulla difesa, da parte degli Stati Uniti, di queste politiche israeliane nella regione». ʿAbd al-ʿAzīz al-ʿUmarī, dirottatore del volo 11 assieme a Mohamed Atta, affermò nel suo testamento video: «il mio gesto è un messaggio per coloro che mi hanno ascoltato e per coloro che mi hanno visto e, allo stesso tempo, è un messaggio agli infedeli, che lasciate la Penisola arabica sconfitti e che smettiate di dare una mano ai codardi ebrei in Palestina». Khalid Shaykh Muhammad fu arrestato il 1º marzo 2003 a Rawalpindi, in Pakistan, per poi essere detenuto definitivamente nel campo di detenzione di Guantanamo Bay, a Cuba. Durante le udienze condotte dagli Stati Uniti nel marzo 2007, che sono state «ampiamente criticate da avvocati e gruppi per i diritti umani in quanto falsi tribunali», Muhammad confessò nuovamente la propria responsabilità per gli attacchi: «ero il responsabile dell'operazione dell'11 settembre, dalla A alla Z». Nel "Sostituto di testimonianza di Khalid Shaykh Muhammad" del processo a Zakariyya Musawi, cinque persone sono identificate come quelle che conoscevano tutti i dettagli dell'operazione: Osama bin Laden, Khalid Shaykh Muhammad, Ramzi bin al-Shibh, Abu Turab al-Urdunni e Mohammed Atef. Fino al 2008, solo le figure di contorno sono state processate o condannate in relazione agli attacchi; bin Lāden non è stato ancora formalmente accusato degli attentati. Il 26 settembre 2005, la Audiencia Nacional de España, corte nazionale spagnola, diretta dal giudice Baltasar Garzón, condannò Abu Dahdah a ventisette anni di prigione per cospirazione riguardo agli attentati dell'11 settembre e in qualità di membro dell'organizzazione terroristica al-Qāʿida. Allo stesso tempo, altri diciassette membri di al-Qāʿida ricevettero condanne tra i sei e gli undici anni. Il 16 febbraio 2006, la corte suprema spagnola ridusse la pena di Abu Dahdah a dodici anni, in quanto considerò non provata la sua partecipazione alla cospirazione. Per la prima volta nella storia, tutti i velivoli civili degli Stati Uniti e di altri Paesi (come il Canada), che non effettuavano servizi di emergenza, furono immediatamente fatti atterrare, recando grossi disagi a decine di migliaia di passeggeri in tutto il mondo. La Federal Aviation Administration chiuse i cieli statunitensi a tutti i voli internazionali, obbligando gli aerei a dirigersi su aeroporti di altri paesi; il Canada fu uno dei paesi maggiormente toccati da questo fenomeno e lanciò l'Operazione Nastro Giallo per gestire l'enorme numero di aerei a terra e di passeggeri bloccati negli aeroporti. Il Consiglio della NATO dichiarò che gli attacchi agli Stati Uniti erano considerati un attentato a tutti i Paesi della Nato e che, in quanto tali, soddisfacevano l'Articolo 5 del trattato NATO. Subito dopo gli attacchi, l'amministrazione Bush dichiarò la Guerra al terrorismo, con l'obiettivo dichiarato di portare Osama bin Laden e al-Qāʿida davanti alla giustizia e di prevenire la costituzione di altre reti terroristiche. I mezzi previsti per perseguire questi obiettivi includevano sanzioni economiche e interventi militari contro gli Stati che avessero dato l'impressione di ospitare terroristi, aumenti dell'attività di sorveglianza su scala globale e condivisione delle informazioni ottenute dai servizi segreti. L'invasione statunitense dell'Afghanistan (2001) e il rovesciamento del governo dei Talebani da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti fu la seconda operazione della guerra effettuata al di fuori dei confini statunitensi, in ordine di grandezza la più vasta tra quelle direttamente collegate al terrorismo. Gli Stati Uniti non furono l'unica nazione ad aumentare la propria preparazione militare: stati come le Filippine e l'Indonesia dovevano infatti affrontare le minacce portate dal terrorismo islamista interno. Subito dopo, alcuni esponenti dell'amministrazione statunitense specularono sul coinvolgimento di Saddam Hussein, il presidente iracheno, con al-Qāʿida. Questi sospetti si rivelarono successivamente infondati, ma quest'associazione contribuì a far accettare all'opinione pubblica l'invasione dell'Iraq del 2003. Conseguenze. Le conseguenze degli attentati dell'11 settembre includono risposte immediate all'evento, tra cui reazioni interne, crimini d'odio, reazioni dei musulmani residenti negli USA, reazioni internazionali e militari. In seguito fu rapidamente istituito al Congresso un vasto programma di risarcimento per compensare le vittime e le famiglie delle vittime degli attentati dell'11 settembre.

Risposta immediata. Otto ore dopo gli attacchi, Donald Rumsfeld, allora segretario della difesa, dichiarò "Il Pentagono funziona."

Alle 8:32 del mattino fu comunicato agli ufficiali della FAA che il volo 11 era stato dirottato e loro, a loro volta, notificarono il Comando di difesa aerospaziale nordamericano (NORAD). Il NORAD fece decollare due F-15 dalla base della guardia nazionale aerea di Otis in Massachusetts che presero il volo alle 8:53. A causa della comunicazione lenta e confusa dei funzionari della FAA, il NORAD ebbe 9 minuti di preavviso che il volo 11 fosse stato dirottato e nessun avviso sugli altri voli prima dell'incidente. Dopo che entrambe le Torri Gemelle furono colpite, altri caccia decollarono dalla base aeronautica di Langley in Virginia alle 9:30. Alle 10:20 il vicepresidente Dick Cheney ordinò di abbattere qualsiasi aereo commerciale che potesse essere identificato come dirottato. Queste istruzioni non furono trasmesse in tempo perché i combattenti potessero agire. Alcuni caccia decollarono senza munizioni, sapendo che per evitare che i dirottatori colpissero i loro bersagli, i piloti avrebbero dovuto intercettare e far schiantare i loro caccia contro gli aerei dirottati, eventualmente lanciandosi all'ultimo momento. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, venne invocato lo SCATANA, bloccando così decine di migliaia di passeggeri in tutto il mondo. Ben Sliney, nel suo primo giorno come National Operations Manager della FAA, ordinò che lo spazio aereo americano fosse chiuso a tutti i voli internazionali, causando la respinsione o il reindirizzamento di circa cinquecento voli verso altri paesi. Il Canada ricevette 226 dei voli deviati e lanciò l'Operazione Nastro Giallo per far fronte al gran numero di aerei a terra e passeggeri bloccati.

Gli attacchi dell'11/9 ebbero effetti immediati sul popolo statunitense. Molti poliziotti e soccorritori di tutto il paese si congedarono dal proprio lavoro per recarsi a New York, per aiutare a recuperare i corpi dai resti contorti delle Torri Gemelle. Le donazioni di sangue negli Stati Uniti aumentarono nelle settimane successive all'11 settembre.

La morte di adulti negli attacchi causò la perdita di un genitore da parte di oltre 3.000 bambini. Studi successivi documentarono le reazioni dei bambini a queste perdite effettive e alle temute perdite di vite umane, all'ambiente protettivo a seguito degli attacchi e agli effetti dei lavori di cura sui sopravvissuti.

Reazioni dell'opinione pubblica statunitense. A seguito degli attentati, l'indice di gradimento del presidente Bush salì fino all'86%. Il 20 settembre 2001 il Presidente degli Stati Uniti parlò alla nazione e ad una seduta congiunta del Congresso, esponendo gli eventi del giorno degli attacchi, i successivi nove giorni di sforzi di salvataggio e ricostruzione e la sua risposta agli eventi. Anche il sindaco di New York Rudolph Giuliani ottenne un notevole gradimento a livello locale e nazionale in virtù del ruolo svolto. Molti fondi furono immediatamente aperti per assistere finanziariamente i sopravvissuti e le famiglie delle vittime degli attacchi; al termine ultimo per la compensazione delle vittime, l'11 settembre 2003, erano state ricevute 2 833 richieste dalle famiglie delle vittime. Subito dopo gli attacchi furono messi in atto i piani d'emergenza per l'evacuazione dei governanti e per la continuità del governo (la serie di atti necessari a garantire la prosecuzione delle funzioni governative in caso di attacco nucleare o simile). Il fatto che gli Stati Uniti fossero in una condizione di continuità del governo fu però comunicato al Congresso solo nel febbraio 2002. Il Congresso passò l'Homeland Security Act del 2002, che istituì il Department of Homeland Security, la maggiore ristrutturazione dell'amministrazione statunitense nella storia contemporanea. Il congresso passò anche lo USA PATRIOT Act, affermando che sarebbe stato utile a individuare e perseguire il terrorismo e altri crimini; i gruppi per le libertà civili hanno però criticato il PATRIOT Act, affermando che esso permette agli organi di polizia di invadere la vita privata dei cittadini e che elimina il controllo da parte della magistratura sulla polizia e sui servizi segreti interni. L'amministrazione Bush indicò gli attacchi dell'11 settembre per giustificare l'inizio di un'operazione segreta della National Security Agency volta a «intercettare comunicazioni via telefono ed e-mail tra gli Stati Uniti e persone all'estero senza mandato».

Crimini d'odio. Furono riportati numerosi incidenti di molestie e crimini d'odio contro mediorientali e persone "dall'aspetto mediorientale"; furono coinvolti particolarmente Sikh, in quanto gli uomini sikh vestono un turbante, elemento essenziale dello stereotipo del musulmano negli Stati Uniti. Vi furono abusi verbali, attacchi a moschee e altre costruzioni religiose (tra cui un tempio induista) e aggressioni, tra cui un omicidio: Balbir Singh Sodhi, un Sikh, fu ucciso il 15 settembre, dopo essere stato scambiato per un musulmano. Le principali organizzazioni statunitensi di musulmani furono immediate nella condanna degli attacchi e si appellarono affinché «i musulmani statunitensi si facciano avanti con le loro capacità e le loro risorse per aiutare ad alleviare le sofferenze delle persone coinvolte e delle loro famiglie». Oltre a notevoli donazioni di denaro, molte organizzazioni islamiche organizzarono raccolte di sangue e fornirono assistenza medica, cibo e alloggio alle vittime dell'attentato. A seguito degli attacchi, 80 000 arabi e immigrati musulmani furono registrati e le loro impronte digitali schedate in base all'Alien Registration Act del 1940. Ottomila arabi e musulmani furono interrogati e cinquemila stranieri furono detenuti secondo la Joint Congressional Resolution 107-40, che autorizzava l'uso delle forze armate «per scoraggiare e prevenire atti di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti».

Risposta dei musulmano-americani. Le organizzazioni musulmane negli Stati Uniti si affrettarono a condannare gli attentati e invitarono "i musulmani americani a farsi avanti con le loro capacità e risorse per aiutare ad alleviare le sofferenze delle persone colpite e delle loro famiglie". Queste organizzazioni includevano la Società islamica del Nord America, l'Alleanza musulmana americana, il Consiglio musulmano-americano, il Consiglio per le relazioni americano-islamiche, il Circolo islamico del Nord America e la Shari'a Scholars Association of North America. Insieme alle donazioni monetarie, molte organizzazioni islamiche lanciarono raccolte di sangue e fornirono assistenza medica, cibo e riparo alle vittime.

Risposta internazionale. Gli attacchi furono condannati da governi di tutto il mondo e molte nazioni offrirono aiuti e solidarietà. I governanti della maggior parte dei paesi del Medio Oriente, incluso l'Afghanistan, condannarono gli attacchi. L'Iraq fece eccezione, in quanto diffuse immediatamente una dichiarazione in cui si affermava che «i cowboys americani stavano cogliendo il frutto dei loro crimini contro l'umanità». Un'altra eccezione, molto evidenziata dai mass media, furono i festeggiamenti da parte di alcuni Palestinesi, nonostante il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Yasser Arafat, avesse condannato gli attacchi. Come negli Stati Uniti, le conseguenze degli attacchi videro aumentare le tensioni in altri paesi tra musulmani e non musulmani. Circa un mese dopo gli attacchi, gli Stati Uniti d'America guidarono una vasta coalizione nell'invasione dell'Afghanistan, allo scopo di rovesciare il governo dei Talebani, accusati di ospitare al-Qāʿida. Le autorità del Pakistan si schierarono nettamente al fianco degli Stati Uniti contro i Talebani e al-Qāʿida: i pakistani misero a disposizione degli Stati Uniti diversi aeroporti militari e basi per gli attacchi contro il governo talebano e arrestarono più di 600 presunti membri di al-Qāʿida, che poi consegnarono agli statunitensi.

La risoluzione 1368 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condannò gli attacchi ed espresse la disponibilità a prendere tutte le misure necessarie per rispondere e combattere tutte le forme di terrorismo in conformità con la propria Carta. Diversi paesi - tra cui RegnoUnito, India, Australia, Francia, Germania, Indonesia, Cina, Canada, Russia, Pakistan, Giordania, Mauritius, Uganda e Zimbabwe - promulgarono legislazioni "antiterroristiche" e congelarono i conti in banca di persone che sospettavano avessero legami con al-Qāʿida. I servizi segreti e le forze di polizia di alcuni paesi - tra cui Italia, Malaysia, Indonesia e Filippine - arrestarono persone che indicavano come sospetti terroristi con lo scopo dichiarato di distruggere le cellule terroristiche in tutto il mondo. Negli Stati Uniti questi fatti generarono alcune controversie; critici come il Bill of Rights Defense Committee affermarono che le tradizionali limitazioni sul potere di sorveglianza federale (come il controllo degli assembramenti pubblici del COINTELPRO) erano stati "smantellati" dallo USA PATRIOT Act. Organizzazioni per le libertà civili come la American Civil Liberties Union e il gruppo di pressione "Liberty" affermarono che anche alcune protezioni dei diritti civili erano state aggirate. Gli Stati Uniti aprirono un centro di detenzione a Guantanamo Bay, a Cuba, per detenervi quelli che definirono "combattenti nemici illegittimi". La legittimità di tali detenzioni è stata messa in discussione dall'Unione europea, dall'Organizzazione degli Stati Americani e da Amnesty International, tra gli altri. All'indomani degli attacchi, decine di migliaia di persone tentarono di fuggire dall'Afghanistan a causa della possibilità di una rappresaglia militare da parte degli Stati Uniti. Il Pakistan, già casa di numerosi rifugiati afgani per via dei precedenti conflitti, chiuse il confine con l'Afghanistan il 17 settembre 2001. Circa un mese dopo gli attacchi, gli Stati Uniti guidarono un'ampia coalizione di forze internazionali per rovesciare il regime talebano dall'Afghanistan per aver ospitato al-Qaida. Sebbene le autorità pakistane inizialmente fossero riluttanti ad allinearsi con gli Stati Uniti contro i talebani, permisero alla coalizione di accedere alle proprie basi militari e arrestarono e consegnarono agli Stati Uniti oltre 600 sospetti membri di al-Qaeda. Il primo ministro britannico Tony Blair affermò che la Gran Bretagna fosse "spalla a spalla" con gli Stati Uniti. Pochi giorni dopo, Blair volò a Washington, per affermare la solidarietà britannica con gli Stati Uniti. In un discorso al Congresso, nove giorni dopo gli attacchi, a cui Blair partecipò come ospite, il presidente Bush dichiarò "L'America non ha un amico più vero della Gran Bretagna". Successivamente, il primo ministro Blair intraprese due mesi di diplomazia per raccogliere il sostegno internazionale all'azione militare; 54 incontri con i leader mondiali e percorse più di 60.000 km). Il 25 settembre 2001, il quinto presidente dell'Iran, Mohammad Khatami incontrò il ministro degli Esteri britannico, Jack Straw, e disse: "L'Iran comprende pienamente i sentimenti degli americani riguardo agli attacchi terroristici a New York e Washington l'11 settembre", disse anche che sebbene le amministrazioni americane siano state nella migliore delle ipotesi indifferenti riguardo alle operazioni terroristiche in Iran (dal 1979), gli iraniani invece si sono sentiti diversamente e hanno espresso i loro sentimenti di solidarietà con gli americani in lutto nei tragici incidenti nelle due città. Affermò inoltre che "le nazioni non dovrebbero essere punite al posto dei terroristi". Secondo il sito web di Radio Farda, quando venne resa pubblica la notizia degli attacchi, alcuni cittadini iraniani si radunarono dinanzi all'Ambasciata svizzera a Teheran, che funge da potere di protezione degli Stati Uniti in Iran (Ufficio di protezione degli interessi degli Stati Uniti in Iran), per esprimere la loro simpatia e alcuni di loro accesero candele come simbolo di lutto. Questa notizia di Radio Farda afferma anche che nel 2011, in occasione dell'anniversario degli attacchi, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti pubblicò un post sul suo blog, in cui ringraziava il popolo iraniano per la sua simpatia e che non avrebbe mai dimenticato la gentilezza del popolo iraniano in quei giorni difficili. Dopo gli attacchi, sia il presidente che il leader supremo dell'Iran condannarono gli attacchi. La BBC e il Time pubblicarono rapporti sui siti web iraniani, che invitavano i propri cittadini a tenere veglie a lume di candela per le vittime. Secondo il Politico Magazine, a seguito degli attacchi, Sayyed Ali Khamenei, il leader supremo dell'Iran, "sospese temporaneamente i soliti canti della "Death to America" ("Morte all'America") alle preghiere del venerdì". In un discorso dell'Imam ismaelita al Nobel Institute nel 2005, Karim Aga Khan IV dichiarò che "l'attacco dell'11 settembre contro gli Stati Uniti era una conseguenza diretta della comunità internazionale che ignorava la tragedia umana che era l'Afghanistan in quel momento". A settembre 2001, poco dopo gli attacchi, i tifosi di calcio greco bruciarono una bandiera israeliana e tentarono senza successo di bruciare una bandiera statunitense. Nonostante ciò, i tifosi fischiarono durante un momento di silenzio per le vittime degli attacchi.

Operazioni militari.

Alle 2:40 del pomeriggio dell'11 settembre, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld stava impartendo rapidi ordini ai suoi aiutanti per cercare prove del coinvolgimento iracheno. Secondo le note prese dal funzionario della politica Stephen Cambone, Rumsfeld chiese: "Le migliori informazioni in fretta. Valuta se SH [Saddam Hussein] ha colpito abbastanza bene allo stesso tempo. Non solo UBL" [Osama bin Laden]. Le note di Cambone citavano Rumsfeld che diceva: "Abbiamo la necessità di muoverci rapidamente - e l'esigenza di obiettivi a breve termine - diventiamo massicci - spazziamo via tutto. Cose relative e non." In una riunione a Camp David il 15 settembre, l'amministrazione Bush respinse l'idea di attaccare l'Iraq in risposta all'11 settembre. Tuttavia, in seguito invasero il paese con gli alleati, citando "il sostegno di Saddam Hussein al terrorismo". All'epoca ben 7 americani su 10 credevano che il presidente iracheno avesse avuto un ruolo negli attacchi dell'11 settembre. Tre anni dopo, Bush ammise che non fosse vero. Il consiglio della NATO dichiarò che gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti fossero un attacco a tutte le nazioni della NATO che soddisfacevano l'articolo 5 della Carta della NATO. Ciò segnò la prima invocazione dell'articolo 5, che era stata scritta durante la guerra fredda con l'idea di un attacco dell'Unione Sovietica. Il primo ministro australiano John Howard, che era a Washington, durante gli attacchi, invocò l'articolo IV del trattato ANZUS. L'amministrazione Bush annunciò una guerra al terrorismo, con l'obiettivo dichiarato di consegnare Bin Laden e al-Qaida alla giustizia e prevenire l'emergere di altre reti terroristiche. Questi obiettivi sarebbero raggiunti imponendo sanzioni economiche e militari contro gli stati ospitanti di terroristi e aumentando la sorveglianza globale e la condivisione di informazioni. Il 14 settembre 2001, il Congresso degli Stati Uniti approvò l'autorizzazione all'uso della forza militare contro i terroristi. Ancora in vigore, garantisce al Presidente l'autorità di usare tutta la "forza necessaria e appropriata" contro coloro definiti di aver "pianificato, autorizzato, commesso o aiutato" gli attacchi dell'11 settembre o che avevano ospitato tali persone o gruppi. Il 7 ottobre 2001, la guerra in Afghanistan iniziò quando le forze statunitensi e britanniche iniziarono campagne di bombardamento aereo contro i talebani e i campi di al-Qaida, poi in seguito invasero l'Afghanistan con truppe di terra delle forze speciali. Ciò alla fine portò al rovesciamento del dominio talebano in Afghanistan con la caduta di Kandahar il 7 dicembre 2001, da parte delle forze della coalizione a guida statunitense. Il conflitto in Afghanistan tra l'insurrezione talebana e le forze afghane sostenute dall'Operazione Sostegno Risoluto della NATO è in corso. Le Filippine e l'Indonesia, tra le altre nazioni con conflitti interni con il terrorismo islamico, aumentarono la loro prontezza militare. Le forze militari degli Stati Uniti d'America e della Repubblica islamica dell'Iran cooperarono tra loro per rovesciare il regime talebano che aveva avuto conflitti con il governo iraniano. La Forza Quds iraniana aiutò le forze statunitensi e i ribelli afgani nella rivolta del 2001 ad Herat.

Effetti a lungo termine.

Effetti sulla salute. Migliaia di tonnellate di detriti tossici risultanti dal collasso delle Torri gemelle contenevano più di 2 500 contaminanti, tra cui alcuni elementi noti per essere cancerogeni, tra cui amianto. Sono testimoniati diversi casi di malattie debilitanti tra coloro che si occuparono dei soccorsi e dei lavori di rimozione delle macerie, malattie ritenute collegate direttamente all'esposizione ai detriti. Alcune di queste conseguenze sanitarie hanno toccato anche alcuni residenti, studenti e impiegati della Lower Manhattan e della vicina Chinatown. Molti decessi sono stati collegati alla polvere tossica causata dal collasso del World Trade Center e i nomi delle vittime saranno inclusi nel memoriale del WTC. Esistono alcuni studi scientifici che suggeriscono che l'esposizione a diversi prodotti tossici dispersi nell'aria potrebbe avere effetti negativi sullo sviluppo del feto: per questo motivo, un centro studi per la salute ambientale dei bambini sta studiando i figli delle donne incinte all'epoca degli attacchi e che vivevano o lavoravano in prossimità delle torri del WTC. Un totale di 33 000 fra poliziotti, vigili del fuoco, soccorritori e membri della comunità è stato curato per le ferite e le malattie derivanti dall'attentato, fra cui malattie respiratorie, disturbi mentali quali depressione e stress post-traumatico, problemi gastrointestinali e almeno 4 166 casi di cancro. Un maggior numero di poliziotti sono morti di malattie collegate all'attacco che non per il crollo stesso. Il conduttore televisivo Jon Stewart assieme ad altri riuscì a far passare una legge in Congresso nel 2015 che ha esteso in via definitiva la copertura medica dei soccorritori e ha aggiunto altri 5 anni al piano di compensazione delle vittime.

Conseguenze economiche.  Gli attacchi ebbero un significativo impatto sui mercati finanziari degli Stati Uniti e mondiali. La borsa di New York (New York Stock Exchange, NYSE), l'American Stock Exchange e il NASDAQ non aprirono l'11 settembre e rimasero chiusi fino al 17 settembre. Quando i mercati riaprirono, l'indice Dow Jones precipitò di 684 punti, pari al 7,1%, fino a 8 921, la maggiore flessione mai avuta in un solo giorno. Alla fine della settimana, l'indice Dow Jones era precipitato a 1 369,7 punti (14,3%), la maggiore caduta settimanale della sua storia. Le azioni statunitensi persero 1 400 miliardi di dollari di valore in quella settimana. A New York si contarono circa 430 000 posti di lavoro e 2,8 miliardi di dollari di stipendi persi nei tre mesi seguenti agli attacchi; gli effetti economici si concentrarono sui settori economici dell'export della città. Si stima che la perdita in termini di prodotto interno lordo sperimentata dall'economia newyorkese negli ultimi tre mesi del 2001 e per tutto il 2002 ammonti a 27,3 miliardi di dollari. Il governo federale concesse immediatamente 11,2 miliardi di dollari al governo cittadino nel settembre 2001 e 10,5 miliardi di dollari all'inizio del 2002, per incentivare lo sviluppo economico e la ricostruzione delle infrastrutture. Gli attacchi ebbero un grosso impatto anche sulle piccole imprese di Lower Manhattan, poste nelle vicinanze del World Trade Center; circa 18 000 di queste imprese furono distrutte o trasferite dopo gli attacchi. L'agenzia federale che gestisce i fondi per le piccole imprese, la Small Business Administration, fornì dei prestiti mentre il governo federale diede assistenza alle piccole imprese danneggiate dagli attacchi tramite il Community Development Block Grants e l'Economic Injury Disaster Loans. Quasi tre milioni di metri quadri di uffici a Lower Manhattan furono danneggiati o distrutti. Gli studi economici sugli effetti degli attacchi hanno confermato che il loro impatto sul mercato degli uffici di Manhattan e su quello dei lavori da ufficio è stato inferiore a quanto previsto, a causa della necessità di un'interazione faccia a faccia nell'ambito dei servizi finanziari. Lo spazio aereo nordamericano fu chiuso per diversi giorni dopo gli attacchi e i voli di linea sperimentarono un calo dopo la sua riapertura. Gli attacchi causarono un taglio di circa il 20% della capacità di viaggi aerei, esacerbando i problemi delle compagnie aeree statunitensi. Gli attacchi dell'11 settembre portarono anche alle guerre statunitensi in Afghanistan e Iraq, nonché a ulteriori spese per la sicurezza interna, per un totale di almeno $5 trilioni.

Influenza culturale. L'impatto dell'11 settembre si estende oltre la geopolitica nella società e nella cultura in generale. Le risposte immediate all'11 settembre includevano una maggiore attenzione alla vita familiare e al tempo trascorso con la famiglia, una maggiore presenza della chiesa e maggiori espressioni di patriottismo come il volo delle bandiere. L'industria radiofonica rispose rimuovendo alcune canzoni dalle playlist e gli attacchi vennero successivamente utilizzati come elementi di sottofondo, narrativa o elementi tematici in film, televisione, musica e letteratura. Tra i romanzi ispirati o direttamente influenzati dall'11/9 vi è Crazy Gran di Gary Botting, che parla di una ragazza che scopre un legame familiare diretto con i terroristi. L'azione inizia alle "9, martedì 9/11/2001" e continua per una settimana straziante mentre suo zio tenta di zittirla, applicando i precetti della sharia. Programmi televisivi già in corso e sviluppati dopo l'11 settembre rispecchiarono preoccupazioni culturali post-11 settembre. Le Teorie del complotto sull'attentato al World Trade Center dell'11 settembre 2001 sono divenute fenomeni sociali, nonostante la mancanza di supporto da parte di scienziati, ingegneri e storici esperti. L'11 settembre ha avuto anche un grande impatto sulla fede religiosa di molti individui; per alcuni l'ha rafforzata, trovando consolazione per far fronte alla perdita dei propri cari e superare il dolore; altri iniziarono a mettere in discussione la loro fede o la persero del tutto, perché non potevano conciliarla con la loro visione. La cultura dell'America che segue gli attacchi è nota per la maggiore sicurezza e una maggiore domanda, così come la paranoia e l'ansia per ipotizzati futuri attacchi terroristici. Gli psicologi hanno anche confermato che ci fu una maggiore quantità di ansia nazionale nei viaggi aerei commerciali.

Politiche governative verso il terrorismo. A seguito degli attacchi, molti governi in tutto il mondo approvarono legislazioni per combattere il terrorismo. In Germania, dove molti dei terroristi dell'11 settembre avevano risieduto e approfittato delle politiche liberali in materia di asilo di quel paese, furono emanati due importanti pacchetti antiterrorismo. Il primo rimosse scappatoie legali che consentivano ai terroristi di vivere e raccogliere fondi in Germania. Il secondo riguardava l'efficacia e la comunicazione dell'intelligence e delle forze dell'ordine. Il Canada approvò la Legge antiterrorismo, la prima del paese. Il Regno Unito approvò l'Anti-terrorism, Crime and Security Act 2001 e il Prevention of Terrorism Act 2005. La Nuova Zelanda emanò il Terrorism Suppression Act 2002. Negli Stati Uniti, venne creato il Dipartimento della sicurezza interna dalla Legge sulla sicurezza nazionale per coordinare gli sforzi nazionali antiterrorismo. La USA PATRIOT Act conferì al governo federale maggiori poteri, inclusa l'autorità di detenere sospetti terroristi stranieri per una settimana senza spese, per monitorare le comunicazioni telefoniche, la posta elettronica e l'uso di Internet da parte di sospetti terroristi e di perseguirli senza limiti di tempo. La FAA ordinò che le cabine di pilotaggio degli aerei fossero rinforzate per impedire ai terroristi di ottenere il controllo degli aerei, e assegnò i marescialli del cielo ai voli. Inoltre, la legge sulla sicurezza aerea e dei trasporti rese il governo federale, e non gli aeroporti, responsabile della sicurezza aeroportuale. La legge creò l'Amministrazione per la sicurezza dei trasporti per ispezionare passeggeri e bagagli, causando lunghi ritardi e preoccupazioni sulla riservatezza dei passeggeri. Dopo che i sospetti abusi del Patriot Act statunitense furono portati alla luce, a giugno 2013, grazie ad articoli sulla raccolta di registri delle chiamate americane da parte della NSA e del programma PRISM (si veda Divulgazioni sulla sorveglianza di massa del 2013), il rappresentante Jim Sensenbrenner, repubblicano del Wisconsin, che introdusse il Patriot Act nel 2001, dichiarò che la National Security Agency avesse oltrepassato i limiti.

Indagini.

FBI. Subito dopo gli attacchi, il Federal Bureau of Investigation (FBI) avviò la PENTTBOM, la più grande indagine criminale nella storia degli Stati Uniti. Al suo apice, oltre la metà degli agenti dell'FBI lavorava alle indagini e seguì mezzo milione di piste. L'FBI concluse che c'erano prove "chiare e irrefutabili" che collegavano al-Qaida e bin Laden agli attacchi. L'FBI fu in grado di identificare rapidamente i dirottatori, incluso il leader Mohamed Atta, quando i suoi bagagli furono scoperti all'aeroporto di Logan di Boston. Atta era stato costretto a imbarcare nella stiva due delle sue tre valigie a causa delle limitazioni di spazio sul volo pendolare da 19 posti che aveva preso a Boston. A causa di una nuova politica istituita per prevenire i ritardi dei voli, i bagagli non sono riusciti a salire a bordo del volo 11 dell'American Airlines come previsto. Il bagaglio conteneva i nomi, i compiti e le connessioni di al-Qaida dei dirottatori. "Aveva tutti questi documenti in lingua araba che costituivano la Stele di Rosetta dell'indagine", affermò un agente dell'FBI. A poche ore dagli attacchi, l'FBI rese noti i nomi e in molti casi i dettagli personali dei piloti e dirottatori sospetti. Il 27 settembre 2001, pubblicarono le foto di tutti i 19 dirottatori, insieme alle informazioni su possibili nazionalità e pseudonimi. Quindici uomini provenivano dall'Arabia Saudita, due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall'Egitto e uno dal Libano. A mezzogiorno, la National Security Agency e le agenzie di intelligence tedesche avevano intercettato le comunicazioni che indicavano Osama bin Laden. Si sapeva che due dei dirottatori avevano viaggiato con un associato di bin Laden in Malesia nel 2000 e che il dirottatore Mohammed Atta era già stato in Afghanistan. Lui e altri facevano parte di una cellula terroristica ad Amburgo. Venne scoperto che uno dei membri della cellula di Amburgo era in comunicazione con Khalid Sheik Mohammed, identificato come membro di al Qaida. Le autorità degli Stati Uniti e del Regno Unito ottennero anche intercettazioni elettroniche, tra cui conversazioni telefoniche e trasferimenti bancari elettronici, che indicavano che Mohammed Atef, un deputato di Bin Laden, fosse una figura chiave nella pianificazione degli attacchi dell'11 settembre. Si ottennero anche intercettazioni che rivelarono conversazioni avute luogo alcuni giorni prima dell'11 settembre tra bin Laden e un associato in Pakistan. In quelle conversazioni, i due si riferivano a "un incidente che avrebbe avuto luogo in America intorno all'11 settembre" e discutevano di potenziali ripercussioni. In un'altra conversazione con un associato in Afghanistan, bin Laden discusse della "portata e degli effetti di un'imminente operazione". Queste conversazioni non menzionavano specificamente il World Trade Center, il Pentagono o altri dettagli. L'FBI non registrò i 2.977 decessi causati dagli attacchi nel suo indice annuale dei crimini violenti per il 2001. In una dichiarazione di non responsabilità, l'FBI ammise che "il numero di decessi fosse così grande che la combinazione con le tradizionali statistiche sulla criminalità avrebbe avuto un effetto anomalo che distorceva erroneamente tutti i tipi di misurazioni nelle analisi del programma". Anche la città di New York non incluse i decessi nelle proprie statistiche annuali sulla criminalità per il 2001, per non falsare i dati.

Indagine interna della CIA. L'Ispettore Generale della CIA condusse un'indagine interna sulle prestazioni della CIA prima dell'11 settembre e fu estremamente critico nei confronti dei funzionari anziani della CIA per non aver fatto tutto ciò che era possibile contro il terrorismo, in particolare per non essere riusciti a fermare due dei dirottatori dell'11 settembre, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, al loro ingresso negli Stati Uniti, e per non aver condiviso le informazioni su di loro con l'FBI. Nel maggio 2007, senatori appartenenti sia al Partito Democratico che a quello Repubblicano hanno sostenuto una proposta di legge che avrebbe reso pubblico un rapporto d'indagine interno alla CIA concernente le responsabilità del personale CIA prima e dopo gli attacchi. Completato nel 2005, il rapporto non è mai stato reso pubblico nei suoi dettagli. L'ipotesi che siano stati sottovalutati alcuni rapporti della CIA che forse avrebbero consentito di evitare l'attentato, è anche la tesi del film-documentario Fahrenheit 9/11 del regista-giornalista Michael Moore.

Inchiesta congressuale. A febbraio 2002, il Select Committee on Intelligence e la House Permanent Select Committee on Intelligence formarono un'indagine congiunta sulle prestazioni della comunità di intelligence americana. Il loro rapporto di 832 pagine pubblicato a dicembre 2002 descriveva in dettaglio i fallimenti dell'FBI e della CIA nell'uso delle informazioni disponibili, compresi i terroristi che la CIA sapeva che fossero negli Stati Uniti. L'indagine congiunta sviluppò le proprie informazioni sul possibile coinvolgimento di funzionari del governo dell'Arabia Saudita da fonti non classificate. Tuttavia, l'amministrazione Bush richiese che 28 pagine correlate restassero classificate. A dicembre 2002, il presidente dell'inchiesta Bob Graham (D) rivelò in un'intervista che "c'erano prove che c'erano governi stranieri coinvolti nel facilitare le attività di almeno un paio dei terroristi negli Stati Uniti". Le famiglie delle vittime dell'11 settembre furono frustrate dalle domande senza risposta e dal materiale censurato dall'inchiesta del Congresso e richiesero una commissione indipendente. Le famiglie delle vittime dell'11 settembre, i membri del Congresso e il governo dell'Arabia Saudita stanno ancora chiedendo la pubblicazione dei documenti. A giugno 2016, il capo della CIA John Brennan afferma che 28 pagine redatte di un'indagine congressuale sull'11 settembre saranno presto rese pubbliche e che dimostreranno che il governo dell'Arabia Saudita non avesse avuto alcun coinvolgimento negli attacchi dell'11 settembre. A settembre 2016, il Congresso ha approvato il Justice Against Sponsors of Terrorism Act che consentirebbe ai parenti delle vittime degli attentati dell'11 settembre di denunciare l'Arabia Saudita per il presunto ruolo del governo negli attacchi.

"9/11 Commission". La Commissione d'indagine sugli attentati dell'11 settembre 2001, anche nota come "9/11 Commission" e diretta dall'ex-governatore del New Jersey, Thomas Kean, fu istituita nel tardo 2002 per preparare una ricostruzione completa dei fatti riguardanti l'attacco, analizzando anche lo stato di preparazione e l'immediata reazione ad essi. Il 22 luglio 2004, la 9/11 Commission pubblicò il Rapporto della Commissione sull'11 settembre. La Commissione e il suo rapporto hanno ricevuto diverse critiche. Un'indagine federale sulle caratteristiche tecniche e di resistenza agli incendi connesse con il collasso delle Torri gemelle e del WTC 7 fu condotta dal National Institute of Standards and Technology (NIST) dello United States Department of Commerce. Questa indagine aveva il compito di trovare il motivo del collasso degli edifici, il numero di morti e feriti causati, oltre che le procedure collegate alla progettazione e alla gestione del World Trade Center. Il rapporto concluse che i rivestimenti antincendio delle infrastrutture in acciaio furono spazzati via dagli impatti degli aerei e che, se questo non fosse accaduto, le torri sarebbero probabilmente rimaste in piedi. Gene Corley, direttore dell'indagine originale, commentò che «le torri si comportarono in maniera impressionante. Non furono gli aerei dei terroristi ad abbattere gli edifici; fu l'incendio successivo. Fu dimostrato che era possibile abbattere due terzi delle colonne di una torre e l'edificio sarebbe restato in piedi». Il fuoco indebolì le travature di sostegno dei piani, facendole piegare verso il basso, tirando così le colonne in acciaio esterne che si piegarono verso l'interno. Con le colonne portanti danneggiate, le colonne esterne piegate non furono più in grado di sostenere gli edifici, causandone il collasso. Il rapporto afferma inoltre che le trombe delle scale non erano adeguatamente rinforzate per funzionare da via di fuga per le persone al di sopra della zona di impatto. Questo fu confermato da uno studio indipendente della Purdue University. I risultati dell'indagine del NIST sul WTC 7 sono stati pubblicati il 21 agosto 2008: il crollo dell'edificio è stato causato dalla dilatazione termica prodotta dagli incendi che divamparono incontrollati per ore, e che hanno in particolare interessato l'acciaio della colonna primaria numero 79, il cui cedimento ha dato inizio ad un collasso progressivo delle strutture portanti vicine.

Presunto ruolo saudita. A luglio 2016, l'amministrazione Obama rese noto un documento, compilato dagli investigatori statunitensi Dana Lesemann e Michael Jacobson, noto come "File 17", che conteneva una lista di nomi di tre dozzine di persone, tra cui i sospetti ufficiali dell'intelligence saudita collegati all'ambasciata dell'Arabia Saudita a Washington, che collega quindi, l'Arabia Saudita ai dirottatori.

Responsabilità civile e penale.

Responsabilità penale. Le famiglie di 800 vittime hanno depositato presso un tribunale di Manhattan una causa contro funzionari sauditi che sono stati denunciati, accusati di complicità negli attentati per aver aiutato i dirottatori Salem al-Hazmi e Khalid Al-Mihdhar 18 mesi prima dell'attacco. Latitanti i terroristi Ayman al-Zawahiri e il mullah Omar. Gli uomini in una prigione negli Stati Uniti accusati per gli attacchi dell'11 settembre sono cinque: il kuwaitiano Khalid Shaykh Muhammad, ritenuto l'architetto della strage, quello che già nel 1996 illustrò il piano a Osama Bin Laden e nel 2007 dichiarò di essere «responsabile dell'operazione dalla A alla Z»; lo yemenita Walid bin Attash, capo dei campi paramilitari di Al-Qaida in Afghanistan, ha fornito simulatori di volo e notizie sulle compagnie aeree; lo yemenita Ramzi bin al-Shibh, cellula Al Qaida di Amburgo, ha iscritto i dirottatori nelle scuole di volo americane; il pachistano Ammar al-Baluchi, imputato perché ha portato nove terroristi negli Stati Uniti, li ha mantenuti e inviato 120000 dollari americani. Il saudita Mustafa al-Hawsawi, che procurava contanti, carte di credito e abiti occidentali.

Responsabilità civile. Sono tuttora in atto procedimenti legali per il rimborso dei costi delle cure per le malattie connesse agli attentati. Il 17 ottobre 2006, il giudice federale Alvin Hellerstein annullò il rifiuto della municipalità di New York di pagare i costi dell'assistenza sanitaria ai soccorritori, permettendo così numerosi processi contro l'amministrazione cittadina. Ufficiali governativi sono stati censurati per aver spinto le persone a tornare a Lower Manhattan nelle settimane successive agli attacchi; l'amministratrice della Environmental Protection Agency ("Agenzia per la protezione dell'ambiente", EPA) nel periodo immediatamente successivo agli attacchi, Christine Todd Whitman, fu pesantemente criticata per aver affermato scorrettamente che l'area era sicura dal punto di vista ambientale. Il presidente Bush fu anche criticato per aver interferito con le interpretazioni e i pareri dell'EPA riguardo alla qualità dell'aria successivamente agli attacchi. Inoltre, il sindaco Giuliani fu criticato per aver sollecitato il personale del settore finanziario a tornare rapidamente nell'area vasta attorno a Wall Street.

Ricostruzioni. Il giorno degli attacchi, Giuliani affermò: «Ricostruiremo. Ne usciremo più forti di prima, politicamente più forti, economicamente più forti. La skyline tornerà ad essere nuovamente completa». La rimozione dei detriti terminò ufficialmente nel maggio 2002. La Lower Manhattan Development Corporation, incaricata della ricostruzione del sito del World Trade Center, è stata criticata per aver compiuto poco con i notevoli fondi destinati alla ricostruzione. Uno degli edifici completamente distrutti, il 7 World Trade Center, ha una nuova torre uffici, completata nel 2006; il One World Trade Center, precedentemente Freedom Tower, la cui costruzione è iniziata il 27 aprile 2006, è stato terminato nel giugno 2013. Con un'altezza di 1 776 piedi (541 metri e 32 cm) è il quinto tra i grattacieli più alti del mondo. Il numero 1 776 simboleggia l'anno della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America. La sezione danneggiata del Pentagono fu ricostruita e rioccupata entro un anno dagli attacchi.

Monumenti. Nei giorni immediatamente successivi agli attacchi, si tennero molte commemorazioni e veglie in tutto il mondo; mentre ovunque a Ground zero furono affisse immagini delle vittime. Una delle prime commemorazioni fu il Tribute in Light, un'installazione di 88 fari da ricerca posti nelle fondamenta delle Torri che proiettavano due colonne di luce verticalmente verso il cielo. A New York fu istituita una competizione per decidere il progetto di un monumento da erigere sul luogo di Ground Zero; il progetto vincente, Reflecting Absence, selezionato nell'agosto 2006, consiste in una coppia di piscine posizionate sul luogo delle fondamenta delle Torri, circondate da un monumento in cui sono iscritti i nomi delle vittime. Il Memoriale è stato aperto al pubblico il 12 settembre 2011, in occasione del decennale degli attentati; il 15 maggio 2014, invece, nello stesso sito è stato inaugurato il Museo dell'11 settembre. Il monumento del Pentagono è stato inaugurato l'11 settembre 2008, settimo anniversario degli attacchi; si tratta di un parco con 184 panchine (pari ai 125 morti che ci sono stati tra gli occupanti dell'edificio più i 59 del volo AA 77) che fronteggiano il Pentagono. Quando il Pentagono fu ricostruito, nel 2001-2002, furono costruiti anche una cappella privata e un monumento interno, posti nel luogo dove il Volo 77 si schiantò nell'edificio. Un monumento del Volo 93 da costruire a Shanksville è in fase di progetto: includerà un groviglio di alberi scolpiti che forma un circolo intorno al sito dell'impatto, tagliato dal percorso dell'aereo, mentre delle campane a vento porteranno i nomi delle vittime. Un monumento temporaneo si trova a 450 m dal sito dell'impatto del Volo 93 a Shanksville. Molti altri monumenti permanenti sono in costruzione in tutto il mondo e la loro lista è aggiornata man mano che sono completati. Oltre a monumenti veri e propri, anche borse di studio e programmi a fini benefici sono stati istituiti dai parenti delle vittime, come pure da altre organizzazioni e privati.

Teorie del complotto. A seguito degli attacchi, negli Stati Uniti e nel mondo sono stati sollevati diversi dubbi circa il reale svolgimento dei fatti e sono state formulate numerose teorie difformi da quelle comunemente accettate, generalmente configurabili come teorie del complotto. Tali dubbi e teorie hanno dato luogo a innumerevoli dispute e controversie circa la natura, l'origine e i responsabili degli attentati, contestando il contenuto dei resoconti ufficiali circa l'accaduto e suggerendo, tra l'altro, che persone con incarichi di responsabilità negli Stati Uniti fossero a conoscenza del pericolo e che deliberatamente avrebbero deciso di non prevenirli, o che individui estranei ad al-Qāʿida avrebbero partecipato alla pianificazione o all'esecuzione degli attacchi. Una delle più diffuse teorie pone in dubbio che gli edifici colpiti a New York siano crollati per conseguenza del solo impatto degli aerei e degli incendi che ne sono seguiti. Tuttavia, la comunità degli ingegneri civili concorda con la versione che vuole il collasso delle Torri gemelle provocato dagli impatti ad alta velocità degli aviogetti e dai conseguenti incendi, piuttosto che da una demolizione controllata della quale non è mai stata fornita alcuna solida prova scientifica. Nonostante tutte le prove e controprove accumulate negli anni riguardo alla ricostruzione storica degli avvenimenti, sono nate alcune associazioni sedicenti no profit che ne mettono in dubbio certi aspetti, asserendo che molti tra gli eventi verificatisi quel giorno non sarebbero in alcun modo compatibili con le spiegazioni fornite. Tra queste la Architects & Engineers for 9/11 Truth, la Pilots for 9/11 truth e alcune altre.

Il Complotto.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 agosto 2021. Il regista di Hollywood Spike Lee ha detto di credere nelle teorie del complotto sull'11 settembre, compresa quella secondo cui uno degli edifici del World Trade Center è stato abbattuto da una demolizione controllata e non da un attacco terroristico. In una recente intervista con il New York Times, Lee ha discusso della sua nuova serie di documentari di otto ore "New York Epicenters: 9/11 - 2021 1/2". La puntata in quattro parti, che è stata presentata per la prima volta su HBO domenica, si è concentrata principalmente sui newyorkesi e sulle loro reazioni agli attacchi terroristici dell'11 settembre e alla pandemia di COVID. Ci sono interviste con politici di New York come il senatore Chuck Schumer e il sindaco Bill de Blasio, insieme a quelle a vari operatori sanitari, vigili del fuoco e attivisti. Spike Lee ha detto che il dipartimento di polizia di New York ha rifiutato di essere intervistato nel suo documentario a causa delle sue opinioni sulla polizia. Nell'ultimo episodio della serie parlano diversi membri del gruppo cospirativo Architects and Engineers for 9/11 Truth, un gruppo che ha suggerito che il governo degli Stati Uniti fosse coinvolto nel crollo del World Trade Center l'11 settembre 2001. Quando il giornalista del Times Reggie Ugwu ha chiesto a Lee dell'inclusione del gruppo nella serie di documentari, Lee ha risposto: «Voglio dire che ho delle domande, e spero che forse l'eredità di questo documentario sia che il Congresso tenga un'udienza, un'udienza del Congresso, circa 9/11». Ugwu ha quindi chiesto a Lee se crede alle «spiegazioni ufficiali» per il crollo del World Trade Center l'11 settembre, e cui Lee ha risposto: «La quantità di calore necessaria per far fondere l'acciaio, quella temperatura non è stata raggiunta. E poi la giustapposizione del modo in cui l'edificio 7 è caduto a terra - quando lo metti accanto ad altri crolli di edifici demoliti, è come se stessi guardando la stessa cosa», ha detto Lee nell'intervista. «Ma le persone [stanno] decidendo da sole», ha detto. «Il mio approccio è quello di inserire le informazioni nel film e lasciare che le persone decidano da sole. Rispetto l'intelligenza del pubblico». Il WTC 7 originale era un edificio di 42 piani costruito nel 1987, che è stato filmato mentre cadeva a terra dopo il crollo delle Torri Gemelle. Da alcune angolazioni si vede la torre apparentemente intatta crollare su se stessa. Ma i video che riprendono l'altra parte dell'edificio mostrano un enorme squarcio causato dalla caduta di detriti. A quel punto, Ugwu ha chiesto a Lee perché crede nelle cospirazioni dell'11 settembre ma non supporta le teorie della cospirazione sui vaccini o sulle elezioni del 2020, e Lee ha scherzato: «La gente penserà quello che pensa, a prescindere. Non sto ballando intorno alla tua domanda», ha detto. «La gente penserà quello che vuole». Ha osservato: «La gente mi ha chiamato razzista ogni volta. La gente diceva che in Mo' Better Blues, ero antisemita, in She's Gotta Have It che ero misogino». «Le persone penseranno solo quello che vogliono», ha detto Lee. «E tu sai cosa? Sono ancora qui, dopo quattro decenni di cinema». La teoria della demolizione controllata esiste fin dall'indomani degli attacchi terroristici dell'11 settembre, quando l'edificio 7 è stato colpito dai detriti delle Torri Gemelle ed è stato danneggiato da incendi, che hanno bruciato per sette ore fino a quando non è stato completamente distrutto verso le 5: 20 pm. Alcuni sostenitori della teoria suggeriscono che l'edificio sia stato demolito perché potrebbe essere servito come centro operativo per la demolizione delle Torri Gemelle, mentre altri suggeriscono che gli addetti ai lavori potrebbero aver voluto distruggere i file sulle frodi aziendali. Il produttore cinematografico di Loose Change Dylan Avery una volta ha detto che pensava che la distruzione dell'edificio fosse sospetta perché ospitava un ufficio della CIA, un avamposto dei servizi segreti, la Securities and Exchange Commission e il centro di comando di emergenza della città. Ma il comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti ha affermato che chiunque avrebbe potuto affittare uno spazio nell'edificio. Anche il National Institute of Standards and Technology ha indagato sulle affermazioni e «non ha trovato prove a sostegno di ipotesi alternative che suggerissero che le torri di accesso al commercio mondiale siano state abbattute mediante demolizione controllata utilizzando esplosivi piazzati prima dell'11 settembre 2001». «Invece, fotografie e video da diverse angolazioni mostrano chiaramente che il crollo è iniziato ai piani dell'incendio e dell'impatto e che il crollo è progredito dall'inizio dei piani verso il basso fino a quando le nuvole di polvere hanno oscurato la vista». Lee è stato uno dei principali donatori democratici e negli ultimi anni ha fatto una campagna per i politici di estrema sinistra.

Attentato dell’11 settembre. Giulietto Chiesa: ''Intervennero forze potenti e diversi servizi segreti''. Luca Grossi l'11 Settembre 2021 su antimafiaduemila.com.

L'impero americano e i suoi vassalli sono stati gli artefici di una nuova Pearl Harbor. 20 anni sono passati da quell’11 settembre in cui l’intera umanità si è fermata davanti alle terrificanti immagini del più grande attentato terroristico che la storia moderna abbia mai visto. Ma mentre gli occhi attoniti delle persone di tutto il mondo erano incollati agli schermi delle televisioni che trasmettevano in diretta la tragedia, molti evidenti particolari sono sfuggiti ai più. Giulietto Chiesa, insieme ad altri studiosi del caso, non è stato uno di questi e negli anni ha fornito prove, documenti, carte e relazioni che dimostrano nero su bianco che ciò che è stato raccontato non rappresenta la realtà dei fatti.  Gli ideatori del "Progetto per il Nuovo Secolo Americano" (PNAC, Project for the New American Century, gruppo di neo-con guidato da Paul Wolfowitz) del resto lo avevano anche scritto nel loro testo 'guida' pubblicato nel settembre 2000. Un rapporto di novanta pagine intitolato "Ricostruire le difese dell'America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo" in cui si legge chiaramente che "l'America dovrebbe cercare di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale mantenendo la superiorità delle forze armate USA" e che il governo degli Stati Uniti dovrebbe avvantaggiarsi della sua superiorità militare ed economica per guadagnare una incontestabile superiorità attraverso tutti i mezzi possibili, comprese le forze militari. Inoltre nel rapporto vi è un passaggio assai curioso: "Il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor".  Ad oggi gli ideatori del grande inganno stanno ancora mentendo e Giulietto Chiesa aveva tentato di avvertirci già da tempo. 

L'impero americano dietro al crollo delle torri gemelle. "È una disputa che non si può riproporre qui. Chi scrive ha sostenuto da sempre che i diciannove presunti ‘dirottatori’, guidati da Osama bin Laden, non avrebbero potuto, in ogni caso, realizzare un tale piano. Ci sono prove in abbondanza che nell'operazione intervennero forze potenti che avevano legami con diversi servizi segreti, a cominciare da settori della CIA e dell'FBI, per arrivare fino all'ISI pakistano, ai servizi segreti sauditi e a quelli, sicuramente coinvolti, del Mossad israeliano". Sono state queste le parole di Giulietto Chiesa quando nel 2016 aveva tentato di spiegare ad un occidente sordo - volutamente sordo - che dietro alla nuova "Pearl Harbor" si celavano sinistri piani per una destabilizzazione geopolitica atta a sostenere solo ed esclusivamente gli interessi dell'impero statunitense. Dopo l'11 settembre era poi iniziata una serie di guerre sanguinose (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria) e di mutamenti del sistema delle regole internazionali. "Tutti motivati con una nuova ed unica necessità: combattere il “nuovo nemico” dell'Occidente, l'Islam fondamentalista. "Il lavoro della '9/11 Commission' (cioè la "versione ufficiale") non regge di fronte a una sterminata quantità di contestazioni", aveva scritto Chiesa, "mosse da ricercatori e giornalisti indipendenti di tutto il mondo. Chi volesse sincerarsene può consultare il sito Consensus911.org, dove molte di queste contestazioni e incongruenze sono state esaminate in questi anni da un gruppo di specialisti di cui anch'io faccio parte. Quella Commissione - come adesso sappiamo ufficialmente dopo le rivelazioni dell'ex senatore democratico Bill Graham (che fu presidente della Commissione del Congresso che per prima indagò sull'11/9) e di numerosi senatori e deputati americani - rifiutò di esaminare documenti e prove di quelle oscure manovre che precedettero l'attentato. Le 28 pagine del primo rapporto, recentemente desecretate, rivelano e documentano inequivocabilmente, che il governo saudita aiutò e finanziò i ‘capri espiatori’ a installarsi negli Stati Uniti. E questo fatto, da solo (senza tenere conto che FBI e CIA erano - e tutto ciò è stato provato- al corrente della preparazione dell'attentato), dimostra che la 9/11 Commission fornì una versione falsa dell'intera vicenda, per coprire i veri responsabili. A questa falsificazione - già provata - se ne possono aggiungere decine. Quanto basta per concludere che ci furono interessi potenti, all'interno dell'élite americana e dei circoli dirigenti occidentali, per coprire i veri protagonisti dell'attentato". Inoltre in merito all'attentato dell'11 settembre si era espresso anche l'allora presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, il quale in diverse interviste aveva dichiarato che esistono indizi più che sufficienti per incriminare, di concorso in strage, di fronte a una corte internazionale, l'Amministrazione americana di George W. Bush e Dick Cheney. Sfortunatamente una tale corte esiste, ma non è abilitata a processare l'Amministrazione americana. 

La complicità del mainstream mediatico occidentale. Ogni impero ha le sue colonie e da regolamento - non scritto - devono fare da megafono alla voce del padrone. Tutto il mainstream mediatico ha coperto da 20 anni ormai una versione dei fatti "totalmente falsa, fino al ridicolo, impedendo l'emergere della verità", aveva scritto Chiesa sottolineato come gli ideatori e organizzatori dell'attentato, assieme ai loro vassalli, avevano avuto il controllo quasi totale della comunicazione mondiale arrivando a confinare migliaia di persone nell'ignoranza. Il problema è, dunque, al tempo stesso politico e comunicativo e in un’intervista rilasciata a Radio Saiuz - che in seguito riproponiamo assieme ai suoi interventi su Pandora Tv - Chiesa lo aveva spiegato molto bene. Aveva detto chiaramente che "la versione ufficiale degli eventi è falsa” e a muovere i fili dell’attentato ci sarebbero stati “i servizi segreti occidentali insieme all’intelligence pakistana e saudita”. Da quel giorno, ha aggiunto poi Giulietto Chiesa, “milioni di persone sono state frastornate fino al punto da ritenere scandaloso che qualcuno metta in discussione la storia che ci hanno raccontato”. Tutto ciò grazie ad una subdola campagna di mistificazione benedetta dallo Zio Sam.

Cosa resiste e perché delle idee cospirazioniste sull’11 settembre 2001. Juanne Pili e David Puente su open.online l11 settembre 2021. Dopo due decenni i teorici complottisti non sono ancora riusciti a fornire una versione alternativa valida rispetto a quella che chiamano “versione ufficiale”. La mattina dell’11 settembre 2001 diciannove terroristi di al-Qaeda salirono a bordo di quattro aerei di linea, rispettivamente della United Airlines e dell’American Airlines, le due compagnie che mettono in collegamento l’intero territorio degli Stati Uniti. Gli attentatori disponevano di semplici armi da taglio, che all’epoca non erano vietate a bordo. Alcuni di loro avevano regolari brevetti di volo, compatibili con i Boeing 757 e 767. Preso possesso dei voli spensero i transponder (segnali che permettono di identificare la traccia radar di un velivolo), quindi li dirottarono. Due aerei colpirono le Torri Gemelle, cambiando per sempre lo skyline di New York. Uno penetrò una facciata del Pentagono ad Arlington, il palazzo della Difesa americana a quattro chilometri dalla Casa Bianca. Un quarto velivolo – forse destinato a colpire proprio la residenza del Presidente degli Stati Uniti – precipitò quasi verticalmente, nelle campagne vicino a Shanksville, in Pennsylvania. Morirono in tutto circa tremila persone, di cui 343 vigili del fuoco, 265 passeggeri dei voli dirottati e 125 presenti nel Pentagono. Fino al giorno prima dei tragici eventi, il terrorismo islamico era qualcosa di apparentemente lontano ed estraneo nella vita quotidiana dei cittadini americani. Chi si poteva immaginare che una super potenza potesse subire un attacco così devastante ad opera dei mujaheddin provenienti da qualche caverna dell’Afghanistan? Com’è possibile che la possente intelligence a stelle e strisce non sia riuscita a sventare l’attacco? Come mai gli aerei non sono stati intercettati e abbattuti prima che colpissero gli obiettivi? Che sia tutto un complotto per giustificare una guerra in Afghanistan? Queste sono solo alcune delle domande alla base delle teorie del complotto sull’11 settembre che analizzeremo in questo articolo.

«Il nemico è il Governo». Secondo un sondaggio svolto nel 2016 dalla Chapman University, la teoria di complotto più diffusa negli Stati Uniti è quella secondo cui il Governo americano avrebbe nascosto informazioni sull’11 settembre, seguita da quella sull’insabbiamento dell’assassinio di John F. Kennedy. Più del 50% degli americani intervistati nel 2016 dalla Chapman University crede alle teorie del complotto dell’11 settembre 2001. Seguono quelle dell’assassinio di Kennedy e degli alieni. Di fronte ad eventi così scioccanti e caotici, c’è stato un tentativo di fornire una ricostruzione della realtà di facile comprensione. Per qualcuno risultava plausibile che dietro agli attentati ci fossero i Governi e i servizi segreti americani e israeliani piuttosto che un gruppo di estremisti musulmani guidati da una caverna in Afghanistan. Ad accusare gli americani e gli israeliani di aver orchestrato un enorme complotto non sono soltanto gli stessi americani. Le narrative cospirazioniste sono state abbracciate nei Paesi musulmani, così come negli ambienti politici di estrema destra e sinistra antiamericane e antisemite. Secondo i risultati di un sondaggio, pubblicati dal sito Worldpublicopinion.org (qui il salvataggio), il 43% degli intervistati in Egitto sostiene che gli attentati fossero opera di Israele. Secondo lo stesso sondaggio, in Italia il 56% incolpavano i terroristi islamici, mentre il 15% addossava la colpa al Governo americano. Ad alimentare ulteriormente l’idea di un operato oscuro da parte dell’amministrazione Bush è stata la bufala delle armi batteriologiche, diffusa dal segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 5 febbraio 2003, per giustificare la guerra in Iraq. Qualcosa è stato effettivamente “nascosto”, ma non è quello che pensano i complottisti. Lo scorso 3 settembre 2021, il presidente Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per condurre una revisione della declassificazione dei documenti relativi alle indagini dell’FBI sugli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, mantenendo la promessa fatta alle famiglie delle vittime affinché venissero alla luce i ruoli del governo saudita accusato di aver fornito assistenza ai dirottatori.

L’infodemia dell’epoca. L’attentato è stato anche un evento mediatico, trasmesso in diretta mondiale a seguito dello schianto del primo aereo contro una delle Torri Gemelle, generando dibattiti e attribuzioni di responsabilità dettate dalla fantasia in mancanza di prove. Molti si erano cimentati a “verificare” i fatti sulla base delle immagini dell’epoca, di pessima qualità rispetto a quelle odierne, diffondendo in seguito le tesi più assurde come quella sugli aerei creati con degli effetti speciali o del raggio polverizzante sparato da un satellite. Altre narrazioni, che hanno tratto in inganno persino dei fisici, si sono rivelate frutto di artefatti fotografici, come nel caso dei frammenti di metallo fuso trovati sotto le macerie delle Torri Gemelle, ispirate alla tesi più plausibile delle pozze di metallo fuso, riscontrabili anche mesi dopo il crollo: queste in nessun modo possono dimostrare che si sia trattato di un attentato ordito dagli stessi americani. Il fisico Steven Jones è stato tratto in inganno dalle immagini, che in realtà mostrano in alto un frammento di detriti e in basso le luci delle torce dei vigili del fuoco, sotto le macerie delle Torri Gemelle. Jones ha poi ammesso l’errore.

Perché gli aerei non sono stati intercettati? Alcuni dubbi in merito agli attentati possono anche essere legittimi, se non si ha una visione approfondita. Per esempio, ci si chiede come mai la difesa aerea americana apparentemente non fece niente. Quando gli aerei dirottati spensero i transponder non scomparvero per questo dai radar di base, era solo più complesso distinguerli da altri segnali spuri. Si tentò di contattarli pensando a un guasto. Informazioni importanti giunsero ai famigliari dei passeggeri, o ai centralini delle compagnie aeree, tramite i telefoni di bordo. L’idea di abbattere gli aerei era inconcepibile. Solitamente la prassi era di assecondare i dirottatori, coi quali si negoziavano delle trattative. Non era mai successo prima di trovarsi di fronte a dei dirottatori suicidi. Ad ogni modo, verso le 8:53 partirono dalla base di Otis due caccia F-15 col compito di intercettare i velivoli. Non avrebbero potuto fare molto di più.

L’affiancamento in volo serve per aprire una linea di comunicazione e trarre informazioni dal movimento dell’aereo. Esiste infatti un codice usato dai piloti per trasmettere messaggi attraverso specifiche manovre o segnali, senza farsi scoprire dai dirottatori. In questo caso però i terroristi presero direttamente i comandi.

Cronologia degli eventi. Anche i tempi per intervenire erano proibitivi. Già una decina di minuti prima il Boeing 767 della American Airlines (volo AA11) si era schiantato contro la Torre Nord  del World Trade Center (WTC) a New York, un palazzo altro 410 metri costituito da 110 piani. Alle 9:03 un altro aereo colpì la Torre Sud: era un Boeing 767 della United Airlines (volo UA175). A questo punto nessuno poteva pensare a un incidente, il mondo stava assistendo a un attentato senza precedenti. Scattò l’allarme generale, ma non è ben chiaro cosa avrebbe potuto fare la Difesa. Fino ad allora ci si aspettava attacchi dall’esterno, non dirottamenti suicidi dall’interno, con terroristi capaci di pilotare dei voli civili. Intanto alle 9:37 il Boeing 757 della American Airlines (volo AA77) penetrò il Pentagono. Nella zona c’erano almeno 55 testimoni che affermeranno di aver riconosciuto il velivolo. Nessuno dei presenti affermò di aver visto un missile, come sostenuto dai teorici del complotto senza alcuna prova a loro sostegno.

Alle 9:59 il calore degli incendi alimentati dal carburante degli aerei indebolì l’acciaio delle strutture portanti, facendo crollare la Torre Sud.

Alle 10:03 il Boeing 757 della United Airlines (volo UA93) precipitò quasi verticalmente in un campo della Pennsylvania. I passeggeri col motto «Let’s roll» (“Roll it”, secondo quanto riportato nel report della Commissione 911) si erano ribellati ai dirottatori, scongiurando un quarto attentato a spese della propria vita.

L’ultimo atto avvenne alle 10:28, col crollo della Torre Nord del WTC. Altri edifici subiranno danni dovuti ai detriti dei due edifici, che scateneranno grandi incendi, come quelli che causarono il crollo del WTC7, anche riguardo a questo episodio sono state prodotte diverse tesi cospirazioniste.

«Gli ebrei si salvarono perché non erano presenti». Un filo conduttore di tutte le teorie cospirazioniste è sempre l’antisemitismo, più o meno celato con le sembianze dell’anti-sionismo. Pensiamo per esempio al cosiddetto «caso Odigo». Si tratta di una società di messaggistica israeliana, che ricevette proprio nella filiale delle Twin Towers (secondo i cospirazionisti) l’avviso di attentati non meglio precisati. Quindi l’azienda avrebbe avvertito il personale, facendolo evacuare in tempo. I principali sostenitori di questa narrazione furono David Duke (gran maestro del Ku Klux Klan) e Alex Jones (conduttore radiofonico, noto cospirazionista e sostenitore del movimento QAnon). Quel che fecero fu travisare ad arte gli articoli della stampa israeliana. Arrivò davvero un messaggio minatorio, ma nella sede di Israele. Nel Paese gli attentati terroristici non sono mai stati eventi eccezionali, così come i falsi allarmi. Per questo Odigo non diede l’allarme. Del resto non si faceva riferimento a New York. Solo dopo gli attentati dell’11 settembre questo dato venne riconosciuto rilevante. Forse non sapremo mai se facesse davvero riferito al WTC, o più plausibilmente a un attentato previsto in Israele.

Un altro esempio di travisamenti riguarda gli ebrei presenti nelle Torri Gemelle che non si sarebbero presentati al lavoro proprio l’11 settembre. La stampa israeliana parlava di quattromila israeliani presenti a New York: per qualche ragione il dato è stato distorto, diventando «quattromila ebrei si salvarono perché non erano presenti». In realtà quel giorno morirono negli attentati 119 ebrei e 400 rimasero feriti. Da un travisamento all’altro saltò fuori anche che l’allora premier israeliano Ariel Sharon avesse disdetto la sua visita ufficiale in America, prevista proprio l’11 settembre. Guarda caso i cospirazionisti hanno confuso le date. La visita del Premier era prevista per il 23 settembre, ma il giorno dopo gli attentati fu disdetta, per ragioni più che comprensibili.

«Le demolizioni controllate delle Torri Gemelle». La teoria della demolizione controllata è il grande dogma dei complottisti dell’11 settembre. Rammentiamo che l’acciaio a sostegno delle Torri Gemelle non fu soggetto a fusione, semplicemente venne indebolito. Sappiamo che sono sufficienti 350°C per deformarlo, e a partire da 500°C si ammorbidisce. Gli impatti contribuirono a far perdere lo strato protettivo, cosa che contribuì a ridurre in partenza del 50% la resistenza delle strutture al calore. Così già oltre i 600°C la resistenza si riduce fino al 10% del totale. Leggi fisiche esistenti ben prima del 2001 spiegano perfettamente questi fenomeni. Tutti i paragoni coi precedenti disastri non hanno molto senso. Le Torri Gemelle non erano in cemento armato. Gli urti degli aerei civili – circa 120 tonnellate l’uno, a una velocità di almeno 700Km/h – con 32 mila litri di kerosene, innescarono gli incendi, alimentati dal contenuto degli edifici, cosa che non è nuova ai vigili del fuoco di tutto il mondo.  Anche senza kerosene in una stanza un incendio alimentato dalla mobilia può arrivare tranquillamente a 1000°C. Chi parla di incendi piccoli dovrebbe spiegare come mai tanti disperati si gettarono dalle finestre.

11 settembre 2001 | Chi parla di incendi piccoli dovrebbe spiegare come mai alcuni disperati si gettarono dalle finestre. Nella seconda immagine “The Falling Man”, foto scattata da Richard Drew della Associated Press; l’identità dell’uomo non è mai stata accertata.

I crolli, che hanno più di tutto ispirato le teorie di complotto, superficialmente sembrano un esempio di caduta controllata. Effettivamente, le demolizioni controllate funzionano in maniera analoga (non identica), proprio perché assecondano la caduta naturale della struttura, agevolando le principali sollecitazioni, che avvengono a partire dai piani più bassi. C’è allora chi misura i tempi dei crolli.

Per quanto riguarda la presunta caduta libera degli edifici, che suggerirebbe una demolizione controllata, basta osservare con attenzione le immagini, dove si vede chiaramente che i detriti (quelli ovviamente in caduta libera) sono ben più in basso rispetto al fronte del crollo.

11 settembre 2001 | Se osservate con attenzione noterete che i detriti cadono più velocemente, risultando al di sotto del fronte del crollo. È evidente che gli edifici non crollarono affatto in caduta libera.

Paolo Attivissimo e i suoi collaboratori del sito Undicisettembre.info hanno studiato i rapporti tecnici e intervistato esperti di demolizioni, stilando una lista delle principali differenze tra il modo in cui crollarono le Torri Gemelle e quelle dovute a una caduta controllata:

«Una demolizione controllata mediante esplosivi parte dal basso, mentre i crolli delle Torri iniziarono in alto, ai piani colpiti e incendiati»;

«Una demolizione controllata con esplosivi produce botti fragorosissimi appena prima del crollo, assenti invece durante i crolli delle Torri (alcuni testimoni parlano di esplosioni al WTC, ma molto prima dei crolli)»;

«Le facciate delle Torri si incurvarono verso l’interno appena prima del crollo, cosa che non avviene nelle demolizioni controllate»;

«In una demolizione controllata si rimuovono prima tutte le finestre per evitare che l’onda d’urto le scaraventi verso l’esterno in una pioggia letale di schegge, ma ovviamente al WTC questa rimozione preventiva non avvenne e quindi se vi fossero state esplosioni interne si sarebbe dovuta vedere una massiccia e diffusa proiezione verso l’esterno di frammenti delle finestre».

Paolo Attivissimo, Zero Bubbole Pocket | «L’inflessione delle colonne perimetrali prima del crollo è un fatto documentato fotograficamente, visibile nell’immagine qui sotto. Non è una teoria e non è frutto di manipolazioni al computer».

È possibile reperire su YouTube il video della demolizione controllata della Landmark Tower, un edificio simile a quelli del WTC.  Ascoltate l’audio e osservate da che punto parte il crollo. Confrontate con immagini e audio relativi alle Torri Gemelle, vi accorgerete della notevole differenza.

C’è chi parla allora dell’utilizzo della termite, che è una sostanza incendiaria, non un esplosivo. Per un chilo di acciaio è necessario utilizzarne 130 grammi, in modo da tagliare in maniera coordinata le colonne di ciascun piano a seguito dell’impatto con gli aerei. Non sarebbe dunque bastato rivestirle di una patina di termite (o nano-termite), come sostenuto dai complottisti.

11 settembre 2001 | Osservate quanto è complesso fondere un binario e quanta termite è necessaria per farlo.

«La demolizione controllata del WTC7»

Veniamo ora al crollo dell’Edificio 7 (WTC7). Secondo quanto appurato nel Final Report on the Collapse of World Trade Center Building 7 del NIST, il palazzo crollò per «collasso progressivo». Investito dai detriti della Torre Nord, l’Edificio 7 subì una serie di incendi, protrattisi per diverse ore, che in mancanza d’acqua non poterono essere domati. L’indebolimento delle strutture in acciaio a causa del calore fece il resto.

«Alcuni solai caddero internamente – continua Attivissimo su Undicisettembre.info – per cui una colonna in particolare, quella dello spigolo interno di nord-est, la numero 79, che reggeva un carico strutturale molto elevato, si trovò senza contenimento laterale lungo vari piani e si piegò, trascinandosi dietro i solai. Le altre colonne cercarono di reggere il carico straordinario, ma essendo indebolite si piegarono anch’esse e la struttura iniziò a crollare. Il crollo avvenne alle 17.20 circa dell’11 settembre 2001».

È difficile ma non impossibile reperire immagini che documentino quel che successe all’Edificio 7 poco prima del crollo. I teorici del complotto si accontentano di quelle che mostrano solo la facciata che non venne colpita dalle macerie. Quella che dava verso le Torri per esempio, presentava uno squarcio lungo circa venti piani, a cui si aggiunge un angolo lesionato che coinvolgeva dieci piani.

11 settembre 2001 | Dall’alto verso il basso: i detriti che travolsero il WTC7; immagine di Steve Spak che mostra la breccia aperta nella facciata dell’edificio prima del crollo.

Solo dopo sette ore di incendi indomabili per mancanza d’acqua il palazzo è finalmente crollato. Tutti gli addetti ai lavori sapevano a quel punto, che l’edificio sarebbe crollato. Già poco dopo mezzogiorno la struttura stava cominciando a pendere: chiunque fosse all’interno fu fatto uscire in tempo. I complottisti mostrano solo le immagini della facciata Nord, mentre i detriti investirono quella opposta.

Nacque una piccola leggenda attorno al termine «pull it», pronunciato da Larry Silverstein quando ormai era chiaro che il crollo sarebbe stato inevitabile. Silverstein viene considerato erroneamente il proprietario del grattacielo, in realtà ne era il locatario. Contrariamente alle interpretazioni dei complottisti nostrani, Pull it, non significa «buttatelo giù»; era riferito ai vigili del fuoco, significa infatti in questo contesto, «ritirateli». Del resto era una decisione presa dagli stessi pompieri.

«Il missile che colpì il Pentagono»

L’attacco al Pentagono è stato altrettanto oggetto delle fantasie cospirazioniste. Qui la dissonanza cognitiva si sente particolarmente. Del resto è il palazzo della Difesa americana, non è facile mandar giù il fatto che sia stato violato in quel modo. Il Pentagono è forse l’edificio per il quale sono stati fatti i maggiori travisamenti, non senza disdegnare immagini zumate e decontestualizzate ad arte.

Quella mattina alle 9:37 il Boeing 757 penetrò nella facciata del Pentagono provocando uno squarcio di 35 metri, dopo un rapido volo radente durante il quale piegò cinque lampioni e un generatore di corrente da 20 tonnellate. Il velivolo entrò nel piano terra e nel primo piano, dove non erano presenti pareti portanti. Rottami dell’aereo, resti umani ed effetti personali vennero trovati dentro e fuori. Nel prato antistante venne recuperata la scatola nera.

Buona parte delle tesi cospirazioniste si basano su luoghi comuni, come la credenza in presunte batterie di missili vicino all’edificio governativo, il quale sarebbe stato quindi colpito da un missile americano. Alcuni testimoni presenti non hanno saputo dire con precisione cosa hanno visto, ce ne sono 55 che hanno affermato di aver visto proprio un Boeing schiantarsi contro la facciata del Pentagono. Mentre sono in tutto 86 quelli che lo hanno visto dirigersi verso l’edificio. Nessuno ha affermato di aver visto un missile.

Alcuni guru complottisti hanno decontestualizzato un particolare della breccia lasciata dall’aereo larga circa cinque-sei metri. «Com’è possibile? Deve trattarsi di un missile». Invece, se andiamo a vedere le immagini integrali – prima del crollo della facciata – scopriamo che sotto quel particolare si vede uno squarcio compatibile con la forma e le dimensioni del velivolo.

«La ribellione del volo 93»

Quando i passeggeri del volo 93 appresero dai telefoni di bordo degli attacchi al WTC e al Pentagono pianificarono di reagire ribellandosi contro i dirottatori. Lo sappiamo perché uno di loro, Todd Morgan Beamer, raccontò le loro intenzioni al supervisore del servizio clienti della linea aerea Lisa Jefferson. 

Le sue ultime parole al telefono furono «Are you ready? OK. Let’s roll!». Non sappiamo se il volo dirottato dovesse finire contro una facciata del Pentagono o contro la Casa Bianca – non lo sapevano nemmeno quelle 33 persone, costrette dalle circostanze a diventare degli eroi nazionali. L’unica cosa che possiamo affermare con certezza è ci riuscirono: il loro gesto costrinse i quattro terroristi a bordo a far precipitare quel Boeing 757 nelle campagne nei pressi di Shanksville in Pennsylvania. L’impatto, quasi verticale, avvenne alle 10:03, alla velocità di 930Km/h. 

La ribellione venne confermata anche dall’esame della scatola nera. Fu l’ultimo atto degli attentati dell’11 settembre 2001. Contrariamente alla narrazione complottista, secondo cui questa storia è stata inventata e messa in scena da attori, esistono almeno quattro testimoni dell’impatto: Karl Landis, Eric Peterson, Terry Butler e Lee Purbaugh. Tutti confermano la cosiddetta «versione ufficiale».

I “guru” delle teorie del complotto. Il cosiddetto Movimento per la verità sull’11 settembre (9/11 truth movement) trova tra i suoi aderenti noti personaggi del complottismo americano, tra tutti Alex Jones di InfoWars. Durante una puntata del 25 luglio 2001, settimane prima dell’attentato, Alex Jones illustrò le sue teorie sui presunti «attacchi sotto falsa bandiera» (in inglese False Flag) a opera del Governo americano. A seguito dell’attacco alle Torri Gemelle, il conduttore americano sostenne che fosse tutta opera dell’amministrazione Bush. La puntata del 25 luglio 2001 usata dai complottisti per sostenere che Alex Jones avesse predetto l’11 settembre come “False flag” ad opera dell’amministrazione Bush. Un altro sostenitore di spicco delle teorie del complotto sull’11 settembre era lo scrittore e musicista Michael Ruppert. Nei suoi racconti sosteneva di essersi reso conto che c’era qualcosa di sbagliato osservando lo schianto del secondo aereo a New York, sospetto che avrebbe trovato conferma della presunta “mano” del Governo quando il volo AA77 colpì il Pentagono. Nel novembre 2001, a breve distanza dagli attentati, Ruppet tenne una conferenza dal titolo Truth and Lies of 9/11 davanti a circa mille persone per raccontare le sue verità sull’11 settembre. L’autore francese Thierry Meyssan pubblicò nel 2002 un libro dal titolo 9/11: The Big Lie, dove sostiene che il Pentagono venne colpito da un aereo militare o da un missile.

Il libro del 2002 del francese Thierry Meyssan. Benché Alex Jones risulti il più popolare tra i divulgatori delle teorie del complotto dell’11 settembre, quello che viene considerato il “leader intellettuale” dei cospirazionisti è il filosofo e professore universitario David Ray Griffin. Tra le fonti del docente americano troviamo The Terror Timeline, una cronologia degli eventi pre e post attentati pubblicata nel 2004 da uno studente della Stanford University di nome Paul Thompson.

L’opera dello studente universitario Paul Thompson pubblicata nel 2004. Il documentario di Michael Moore, pubblicato nel 2004 e intitolato Fahrenheit 9/11, non riportò teorie di complotto sugli attentati del 2001, limitandosi a descrivere il comportamento del Governo americano prima e dopo gli eventi.

Dopo gli americani e i francesi, nel 2006 compare uno dei primi video in italiano sulle teorie del complotto. Intitolato 11 settembre 2001 – Inganno globale, viene realizzato dal regista Massimo Mazzucco (già sostenitore della teoria del complotto sull’allunaggio).

Le verifiche sull’11 settembre

Non è possibile raccontare gli attentati dell’11 settembre 2001 ignorando il lavoro enciclopedico di Paolo Attivissimo e del suo team, disponibile online sul blog Undicisettembre.info. Si tratta del più ampio e documentato lavoro di fact checking sul tema in lingua italiana, che si avvale del contributo di numerosi esperti. Attivissimo fornisce anche una guida alla principale documentazione tecnico-scientifica, emersa dopo anni di ampie inchieste governative e indipendenti, in gran parte ancora disponibile online.

Per chi volesse cominciare a informarsi in maniera dettagliata su come sono stati pianificati gli attentati e sulle conseguenze degli impatti, sono degni di nota il report della Commissione 911, gli atti del processo Moussaoui e gli studi tecnici del NIST sulle Torri Gemelle e sull’Edificio 7.

A livello divulgativo, trovate su YouTube l’inchiesta del debunker britannico Myles Power, il quale analizza anche la sub-cultura che anima i movimenti complottisti sull’11 settembre. È ancora online sulla stessa piattaforma la puntata di Bersaglio Mobile dell’11 settembre 2017, condotta da Enrico Mentana, dove vengono analizzate le principali tesi cospirazioniste.

Conclusioni. È estremamente difficile convincere dopo tutti questi anni chi è stato ammaliato dalle narrazioni complottiste. La storia degli attentati dell’11 settembre merita uno sforzo in più da parte dei lettori. Sono tante le competenze in gioco, dal modo in cui funziona la cabina di pilotaggio di un aereo alle tecniche utilizzate dagli esperti di demolizione. Noi ci auguriamo di aver dato sufficienti riferimenti al fine di instradare chi è veramente interessato, scevro da preconcetti, a cominciare ad approfondire meglio l’argomento.

Attacco dell'11 settembre, l'Fbi desecreta e diffonde documento sulle indagini sulla "pista saudita". La Repubblica il 12 settembre 2021. Il rapporto di 16 pagine con più sezioni censurate viene declassificato per l'ordine del presidente Joe Biden di rilasciare documenti precedentemente segreti sull'indagine per chiarire gli attacchi terroristici. Il Federal Bureau of Investigation (Fbi) ha diffuso il primo di una serie di documenti relativi alla sua indagine sugli attacchi terroristici dell'11 settembre e al sospetto sostegno del governo saudita ai dirottatori, a seguito di un ordine esecutivo del presidente Joe Biden. Il documento fino a ora segreto che faceva parte delle sue indagini sul possibile coinvolgimento del governo saudita negli attacchi dell'11 settembre, dopo forti pressioni da parte dei parenti delle vittime. Il documento descrive i contatti che i terroristi hanno avuto con i sauditi negli Stati Uniti, ma non offre prove evidenti di un possibile coinvolgimento del governo dell'Arabia Saudita nel piano di attacco al Paese. Il rapporto di 16 pagine con più sezioni censurate viene declassificato come parte di un ordine del presidente degli Stati Uniti Joe Biden di rilasciare documenti precedentemente segreti sull'indagine dell'Fbi per chiarire gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. Il documento, che risale al 2016, fornisce una serie di dettagli circa le indagini dell'Fbi sul presunto supporto logistico che un funzionario consolare saudita e un sospetto agente dell'intelligence saudita a Los Angeles avrebbero fornito ad almeno due degli uomini che hanno dirottato gli aerei l'11 settembre 2001. In particolare descrive molteplici connessioni e testimonianze che hanno spinto l'FBI a sospettare di Omar al-Bayoumi, ufficialmente uno studente arabo a Los Angeles, ma che l'FBI sospettava essere un agente dell'intelligence saudita che avrebbe poi fornito "assistenza di viaggio, alloggio e finanziamenti" per aiutare i due dirottatori. L'ambasciata saudita a Washington aveva dichiarato mercoledì di "accogliere con favore il rilascio" dei documenti dell'FBI ma che "qualsiasi accusa contro l'Arabia Saudita di complicità negli attacchi dell'11 settembre sarebbe categoricamente falsa". L'ordine esecutivo di Biden è giunto dopo che più di 1.600 persone, feriti o familiari di vittime degli attacchi, gli hanno scritto una lettera chiedendogli di astenersi dall'andare a Ground Zero a New York per celebrare il 20/o anniversario a meno che non avesse pubblicato le informazioni sul ruolo dell'Arabia Saudita 

11 settembre, il documento segreto dell'Fbi. "Sugli attentati l'ombra dell'Arabia Saudita". Luigi Guelpa il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. I sospetti su funzionario consolare e uno strano agente. Doha: "Falsità". L'ambasciatrice saudita a Washington Reema Bandar Al Saud sapeva tutto, per questo mercoledì si era messa sulla difensiva sostenendo che «qualsiasi accusa di complicità dell'Arabia Saudita negli attacchi dell'11 settembre sarebbe categoricamente falsa». Al resto ci ha pensato l'Fbi, diffondendo ieri il primo di una serie di documenti relativi alle indagini sugli attacchi terroristici di vent'anni fa e al sostegno del governo di Riyadh ai dirottatori, dopo un ordine esecutivo del presidente Joe Biden. Il documento risale al 2016 e fornisce una serie di dettagli circa le indagini sul supporto logistico che un funzionario consolare e un agente dell'intelligence a Los Angeles avrebbero fornito ad almeno due degli uomini che dirottarono gli aerei. Nelle ultime ore sarebbe emersa l'identità di uno dei terroristi in contatto con le autorità saudite: si tratta di Nawaf Al Hazmi, originario della Mecca, dirottatore del volo 77 American Airlines che si schiantò sul Pentagono. Le generalità dei fiancheggiatori, che emergono dal documento di 16 pagine non più top secret, sono invece quelle di Omar Al Bayoumi, uno studente arabo a Los Angeles, e di Fahad Al Thumairy, all'epoca diplomatico presso il consolato saudita della città californiana. Bayoumi viene indicato come un agente dell'intelligence saudita che avrebbe fornito assistenza di viaggio, alloggio e finanziamenti ai due jihadisti. Al Thumairy guidava invece una fazione estremista nella sua moschea, dove si trovavano a pregare Al Hamzi e suo fratello Salem (anche lui sul volo 77). Il rapporto è il primo documento investigativo ad essere divulgato da quando il presidente Biden ha ordinato una revisione e declassificazione di materiali che per anni sono rimasti segreti. L'inquilino della Casa Bianca ha così acconsentito alla richiesta delle famiglie delle vittime, che ritengono che gli atti da declassificare possano mostrare una connessione tra i 19 attentatori e le autorità saudite, oggetto di una causa legale da parte dei parenti dei quasi 3mila morti e 6mila feriti. Il primo ad accogliere con una certa soddisfazione la svolta è uno degli avvocati dei parenti delle vittime, Jim Kreindler. Alla Cnn ha spiegato che «i risultati e le conclusioni di questa indagine convalidano le argomentazioni che abbiamo portato nel contenzioso relativo alla responsabilità del governo saudita e mostra come al Qaeda abbia agito con l'appoggio di Riyadh». Non solo, Kreindler parla con una certa sicurezza di telefonate intercorse tra diplomatici dell'Arabia Saudita e miliziani di Al Qaeda nei giorni precedenti all'11 settembre. «L'allora governo di re Fahd ha persino provveduto a pagare le scuole di volo ai terroristi». Ci si domanda che cosa accadrà adesso nei rapporti diplomatici tra Washington e Riyadh, caratterizzati negli ultimi tempi da una dinamica da montagne russe, con picchi di collaborazione e rapide discese. Un fatto è certo: nel 2019, durante la campagna per la nomination democratica, Biden definì l'Arabia Saudita «pariah», promettendo di interrompere il sostegno Usa. Luigi Guelpa

Paolo Mastrolilli per "la Stampa" il 13 settembre 2021. L'Fbi inizia a pubblicare i documenti segreti delle indagini sull'11 settembre, che confermano i sospetti riguardo l'Arabia Saudita, ma a Kristen Breitweiser non basta: «Bisogna rivelare tutto, anche sul ruolo di Iran, Emirati Arabi Uniti, Sudan, Pakistan e Qatar. Non saremo mai sicuri, fino a quando colpevoli e complici non verranno portati davanti alla giustizia». Biden ha ordinato di togliere il segreto, e durante l'anniversario di sabato l'Fbi ha pubblicato un rapporto di 16 pagine su "Encore", l'inchiesta riguardo Riad. Il testo si concentra sull'aiuto che Nawaf Al-Hazmi e Khalid Al-Mihdhar, i primi due attentatori arrivati negli Usa all'inizio del 2000, avevano ricevuto in California dall'ex impiegato statale saudita Omar al-Bayoumi e dal funzionario del consolato di Los Angeles Fahad al Thumairy. Kristen negli attentati aveva perso il marito Ron, e insieme ad altre tre vedove aveva formato il gruppo delle "Jersey Girls", determinante nella creazione della Commissione d'inchiesta sull'11 settembre.

Cosa pensa del rapporto?

«Sebbene ci siano ancora troppi passaggi cancellati, continua a sollevare domande scomode non solo sul ruolo saudita, ma anche sui fallimenti sistemici del mio governo che hanno contribuito all'enorme devastazione». 

Ritiene che l'Arabia Saudita abbia aiutato i dirottatori?

«Il governo americano possiede informazioni per provare il ruolo saudita, come minimo nel sostegno finanziario. I fatti dimostrano che avevano un grande network di appoggio negli Usa, già 18 mesi prima dell'attacco. Vari governi stranieri hanno giocato un ruolo, all'interno e all'esterno degli Usa. Pubblicare queste informazioni è l'unico modo per assicurare che non avremo un altro 11 settembre».

Non sospettate solo dell'Arabia Saudita?

«No. Le famiglie delle vittime sono in causa con l'Iran, responsabile di aver aiutato i dirottatori con passaporti e trasporti. Dal 1992 al 1996 Bin Laden ha vissuto in Sudan, rafforzando Al Qaeda. Molte transazioni finanziarie che hanno consentito agli attentatori di colpire sono originate negli Emirati Arabi Uniti. Khalid Sheikh Mohammed, mente dell'operazione, era in Qatar prima degli attacchi, ma per qualche ragione non siamo andati a prenderlo. Bin Laden, infine, è stato trovato in Pakistan: cosa ci faceva libero in quel Paese? Sono domande scomode, perché riguardano alleati degli Usa, e quindi avrebbero un impatto sulla politica estera. Vendiamo un sacco di armi all'Arabia Saudita, dove abbiamo una forte presenza militare: né noi, né loro, vogliamo mettere a rischio questo rapporto».

Cosa pensa del ritiro dall'Afghanistan?

«Capisco perché siamo andati, ma l'operazione è stata gestita male dall'inizio, cioè da quanto abbiamo fatto negli anni Ottanta, come nel 1996 abbiamo permesso a Bin Laden di tornare, e tutti i problemi successivi, incluso il ritiro». 

Cosa prova a vedere i taleban di nuovo al potere?

«Mi si spezza il cuore». 

Teme che torneranno ad attaccare l'America?

«Sono sicura che possono, e probabilmente lo faranno». 

Cosa ha provato quando Bin Laden è stato ucciso?

«Anche questo ha sollevato domande. Perché ci abbiamo messo così tanto a trovarlo? Perché era libero in Pakistan? Poi sarebbe stato meglio prenderlo vivo, per processarlo e sentire cosa aveva da dire». 

Non potremmo conoscere la verità dal processo di Khalid Sheikh Mohammed?

«Vorrei vederlo, ma non avverrà mai, perché è stato torturato dalla Cia». 

Le prove raccolte con la tortura sono inammissibili?

«Questo è un motivo. Poi non vogliono che alcune cose scoperte negli interrogatori diventino note, e temono che i suoi avvocati rivelino in tribunale le prove della tortura». 

Alcuni ex detenuti di Guantanamo sono membri del governo di Kabul.

«È successo perché Guantanamo è stata gestita male dal principio. È una "kangaroo court", un tribunale fantoccio. Una macchia nella storia degli Usa. I colpevoli sono là, ma non possono essere processati».

Mohammed è stato arrestato in Pakistan: non dovrebbe almeno sapere chi l'ha aiutato?

«Ovvio. Sapete quanti soldi danno gli Usa al Pakistan ogni anno? Eppure Bin Laden era nascosto là». 

I suoi critici l'accusano di essere più dura con gli Usa che con Al Qaeda.

«I terroristi che hanno ucciso mio marito sono criminali e vanno portati a processo. Ma è il mio governo che impedisce la giustizia, non noi. Non so perché, ma pur avendo le prove di chi li ha sostenuti finanziariamente, chi li ha aiutati logisticamente, chi li ha addestrati militarmente, chi ha insegnato loro a dirottare gli aerei, e le conversazioni registrate in occasione di attacchi precedenti come la Cole, gli Usa vogliono lasciarli andare».

11 SETTEMBRE / CIA, FBI & CASA BIANCA, (STATI) UNITI NEL TERRORE. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 7 Settembre 2021. 20 anni da quel tragico 11 settembre. Il capo della Casa Bianca, Joe Biden, promette di rendere pubblici atti & documenti fino ad oggi top secret. “Desecreto tutto”, sbandiera. Altro fumo negli occhi degli americani, dopo i freschissimi, tragici scivoloni sul fronte dell’Afghanistan e su quello dei vaccini, per far approvare in modo illegale dalla ‘Food and Drug Administration’ il prodotto Pfizer e con il diktat per la terza dose. Perché la verità sull’attentato alle Torri Gemelle e i 3000 morti è già consegnata alla storia ed è ben nota, non solo agli americani. Ma è stata regolarmente nascosta dal mainstream, dalla stampa sempre più omologata e cloroformizzata. Una verità che parla di precise, chiare, inequivocabili responsabilità dei servizi segreti e d’intelligence a stelle e strisce, FBI e CIA in cima alla lista: le cui azioni, di tutta evidenza, erano orchestrate nelle alte sfere, vale a dire la Casa Bianca e il Pentagono. Le prime verità risalgono ai risultati del lavoro svolto dalla "Commissione nazionale sugli attacchi terroristici dell’11 settembre", nota anche come "Commissione sull’11 settembre", venuti alla luce il 27 maggio 2004. Sul fronte italiano, spicca il grande lavoro investigativo svolto da Giulietto Chiesa e da Ferdinando Imposimato, due grandi amici della ‘Voce’, due colonne che hanno firmato per il nostro magazine decine e decine di inchieste al calor bianco: ed anche sui misteri (ormai non più tanto) che avvolgono le Twin Towers. Procediamo con ordine. E partiamo dagli esiti della "Commissione 11 settembre".

ALTE COMPLICITA’

Una Commissione perfettamente bypartizan, composta da 5 democratici e 5 repubblicani, presieduta dal repubblicano Thomas Kean (all’epoca governatore del New Jersey), vicepresieduta dal democratico (allora in rappresentanza dell’Indiana) Lee Hamilton. In realtà, a dirigere la Commissione era stato chiamato addirittura l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, il quale dopo poche settimane si dimise per palese conflitto d’interessi: quel Kissinger che più di vent’anni prima aveva diretto la ‘non liberazione’ di Aldo Moro, come proprio Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato hanno documentato nel loro mitico “Doveva Morire”. Un lavoro investigativo – quello della Commissione a stelle e strisce – andato avanti a singhiozzo, tra mille ostacoli ed intralci e soprattutto una scarsissima collaborazione da parte delle istituzioni, proprio quelle istituzioni che, invece, avrebbero dovuto collaborare al massimo ed esigere verità e giustizia. Tra insabbiamenti e depistaggi va avanti il lavoro, che comunque, alla fine, qualche risultato lo produce: in soldoni, l’imputato numero uno è l’Arabia Saudita, che avrebbe favorito in tutti i modi i terroristi, sia sotto il profilo organizzativo che, soprattutto, finanziario. Ma saranno, un paio d’anni dopo (nel 2006), gli stessi vertici della Commissione, Kean ed Hamilton, a spiegare come andarono realmente le cose in un libro-verità, regolarmente oscurato dal sempre servizievole mainstream: si tratta di “Senza precedenti: la storia interna della Commissione sull’11 settembre”.

UN LIBRO CHOC

In quel libro choc, infatti, senza peli sulla lingua i due commissari (rammentiamolo, uno repubblicano e uno democratico) sostengono che quella Commissione venne “costituita per fallire”, cioè per nascondere la verità. Per pagine e pagine i due coraggiosi commissari descrivono per filo e per segno il profondo senso di frustrazione provato di fronte alle ripetute e fuorvianti dichiarazioni, palesemente errate, rilasciate dai funzionari del Pentagono e della ‘Federal Aviation Administration’, proprio ai fini di un depistaggio in piena regola. La conclusione che traggono non lascia spazio ai dubbi: le defaillances   della Central Investigation Agency (CIA) e del Federal Bureau of Investigation (FBI) degli Usa hanno permesso il verificarsi degli attacchi terroristici. Attacchi che si sarebbero potuti agevolmente evitare se solo le due agenzie avessero operato in modo appena più efficace e consapevole. Motivo per cui è facile dedurre che non si sia trattato di superficialità e pressapochismo, visto l’elevato standard di efficienza sempre palesato dai due apparati investigativi, noti in tutto mondo, da sempre: ma si sia trattato, invece, di complicità & collusione. Il tutto, of course, con l’ok, anzi la benedizione del Pentagono e della Casa Bianca, il cui vertice era all’epoca rappresentato da George Bush junior, il rampollo di George Bush senior. Uno dei principali depistatori, nel quadro di questa raccapricciante sceneggiata che ha causato 3.000 vittime (senza contare i devastanti effetti collaterali seguenti, come le invasioni di Iraq e Afghanistan), è stato l’allora capo della CIA, George Tenet, il cui comportamento, come vedremo in seguito, è stato segnalato da Imposimato nella sua relazione sull’11 settembre redatta per il Tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità. 

CIA, A TUTTO DEPISTAGGIO

Ecco il report di un sito di controinformazione, all’epoca dei lavori della Commissione: “Il direttore della Cia, George Tenet, ha fuorviato la Commissione e ‘ovviamente non è stato disponibile’ nella sua testimonianza davanti alla Commissione, secondo il copresidente Thomas Kean. Un agente dell’Fbi, di nome Doug Miller, aveva lavorato all’interno della Alec Station, nota anche come ‘Bin Laden Issue Station’, un’unità della Cia dedicata al monitoraggio delle attività di Osama bin Laden e dei suoi associati. Nella primavera 2000 Alec Station ha appreso che Khalid al-Mihdahar, un cittadino saudita che all’epoca era noto per essere un membro di al-Qaeda, e Nawaf Al Hazmi, un altro saudita che a quel tempo era un sospetto agente di al-Qaeda, erano entrati negli Stati Uniti e vivevano con il proprio nome nel sud della California”. Prosegue quel report: “L’agente dell’Fbi Miller voleva informare l’Fbi della loro entrata e presenza negli Stati Uniti, ma la Cia ha bloccato gli sforzi di Miller per farlo. La contemporanea bozza di Miller all’Fbi che riferiva su questo, ossia che la Cia aveva impedito a Miller di inviare in quel momento, fu trovata molto più tardi. Khalid Al Mihdahar e Nawaf Al Hazmi erano fra i dirottatori dell’11 settembre del volo 77 dell’American Airlines. La Cia non ha quindi rivelato alla Commissione che più di un anno prima dell’11 settembre, stava monitorando l’ingresso e la posizione dei due dirottatori all’interno degli Stati Uniti”. E così conclude: “Il copresidente Kean ritiene che l’incapacità della Cia di fornire queste informazioni alla Commissione sia stata deliberata, non un errore. ‘Oh, non è stata una svista negligente’, ha risposto Kean. ‘Era intenzionale. Nessun dubbio su questo nella mia mente… Nel Dna di queste organizzazioni c’è la segretezza”. Più chiaro di così! Eccoci, dunque, al folto gruppo dei dirottatori. Sia Khalid al-Mihdar che Nawaf al-Hazmi facevano parte del commando di 5 terroristi che dirottarono il volo 77 dell’American Airlines schiantatosi sul Pentagono.Ma chi era, invece, il super capo di tutto il commando, composto complessivamente da 19 terroristi, di cui 5 in missione sul Pentagono e gli altri 14 sulle Twin Towers? 

ATTA D’ACCUSA

Si tratta di Mohamed Atta, la cui figura viene delineata a tutto tondo da Ferdinando Imposimato nella sua lunga e dettagliata relazione scritta per la Corte dell’Aja. E Ferdinando scrisse in quell’epoca (marzo 2012) un’inchiesta per la Voce, nella quale descriveva, appunto, il profilo di Atta, la sua story e soprattutto tutte le attività svolte in oltre un anno di perfetta libertà negli States, proprio quell’anno che ha preceduto l’attacco alla Torri Gemelle. E’ la vera pistola fumante, la prova regina che attesta le responsabilità, anzi le collusioni di Fbi e Cia nella connection: il tutto, come abbiamo già rimarcato, per l’attenta regia della Casa Bianca e del suo braccio operativo, il Pentagono.I legami tra Atta e la primula rossa, per anni, del terrorismo internazionale, Osama bin Laden, erano molto stretti. Suggellati, tre anni fa, anche dal matrimonio tra il figlio di Osama, Hamza bin Laden, e la figlia del capo commando. Ma anche fratelli e fratellastri di Osama hanno fatto non poco parlare di sé. E’ di appena un mese fa – la notizia è stata diffusa dalle agenzie il 2 agosto scorso – una sontuosa vendita, da ben 28 milioni di dollari. Si tratta della villa di Bel Air – il quartiere più chic di Los Angeles, popolato di star del cinema – fino a quel momento di proprietà del fratellastro di Osama, Ibrahim bin Laden, che l’aveva abbandonata appena dopo l’attacco alle Torri Gemelle. La stupenda proprietà immersa nel verde delle colline di Santa Monica è rimasta abbandonata per vent’anni, fino alla fresca vendita. 

LE GRANDI ‘PARTITE’ DI BUSH SENIOR

Ed era un miliardario anche il fratello di Osama, Shafiq bin Laden, il quale – guarda caso – proprio quella tragica mattina dell’11 settembre si trovava in compagnia di George Bush senior. La cornice era sontuosa, ossia la terrazza del Ritz-Carlton Hotel di New York; e l’occasione da non perdere, ossia l’assemblea annuale dei prestigiosi soci di ‘Carlyle Group’, un colosso della finanza a stelle e strisce. E i due ‘amiconi’ – George e Shafiq – si poterono godere il magico spettacolo pirotecnico da quella terrazza che più panoramica non si può.

Ma i rapporti tra Osama bin Laden e Bush senior sono stati anche diretti. Come la Voce ha documentato nel corso di un’intervista con l’avvocato Carlo Taormina, il quale è stato anche il legale di Loredana Bertè, all’epoca compagna del campione di tennis Bjorn Borg. Raccontò Taormina alla Voce di un pranzo organizzato nella tenuta di Bush padre, grande appassionato della racchetta, al quale presero parte, come guest star, il super tennista svedese, la sua Loredana e – udite udite – nientemeno che il futuro re del terrore, Osama bin Laden. Siamo a fine anni ’90….

11 SETTEMBRE / OBAMA DESECRETA LE COMPLICITA’ DI CIA E FBI? Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 10 maggio 2016.11 settembre 2001: quasi 15 anni fa la tragedia delle Torri Gemelle. 1 maggio 2011: 5 anni fa l’eliminazione del ricercato numero uno, Osama bin Laden. Due gialli ancora avvolti nelle nebbie. Potrà far luce il dossier che Barack Obama sta per desecretare, prima di lasciare la Casa bianca? Sono vere alcune indiscrezioni, secondo le quali alcuni “pezzi” di verità potrebbero emergere in modo clamoroso, svelando le complicità di pezzi da novanta dell’establishment Usa, in primis vertici di Cia, Fbi e super apparati della sicurezza a stelle e strisce? Staremo a vedere. Intanto dagli States rimbalza una notizia clamorosa: dietro il “terrorismo” islamico e gli attentati, una Gladio B, gemmazione di quello “Stay Behind” che ha insanguinato l’Italia e contrassegnato la “strategia della tensione” di casa nostra. Cominciamo da oggi. Le news a stelle e strisce aggiornano su un Donald Trump in vena di capriole prevoto: tra le ultime sparate, la promessa del magnate di liberare, appena eletto, il medico pakistano – un eroe per tantissimi negli Usa – che con la scusa di un vaccino avrebbe portato al nascondiglio del suo illustre paziente, bin Laden: si tratta di Shakil Afridi, condannato a ben 33 anni di galera in patria con l’accusa di far parte di un gruppo terroristico. Per festeggiare l’uccisione di Osama, comunque, la Cia l’ha pensata e fatta grossa: un diluvio di messaggi video via Twitter, dal 1 maggio, per mostrare al popolo yankee dei flash sull’operazione, “come se tutto stesse succedendo in tempo reale”, hanno commentato le menti Cia illustrando l’originale iniziativa. La Cnn, dal canto suo, ha intervistato Obama nella “situation room” nella Casa Bianca, dove il presidente potè seguire in diretta, con i suoi più stretti collaboratori, il mitico blitz. Potete leggere tutti i dettagli di quell’operazione taroccata – bin Laden non venne catturato e ucciso dopo una rocambolesca ricerca, ma semplicemente venduto per milioni di dollari (pare una dozzina) dal capo dei servizi segreti pakistani, Mohamoud Ahamad, che ritroveremo fra poco – nell’inchiesta della Voce messa in rete esattamente un anno fa, il 15 maggio 2015.

Ma il “nodo”, ora, per Obama, resta uno: desecretazione sì, desecretazione no. Spiega un esperto di intelligence Usa: “Prima della fine del suo mandato il presidente ci terrebbe a fare due cose che gli pesano non poco sullo stomaco: la questione Guantanamo, che non è riuscito a risolvere dopo le tante promesse di chiudere quel lager; e la vera storia delle Torri Gemelle, un problema gigantesco, perchè se si inizia a scalfire il muro di gomma fino ad oggi innalzato sono guai per tutti ai vertici del potere Usa, con deflagranti effetti a catena ora del tutto inimmaginabili”. In un’intervista alla Cbs rilasciata da Obama il 19 aprile, il numero uno della Casa Bianca ha ammesso che la decisione sulla desecretazione è ad un punto di svolta. Lo ha fatto prima di partire per un viaggio in Arabia Saudita. “Circostanza significativa – viene sottolineato – perchè certe rivelazioni riguarderebbero proprio il ruolo svolto dall’Arabia Saudita nel fiancheggiare il terrorismo islamico e un possibile ruolo anche per la vicenda dell’11 settembre”. Ecco alcune parole di Obama, a proposito del dossier sulle Torri Gemelle fino ad oggi top secret, 28 pagine dense di nomi & circostanze bollenti: “ho un’idea di cosa ci possa essere scritto, ma la nostra intelligence, guidata da Jim Clapper, ha dovuto assicurarsi che le informazioni, una volta rilasciate, non compromettessero la sicurezza del Paese. Credo che Clapper abbia finito questo lavoro”. Che verità, a questo punto, salteranno fuori? Brandelli, per non “compromettere” i destini dei Palazzi Usa, o almeno mezze verità? Perchè fino ad oggi la macchina della “disinformazione” e del più totale “insabbiamento” ha avuto sempre la meglio. 

2012, L’ATTA D’ACCUSA DI FERDINANDO IMPOSIMATO. Ad effettuare una minuziosa ricostruzione di quel tragico 11 settembre, delineando soprattutto un identikit dei protagonisti dell’attentato che cambiato le sorti del mondo, s’è attivato, cinque anni fa, un team di studiosi internazionali, al quale la Corte dell’Aja ha chiesto un contributo scientifico (e anche giuridico) per cercare di comporre le tessere del complesso mosaico. In prima fila, i nostri Ferdinando Imposimato e Giulietto Chiesa. A marzo 2012 Imposimato – storico “giudice istruttore” ai tempi del rapimento Moro e dell’attentato a papa Woytila – scrisse per la Voce un ampio reportage che titolammo “Atta d’Accusa”: una profetica ricostruzione consegnata alla Corte dell’Aja. Alcuni suoi cardini – secondo indiscrezioni – potrebbero trovare una clamorosa conferma nel dossier che Obama starebbe per desecretare. Accanto a Mohamed Atta – il capo dei kamikaze per l’attacco alle Twin Towers – il personaggio chiave della story è Mohamoud Ahmad, il capo dei potenti servizi segreti pakistani (ISI) a inizio 2000: l’uomo che commissionò, per conto della Cia, ad Atta & C. l’attacco alla Torri, e che dopo dieci anni esatti “venderà” per una barca milionaria di dollari bin Laden alla stessa, generosa Cia. Leggere per credere. Ecco cosa scriveva Imposimato più di 4 anni fa, marzo 2012 (in basso il link dell’inchiesta pubblicata dalla Voce). “Vi è la prova che a novembre del 1999 Mohammed Atta, pedinato dalla Cia, lasciò Amburgo e andò prima a Karaci, in Pakistan, poi a Kandahar, in Afghanistan. Qui Atta incontrò Osama Bin Laden e lo sceicco Omar Saeed. Saeed era colui che avrebbe finanziato, per conto del capo dei Sevizi segreti pakistani (ISI), Mahmoud Ahmad, l’egiziano Atta e i suoi kamikaze. Secondo il Times India, che ebbe le intercettazioni dei colloqui di Saeed con Ahmad, questi nel giugno 2000 inviò dal Pakistan 109 mila dollari ad Atta, tramite una banca di Dubai. E ciò mentre Atta era appena arrivato in Florida”. Ricostruì ancora Imposimato: “L’amministrazione Usa dal 1999 aveva la prova dell’incontro di Atta con Saeed. Ma non accadde nulla. Perchè? La ragione è evidente: Ahmad, che si trovava a Washington dal 4 all’11 settembre, cioè nella fase cruciale della preparazione ed esecuzione degli attacchi, e si era incontrato con il capo della Cia George Tenet, aveva la possibilità di ricattare l’amministrazione Bush. E di dimostrare che l’esecutivo sapeva dell’attacco e lo aveva lasciato eseguire per giustificare le guerre successive. La presenza di Ahmad alla Casa Bianca, e poi al Pentagono, venne scoperta dal professor Michel Chossudovsky, che non è stato mai smentito”. Un altro componente, Chossudovsky, del gruppo di esperti incaricati dall’Aja di redigere la “controinchiesta” sull’11 settembre. “Ho avuto modo di sentire Chossudovsky al Toronto Hearing, nel settembre 2011: un grande ricercatore di verità”, scriveva ancora l’ex magistrato, che nella sua minuziosa ricostruzione dei mesi precedenti (quel tragico 11 settembre) di Atta, ne scopre delle belle, libero come un fringuello – il capo dellla band – di girare per mezzo mondo. Viaggi senza tregua, nonostante visti illegali e, soprattutto, nonostante “formalmente” il suo nome risultasse nella super lista dei ricercati per terrorismo stilata dal dipartimento di Stato fin dal 1986. Sottolinea soprattutto due clamorose circostanze, Imposimato, nel suo reportage. Bush era al corrente di tutto, possibili attentati imminenti compresi, perchè la Cia ad agosto 2001 inviò alla Casa Bianca una lettera top secret che testualmente, fra l’altro, diceva: “Osama bin Laden determined to strike Us” e faceva riferimento all’attentato del 1993 al World Trade Center, il tutto con l’obiettivo di “bring the fighting to America”, portare il conflitto nel cuore degli States. E tutto sapevano, ovviamente, i vertici dei Servizi a stelle e strisce. In particolare Tom Wilshire, il cui comportamento “attivo e omissivo” Imposimato ha denunciato davanti alla Corte dell’Aja: “quando nell’agosto 2001 passò dalla direzione della Cia al vertice dell’Fbi, egli sapeva perfettamente che Atta aveva fatto azione di reclutamento di terroristi in Germania e aveva acquistato polvere per esplosivi a Francoforte. E’ un probabile complice dei terroristi per aver consentito gli spostamenti negli Usa e aver omesso di informare l’Fbi circa questi spostamenti. Non fornì – scrisse ancora Imposimato – all’Fbi le notizie che aveva raccolto sul conto di Atta e degli altri, fin dall’incontro di Kuala Lampur nel dicembre 1999”. Scrive Laura Ferrari sui “misteri irrisolti” dell’11 settembre: “Tra gli altri misteri che i 19 dirottatori si sono portati nella tomba, ci sono visite rimaste inspiegabili a Las Vegas nei mesi prima dell’attentato, uno strano incontro in Malaysia nel 2000 (con ogni probabilità il summit di Kuala Lampur a dicembre, ndr) tra esponenti di Al Qaeda e due terroristi poi morti sull’aereo finito al Pentagono e il bizzarro itinerario seguito la mattina dell’11 settembre da altri due dirottatori. Nessuno ha capito – scrive ancora – perchè Mohamed Atta e Abdulaziz Alomari quella mattina compirono un complesso viaggio fino a Portland, nel Maine, prima di trasferirsi a Boston e imbarcarsi sugli aerei poi finiti sulle Torri Gemelle”. 

MAXI TRAFFICI ILLEGALI & COPERTURE DELLA GLADIO B

Ma un’altra investigatrice – per anni in servizio all’Fbi come traduttrice – ha scritto un esplosivo dossier-verità sulle Torri Gemelle e la fitta rete di complicità ad altissimo livello. Si tratta di Sibel Edmond, che è riuscita a raccogliere una sterminata mole di materiali, ha poi inutilmente cercato un editore, non lo ha evidentemente trovato e alla fine ha deciso di autopubblicare “Classified Woman – the Sibel Edmond Story” proprio nella primavera 2012: subito eclissato dai media e ignorato dai mezzi d’informazione, pochi stralci a vagare nell’etere del web alternativo. Ecco, di seguito, alcuni illuminanti passaggi tratti da un report del Sunday Times. “La Edmonds descrive gli stretti legami di Pentagono, Cia e Dipartimento di Stato con i militanti di Al Qaeda fin dal 2001. Il suo libro accusa esplicitamente gli allora vertici governativi e militari di negligenza, corruzione e collaborazione con Al Qaeda in traffici di armi e droga nell’Asia Centrale. Edmond sostiene che l’allora braccio destro di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, ha avuto numerosi incontri presso l’ambasciata Usa a Baku, in Azerbaijan, con gli uomini dell’intelligence statunitense dal 1997 al 2001, all’interno di un’operazione conosciuta come Gladio B. Secondo Edmonds, al-Zawahiri, così come diversi membri della famiglia bin Laden e altri importanti mujahideen, sono stati trasportati dagli aerei militari della Nato in diverse parti dell’Asia Centrale e sui Balcani per partecipare a operazioni di destabilizzazione decise dal Pentagono”. Parole che pesano come macigni. Sui proficui rapporti tra bin Laden e la famiglia Bush, del resto, la Voce a inizio 2000 pubblicò alcune dichiarazioni dell’avvocato Carlo Taormina, all’epoca legale di Loredana Bertè, la quale gli aveva raccontato di “un pranzo con l’ex marito, il tennista Bijorn Borg, a casa Bush: al tavolo c’era un certo Osama bin Laden”. Continuiamo col report. “Sibel Edmonds, che ha studiato legge e psicologia criminale alle università George Washington e George Mason, ha descritto come la Cia e il Pentagono hanno condotto una serie di operazioni coperte supportando la rete di milizie islamiste legate a bin Laden subito dopo l’11 settembre, in Asia Centrale, nei Balcani e nel Caucaso. Mentre i legami sono ben noti e ammessi dagli Usa durante la guerra russa in Afghanistan, i legami successivi sono stati sempre falsamente negati”. Ecco, più in dettaglio, la Gladio B secondo la ricostruzione della investigatrice-traduttrice. La quale fa un nome, quello del maggiore Douglas Dickerson, un militare che conosceva personalmente, essendo il marito della sua collega Melek negli uffici della stessa Fbi. Dickerson “diresse specificamente l’operazione Gladio in Kazakhstan e in Turkmenistan, contemporaneamente”. Veri Rambo. In particolare, il maggiore lavorava per la DIA (Defence Intelligence Agency), organismo controllato dal Pentagono, nonché per l’OSP (Office of Special Plans), impegnati sul fronte della fornitura di armi alle divisioni logistiche in Turchia e Asia Centrale. Sintetizza il report del Sunday Times: “Se l’Italia era l’epicentro delle manovre della vecchia Gladio, secondo la Edmonds i paesi di riferimento per le operazioni della nuova Gladio B sono Turchia e Azerbaijan”. E per quanto riguarda gli obiettivi strategici: “progettare le nuove strategie energetiche per gli Usa, attraverso nuove influenze sui paesi dell’ex impero sovietico; respingere il potere crescente di Russia e Cina; espandere il raggio delle azioni criminali, soprattutto per quanto concerne i traffici di droga e armi”. Obiettivi da autentico Stato canaglia: quegli stati che gli Usa – in teoria – avrebbero dovuto contrastare…“Non è un caso – dichiara Edmonds al Sunday – che i traffici internazionali di oppio siano cresciuti a dismisura sotto la tutela Nato in Afghanistan. Le rotte previste dai piani della Nato si basavano su trasporti dall’Asia, a bordo di navi, la destinazione preferita per i carichi di eroina è stata il Belgio, da dove poi veniva smistata in tutta Europa e in Gran Bretagna. Altri approdi dei traffici, sempre via mare, erano il New Jersey e Chicago, negli Usa. Il controspionaggio dell’Fbi e la Dea (Drug Enforcement Agency, ndr) sono riusciti a monitorare queste operazioni, che vedevano implicati i vertici del Pentagono, della Cia e del Dipartimento di Stato, con un ruolo di primo piano svolto da Dickerson. Tutti i traffici di droga, denaro e terrore nell’Asia Centrale erano diretti da questi ufficiali”. Più chiari di così. L’attendibilità e veridicità delle affermazioni e ricostruzioni effettuate da Sibil Edmonds ha trovato conferma nelle dichiarazioni di non pochi ufficiali non implicati in quei traffici e non timorosi di parlare, sia all’interno dell’Fbi che dei servizi britannici, l’M16. Per fare un solo esempio, l’agente speciale dell’Fbi Dennis Sacher s’è lasciato sfuggire un significativo “è uno scandalo più grande del Watergate”: dopo di che è stato rimosso dal suo ufficio, in Colorado. Come mai fino ad oggi la “bomba” non è scoppiata? Perchè il Watergate post 11 settembre non è esploso? “Per via delle gigantesche manovre corruttive che hanno inquinato gli Usa”, è l’amaro commento della Edmonds. “L’altissimo livello di corruzione ha compromesso ogni capacità di accertamento della verità da parte di chi avrebbe dovuto investigare su quello che è accaduto, su quanto hanno fatto coloro che hanno pianificato l’11 settembre. La corruzione ha comprato il silenzio del Congresso. Il controspionaggio dell’Fbi ha comprato i voti di molti repubblicani e democratici in pari tempo”. Un pesantissimo silenzio, costato non solo in termini di dollari ma soprattutto in termini di vite umane. E di maxi traffici illegali portati avanti negli arcidemocratici States. Potrà infrangerlo l’ultimo colpo di coda dell’uscente Obama?

11 SETTEMBRE / TUTTE LE VERITA’ MAI RACCONTATE, MANDANTI MADE IN USA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 6 Gennaio 2019. La verità sulla tragedia dell’11 settembre potrebbe venire presto a galla. Un famoso gruppo di hacker, chiamato The Dark Overlord, è infatti entrato in possesso di una montagna di documenti top secret – si parla di una cifra stratosferica, ben 18 mila – che minaccia di rivelare al mondo intero se non verrà pagato un gigantesco riscatto in Bitcoin. A riprova che la loro minaccia è reale, hanno messo on line 10 gigabyte di file criptati, la cui chiave di decriptazione verrà resa pubblica se, appunto, non sarà pagato il riscatto richiesto. A quanto pare si tratta di file che coinvolgono le massime autorità e i principali protagonisti nella tragica vicenda delle Twin Towers: Cia, Fbi, Pentagono, la Transfert Security Administration, la Federal Aviation Administration, compagnie d’assicurazione e di volo nonché Larry Silverstein, il miliardario immobiliarista che ha avuto la fortuna di fittare le due torri appena tre mesi prima che avvenisse il loro crollo. Pochi sanno, infatti, che in seguito alla tragedia è ovviamente insorto un contenzioso tra Silverstein da un lato, le compagnie di assicurazione, quelle aeree e lo stesso comune di New York dall’altro. Dopo una estenuante trattativa, alla fine è stato raggiunto un accordo, o meglio, un “patteggiamento”. Tutti quei documenti e quelle intese sono sempre rimaste top secret, oscurato tutto: secondo alcuni i documenti avrebbero dovuto essere distrutti. Ad oggi – spiegano dei legali di New York – nessuno ha potuto mai sapere il reale contenuto del patteggiamento, l’accordo sottostante, le clausole, le vere motivazioni che hanno portato all’intesa. Zero. Siamo nel buio più completo. A rendere il giallo ancor più giallo ora c’è la maxi richiesta di riscatto, nonché il fatto che la notizia è uscita per la prima volta, a fine anno, come vera bomba di Capodanno, sul quotidiano Russia Today. Non in pochi hanno “decriptato” il fatto – è il caso di dirlo – come una “pressione” da parte dei russi, una sorta di revolver puntato sulla Casa Bianca e forse volto a far velo sul Russiagate. Fatto sta che la miccia è accesa e vedremo nei prossimi giorni cosa accadrà. Ma passiamo ai raggi x la vera storia delle Twin Tovers e, soprattutto, cerchiamo di capire meglio chi à Lucky Larry Silverstein.

MISTER SILVERSTEIN TRA MISTERI & MEGA AFFARI

Inizio 2001. Il potente immobiliarista ha puntato gli occhi sulle Twin Towers ed avviato una trattativa per poter ottenere un fitto “a vita”, per lui e i suoi eredi, 99 anni di contratto. Teniamo presente che il valore dell’immobile è di circa 3,7 miliardi di dollari: il primo acconto che Silverstein versa a giugno 2001 è da 124 milioni di dollari. Ma ecco che in 100 giorni succede di tutto. Due, in particolare, i fronti battuti da Silverstein: da un lato i contratti di assicurazione, dall’altro quelli per la “security”. Partiamo dalle super polizze assicurative. A recitare la parte del leone è l’elvetica Swiss Re. L’ammontare assicurato è pari al doppio del valore reale (prima anomalia): 7 miliardi di dollari a fronte, come detto, di poco più di 3 e mezzo. Ma è una clausola a dar molto da pensare: l’assicurazione era anche “contro possibili attacchi terroristici”. Molto previdente e (e forse preveggente) mister Silverstein! Più complessa la gestione della “sicurezza elettronica” delle Torri. A stipulare il maxi contratto è la SECURACOM (che oggi si chiama STRATASEC). Interessante la composizione del suo consiglio d’amministrazione: nel quale fa capolino la presenza di Marvin Bush, fratello di George W. Bush, e quindi figlio di George Bush senior, recentemente passato a miglior vita. La poltrona di direttore generale di Securacom, poi, all’epoca era occupata da Wist Walzer III, cugino dello stesso Marvin Bush. Non è certo finita qui. Perchè l’onnipresente Securacom aveva in cura anche i sistemi elettronici di sicurezza al Dulles International Airport e alla United Airlines: vale a dire l’aeroporto dal quale partì il velivolo killer con il capo commando Mohamed Atta a bordo, e la compagnia aerea alla quale apparteneva il velivolo stesso. Un cerchio ben chiuso, saldato alla perfezione: Silverstein era in grado di controllare direttamente i sistemi elettronici delle sue Torri Gemelle e indirettamente – via Securacom – anche quelli della compagnia aerea (United Airelines) e dello scalo di partenza (il Dulles). Perfetto. Ed in tutta la scena si staglia la presenza della Bush dinasty! Alla fine della storia, la compagnia elvetica Swiss Re sgancia un risarcimento pari a 4,6 miliardi di dollari. Ma l’insaziabile Silverstein cita in giudizio anche la United Airlines; e sarà solo l’intransigenza di una toga a fermare la sua inarrestabile sete di dollari: il giudice Alvin Hellerstein, infatti, sentenzia che bastano e avanzano i 4 miliardi e 700 milioni già ricevuti da Swiss Re. Qualche notizia sullo stato di salute delle Torri Gemelle. “Penoso – è il commento unanime degli immobiliaristi di New York – erano praticamente tutto, se non da rifare, da ristrutturare pesantemente. Ma a costi strastosferici. Da tener presente che erano zeppe di amianto, per cui i lavori erano proibitivi. Per la demolizione, figurarsi, ci sarebbero voluti 15 miliardi di dollari, quasi il quintuplo del loro valore”. Un altro elemento. L’edificio 7 era una vera miniera di segreti: infatti ospitava l’Archivio centrale dei servizi segreti americani, con oltre 200 dipendenti. Documenti ovviamente di enorme importanza spariti nel nulla. Da notare, ancora, che l’edificio 7 venne “tirato giù” (come disse telefonicamente Silverstein) otto ore più tardi, con una “demolizione controllata”. Misteri nei misteri.

Ultima chicca. Silverstein aveva molti amici, of course soprattutto tra le fila dei repubblicani. Ma il vero amico di una vita non era a stelle e strisce, bensì israeliano: l’attuale premier Benjamin Netanyahu. 

IL J’ACCUSE DI FERDINANDO IMPOSIMATO

Il grande giudice Ferdinando Imposimato, scomparso esattamente un anno fa, nel 2012 ricevè un prestigioso e oneroso incarico dal tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità: redigere una corposa relazione giuridico-investigativa sulla tragedia dell’11 settembre. Alla Voce seguimmo passo passo il suo meticoloso lavoro: si trattava di tradurre documenti top secret, esaminarli, sviscerarli, incrociarli, un vero lavoro di intelligence. I risultato furono straordinari e ne pubblicammo una sintesi sulla Voce, a marzo 2012. Una delle scoperte più inquietanti riguardava il capo commando Mohamed Atta: un personaggio che Cia ed Fbi conoscevano bene, e sia l’una che l’altra avevano più volte segnalato al Pentagono e a Bush in persona la pericolosità di quell’uomo. In grado di andare a zonzo per gli States per mesi e mesi prima di quell’11 settembre: ovviamente a bordo di normali aerei di linea, senze che una sola volta venisse fermato. In quei mesi aveva ricevuto strani, corposi bonifici. Trovò il tempo, Atta, anche di prendere un brevetto di volo presso un scuola di addestramento americana. Mancava solo una medaglia al valor civile! Da rammentare, poi, che l’amministrazione di Barack Obana ha desecretato molti documenti sull’11 settembre: capaci solo di fare un po’ di solletico all’Arabia Saudita, di cui vengono provati alcuni accordi con frange di terroristi islamici. Niente altro di sostanziale e un buco nero – quello delle Torri Gemelle – mai ufficialmente chiarito.

LE AMICIZIE PERICOLOSE DI CASA BUSH

Sulla famiglia Bush, ed in particolare sulle amicizie “pericolose” di Bush senior, la Voce ha avuto modo di scriverne tante. A cominciare da quel pranzo – dopo alcune partite di tennis – a casa Bush (padre): a tavola il celebre tennista svedese Bjorn Borg e la sua compagna di allora Loredana Bertè. Ma la guest star era un’altra: Osama bin Laden, non ancora salito alla ribalta delle cronache. A raccontare l’incredibile story alla Voce fu l’avvocato Carlo Taormina, all’epoca legale della Bertè. Due famiglie molto legate, quella dei Bush e quella dei bin Laden. Tanto che quella tragica mattina dell’11 settembre, nella sede della banca d’affari Carlyle, vis a vis con le Twin Towers, si trovavano in lieta compagnia a conversare George Bush senior e il cugino di Osama bin laden, entrambi azionisti della stessa Carlyle. Quando si dice i destini della vita. Del resto Bush senior non ha mai disdegnato gli affari a tanti zeri, anche se i compagni di ventura non erano troppo raccomandabili. E così capitò anche con la società che gestiva l’aeroporto di Los Angeles, dove stavolta troviamo big George a braccetto, sempre come azionista, del tanto odiato Saddam Hussein. Mumble mumble. Ma per i sommi vertici del potere statunitense (vecchio e nuovo) si annunciano nuove tempeste. Altre rivelazioni choc in grado di fare ulteriore luce sull’11 settembre e su altri buchi neri della storia americana (come la finta cattura e uccisione di Osama bin Laden, una vera sceneggiata a stelle e strisce) potrebbero presto arrivare dall’uomo di tutti i segreti: nientemeno che Steve Pieczenik, lo 007 che Henry Kissinger inviò a Roma perchè Aldo Moro “Doveva Morire” (come è titolato il profetico libro scritto da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato). Quindi Pieczenik – lo rivela lui stesso in una clamorosa intervista mai presa in considerazione dai media di casa nostra – affiancò l’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga in quel “Comitato di crisi” composto praticamente solo da piduisti. Per portare a termine l’operazione di “non liberazione”…Da alcuni mesi Pieczenik sostiene che è arrivato il momento di alzare il sipario sulle Grandi Bugie Americane, the Big American Lies: “non più false flag, non più 11 settembre, non più finte uccisioni di Osama”, scrive in rete. Staremo a vedere.

11 SETTEMBRE / BUSH & CIA, LA LUNGA SCIA DI COLLUSIONI E DEPISTAGGI. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci l'8 Settembre 2019. Sono trascorsi 18 anni dalla tragedia delle Torri Gemelle che ha causato oltre 3 mila vittime e i cittadini americani stanno aprendo gli occhi sulle responsabilità di quell’11 settembre. Nonostante l’establishment a stelle strisce abbia fatto di tutto e cerchi ancora adesso di fare di tutto per nascondere le tremende verità. Secondo un ultimo rilevamento, quasi il 60 per cento degli statunitensi pensa che il governo Usa insabbi quelle responsabilità. All’interno di questa larga, predominante fetta, c’è una parte dell’opinione pubblica che sostiene apertamente la pista della cospirazione interna: cioè che si sia trattato di un “lavoro interno” (“an inside job”) dell’allora amministrazione Bush (senior); non pochi poi addebitano colpe agli israeliani, soprattutto tra coloro che parlano di esplosivi all’interno delle Torri Gemelle. Dal congresso degli Stati Uniti (sotto la presidenza Obama) è stato elaborato un ponderoso documento, dal quale emergono responsabilità riconducibili all’Arabia Saudita, che avrebbe coperto le frange estremistiche del terrore islamista. Ma niente di più. Dopo tanto lavoro, partorito un topolino. Tanto più per il fatto che dagli Usa non sono mai state intraprese azioni politiche o legali nei confronti di quel Paese, peraltro considerato un alleato strategico nel sempre bollente scacchiere mediorientale. 

FAMIGLIE AMERICANE CONTRO SAUDITI

Due anni fa è partita un’azione legale (a fini risarcitori) intentata dai familiari delle vittime dell’11 settembre, proprio contro il governo saudita, accusato, appunto, di collusioni con i terroristi. Sostiene Andrew Maloney, il legale delle famiglie: “I sauditi hanno coperto. Sapevano che quel mattino erano arrivati a Los Angeles degli uomini di Al Qaeda. Così come lo sapeva bene la CIA”. Eccoci al nodo, la Cia. Di cui si parla diffusamente nelle 6 mila e 800 pagine di carte e documenti presentati davanti alla Corte dall’avvocato Maloney. Il quale ha chiamato a testimoniare, tra gli altri, Fahad al-Thumairy, importante ufficiale saudita a Los Angeles e all’epoca imam alla moschea di Culver City, in California, frequentata da alcuni componenti del commando. Nel 2003 Thumairy è stato fermato all’aeroporto di Los Angeles (proveniente dalla Germania) e rimpatriato in Arabia Saudita perchè “sospettato di legami con i terroristi”. Ma oggi lavora ancora per il governo di Riyad. “Potete crederlo, questo?”, si è chiesto Maloney in aula. Il legale sta cercando di ottenere dall’FBI – per via giudiziaria – tutti i contatti intercorsi con la Cia nei mesi precedenti e susseguenti all’attacco delle Torri Gemelle. Per dimostrare come la Cia fosse perfettamente a conoscenza dei piani di strage, non abbia fatto nulla per contrastarli e abbia molto limitato la condivisione delle informazioni con lo stesso Fbi. Una guerra tutta interna agli Stati Uniti, dunque, con una Cia in campo – in combutta coi vertici governativi dell’epoca – per colludere, fiancheggiare, coprire e depistare, e un Fbi nei panni degli sprovveduti, tanto che nelle testimonianze di non pochi agenti dell’Fbi – anche apicali – fanno sempre capolino espressioni del tipo “ci hanno fregati”, “non ci hanno comunicato”, “ci hanno nascosto” e via di questo passo. Alice nel paese delle meraviglie, il potente e super attrezzato Federal Bureau ofInvestigation? 

TUTTA CIA, DEPISTAGGIO PER DEPISTAGGIO

Sembrerebbe proprio di sì, stando a quanto raccolto dagli autori di un libro-inchiesta, “The Watchdogs didn’t Barc: The CIA, NSA, and the Crimes of the War on Terror”. A firmarlo John Duffy, uno scrittore e attivista di sinistra, e Ray Novosielsky, un regista, i quali tra l’altro dieci anni fa, nel 2009, intervistarono un consulente della Casa Bianca (sotto le presidenze Bush senior e Clinton) per l’antiterrorismo, Richard Clark. In quella occasione Clark lanciò delle pesantissime accuse contro i vertici della Cia e del suo numero uno, George Tenet,a proposito della rocambolesca e mai chiarita cattura di Osama bin Laden: hanno nascosto tutte le informazioni – è il tono del j’accuse – così come hanno celato le notizie sull’arrivo negli Usa dei futuri terroristi Khalid al-Mihdhar eNawaf al-Hazmi. Davanti al Congresso Usa, nel 2002 Tenet aveva respinto i primi addebiti, sostenendo di non essere a conoscenza di eventuali pericoli prima dell’11 settembre. Clamorosamente smentito, tra l’altro, da una serie di cablogrammi che contenevano informazioni sugli spostamenti di quei terroristi. Circa 50-60 ufficiali della Cia, oltre ovviamente al capo Tenet, erano a conscenza di quei fatti, è il senso dell’accusa di Clark, il quale parla senza peli sulla lingua di “agenti doppi”. I due autori raccolgono svariate testimonianze, lungo il percorso di quella che definiscono la “cospirazione del silenzio”. Uno dei principali agenti Fbi dell’antiterrorismo, Ali Soufan,esclama: “E’ orribile. Ancora non sappiamo cosa è successo, hanno nascosto tutto. L’11 settembre ha cambiato la storia. Ciò ha portato alle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iran, l’estrema instabilità del Medio Oriente, la crescista dell’islamismo militante ma ha anche condotto gli Stati Uniti ad un regime quasi poliziesco”. Parole bollenti. “Sono triste e depresso per queste cose”, osserva Mark Rossini,uno dei due agenti Fbi di maggior grado posti al coordinamento dell’operazione che ha portato alla misteriosa cattura di Osama bin Laden. “Ci volevano chiaramente nascondere delle verità”, sottolineano altri due ufficiali di lunga esperienza all’Fbi, Pat D’Amuro e Dale Watson. Durissime le affermazioni di Terry Strada, leader del gruppo “9/11 Families & Survivors United for Justice Against Terrorism”. Le sue parole: “E’ molto triste che ci sia ancora tutta questa oscurità su quella tragedia. E’ frustrante, e mi fa molto arrabbiare. E’ uno schiaffo in faccia. Pensano di essere al di sopra di tutto, sopra la legge e di non dover rispondere alle famiglie e al mondo. E’ semplicemente disgustoso”. 

IL J’ACCUSE DI FERDINANDO IMPOSIMATO

Quasi dieci anni fa è stato Ferdinando Imposimato, il memorabile magistrato antiterrorismo e antimafia, a firmare un report infuocato sull’11 settembre che tirava pesantemente in ballo i vertici Usa e della Cia. Imposimato, infatti, venne incaricato dal tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità di preparare un dettagliato dossier per far luce su molti controversi aspetti. Un lavoro che Ferdinando prese molto a cuore. Consultò montagne di documenti, gli demmo una mano per tradurne alcuni (per anni ha scritto per la Voce), redasse un rapporto ponderoso, circa 150 pagine, che venne presentato a New York. Ne emergeva un quadro probatorio schiacciante. Prove documentali sui contatti della Cia con una serie di terroristi, alcuni dei quali tranquillamente acquartierati negli Usa senza che nessuno alzasse un dito. Un nome su tutti, quello di Mohamed Atta, il pilota del primo aereo – l’American Airlines Flight11– che si è schiantato contro le Torri Gemelle. Nato in Egitto nel 1968, Atta trascorre parecchi anni in Germania e all’inizio del 2001 si trasferisce nel States. A Venice, in Florida, prende il brevetto di pilota. In tutti i mesi precedenti all’attacco, fa la spola tra Europa e Usa, e da uno Stato all’altro all’interno degli stessi Usa. Libero di volare come un fringuello, nonostante il suo nome compaia in chiara evidenza ai terminali della Cia e della stessa Fbi nella black list. Il vertice della Casa Bianca, in quei mesi del 2001, è tenuto costantemente informato dalla Cia: ossia Bush e i suoi scagnozzi sanno bene di che personaggio si tratta, così come di parecchi altri rampanti terroristi. Ma nessuno compie un… atto, una sola azione per fermarli. Imposimato fornisce ampi ragguagli; fa nomi, cognomi e indirizzi dei principali personaggi coinvolti; così come di coloro i quali avrebbero dovuto vigilare, controllare e fermare quell’azione terroristica e non lo hanno fatto. E’ successo qualcosa dopo quel potente atto d’accusa stradocumentato? Niente. Così come dopo altre accuse e inchieste al calor bianco, in Italia una per tutte quella firmata da Giulietto Chiesa sull’autodisastro delle Torri Gemelle. 

BUSH & FRIENDS

Del resto, perché mai George W. Bushavrebbe dovuto alzare un dito, amico com’era della famiglia bin Laden? Quella mattina dell’11 settembre, proprio alle 9 locali, si trovava su una stupenda terrazza panoramica a godersi lo spettacolo. Una terrazza della grande banca d’affari a stelle e strisce Carlyle, di cui all’epoca erano tra gli altri azionisti il presidente Bush e un cugino di Osama bin Laden. Da quella postazione si potevano ammirare le Torri Gemelle. Non solo il cuginetto, comunque. Perché nell’agenda Bush va rammentata un’altra data da novanta. Quella di una gara di tennis e poi di un super pranzo. Tra le guest star il re della racchetta Bjorn Borg e la sua compagna di allora, Loredana Bertè. A raccontare la story alla Voce fu l’avvocato Carlo Taormina, che allora tutelava gli interessi della coppia Borg-Bertè. Ma c’era un altro ospite eccellente, a quel meeting: Osama bin Laden. Proprio lui, il Principe del Terrore.

11 SETTEMBRE / 48 ORE PRIMA, PUTIN AVVISO’ BUSH. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 6 Settembre 2019. Due giorni prima del tragico attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, Vladimir Putin aveva messo in guardia l’allora capo della Casa Bianca, George W. Bush, circa la concreta possibilità nell’immediato di attentati terroristici. E’ la notizia clou contenuta in un fresco di stampa, “The Russian Trap: How Our Shadow War with Russian Can Turn Into a Nuclear Catastrophe”, ossia: “Trappola russa: come la nostra guerra oscura con la Russia può trasformarsi in una catastrofe nucleare”. Autore del già annunciato best seller è George Bibi, ex analista della Cia, già a capo del suo dipartimento analitico, con particolare attenzione alla Russia. Attualmente Bibi ricopre l’incarico di vice presidente del centro specializzato di Washington per gli interessi nazionali. La tesi sostenuta e illustrata nel libro è che Putin nel corso di quella telefonata – peraltro partita dalla Casa Bianca – ha detto alcune cose a Bush senior, relativamente a delle scoperte effettuate dall’intelligence russa su segnali di una imminente campagna terroristica. Del resto, nell’archivio delle notizie sul sito web del Cremlino è possibile reperire un comunicato in cui si riporta in data 10 settembre 2001 una conversazione telefonica avvenuta tra Putin e Bush. Si osserva che la telefonata è stata avviata su iniziativa della parte statunitense ed erano stati discussi i preparativi per il vertice APEC e i negoziati russo-americani al massimo livello. Sono ormai trascorsi 18 anni esatti dal quel tragico 11 settembre. Non esiste ancora – incredibile ma vero – una verità “ufficiale”. Dai documenti elaborati da parte Usa, emergono forti e inequivocabli responsabilità dell’Arabia Saudita: senza che peraltro gli Stati Uniti abbiamo mai premuto sull’acceleratore per scoprire fino in fondo quelle responsabilità che coinvolgono un Paese alleato. Sul fronte europeo va ricordato il dossier elaborato da Ferdinando Imposimato per incarico del tribunale dell’Aja sui crimini di guerra. Un fortissimo j’accuse nei confronti dell’amministrazione Bush, che era ben a conoscenza, e da mesi, di preparativi da parte di un gruppo di terroristi capeggiato da Mohamed Atta, a capo del commando: per un anno libero di girare in lungo e in largo per gli States, Atta, volare in Europa, prendere un brevetto di volo sempre negli Usa e in quei mesi di studiare e organizzare l’attentato alle Torri Gemelle. Cia, Fbi e l’amministrazione Bush erano ben a conoscenza di tutto ciò. Ma non hanno mosso un dito e sono stati a “guardare”. La telefonata di Putin, a questo punto, è la ciliegina sulla torta. Del resto, sono ben noti i rapporti più che amichevoli intercorsi tra la famiglia Bush e Osama bin Laden, il principe del terrore. Nel corso di un’intervista alla Voce, l’avvocato Carlo Taormina raccontò di un pranzo a casa Bush, invitati principali due suoi clienti eccellenti, ossia il campione del tennis Bjorn Borg e la sua allora compagna Loredana Bertè. Guest star, Osama bin Laden. Cin cin.

TORRI GEMELLE. BIN LADEN E MOHAMED ATTA UNITI NELLA LOTTA PER LA CIA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 7 Agosto 2018. Arieccolo. Era scomparso da un bel po’ di tempo il volto del capo commando per l’assalto alle Twin Towers che ha cambiato i destini del mondo e provocato l’assalto degli Usa all’Iraq, la preda da sbranare per interessi petroliferi, di potere e logistici: il volto di Mohamed Atta. Il Corriere della Sera pubblica un ampio reportage sul “Matrimonio tra gli eredi del terrore”, ossia le nozze tra Bin Laden junior (il rampollo di Osama) e la figlia di Mohamed Atta, la figura strategica in tutta la vicenda dell’11 settembre. La notizia, a sua volta, arriva fresca fresca dall’autorevole Guardian, che fornisce alcuni dettagli da non poco. Nel resoconto del quotidiano londinese, ad esempio, viene  sfornata un’altra new, sempre in tema nuziale: “un altro figlio di Osama bin Laden, Mohamed, ha avuto in sposa la figlia di Afef al Marsi, a lungo uno dei principali esponenti militari della fazione e poi ucciso da un drone statunitense nel 2001. Cerimonia tramandata da un celebre video”.

IL TIMIDO MOHAMED TUTTO CASA & CIA

Così scrive l’inviato del Corsera Guido Olimpio: “Sulla vita privata di Mohamed Atta, figura introversa e timida, però capace di guidare i suoi uomini nella fase finale del grande attentato, non sono mancate le supposizioni, le speculazioni, i racconti a metà. Si era ipotizzato di una sua possibile relazione con un cittadino mediorentale detenuto in Spagna mentre alcuni anni fa una donna, spuntata in Florida, aveva sostenuto di essere stata la sua compagna. Voci perse nel tempo”. Contina Olimpio: “Nel 2010 la madre, Boziana, aveva dichiarato al quotidiano spagnolo El Mundo che il figlio in realtà non era morto nella strage del 2001: gli americani lo hanno catturato e portato a Guantanamo. A suo dire l’intelligence avrebbe organizzato una manovra per accusare i musulmani di ‘terrrorismo’. Teorie cospirative condivise a lungo anche dal padre, convinto che Mohamed fosse rimasto vittima di una manipolazione, salvo poi cambiare idea”. Molto più chiara ci pare la ricostruzione fornita sei anni fa, nel 2012, da Ferdinando Imposimato, che venne ufficialmente incaricato dal Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra di redigere un dossier proprio su tutti i lati oscuri & le connection della tragedia delle Torri Gemelle. E, guarda caso, Mohamed Atta era il protagonista di quel lungo e minuzioso documento che il giudice antimafia e antiterrorismo preparò (e poi consegnò) alle autorità dell’Aja. In basso riproduciamo per intero l’articolo che Imposimato firmò proprio per la Voce a marzo 2012 (emblematico il titolo: “Atta secondo”) su quella tragica vicenda. La realtà è più semplice di quanto possa sembrare. Atta era un uomo al servizio dei servizi americani. Forse a loro insaputa? Macchè, era un infiltrato di lusso, di superlusso. Si era addestrato per volare negli Usa in tutta tranquillità, aveva conseguito i relativi brevetti, aveva ogni tipo di documento in regola, e l’ultimo anno prima della strage, ossia tra la fine del 2000 a tutto agosto del 2001, aveva viaggiato in lungo e in largo per gli Usa, e tra gli Usa e l’Europa. Possibile mai che un “sospetto” di quel calibro (il suo nome era infatti nella black list di Cia ed Fbi) fosse libero come un normale commesso viaggiatore di saltare da una costa all’alta, dall’Atlantico al Pacifico? Libero come un fringuello e senza lo straccio di un controllo?

LA GRANDE AMICIZIA TRA LE FAMIGLIE BUSH E BIN LADEN

Atto secondo, è il caso di dirlo. Ossia la storia dei legami d’affari tra la famiglia Bush (senior e junior) e Osama bin Laden. La Voce una decina d’anni fa ha pubblicato un’intervista all’avvocato Carlo Taormina, all’epoca legale di Loredana Bertè, in cui raccontava di un pranzo a casa Bush in compagnia dell’allora marito, il campione di tennis Bjorn Borg. Tra aragoste & racchette spunta un vip. Ebbene, sapete chi era l’altro invitato eccellente alla tavola di casa Bush? Osama bin Laden. Voleva anche lui lezioni di tennis o qualcos’altro? Sta di fatto che gli affari tra le due famiglie sono volati sempre a gonfie vele, sigillati da un’altra amicizia da novanta: quella di Bush senior con il fratellastro di Osama bin Laden, perchè entrambi soci del potentissimo gruppo finanziario a stelle e strisce Carlyle. E circola una “leggenda metropolitana” (ma non troppo): che i due amiconi abbiamo assistito all’esplosione delle Twin Towers in diretta, proprio dalle ampie terrazze griffate Carlyle, superpanoramiche e soprattutto con vista diretta sulle Torri Gemelle. Sorgono a questo punto spontanee alcune domande. Ma cosa ha poi fatto il tribunale dell’Aja del dossier Imposimato? Di tutti gli esplosivi elementi che conteneva? Di tutta quella minuziosa ricostruzione che aveva effettuato? E cosa ha fatto la Casa Bianca del lavoro investigativo iniziato ovviamente subito dopo la tragedia, per svelare gli scenari che c’erano dietro la tragedia delle Torri Gemelle? Già nell’autunno 2001, infatti, venne ordinata un’inchiesta top secret. Solo pochi mesi prima della scadenza del suo secondo mandato presidenziale Barack Obama l’ha desecretata. Come mai non se ne è più saputo niente? Come mai non s’è mossa una sola foglia? Perchè s’è alzata la solita cortina fumogena? Perchè s’è invece alzato, alto come le Torri Gemelle, un muro di gomma, anche disinformativo? Sono ancora in troppi a temere che quelle tragiche verità prima o poi possano venire a galla.

CIA. Alessandro Camilli per blitzquotidiano.it il 10 ottobre 2021. Troppi agenti della Cia eliminati. È l’allarme lanciato dalla Cia che, con un dispaccio a tutte le sue stazioni sparse per il mondo e finito sulla stampa americana, certifica lo stato di crisi dell’intelligence a stelle e strisce. Spionaggio americano che fa acqua, rischiando di lasciare “cieca” la più grande potenza mondiale per colpe interne, vittima anche lei come un’Italia qualsiasi della burocrazia, ma anche della crescita dei sistemi di controspionaggio dei paesi nemici divenuti negli anni sempre più efficienti. 

Non c’è più la Cia di una volta, signora mia

O forse la Central Intelligence Agency non è quella che Hollywood ci ha sempre raccontato. La storia dell’agenzia di spionaggio americana è infatti, a leggerla, una storia costellata di clamorosi fallimenti.  Nata nel 1947 con l’intento di metter ordine in un’inadeguata attività di spionaggio per evitare il ripetersi di Pearl Harbor, attacco che aveva colto Washington di sorpresa, negli anni non è stata in grado di anticipare altre ‘sorprese’, ultimo in ordine di tempo il recente crollo del governo sostenuto dagli americani in Afghanistan. E poi si fece sfuggire la Primavera Araba e la morte di Kim Jong Il in Corea del Nord; non capì l’imminente crollo dell’Unione Sovietica, il disastro della Baia dei Porci a Cuba e l’imprevista offensiva del Tet dei Vietcong in Vietnam. Mancò completamente la rivoluzione iraniana del 1979 come nello stesso anno l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, in tempi più recenti, certificò il possesso da parte dell’Iraq di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa in realtà mai trovate.

Fallimenti noti contro, forse o probabilmente, successi mai diventati di pubblico dominio

E’ vero infatti che le operazioni ben fatte delle spie, come è facile immaginare e come anche 007 ci insegna, non sono pubblicizzate. Di fronte ai clamorosi insuccessi della Cia ci saranno quindi anche vere e proprie imprese di cui forse non sapremo mai nulla. Ma l’allarme in questo caso arriva direttamente da Langley e dice, senza mezzi termini, che le spie americane sono sempre più indietro, mentre quelle degli altri paesi migliorano anno dopo anno. Le cause e le colpe di questa crescente inefficienza, come spesso accade, sono molte e diverse. C’è, in primis, un problema molto interno e apparentemente molto poco americano di burocrazia e regolamenti ‘aziendali’.  Il dispaccio inviato identifica questo problema endogeno come “mission over security”: il privilegiare cioè la conquista di nuovi agenti sui potenziali rischi che ne derivano. Una fretta figlia di carenze delle quali la Cia risente già da tempo nelle attività di intelligence “umana”. I funzionari della Cia, noti come “case officers”, ricevono promozioni e fanno carriera sulla base di target quantitativi assai più che qualitativi con il successo e la crescita professionale che dipende da quanti agenti sono reclutati e non da come operano. Una politica che ha prodotto agenti di scarsa qualità e affidabilità che hanno ulteriormente compromesso le reti di spie americane. 

Un caso eclatante in questo senso risale al 2009, in Afghanistan

Una bomba esplose in un avamposto Cia a Khost, uccidendo sette agenti. Fu un attacco suicida da parte di un medico giordano che l’agenzia aveva pensato di aver arruolato per penetrare Al Qaeda e che invece era stato arruolato da Al Qaeda con la missione opposta. L’inefficienza casalinga non è però l’unica causa dei troppo agenti “eliminati”. Mentre la Cia perdeva capacità, contemporaneamente, le intelligence dei paesi ne acquisivano. Tra i paesi ‘ufficialmente’ nemici sono Russia e Cina a preoccupare in particolare ma, anche una nazione come l’Iran, con minor raggio d’azione della Cina ma con ambizioni nucleari e mire regionali, sarebbe nel mirino della Cia per una presenza essenziale di intelligence. Proprio Russia e ancor più Cina e Iran si sono invece trasformati in altrettanti, recenti disastri per le spie statunitensi. Numerosi informatori Usa sono stati in questi anni messi a morte anzitutto da Pechino a Teheran; altri hanno dovuto essere “estratti” in extremis e fatti sparire per sicurezza. Così gli agenti americani, come definisce la Cia gli informatori che recluta, vengono da alcuni anni sistematicamente eliminati, cioè definitivamente compromessi: arrestati, trasformati in protagonisti del doppio gioco oppure, più semplicemente, uccisi. 

La complessa comunità dell’intelligence Usa. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. I servizi segreti statunitensi sono un corpo estremamente articolato e complesso. Diviso in diversi settori e apparati coordinati da un’agenzia di raccordo, la United States Intelligence Community (Usic), il mondo dei servizi si occupa trasversalmente di sicurezza nazionale, raccolta informativa, controllo delle minacce al Paese e promozione degli obiettivi politico-diplomatici della superpotenza a stelle e strisce. 

Una comunità articolata e costosa. Gli Stati Uniti hanno ben 17 agenzie di intelligence la più antica delle quali è l’Office of Naval Intelligence facente capo alla Marina militare a stelle e strisce, fondata nel 1882, mentre la più recente è Space Delta 7, il corpo di raccolta informazioni della United States Space Force istituito nel 2020. Il numero di persone che lavorano in questi apparati e nell’ampio e complesso network di imprese, organizzazioni e think tank ad essi collegati è stimabile in diverse centinaia di migliaia di persone, tanto che nel 2010 il Washington Post aveva indicato in 854mila il numero di individui che (secondo una stima al ribasso) avevano accesso a informazioni classificate con diversi livelli di segretezza in ambiti strategici per la sicurezza nazionale. Tale apparato ha un costo di mantenimento sensibile: tra intelligence civile e militare, gli stanziamenti federali per i servizi segreti sono cresciuti dai 67,9 miliardi di dollari del 2014 agli 85,8 del 2020, a testimonianza della cruciale rilevanza dell’Usic nella vita pubblica americana.

Come l'intelligence riferisce al presidente. Il vertice operativo di tutta la comunità dell’intelligence è, chiaramente, alla Casa Bianca: il presidente degli Stati Uniti ha un potere di comando e controllo, di decisione delle nomine per i vertici e di scrutinio operativo sull’intera Usic, e in seno al governo allo Studio Ovale risponde direttamente il Director of National Intelligence (Dni), un vero e proprio plenipotenziario del presidente. La carica di Dni è attualmente ricoperto dall’esperta di sicurezza nazionale Avril Haines, il cui ruolo è stato da Joe Biden elevato a quello di un vero e proprio ministro dell’amministrazione. Secondo l’Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act del 2004 il Dni ha la possibilità di affiancare il presidente nelle riunioni del National Security Council e ogni mattina il suo ufficio manda sulla scrivania del comandante in capo il Daily Brief, un memorandum contenente le informazioni più strategiche e dal più alto valore operativo. Si capisce in quest’ottica come i servizi siano di fatto il vero centro propulsivo della vita politica a stelle e strisce. La scelta di quali informazioni possano varcare prioritariamente la soglia dello Studio Ovale è in capo in maniera prioritaria alla comunità dell’intelligence e nel corso degli ultimi anni, dalla crisi afghana alla pandemia di Covid-19, dalla gestione dei rapporti con la Corea del Nord al braccio di ferro con la Cina, i presidenti hanno riposto nella raccolta informativa operata dagli alleati la massima, se non assoluta, fiducia per orientare le loro mosse. Nel 2002 il portavoce di George W. Bush, Ari Fleischer, definì il Daily Brief come “il più sensibile tra i documenti classificati del governo”, mentre l’ex direttore della Cia George Tenet nel 2000 parlò del fatto che per nessun motivo sarebbe mai stato possibile desecretare, in futuro, un solo di questi documenti. Nel corso degli anni, tuttavia, diverse migliaia di aggiornamenti arrivati sulle scrivanie dei presidenti sono stati resi accessibili al pubblico, specie per quanto concerne il periodo compreso tra l’amministrazione Kennedy e l’amministrazione Ford in cui il Paese fu profondamente impegnato in Vietnam.

Le agenzie chiave: Cia e Nsa. Mentre molte agenzie svolgono lavoro di intelligence classico sotto i vari Dipartimenti, due agenzie sulle diciassette facenti capo al Dni hanno una rilevanza particolare, e sono non a caso le maggiormente note: parliamo della Central Intelligence Agency (Cia) e della National Security Agency (Nsa). La Cia ha la particolare caratteristica di essere un’agenzia ibrida, formalmente civile ma con importanti ramificazioni operative in ambito militare e paramilitare. La sua natura di agenzia indipendente non facente riferimento a nessun dipartimento la pone in diretto contatto con la Casa Bianca ed è l’unico apparato federale Usa autorizzato dalla legge a compiere su ordine del Presidente operazioni coperte fuori dai confini nazionali. La Cia assorbe circa un quarto del budget dell’intelligence e ha la sua principale caratteristica nell’attività di coordinamento delle operazioni di human intelligence (Humint) attraverso l’intera comunità federale. La sua struttura focalizzata sull’arruolamento diretto di persone come agenti o operativi ne ha alimentato una certa mitologia, ma ha anche contribuito alla sua notorietà. Soprattutto dopo l’11 settembre, che ha mostrato la complessità del coordinamento interno ai servizi, la Cia è diventata di fatto l’organismo di raccordo che porta all’attenzione del Dni e del Presidente le priorità operative. La National Security Agency è invece sottoposta al controllo del dipartimento della Difesa ed è incaricata della sicurezza informativa in materia transnazionale. Si occupa del monitoraggio, della raccolta e dell’elaborazione globali di informazioni e dati a fini di intelligence e controspionaggio esteri e nazionali, con un focus dunque sulla signal intelligence (Sigint) e ha acquisito rilevanza a partire dalla Guerra al Terrore, nel corso della quale il cui uso è stato estremamente ambiguo. In particolare il 16 dicembre 2005 fece scalpore quanto dichiarato dal New York Times, secondo cui l’amministrazione Bush aveva ordinato intercettazioni telefoniche indiscriminate andando anche oltre le prescrizioni del Patriot Act, servendosi della Nsa e otto anni dopo Edward Snowden contribuì a rilevare le dinamiche dei programmi di sorveglianza di massa dell’agenzia. La Nsa acquisì una strutturata mole di dati su transazioni finanziarie, telefonate, scambi di e-mail, contatti di cittadini e leader stranieri in quella che ha rappresentato la più complessa procedura di conquista e archiviazione di informazioni sensibili della storia. A testimonianza del fatto che il cuore dell’impegno politico-strategico della comunità dell’intelligence sta nella caccia al ricco e sempre più sfruttabile potenziale informativo ricavabile dall’analisi degli scenari internazionali. Nella consapevolezza che monitorare Paesi amici e rivali, governi, infrastrutture fisiche e digitali di interscambio possa fornire agli Usa la capacità di analisi e previsione per anticipare gli scenari. E, in ultima istanza, conservare la leadership globale. Un paradigma spesso rivelatosi più complesso per problemi di elaborazione e errori politici, ma a cui manca ancora una reale alternativa su scala planetaria.

Tony Damascelli per "il Giornale" il 13 settembre 2021. Basta rovistare negli archivi della Cia e si scopre che Louis Armstrong venne usato, a sua insaputa, come spia nel continente africano, con l'obiettivo di rendere più facili e immediate le notizie e le relazioni con i governanti, quelli del Katanga in particolare. Un racconto che è dettagliato e riportato da Susan Williams nel libro, uscito nello scorso agosto, sotto il titolo White Malice. Satchmo era stato incaricato dal Dipartimento di Stato di lucidare l'immagine degli Stati Uniti nei Paesi che avevano conquistato l'indipendenza dal colonialismo e dunque il jazz, di grandissima moda in quel tempo, siamo a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta, rappresentava un passaporto per riunire la gente di colore sotto la bandiera del più illustre artista. Armstrong aveva 58 anni e la sua fame era mondiale, avrebbe raccolto un album di 20 pezzi sotto il titolo The real Ambassadors, proprio sul tema dei diritti civili, calpestati in Africa e non solo, lo stesso trombettista aveva abbandonato un tour in Unione Sovietica come manifestazione di protesta nei confronti di alcuni episodi di razzismo negli Usa. La Williams scrive che l'artista, accompagnato da Lucilla Wilson, sua quarta moglie, e da un rappresentante dell'ambasciata americana, aveva creduto di essere invitato a cena, a Leopoldville, al tempo la capitale del Congo, da un delegato del governo e invece si ritrovò al tavolo Larry Devlin, capo della Cia in Congo. Devlin avviò un'amicizia con il chiaro intento di usare Armstrong come «cavallo di Troia», per poi raccogliere dati e sussurri su quelli che erano i movimenti dei dirigenti del governo congolese. Siamo nell'inverno del millenovecentosessanta e la Cia aveva interesse a entrare in possesso di ogni notizia sul Katanga, la ricca provincia, carica di giacimenti minerari, con oltre mille e cinquecento tonnellate di uranio. Armstrong è partito per una serie di esibizioni a Lumumbashi (Elisabethville), la capitale. Devlin e altri funzionari della Central Intelligence Agency, si accodarono, spacciandosi per grandi amanti del jazz, il trombettista avrebbe raccolto applausi e un popolo pronto a «parlare». In realtà la missione degli americani era criminale, il libro della Williams e gli archivi della Cia lo confermano: il bersaglio era Lumumba, il presidente del Congo, eletto democraticamente ma il cui programma politico internazionale non era ancora chiaro per il governo americano. Si temeva, infatti, che il trentacinquenne Patrice Lumumba trascinasse il Paese sotto l'influenza sovietica, era il tempo della guerra fredda e non dei compromessi diplomatici. Armstrong era del tutto ignaro che lo stesso Lumumba fosse stato sequestrato e quindi tenuto in prigione dai soldati di Mobutu che era il capo militare del paese africano, assai vicino, se non complice e collaborazionista dell'operato della Cia. «Satchmo» suonò e cantò le sue creazioni, la folla lo applaudiva non immaginando che, due mesi dopo, Patrice Lumumba sarebbe stato ucciso da alcuni funzionari del governo e da altri «inviati» dal Belgio. Il lavoro sporco e omicida di Devlin, che in seguito ammise il piano e le responsabilità, era stato eseguito, nella vergogna mondiale ma con Mobutu perfettamente allineato agli Stati Uniti. Il libro della Williams porta testimonianze di un progetto da film horror, con i tentativi di assassinare Lumumba, infiltrando varie figure all'interno del territorio, anche sindacalisti e funzionari delle varie compagnie aeree, già a partire dalla sua creazione nel 47, uno scenario da 007 ma con risvolti efferati, poi abortiti prima che venisse l'idea di sfruttare Armstrong il quale, ha sempre smentito di fare parte di qualunque progetto criminale: «Anche se rappresento il governo, non tutte le politiche del governo mi rappresentano» o, sta scritto in una pagina di White Malice. «Satchmo» non fu il primo e neanche l'ultimo «cavallo di Troia», Hollywood ha fornito molto materiale, in cambio di droga e ruoli nelle produzioni più importanti. La storia continua, non solo in Africa.

Come funziona l’intelligence italiana. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. I servizi segreti italiani sono una componente fondamentale del perimetro della sicurezza nazionale e della tutela degli interessi del sistema-Paese in un’era di minacce sempre più complesse. Il comparto intelligence, incardinato nel Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica (Sisr) si occupa dell’attività di ricerca e analisi delle minacce, della raccolta informativa sul campo e dello scrutinio avanzato sulle sfide che l’Italia deve affrontare. Regolato da una precisa normativa e da una chiara catena di comando, il Sisr ha assieme ai suoi organi acquisito sempre più rilevanza nel quadro del sistema Paese negli ultimi decenni.

Un'evoluzione complessa. Inizialmente, nell’immediato secondo dopoguerra l’intelligence italiana fu ricostruita attorno a un unico ente di carattere militare, il Servizio Informazioni Forze Armate (Sifar) alle dirette dipendenze del Capo di Stato Maggiore della Difesa, a cui informalmente faceva da parallelo l’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, alla cui guida si distinse la sulfurea e controversa figura di Federico Umberto d’Amato. A partire dal luglio 1966 il Sifar divenne il Servizio Informazioni della Difesa (Sid), cui vennero conferiti compiti di informazione, prevenzione e tutela del segreto militare e di ogni altra attività di interesse nazionale volta alla sicurezza e alla difesa dell Stato. Undici anni dopo, nel 1977, dopo anni di sospetti legati al possibile coinvolgimento di elementi deviati dei servizi nelle questioni più spinose della strategia della tensione e degli anni di piombo il governo italiano modificò, sdoppiandoli, i servizi. Nacquero così il Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), in capo alla Difesa, e il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde), posto in capo al Viminale col fine di agire per la difesa dello Stato democratico contro chiunque vi attenti e contro ogni forma di eversione, sulla scia dei risultati ottenuti dai nuclei anti-terrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dell’l’Ispettorato generale per l’azione contro il terrorismo (Igat) del Ministero dell’Interno, ridefinito nel 1976 come Servizio di Sicurezza (Sst), con un ruolo prevalentemente operativo. La riforma, oltre alla divisione tra comparto operativo di carattere militare e servizio legato ad apparati civili, introduceva la messa in capo alla presidenza del Consiglio dei poteri di controllo sugli apparati. Poteri ad ora ancora indiretti, data l’intermediazione del Comitato esecutivo sui servizi di informazione e sicurezza (Cesis) tra premier e apparati, ma che avrebbe segnato la strada per il futuro.

L'assetto attuale dell'intelligence italiana. Nel corso del secondo governo Prodi la convergenza tra la maggioranza di centro-sinistra e l’opposizione di centro-destra portò a una riforma bipartisan dei servizi segreti con la Legge 124/2007, che ha dettato la linea per l’attuale assetto del comparto intelligence. La Legge 124 ha operato sul solco tracciato già nel 1977, portando però i servizi segreti nel cuore della stanza dei bottoni del potere italiano e creando un filo diretto tra il potere esecutivo e quella che è la prima e più importante sorgente di informazioni riservate per la sua azione. Con la Legge 124/2007 il vertice dell’intelligence italiana fu identificata con la figura del presidente del Consiglio, che ex lege ne nomina i vertici, può autorizzarne le operazioni ed esercita un potere di controllo e di coordinamento che da allora, per prassi, gli inquilini di Palazzo Chigi hanno affidato a un’apposita autorità delegata che può esser da loro individuata. Al di sotto del premier è individuato con precisione il perimetro del Sisr. Esso comprende organi di coordinamento, strutture operative e il comitato di controllo, il Copasir.

Gli organi di coordinamento. Il coordinamento dell’intelligence italiana è affidata al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza costituita in seno alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Dis, oggi diretto dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni, è la struttura chiave per il funzionamento del comparto intelligence. Esso elabora linee guida strategiche per le agenzie, fornisce rapporti e relazioni al governo, garantisce il rapporto operativo annuale al Parlamento, fa da camera di compensazione tra Sisr, forze di polizia, Carabinieri e altre strutture securitarie, analizza le dinamiche per l’apposizione di segreti di Stato e la concessione di nulla osta di sicurezza. Il Dis ha messo direttamente in capo a Palazzo Chigi responsabilità e azioni dell’intelligence italiana. Il presidente del Consiglio presiede inoltre il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr), ulteriore organismo di coordinamento che si confronta col Dis per strutturare le linee guida politiche di riferimento per i servizi e che ha il fondamentale compito di definire operativamente le nomine dei vertici su proposta del capo del governo. Oltre all’inquilino di Palazzo Chigi lo compongono il direttore del Dis, che fa da segretario, l’Autorità delegata per la sicurezza (se nominata) e i ministri degli Esteri, dell’Interno, dell’Economia, dello Sviluppo Economico, della Giustizia e della Difesa.

Le agenzie. A partire dal 2007 il Sisr ha il suo braccio operativo in due agenzie: l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi), responsabile della lotta alla criminalità organizzata, dell’antispionaggio e del contrasto al terrorismo interno oltre che di tutte le attività che competono indagini interne ai confini nazionali, e l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) che si occupa di tutela del sistema-Paese dalle minacce guardando soprattutto alle sfide esterne. Dal 2007, dunque, il confine tra le due agenzie è nell’area geografica di riferimento. Nel corso degli anni, in particolare, l’Aise ha agito in coordinamento con il Dis per l’acquisizione informativa  in sostegno alla politica estera, il contrasto alle infiltrazioni straniere nell’economia, la ricerca di cittadini italiani caduti ostaggio di gruppi terroristici, mentre l’Aisi si è concentrata sulla repressione anti-terroristica e sulla lotta alle mafie. Aisi e Aise cooperano attivamente nel definire la relazione annuale al Parlamento. Oggigiorno, le principali richieste di modifica della Legge 124/2007 si concentrano proprio sulla difficoltà di imporre confini geografici precisi alle minacce al sistema-Paese e propongono un’evoluzione della divisione pienamente operativa, tra un organo di human intelligence volto a raccogliere informazioni e uno di signal intelligence in grado di operare sul campo.

Il Copasir. Perno conclusivo del Sisr è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, o Copasir, avente sede a Palazzo San Macuto a Roma. Costituito da dieci tra deputati e senatori, il Copasir ha poteri di vigilanza attiva sulla condotta dei servizi e spesso non ha lesinato un’applicazione profonda di queste facoltà, puntando ad indagare attentamente le sfide sistemiche del Paese acquisendo rivelazione e rapporti sulle attività dei servizi. I suoi membri sono tenuti a un chiaro e preciso silenzio durante l’attività in carica e il Copasir ha la facoltà di convocare ministri, direttori d’agenzia, politici, manager, finanzieri per completare la sua opera. Per legge la presidenza del Copasir spetta a un esponente dell’opposizione parlamentare, a testimonianza della volontà del Legislatore di fare dei servizi un patrimonio comune della Repubblica.

Fuori dal Comparto. La piramide del Sisr è quella più ampia e strutturata, ma fuori dal Comparto intelligence propriamente detto gli apparati pubblici non mancano di strumenti operativi per definire una strutturata attività d’intelligence. Il II reparto della Guardia di Finanza e il Centro intelligence interforze dell’Esercito di Casal Malnome sono esempi di strutture che compiono attività di raccolta informativa di natura molto ben specifica e funzionale agli apparati di riferimenti. Nel quadro della Difesa ha peso anche il Raggruppamento Unità Difesa, dotato di compiti di vigilanza e difesa della logistica delle installazioni preposte ad attività di intelligence. Meno nota, ma secondo gli addetti ai lavori estremamente efficace, è l’Unità di Informazione Finanziaria (Uif) della Banca d’Italia, istituita nel 2007, che opera nella raccolta informativa contro i flussi di denaro sporco ai terroristi o alla criminalità organizzata. Si attiva principalmente attraverso le segnalazioni di operazioni sospette trasmesse da intermediari finanziari, professionisti e altri operatori. Analogamente esterno al Sisr, ma parallelo, sarà invece il perimetro dell’Agenzia di cybersicurezza nazionale (Acn), integrato come nuovo apparato dopo l’approvazione del suo formato da parte del governo Draghi. L’Acn compartimenterà tra intelligenze e nuovi organi le attività legate al cyber, dominio multiforme di scontro dell’era contemporanea. Espandendo le prerogative della sicurezza nazionale pur restando al di fuori del Sisr. Anno dopo anno, lo scrutinio delle attività di intelligence in Italia riguarderanno, gradualmente, domini sempre più estesi. 

Come il Vaticano e la Chiesa fanno “intelligence”. Andrea Muratore su Inside Over il 12 settembre 2021. Una grande potenza non può prescindere dai servizi di informazione e sicurezza. E se questo principio vale per i grandi potentati politici e militari, è a maggior ragione valido per una superpotenza “immateriale” come il Vaticano. La Santa Sede è forte di una potenza spirituale e diplomatica non indifferente, ma anche epicentro di un’importante rete informativa che ha pochi eguali nel contesto internazionale e che permette all’Oltretevere un’approfondita conoscenza degli affari globali.

I "servizi" del Vaticano. Nel 2014 ha fatto molto scalpore la pubblicazione del saggio L’Entità, pubblicato dal giornalista Eric Frattini, in cui si parla di quello che sarebbe un vero e proprio apparato di intelligence al servizio dei Papi, talmente segreto da non avere nemmeno un nome ufficiale. Frattini unisce fatti storici e illazioni, non costruendo un quadro storico completo: quel che manca nella sua chiave di lettura è una contestualizzazione storica precisa. Il Vaticano ha, sia durante l’epoca dello Stato Pontificio che dopo, sempre fatto intelligence, ma un vero e proprio corpo di servizi segreti operante come braccio spionistico della Santa Sede non è mai esistito ufficialmente. I Papi hanno, nel corso dei secoli, costruito piuttosto delle “task force” per rispondere alle sfide sistemiche che più volte minacciavano la posizione della Chiesa. Nel Seicento, Papa Innocenzo X approvò di fatto la costituzione di una rete di protezione e controllo tale da prevenire le infiltrazioni degli agenti francesi al soldo del Cardinal Mazzarino, strenuo nemico di Roma, avente il suo punto di raccordo con il Papa nella figura della cognata di Innocenzo, la “papessa” Olimpia Maidalchini. Più di recente, a inizio Novecento Papa Pio X organizzò il Sodalitium Pianum agli ordini di monsignor Umberto Benigni, attivo fino all’ascesa di Benedetto XV per contrastare le infiltrazioni moderniste nella Chiesa. Infine, si può definire a metà strada tra il pastorale, il politico e il lavoro d’intelligence l’operato del cardinale Luigi Poggi da capo delegazione della Santa Sede in Polonia (1975-1986) nell’epoca di Giovanni Paolo II, sancita dal forte e compatto appoggio a Solidarnosc. Tuttavia, ognuno di questi casi fa riferimenti a iniziative spontanee e di portata limitata di singoli pontefici per attuare operazioni di difesa delle loro priorità politico-pastorali. La pistola fumante dell’esistenza di un apparato di intelligence vaticano strutturato non è mai stata trovata, né si può propriamente definire così il servizio informazioni della Gendarmeria Vaticana, attenta a prevenire le infiltrazioni terroristiche e a garantire la sicurezza dei pontefici con elevata professionalità. Questo dato di fatto è legato alla natura ben più complessa dell’azione d’intelligence vaticana: di fatto, l’intera struttura politica, pastorale e istituzionale della Chiesa e l’organizzazione della Santa Sede sono costruite per creare un capillare apparato di raccolta informativa. Priva di eguali nel mondo contemporaneo.

Il Vaticano come struttura di intelligence. Oltre ad essere l’epicentro della principale religione dell’Occidente, l’Oltretevere è a capo di un’istituzione millenaria e presente globalmente. Capace dunque di essere al centro di un apparato informativo e di intelligence che, operando spesso alla luce del sole, non ha bisogno di veri e propri servizi per funzionare. Esaminando la mole di informazioni su cui la Chiesa può contare si capisce il perché. Alla Segreteria di Stato vaticana e agli organi collegati rispondono le nunziature apostoliche sparse per il mondo, che svolgono i compiti di diplomazia ordinaria, ma arrivano anche regolarmente i rapporti dei vescovi di tutto il mondo, che coordinano una struttura gerarchica fondata su diocesi, parrocchie, oratori che porta la Chiesa negli angoli più remoti del pianeta. Non va dimenticato che la Chiesa è l’unica istituzione religiosa ad aver dato una struttura territoriale precisa e una gerarchia organizzata all’intera superficie terrestre e all’intera popolazione umana per fini pastorali. Ma non finisce qui. Ai rapporti delle diocesi, fondamentali per tastare il polso sotto il profilo economico, sociale, politico delle varie aree del pianeta, si aggiungono le relazioni di organizzazioni cattoliche e prelature personali come l’Opus Dei, le informazioni trasmesse dalle missioni, dalle Ong cattoliche, da gruppi che operano in aree di crisi (come Aiuto alla Chiesa che Soffre). Il Vaticano ha poi un’efficace struttura mediatica che si basa sugli apparati interni (Osservatore Romano, Vatican News, e via dicendo) ma che è valorizzato dall’effetto-moltiplicatore dato dalla continua interazione con i media cattolici del mondo che, come dimostrano casi quali Nigrizia e Asia News, hanno spesso grazie al legame con le reti cattoliche locali informazioni dirette e di prima mano su scenari cruciali per il contesto geopolitico. Fanno poi riferimento al Vaticano imporanti informazioni economico-finanziarie legate allo Ior, alle banche cattoliche, ai movimenti che, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, tutelano lavoratori, emarginati, sfruttati e alle organizzazioni sindacali di matrice cattolica o che a tale mondo fanno riferimento. In Italia pensiamo a casi come Coldiretti, Cisl, Acli. Aggiungiamo al sistema il peso di una struttura come la Caritas, l’attività degli ordini religiosi che fanno regolare rapporto a Roma e lo scambio con l’ampia galassia di scuole, istituti educativi, università e associazioni caritatevoli e sanitarie legate alla Chiesa sparse per il mondo e il quadro è completo.

Informazioni e pensiero strategico. Messe a fattor comune queste conoscenze consentono alla Chiesa di avere una visione d’insieme del sistema-mondo articolata e lucida, che più volte ha reso la Santa Sede e i Papi in grado di leggere in anticipo scenari e dinamiche dell’era contemporanea: dalle minacce connesse ai conflitti in Medio Oriente all’ascesa delle disuguaglianze su scala globale, passando per l’effetto atomizzante e le insidie dello sdoganamento completo della globalizzazione. Il fatto che dal Concilio Vaticano II la Chiesa abbia operato una svolta politica e pastorale aprendosi al confronto con i nuovi scenari della nascente globalizzazione, rafforzando la dottrina sociale e aprendosi al confronto con altre religioni, con i governi del pianeta, financo col blocco socialista con l’Ostpolitik di Agostino Casaroli non fu casuale, ma il frutto di tale capacità di lettura. Messa in crisi dalla secolarizzazione, dalla crisi delle vocazioni e dal calo degli aderenti, la Chiesa cattolica ha reagito mettendo al centro la volontà di leggere i segni dei tempi. E da Giovanni XXIII in avanti ha promosso ai vertici figure con una visione ampia e prospettica degli affari internazionali. L’informazione capillare che raggiunge il Vaticano è alla base di un complesso pensiero strategico che gli ultimi pontefici, da Paolo VI in avanti, hanno strutturato. Posizionando l’Oltretevere come ponte tra Oriente e Occidente, rendendo la Chiesa cattolica l’ultima istituzione emancipatrice di fronte all’avanzare del pensiero unico neoliberista, cercando di sanare la complessa multipolarità interna all’antica istituzione facente capo al Vaticano. Obiettivi complessi per una strategia che mira a consegnare al XXI secolo una Chiesa in grado di sorpavvivere come attore pastorale e soggetto geopolitico, difficilmente in grado di avere successo senza la capacità di raccolta informazioni della Santa Sede. 

Le Vittime.

9/11 ha causato più vittime tra i soccorritori: un medico italiano ha monitorato i malati. Il Prof. Roberto Lucchini ha diretto dal 2012 al Mount Sinai School of Medicine di New York il Data Center del World Trade Center Health Program. Massimo Jaus su lavocedinewyork.com il 10 Settembre 2021. Vent’anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle New York soffre, piange, non dimentica. L’11 settembre di 20 anni fa l’America ha scoperto che può essere colpita dentro i suoi confini: quattro attacchi suicidi coordinati che hanno cambiato gli Stati Uniti e la vita degli americani.  Gli attacchi causarono la morte immediata di 2.977 persone (più 19 dirottatori) e il ferimento di oltre sei mila.  Non tutte le vittime sono state identificate. E non tutte le vittime sono decedute nell’immediato. Proprio ieri l’ufficio del medico legale di New York ha annunciato l’avvenuta identificazione di Dorothy Morgan, di Hempstead, a Long Island, un’impiegata della società di assicurazioni Marsh and McLellan che lavorava al 94mo piano della Torre Nord, e di un uomo i cui familiari hanno chiesto di mantenere il riserbo sull’identità. Erano le vittime 1.646 e 1.647 dell’attacco terroristico. In questi 20 anni si sono verificati ulteriori decessi a causa di tumori e malattie respiratorie come conseguenza degli attacchi: secondo The City sono circa 100 i “First Responders” a New York morti nell’ultimo anno per coronavirus a causa dei problemi respiratori causati lavorando tra le macerie del World Trade Center. Secondo il Dipartimento della Giustizia nel rapporto rilasciato martedì scorso sono molte di più le persone decedute per le malattie contratte dopo gli attacchi che quelle perite negli attentati. Il dottor Roberto Lucchini, professore di Medicina alla School of Public Health di Miami, e alla Florida International University, ha diretto dal 2012 al Mount Sinai School of Medicine di New York il Data Center del World Trade Center Health Program. Un programma, finanziato dal Governo Federale dopo che i medici di Mount Sinai nel corso degli anni si erano accorti che chi era rimasto esposto alle polveri delle Torri Gemelle (poliziotti, vigili del fuoco, operai delle costruzioni, abitanti della zona) aveva sviluppato patologie anomale per l’età, peraltro tutte molto simili. Secondo le stime circa 90 mila “First Reponders” hanno prestato servizio nella zona dopo l’attacco e 400 mila persone abitavano nella zona circostante. Il dottor Lucchini era stato scelto per dirigere il programma grazie all’esperienza maturata alla scuola di medicina dell’Università di Brescia, dove per anni si è occupato dell’esposizione dei lavoratori alle sostanze inquinanti. “Per mesi, a distanza dal crollo delle Torri Gemelle – ha affermato Lucchini – quelle persone hanno respirato miscele tossiche di polveri di cemento molto irritanti, amianto, metalli pesanti, Pcb, diossine, senza adeguata protezione”. Nel Data Center del Mount Sinai in questi 20 anni sono entrati nel programma 100mila pazienti, di cui 35mila effettuano controlli annuali. Sono state formulate oltre 67mila diagnosi di patologie in qualche modo legate agli attentati dell’11/9 (una o più patologie per persona). Di queste quasi 49mila per problemi alle vie respiratorie ed all’apparato digestivo, circa 24mila per cancro molti dei quali emersi a distanza di anni, 19mila per problemi mentali. Stress post-traumatico, ansia, depressione, attacchi di panico. Vent’anni dopo sia i veleni che il trauma causato dagli attacchi non hanno ancora esaurito i propri effetti. “Stanno emergendo problemi di tipo cognitivo – ha affermato Lucchini – perdita di memoria, difficoltà di concentrazione, anomale per persone di 65 anni e che potrebbero essere un campanello d’allarme per diagnosi di Alzheimer. Su questo ora si stanno concentrando le ricerche anche del mio gruppo. Non sono temi gradevoli, soprattutto per chi li vive sulla propria pelle – ha evidenziato Lucchini – ma quello che mi ha colpito in questi anni è la grande empatia, la solidarietà che il personale che a vario titolo lavora in questo programma ha sempre dimostrato sia verso chi ha lavorato tra le macerie degli edifici abbattuti che per le persone che abitano vicino l’area colpita nube tossica”. Di certo, la ricerca ha consentito di imparare lezioni valide in tutti i disastri, dagli uragani agli incidenti industriali al crollo di edifici. “Nel Museo Memoriale per l’11 settembre – ha affermato Lucchini dalla Florida International University – c’è una sezione dedicata agli errori di gestione politica fatti in quel frangente, quando le autorità minimizzavano i rischi. Furono necessarie pressioni accorate da parte di sanitari, sindacati, gruppi di cittadini e celebrities per far partire il programma sanitario, con una legge promulgata solo nel 2011”. Quali le lezioni che invece bisogna ricordare? “Innanzitutto è necessario monitorare immediatamente le emissioni e l’esposizione ad esse con sensori, che oggi sono ampiamente disponibili. Inoltre, bisogna dotare chi è a contatto con le macerie di respiratori e maschere con filtri adeguati. Terzo: identificare chi arriva sul posto e monitorare nel tempo la salute di chi ha lavorato e la popolazione residente”.

Massimo Jaus, romano e tifoso giallorosso. Negli Stati Uniti dal 1972. Giornalista professionista dal 1974. Vicedirettore del quotidiano America Oggi dal 1989 al 2014. Direttore di Radio ICN dal 2008 al 2014. E’ stato corrispondente da New York del Mattino di Napoli e dell’agenzia Aga. Sposato, 4 figli. Studia antropologia della musica alla Adelphi University.

L'attentato alle Torri gemelle: tutti i numeri dell'11 settembre. Il Giorno  il 7 settembre 2021. Quel terribile giorno morirono 2.977 persone, e il crollo delle Torri travolse e schiacciò 1.337 veicoli. Per rimuovere i detriti sul sito del World Trade Center ci vollero 1,5 milioni di ore di lavoro su 261 giorni. Gli attentati dell’11 settembre 2001 provocarono la morte di 2.977 persone. Le vittime a New York furono 2.753, 184 quelle al Pentagono, 40 tra i passeggeri del volo 93. La più giovane tra i passeggeri dei voli dirottati dai terroristi fu Christine Hanson, che si era imbarcata a bordo del United Airlines Flight 175. Aveva due anni, stava andando per la prima volta a Disneyland. Il più anziano era Robert Norton. Si trovava a bordo dell’American Airlines Flight 11. Aveva 82 anni. Di seguito, alcuni dati relativi alle conseguenze in termini di vittime e di impatto degli attentati di venti anni fa.

Il dipartimento dei vigili del fuoco di New York perse 343 vigili, circa la metà delle vittime registrate dal personale in servizio in 100 anni di storia del dipartimento. Il crollo della Torre sud ebbe magnitudo 2.1 secondo i sismografi. La Torre sud magnitudo 2.3, stando a quanto riportato dalla Columbia University di New York.

Il crollo delle Torri travolse e schiacciò 1.337 veicoli, inclusi 91 mezzi dei vigili del fuoco.

Per rimuovere i detriti sul sito del World Trade Center ci vollero 1,5 milioni di ore di lavoro su 261 giorni.

Il Federal Bureau of Investigation assegnò più di 2.500 dei suoi 11.500 agenti alle operazioni antiterrorismo; 350.000 pagine dalla CIA e 20.000 pagine dall’FBI vennero prodotte per le udienze del Congresso su possibili mancanze dell’intelligence prima dell’11 settembre.

Undici persone condivisero gli indirizzi con almeno uno dei dirottatori.

Sette degli 11 erano nella “watch list” del FBI ed erano piloti. 

Gli Stati Uniti offrirono fino a 25 milioni di dollari di ricompensa, pagata dal programma Rewards for Justice, per le informazioni che portarono a localizzare Osama bin Laden.

Nei tre mesi precedenti l’11 settembre, la CIA inoltrò 300 nomi al mese ad agenzie a caccia di terroristi. A settembre, il numero salì a quasi 1.000; nell’ottobre 1400. Si è stabilizzato a meno di 900 nomi al mese.

A livello economico, nel mese di ottobre di quell’anno, 55.000 posti di lavoro vennero persi a livello nazionale nei ristoranti. Sempre a livello nazionale, le vendite dei ristoranti diminuirono di 6 miliardi di dollari nel settembre 2001

Le domande per le specializzazioni in Studi sul Medio e Vicino Oriente presso la New York University aumentarono del 53% nell’autunno 2002.

Rainews il 9 settembre 2021. I soccorritori, gli "eroi" dell'11 settembre Vigili del fuoco, polizia e volontari tentarono di salvare le persone intrappolate nei due edifici del World Trade Center. Molti di loro perderanno la vita nel crollo delle Torri, travolti dai detriti e dalle macerie.

11 settembre 2001, vent'anni fa l'attacco all'America. Adnkronos.com 11 settembre 2021. Gli attentati provocarono la morte di 2.977 persone. 11 settembre, vent'anni dall'attacco all'America. Sono passati 2 decenni dagli attentati che hanno squassato gli Stati Uniti e scioccato il mondo. Le azioni terroristiche provocarono la morte di 2.977 persone. Le vittime a New York, colpita al cuore con l'attacco al World Trade Center, furono 2.753. Furono 184 quelle al Pentagono, 40 tra i passeggeri del volo 93. La più giovane tra i passeggeri dei voli dirottati dai terroristi fu Christine Hanson, che si era imbarcata a bordo del United Airlines Flight 175. Aveva due anni, stava andando per la prima volta a Disneyland. Il più anziano era Robert Norton. Si trovava a bordo dell'American Airlines Flight 11. Aveva 82 anni.

Il dipartimento dei vigili del fuoco di New York perse 343 vigili, circa la metà delle vittime registrate dal personale in servizio in 100 anni di storia del dipartimento.

Il crollo della Torre sud ebbe magnitudo 2.1 secondo i sismografi. La Torre sud magnitudo 2.3, stando a quanto riportato dalla Columbia University di New York.

Il crollo delle Torri travolse e schiacciò 1.337 veicoli, inclusi 91 mezzi dei vigili del fuoco. Per rimuovere i detriti sul sito del World Trade Center ci vollero 1,5 milioni di ore di lavoro su 261 giorni.

Il Federal Bureau of Investigation assegnò più di 2.500 dei suoi 11.500 agenti alle operazioni antiterrorismo; 350.000 pagine dalla CIA e 20.000 pagine dall'FBI vennero prodotte per le udienze del Congresso su possibili mancanze dell'intelligence prima dell'11 settembre. Undici persone condivisero gli indirizzi con almeno uno dei dirottatori. Sette degli 11 erano nella "watch list" del FBI ed erano piloti.

Gli Stati Uniti offrirono fino a 25 milioni di dollari di ricompensa, pagata dal programma Rewards for Justice, per le informazioni che portarono a localizzare Osama bin Laden. Nei tre mesi precedenti l'11 settembre, la CIA inoltrò 300 nomi al mese ad agenzie a caccia di terroristi. A settembre, il numero salì a quasi 1.000; nell'ottobre 1400. Si è stabilizzato a meno di 900 nomi al mese.

A livello economico, nel mese di ottobre di quell'anno, 55.000 posti di lavoro vennero persi a livello nazionale nei ristoranti. Sempre a livello nazionale, le vendite dei ristoranti diminuirono di $ 6 miliardi nel settembre 2001.

Le domande per le specializzazioni in Studi sul Medio e Vicino Oriente presso la New York University aumentarono del 53% nell'autunno 2002.

11 Settembre, tra le vittime anche il calabrese Joe Riverso. Il Quotidiano del Sud l'11 settembre 2021. C’è anche un po’ di Calabria in quel tragico 11 settembre 2001. Fra le vittime degli attacchi terroristici ci fu anche Joe Riverso da Satriano, in provincia di Catanzaro. Joe era il figlio di Domenico Riverso e Teresina Zangari, due satrianesi che hanno deciso di abbandonare il paese per andare a vivere negli Stati Uniti ma che hanno mantenuto un rapporto con la terra d’origine così come aveva fatto il loro figlio. L’uomo di Satriano ha perso la vita al 104esimo piano di una delle due Twin Towers in quell’11 settembre. «Con Joe – raccontava l’ex sindaco di Satriano Michele Drosi intervistato anni addietro dal nostro giornale – abbiamo legami di parentela e ricordo – che il giorno del terribile disastro che sconvolse il mondo mi trovavo fuori Satriano. Appresa la notizia che un cittadino della mia comunità era rimasto vittima dell’attentato terroristico sono rimasto molto affranto. Un dolore sofferto dai cittadini di Satriano e che il tempo non cancellerà». Joe era padre di una bimba ed aveva solo 34 anni quando quel terribile attentato provocato dalla furia dei kamikaze di Bin Laden distrusse le Twin Towers. Momenti terribili che restano scolpiti nella mente dei cittadini di Satriano dove Joe aveva parenti e amici. Di Joe non si sapeva nulla: nessun contatto coi genitori che lo cercavano con angoscia, nessun segno di lui negli ospedali e nelle strutture di soccorso dove papà e mamma di Joe si erano subito diretti nella speranza di rintracciare il proprio figlio fra i superstiti. Di Joe, sembra sia stato trovato tra le vittime, non già com’era prevedibile, il cadavere ma più semplicemente una sua traccia. Joe Riverso era un giovane pieno di vitalità ed era amato e stimato da tutti. Scrisse Al Riccobono, amico di Joe: «Incontrai Joe Riverso una mattina di settembre nel 1976. Arrivò alla St Anthony’s School con il resto della sua classe perché la loro scuola era stata chiusa. Ma chi li voleva qui? Era strano allora, tutti questi ragazzi e ragazze che non ci piacevano e viceversa. Ciò che è accaduto l’11 settembre ha cambiato per sempre le nostre vite. Quasi tutti qui stasera siamo stati direttamente o indirettamente toccati dalla tragedia. Pensare a quello che è successo ci rattrista ed addolora. Vorrei approfittare di questo momento per esprimere le nostre condoglianze a tutte quelle famiglie e amici che sono stati devastati da questa tragedia, osservando un momento di silenzio. Questa sera siamo qui per ricordare e rendere onore al nostro amico Joe Riverso. Conoscevo bene Joe e la sua meravigliosa famiglia da quando avevo sette anni. Chiunque abbia avuto il piacere di conoscere Joe o forse l’incredibile fortuna di essere un suo amico intimo può ora riflettere e pensare quanto è stato fortunato. Essere vicino a Joe significava una giornata radiosa, un grande sorriso e allegria a volontà. Joe possedeva tutto questo. Lui era la persona più brillante che abbia mai conosciuto. Faceva sentire meglio le persone che gli stavano attorno. Joe aveva una passione per lo sport in genere. Quando Joe si metteva qualcosa in testa, potresti scommettere che l’avrebbe realizzata in maniera eccellente. Ecco chi era Joe. Era dotato di talento atletico, una mente creativa e un cuore molto grande, ecco la ragione per cui Joe era così robusto. Il miglior amico che potevi avere. Joe aveva un’aura intorno a sé che rendeva il mondo un posto migliore. Se avevi avuto una brutta giornata al lavoro o volevi trovare un posto dove sentirti meglio o ridere, bastava andare da lui» .

Lucy Crifasi e gli altri 218 italo-americani uccisi nelle Torri Gemelle. Sono 219 i morti di origine italiana negli attentati dell'11 settembre. Chi cerca i nomi dei "sommersi" è Giulio Picolli. La storia di Lucia: la famiglia partì dal Belice alla volta dell'America. Fabio Greco l'11 settembre 2021 su Agi. Amava le canzoni di Julio Iglesias, Lucia Crifasi, che l'11 settembre di vent'anni fa rimase uccisa nel crollo delle Torri gemelle. Siciliana di Montevago, nel Belice, la partenza con la famiglia dalla Sicilia nel 1958 per gli Stati Uniti le aveva risparmiato la paura del terribile sisma del 1969 e di altri crolli che avrebbero mietuto centinaia di vite giovani come la sua, ma gliene riservava un altro ancora più micidiale perchè mirato, pianificato da mano (dis)umana all'età di 51 anni, quando lei aveva conquistato con fatica il proprio posto nella società americana. "Lucy" Crifasi è una degli italiani/e e degli italo-americani/e morti nell'attentato che segnò l'inizio di una nuova epoca per il mondo, e che vede oggi tornare al potere a Kabul i demoni che la scatenarono. Il loro numero, ancora oggi, non è chiaro: fu l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a parlare, in occasione di una commemorazione nel 2008, di "dieci vittime con cittadinanza italiana o doppia cittadinanza e 260 di origine italiana", ma il numero è continuamente oscillato nel corso degli anni. Quei numeri al presidente li diede Giulio Picolli, imprenditore che da anni aggiorna il conto delle vittime italoamericane dell'11 settembre. "Napolitano - tiene a sottolineare all'AGI, che lo ha contattato - fu l'unico presidente venuto a New York a incontrare le famiglie delle vittime fermandosi sotto la lapide". Oggi, spiega, i nomi dei morti di origine italiana sono 219. A essi si è aggiunto negli ultimi giorni, tra altri, quello di Caterina Kathy Mazza, primo capitano di polizia donna dell'Autorita' portuale di New York morta mentre tentava di guidare un gruppo di civili fuori dal World Trade Center. Il lavoro di Picolli è stato - e sarà ancora - certosino: "Non posso identificare con più accuratezza i nomi a causa delle leggi americane e italiane sulla privacy. Ma questi nomi non vanno dimenticati. Il consolato a New York - dice all'AGI - non può darmi nomi e documenti per non infrangere la privacy. Lo capisco, e allora guardo perfino i necrologi per capire chi siano le persone morte, di quale etnia siano, servendomi poi di indicazioni date dal prete o dai parenti. Nel 2002 avevo 490 nomi; quest'anno ne ho contati 215 al 31 agosto; al 10 settembre ne ho aggiunti altri 4". L'11 settembre del 2001 Picolli perse il figliocco. "Luigi Gino Calvi, un ragazzo di 34 anni, nato e cresciuto con i miei figli. Era come un figlio - ricorda - uno di quei piccoli eroi della finanza americana, appena assunto dalla Cantor Fitzgerald, uno dei maggiori broker di Nyt, che ebbe l'80% dei propri dipendenti ucciso nell'attentato". "Non ho mai smesso di cercare - continua - e nel libro che sto per pubblicare vi sono altre cornici in bianco. Ho 80 anni, e continuerò. L'importante è ricordarsi anche di una sola vittima italiana. L'emigrazione italiana in America, e nel private equity di Nyt, ha avuto un impatto importantissimo. Senza italiani, la ristorazione non esisterebbe. Dobbiamo dire grazie all'emigrazione, grazie a questi signori. Non li dimenticheremo mai". Molte delle vittime erano originarie della Sicilia. "I primi nomi - ha scritto in passato Luca Guglielminetti, presidente dell'Associazione vittime del terrorismo fino al 2015 - arrivano da una celebrazione di due vittime originarie di Nissoria, Sicilia: Vincenzo Di Fazio e Salvatore Lopes. Notizia stampa pubblicata sul sito della base aereo navale americana di Sigonella". Il 16 settembre del 2001, cinque giorni dopo il massacro, una corrispondenza di Pantaleone Sergi per il quotidiano La Repubblica riportava un "balletto" di cifre e di nomi, dietro i quali si intravede la geografia delle partenze per l'America: "Non si hanno più notizie dei cugini Salvatore Lopes e Vincenzo Di Fazio, trentottenni di Nissoria in provincia di Enna. Salvatore, sposato e padre di due bambine di 8 e 11 anni, lavorava in un'agenzia di viaggi al piano numero 104; Vincenzo, anch'egli sposato e padre di tre figli, lavorava invece come agente di borsa. Dell'elenco fa parte anche Luigi Arena, 40 anni, di Capaci. Vigile del fuoco, l'uomo era entrato nella prima torre durante le operazioni di salvataggio. Nessuno ha saputo più niente di lui, come nulla si sa di Angelo Sereno, 30 anni, di Torretta, installatore di condizionatori d'aria, e di Calogero Gambino, anche lui di Torretta, che lavoravano in una delle torri. Scomparsi sono anche Giuseppe Randazzo, 28 anni, di Capaci, e Gianni Spataro, 32 anni, figlio di italiani ma nato qui (il padre di Ragusa e la madre di Termini Imerese) lavorava in una banca al 98esimo piano della prima torre. Dalla Calabria invoca informazioni la signora Maria Riverso e spera ancora che suo figlio Jo sia ancora in vita. Resta tra i dispersi anche Raimondo Cima, un architetto di 63 anni originario di Civitavecchia, che lavorava al 92esimo piano del Wtc. Il timore per la loro sorte - concludeva Sergi su La Repubblica - aumenta col passare delle ore. E sono ore terribili". "Riconoscere tutte le vittime dei conflitti è imprescindibile per le istituzioni", scrive Guglieminetti su Avvenire. "Non solo per garantire loro i diritti sanciti dalle legislazioni italiana ed europea e per evitare un'ingiustificabile e vergognosa sperequazione che lascia aperte le ferite delle memorie, ma perchè è una precondizione per riumanizzarle: cioè, per dare spazi e voce ai "sommersi" attraverso i "salvati", con tutte le difficoltà che ci ha insegnato Primo Levi, ma anche tutto il portato di conoscenze che da loro può scaturire permettendoci di provare a prevenire nuove catastrofi. Capaci e Torretta, nel Palermitano; Montevago, nel Belice. Sono i punti da cui tradizionalmente partivano le famiglie siciliane alla volta dell'America. Come quella di Lucia, che trovò un lavoro - scrisse il New York Times in un obituary il 9 dicembre del 2001 - nell'ufficio del broker Marsh & McLellan in una delle due Torri. "L'amavano tutti - si poteva leggere nel quotidiano - e non poteva essere altrimenti perchè Lucy era il genere di donna che aveva sempre un grande sorriso e il tempo di risolvere i problemi degli altri". Viveva a Glendale, nel Queens, e un giorno alla settimana lo trascorreva con la madre 85 enne. Amava viaggiare, Lucia, e spesso trascinava con sè i fratello e sorella in giro per il mondo. Un anno prima dell'attentato la famiglia era tornata a Montevago, e poi aveva viaggiato a Roma per salutare e pregare con il Papa. Aveva solo due vizi, raccontò al Nyt il fratello Frank: "Le scarpe e i libri". La mattina dell'11 settembre al lavoro Lucy indossava forse una camicia a strisce verde oliva. Qualche ora dopo sarebbe entrata a far parte del lunghissimo elenco di persone "Missing", scomparse. Gli amici, scrisse Marshall Sella sul New York Times il 7 ottobre 2001, la cercavano disperatamente, stamparono la sua foto in centinaia di fogliettini da diffondere in giro e poi ne stamparono un'altra più recente, con gli abiti che avrebbe potuto indossare quel giorno. E altre informazioni, aggiungevano a quei volantini della speranza: Lucy aveva una piccola cicatrice al centro della fronte e un neo sulla mascella e "una cicatrice di quattro pollici sul piede sinistro o destro". I parenti di Lucia Crifasi chiamarono perfino dal Venezuala. Una delle ultime persone che sentirono al telefono Lucia fu una sua collega, Sue Johnson, che il 10 settembre del 2006 lasciò un suo ricordo nella pagina della MarshMcLennan: "Parlai con lei qualche minuto prima delle 8.46 quella mattina, ma non avevo capito che lavorata al Wtc finchè non vidi una sua foto alla Cnn. Penso spesso a lei, e spero che la sua famiglia trovi pace". "Lucy - ha scritto sul memorial della Cnn Julia LaRosa - era da molti anni una mia amica. Ci incontravamo quasi ogni giorno sul bus che veniva da Glendale e vi tornava, fin quando lei non fu trasferita in centro. Era un agente di viaggio, e qando mia figlia le fece sapere di voler lavorare nel settore, l'aiutò molto con una serie di consigli. Adesso Robyn è un'agente di viaggi che ha avuto successo. Lucy era molto dolce e generosa, e teneva in modo forte alla famiglia". Montevago la ricorda con affetto ogni anno, e a vent'anni da quel giorno le dedicherà un francobollo.

Da il 28 settembre 2021. I vertici militari Usa hanno riferito al Senato che Joe Biden ricevette le valutazioni dei generali sull'Afghanistan prima del ritiro. Ma il capo dello stato maggiore congiunto Mark Milley e il capo del comando centrale Usa Kenneth McKenzie hanno contraddetto il presidente affermando di avergli consigliato - senza successo - «di mantenere 2.500-3.500 soldati per garantire la stabilità del governo e dell'esercito di Kabul». In precedenza Biden aveva sostenuto di non aver mai ricevuto alcun suggerimento in questo senso dai suoi consiglieri militari.

Valeria Robecco per “il Giornale” il 29 settembre 2021. «In nessun momento ho tentato di usurpare l'autorità o inserirmi nella catena di comando». Il capo di stato maggiore congiunto Mark Milley smentisce al Congresso le rivelazioni dell'ultimo libro di Bob Woodward Peril («Pericolo»), secondo cui il generale limitò l'accesso di Donald Trump alle armi nucleari e telefonò due volte all'omologo cinese per rassicurarlo che gli Usa non stavano preparando alcuna guerra contro Pechino. Per la prima volta dal caotico ritiro americano dall'Afghanistan i vertici militari Usa sono stati messi sotto torchio dalla Commissione Forze armate del Senato, e durante l'audizione si è parlato anche dell'ex presidente e dei suoi ultimi suoi mesi alla Casa Bianca. In particolare, del comportamento tenuto da Milley descritto dal giornalista due volte premio Pulitzer che insieme a Carl Bernstein rivelò i retroscena del Watergate. «Sono certo che Trump non avesse l'intenzione di attaccare i cinesi ed era mia responsabilità diretta, a nome del Segretario alla Difesa, fare conoscere gli ordini e le intenzioni del presidente» ha detto al Senato il generale, smentendo di aver dubitato dello stato mentale del tycoon. «Non sono qualificato» a determinare la sua salute mentale, ha proseguito rispondendo ad una domanda sulle rivelazioni di Woodward: «Il mio compito è di dare un parere e di assicurarmi che il comandante in capo sia sempre pienamente informato». Milley ha raccontato che la speaker della Camera Nancy Pelosi lo chiamò l'8 gennaio, due giorni dopo l'assalto al Congresso da parte dei sostenitori di The Donald, per chiedergli delle capacità di Trump di lanciare un attacco nucleare. «Cercai di rassicurarla che un lancio nucleare è governato da un processo molto specifico - ha sottolineato - Era preoccupata e fece vari commenti personali su di lui. Io le dissi che il presidente è l'unica autorità con il potere di lanciare un attacco nucleare, ma che non può farlo da solo. Ci sono protocolli e procedure e non c'è alcuna possibilità di un lancio accidentale o non autorizzato». Quindi, il generale ha rivendicato la sua «totale lealtà» alla Costituzione degli Stati Uniti e la legittimità delle sue due telefonate all'omologo di Pechino Li Zuocheng per rassicurarlo contro azioni militari ostili negli ultimi mesi della presidenza Trump. «Ho comunicato regolarmente con la mia controparte cinese» ha spiegato, ricordando che alle sue chiamate assistettero dalle otto alle undici persone e che il «suo lavoro era ridurre l'escalation». In seguito a una telefonata dell'8 gennaio con il collega del Dragone, inoltre, ha assicurato di aver informato l'allora segretario di stato Mike Pompeo, il capo di gabinetto della Casa Bianca Mark Meadows, e il segretario della Difesa ad interim Christopher Miller. Sul ritiro dall'Afghanistan, invece, Milley e il capo del comando centrale Usa Kenneth McKenzie hanno contraddetto Joe Biden, affermando di avergli consigliato, senza successo, di mantenere 2.500-3.500 soldati nel Paese per garantire la stabilità del governo e dell'esercito. Il presidente, al contrario, ha sostenuto di non aver mai ricevuto alcun suggerimento in questo senso dai suoi consiglieri militari. Peraltro, davanti alla commissione del Senato, il capo di Stato maggiore congiunto ha anche messo in guardia sul rischio terrorismo: «Un'Al Qaida riorganizzata o un Isis con aspirazioni ad attaccare gli Usa è una possibilità molto reale che potrebbe presentarsi nei prossimi 12-36 mesi».

Afghanistan, le carte top secret: «Avevamo già perso, nessun presidente ebbe il coraggio di ammetterlo». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 9 Ottobre 2021. Il giornalista del Washington Post Craig Whitlock e il dossier che fa discutere in America. «Siamo stati là vent’anni e non abbiamo capito il Paese». «Tutto è cominciato con una soffiata», racconta il reporter del Washington Post Craig Whitlock. «Nell’estate del 2016, avevo sentito che un’agenzia federale poco nota, chiamata Special Inspector General for Afghanistan, aveva intervistato Michael Flynn, generale in pensione diventato famoso perché faceva campagna elettorale per Donald Trump. Il governo federale lo aveva intervistato sulla guerra perché era stato a capo dell’intelligence militare della Nato e degli Stati Uniti in Afghanistan durante l’amministrazione Obama. Era noto come un generale molto franco, non aveva paura di criticare nessuno. Pensavo che sarebbe stato facile ottenere una copia delle sue dichiarazioni, invece fu necessario fare causa per averle. Flynn sosteneva che il governo non era stato onesto perché dichiarava che stavamo vincendo, mentre in realtà stavamo perdendo». Flynn non era una fonte del tutto obiettiva, ma il governo non intervistò solo lui: furono sentite quasi mille persone che avevano avuto un ruolo nella guerra a partire dal 2001. Dopo tre anni di cause, il Washington Post è riuscito a ottenere quelle testimonianze. Il verdetto: George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump sapevano «che non c’erano prospettive realistiche di vittoria in Afghanistan, ma nessuno di loro ha voluto ammettere la sconfitta». Whitlock tre volte finalista al Premio Pulitzer, lo racconta in un libro-caso, The Afghanistan Papers. A Secret History of the War , uscito negli Stati Uniti il 31 agosto e che in Italia viene pubblicato da Newton Compton il 14 ottobre, con il titolo: Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti top secret .

L’opinione pubblica americana ha prestato attenzione all’inchiesta?

«Era il dicembre 2019 quando pubblicammo i documenti, nel bel mezzo dell’impeachment di Trump. Temevo che pochi avrebbero prestato attenzione e invece fu il nostro progetto più letto dell’anno. La reazione fu di rabbia. Bush, Obama e Trump non solo non avevano ammesso la sconfitta, ma avevano continuato a promettere la vittoria. Leggendo i documenti era evidente il contrasto tra ciò che veniva detto in pubblico e ciò che era noto in privato, cioè che la guerra non si poteva più vincere».

Perché nessuno ha voluto ammetterlo?

«Quella in Afghanistan era vista come una guerra giusta dopo l’11 settembre. Nessun politico o generale era pronto ad ammettere che stavano lentamente perdendo la guerra che gli americani avevano appoggiato con forza e che credevano di aver vinto. Nel 2001-2002, i talebani erano stati rimossi dal potere, Al Qaeda era sparita dall’Afghanistan. Ma col tempo la guerra ha cominciato a prendere la direzione sbagliata. Nessun presidente americano voleva confessarlo».

Anche Biden voleva evitarlo, ma le circostanze lo hanno reso evidente. Ora l’America come vive il fallimento?

«È difficile, ci sono accuse reciproche, si dibatte se sia colpa di Biden, Bush, Obama o Trump. Ma tutto questo ha fatto capire all’America di non essere invincibile. C’è una grande riluttanza ora a intervenire militarmente nel mondo, la gente è focalizzata sui problemi in patria. Penso che gli americani vorranno una spiegazione molto più chiara prima di mandare truppe all’estero in futuro: però è anche vero che tuttora in Siria e Iraq ci sono nostri soldati e non abbiamo definito chiaramente né gli obiettivi né la durata. Non so se abbiamo davvero appreso la lezione. Per i veterani — i quasi 800.000 che hanno servito in questa guerra — la situazione è particolarmente dura da accettare: pensavano di servire una nobile causa e di aiutare il governo e il popolo afghano. Adesso i talebani si sono ripresi l’intero Paese e i veterani si chiedono quale sia stato il significato del proprio sacrificio e dei compagni uccisi. Ci vorrà molto tempo per capire ciò che è successo e perché. Penso che il dibattito sia appena iniziato». 

Un grande problema è stato l’alleanza con i leader afghani. C’erano alternative?

«L’America e la Nato hanno collaborato con personaggi problematici: volevano rafforzare un governo che la popolazione non amava. Gli afghani ritenevano che i loro leader avessero avuto tutte le opportunità e le risorse per risollevare il Paese ma erano troppo corrotti o incompetenti per farlo. A molti afghani non piacciono i talebani ma disprezzavano il proprio governo. E nelle zone rurali, se costretti a scegliere, in molti casi preferiscono i talebani. Moltissimi afghani vogliono semplicemente che il conflitto abbia fine. Il problema è che gli Stati Uniti hanno cercato di dividere il Paese tra buoni e cattivi e, come si vede dai documenti nel mio libro, avevano una visione semplicistica: i talebani erano i cattivi, l’alleanza del Nord e i Signori della guerra i buoni. Ma il popolo afghano non la vedeva così: gli Stati Uniti si sono alleati con personaggi corrotti o molto brutali. Stiamo stati là vent’anni e non abbiamo capito il Paese».

Il generale Petraeus ha criticato il ritiro di Biden. Lui ha capito l’Afghanistan meglio di altri?

«Un grosso problema dell’approccio americano, incluso quello di Petraeus, è che gli Stati Uniti hanno creduto che ci fosse una soluzione militare. Pensavano di poter eliminare o sconfiggere del tutto i talebani, ma non è possibile perché fanno parte del tessuto della società afghana. Si sarebbe potuto tentare, nel 2001 o anche nel 2004, quando erano deboli, di includerli nel sistema politico, in modo da porre fine all’insurrezione, ma solo negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno capito che si doveva negoziare. Era troppo tardi, i talebani erano ormai troppo forti e il governo troppo debole. L’Afghanistan è cambiato dal 2001, in particolare Kabul. Ma per tutto questo tempo il conflitto è continuato. Gli Stati Uniti hanno provato a trasformare e ricostruire una società in guerra e non è possibile».

I segreti del ritiro occidentale dall'Afghanistan raccontati in un libro sull'"Inferno di Kabul". Diana Alfieri il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dalla testimonianza delle mamme dei soldati, ai racconti dei generali. «Inferno a Kabul: la vera storia del ritiro occidentale dall'Afghanistan» (Ed. Historica Giubilei Regnani) è un libro per leggere la storia controcorrente. Partendo dalla cronaca per arrivare a un'analisi politica fuori dagli schemi. A scriverlo sono stati Chiara Giannini e Simone Platania. Un saggio per comprendere i segreti di una «ritirata mal pianificata dagli Usa», con «migliaia di persone in fuga», con al centro «l'ultima notte nell'inferno di Kabul, dove i militari italiani hanno fatto la differenza». Nella prima parte si narra l'«esperienza» della Giannini «un mese fa a Kabul, negli ultimi giorni prima del ritiro del contingente: le testimonianze delle madri di due caduti (nel caso di Rosa Papagna si è appena riaperto il processo per la morte del figlio), le testimonianze di 4 generali: Morabito, Bertolini, Battisti e Preziosa, e infine una parte sulle nuove strategie comunicative terroristiche». Ma chi sono i due autori di «Inferno a Kabul»? Chiara Giannini si descrive così: «Giornalista e inviata di guerra. Ha calpestato il suolo afghano per quattordici volte, raccontando ogni sfaccettatura del Paese degli aquiloni. Ha fatto reportage anche da Iraq, Libano, Kosovo, confine libico e da molti altri luoghi caldi del mondo». E poi: «Nel 2014 ha rischiato di morire in un attentato terroristico avvenuto sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Attualmente scrive per Il Giornale ma i suoi articoli sono usciti sui principali quotidiani nazionali. Questo è il suo terzo libro, il secondo sull'Afghanistan». Simone Platania è invece «studente in lingue, culture, letterature e traduzioni presso l'Università La Sapienza di Roma, è esperto in studi della storia mediorientale». Entrambi, nel loro libro, si sono posti una domanda: «Cosa c'è dietro al frettoloso ritiro della coalizione internazionale dall'Afghanistan?». Ma gli interrogativi della coppia Giannini-Platania non finiscono qui. Altra domanda-chiave: «I vent'anni che le nostre Forze armate hanno passato in quella terra sono davvero serviti a qualcosa, visto il drammatico epilogo?». Un libro in cui il lettore troverà le risposte a queste e altre domande nel racconto degli ultimi giorni nell'inferno di Kabul attraverso «l'analisi fatta da esperti e veterani di ciò che è stato a sarà di una terra in cui la guerra è parte integrante della cultura civile». Un racconto avvincente sulla «vera storia della fuga degli interpreti afghani, dell'impegno per salvarli dei militari italiani, delle donne rimaste a subire il regime del nuovo Emirato talebano, ma soprattutto di quello che resterà sempre un clamoroso errore occidentale». Toccante anche la dedica che fa da prologo al libro: «Alle donne e ai bambini, agli uomini giusti del Paese degli aquiloni. Affinché possano trovare la via di combattere per la libertà. E a chi ha perso la vita in Afghanistan. In qualunque modo l'abbia persa. Perché non c'è un modo migliore o peggiore per morire. Il vuoto resta comunque». «Quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell'uomo». Firmato: Oriana Fallaci Diana Alfieri

Falling Man. Il Post l'11 settembre 2021. La storia della foto più famosa e impressionante scattata l'11 settembre 2001: un uomo che precipita in maniera composta, quasi come in un tuffo. La storia delle stragi dell’11 settembre è un’immensa storia di immagini, riempita a sua volta di mille storie diverse, entrate nella memoria collettiva in una serie di scatti e dirette e video di quel giorno. E dentro ha le storie delle persone morte quel giorno, molte delle quali si mescolano nel numero complessivo delle vittime, e una delle quali è raccontata in una fotografia divenuta simbolo di un sacco di cose, non solo di quel giorno ma anche dei modi con cui gli americani reagirono a quel giorno.

È la fotografia del “Falling Man”, l’uomo che cade. La scattò l’11 settembre alle 9 e 41 minuti e 15 secondi Richard Drew, un fotografo dell’agenzia Associated Press che aveva visto passare altri momenti della storia durante la sua carriera. Quando aveva 21 anni si trovava accanto a Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza, nel momento in cui venne ucciso in un albergo di Los Angeles, nel 1968. Il sangue gli finì addosso, e lui scattò le immagini di Kennedy mentre moriva, mentre Ethel Kennedy lo abbracciava e chiedeva ai fotografi di non farlo, di non scattare. La mattina dell’11 settembre Drew era stato mandato al Bryant Park di Manhattan – una cinquantina di isolati a nord del World Trade Center – per fotografare una sfilata di moda premaman: c’era anche una troupe della CNN, e un cameraman ricevette in cuffia la comunicazione che un aereo si era schiantato contro una delle torri gemelle. Subito dopo l’agenzia chiamò Drew e gli disse di andare là. Drew prese la metropolitana che funzionava ancora e scese alla fermata di Chambers Street, da dove sbucò per trovarsi di fronte le due torri avvolte nel fumo: il secondo aereo aveva centrato la torre Sud. La gente guardava in alto e urlava: si vedevano persone saltare giù dalle torri.

Drew cominciò a scattare. In quei momenti un aereo centrava il Pentagono. Dopo poco la torre Sud crollò, seguita dalla Nord: Drew, scattando ancora, capì che doveva togliersi di lì e rientrò negli uffici di Associated Press. Tra le foto che aveva fatto alle persone in caduta libera dalle torri, alle persone che andavano a morire schiantandosi a terra in fuga da altre morti, una lo colpì subito per la sua potenza formale e simbolica: sullo sfondo di linee verticali delle due torri, precisamente a separare il profilo di una da quella dell’altra, la sagoma di un uomo verticale e capovolta, con le braccia allineate al corpo e una gamba compostamente piegata, come in un tuffo, come una freccia, era stata bloccata nella fotografia, ferma e rivelatrice di velocità insieme. Era una foto pazzesca. Uscì sui giornali di tutto il mondo il giorno dopo. Ma quella fotografia, e le altre di chi si gettò dalle torri, e tutto il tema del come lo fecero, perché lo fecero, chi fossero, quanti fossero, diventò rapidamente un delicatissimo tabù per l’informazione americana e il dibattito sulla strage. Ci fu chi vide in quelle immagini una irrispettosa indiscrezione nei confronti di quel gesto estremo, obbligato, quasi un’umiliazione sommata alla morte. Ci furono i parenti dei morti che per anni, e molti di loro ancora oggi, hanno combattuto tra il desiderio di sapere come siano morti i loro cari e la speranza di non saperlo. Ci fu chi attribuì alla scelta di chi saltò un tratto di pavidità, quasi che le loro morti fossero meno eroiche di chi fu ucciso dal fuoco e dal crollo: quasi si fossero suicidati. Molti da allora, per questa ragione, non vogliono sia usata l’espressione “suicidi” per quelle morti. Ci furono familiari che non vollero pensare o sapere che i propri cari non avessero sperato fino all’ultimo di tornare a casa da loro. Le immagini dei “falling men” subirono da subito rimozioni, censure, pudori, finirono confinate su siti web per voyeurismi vari o video di YouTube affollati di avvisi e discussioni anche violente, e persino le storie di quei salti furono eluse il più spesso possibile. Il New York Times, che mise la foto più famosa a pagina 7 l’indomani delle stragi, fu molto attaccato dai lettori, e non la pubblicò più fino al 2007. Nel 2004 un articolo del New York Times affrontò di nuovo la questione. Moltissime immagini descrivevano i salti nel vuoto, le persone che si aggrappavano all’esterno delle finestre, che si affacciavano in cerca di riparo dal fuoco, che si gettavano, da sole o due alla volta, poi separate dalla velocità, o appese a improbabili e perdenti paracaduti improvvisati. I loro voli erano durati circa dieci secondi, a velocità che raggiungevano i 150 chilometri all’ora. E nessuno sapeva quanti fossero morti così. Una stima fatta da USA Today nel primo anniversario parlava di 200 morti: circa l’8% del totale. Altre valutazioni dicevano 50. Di oltre tremila uccisi, erano state le vittime la cui morte era avvenuta davanti agli occhi di tutti, l’espressione pubblica della strage avvenuta nella sua gran parte lontano dagli occhi, tra fumo, lamiere e fuoco. I primi cominciarono a saltare pochi minuti dopo il primo schianto nella torre Nord. Dalla Sud si gettarono meno persone, perché fu colpita dopo e alcuni erano già fuggiti, perché crollò più rapidamente dopo lo schianto dell’aereo, perché nella torre Sud rimasero intrappolate in un numero di piani più grande. In molti si sono interrogati sui pensieri di coloro che saltarono: se furono spinti da qualche speranza di farcela. Più probabilmente, dicono gli esperti, si trovarono senza scelta, come chi abbia la mano sul fuoco su una candela e abbia come unica reazione quella di toglierla. Almeno mille persone sopravvissero agli schianti degli aerei e rimasero senza via di fuga, con le scale di emergenza bloccate. Alcune ricostruzioni sostengono che ci furono persone scaraventate fuori dalle esplosioni, e altre che caddero nella calca delle piccole folle che cercavano aria dalle finestre. Una di loro uccise un vigile del fuoco a terra, travolgendolo. Anni dopo le stragi, una scultura intitolata “Tumbling Woman”, creata da un artista che aveva perso un amico nella torre Nord, fu esposta al Rockefeller Center: raffigurava una donna in una caduta, capovolta. Fu rimossa rapidamente, in seguito alle proteste e alle minacce ricevute dalla galleria che l’aveva esposta. Era troppo presto, rispetto all’abitudine alla rappresentazione e testimonianza di altre tragedie della storia che abbiamo costruito con altri eventi storici. Nel 2003 il giornalista Tom Junod aveva scritto un lungo articolo per l’edizione americana del mensile Esquire, dedicata a coloro che si gettarono, e all’uomo della foto più famosa, “Falling man”. Junod raccontò dei tentativi di alcuni suoi colleghi di identificarlo, tentativi complicati dalle resistenze dei parenti a contemplare la possibilità che i loro cari si fossero gettati. Gli indizi sugli abiti dell’uomo – in particolare il grembiule bianco, all’inizio scambiato per una camicia – suggerivano che lavorasse per uno dei ristoranti o servizi di cucina del World Trade Center, in particolare il famoso Windows of the World. L’uomo era più probabilmente ispanico che nero, e gli ingrandimenti delle altre undici foto della sequenza di Drew che lo ritraevano mostravano una t-shirt arancione sotto il grembiule. Per un periodo, l’uomo fu identificato come Norberto Hernandez, un cuoco della pasticceria di Windows of the World. La sua famiglia si divise sul riconoscimento – il dolore del pensiero che li avesse “traditi” la travolse, e ci fu chi scrisse loro su internet che Norberto sarebbe andato all’inferno – , ma nel suo articolo Junod alla fine concluse che non poteva essere lui. Le sue indagini furono lunghe, e il suo articolo si conclude con la più credibile ipotesi che l’uomo della foto sia Jonathan Briley, un altro impiegato del ristorante, ma senza certezze. Anche se Junod è tornato sulla storia un anno fa, con ancora meno dubbi. “Falling man” è diventato nel frattempo il titolo di un romanzo di Don DeLillo, un protagonista di quello di Jonathan Safran Foer “Molto forte, incredibilmente vicino”, un documentario ispirato all’articolo di Tom Junod, e una immagine più storicizzata che nei primi anni dopo le stragi. Richard Drew continua a esserne intervistato. Sono passati dieci anni.

Da il Giornale l'11 settembre 2021. Ci sono voluti solo 10 secondi per precipitare e nessuno di quegli angeli era incosciente. La morte è stata istantanea. Alcuni saltarono da soli, altri in gruppo, qualcuno in coppia. Uno divenne il simbolo di tutti, «The Falling Man», «l'uomo che cade» ancora, e forse per sempre, senza nome. Ma con due indiziati. Norberto Hernandez, che lavorava all'ultimo piano come pasticciere. Il fratello Tino e sorella Milagros lo identificarono, la figlia Jacqueline no. Non aveva nessuna maglietta arancione sotto la tunica. Quella l'aveva invece Jonathan Eric Briley, ingegnere del suono, 43 anni. Per il fratello Timoteo è lui: dice che le scarpe sono inconfondibili. Per la sorella Gwendolyn saltò perché malato di asma. Indossava una maglietta arancione così spesso che Timoteo lo prendeva in giro: «Quando ti sbarazzerai di quella vecchia maglietta, eh Eric?»....L'ecatombe dell'11 settembre non è finita. Continuano a morire da vent'anni, a migliaia, senza tregua e senza speranza. Quelli che abitavano nell'area del World Trade Center e quelli che sono intervenuti per i soccorsi, esposti alle polveri della nube tossica figlia dell'esplosione. Sono più di 25.000 i newyorkesi colpiti da tumori, malattie croniche e disturbi mentali da stress post-traumatico. Malati di tutte le età, iscritti al World Trade Center Health Program, il programma di monitoraggio e assistenza medica finanziato dal governo federale. Un pronto soccorso attivo ventiquattr'ore su ventiquattro per pazienti spesso cronici malati di tumore della pelle (6.403 casi), alla prostata (5.197), al seno (1.839), alla tiroide (1270), a polmoni e bronchi (1.1169). E poi ci sono i melanomi (1.505 casi), i linfomi (1.324), la leucemia (854). E quello che è peggio: non è finita qui. Li hanno identificati vent'anni dopo, grazie una nuova tecnologia di sequenziamento del Dna di ultima generazione, all'Istituto medico-legale di New York. Sono le vittime numero 1.646 e 1.647 dell'11 settembre. Del primo la famiglia non ha voluto fosse rivelata l'identità, della seconda, Dorothy Morgan, si sa che era di Long Island, che lavorava al 94° piano per Marsh&McLennan, una compagnia assicurativa e che il figlio, Dante, che l'aveva chiamata al lavoro, fece appena in tempo a salutarla. Dorothy ora avrà una tomba ma il lavoro continua: il 40% delle vittime di Ground Zero è ancora senza nome. Martina Gasperotti aveva 28 anni quando, l'11 settembre 2001, stava per prendere l'ascensore e salire al 107mo piano della Torre Nord. Era a New York per studiare, primo giorno di Università, voleva festeggiare al «Windows of the World»: è dentro quando il primo aereo si schianta, fa in tempo a fuggire, ma da quel giorno la sua vita è cambiata. Da allora, dice, è diventata fatalista «e consapevole che la vita è un attimo e non dobbiamo mai dare niente per scontato». Anche quest' anno, come tutti gli anni, l'11 settembre si chiuderà in casa». A New York è tornata due volte: «Per capire che alla fine tutto si supera». La ritirata dall'Afghanistan non l'ha presa bena: «Vedere un disastro così è una vergogna. I talebani stanno ridendo di gusto». Robert O' Neill, il Navy Seal che uccise Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, vive sempre con il fiato sul collo. E rivela, dopo anni, che la sua era una missione suicida: «Se Bin Laden non fosse stato là, e non c'era certezza che ci fosse, non c'era alcuna possibilità che saremmo tornati a casa vivi». Obama decise il blitz dopo aver visto una partita di basket tra i Lakers di Kobe Bryant e gli Charlotte Hornets. Teme che tutto sia stato inutile. Sono cinque e dopo vent'anni non hanno ancora avuto una condanna. Sono i cinque detenuti accusati degli attacchi dell'11 settembre 2001. Tra cui Khalid Sheikh Mohammed, ex capo della propaganda di Al-Qaida, che ha confessato di essere la mente degli attentati. Un procedimento contestato e controverso, diviso tra le denunce dei gruppi per i diritti umani e dei legali dell'esercito Usa, che accusano la Giustizia di non essere imparziale. Sui cinque pende la condanna a morte, ma la pena è stata congelata perché il principale imputato ha promesso non solo di aiutare le famiglie delle vittime nella causa intentata contro l'Arabia Saudita ma di rivelare anche le prove della presunta complicità di Riad in cambio dell'annullamento dell'ergastolo. Per uscirne c'è da misurarsi con circa 35 mila pagine di verbali e migliaia di mozioni. Ce n'è insomma per altri vent' anni. Che fine hanno fatto i simboli delle tragedia? Quasi sempre brutta. Marcy Borders, «Lady Polvere», vittima di alcol e droga è morta di tumore nel 2015; Rudolph Giuliani, complice il sostegno a Trump, si è visto sospendere la licenza di avvocato; il capo dello staff della Casa Bianca Andrew Card che informò Bush all'orecchio dell'attacco è in pensione dopo essere stato preside della Pierce University; Stephen Cooper, ritratto mentre fugge dai grattacieli che si sbriciolano, è morto di Covid. La bandiera di Ground Zero, invece, 5 anni fa è stata consegnata al Museo dell'11/9. Per 15 anni era sparita.

Alcuni soccorritori sono morti investiti dalle persone precipitate.

Rai1 e Rai Documentari presentano "Speciale 11 Settembre: le due ore che cambiarono il mondo". Rai.it l'11 settembre 2021. In onda sabato 11 settembre alle 20.35. Conduce Monica Maggioni. Per il ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, una  serata speciale che parte con il docufilm: “11/9: le due ore che cambiarono il mondo”, l’anteprima in Italia della coproduzione internazionale lanciata dalla BBC, il documentario sulla tragedia che ridefinì il corso della storia e della geopolitica contemporanea. Tutti ricordano dove si trovavano l’11 settembre 2001 all’ora degli attacchi alle Torri Gemelle. Ma com'è stato effettivamente viverlo da vicino, aver sfiorato la morte, quanto è importante continuare a ricordare? A distanza di 20 anni, “11/9: le due ore che cambiarono il mondo”, il documentario evento del pluripremiato regista Arthur Cary, riunisce le storie di 13 persone in un documentario profondamente personale con narrazioni intrecciate: da un lato le due ore tra il dirottamento e lo schianto dei quattro aerei; dall’altro, la storia di ciò che è venuto dopo, il Post Traumatic Stress Disorder, che non li ha più lasciati. Mescolando le potenti testimonianze dei sopravvissuti, dei primi soccorritori e dei familiari delle vittime, attraverso archivi personali e pubblici, la storia di quella giornata si svolge quasi in tempo reale ricostruendo la convulsa successione degli eventi di quelle due ore. Vanessa, 26 anni, artista scozzese, si trovava al 91° piano della prima torre ad essere colpita, la North Tower, dalle 6 del mattino a lavorare su un dipinto dell'alba di New York. Vent'anni dopo Vanessa sta ancora lavorando a una riproduzione del dipinto che ha perso, ossessionata da quanto vicina sia stata alla morte. Bill, pompiere di Staten Island, sopravvissuto miracolosamente a entrambe le torri che crollano intorno a lui e alla caduta del suo compagno ucciso schiacciato, proprio accanto a lui, dal corpo di una persona lanciatosi da una finestra pur di sfuggire al rogo. Malcolm ha perso suo figlio Geoff, Heather era una pilota di caccia appena qualificata che ha preso il volo quel giorno pronto a speronare la coda dello United 93, l'aereo dirottato diretto a Washington DC. “Siamo gli effetti collaterali della tragedia”, dice un sopravvissuto, “ma siamo stati dimenticati come una nota a margine della storia”. Con questa serata evento torna l’informazione in prime time su Rai1 con Monica Maggioni al centro del racconto e del dibattito con ospiti e testimoni del mondo del giornalismo, della cultura e dell'economia per un'analisi approfondita dell'attacco terroristico che ha cambiato la storia. Tra gli ospiti: Mohamedou Ould Slahi, ex detenuto di Guantanamo cui è ispirato il film “The Mauritanian”, Jason Blazakis, uno dei maggiori esperti USA di lotta al terrorismo. Lo Speciale, che andrà in onda in diretta dall’HangarBicocca di Milano all’interno dell’installazione di Maurizio Cattelan, sarà una sorta di introduzione alla nuova stagione di Settestorie che Monica Maggioni condurrà a partire da lunedì 13 settembre in seconda serata. Attingendo a immagini e interviste del documentario di ARTE “Afghanistan: la terra ferita”, che andrà in onda integralmente prossimamente, Rai Documentari traccia un percorso con immagini inedite ed esclusive, che accompagnano gli spettatori dall’11 settembre 2001 al ritiro americano, attraverso la fuga dei rifugiati, le bombe kamikaze e i vari tentativi falliti di pacificazione del Paese. Emerge un Afghanistan inedito: una Kabul degli anni ’60 con donne in minigonna, l'invasione russa, la nascita dei talebani e un racconto immersivo tra le fila dell'esercito americano e in una imboscata talebana. Il documentario “11/9, le due ore che cambiarono il mondo” è il secondo slot della serie Prime Doc, i grandi documentari internazionali per la prima serata. Rai Documentari, sotto la guida di Duilio Giammaria, è la struttura di riferimento dell’azienda per l’industria del documentario.

I soccorritori di Ground Zero: "Lì ci siamo ammalati, molti perdono la memoria". Anna Lombardi su La Repubblica l'11 settembre 2021. Aumentano i casi di Alzheimer tra chi arrivò per primo. "Danni cerebrali, cinquantenni che sembrano ottantenni". "Mio marito sta peggio, non mi riconosce più. È Alzheimer? A chi rivolgermi?" John Feal, 55 anni, riceve messaggi così ogni giorno. Ex operaio edile, si ferì malamente a Ground Zero dove era corso dopo il crollo delle Torri Gemelle. Da allora si batte per il riconoscimento dei sussidi ai "first responder", i soccorritori che lavorando sulle macerie tossiche del World Trade Center si sono ammalati.

Attentato 11 settembre 2001, le gravi conseguenze come demenza precoce e tumori: c’è anche il Covid. Alessandro Artuso l'11/09/2021 su Notizie.it. Uno studio statunitense avrebbe scoperto delle correlazioni fra quanto accaduto nell’attentato dell’11 settembre 2001 e alcune patologie recenti. Diversi scienziati ed esperti del settore medico hanno esaminato le conseguenze a lunga gittata di quanto accaduto dopo l’attentato che colpì  New York, nello specifico il quartiere di Manhattan, durante l’11 settembre 2001. Secondo quanto riportato da uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, vi sarebbero diverse correlazioni tra alcune malattie. Dopo quanto accaduto a Manhattan, gli scienziati hanno scoperto l’aumento di disturbi post-traumatici, demenza precoce, tumori e anche un considerevole aumento di contagi da Covid-19 (quest’ultimo aspetto ovviamente da quando è iniziata la pandemia). Lo studio è stato condotto da gennaio ad agosto 2020 e ha avuto come protagonisti i soccorritori del World Trade Center. In merito al Coronavirus, l’incidenza sui soccorritori dell’11 settembre 2001 è del 22%. Si tratta a tuti gli effetti di un valore alto, soprattutto se paragonato alla media nazionale (12,5%). Gli iscritti al World Trade Center Health Program, cioé il programma di assistenza medica che segue le condizioni di coloro i quali sono stati esposti alle polveri del crollo accaduto nel 2001, mostrano migliaia di persone con diversi disturbi, malattie e tumori. L’incidenza di alcune malattie cresce ogni anno e ciò preoccupa le autorità sanitarie. Nel frattempo anche il Washington Post ha raccontato numerose storie di chi ha vissuto, sulla propria pelle, i risvolti dell’attentato datato 11 settembre 2001: gravi conseguenze per l’inalazione di polvere nociva e di altre sostanze. Come se non bastasse, gli studi hanno scoperto che i vigili del fuoco di New York sono più esposti alle malattie cardiache: chi partecipò ai soccorsi avrebbe manifestato nel tempo un maggior rischio di sviluppare delle malattie autoimmuni. A vent’anni dalla terribile tragedia delle Torri Gemelle sono state identificate le vittime 1.646 e 1.647. Al momento ne mancano ancora mille. Sono passati 20 anni dagli attentati dell’11 settembre 2001. Si tratta di una data che difficilmente il mondo dimenticherà. L’istituto medico-legale di New York ha annunciato di aver identificato altre due vittime che hanno perso la vita nel World Trade Center. Si tratta di un processo piuttosto lungo che sfrutta delle tecnologie innovative, ma che richiede diverso tempo. 

Il Ricordo.

Da repubblica.it l'11 settembre 2021. 

Springsteen intona "I'll see you in my dreams" a Ground Zero

 A sorpresa, Bruce Springsteen ha partecipato alla cerimonia a Ground Zero per commemorare le vittime dell'11 settembre nel ventennale degli attacchi terroristici. Il cantante, che nel 2002 ha pubblicato un album "The Rising" dedicato ai fatti dell'11 settembre, ha cantato "I'll see you in my dreams". 

Il silenzio di Manhattan

Mentre inizia la cerimonia di commemorazione a 20 anni esatti dall'attacco alle Torri gemelle, è tutta blindata la zona attorno a Ground Zero. Giornalisti, troupe televisive di tutto il mondo e pubblico sono tenuti fuori dal recinto che comincia, a est, all'altezza di Church Street. Le transenne saranno tolte solo a mezzogiorno. I newyorkesi sono qui per rendere omaggio alle quasi tremila vittime di quell'attacco. Alle 8,46, l'ora del primo impatto dell'aereo dirottato sulla Torre nord, viene osservato un minuto di silenzio, atto che si ripete alle 9,03, quando anche la Torre sud venne colpita. Una grande bandiera degli Stati Uniti copre parzialmente l'edificio del Pentagono, sede del Dipartimento della difesa Usa, all'alba del 20esimo anniversario degli attentati dell'11 settembre. L'edificio è stato uno dei tre siti contro cui si schiantò uno degli aerei dirottati, il volo 77 dell'American Airlines. Nell'impatto morirono 189 persone tra militari e civili, 125 delle quali lavoravano all'interno dell'edificio. 

Di Maio a Blinken: "La minaccia terrorismo è attuale, l'Italia è con voi per contrastarla"

"In occasione del ventesimo anniversario degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle, desidero esprimere a tutti i cittadini americani la mia più sentita vicinanza. Rinnovare la memoria di questo tragico evento è responsabilità di tutti coloro che credono ai nostri valori comuni. Quella barbara aggressione non colpì soltanto gli Stati Uniti, ma il mondo intero. Con la sua azione terroristica Al Qaeda volle colpire il messaggio universale di democrazia, libertà e dignità della persona". Sono le parole che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha scritto in una lettera al segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, in occasione dell'anniversario degli attentati dell'11 settembre 2001. "Nonostante siano stati inferti duri colpi al terrorismo internazionale, la sua minaccia continua ad essere attuale. L'Italia proseguirà nel suo impegno volto a contrastarlo, al fianco degli Usa e dei partner internazionali. Il legame tra Roma e Washington, saldamente ancorato nella cornice transatlantica, è ora più che mai fondamentale per affrontare le sfide che si profilano sullo scenario globale", conclude il suo messaggio. 

Obama: "Usa patria di eroi, 20 anni dopo lo stesso coraggio"

Il ventesimo anniversario dell'11 settembre è l'occasione per una "riflessione su ciò che abbiamo imparato nei 20 anni trascorsi da quella terribile mattina", ha detto l'ex presidente Usa Barack Obama. "Una cosa che è diventata chiara quel giorno è che l'America è sempre stata la patria di eroi che corrono verso il pericolo per fare ciò che è giusto", aggiungendo che l'immagine di quel giorno non è solo la caduta delle Torri, ma anche i vigili del fuoco che salgono le scale mentre gli altri scendono, i passeggeri che decidono di prendere d'assalto la cabina di pilotaggio, i volontari disposti a mettere in gioco la propria vita. "Negli ultimi 20 anni, abbiamo visto lo stesso coraggio e altruismo", l'11 settembre "ci ha ricordato come tanti americani diano se stessi in modi straordinari, non solo nei momenti di grande crisi, ma ogni singolo giorno. Non dimentichiamolo mai, e non diamolo mai per scontato".

Il giorno del ricordo. L’America si ferma per l’11 settembre, a Ground Zero Biden e Obama: “Usa patria di eroi, 20 anni dopo lo stesso coraggio”. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Una cerimonia che si apre alle 8:46 con un minuto di silenzio, 20 anni dopo l’esatto orario in cui il primo aereo si schiantò contro la torre nord delle Twin Towers. È iniziata così la commemorazione dell’11 settembre, 20 anni dopo la strage pianificata ed eseguita da Al Qaeda e Osama bin Laden. A Ground Zero il parterre vede in prima fila il presidente Usa Joe Biden e la First Lady Jill: con loro ci sono Barack e Michelle Obama e Bill e Hillary Clinton, ma anche l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg e la Speaker della Camera Nancy Pelosi, l’attuale primo cittadino Bill de Blasio. La sorpresa arriva invece da Bruce Springsteen, il ‘boss’ che sale sul palco per cantare accompagnata solamente da una chitarra acustica “I’ll see you in my dreams”: Springsteen nel 2002 aveva pubblicato e dedicato un album, “The Rising”, proprio alla tragedia dell’11 settembre 2001. Il minuto di silenzio quindi si ripete alle 9:03, quando anche la torre sud venne colpita dal secondo aereo dirottato dai terroristi. Davanti al presidente Biden e ai membri del Congresso, dignitari e familiari delle vittime, è iniziata poi la lettura dei nomi delle circa 3mila persone uccise negli attacchi alle Twin Towers. Un ventesimo anniversario che, per l’ex presidente Barack Obama, è l’occasione “per una riflessione su ciò che abbiamo imparato nei 20 anni trascorsi da quella terribile mattina”. “Una cosa che è diventata chiara quel giorno è che l’America è sempre stata la patria di eroi che corrono verso il pericolo per fare ciò che è giusto”, aggiungendo che l’immagine di quel giorno non è solo la caduta delle Torri, ma anche i vigili del fuoco che salgono le scale mentre gli altri scendono, i passeggeri che decidono di prendere d’assalto la cabina di pilotaggio, i volontari disposti a mettere in gioco la propria vita. “Negli ultimi 20 anni, abbiamo visto lo stesso coraggio e altruismo”, l’11 settembre “ci ha ricordato come tanti americani diano se stessi in modi straordinari, non solo nei momenti di grande crisi, ma ogni singolo giorno. Non dimentichiamolo mai, e non diamolo mai per scontato”. La vicepresidente Kamala Harris, accompagnata dal marito Douglas Emhoff, era invece assieme all’ex presidente George W. Bush e la moglie Laura a Shanksville, in Pennsylavania, nel campo dove cadde il volo 93 della United Airlines, dopo che i passeggeri si rivoltarono contro i terroristi che avrebbero voluto centrare il Campidoglio o la Casa Bianca. Al Pentagono, uno dei tre siti dove si schiantarono gli aerei dirottati, è stata esposta una enorme bandiera degli Stati Uniti che copre parzialmente l’edificio, sede del Dipartimento della Difesa. Nell’impatto tra il volo 77 dell’American Airlines e l’edificio morirono 189 persone tra militari e civili, 125 delle quali lavoravano all’interno.

Il giorno della memoria. L’America ricorda l’11 settembre, 20 anni dopo è il primo senza guerra. Biden: “Unità è la nostra forza”. Redazione su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Vent’anni dall’11 settembre, una data chiave che ha cambiato per sempre la storia degli Stati Uniti e non solo. Sono tanti gli anni trascorsi dai tragici attentati alle Torri Gemelle di New York, una strage ricordata dal presidente americano Joe Biden in un video pubblicato per ricordare coloro che hanno perso la vita nell’attacco compiuto da Al Qaeda sul suolo americano e per confortare le loro famiglie e onorare il coraggio e il sacrificio dei primi soccorritori e dei militari caduti negli ultimi 20 anni. Il presidente ha rivolto un appassionato appello alla nazione affinché metta da parte le sue divergenze e reclami lo spirito di cooperazione sorto nei giorni successivi agli attentati. “L’unità è ciò che ci rende ciò che siamo, che porta l’America al suo meglio”, ha detto Biden. “Per me questa è la lezione centrale dell’11 settembre”, ha aggiunto. “L’unione è la nostra più grande forza”, ha sottolineato il presidente. “Unità non significa che dobbiamo credere nelle stesse cose, ma dobbiamo avere un fondamentale rispetto ed una fiducia nell’altro e in questa nazione”, ha proseguito Biden. “La generazione dell’11 settembre si fa avanti per servire e proteggere dal terrore, per mostrare a chiunque cerchi di nuocere all’America che vi daremo la caccia e ve la faremo pagare. Questo non finirà mai”. A seguito degli attentati, ha poi aggiunto Biden, “sono anche emerse le più oscure forze della natura umana”, vale a dire “la paura e la rabbia”. “Il risentimento e la violenza diretti contro i musulmani americani, sinceri e fedeli seguaci di una religione pacifica”, ha aggiunto, ricordando che il Paese non può permettersi di restare diviso. “L’unità è ciò che fa di noi quello che siamo, l’America al suo meglio”. Un anniversario che arriva a poche settimane dall’addio all’Afghanistan, una fuga caotica che ha attirato nei confronti di Biden forti critiche dai media, dai Repubblicani e dagli stessi colleghi Democratici. Una guerra, quella in Afghanistan, iniziata poche settimane dopo l’attacco subito alle Twin Towers e al Pentagono per smantellare e catturare Al Qaeda e il suo capo Osama Bin Laden. IL GIORNO DEL RICORDO NEGLI USA – Biden in giornata farà una prima tappa a New York, al memoriale di Ground Zero, poi in un campo vicino a Shanksville, in Pennsylvania, dove un aereo si è schiantato dopo che gli eroici passeggeri hanno combattuto contro i terroristi per impedire loro di raggiungere Washington. Infine il Pentagono, colpito anch’esso durante gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.  Biden che per l’occasione ha proclamato il 10 e l’11 settembre "Giorni nazionali di preghiera e ricordo" in occasione del ventennale degli attentati.

11 settembre 2001, Biden: “Abbiamo visto un senso di unità nazionale”. Valentina Mericio l'11/09/2021 su Notizie.it. "Abbiamo visto un senso dell'unità nazionale", così il Presidente degli USA Joe Biden in un video messaggio rivolto alla nazione. “Nei giorni successivi all’11 settembre abbiamo visto eroismo ovunque. Abbiamo anche visto qualcosa di molto raro, un vero senso di unità nazionale. Unità e resilienza, la capacità di ricostruire”, così il Presidente degli USA Joe Biden che, in un videomessaggio rivolto alla nazione ha fatto un bilancio dei significati dei quali si è è fatto portatore l’attentato dell’11 settembre a vent’anni di distanza. Eppure nonostante il passare degli anni, questo drammatico attentato ha portato con sè degli effetti non solo positivi, ma anche negativi, effetti questi che si sono accentuati a seguito del ritiro del contingente statunitense dall’Afghanistan di queste ultime settimane. “Il presidente Biden non dovrebbe venire qui”, ha affermato a Wabc Rudolph Giuliani. Il senso di unità nazionale che si è rafforzato con gli attentati dell’11 settembre è stato il fulcro centrale del video messaggio rivolto da Biden alla nazione. “Unità non significa che dobbiamo credere nelle stesse cose, ma dobbiamo avere un fondamentale rispetto ed una fiducia nell’altro e in questa nazione”, ha affermato il Presidente americano a tal proposito. Ha quindi aggiunto: “La generazione dell’11 settembre si fa avanti per servire e proteggere dal terrore …per mostrare a chiunque cerchi di nuocere all’America che vi daremo la caccia e ve la faremo pagare. Questo non finirà mai”. Il Presidente Statunitense ha anche precisato che con l’attentato dell’11 settembre sono emerse “le più oscure forze della natura umana”, vale a dire “la paura e la rabbia […] il risentimento e la violenza diretti contro i musulmani americani, sinceri e fedeli seguaci di una religione pacifica”. L’attenzione del Biden si è poi rivolta verso quanti hanno rischiato la propria vita in quei drammatici minuti: “Rendiamo omaggio a tutti coloro che rischiarono e diedero la vita nei minuti, nelle ore, nei mesi e negli anni successivi”. Nel frattempo il Presidente Biden e la first lady Jill Biden per onorare la memoria delle vittime, si recheranno nei tre luoghi simbolo dell’attentato ossia New York, Pennsylvania e Shanksville. A darne conferma è la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki. Ad ogni modo in occasione del ventennale dell’11 settembre, per Joe Biden sono arrivate anche feroci critiche: “Il presidente Biden non dovrebbe venire qui […] non appartiene a questo posto”, ha dichiarato Rudolph Giuliani a Wabc, mentre l’ex Presidente Donald Trump ha affermato davanti alle telecamere di Fox News: “Avere questo imbarazzo che si è verificato in Afghanistan con le stesse persone che hanno causato i danni 20 anni fa, è il più grande motivo di imbarazzo nella storia del nostro paese”.

11 Settembre 2001: Il corto circuito che cambia il mondo. Il Quotidiano del Sud l'11 settembre 2021. Riproponiamo il fondo di Paride Leporace scritto all'indomani del tragico attentato dell'11 settembre 2001, una analisi sull’America e sull'evidente salto nel vuoto della nuova era che si aprì dopo quello che fu il più grande attentato terroristico della storia. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 13 settembre 2001. Con l’assalto terroristico al cuore simbolico dell’America si chiude definitivamente la stagione del postmoderno. In termini culturali il salto nel vuoto della nuova era è evidente. Riscontriamo che il mondo è cambiato, partendo da un pubblicazione degli anni ’80 scritta da Jean Baudrillard su “L’America”. Il pensatore francese, traendo spunto da un viaggio negli Stati Uniti a bordo di una Chrysler, ne approfittava per analizzare quell’idea dell’America che ha affascinato l’Europa per oltre mezzo secolo. L’acuto studioso transalpino osservava dal suo finestrino “Un’America iperreale perché utopia vissuta fin dall’inizio come realizzata”. Ora che gli States interiorizzano la coscienza infelice, inevitabilmente, anche noi europei cambiamo rispetto al mondo in cui siamo cresciuti. Con quegli aerei civili lanciati come strumenti di morte contro le Twin Towers e il Pentagono, l’America ha perso, forse definitivamente, la convinzione di essere non solo la potenza suprema, ma anche il modello assoluto. È stata violentata quella bellezza da modello urbanistico che New York ha conquistato in cinquant’anni contro i secoli di Roma e Parigi. È stata infranta la capitale del postmoderno, “città faraonica, tutta guglie e obelischi”. Là dove lo spazio è sempre stato pensiero, le due torri sono crollate nelle immagini televisive senza perdere il loro portamento verticale, come se calassero in una botola, e la loro stessa base, a livello del suolo, ne assorbisse le macerie. Le descrizioni di Baudrillard, riferite ai grattacieli in demolizione, forse calzano a pennello alla catastrofe di Manhattan, perché scritte da un filosofo in contatto con parole quali “scambio simbolico”, “morte, “strategie fatali”. A New York, capitale del mondo, l’11 settembre per la prima volta le strade e le arterie si sono svuotate. La nazione più forte del mondo per la prima volta ha dovuto accettare la pausa della notte. Per la prima volta il mito costruito sul dato che tutto deve funzionare sempre (aerei, telefoni, trasporti) è sprofondato sotto le macerie degli attentati. La guerra è entrata in dei luoghi, che fino a ieri, avevamo visto colpire solo nei film catastrofici. La capitale del pianeta scopre la vulnerabilità e la minaccia. Cia, Scudo stellare e rete spionistica Echelon sono risultati impotenti di fronte all’attacco terrorista. Baudrillard nel descrivere New York negli anni ’80 affermava “La sua densità, la sua elettricità superficiale allontano l’idea della guerra”. Ora il conflitto invece si materializza sulla Quinta strada. Il museo del Potere si mostra al mondo come un colosso d’argilla. Viene messa in crisi l’idea di utopia realizzata dall’America, che ha sempre rappresentato l’idea di essere la realizzazione di tutto ciò che gli altri hanno sognato. La messa in crisi del modello assoluto è apparsa in tempo reale sugli schermi televisivi di tutto il mondo. Gli aerei civili contro gli edifici simbolici dell’America non sono come il celebre blackout del 1976. Allora, quell’incidente era solo un evento mondiale che contribuiva a glorificare la potenza americana. Oggi l’America registra un corto circuito. L’America non è solo una potenza, ma è anche un modello, quello dell’impresa e mercato. Ma è soprattutto uno stile di vita. Contro questi valori si rivolta con spettacolare prepotenza un Quarto mondo transpolitico. Bin Laden è il simbolo della scomunica che colpisce la società globalizzata della comunicazione. Hannah Arendt, nei suoi scritti, sostiene che la rivoluzione americana, a differenza di quelle europee, è una rivoluzione riuscita. Ma ogni rivoluzione, anche quella riuscita, ha vittime ed emblemi sacrificali. Dopo l’assassinio dei Kennedy, ora il sacrificio americano diventa collettivo. Con un’evidente conseguenza globale. Con il crollo delle Twin Towers il mondo occidentale perde delle speranze e aumenta le sue angosce collettive.

QUEL MALEDETTO 11 SETTEMBRE A NEW YORK : DOPO 20 ANNI SIAMO TUTTI AMERICANI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'11 Settembre 2021. Oggi 20 anni dopo siamo tutti americani. Come i passeggeri dei voli dirottati che un terrificante e sofisticato piano terroristico trasformò in proiettili umani. Come i newyorchesi che quel maledetto giorno si apprestavano ad andare al lavoro, affollando gli ascensori, tutti con l’assillo americano della puntualità ed efficienza. Come quelle persone che si sporgevano disperate dalle torri invocando aiuto e sono state divorate dalle fiamme o come quelle che si sono lanciate nel vuoto. 11 settembre 2001, una data indimenticabile per New York ma anche per tutto il mondo occidentale. Immagini che circolavano fra le agenzie di stampa e quelle fotografiche come un lungo e triste video racconto di quel giorno. Inizialmente ritraevano i grattacieli ancora in piedi dinnanzi alle quali erano immortalate piccole figure, che erano delle persone in volo, degli esseri umani come noi, che quel giorno si trovarono quasi imprigionati nei piani superiori rispetto al punto in cui i due aerei di linea dirottati dai terroristi si erano infilati nelle “Twin Towers” (le torri gemelle) come getti d’acqua nella neve. Alla fine i morti furono circa 3 mila. Quelle persone vedendo irraggiungibile ogni via di fuga interna alle torri e nella e consapevolezza che nessuno avrebbe potuto raggiungerli lassù e salvarli, in molti si erano buttati nel vuoto quando l’assedio delle fiamme e l’odore acro del fumo era diventato insopportabile. Dalle Twin Towers avevano preso a volare persone come se fossero dei fogli di carta che raggiungevano Silenziosi il suolo con una lentezza apparente. Quelle immagini, quei frame altro non erano che degli interminabili secondi che qualsiasi corpo avrebbe impiegato per volare giù dalle centinaia di metri d’altezza di quei grattacieli. Mentre le dirette televisive avevano già filmato e mostrato a tutto il mondo quell’orrore le foto che arrivavano sul desk delle redazioni invece, ribaltavano del tutto la prospettiva. Primi piani, freddi e spietati. Donne e uomini in pose per lo più scomposte. Ma una foto aveva sconvolto più delle altre. Quella che vedete qui sopra. Una guerra contro un nemico è invisibile. Vite umane ridotte in brandelli e in cenere. Le altre, dei loro concittadini, sconvolte. Anche le nostre vite, più fortunate di chi ci ha rimesso la vita, sono cambiate. Quelle ferite che portiamo dentro di noi da 20 anni sono invisibili ma non sono indelebili. Quelle immagini strazianti rimarranno scolpite dentro di noi. E non riusciremo a cancellare dalla nostra memoria il titolo “America under attack“ che la Cnn scelse per titolare la più spaventosa tragedia dei nostri tempi. La C.I.A. il più celebrato servizio segreto del mondo e la più discussa e temuta rete d’ascolto e spionaggio mondiale non avevano avuto il minimo sospetto o allerta. La rete di sicurezza americana venne clamorosamente trafitta in più punti. La superpotenza rimasta si scoprì, nell’era di Internet e della multimedialità create dalla propria tecnologia, debole, insicura ed impaurita. Oggi 20 anni dopo siamo tutti americani. Come i passeggeri dei voli dirottati che un terrificante e sofisticato piano terroristico trasformò in proiettili umani. Come i newyorchesi che quel maledetto giorno si apprestavano ad andare al lavoro, affollando gli ascensori, tutti con l’assillo americano della puntualità ed efficienza. Come quelle persone che si sporgevano disperate dalle torri invocando aiuto e sono state divorate dalle fiamme o come quelle che si sono lanciate nel vuoto. Da quel giorno siamo ancora oggi tutti americani anche nel guardare e ricordare con un mix di dolore e rabbia crescente quelle vergognose inqualificabili manifestazioni di giubilo del terrorismo palestinese davanti alle immagini di morte di civili inermi e continuiamo a domandarci quale sia veramente il mondo nel quale viviamo. Una cosa è certa: il nostro pensiero di sdegno per il terrorismo ed il nostro potenziato rinvigorito amore per i nostri “fratelli” americani e di tutto il mondo che hanno perso la vita o i propri parenti o amici quel maledetto 11 settembre 2001. Noi non dimentichiamo.

Venti anni dalla strage delle Torri Gemelle: le lancette della storia segnano il ritorno al passato. Gli Usa hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani, un copione in parte già scritto perché sono decenni che “giocano” con integralisti e terroristi. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud l'11 settembre 2021. Vent’anni dopo sembra che la storia abbia fatto marcia indietro. L’11 settembre 2001 non ebbi il tempo neppure per respirare: scrissi il pezzo su Bin Laden e il giorno dopo afferrai l’unico volo disponibile, un Parigi-Islamabad, il 13 ero già sul Khyber Pass al confine con l’Afghanistan: fui il primo ad arrivarci soltanto perché c’ero stato qualche mese prima e sapevo dove prendere il permesso per entrare nell’area tribale dei pashtun. In giugno avevo fatto un giro di qualche settimana tra Pakistan e Afghanistan, allora sotto l’Emirato del Mullah Omar. Ero partito accompagnato da un commento salace di un collega: «Che vai a fare da quelle parti? Tanto non c’è mai nulla che ci possa interessare». Mentre a settembre salivo al Khyber Pass pensavo che avevo speso metà della la mia vita da inviato di guerra per convincere direttori e capiredattori che nessun luogo è lontano. Oggi vedo giovani e meno giovani freelance partire per Kabul a proprie spese: hanno la mia ammirazione. Erano tutti sorpresi dall’attacco a New York e al Pentagono. Era sorprendente la modalità ma chi seguiva queste vicende da decenni non era poi così stupito. Un attacco alle Torri Gemelle da parte di jihadisti c’era già stato nel febbraio del ’93, quando un furgone carico di esplosivo era deflagrato nei sotterranei del World Trade Center facendo sei vittime e mille feriti: ma le strutture della Torri Gemelle avevano resistito e si era evitata una strage. Anche l’uomo dietro l’attentato del 2001, Osama Bin Laden, era ben conosciuto, da molti anni. È sempre un po’ antipatico autocitarsi ma in un articolo apparso su Limes nel marzo 1994 scrivevo di Osama Bin Laden, del ruolo della Cia e dei collegamenti con i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Bosnia. E del primo attentato alle Torri Gemelle del ’93: era l’11 settembre prima dell’11 settembre. Oggi si cercano di vendere come novità cose di cui si scriveva 30 anni fa. Ecco perché vent’anni dopo l’11 settembre 2001 gli americani hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, “giocano” con integralisti e terroristi. Agli inizi del ’94 non era passato molto tempo da quando democratici e repubblicani erano uniti sui banchi del Congresso americano in un coro appassionato per appoggiare la “giusta guerra” dei mujaheddin afghani contro il regime di Najibullah e i suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, erano trascorsi dalla caduta di Kabul, nell’aprile ‘92, e dalla vittoria contro i comunisti. Un’altra guerra in quel momento insanguinava l’Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in un’alleanza di convenienza con un ex comunista, il generale uzbeko Dostum, stava mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul erano state chiuse, le organizzazioni umanitarie avevano sbarrato le loro sedi nella capitale e una nuova ondata di profughi si rovesciava in Pakistan. Era il ‘93-94 ma somigliava un po’ al 2021. L’Afghanistan era dilaniato da feroci divisioni etniche e tribali ma a Washington l’”operazione Kabul” contro l’Urss veniva comunque classificata come uno dei più clamorosi successi degli Stati Uniti. L’America, in stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, aveva riversato la maggior parte dei suoi aiuti all’integralista Hekmatyar, alleato dei leader musulmani più radicali, che aiutarono il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente. Hekmatyar e gli altri capi radicali afghani continuavano a ricevere sostanziosi aiuti dall’Arabia Saudita, paese che, in feroce concorrenza con l’Iran degli ayatollah, tentava di mettere il proprio “sigillo” finanziario e ideologico su un buon numero di movimenti integralisti in Medio Oriente e Nordafrica. Con risultati discutibili, considerando che la “pista afghana” era citata con frequenza dalla stampa tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica diffusi dall’Alto Nilo fino alle montagne dell’Atlante. Nel bilancio ‘93 la Cia fu costretta a stanziare 65 milioni di dollari per coprire gli acquisti sul mercato nero di centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujaheddin durante la guerra contro il regime di Kabul. «Ma forse gli americani – mi disse allora lo specialista del Medio Oriente Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano – stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro». Youssef Brodanski, direttore del Centro di ricerche del Congresso Usa sul terrorismo, sosteneva che agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici come uno strumento efficace per mettere alle corde Mosca. L’amministrazione americana inoltre aveva delineato un altro obiettivo di questo “grand jeu” che opponeva Est e Ovest in un’area che era già stata teatro delle manovre delle potenze inglese e russa alla fine del secolo precedente. Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita di stampo conservatore, alleato dell’Occidente, da opporre all’integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione “strategica” era condivisa dai sauditi che per anni avevano foraggiato tutti i movimenti integralisti. Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di “stelle” di prima grandezza della galassia integralista, tra questi lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman. I rapporti tra gli Usa e lo sceicco cieco presentavano molti lati oscuri. Il 26 febbraio 1993 un furgone-bomba esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan con l’intenzione di causare l’implosione delle Torri Gemelle e la morte di migliaia di persone. Secondo una versione della storia, Rahman – arrestato come ispiratore dell’attentato alle torri del World Trade Center – sarebbe stato presentato ad agenti americani della Cia da Hekmatyar in Pakistan nell’88. Questo dava credito alla tesi secondo cui era stato un agente della Cia all’ambasciata Usa di Khartoum a rilasciare il visto allo sceicco per entrare negli Usa. L’attentato alle Torri Gemelle di New York del ‘93 dimostrava già allora quanto fosse pesante per gli Usa l’eredità della strategia americana Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell’affaire erano infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese, arrestato nel 93, che progettava di far saltare il tunnel delle Nazioni Unite e quello della sede newyorkese dell’Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l’Afghanistan. Tutto con il consenso della Cia. Dalle file dei combattenti dello sceicco Omar Abdul Rahman, accompagnato dal suo luogotenente palestinese Abdullah Azam, mentore di Osama Bin Laden, uscivano i guerriglieri che si infiltrarono poi a migliaia in Algeria, nella valle dell’Alto Nilo, in Egitto, Yemen, Sudan, e i nuclei dei terroristi islamici. «Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana – affermava sull’Independent del 6 dicembre ‘93 Robert Fisk introducendo un’intervista a Bin Laden, fondatore di Al Qaeda – bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d’affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico». Robert, come spesso accadeva, ci aveva visto lungo. L’attacco alla Torri Gemelle cambiò il mondo, si disse allora. Fu così: guerre infinite, morti a centinaia di migliaia, nuove alleanze e nuove armi, sorveglianza di massa, torture. Quello che non riuscivo a immaginare è che sulla strada di Jalalabad del novembre 2001, con i talebani in fuga, potessero uccidere Maria Grazia e Julio. Da quelle parti la vita è sempre appesa a un filo e a un destino a volte terribile. Vent’anni dopo la vittoria talebana in Afghanistan riporta all’essenza della “guerra al terrore”: inutile, dannosa, perdente. E oggi, proprio l’11 settembre i terroristi nella lista nera dell’Onu e degli americani presentano il loro governo a Kabul, in un Afghanistan riconsegnato ai talebani dagli Stati Uniti così come lo avevano conquistato, senza lasciare traccia. Restano solo i ricordi.

11 SETTEMBRE - Gli aerei contro le torri. Un evento dalla bellezza sublime. Il mondo dei talebani osservava compiaciuto dall’Afghanistan. Quando l’Occidente si scoprì vulnerabile. Erano bastati 19 uomini disposti al martirio e poche decine di migliaia di dollari. Franco Piperno su Il Quotidiano del Sud l'8 settembre 2021. Quella mattina di settembre a New York, un mattino qualunque sotto un sole smarrito che già ha il sapore d’autunno, il formicolio sub umano della megalopoli – la grande Babilonia – l’oggi che si annuncia non diverso da ieri; poi, inatteso, in poco più di un’ora, lo svelamento, l’apocalissi: le Twin Towers, le Torri Gemelle che, avvolte dentro un fumo nero, implodono su se stesse quasi fosse argilla: l’odio arabo che chiama dal cielo l’americano “middle class” e gli dice di buttarsi giù dal grattacielo perché è giunta per lui la morte, la fine dell’immunità dalla strage che cala sibilando dagli spazi aerei, privilegio di cui gode da tempo, da troppo tempo, New York; e con essa il paese dove sventola la bandiera a stelle e strisce. Il codice retorico nordamericano ha rapidamente metabolizzato l’evento : un vile attentato dei terroristi islamici agli States per l’azione di libertà e pace che gli USA svolgono, generosamente e da più di mezzo secolo, globalmente, in tutto il mondo. “Enduring Freedom” ha proclamato il loro presidente. L’elaborazione mediatica del lutto s’è svolta sulla ricognizione dell’identità perduta dei corpi straziati, il pianto sconsolato di migliaia di parenti ed amici, il fatale eroismo del solito pompiere raccontato dall’immancabile collega sopravvissuto, gli attestati televisivi di lealtà alla bandiera rilasciati dall’arabo americanizzato – il tutto avvolto nella micidiale polvere di titanio contenuto nei meta materiali adoperati per costruire le due Torri. La falsa coscienza dell’America, l’ideologia, qui ha operato al massimo della sua potenza occultante. Ma l’America non è solo quella che compare in televisione. Norman Chomsky, uno dei quattro intellettuali per il quali l’onore degli States può ancora salvarsi, visitando le rovine di Ground Zero, colto da una pietà inane, ha avvertito che da quel groviglio dantesco di carne che mescolava alla rinfusa i cadaveri degli assassini e delle loro inconsapevoli vittime, s’alzava un lamento, un coro abissale di milioni d’anime che ancora vagano come spettri non avendo trovato una degna sepoltura: i tedeschi di Dresda, gli italiani di Firenze, i giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, gli arabi di Bagdad, tutti civili e tutti innocenti allo stesso titolo dei newyorkesi. Nell’emozione onirica di Chomsky v’è più verità che nell’analisi di migliaia di esperti, giornalisti o accademici che siano. Infatti, se adoperiamo Il criterio di McNamara – il segretario di stato americano all’epoca della guerra nel Vietnam – che misura la produttività del complesso – militare industriale attraverso il rapporto tra il numero di morti inflitte al nemico rispetto a quelle subite, si vede che, per quanto riguarda la guerra di Bush, siamo ad un rapporto cento ad uno; nettamente meglio di quanto fossero riusciti a fare i nazisti che, nella rappresaglia, si limitavano a dieci per uno; e tuttavia, occorre riconoscerlo, ancora lontani dal record che detengono i cittadini dello stato ebraico: per ogni israeliano ucciso vengono condannati a morte almeno mille palestinesi, anziani, donne, bambini, senza favoritismi per nessuno. Insomma, per il criterio di Mac Namara, gli arabi sono ancora in credito di alcune centinaia di migliaia di morti civili. A dieci anni di distanza la stampa americana continua a rappresentare quell’evento come un vile attentato su persone inermi, senza alcun giustificato motivo. Rimuovono, appunto, ciò che è stato fatto dagli americani nel Medio Oriente : una rete fitta di basi per proteggere i corrotti regimi di quei paesi, e assicurarsi così il controllo militare delle grandi riserve petrolifere. Chi non sta a casa propria? Quanto alla viltà dell’agguato , come si fa ad onorare i mercenari americani che per mestiere uccidono, utilizzando i droni per non correre alcun rischio; uccidono, per la mercede, esseri umani che non hanno alcun motivo di odiare; mentre andrebbero considerati vili quel pugno audace di intellettuali – alcuni di loro avevano perfino superato l’esame di fluidodinamica—che, utilizzando dei temperini, si impadroniscono di quattro enormi aerei di linea, facendo fronte agli equipaggi e a centinaia di passeggeri, per uccidersi ed uccidere, schiantandosi sui quei mostri di vetro e cemento simboli dell’impero americano? Qualsiasi possa essere il vincolo di fraternità culturale che lega la sorte dell’ europeo all’ americano, è del tutto evidente che l’ammirazione dell’uomo libero , non scevra da raccapriccio, va agli insorti e non ai mercenari – il coraggio temerario del corpo umano che si fa beffa della potenza tecnologica e la rivolge contro coloro che l’ hanno fabbricata. Per questi ed altri motivi, noi, l’undici di settembre, nel decennale di quell’evento dalla bellezza sublime, chineremmo, se solo le avessimo, le nostre bandiere per pietà verso gli americani morti per caso e ad onore degli intellettuali arabi — a noi, per altro ostili, ma certo umani, troppo umani — che hanno spappolato gli aerei catturati contro le Torri Gemelle, condensando, in quel gesto collettivo, la volontà generale delle moltitudini arabe. Manca ancora la parola del poeta che racconti questa impresa da eroi maledetti. In ogni caso, quel che è certo è che l’undici di settembre a New York, come la decapitazione di Luigi Capeto, l’assalto bolscevico al Palazzo d’Inverno, la Sorbona occupata nel ’68, la caduta del muro di Berlino, è una rappresentazione icastica che farà nido nell’immaginario collettivo, perché segna la fine di una epoca e ne annuncia una nuova. A dispetto tanto delle anime belle quanto degli ipocriti che hanno sentenziato prematuramente l’impotenza controproducente della violenza collettiva.

Dagotraduzione da MichaelMoore.com l'11 settembre 2021. Ho deciso di andare a incontrare i talebani nella primavera del 1999, due anni prima degli attacchi dell'11 settembre. La maggior parte di noi, me compreso, non sapeva molto dei talebani all'epoca. Un decennio prima, la CIA aveva finanziato e addestrato i ribelli musulmani a cacciare i sovietici dall'Afghanistan dopo dieci anni di occupazione. Questo ha reso felice l'America: l'Unione Sovietica è stata sconfitta! Umiliata! I nostri esperti lo chiamavano «il loro Vietnam!» come se avessimo davvero imparato una sola maledetta lezione dal Vietnam. Quanto a quello che era rimasto dell'Afghanistan, beh, a chi importava? Così, nel 1999, i talebani sono atterrati sul mio radar. Avevano vietato il volo degli aquiloni e reso illegale guardare la TV, due dei miei passatempi preferiti. Cosa c'era di sbagliato in queste persone? Ho deciso di andarglielo a chiedere. Non riuscivo a capire come arrivarci senza quattro cambi di aereo e un paio di muli a noleggio, così ho deciso di incontrare uno dei loro massimi leader, Abdul Hakeem Mujahid, il loro ambasciatore alle Nazioni Unite. A quel tempo, l'ONU non aveva riconosciuto ufficialmente il governo afghano guidato dai talebani, quindi l'ambasciatore Mujahid non poteva prendere posto nell'Assemblea delle Nazioni Unite. Imperterriti, l'ambasciatore e i talebani hanno istituito il proprio consolato delle Nazioni Unite nel Queens. Accanto a un salone di bellezza e una clinica di endoscopia. Così mi sono diretto nel distretto per tenere un incontro faccia a faccia con il leader talebano. Quando sono entrato nel loro consolato, l'ambasciatore Mujahid e il suo staff composto da segretari maschi erano felicissimi di vedermi. Il mio primo pensiero: penso di essere il primo americano che passa a trovarli. Ho fatto portare regali e un televisore portatile. Hanno accettato tutto di buon umore (anche se non avrebbero toccato la TV). Ci siamo seduti per discutere delle relazioni USA-Afghanistan. Era grato per le armi americane che avevano usato nella liberazione dell'Afghanistan dai sovietici, e ci ha raccontato che una delegazione talebana aveva visitato il Texas su invito dei baroni del petrolio amici del governatore George W. Bush per discutere di energia e di un «accordo sull'oleodotto». Mi hanno anche servito delle gustose mandorle e una tazza di tè molto, molto dolce. Mi hanno permesso di filmare il nostro storico incontro per la mia serie TV, "The Awful Truth". La mia missione diplomatica con i talebani alla fine è fallita. L'Afghanistan presto si è rivoltato contro di noi dando rifugio al figlio multimilionario di una delle famiglie più ricche dell'Arabia Saudita, un uomo di nome Osama bin Mohammed bin Awad bin Laden. Dall'Afghanistan avrebbe costruito il suo movimento al-Qaeda e pianificato (con le sue unità saudite) i suoi attacchi agli Stati Uniti. Attacchi? Sì, un attacco, perché bin Laden sapeva che un attacco non sarebbe stato sufficiente per svegliare gli infedeli americani. Così ha fatto esplodere le nostre ambasciate in Kenya e in Tanzania. Ma questo ha ucciso principalmente keniani e tanzaniani (224 morti, 4.500 feriti) - quindi, niente di grave. (Se pensi che stia impazzendo, dimmi quante persone sono morte due settimane e mezzo fa nell'uragano Grace. Non preoccuparti se non lo sai. Erano solo messicani. Tutti e 14.) Un paio di anni dopo, bin Laden ha cercato di attirare di nuovo la nostra attenzione con un attacco kamikaze alla USS Cole, ma anche questo non è stato sufficiente. Bin Laden sapeva di avere a che fare con un paese che non aveva idea del mondo esterno. Alla fine ha capito che solo un grande gesto cinematografico alla Hollywood avrebbe attirato la nostra attenzione. La sua idea era semplice, simbolica e mortale: basta prendere di mira le due cose che gli americani e i loro leader bramano di più - denaro e potere militare - e poi inviare loro bombe volanti ad alta velocità. Fai esplodere il loro Pentagono e il loro Wall Street, guarda le loro torri di potere crollare al suolo,  guarda Humpty Dumpty cadere in grande stile. Ha funzionato. Ma perché? Perché lo ha fatto? Ci è stato detto che era per motivi religiosi. Ci hanno detto che era vendetta per qualcosa. Ci è stato detto che voleva le nostre basi militari al largo delle terre saudite e musulmane. Ecco cosa penso. Penso che fosse una cosa da maschi. Uomini. Uomini arrabbiati. Lui e gli altri ribelli avevano già fatto l'impossibile mettendo in ginocchio una delle due superpotenze mondiali: l'Unione Sovietica. Fu un colpo fatale per i russi, solo nove mesi dopo cadde il muro di Berlino. Bin Laden era così eccitato, così ispirato - quindi perché non essere l'ultimo ballerino ed estinguere completamente la superpotenza rimanente - gli Stati Uniti di A.! Questo non vuol dire che non avesse un sistema di credenze fondamentaliste con una strategia politica ben progettata. Solo che era una strategia a cui non eravamo abituati. Non si trattava di invadere altri paesi nel modo normale. Non c'era alcun piano per saccheggiare e rubare le nostre risorse naturali. Ha semplicemente cercato di mandarci in bancarotta, finanziariamente, politicamente, spiritualmente. E di uccidere il maggior numero di noi. E portaci a spazzare via il nostro sogno americano. Voleva anche neutralizzare le nostre forze armate e mostrare al mondo che potevano essere sconfitte da uomini delle caverne che non possedevano nemmeno un singolo jet da combattimento, o un elicottero Blackhawk o una lattina di napalm a loro nome. Sapeva che le nostre convinzioni religiose, a differenza delle sue, erano tutte chiacchiere, tutto spettacolo. Sapeva che la nostra setta cristiana spesso è solo una grande truffa: «ama il tuo prossimo» finché sono bianchi come te; «l'ultimo della fila (40 milioni in povertà)» sarà il «primo» e gli Elon Musks e Mark Zuckerberg «saranno gli ultimi». Ah! Mai. «Beati gli operatori di pace», purché non siano Chelsea Manning e Ed Snowden; «dare da mangiare agli affamati» (nessun aumento di buoni pasto dal 1962 fino alla scorsa settimana. La scorsa settimana!). La maggior parte degli americani non va più in chiesa. Abbiamo i nostri fondamentalisti e veri credenti, ma nessuno qui più si inchinerà e laverà i piedi del vescovo. Per bin Laden era diverso: non stava fingendo. Conosceva la forza del suo fondamentalismo e sapeva che avrebbe potuto trovare degli idioti da precettare per farli volare contro gli edifici in cambio della promessa di gloria eterna. Bin Laden e la sua banda erano dei geni pazzi. Bin Laden sapeva che quelle torri sarebbero crollate, in parte perché era un ingegnere architettonico e civile. E in parte perché sapeva che quegli edifici erano probabilmente costruiti come una merda - voglio dire, OBL era un fottuto imprenditore! La sua famiglia è tra i più grandi costruttori di edifici in Medio Oriente. E otto dei suoi dirottatori dell'11 settembre erano laureati in ingegneria! I piloti, immagino, un tempo avevano volato per l'aeronautica saudita. Non hanno imparato a fare quello che hanno fatto con tanta precisione su un simulatore di videogiochi in Arizona tra una sosta e l'altra allo strip club. (Il presidente Biden ha appena annunciato che rilascerà i documenti riservati sauditi. Vedremo.) Ma ecco il vero racconto della preveggenza di bin Laden: come sapeva che avremmo iniziato e saremmo rimasti a combattere una guerra per 20 anni, offrendogli i nostri giovani figli e figlie sull'altare del nostro complesso militare-industriale? Bush era solito dire cose stupide come «meglio combatterli laggiù che qui!». Si è scoperto che era il contrario - bin Laden ci ha risucchiato a litigare laggiù - in modo da poterci uccidere laggiù. Come faceva a sapere che avremmo speso trilioni di dollari per combattere un fragile uomo in dialisi che si era separato dall'Afghanistan prima che arrivasse il grosso delle nostre truppe? Una minaccia terroristica così grande che non esisteva! BOO! Come faceva a sapere che avremmo approvato una legge rinunciando ai nostri sacri diritti costituzionali e lo avremmo chiamato Patriot Act? Come faceva a sapere che avremmo messo una telecamera spia ad ogni angolo da Butte, Montana a Fort Myers, Florida, ma non una sulla via principale di Abbottabad, in Pakistan, dove viveva "nascosto"? Come faceva a sapere che avremmo bruciato trilioni su qualcosa che ironicamente abbiamo chiamato "Homeland Security"? Bin Laden voleva far saltare in aria l'idea dell'America, non il Mall of America. Non aveva visioni di impero. Non ha mai pensato di invadere gli Stati Uniti e prendere il controllo dei nostri stadi di NFL o bruciare i nostri Piggly Wigglys o mettere fuori legge le Girl Scouts. Odia le donne e le ragazze, ma scommetto che gli piacerebbero quelle Thin Mints. Come faceva a sapere che saremmo stati così ossessionati da lui da trascurare in modo massiccio e crudele i bisogni della nostra stessa gente, negando loro l'aiuto come l'assistenza sanitaria gratuita ma pignorando le loro case per pagare le fatture ospedaliere? Abbiamo occupato l’Afghanistan per 20 anni per i tremila morti? Voglio dire, andiamo, abbiamo perso 3.000 vite in molte giornate durante questa pandemia e nessuno leggerà i loro nomi ogni anno in qualche memoriale. E no, non stiamo invadendo il mercato dei pipistrelli a Wuhan. Speriamo di no. No, amici miei, è qualcos'altro. Bin Laden ci aveva capito. Ucciderlo, sciogliere al-Qaeda, potrebbe averci fatto sembrare di aver vinto. Ma nella morte, bin Laden è in grado di vedere i frutti del suo lavoro. Noi, suoi mortali nemici, siamo allo sbando, seriamente in guerra con noi stessi. La violenza incombe su di noi ogni giorno. Gli uomini, gli uomini arrabbiati, gli uomini violenti, hanno ora conquistato il diritto di costringere il genere maggioritario a partorire contro la sua volontà - schiavi della nascita, che ora non avranno voce in capitolo. Zitto e spingi! SPINGERE!! E a proposito di schiavi, i proprietari dell'America stanno impazzendo perché non hanno abbastanza lavoratori schiavi nel 2021 perché i lavoratori si rifiutano di tornare a lavorare per salari di merda e in condizioni di Covid che potrebbero ucciderli. La fine del gioco? Costringere i lavoratori essenziali a presentarsi e fare il loro dannato lavoro - o altro. Evviva eroi! Osama, sei felice adesso? Non siamo mai stati "grandi" come proclamavano i cappelli MAGA, ma siamo stati bravi, almeno la maggior parte di noi ci stava provando. Ovviamente i neri e i marroni sanno che non è del tutto vero. Sanno che potrebbero dover salvare sé stessi e trattare con noi nel modo in cui li abbiamo trattati noi. Non preoccuparti per i bianchi: abbiamo oltre 340 milioni di pistole nelle nostre case! Questo ci terrà occupati per un po'. La triste verità è che non ci siamo mai presi la briga di combattere le nostre due vere minacce terroristiche: 1) il capitalismo, un sistema economico che si basa sull'avidità e sul furto e uccide le persone che devono vivere in appartamenti seminterrati allagati, e 2) ciò che chiamiamo "clima" – ma la finestra di tempo per invertire la tendenza si è chiusa, e la nostra unica possibilità di fermare la catastrofe climatica è affrontare la questione, ora. È la prima volta che una specie decide di autoeliminarsi. Questo è il vero terrorismo, e anche se potremmo non essere in grado di tornare indietro, possiamo almeno controllare noi stessi, fermare il diluvio, fermare l'avidità, colmare il divario di disuguaglianza di reddito, ridurre il nostro consumo di glutine ed eliminare la spinta del profitto. Se lo facciamo, bin Laden avrà perso. E allora potremmo imparare ad amare e condividere la ricchezza e vivere in pace gli uni con gli altri. Sarebbe il modo migliore per commemorare l'11 settembre. Benedizioni a tutti coloro che abbiamo perso.

Reportage. New York 11/9, venti anni dopo: dove vive la memoria. Riccardo Michelucci venerdì 3 settembre 2021 su Avvenire. Le impronte vuote delle Twin Towers, l’albero sopravvissuto al disastro, la lista dei nomi, il percorso del museo tra documenti e relitti: ritorno a Ground Zero verso l'anniversario dell'attentato. Era trascorso oltre un mese dagli attacchi alle Torri Gemelle quando dalle macerie fumanti del World Trade Center spuntò un’inaspettata forma di vita. Era un gigantesco albero da frutto, un pero alto otto metri, piantato nel 1970 nei pressi di Church Street. Aveva il tronco bruciato, i rami spezzati e in larga parte carbonizzati ma non era ancora morto. Decisero allora di trasportarlo in un parco del Bronx per curarlo. Lì l’albero crebbe fino a raggiungere un’altezza di circa trenta metri e alla vigilia di Natale del 2010 fu riportato nel suo luogo d’origine per essere trapiantato nel cuore del 9/11 Memorial di New York. Il grande spazio pubblico che celebra la memoria degli attentati dell’11 settembre 2001 ha oggi oltre quattrocento esemplari di quercia bianca ma l’albero più fotografato è sempre lui: il “Survivor Tree”, l’albero che è riuscito a sopravvivere sotto le macerie delle Torri Gemelle. Circondato da un recinto, con supporti che ne sorreggono il tronco e i rami che recano ancora ben visibili le ferite di quel giorno maledetto, è diventato un simbolo straordinario della capacità di resistenza dell’animo umano. Il Memoriale è stato realizzato su una superficie di oltre tre ettari nel punto esatto dove sorgeva il cratere delle torri ed è ormai da tempo uno dei luoghi più visitati di New York. Al centro ha due grandi vasche quadrate di granito profonde quattro metri sulle cui pareti l’acqua scorre incessante mentre lungo il perimetro esterno sono stati incisi, su targhe di bronzo, i nomi delle 2.977 vittime dell’11 settembre e i sei caduti nell’attentato del 1993, quando un altro gruppo di terroristi islamici fece esplodere un camion bomba sotto il World Trade Center. I nomi sono stati collocati con cura, mettendo familiari, amici e colleghi uno accanto all’altro, con un sistema di illuminazione che li rende visibili anche di notte e un complesso di condutture che riscalda il metallo impedendo di sentirlo freddo al tatto. Il silenzio quasi surreale della piazza è rotto soltanto dal lento scrosciare dell’acqua – simbolo di rinascita e di speranza – e da qualche voce che arriva da lontano, trasportata dal vento, mentre nuovi grattacieli vegliano sulla piazza come sentinelle della memoria. Evocare l’assenza attraverso il vuoto fisico lasciato dagli edifici era quanto si proponeva di fare il progetto della piazza intitolato “Reflecting Absence”, realizzato dall’architetto Michael Arad e dal paesaggista Peter Walker. L’apparato museale vero e proprio si trova invece interamente nel sottosuolo, e a suo tempo la scelta non mancò di creare malumori tra i familiari delle vittime. L’unico edificio del complesso in superficie è una costruzione trasparente a due piani che separa lo spazio urbano esterno dai livelli interrati del museo. Progettato dallo studio di architettura norvegese Snøhetta (lo stesso che ha firmato la nuova biblioteca di Alessandria e, a New York, la pedonalizzazione di Times Square), il museo ha un padiglione d’ingresso in vetro che consente ai visitatori di vedere anche dall’esterno i due “tridenti” del World Trade Center, le gigantesche colonne portanti d’acciaio delle torri che rimasero in piedi anche dopo il crollo e oggi si ergono come monoliti erosi dalla ruggine. L’orrore che sconvolse il mondo vent’anni fa è stato ricostruito nel dettaglio nei piani sottostanti, dove si trovano i resti delle fondamenta delle Twin Towers, raggiungibili con le scale mobili che consentono di calarsi fino a 25 metri di profondità come in una dantesca discesa agli inferi. Il ventre di Ground Zero è stato trasformato in un luogo della memoria che vuole rappresentare anche simbolicamente un viaggio nell’oscurità e nella sofferenza. Al piano più basso un’intera parete è ricoperta da un mosaico con i colori del cielo in cui spicca una famosa citazione di Virgilio, “No day shall erase you from the memory of time” (“Nessun giorno potrà cancellarvi dalla memoria del tempo”, in originale Nulla dies umquam memori vos eximet aevo). Tratta dal IX libro dell’Eneide, nel punto in cui il poeta celebra il sacrificio di Eurialo e Niso, due giovani guerrieri troiani caduti in battaglia, è l’eloquente epitaffio scelto per ricordare le vittime. Il percorso commemorativo si apre con una lunga parete sulla quale sono state collocate le immagini con i volti, associati a una serie di touch-screen che presentano le loro storie con testi, foto e registrazioni audio. La mostra storica si compone invece di tre sezioni cronologiche distinte che raccontano l’11 settembre 2001 attraverso un’enorme collezione di oggetti appartenuti alle persone morte durante il crollo delle Torri Gemelle e ritrovati tra le macerie. Ci sono i badge impolverati di chi lavorava negli uffici del World Trade Center, oggetti personali, orologi con le lancette ferme, zaini, altri frammenti di vita. Ogni reperto racconta una storia commovente, come la rastrelliera con le biciclette rimaste senza proprietari o l’antenna radiotelevisiva che interruppe le trasmissioni in tutti gli Stati Uniti alle 10,28, annunciando il collasso della Torre Nord. La sezione audiovisiva propone immagini e suoni agghiaccianti, tra cui le strazianti telefonate d’addio dei passeggeri degli aerei e delle persone intrappolate nei grattacieli in fiamme che stavano per crollare. I filmati più crudi, come quello degli impiegati che si lanciarono nel vuoto, sono proiettati in salette separate, con un’avvertenza all’ingresso. Il museo non si limita a celebrare le vittime attraverso la ricostruzione minuziosa delle loro vite e la rassegna stampa e video che racconta in presa diretta quanto accadde quel giorno ma propone anche una lettura politica delle conseguenze del 11 settembre, dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, alla caccia a Osama Bin Laden. Nelle sue immense sale, come in un percorso a ritroso nel nostro passato recente, vediamo materializzarsi molti di quegli oggetti che all’epoca la televisione aveva mostrato ai nostri occhi increduli. I resti dei veicoli della polizia e dei vigili del fuoco usati durante i soccorsi, pezzi delle carcasse degli aerei dirottati dai kamikaze di Al Qaeda, i frammenti della struttura dei due grattacieli crollati, le scale in cemento dalle quali cercò una via di fuga chi si trovava ai piani più bassi delle torri. Ma è a poca distanza dall’uscita che ci si imbatte in una delle storie meno note e più significative. È quella del muro alto settanta metri che fu costruito sotto al World Trade Center negli anni ’60 seguendo il progetto di un ingegnere italiano, Arturo Lamberto Ressi, per contenere le acque del fiume Hudson. Durante il crollo delle Torri gemelle quella gigantesca opera ingegneristica venne sottoposta a un’enorme pressione ma non cedette e impedì all’acqua del fiume di inondare la metropolitana di New York, salvando migliaia di vite umane. Oggi è un simbolo di speranza che riscalda il cuore dei visitatori del museo.

A PROPOSITO DI...11 settembre 2001: vent’anni di errori e quella guerra che non ha riportato la pace. Importante sarà il nuovo equilibrio dell'Afghanistan: un nuovo ordine geopolitico si sta delineando in Asia Centrale e i talebani rischiano di apparire il male minore. Orgoglio e Pregiudizi di Tiziana Ferrario su lavocedinewyork.com il 10 Settembre 2021. Non sembrano passati 20 anni. Chi c’era quel giorno, 11 settembre 2001, ricorda come fosse ieri quell’attacco al cuore dell’America e l’emozione è ancora viva. Chi ha perso un familiare caro nel crollo delle Torri e non ha riavuto neppure un brandello del suo corpo prova un dolore immutato. Chi è nato dopo quella tragedia è cresciuto in un mondo cambiato, dando per scontata la convivenza con il terrorismo, i controlli, gli attacchi che vanno e vengono in giro per il mondo. In questi due decenni ce lo siamo detti tante volte, le nostre vite sono cambiate dopo quell’attentato, di sicuro in peggio. La guerra al terrorismo, lanciata dal presidente Bush per vendicare la ferita inferta agli Stati Uniti, non ha riportato la pace, la paura per le azioni degli integralisti non si è sopita e rende il futuro molto incerto. Non è un anniversario qualunque e non è un caso che gli studenti coranici abbiamo deciso di far giurare il governo provvisorio proprio l’11 settembre. Una data simbolica per celebrare la loro vittoria e la nostra sconfitta. Il ritorno al potere dei talebani a Kabul ci riguarda e non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli. Rivederli entrare trionfanti nel palazzo presidenziale dal quale erano scappati a novembre 2001 dopo un mese di bombardamenti americani sull’Afghanistan, guardare di nuovo la bandiera del loro emirato issata sui palazzi delle istituzioni, mi ha riempito l’animo di angoscia e mi ha fatto venire i brividi. Li avevo conosciuti quando comandavano nel paese che moriva di fame, in una Kabul ridotta in macerie; li avevo visti scappare insieme ai loro amici di Al Qaida guidati da Bin Laden, speravo che qualcuno fermasse la loro avanzata, che aveva avuto un’accelerata subito dopo l’annuncio del ritiro dei soldati americani. Sono stati fatti tanti errori in questi 20 anni, molti commessi proprio dagli americani che hanno avuto da sempre un rapporto contraddittorio con i talebani. Sono lontani i tempi in cui li ricevevano a Washington per trattare sugli oleodotti che sarebbero dovuti passare sul territorio afghano, ma sono molto recenti i tempi delle trattative dissennate condotte a Doha in Qatar, che hanno portato all’accordo siglato dall’amministrazione Trump sul ritorno a casa dei soldati internazionali, con l’unica condizione che non venisse torto un capello alle truppe Usa e Nato. La nostra incolumità in cambio di quella degli afghani e delle afghane. Da terroristi ricercati e inseriti nelle liste nere di FBI e CIA i talebani sono diventati interlocutori legittimati dallo stesso governo degli Stati Uniti che sulla testa dell’attuale ministro dell’interno afghano Sirajuddin Haqqani aveva posto una taglia da 10 milioni di dollari. Bene, ora sa dove trovarlo. Gli anniversari servono per ricordare e commemorare. Vanno ricordati i tanti soldati morti, ma anche gli oltre 47 mila civili uccisi nei combattimenti, tante donne e bambini innocenti. Gli anniversari però sono anche l’occasione per ripensare agli errori commessi per evitare che si ripetano. Il conto aperto di Bush con Saddam è stato di sicuro un altro degli errori americani, che ha contribuito ad alimentare instabilità e terrorismo. L’idea di esportare la democrazia con la forza, a costo anche di costruire prove false sull’esistenza di armi di distruzione di massa, è una macchia nella storia degli Stati Uniti. Ragionare sugli errori, aiuta a non ripeterli, soprattutto in una fase delicata come questa dove un nuovo ordine geopolitico si sta delineando in Asia Centrale. Abbandonare l’Afghanistan al suo destino, come era già accaduto in passato lasciandolo nelle mani delle potenze regionali in competizione tra loro, non ci conviene. Cina, Russia, India e Iran hanno tutto l’interesse ad avere un Afghanistan stabile, ma potrebbero persino avere un vantaggio in un Afghanistan rifugio di terroristi compiacenti. Il paradosso è che i talebani oggi rischiano di apparire il male minore.

Tiziana Ferrario, milanese, giornalista per anni conduttrice e inviata di politica estera per la Rai. E' stata corrispondente da New York. Ha seguito guerre e crisi umanitarie. Per il suo lavoro sui conflitti in Afghanistan... 

La dottrina occidentale. Ricordare l’11 settembre ricordando che cosa è stato l’11 settembre. Christian Rocca l'11 Settembre 2021 su Linkiesta. Per chiunque oggi abbia più di quarant’anni, l’undici settembre è una data che non ha bisogno di essere ulteriormente definita, è l’undici settembre e basta, non ne esistono altri, tale è stato l’impatto che ha avuto sulla coscienza e sulla quotidianità di chi lo ha vissuto. Per tutti gli altri, più giovani, è soltanto un evento storico, come la presa della Bastiglia o la bomba su Hiroshima, non il giorno del «nulla sarà più come prima». Con un magnifico articolo, ieri Giuliano Ferrara ha ripercorso il grande arretramento globale dei vent’anni trascorsi dall’11 settembre 2001: «Pare che la democrazia non si possa esportare – ha scritto Ferrara – ma tutto il resto è aperto all’importazione» (bentornato, Giuliano!). «Tutto il resto», secondo il fondatore del Foglio, è un elenco di cose che abbiamo importato, e che qualcun altro quindi ha esportato con successo, mentre noi facevamo gli schizzinosi con l’idea di promuovere la democrazia liberale nei luoghi del terrore, della persecuzione, della cultura dell’odio. Abbiamo importato, alimentato e diffuso il populismo, l’autoritarismo, le democrature, l’imperialismo cinese, il putinismo annessionista, le pulizie etniche, l’islamismo di governo, la cancel culture, il Cialtrone in Chief e l’ignavia americana del buon uomo Joe Biden. Vent’anni dopo l’11 settembre, i giornali italiani perlomeno ci hanno risparmiato le corbellerie islamiste di Tariq Ramadan, protagonista assoluto di molti dei precedenti anniversari quando impazzava il relativismo culturale, ma oggi dimenticato perché con la proliferazione dell’Isis, con le stragi in Siria, con le bande armate in Libia e ora con il governo Talebano bis c’è poco da scherzare. La pericolosità di quell’ideologia politica teocratica fondata sulla guerra santa alla civiltà dello stato di diritto è palese e nessuno la considera più un pretesto delle multinazionali per accaparrarsi il petrolio o altre scemenze che si portavano molto in passato e che ora, altrettanto stupidamente, si imputano alle case farmaceutiche rispetto al vaccino contro la pandemia. L’occidente è in ritirata: scopre a tempi di record la cura contro il virus “cinese” e alimenta la teoria dell’autocomplotto di Big Pharma e di Bill Gates, ripetendo a pappagallo le panzane di Putin sullo Sputnik e di altri reduci del comunismo sul vaccino autarchico cubano. Nessuno dei due funziona, sono entrambe patacche al pari delle ideologie residuali che li propagandano per ammaliare gli allocchì di destra e di sinistra di cui è ricco l’occidente. Le democrazie liberali si autoflagellano in virtù del loro stesso successo, la fondazione Churchill toglie il nome Winston dalla propria ragione sociale per non offendere la suscettibilità non si sa di chi, forse quella dei nazisti, ma soprattutto non ci sono più leader visionari come i giganti che hanno guidato il mondo tra gli anni Novanta e il cambio di secolo, per non parlare di quelli del decennio precedente. Il mondo che conosciamo, e che non riconosciamo più, in sessant’anni ha diffuso libertà e distribuito ricchezza senza precedenti nella storia dell’umanità, mentre oggi, quando va bene, dispone soltanto di ottimi amministratori e di buoni funzionari, ma senza alcun progetto strategico per un nuovo secolo di diritti veri (non di idiozie da asterischi e cancelletti), se non quello di un grande catenaccio globale per ritardare l’erosione della società aperta, apertissima, spalancata, ma ora in lenta ma perentoria chiusura. Per chiunque oggi abbia più di quarant’anni, l’undici settembre è una data che non ha bisogno di essere ulteriormente definita, è l’undici settembre e basta, non ne esistono altri, nemmeno quello del golpe contro Salvador Allende in Cile che tanto ha influenzato la politica di mezzo mondo. Ma l’undici settembre di cui adesso ricordiamo il ventennale è di un’altra dimensione spirituale, tale è stato l’impatto che ha avuto sulla coscienza e sulla quotidianità di chi lo ha vissuto. Per tutti gli altri, più giovani, è soltanto un evento storico, come la presa della Bastiglia o la bomba su Hiroshima o l’assassinio Kennedy, non il giorno del «nulla sarà più come prima». La distanza dagli eventi storici è tutt’altro che una cosa negativa, ma a condizione che le lezioni non si dimentichino. Oggi c’è l’idea che la reazione americana e internazionale alle stragi nei cieli e sulle strade di New York, di Washington e della Pennsylvania sia stata folle e criminale (la reazione, non la strage, se vi fosse sfuggita la stravaganza), quando invece è stata il prodotto di una grande offensiva globale che ha individuato una risposta strategica fondata sull’espansione della democrazia, sull’abbattimento dei regimi filo terroristi e sullo spostamento del fronte bellico da Downtown Manhattan alle montagne dell’Afghanistan, dove a combattere ci sarebbero stati dei soldati ben addestrati e non semplici passanti alla fermata dell’autobus. Vent’anni dopo, l’America può dire di non aver più subito attacchi sul proprio suolo, ma quasi tutto il resto delle conseguenze politiche e militari oggi ricade nella colonna dei fallimenti. La storia non si può fare con i se, per cui non sappiamo se senza l’intervento armato per annientare Al Qaeda e i suoi alleati, e senza il tentativo di costruire nazioni democratiche in Medioriente, ci sarebbero stati altri attacchi all’America oppure si sarebbe ottenuto lo stesso risultato non facendo nulla. Sappiamo però che non aver fatto nulla in occasione di un precedente attentato jihadista alle Torri gemelle, nel 1993 (sei morti, oltre mille feriti), in seguito alle stragi di Al Qaeda nelle ambasciate americane in Africa, nel 1998 (224 morti, quattromila feriti), e alla nave USS Cole, nel 2000 (27 morti, 37 feriti), non ha evitato l’undici settembre. Resta che vent’anni dopo, la dottrina dell’ingerenza democratica in Medio oriente non ha funzionato, al contrario del risultato tutto sommato accettabile nella ex Jugoslavia (in difesa delle minoranze musulmane vessate dal nazionalismo bianco e socialista). Ma non hanno funzionato nemmeno i mancati interventi militari in Siria, i ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan, le sanzioni in Iran, il girarsi dall’altra parte ormai ovunque, gli accordi con gli ayatollah e le trattative con i Talebani, probabilmente perché la democrazia, un sistema costruito sui diritti e sulla società aperta, è un’esperienza giovane e con una capacità attrattiva decisamente più debole rispetto alla tradizione millenaria islamista. L’undici settembre si ricorda innanzitutto ricordando davvero le ore, i giorni, le settimane che sono seguite al primo aereo che ha tagliato come burro la torre sud del World Trade Center. L’incredulità, l’ansia, la rabbia: un sentimento di impotenza paragonabile solo al cataclisma della pandemia da coronavirus, ma arrivato e consumato all’improvviso e in diretta televisiva. Quella mattina americana, primo pomeriggio da noi in Italia, gli aerei era ancora in volo, ciascuno un potenziale proiettile, poi l’altra torre colpita, e il Pentagono, e la Casa Bianca o Capitol Hill come possibili obiettivi successivi, l’evacuazione dell’intero governo di Washington, la decisione presa ma non eseguita di abbattere tutti gli aerei civili in volo che si fossero rifiutati di atterrare, poi entrambe le torri che si sbriciolano al suolo, gli altri edifici in fiamme e poi in cenere, le voci sull’Air Force One in fuga dal sud a ovest, da ovest a est, come il vero target grosso di giornata, e poi l’odore di corpi bruciati, le persone scomparse, i familiari attoniti, gli eroi della protezione civile, tutto raccontato mirabilmente da William Langewiesche su carta e da Bruce Springsteen in musica. E poi altri attacchi sventati, le indagini, i pacchi con le spore all’antrace inviati al Senato e nelle sedi dei giornali (altri cinque morti e una mezza dozzina di avvelenati). Cosi per giorni, settimane, mesi, con le prime ore raccontate magistralmente in un formidabile documentario “9/11: Inside the President’s War Room”, trasmesso da Apple TV, con le voci dei protagonisti del governo degli Stati Uniti, braccato, in preda al panico ma anche lucido nel formulare, proprio in quei momenti concitati, la fine della distinzione tra i terroristi e le nazioni che li ospitano, come elemento fondamentale della dottrina di sicurezza internazionale per gli anni a venire, abbandonata poi in modo felpato da Barack Obama, ruvidamente da Donald Trump e finita col cerino rimasto in mano a Joe Biden. La riconsegna dell’Afghanistan alla setta talebana che aveva coccolato Al Qaeda, e che ora mette il capo terrorista della rete Haqqani al Ministero dell’Interno, è potenzialmente catastrofica per la possibile recrudescenza del terrorismo internazionale e immorale nei confronti delle vittime dell’undici settembre. La fuga per la libertà di centinaia di migliaia di afghani e le proteste disperate delle donne coraggiose di Kabul, tornate a valere metà di un uomo e destinate esclusivamente alla prigionia e alla procreazione, confermano che nonostante tutto l’errore occidentale sia stato lasciare l’Afghanistan, non andarci.

Vent’anni dopo. L’11 settembre raccontato attraverso le copertine del New Yorker. Linkiesta il 7 Settembre 2021. La raccolta di immagini per non dimenticare l’attacco islamista all’America con le illustrazioni pubblicate dal prestigioso settimanale americano. Dalla prima di Art Spiegelman e Françoise Mouly a quella di questa settimana disegnata da Pascal Campion. Il prossimo 11 settembre saranno vent’anni dall’attacco al World Trade Center di New York e al Pentagono. È stato un evento spartiacque, che ha segnato quattro Amministrazioni diverse, costrette ad affrontare le conseguenze e le guerre causate dalla strage islamista di Al Qaeda, e ha influenzato profondamente la storia mondiale. Il New Yorker, tra i più importanti settimanali americani, ha raccontato a più riprese che cosa ha voluto dire, per New York, l’America e il mondo, l’attacco di Osama bin Laden. Quella che segue è una selezione di alcune delle cover più significative, che raffigurano i profondi cambi urbani, politici, sociali e culturali che il 9/11 ha provocato.

24 settembre 2001

A pochi giorni di distanza, il New Yorker pubblica un numero speciale dedicato inevitabilmente alla tragedia. Françoise Mouly, autrice con il marito Art Spiegelman della copertina, racconterà anni dopo: «Ho finito per disegnare una copertina nera e aggiungere, appena visibile, in un nero più profondo. Lasciava spazio a ciò che non poteva essere mostrato: l‘indicibile perdita, aggiungendo su suggerimento di mio marito la silhouette appena visibile delle due torri con un nero più scuro». 

1 ottobre 2001

Per il numero di ottobre, lo schizzo stilizzato di una folla che freneticamente passa accanto al memoriale dei morti. Edward Sorel disegna una città che non dimenticherà mai, ma già al lavoro per voltare pagina e ricominciare. 

29 ottobre 2001

Per Halloween di quello stesso anno la copertina è affidata a Peter de Sève, che coglie uno dei tanti particolari della tragedia: i pompieri, veri eroi dell‘11 settembre, diventano il travestimento preferito dei bambini. 

5 novembre 2001

La città inizia a nutrire diffidenza nei confronti, dell’islam dopo l’accaduto, come si può vedere in questa prima pagina disegnata da Carter Goodrich. Ma i lavoratori (soprattutto tassisti) di fede musulmana presenti nella Grande Mela sono numerosi. 

16 Settembre 2002

Un anno dopo, lo skyline amputato e un cielo così «pieno d’assenza» nel crepuscolare disegno di Ana Juan. Un richiamo artistico alla memoria per il primo anniversario della strage. 

3 marzo 2003

Dopo un anno e mezzo, permane l’ombra di un nuovo attentato terroristico. La paura che l’incubo si ripeta non sbiadisce, ci dice questa copertina firmata da Edward Sorel. 

15 Settembre 2003

Per il secondo anniversario, l’artista turco Gürbüz Doğan Ekşioğlu ha catturato la sensazione che ha assalito molti newyorkesi nel guardare il profilo della loro città senza più le torri gemelle. 

13 settembre 2004

Nella copertina del terzo anniversario, l’artista di origine ungherese Istvan Banyai cattura l’inquietudine di un ricordo spettrale: lo shock di chi ha vissuto la tragedia dalle vetrate degli uffici ai piani alti. 

6 dicembre 2004

Ancora la paura, ancora la diffidenza. A dicembre, per le festività natalizie, si teme un nuovo attacco in un clima di tensione. A firmare questa cover è Carter Goodrich, alla sua seconda copertina sul tema 11 settembre. 

11 settembre 2006

Doppia copertina per il numero di settembre 2006. I disegnatori John Mavroudis e Owen Smith immortalano il funambolo Philippe Petit (celebre per la sua traversata su un filo sospeso tra le due torri nel 1974) mentre si esibisce simbolicamente nel vuoto lasciato dall’attentato di Al Qaeda. 

12 settembre 2011

“Reflections”: Al decimo anniversario dell’11/9, Ana Juan dipinge lo skyline newyorchese di notte: il riflesso nell’acqua assume la forma delle Torri Gemelle. Un ricordo evanescente che però non lascia i cittadini di New York. 

7/14 giugno 2014

Il Memoriale del World Trade Center, anche noto come Ground Zero e raffigurato da Adrian Tomine, nella copertina del settembre 2014 appare affollato da turisti nel pieno delle loro normali attività. Se si osserva bene, però, si nota una moltitudine di emozioni e reazioni a stretto contatto l’una dall’altra.  

13 settembre 2021

La copertina del ventennale della caduta delle Torri Gemelle raffigura una giovane coppia che si abbraccia, con Ground Zero nello sfondo. Pascal Campion “scatta” una diapositiva in bianco e nero, malinconica, che rievoca lo scorrere del tempo di fronte a una sempre attuale tragedia.

L’anniversario, per gli altri. Venti anni dopo l’11 settembre, gran parte dei problemi che si aprirono allora sono ancora lì. Francesco Cundari su Linkiesta l'11 Settembre 2021. Ci siamo detti che per ricostruire una nazione bisognava conquistare anche le coscienze: non ne abbiamo conquistate abbastanza, in Afghanistan, da impedire che l’intero paese ricadesse sotto i talebani un minuto dopo la nostra partenza. Ma nemmeno così poche da potercene andare a cuor leggero. Sono passati vent’anni dall’11 settembre e la prima cosa che mi viene da pensare è che c’è un’intera generazione nata e cresciuta in un mondo in cui una cosa del genere è sempre stata possibile, plausibile, verosimile, essendo già accaduta. Giusto all’inizio del documentario Netflix dedicato agli attacchi del 2001 si vedono le immagini dei newyorkesi in strada, che fissano i grattacieli in fiamme, anche dopo l’impatto del secondo aereo: non fuggono, non corrono a nascondersi, non si chiudono in casa. Fissano i grattacieli e non capiscono. Proprio come noi, allora, davanti alla tv, in qualsiasi altra parte del mondo fossimo. Quello sconcerto e quell’impossibilità di capire sono una caratteristica distintiva, unica e irripetibile, di chi è nato e cresciuto prima dell’11 settembre 2001. Sono passati vent’anni e oggi più che mai sembra impossibile trovare un senso a tutto quello che è accaduto da allora in poi, specialmente guardando all’Afghanistan, e in particolare alla sorte dei combattenti del Panshir, gli ultimi avversari dei talebani rimasti sul campo, dopo che li abbiamo traditi e abbandonati, accordandoci alle loro spalle, e a loro spese, con i loro nemici: proprio come abbiamo fatto con i curdi tra Iraq e Siria. Quante volte in questi vent’anni abbiamo detto, o ci siamo sentiti dire, che i popoli devono liberarsi da soli, che la libertà non si può imporre con la forza, che per costruire una nazione non basta sconfiggere gli eserciti, occorre conquistare anche le coscienze. Non ne abbiamo conquistate abbastanza, in Afghanistan, da impedire che l’intero paese ricadesse sotto il controllo talebano un attimo dopo la nostra partenza. Ma nemmeno così poche da potercene andare a cuor leggero, ignorando le migliaia di persone che nel frattempo affollavano l’aeroporto di Kabul o si accalcavano ai confini del paese, che si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di decollare o restavano a combattere, ciascuno a suo modo, nonostante tutto. Come i ribelli del Panshir, come le donne afghane che manifestano nelle piazze, come i giovani giornalisti picchiati e torturati in questi giorni. Le potenze occidentali devono rispondere dei magri risultati ottenuti, e soprattutto della loro impressionante reversibilità. Ma chi all’intervento si è sempre opposto dovrebbe dirci come vogliamo considerare quelle persone, se riconosciamo i loro diritti e teniamo conto delle loro opinioni, o se invece, dopo averle di fatto riconsegnate ai talebani, attraverso i nostri rappresentanti politici e militari, vogliamo riconsegnarle alla tutela dei loro occhiuti carcerieri persino in linea di principio, nei nostri discorsi sulla volontà, i desideri e le convinzioni del popolo afghano, disconoscendole e ignorandole. Come se i veri afghani, gli unici e autentici rappresentanti del loro popolo, fossero proprio i fondamentalisti, solo perché abbastanza forti da imporre la loro legge a tutti gli altri, compresi milioni di cittadini appartenenti a minoranze etniche e religiose da loro spietatamente perseguitate. Che strani democratici siamo. Sono passati vent’anni dall’11 settembre, ma gran parte dei problemi che si aprirono allora sono ancora lì, intatti. Chi in questi anni ha provato a suggerire di trattare con i talebani è stato spesso accusato di essere accecato dall’antiamericanismo. È finita con gli americani che ai talebani hanno di fatto riconsegnato l’intero paese: più che una trattativa, una resa incondizionata. Troppa grazia, davvero. Chi in questi anni ha continuato a dire che gli americani dovevano solo andarsene, perché era una guerra ingiusta, perché bisognava essere contro la guerra «senza se e senza ma», sempre e comunque, a prescindere, ora non si capisce perché non esulti e non si rallegri. Gli unici che non hanno proprio nessuno da ringraziare sono coloro che laggiù, dopo avere assaggiato una vita appena un po’ più degna, provano ora a resistere, a nascondersi o a scappare. Chissà che cosa significa, per loro, questo anniversario.

Il racconto dell'attacco venti anni dopo. Cosa è successo l’11 settembre 2001, quando tra sangue e macerie apparve il demone di bin Laden. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Il Ventennale! Poiché abbiamo dieci dita, celebriamo la memoria degli eventi in base dieci ed eccoci dunque a vent’anni dall’attacco alle Twin Towers di New York l’undici settembre del 2001, evento di cui subito si disse che “d’ora in poi tutto sarà diverso”. E certamente oggi ognuno ricorda dove si trovava e che faceva. Io ero a Roma ma facevo la spola con New York dove avevo vissuto alcuni anni, mi ero sposato una ragazza americana e la nostra prima figlia Liv Liberty era nata da due settimane. Lou mi telefonò e disse: “Stai guardando la Cnn?”. Il primo aereo aveva colpito la prima torre e si pensava ancora a un terribile incidente. Quando il secondo aereo colpì l’altra torre e arrivarono le notizie dell’aereo lanciato contro il Pentagono, fu chiaro che stavamo assistendo a una nuova forma di guerra in cui si bombardavano le città usando aerei civili dirottati e lanciati con tutti i loro passeggeri a bordo che esplodevano in una palla di fuoco. Fra loro c’erano alcuni amici della famiglia di mia moglie che avevano usato il cellulare, ed erano nell’aereo del Pentagono. Il sindaco di New York Rudolph Giuliani, figlio di emigrati liguri, apparve come un eroe indomito. I vigili del fuoco che morivano a decine e di cui più della metà aveva un nome italiano (giganti buoni e barbuti) salivano e scendevano dalle torri salvando persone mentre gli intrappolati si suicidavano gettandosi nel vuoto e sembravano formiche volanti che si schiantavano al suolo. Il giorno dopo ero lì e ci sarei tornato decine di volte: il cratere orrido delle macerie e delle carni e del vetro uniti nella stessa sabbia umana e di cemento che ti finiva sotto i denti, fu chiamato “Ground Zero” e fu subito pieno di foto: “avete visto la mia bambina?”, “Questi sono il mio papà e la mia mamma, li avete visti?”. La leggenda nera era già attiva: l’America – meglio se Israele – aveva commesso quel delitto cercando un pretesto per attaccare l’odiato mondo islamico. Un nome diventò famoso: Osama bin Laden, il satana che aveva compiuto il delitto e che avrebbe alla fine pagato il fio delle sue colpe, stanato nel suo compound e trucidato sul posto per ordine del futuro presidente nero Obama, il quale a causa del suo bizzarro nome si vedeva adesso trattato come un complice islamico: Barack Obama, figlio di un funzionario britannico-kenyota che aveva fatto l’università alle Hawaii, era stato effettivamente educato dal compagno di sua madre che era musulmano e che lo portò a vivere in Indonesia. L’islamofobia era un sentimento ampiamente condiviso e abbiamo avuto in un certo senso la fortuna, proprio nelle scorse settimane, di assistere all’epilogo di questa storia con la ritirata degli americani dall’Afghanistan dove hanno lasciato attrezzature e armi sofisticate di cui i talebani sono i beneficiari. Ma questa storia ha una storia? Certo che ce l’ha, anche se per conservarne la memoria è necessario andare indietro di almeno quarant’anni, perché tutto cominciò nel 1979 quando, senza alcun preavviso, l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan per insediare un governo subalterno a Mosca in un’area in cui i russi si sentivano minacciati dalle influenze islamiche sulla Cecenia. Agli americani non parve vero: restituiremo ai comunisti il servizio che loro ci hanno fatto in Vietnam e armeremo i resistenti afgani. Lo fecero con grande convinzione, con spirito sportivo di rivalsa, e così i mujaheddin armati di missili americani diventarono i nuovi eroi così come gli americani diventarono gli eroi degli afghani. I russi furono sconfitti: persero più di cinquantamila uomini, compirono stragi e massacri ma dovettero andarsene battuti nel 1989. Osama bin Laden, un imprenditore saudita rampollo di una famiglia miliardaria che aveva imprese anche negli Stati Uniti, aveva voluto combattere la guerra degli afghani contro i russi portandosi in Afghanistan macchinari giganteschi con cui scavare tunnel e alzare muraglie di cemento per la difesa. Odiava l’America e i costumi americani che conosceva perfettamente. Osama parlava perfettamente inglese ma quando un giornalista americano lo raggiunse per chiedergli quale sarebbe stato il suo prossimo passo, rispose, sorridendo, in arabo: “Guardate, aspettate e lo saprete”. Il suo odio era cresciuto quando gli americani avevano installato un corpo di spedizione militare in Arabia Saudita per proteggere il suo paese da eventuali rappresaglie di Saddam Hussein, l’altro “grand villain” islamico che un giorno sarebbe salito sulla forca nel suo paese e sarebbe morto contorcendosi sotto i video dei telefonini. Osama bin Laden si considerava discepolo dell’influente predicatore Omar e decise di impedire agli americani di corrompere la purezza islamica con la loro civiltà materialistica e blasfema. La Cia lo teneva d’occhio ma non in modo particolare, salvo alcune inchieste che lo riguardavano per le attività di finanziamento terroristico in Sudan. Ma Osama si trasferì in Afghanistan e di lì iniziò a concepire il piano per colpire il più visibile simbolo degli Stati Uniti: le due torri gemelle del Trade World Center. L’Undici settembre del 2001, inteso come data dell’attacco riuscito con l’abbattimento delle due torri e la morte di oltre tremila persone innocenti di ogni colore, religione sesso e lingua, non fu il primo. Nel 1993 era esplosa una bomba nel seminterrato del centro commerciale e fu chiaro che una vasta rete terroristica aveva scelto le torri come obiettivo. Al primo attentato era seguito un lungo processo concluso con la condanna di quasi tutti gli esecutori e dei principali mandanti. Intanto in Afghanistan erano corsi combattenti da tutto il mondo islamico formando delle brigate internazionali che si combattevano tra loro per il governo del Paese diviso in tribù. Gli americani erano sempre presenti con le loro armi e con attività commerciali ma era anche cominciata una missione internazionale di contenimento scattata con l’applicazione del regolamento della Nato che prevede l’intervento di tutti i membri dell’Alleanza quando uno dei suoi membri è attaccato da un nemico esterno. Che gli Stati Uniti fossero stati attaccati da un nemico esterno non c’erano dubbi e il fatto che gli organizzatori dell’attentato con tutta la loro potente organizzazione fossero in Afghanistan era sotto gli occhi di tutti. A quell’epoca i talebani apparivano come una forza retrograda piuttosto moderata, formata da chierici dediti all’applicazione integrale el Corano. Al-Quaeda era un nome piuttosto generico di una delle tante jihad, ma era emersa come quella organizzata dallo stesso Osama e impegnata in tutto il Medio Oriente e poi nell’Iraq, in Siria e ovunque. L’America dell’Undici settembre era repubblicana, Berlusconi direbbe che aleggiava “lo spirito di Pratica di mare” e il mondo tendeva a destra in senso liberale, proteso verso nuovi orizzonti di ricchezza che si sarebbero infranti nel 2008 con la grande crisi iniziata proprio in America con i crac bancari. Nessuno poteva immaginare allora, dopo la sconfitta del mondo comunista consumata definitivamente con il crollo dell’Unione Sovietica, che l’Occidente avrebbe dovuto combattere un nuovo nemico ideologico e non solo militare. L’Islam aveva assunto dopo la resistenza afgana sostenuta dagli americani (che avevano concesso i loro lanciamissili a spalla, gli stinger con cui i mujaheddin avevano abbattuto elicotteri e aerei sovietici in fase di atterraggio) un atteggiamento bellicoso: non erano stati gli americani a fornire le armi per la vittoria, ma era la fede la più concreta arma di distruzione di massa del nemico. Infatti il mondo imparò che gli autori della strage delle Twin Towers erano piloti suicidi: gente che aveva frequentato dei corsi di pilotaggio in cui trascuravano le lezioni di atterraggio perché non sarebbero mai atterrati. E che i combattenti islamici aspirano al martirio, cioè a farsi esplodere con giubbotti imbottiti di esplosivo plastico disintegrandosi senza batter ciglio. Inoltre, erano apparsi insopportabilmente terrificanti per le loro decapitazioni col coltello, la somministrazione spettacolare con l’uso di telecamere della morte come strumento sia di comunicazione che di imposizione della volontà. L’Occidente imparò dalle parole di bin Laden e dello sceicco Omar che il mondo della sharia, dalla legge coranica, non tollera che la donna abbia altro ruolo che servire come riproduttrice, fonte di piacere, fonte di servizi sempre in stato di sottomissione. Oggi l’Afghanistan che era stato la terra di conquista ideologica di Osama bin Laden è pieno di donne che scendono in piazza dopo la partenza degli americani attaccando verbalmente i talebani, gli studenti coranici che nel frattempo avevano vinto le lotte tra fazioni interne acquistando la supremazia politica. La caduta delle Torri aveva provocato una enorme e densa nuvola di pulviscolo di cemento e vetro che aleggiò su New York per anni. La città che non dorme mai era stata colpita al cuore e mai l’avevo vista così disperata, almeno finché non furono aperte fosse comuni per seppellire i morti di Covid 19. Ma New York, l’America e il mondo in questi venti anni hanno dimenticato quasi tutto perché, nel frattempo, la guerra commerciale fra la Repubblica Popolare Cinese e gli Stati Uniti d’America si sta trasformando in guerra sempre più aperta e anche il grande fronte della propaganda che precede e accompagna le guerre americane da tempo si è sistemato sul Pacifico e l’Oceano Indiano. Ma intanto l’altra guerra che non era stata affatto chiusa, è evoluta in un nuovo fronte in cui la terra di Osama è diventato la nuova frontiera di guerra tra Pakistan, Cina, Iran, Russia (che mantiene gli occhi puntati sul luogo della sua cocente sconfitta) mentre l’Unione Europea cerca di elaborare la nuova dottrina che seppellisce per sempre la grande alleanza seguita all’undici settembre del 2001. L’Europa ammette di dover spendere grandi quantità della propria ricchezza se vuole davvero costruire una propria entità militare diventata necessaria, perché tutti vedono che è scaduto il contratto d’assicurazione con la protettiva nanny americana. Joe Biden si è dimostrato peggiore del peggior Trump per il modo in cui ha mollato la terra di bin Laden, sapendo che la nuova guerra è altrove. Il nuovo presidente è favorevole alla modifica del secondo emendamento della Costituzione americana che permette ai cittadini di portare armi come partigiani, ma ha lasciato armi e tecnologia militare agli afgani che sanno usarla perfettamente: oggi l’Islam ha imparato tutto sull’uso delle armi del futuro, come hanno fatto da tempo i cinesi che però temono l’Islam come il loro vero satana, non volendo tollerare le minoranze islamiche già rinchiuse in regioni lager e sottoposte a rieducazione intensiva. Quel che accadde vent’anni fa, dunque, non fu un episodio drammatico e isolato, degno di memoria ma concluso. Quell’attacco fu la conseguenza di una catena di eventi iniziata con l’invasione sovietica, il riarmo della resistenza anti-sovietica da parte degli americani, l’insurrezione culturale e religiosa contro i valori americani e occidentali degli islamici che non intendono perdere lo strumento della fede come sistema di regole e di accettazione della morte. Il suicidio come arma militare non era una assoluta novità, dopo l’esperienza dei piloti kamikaze giapponesi. Ma fu con l’angosciosa determinazione dei piloti di al-Qaeda, quando misero la prora dei loro aerei carichi di innocenti contro le Twin Towers che il mondo occidentale capì di non essere in grado di capire.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Le pesanti eredità dell’11 settembre. Alberto Bellotto su Inside Over l'11 settembre 2021. “Se stanno per combinare qualcosa, lo faranno qui”. È quasi mezzanotte, a Times Square fa freddo, molto freddo, ma in piazza ci sono almeno due milioni di newyorkesi, tutti intenti a salutare l’avvento del nuovo millennio. Tra questi c’è anche John O’Neill, responsabile dell’Fbi per l’anti terrorismo, all’altro capo del telefono c’è un suo amico, Richard Clarke, responsabile dell’anti terrorismo del National Security Council, l’organo che consiglia il presidente degli Stati Uniti in materia di sicurezza nazionale. O’Neill è preoccupato, negli ultimi mesi i segnali non sono stati incoraggianti. Fermi e arresti di sospetti terroristi segnalavano un aumento dell’attività sul suolo americano. Poco meno di due anni prima due ambasciate statunitensi in Africa erano finte nel mirino dei terroristi e da quel momento il Bureau aveva acceso i riflettori su Osama Bin Laden. Per il dirigente dell’Fbi non è più questione se ci sarà o meno un attacco, ma di quando. O’Neill in realtà sbaglia solo il momento, ma non il luogo. Passano solo 15 giorni e a Los Angeles atterra un volo proveniente da Bangkok. A bordo ci sono due uomini Nawaf al-Hazmi e Khaled al-Mihdhar. I due si spostano subito a San Diego e da quel momento iniziano a prendere lezioni di volo. Passano 724 giorni e i due insieme ad altri tre compagni si schiantano sul lato ovest del Pentagono uccidendo 189 persone una manciata di minuti dopo il doppio attacco al World trade center. A vent’anni dai tragici fatti dell’11 settembre una delle cose che sconvolge ancora è l’incredibile buco dell’intelligence americana, a tutti i livelli, che permise l’operazione di Al Qaeda. Eppure quell’attacco, e quei fallimenti, hanno ancora effetti a lungo temine per gli Stati Uniti e il mondo. Come hanno dimostrato i fatti di quest’estate. 

Il caotico ritiro dall’Afghanistan. L’onda lunghissima di quello choc si è vista chiaramente in quello che è successo in Afghanistan. Il ritiro americano e il collasso del neonato Stato afghano in favore del ritorno dei talebani è sembrato un enorme reset di quanto avvenuto nei primi due decenni del nuovo secolo. Il ritorno al potere degli studenti del Corano ha portato sul banco degli imputati non solo l’amministrazione Biden che ha curato la ritirata, ma altre tre amministrazioni Usa. Le analisi piovute nell’ultimo mese hanno indagato a 360 gradi per capire le ragioni della debacle, se poteva essere evitata e come, e soprattutto le sue ripercussioni per Washington. Nei prossimi mesi questo studio continuerà e presto sarà pane per gli storici, intanto c’è uno dei protagonisti di quella stagione che non ha dubbi su come analizzare quanto successo. Per Ali Soufan, agente Fbi tra i collaboratori di O’Neill e tra i primi a trovare il collegamento tra gli attentati dell’11 settembre e Al Qaeda, ha raccontato che secondo lui la guerra in Afghanistan è stata persa già nell’autunno del 2002, un anno dopo l’inizio dell’invasione americana. “Fu allora”, ha raccontato Soufan al tedesco De Spiegel, “che l’amministrazione Bush iniziò a spostare molte risorse importanti per prepararsi alla guerra in Iraq in un momento in cui al-Qaida e i talebani si stavano riorganizzando in Afghanistan. E questo è stato un duro colpo per qualsiasi sforzo costruttivo“. Per l’ex Fbi spostare le risorse per un secondo fronte Mediorientale di fatto bloccò ogni tentativo di stabilizzare il Paese. Ma alla base del fallimento non ci fu solo questo: anche quella che molti hanno indicato come una totale mancanza di comprensione di cosa fosse, di cosa sia ancora oggi, l’Afghanistan. Il frutto avvelenato di una reazione violenta post attentato che molto spesso è stata senza strategia. Lo storico Max Hastings ha scritto su Bloomberg come la reazione dell’America all’attentato sia stata scomposta e votata all’inutile show muscolare che di fatto ha finito col destabilizzare un’intera regione. Nel 2003 il giornalista americano Bob Woodward nel libro La guerra di Bush, riportò un significativo scambio tra il segretario alla difesa Donald Rumsfeld e il capo della Cia George Tenet: “Dobbiamo colpire qualcosa. Non c’è molta Al Qaeda da colpire”. Un passaggio significativo del settembre 2001 che avrebbe fatto da preludio a quando avvenuto due anni dopo con l’invasione dell’Iraq. 

I “veri costi” della guerra al terrore. La risposta muscolare post 11 settembre negli anni si è rivelata costosa e disastrosa. La stabilità è stata una chimera per tutto il ventennio e giocoforza la sicurezza non è aumentata. Se è vero, come ha detto a più riprese Joe Biden, che la missione principale è stata raggiunta con l’uccisione di Bin Landen, non si può dire lo stesso per Al Qaeda. Oggi l’organizzazione principale resta svuotata e concentrata sopratutto in operazioni che si potrebbero definire di lobbing, come il lungo rapporto costruito coi talebani. Ma allo stesso tempo i rami “locali” hanno prosperato, da Al Qaeda nel Sub continente indiano, fino a quella attiva nella Penisola arabica, per non parlare delle varie derivazioni come Hurras al Din che opera in Siria o Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin nel Sahel africano. In mezzo miliardi di dollari bruciati in operazioni militari e tentativi, vani, di nation building. Secondo una serie di stime del Watson Institute della Brown University tra il 2001 e le previsioni per il 2022 gli Usa hanno speso qualcosa come 5.800 miliardi di dollari ai quali vanno aggiunti almeno altri 2.200 per i costi di cura dei veterani da qui al 2050. Anche i costi umani di quella “reazione” sono stati insostenibili. Oltre settemila militari tra Afghanistan e Iraq e 8 mila tra i contractors al soldo degli americani sono rimasi uccisi per non parlare delle vittime civili che hanno pagato il debito più alto. Sempre secondo la Brown University i civili che hanno perso la vita sarebbero tra i 363 e 387 mila, mentre le forze di sicurezza dei neonati stati afghani e iracheni sarebbero tra la 204 e 207 mila. I costi umani arriverebbero quindi a sfiorare il milione di vittime, tra le 987 e 923 mila. A tutto questo va poi aggiunta l’onda lunga dei migranti. Per vent’anni i conflitti in Medio Oriente, scatenati direttamente da Washington (Afghanistan e Iraq) o appoggiati tramite proxy (Yemen, Libia e Siria) hanno creato vere e proprie bombe migratorie. È il caso ad esempio del 2015 con la rotta balcanica letteralmente esplosa con l’acuirsi della crisi siriana che ha colpito l’Europa. Per non parlare dell’onda lunga afghana e una rotta, quella che parte dal Paese, attraversa Iran e Turchia e approda in Europa che non si è mai del tutto spenta e che anzi ora può riaccendersi con stime che parlando addirittura di 1 milione di persone pronte a muoversi.

L’elaborazione del lutto. Ma gli effetti di quel 11 settembre 2001 continuano a farsi sentire anche sul suolo americano. Verso fine agosto due agenti hanno bussato alla porta della famiglia Morgan a Long Island. I due portavano una missiva a Nykiah Morgan: “Abbiamo trovato sua madre”. Dorothy Morgan lavorava come impiegata nel settore assicurativo al 94esimo piano della Torre Nord e fu tra le 2.753 vittime morte nel crollo delle torri. Qualche settimana fa Dorothy è diventata la 1.646esima vittima identificata grazie ai test del Dna. Qualche giorno dopo è stato invece identificato il 1647esimo, un uomo di cui non si conoscono le generalità. Si tratta delle prime identificazioni dal 2019. Da oltre vent’anni i medici forensi lavorando per individuare le vittime. All’inizio, nei primi anni dopo l’attacco, le identificazioni erano centinaia all’anno, ma oggi il ritmo è rallentato e spesso non sono più di una o due l’anno. Ancora oggi centinaia di famiglie non sanno che l’ufficio del medico legale newyorkese è ancora al lavoro. Attualmente i medici e i ricercatori sono a lavoro su 22 mila resti umani recuperati tra i rottami di Ground zero, all’appello mancano circa 1.106 vittime, il 40% di coloro che morirono a New York. Subito dopo gli attacchi centinaia di famiglie avevano donato campioni di Dna per aiutare i ricercatori a trovare i resti dei famigliari, nella speranza di avere qualcosa da seppellire. Ma oggi, quando così tanto tempo è passato, la ricerca rischia di fare più male che bene. La stessa Nykiah Morgan ha raccontato al New York Times di non essere sicura di volere i resti della madre: “Improvvisamente devi decidere cosa fare con una persona cara che è morta 20 anni fa. È quasi come riaprire vecchie ferite. Nel corso del tempo, ti senti come se stessi migliorando e poi dopo 20 anni devi affrontare tutto da capo”. Nel frattempo i team che si occupano delle identificazioni sono ottimisti, negli anni le tecnologie sono migliorate e le nuove tecniche aiuteranno a velocizzare il processo. Ma non tutti verranno identificati, resterà sempre qualcuno senza nome, senza tomba. O perché i frammenti sono troppo danneggiati, o perché quei resti appartengono a chi è già stato identificato o perché i campioni per il confronto non bastano.

I processi senza fine. A riaprire vecchie ferite potrebbero essere anche i processi. Tolti gli autori dell’attacco e Osama Bin Laden, restano ancora i mandanti, le menti dell’attentato. Dopo vent’anni dall’attacco e nove dalla formalizzazione delle accuse, i processi rimango ancora in alto mare. Solo martedì scorso Khalid Sheikh Mohammed e altri quattro imputati sono apparsi in tribunale dopo oltre un anno di stop per alcune dispute preliminari. Nonostante questo non ci sono nuove udienze all’orizzonte. La sensazione, sottolineano in tanti, è che non si voglia tendere il processo. Per Kevin Powers, esperto del Boston College e in passato consigliere del Pentagono per Guantanamo, “è importante che le persone capiscano che il sistema è impostato per fallire”. Ed effettivamente basta vedere la storia recente del carcere per farsi un’idea: viaggiare verso l’enclave americana sull’isola di Cuba è un incubo logistico, negli anni il ricambio di giudici e avvocati è stato frequente e il sistema delle commissioni militari è stato cambiato radicalmente nel passaggio dall’amministrazione di George W. Bush e quella di Barack Obama. Il vero limite, hanno detto i vari avvocati della difesa che si sono succeduti al fianco dei sospetti di Al Qaeda detenuti, è stata la segretezza. Per anni faldoni di indagini non passavano dagli inquirenti militari ai difensori, per non parlare dei limiti durante gli interrogatori. Intanto le sentenze non arrivano, e con queste velocità è possibile che servano altri 10 anni per arrivare a un verdetto di primo grado. E non è detto che ci sarà mai un vero colpevole dato che forse il processo non si farà mai. Secondo molti le ombre delle torture della Cia contro i prigionieri avvenute prima dell’arrivo a Guantanamo potrebbe rendere confessioni e prove inammissibili e addirittura chiudersi con eventuali assoluzioni.

Le ultime ombre. La partita su quel giorno di settembre però non è ancora chiusa anche per un’altra ragione. Dopo 20 anni circa, ad esempio, sappiamo ancora molto poco del coinvolgimento dell’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo per ordinare al dipartimento di Giustizia e altre agenzie federali di riesaminare i dossier sull’11 settembre e desecretare ciò che rimane entro sei mesi. Il boccone più ghiotto resta quello inerente all’operazione Encore dell’Fbi, l’inchiesta sulla possibile complicità di Riad negli attacchi. Secondo l’ex agente del Bureau Danny Gonzalez i contatti tra gli attentatori e uomini vicini ai sauditi erano chiari. E questo ci riporta all’inizio della nostra storia a Nawaf al-Hazmi e Khaled al-Mihdhar. Per Gonzalez i due avevano potuto godere dell’appoggio di una rete di impiegati sauditi che li avrebbero aiutati nelle prime fasi dell’inserimento nel Paese. Sempre secondo l’ex agente Fbi se il dossier dell’Encore fosse rivelato il popolo americano avrebbe molto da imparare e soprattutto cambierebbe la comprensione pubblica dell’11 settembre.

Un paese diviso. Forse nei prossimi mesi sapremo qualcosa di più su questo ramo e soprattutto sapremo se cambierà o meno la percezione dell’America. Intanto però oltre 70 milioni di americani sono nati dopo i fatti di New York e oggi gli Usa appaiono quanto mai diversi da allora. Smaltito il senso di unità nazionale dopo l’attacco negli anni la società americana è scivolata verso la polarizzazione. Il Paese ha mostrato una crescente divisione, accelerata dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Oggi democratici e repubblicani sono sempre più lontani e con loro gli elettori. Lo choc dell’11 settembre e i disastri militari degli anni successivi hanno cambiato le prospettive interne degli Stati Uniti. Una parte del Paese ha virato verso l’isolazionismo, pensiamo ad esempio all’America rurale che sicurezza, riduzione dell’immigrazione e maggiore protezione dal mondo. Un’altro frammento dell’America, invece, ha scelto una prospettiva ancora più globale, in molte città, New York in testa, ha soffiato il vento liberal di apertura e maggiore integrazione delle minoranze. Di fatto spingendo queste due Americhe in direzioni opposte. In questo senso l’11 settembre è stato il catalizzatore perfetto per allargare la spaccatura del Paese. Paese che oggi, con il ritiro caotico dall’Afghanistan, si scopre ancora meno “eletto”, più vulnerabile. A tratti spaventato dalla potenza emergente cinese, una sensazione nuova per la superpotenza, anzi una sensazione sentita forse solo un’altra volta: alle 8:46 di una tiepida mattina di settembre.

11 settembre 2001: il terrore è ancora qui. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'11 settembre 2021. Un giorno come oggi, ma del 2001, diciannove jihadisti appartenenti all’allora semisconosciuta e sottovalutata Al-Qāʿida portarono a compimento l’attentato terroristico più sanguinoso della storia dell’umanità e l’attacco sul suolo americano più granguignolesco dai tempi di Pearl Harbour. A partire da quell’infausto 11 settembre, così vicino eppure così lontano, le relazioni internazionali e la storia dell’Uomo sono cambiate per sempre. Perché quei quasi 3mila morti e 25mila feriti avrebbero dato il via al “secolo delle emergenze“, fungendo da pretesto per l’inaugurazione della Guerra al Terrore da parte dell’amministrazione Bush Jr e per la manifestazione progressiva dei suoi perniciosi effetti collaterali, in primis la sorveglianza di massa, le primavere arabe, le crisi dei rifugiati e lo sconvolgimento dell’Eurafrasia. Oggi, nel ventennale degli attentati dell’11 settembre e dell’alba della guerra infinita per antonomasia – infinita perché non si può finire una guerra contro un nemico incorporeo, appartenente all’etere delle Idee (e il Jihād globale è anzitutto un’idea) –, è il momento giusto per tentare di rispondere alla domanda delle domande: la Guerra al Terrore, che sembra aver fatto il suo tempo, ha raggiunto lo scopo per cui fu concepita? Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan – lì dove tutto ebbe inizio – ed un insieme di eventi sembrano suggerire di no, ma altri ancora delineano uno scenario più complesso e sfuggevole alle letture superficiali e monodirezionali.

Jihad globale, un’idea a prova di proiettile. L’11 settembre è stato uno spartiacque, o meglio lo spartiacque. Perché quel giorno, che oggi gli americani commemorano con più costernazione che in passato, tutto è cambiato. Per sempre. Quel giorno è finita la transizione post-guerra fredda. Quel giorno ha avuto inizio, molto lentamente, l’entrata del mondo nell’epoca multipolare. E quel giorno sono crollati bruscamente due miti: quello di un momento unipolare eternizzabile in un nuovo secolo americano e quello della nazione invincibile. Otto trilioni di dollari, attività antiterroristiche in 85 Paesi e quasi un milione di morti in giro per il mondo non sono bastati, non sono stati sufficienti: il terrore, vent’anni dopo l’11 settembre, è ancora qui. E gode di ottima salute, perché è più visibile, tangibile, fertile e letale che mai. È vero: Osama bin Laden è morto ed Al-Qāʿida è l’ombra di ciò che fu, ma altri sceicchi del terrore e nuovi aspiranti califfati hanno fatto il loro ingresso nel frattempo, mostrando e dimostrando alle varie coalizioni dei volenterosi come le idee siano a prova di proiettile. Non (soltanto) coi cannoni, ma anche (e soprattutto) coi libri avrebbero dovuto combattere gli Stati Uniti e l’Europa la loro Guerra al Terrore. Perché il Jihād globale è anzitutto un’idea, nonché una reazione avversa ed un effetto collaterale dell’imposizione coercitiva della fine della storia al resto del mondo da parte dell’Occidente. Perché il Jihād globale è tutto meno che un progetto folle, insensato e privo di contenuto, essendo la materializzazione degli accattivanti parti mentali di geni incompresi e bistrattati – e fallacemente letti in modo occidentalo-centrico – come Sayyid Qutb e Abdullah Azzam. E perché le idee possono essere sconfitte soltanto da idee più potenti, ma mai dalla semplice forza bruta.

I numeri della guerra al terrore. Vent’anni e quasi un milione di morti dopo – ai quali si dovrebbero addizionare le vittime del terrorismo islamista (più di 160mila in tutto il mondo) e delle guerre civili etno-religiose che insanguinano l’Eurafrasia, dal Mozambico alla Birmania, passando per la Nigeria –, la guerra al terrore lanciata dai teologi del neoconservatorismo al servizio di George Bush Jr è stata terminata dai pragmatici idealisti di Joe Biden. I posteri giudicheranno in maniera ambivalente l’operato delle amministrazioni a stelle e strisce che si sono succedute dal 2000 ad oggi, ovverosia come un fallimento ed un successo al medesimo tempo. Un fallimento in termini di immagine, ma un successo in termini strategici. E per capire le ragioni di questa vittoria a metà – si badi bene che la sostanza conta più della forma – non si può che dare uno sguardo ai numeri e ai fatti, che, in quanto imparziali ed eloquentemente esplicativi, possono descrivere la realtà meglio delle parole: La guerra in Afghanistan è stata la più lunga della storia degli Stati Uniti – superiore alla somma dei due conflitti mondiali e dell’intervento in Vietnam –, la seconda più costosa di sempre – due trilioni di dollari, contro i poco più di quattro e mezzo della seconda guerra mondiale. La guerra in Afghanistan si è rivelata la più antieconomica e fallimentare in assoluto per gli Stati Uniti – una spesa media di 300 milioni di dollari al giorno, ogni giorno per vent’anni – considerando che l’esborso non è servito né ad annientare i talebani né ad innescare un processo di democratizzazione solido, endogeno ed autoalimentante. Gli attentati terroristici di stampo islamista in Europa e negli Stati Uniti sono triplicati dal primo decennio del Duemila alla scorsa decade; a livello mondiale, invece, nello stesso periodo di riferimento, sono sestuplicati. La guerra al terrore ha prodotto 38 milioni di sfollati e rifugiati – cioè l’equivalente della popolazione della Polonia. La guerra al terrore ha giocato un ruolo-chiave nell’aiutare l’internazionale del terrorismo islamista ad espandersi e a reclutare shahīd, cioè aspiranti martiri pronti a uccidere e ad essere uccisi per la causa del Jihād. Dal 2001 ad oggi, invero, sono cresciute sia le organizzazioni terroristiche – se ne contano quasi cento al momento – sia i loro eserciti – i soldati arruolati nelle sigle dell’estremismo sunnita sono quadruplicati.

Non è tutto come sembra. I numeri danno torto agli Stati Uniti, ma alcuni fatti ed eventi no. Sembrano suggerire, al contrario, che la guerra al terrore non sia stata una sconfitta totale; non per gli Stati Uniti, perlomeno, cioè per coloro che l’hanno lanciata e che, oggi, vent’anni dopo, la stanno gradualmente abbandonando e riponendo nel cassetto dei ricordi. Perché quei fatti ed eventi, che spiegano ciò che ai numeri non riesce, parlano di un’immagine volutamente sacrificata – gli Stati Uniti dovranno obbligatoriamente ripensare (o archiviare?) l’idea dell’esportazione della democrazia dopo aver ceduto l’Afghanistan ai talebani – per un fine superiore: la salvezza dell’Impero. Oggi come ieri, invero, la domanda retorica dell’Ultimo geopolitico – Zbigniew Brzezinski – è sempre valida: “cos’è più importante per la storia del mondo: i talebani o il collasso dell’impero sovietico?”. Una domanda che, attualizzata, andrebbe riformulata in questo modo: “cos’è più importante per la storia del mondo: i talebani o la lotta alla transizione multipolare?”. Una domanda alla quale analisi a caldo, letture superficiali e giudizi viziati da sentimenti, emozioni e ideologia non possono rispondere. Una domanda alla quale, però, rispondono i seguenti fatti: L’Iraq fatica ad incamminarsi verso la democrazia e la pace sociale, ma i veri obiettivi sono stati raggiunti: amputare le ali a tempo indefinito ad una potenza regionale storicamente invisa sia ad Israele sia alle petromonarchie wahhabite, abbattere un regime antiamericano (Saddam Hussein) e creare le fondamenta per un’anarchia produttiva duratura. La Siria è sopravvissuta alla guerra per procura portata avanti attraverso lo Stato Islamico, ma l’ordine assadiano è stato ferito gravemente ed incapacitato a minacciare concretamente gli interessi israeliani e statunitensi nella regione. Le primavere arabe hanno riscritto la geografia del potere nell’Africa settentrionale a favore degli Stati Uniti, con l’Egitto posto sotto il controllo ermetico del generale Abdel Fattah al-Sisi e la fu potente Libia ingabbiata in uno scenario simil-iraqeno nel dopo-Gheddafi – rivale numero uno della Casa Bianca nella regione e tra i principali nel mondo, perché storico patrocinatore del terrorismo islamista. L’ideologia del Jihād globale e l’antioccidentalismo dilagano ovunque nel mondo, oggi più che vent’anni or sono, ma il costo di ciò sta venendo pagato più dall’Europa che dagli Stati Uniti, la cui posizione isolata li protegge dalle crisi dei rifugiati provocate dalla guerra al terrore – contrariamente al Vecchio Continente, che li subisce in quanto prossimo ad Africa e Asia – e la cui composizione etno-religiosa è una garanzia contro il proliferare di radicalizzazione e società parallele – il jihadismo ha ucciso 119 americani dal dopo-11/9 al 2016, mentre la sola Francia è stata teatro di 130 morti il 13 novembre 2015. L’Afghanistan è stato ceduto ai talebani, la ritirata strategica concepita male ed attuata peggio, ma il vero scopo è stato ottenuto: passare la patata bollente all’asse Mosca-Pechino. Patata bollente perché non soltanto gli Stati Uniti affidano lo scettro di uno stato-chiave per gli equilibri dell’Eurasia ad una forza imprevedibile quali sono i talebani, ma lo lasciano in condizioni simili al 2001: instabilità, pericolosità e indomabilità. Condizioni che, sperano gli strateghi al servizio dell’amministrazione Biden, possano trasformare l’Afghanistan in un pantano ingestibile e tremendamente antieconomico per Cina, Russia e Iran (e tutti gli altri rivali). Vent’anni, otto trilioni di dollari e quasi un milione di morti dopo, la guerra al terrore sembra essere più un ricordo che una realtà. Ricordo di un passato tanto vicino quanto lontano, visibile ma sbiadito allo stesso tempo. Ricordo di morte, certamente, perché inestricabilmente legato agli attentati dell’11 settembre, ma anche di speranza – la speranza di un futuro più sicuro e migliore. Vent’anni, otto trilioni di dollari e quasi un milione di morti dopo, il terrore è ancora qui. La verità è che non se n’è mai andato, neanche per un momento. Ma il vero obiettivo, del resto, non era mai stato il suo annientamento: era l’utilizzo del terrore come pretesto per eliminare dei rivali di lunga data e trasporre in realtà la strategia brzezinskiana dello sfruttamento degli archi di crisi. Il popolo americano, oggi, commemora con uno sconforto senza precedenti questo anniversario, macchiato indelebilmente dal ritiro dall’Afghanistan, ma un giorno capirà le ragioni estremamente pragmatiche di Biden: il ricordo dell’11/9 e la guerra al terrore hanno esaurito la loro funzione storica, corrispondente alla messa in sicurezza della regione Medio Oriente e Nord Africa, ed era giunto il momento di prenderne atto, di guardare oltre, di pensare al presente. In questo presente, che appartiene a Biden come al resto dell’élite, non c’è (più) spazio per le guerre infinite al terrore senza volto degli shahid, c’è spazio soltanto per avversari corporei e territoriali – dunque battibili –, e realmente pericolosi per lo status quo – ed il terrorismo non lo è. Avversari come la Cina, la superpotenza in divenire che, alla ricerca di rivalsa per il secolo delle umiliazioni, vorrebbe riscrivere ex novo l’architettura internazionale decisa dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra e traghettare il mondo verso l’era multipolare. 

"Oh my God!". E New York si scoprì la città dei fantasmi. Carlo Piano l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Così il Giornale raccontò l'attacco alle Twin Towers: "Due aerei in 18 minuti, poi il caos. E urlano tutti". New York - Nelle strade di New York ieri la gente non camminava con il solito passo frettoloso e distratto di chi deve correre in ufficio, di chi non ha tempo da perdere. Non camminavano proprio. Erano tutti fermi, chi seduto in terra, chi sul tetto delle auto immobilizzate nel traffico, chi riusciva a sorreggersi in piedi con lo sguardo perso e un pallore cadaverico sul viso. Come fantasmi fissavano ammutoliti l'apocalittico sudario di fuoco, polvere e macerie che avvolgeva l'intero downtown, quello che era il cuore pulsante dollari della Grande Mela. Dove svettavano le torri di 110 piani del World Trade Center ora c'è soltanto un cielo grigio e fumoso, i due giganteschi grattacieli in vetro e acciaio, alti 450 metri e che ospitavano 350 aziende dove lavoravano 50mila persone, sono spariti per sempre, crollati in un attacco terroristico che mai prima d'ora era stato osato. (...) Quando è avvenuto il primo schianto i visitatori erano già in fila per comprare i biglietti e salire, dopo una corsa a perdifiato sui velocissimi ascensori, sul tetto del mondo. C'erano uffici governativi e finanziari. La sola Morgan Stanley possedeva 50 piani. Migliaia di vittime sicuramente, forse decine di migliaia, il conto si farà nelle prossime ore dopo che il sindaco Rudolph Giuliani ha ordinato che tutta la parte bassa di Manhattan venga evacuata per consentire ai soccorritori di lavorare. (...) Quante vittime? «Il bilancio sarà più grave di quanto potete immaginare, ma ora dobbiamo pensare a chi è ancora vivo. Vi invito a mantenere, per quanto possibile, la calma e a restare a casa», ha detto il primo cittadino di New York in un appello televisivo. «Là sotto ci sono tantissimi corpi sepolti. Sentiamo grida e invocazioni d'aiuto che provengono dalle macerie - spiega Mike Smith, capo di una delle squadre dei vigili del fuoco -. Qui urlano tutti, corrono come impazziti cercando gli amici, i parenti, anche i miei colleghi e i poliziotti si aggirano sgomenti senza sapere bene cosa fare. Supponiamo che in ognuno dei palazzi ci potessero essere al momento del primo impatto circa 10mila persone». Restano le cartoline delle Torri Gemelle esposte nei botteghini dei giornalai e la gente che piange abbracciandosi, gente che non si era mai conosciuta prima. Si incontrano per strada e si stringono l'uno all'altro, spesso senza dirsi neppure una sillaba. Oppure esclamando «my God». Sì, mio Dio era la parola che si leggeva ieri sulle labbra dei newyorkesi. (...) Ma il nuvolone grigio, che lentamente sta diradandosi, lascia davvero poche speranze, ne escono uomini bianchi di polvere che piangono come bambini, ogni ora che passa ne escono sempre meno. «Ho sentito un boato tremendo - racconta Serena Mays che quando i due aeroplani hanno centrato i grattacieli stava lavorando sul Williamsburg Bridge - poi ho visto persone che si lanciavano dalle finestre e precipitavano. Saltavano nel vuoto da ovunque, sembravano burattini disarticolati». Sono le 8.45 quando il primo aereo, un Boeing 767 dell'American Airlines partito da Boston e diretto a Los Angeles con a bordo 92 persone, si schianta contro la torre nord del World Trade Center ed esplode.(...) Diciotto minuti dopo alle 9.03 un secondo Boeing 757 di linea della America Airlines con a bordo 64 passeggeri, decollato da Washington per Los Angeles, centra l'altra torre. «Ho sentito uno strano rumore e allora mi sono affacciato alla finestra - ricorda Luigi Ribaudo, impiegato nel vicino quartiere di Tribeca - ho visto che quel frastuono veniva da un grosso aereo con due reattori che stava volando troppo basso. Un attimo dopo si è infilato in una torre e l'ha fatta esplodere dall'interno. E adesso il World Trade Center non c'è più, non ci posso credere». (...) Alle 10.07 crolla il primo grattacielo mentre le telecamere stanno trasmettendo in diretta in tutto il mondo e mentre lo stanno ancora evacuando, «questo è il più terribile attacco agli Stati Uniti dopo Pearl Harbor» grida nel microfono il giornalista della Nbc Tom Brokaw. La gente si riversa in strada. Venti minuti dopo tocca al secondo accasciarsi un piano sull'altro. (...) Le schegge di vetro e di metallo sono arrivate fino a Brooklyn attraversando la baia dell'Hudson River e la polvere ha ricoperto con uno spesso strato fuligginoso mezza Manhattan. (...) «Si tratta del più audace attacco terroristico di tutti i tempi. Richiede operazioni logistiche che solo pochissimi al mondo sono in grado di eseguire. Il primo nome della lista è quello di Osama Bin Laden», spiega alla televisione Chris Yates, esperto di aviazione del Jane' s Transport Magazine di Londra. I newyorkesi si assiepano davanti ai megaschermi di Times Square che trasmettono a ritmo continuo le immagini della tragedia, che immortalano impietose le maschere dei sopravvissuti, i feriti ammassati nei prontosoccorsi, i parenti che chiedono disperatamente notizie dei propri cari. «Dov' è Michael? Dov' è Michael? L'ho sentito stamattina quando c'è stata l'esplosione. Ma adesso dov' è Michael?», domanda una donna ai poliziotti troppo indaffarati per ascoltarla. (pubblicato sul «Giornale» del 12 settembre 2001)

American Caporetto. Il film dei 20 anni dall'inferno di Kabul. Fausto Biloslavo l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. L'operazione Usa, il sacrificio dei soldati e infine il ritorno della sharia. Come un tragico gioco dell'oca. Kabul (Afghanistan) «Lunga vita alla democrazia» urla una donna di Kabul, che protesta in piazza contro il ritorno al passato del nuovo Emirato islamico. La coraggiosa manifestazione è stata dispersa dalle fucilate dei talebani. Vent' anni dopo l'11 settembre, in Afghanistan siamo tornati alla casella di partenza, come un tragico gioco dell'oca. Nel 2001 agli americani non bastava liberare Kabul dai talebani del primo Emirato, ma volevano esportare la democrazia come se fosse un televisore o un frigorifero che funziona se lo attacchi alla corrente. Il risultato è che ora sono tornati al potere i talebani, facilitati da un frettoloso ritiro e dalla smobilitazione dello Zio Sam, stufo dell'Afghanistan, che ha trasformato «Kabul addio» in un disastro. Una Caporetto con nessun Piave all'orizzonte per ribaltare la situazione. Il primo a prevedere l'11 settembre fu il leggendario Ahmad Shah Massoud che aveva combattuto tutta la vita contro i sovietici ed i talebani del primo Emirato islamico. «Al Qaida ha le sue basi in Afghanistan. I terroristi arriveranno nelle vostre città» mi diceva in un'intervista nel 1998 il leggendario «leone del Panjsher». Non ha fatto in tempo a vedere l'attacco alle Torri gemelle. Due jihadisti di Al Qaida camuffati da giornalisti l'hanno fatto saltare in aria il 9 settembre per far fuori una spina nel fianco. Massoud è la prima vittima dell'attacco all'America. Suo figlio Ahmad ha raccolto il testimone del padre cercando di guidare la resistenza alla travolgente avanzata dei nuovi talebani, ma il Panjsher, la valle invitta, è stata sconfitta con l'aiuto dei droni pachistani. A parte gli ultimi combattenti che non demordono nascosti nelle grotte o nelle gole dell'Hindu Kush. Come ai tempi dell'invasione sovietica di Budapest, «l'Occidente è rimasto a guardare sull'orlo della fossa seduto», abbandonando l'erede di Massoud. I soldati italiani hanno versato sangue e sudore in Afghanistan con 54 caduti e 730 feriti, 150 gravissimi. Nei momenti delle battaglie più dure del 2008 il sergente della Folgore, Stefano Taggiasco, non aveva dubbi: «Dopo l'11 settembre questa è una battaglia fondamentale per l'Occidente. Se poi gli afghani abbracciano la democrazia bene, ma non dimentichiamo che in questo deserto corre la prima linea di difesa del nostro mondo». I suoi uomini saltavano in aria sulle trappole esplosive talebane e combattevano ogni giorno. Il sergente di ferro li incitava a non mollare: «Questa sabbia è la stessa da El Alamein a Bala Baluk», uno sperduto avamposto italiano, sempre sotto attacco, nella provincia di Farah. La guerra l'abbiamo persa, per non parlare dell'illusione di esportare la democrazia. Oggi a Kabul il ministro della Difesa è Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, il fondatore guercio dei talebani. Il ministro dell'Interno è Sirajuddin Haqqani, capo della rete del terrore specializzata in attacchi suicidi, che ha sempre avuto ottimi rapporti con Al Qaida. Per di più è ricercato dall'Fbi con una taglia sulla testa di 5 milioni di dollari. È come se ai tempi delle Brigate rosse alla guida del Viminale ci fosse stato Renato Curcio. Al Qaida rinascerà sotto l'ala protettiva del nuovo Emirato, che sorge attorno alla fatidica data dell'11 settembre. Non solo una tragica beffa, ma un potente volano di propaganda che resuscita o alimenta le forze jihadiste del pianeta. Tutti si chiedono come sia stato possibile il crollo così disastroso delle forze di sicurezza afghane e del governo appoggiati e finanziati dal 2001 della Nato. Qualche anno fa un comandante talebano mi spiegava che noi occidentali abbiamo «l'orologio e stabilite che quest' anno mettete in piedi un esercito, l'anno dopo la polizia e così via. Noi abbiamo il tempo e prima o dopo vi sconfiggeremo». Non solo così è stato, ma l'epopea talebana parte da lontano, da un lungo conflitto iniziato oltre 40 anni fa, quando l'Armata rossa invase l'Afghanistan. «Mio padre è shaid (martire) della guerra santa contro i russi. Io sono nato talebano e ho raccolto il testimone combattendo contro gli americani. Allora come oggi abbiamo vinto», spiega il comandante Mohammed Sharif Amadi offrendomi un pranzo di pane e ceci seduti a terra con le gambe incrociate. Dai russi agli americani, l'Afghanistan è sempre stato la tomba degli imperi. Dopo l'attacco alle Torri gemelle, il 13 novembre 2001, i mujaheddin appoggiati dai B 52 americani fecero un grande regalo liberando Kabul dal primo Emirato il giorno del mio quarantesimo compleanno. In poche ore i bambini tornarono a far volare gli aquiloni, proibiti dai talebani, nel cielo limpido della capitale afghana. Oggi, dopo vent' anni di Occidente, i negozi di capi femminili alla moda a Kabul sono chiusi ed i centri di bellezza ancora aperti hanno dovuto dipingere di nero l'ingresso oscurando i volti attraenti delle donne. Un barbiere vicino al parco di Shahr-e Naw si lamenta che «i clienti sono drasticamente diminuiti perché i talebani dicono che bisogna farsi crescere la barba». E agli angoli delle strade gli ambulanti vendono le bandiere bianche con la professione di fede musulmana in nero, vessillo del nuovo Emirato.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, f 

Il Duemila era il futuro, è diventato una ragnatela di sfiducia. E la paura ha intaccato anche la politica. Vittorio Macioce l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Il Duemila era il futuro, è diventato una ragnatela di sfiducia. E la paura ha intaccato anche la politica. Non riesci neppure a contarli i giorni. Davvero è passato tutto questo tempo? Venti anni e quasi non ci credi. Nessuno può essere lo stesso di allora. Le immagini che restano lì per sempre, come un attimo di apocalisse, con il primo aereo che decapita la torre nord e non sai che cosa stia accadendo, se quello che vedi è reale o solo una strana finzione che si ripete in tutti gli schermi del mondo e poi ancora, con solo il tempo di stupirti, l'United Airlines 175 che trancia poco più su della base la torre sud e allora sai che non è un gioco, ma qualcosa di terribile, mai visto, sta accadendo, con il fumo che oscura Manhattan e i corpi che piovono giù come manichini e le Twin Towers che in un'ora e 42 minuti si sfarinano e vanno giù come due cerini carbonizzati. Resterà uno spazio vuoto come luogo della memoria e i nomi delle 2977 vittime. L'11 settembre 2001 è la data che cambia la storia. L'America non si è mai sentita così fragile. È di fatto la fine dell'impero a stelle e strisce. Gli Stati Uniti si ritirano in se stessi, riportando la bandiera a casa. È l'immagine che ci lascia uno scrittore visionario come David Foster Wallace, che racconta la tragedia vista dalla periferia, da una cittadina del Midwest. «Tutti hanno esposto la bandiera. Case, negozi. Bandierone, bandierine, bandiere delle normali dimensioni di una bandiera. Un sacco di case da queste parti hanno quelle speciali aste inclinate accanto alla porta d'ingresso, di quelle che per fissare il supporto servono quattro viti belle grosse. E migliaia di quelle bandierine-su-bastoncini che si vedono in mano alla gente durante le parate: in certi giardini se ne contano a decine, dappertutto, come se fossero spuntate durante la notte. Quelli che vivono sulle strade di campagna attaccano le bandiere alle cassette della posta sul bordo della carreggiata. Certe macchine le portano infilate nella griglia del radiatore o attaccate all'antenna con lo scotch. Certi raffinati hanno veri e propri pali per l'alzabandiera; le loro bandiere pendono a mezz' asta. Parecchie ville intorno a Franklin Park o alla periferia est hanno enormi bandiere multipiano che scendono a mo' di gonfalone per tutta la facciata». L'America si ritira e quello che resta è un mondo senza pace. È così che la paura entra come un rumore bianco nella vita quotidiana della civiltà occidentale. Rudy Giuliani, allora sindaco di New York, racconta il momento in cui quel sentirsi inerme si è insinuata nella mente di ognuno di noi e non se ne è più andata. «Sentii che qualcuno mi afferrava e mi trascinava via, obbligandomi a correre come si fa con gli animali o i cavalli: andiamo via. Avremo corso per circa un terzo di isolato, e io non sapevo nemmeno cosa stesse succedendo. Mentre mi trascinava via gli dissi di fermarsi. Ci girammo e vidi un'immensa nube salire dal cratere. Sembrava davvero un attacco nucleare». La paura, la paura cambia tutto, spazza via il Novecento e ti porta a sentire l'altro, il prossimo, come un'insidia. Tutto ciò che non conosci è una minaccia. L'unica salvezza è il controllo, capillare, profondo, rabdomantico, giustificato. Il Duemila doveva essere il futuro e invece ci ha stretto in una ragnatela di sfiducia. L'unica preoccupazione è non lasciarsi sorprendere dall'inatteso. Il controllo si prende il centro della scena. La politica promette sicurezza ed è quello che alla fine tutti pretendono. La sicurezza come valore fondante, non solo nei confronti di un nemico più o meno invisibile, ma sicurezza verso ogni minaccia che può arrivare dal solo fatto di essere vivi. È la garanzia, chiesta allo Stato, di raggiungere il rischio zero, quasi a sfidare la certezza della morte. La sicurezza che finisce per mettere fuori legge l'imprevisto della vita. La sicurezza come tempo sospeso dove nulla deve mutare. È il sogno disumano della fine della storia. Ci sono le premesse per la distopia di Aldous Huxley. È quello che vede il filosofo pop Bernard-Henri Lévy. «Siamo in un nuovo mondo. Ricordo, non senza una certa nostalgia, quello antico in cui si poteva andare all'aeroporto all'ultimo minuto, beffarsi delle religioni senza rischiare la vita, fare la spesa in un magazzino kasher o, volendo, celebrare una messa in chiesa, entrare in un luogo pubblico senza perquisizione della borsa». È che tutto questo ha un prezzo e non è basso. La sicurezza si paga con una moneta sacra. Si paga con la libertà. I diritti individuali diventano così sacrificabili, per scacciare dagli altri l'incertezza. La tua libertà finisce dove comincia la paura degli altri. È così che si sposta un po' più in là l'architrave della civiltà occidentale. Non è più inalienabile. Non ti appartiene. È in prestito.

La paura corrode anche la democrazia. Se non ti fidi dell'altro non gli riconosci neppure le idee non codificate. Non c'è più spazio per i cani sciolti, ma il diritto di parola è concesso solo al potere o alle masse battezzate come popolo, e non importa se sono solo una minoranza chiassosa e virtuale. La realtà è fuggita, lasciando spazio ai social, dove il prossimo non ha carne e ossa. È umanità scarnificata e disossata. Vittorio Macioce 

La rivincita Usa che diventò un autogol: armare Osama per vendicarsi dei sovietici. Paolo Guzzanti l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Tutto era cominciato molto prima. L'inizio della storia che ricordiamo perché accadde l'undici settembre 2001, va cercato in quel che era successo un altro ventennio prima, quando i sovietici invasero l'Afghanistan. Fu una catena di eventi che tendiamo a dimenticare anche perché comincia ad essere anziana la generazione che ricorda l'invasione sovietica del 1979. L'Urss di Leonid Breznev decise di entrare con le sue armate corazzate nel confinante Afghanistan su cui intendeva mantenere il controllo, sentendosi minacciata dall'incipiente rivoluzione islamica. In quello stesso anno lo Scià di Persia era stato defenestrato e in Iran si era instaurato il regime dell'Ayatollah Khomeini e noi occidentali ancora non riuscivamo a distinguere sciiti e sunniti. Quando le truppe sovietiche dilagarono in Afghanistan, in America si fece strada un'idea che poi risultò pericolosissima anche se vincente: rendere pan per focaccia ai sovietici per la loro strategia anti-Usa durante la guerra del Vietnam che si era conclusa nel 1974. I sovietici avevano sostenuto con i cinesi l'esercito regolare del Vietnam del Nord e i guerriglieri del Sud, portando gli americani ad una amara sconfitta. Adesso le parti si erano rovesciate: gli americani aiutavano potentemente gli afghani a resistere contro i sovietici portando loro armi modernissime e micidiali come il lanciamissili a spalla Stinger, capaci di abbattere elicotteri ed aerei. I sovietici subirono una disfatta terribile con più di cinquantamila morti e gli afgani festeggiarono la vittoria attribuendola soltanto alla propria superiorità morale di combattenti senza paura di morire. Fra quei combattenti c'era anche un ricchissimo imprenditore edile arabo saudita, Osama bin Laden, rampollo di una famiglia con molte attività negli Stati Uniti. Osama aveva portato in Afghanistan i suoi macchinari edili per costruire tunnel, mura, difese efficaci ed aveva maturato una avversione radicale contro gli americani che avevano posto basi militari in Arabia Saudita, il suo Paese, per proteggerlo dalle mire irachene e dai nuovi fondamentalismi. Osama era stato indicato come uno degli ispiratori del primo grave attentato al World Trade Center nel 1993: un ordigno nei garage del complesso avrebbe dovuto far crollare entrambe le Torri. Un lavoro di ingegneria distruttiva andato male, ma da cui tutto il mondo aveva già imparato che quel centro di commercio mondiale erano stati assunti come simboli del capitalismo degli stessi Stati Uniti e dell'intero mondo occidentale. I servizi segreti americani cedevano poco al ruolo di leader di Osama finché non fu troppo tardi. Il ricco saudita prima di andare in Afghanistan aveva avuto un ruolo in Sudan dove aveva formato un primo nucleo di combattenti islamici. Ed era stato lui ad organizzare le brigate internazionali islamiche che accorsero da tutto il mondo per combattere in Afghanistan. Tecnicamente, Osama bin Laden e gli americani erano stati dunque alleati durante la guerriglia antisovietica, ma l'imprenditore saudita che aveva spesso concluso contratti in America era rimasto sconvolto quando il suo Paese aveva chiesto e accolto un contingente americano sul suolo patrio, meta dei pellegrinaggi islamici da tutto il mondo. Osama, dopo aver espulso i sovietici, voleva impedire agli americani di cantare vittoria nel suo mondo. Per farlo, decise di recapitare agli americani il più potente messaggio che fosse in grado di ristabilire le distanze e costituire allo stesso tempo una dichiarazione di guerra santa jihad permanente. Tutti ricordano le immagini e quelle sono indelebili e sempre visibili. Io di quella giornata e delle tante successive ricordo il sapore dell'aria che dopo un mese era piena di un pulviscolo duro e marcio che conteneva atomi di macerie di cemento e ossa umane, carburante e combustione di corpi. Tutti ricordiamo l'eroico Rudolph Giuliani, sindaco di New York, sempre nella polvere aiutando e sostenendo insieme ai giganteschi vigili del fuoco di New York, che poi scoprimmo essere quasi tutti di origine italiana. A Ground Zero per mesi mettevano foto e biglietti: avete visto la mia bambina? Avete visto i miei genitori? Qualcuno ha notizie di questa donna? Oggi in quel luogo c'è un nuovo grattacielo leggero e svettante con un ascensore che mentre si sale permette di vedere proiettata su uno schermo virtuale la storia in progress di New York e la storia dell'homo faber occidentale che l'ha creata come monumento all'intelligenza laboriosa, all'arte, al rispetto umano. Bin Laden, vecchio e malato, barricato nel suo compound, fu fatto trucidare senza processo dal presidente Obama, che mandò una squadra di esecutori venuti a ucciderlo. Aveva accanto un Kalashnikov che non fece in tempo a impugnare e morì così, senza combattimento e senza gloria. Il suo corpo fu ridotto in cenere e le ceneri vennero disperse in mare dagli americani per impedire pellegrinaggi e qualsiasi tipo di speculazione. Come testimone, posso dire che tutta la numerosa popolazione araba musulmana americana e in particolare di New York fu assolutamente solidale con la nuova patria: ogni casa e ogni moschea ce ne sono più di cento fra l'aeroporto JFK e la città - aveva una bandiera americana a mezz' asta e il presidente Bush subito dopo l'attentato andò nei luoghi di culto islamico per rassicurare i suoi concittadini che l'America sapeva distinguere e non si sarebbe lanciata in una crociata. Poi però la guerra afghana fu anche una crociata, finita nel peggiore dei modi, come abbiamo visti in questi giorni. Paolo Guzzanti 

Lo spartiacque che cambiò l'America. Intervista a Massimo Teodori: “Le Torri Gemelle bruciavano e fu chiaro: la Storia non era finita”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'11 Settembre 2021. «L’attacco dell’11 settembre 2001 ha segnato uno storico spartiacque per l’America, quindi per il mondo intero, come lo erano state altre date simbolo del Novecento: Sarajevo nel 1914 con l’esaurirsi della Belle Epoque, la Bomba atomica nel 1945 con la sanzione dell’egemonia americana tra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, e la caduta del Muro nel 1989 quando finì il comunismo internazionale di stampo sovietico e non si parlò più del mondo bipolare che aveva dominato per mezzo secolo. Un nuovo attore irruppe sulla scena mondiale, il terrorismo islamista». Ad affermarlo è Massimo Teodori, professore di Storia e Istituzioni degli Stati Uniti. Tra i suoi libri sull’America, ricordiamo: Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio, 2017); Obama il grande (Marsilio, 2016); Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Mondadori, 2004) e, dal 20 maggio in libreria, Il genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale (Rubettino, 2020).

Undici Settembre 2001. L’America scopre di essere vulnerabile a casa sua. Le Torri Gemelle, il Pentagono. Professor Teodori, cosa cambia in quel momento per gli Stati Uniti?

Dal punto di vista della politica estera, cambia il fatto che da una situazione in cui si ritenevano l’unica potenza internazionale, devono prendere atto che c’è un nuovo attore globale che è il terrorismo islamista, con caratteristiche nuove rispetto agli scontri frontali a cui gli Stati Uniti erano abituati fino ad allora, prima con la Seconda guerra mondiale e soprattutto con il blocco sovietico-comunista. Quel che accadde l’11 Settembre 2001 comportò una revisione delle priorità in politica estera e anche della mentalità rispetto alla scena internazionale, nel senso che quell’avversario era qualcosa di impalpabile che poteva pesare anche all’interno degli Stati Uniti, cosa del tutto nuova nella storia americana. Per altri versi, soprattutto attraverso i circoli neocon allora dominanti attorno a George W. Bush, fu fomentata la paura che il nemico era non solo alle porte ma era addirittura penetrato dentro la società americana. Qualche anno dopo, con la presidenza di Donald Trump, sarà emesso un decreto che vieterà l’ingresso negli Stati Uniti ai musulmani provenienti da 6 Paesi, un fatto assolutamente nuovo nella politica immigratoria degli Stati Uniti che è stata sempre aperta, salvo i problemi delle quote che nel corso del tempo sono variate. Quella legge di Trump ha la sua radice nel pensiero del circolo dei neo conservatori, quello che mise in campo le strategie delle campagne militari in Afghanistan nello stesso 2001 e nel 2003 in Iraq, conclusesi entrambe, subito quella dell’Iraq e adesso quella dell’Afghanistan, in maniera disastrosa per l’immagine e il potere degli Stati Uniti nel mondo. L’11 settembre rese evidente che quel terrorismo era divenuto un protagonista della politica mondiale, un’inedita potenza senza territorio, eserciti riconoscibili, e regole militari. Il mondo che si immaginava pacificato, in realtà non lo era affatto: una nuova sfida, potente e inafferrabile, incombeva non solo sull’Occidente ma ovunque. Avevano assunto una forma nuova i conflitti ideologici sotto la specie religioso-integralista, e quelli politico-militari tra Est e Ovest che avevano di mira l’egemonia nel mondo musulmano. La “Storia non era finita”, come aveva sostenuto, con un titolo a effetto, un noto politologo americano.

Vent’anni fa sull’onda degli attacchi alle Torri Gemelle iniziò l’operazione militare in Afghanistan come guerra al terrorismo qaedista. Ma su quell’idea s’innestarono poi altre narrazioni, come l’esportazione della democrazia e del modello occidentale. Guardando alla storia di questi vent’anni, è corretto parlare di un fallimento culturale e non solo politico-militare?

Quello politico-militare è il fallimento di una determinata politica, quella che allora impostarono i neocon. I neocon che avevano a quel tempo loro esponenti come ministro della Difesa e Vice presidente degli Stati Uniti. Molti di quelli che facevano parte di quel circolo provenivano niente meno che dalla sinistra trotzkista, cioè dalle fila di chi riteneva che il mondo potesse essere dominato da una minoranza che usava la forza per imporre le proprie idee. Questo particolare, che non è stato sottolineato se non allora, è molto rilevante proprio perché la mentalità dell’esportazione della democrazia, che faceva il paio con l’esportazione della rivoluzione che non c’era più, s’intrecciava con i concreti interessi di carattere economico, industriale, di alcuni dei membri del governo Bush, soprattutto nel settore militare e nel petrolio.

Vent’anni fa fu un “nuovo inizio” per l’America. Quali ne furono i tratti peculiari?

Vent’anni fa cominciava a cambiare anche l’idea che molti americani avevano di sé, inducendoli a rivedere la teoria secondo cui la storia aveva assegnato alla nazione americana una speciale missione nel mondo. Il nemico non era più il comunismo ma il terrorismo sotto specie islamista: non ci si doveva difendere più con i rifugi atomici sotto le villette suburbane, ma occorreva andare a caccia, in America e nel mondo, dei terroristi islamici che avevano osato entrare in America. Il presidente Bush Jr. fu convinto dai neoconservatori ad inviare i marines in Afghanistan e Iraq, nell’illusione di sradicare il terrorismo ma con l’effetto opposto di accendere nuovi fuochi; Barack Obama, con un’ottica opposta a quella del suo predecessore, iniziò il ritiro militare da alcuni scacchieri geo-strategici, così indebolendo la realtà dell’America come garante della sicurezza e coltivando l’illusione del dialogo con gli islamici moderati tentato all’Università del Cairo; e Donald Trump, esaltato dallo slogan “America First”, pensò che con gli accordi di Doha dell’ultimo anno avesse chiuso in Afghanistan la partita con i talebani, senza curarsi di avere posto le premesse del precipizio di questi giorni. Infine l’incolpevole Joe Biden, dopo avere dichiarato di voler tornare al multilateralismo, ha preso da solo l’avventata decisione del ritiro da Kabul, sostenuta dalla maggioranza dei cittadini, e confidando in quell’esercito locale che tutti i presidenti americani avevano lautamente ma inutilmente sovvenzionato.

Vent’anni dopo, alla luce del ritiro americano dall’Afghanistan, molto si è ironizzato sullo slogan che ha caratterizzato la campagna presidenziale di Joe Biden: “America’s back”. C’è chi l’ha trasformato in “America’s back home”. Guardando soprattutto all’Europa, tra quelli che hanno letto questo ritiro in termini di “resa”, tradimento etc. dell’America, ci sono gli stessi che in passato firmavano appelli infuocati contro l’America “Gendarme del mondo”.

C’è sempre stata presso gli europei un’alternanza di anti americanismo che di volta in volta si è espresso nell’accusa contro l’America “Gendarme del mondo”, ovvero contro l’America che rifiutava di proteggere nazioni e popoli contro i totalitarismi. Questo è un atteggiamento tipico degli europei, forse dettato da un complesso d’inferiorità verso gli Stati Uniti, che è andato avanti fin dalla Seconda guerra mondiale, cioè fin da quando l’egemonia degli Usa ha preso il posto dell’egemonia dell’Europa. Questo è il punto fondamentale. Gli europei, a sinistra come a destra, si sono rivoltati, con atteggiamenti che io chiamo “carsici”, anti americani. Carsici perché vanno e vengono, e risorgono di volta in volta. Quello che però io vorrei sottolineare, è un elemento nuovo, che si determina con le ultime tre presidenze Usa, quella di Obama, poi quella di Trump e ora quella di Biden..,

Qual è questo elemento di novità, professor Teodori?

È il fatto che la società americana non sopporta più le guerre all’estero. Non sopporta più di mandare i propri figli a morire non si sa dove e perché. Cosicché c’è stata una trasformazione anche degli eserciti americani. Nel senso che man mano gli eserciti americani sono diventati sempre più degli eserciti “a contratto” più che eserciti di americani come erano stati nella Seconda guerra mondiale, e poi anche nell’impresa della Corea e in parte fino al Vietnam. D’allora in poi gli americani non vogliono più andare all’estero a combattere. Questo ha influito notevolmente sull’atteggiamento di Obama, che ha iniziato il ritiro da alcuni scacchieri internazionali, proseguito in maniera decisa con Trump e il suo “America first”, riprendendo nella maniera peggiore una vecchia tradizione isolazionista, e adesso con Biden, il quale ha detto: meglio andare via di corsa, succeda quel che succeda, che continuare a stare lì e mandare uomini, risorse militari e spese per il contribuente americano.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Da Al Qaeda all'Isis fino ai "tale-buoni". Evoluzione del terrore. Gian Micalessin l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Kabul (Afghanistan) Quasi tremila morti negli attentati dell'11 settembre. Altri 193 alla stazione di Madrid l'11 marzo 2004. Cinquantasei, nel luglio di un anno dopo, dentro la metrò di Londra. E poi la strage di Parigi del novembre 2015 con i suoi 137 corpi straziati. Per non parlare di quelli maciullati dai camion utilizzati, nel luglio 2016, per far strage sulla Promenade d'Anglais di Nizza e - a dicembre dello stesso anno - tra i mercatini di Natale di Berlino. Fino alla decapitazione, lo scorso 28 ottobre, di tre innocenti nella basilica di Nizza, seguita, sei giorni dopo, dall'azione di un «lupo solitario» dell'Isis che a Vienna riduce in fin di vita quattro passanti. Sono solo alcuni dei massacri messi a segno dopo l'11 settembre dal terrore fondamentalista. Ma siamo sicuri sia finita? Non illudiamoci. L'addio all'Afghanistan e il modo in cui abbiamo abbandonato gli afghani non sarà indolore. La storia ce l'ha insegnato. Il terrorismo oltre ad essere l'espressione di un'articolazione violenta e fanatica dell'Islam è anche la conseguenza dei nostri errori. Al Qaeda nacque in quell'Afghanistan dove Zbigniew Brzezinski, Segretario di stato dell'era Carter, puntava a logorare l'impero Sovietico armando i mujaheddin e aiutando le legioni di militanti islamisti che, sotto guidati da Arabia Saudita e Pakistan, correvano a combattere l'Armata Rossa. Al Qaida, nella versione originale, inaugurata nei primi anni 80 da Osama bin Laden, è un'agenzia di viaggi incaricata di convogliare in Afghanistan gli apprendisti combattenti provenienti da tutto il mondo islamico. Analogamente il terrorismo dello Stato Islamico, con cui ci misuriamo dal 2014 è la conseguenza degli errori inanellati prima in Iraq, poi in Siria e, infine, in Libia. Quando, nella primavera 2003, gli Usa e le forze della coalizione abbattono il regime di Saddam Hussein i vertici dell'esercito sconfitto e la classe dirigente irachena attendono soltanto di mettersi agli ordini di Washington e ricostruire il Paese. Ma gli americani, oltre a rifiutarne la collaborazione, sciolgono l'esercito mettendo sul lastrico 500mila famiglie. Non contenti mettono al bando tutta la classe dirigente legata al partito Bath. Militari ed ex apparato bathista si trasformano così in una formidabile base di consenso per un'insurrezione islamista ferocemente anti occidentale. Proprio sfruttando quel malcontento il terrore jihadista, sconfitto in Afghanistan, rinasce in Iraq e avvia quella metamorfosi che porta molti militanti ad abbandonare Al Qaida per il nascente Stato Islamico. La prima manifestazione di quella metamorfosi è la decapitazione, nel maggio 2004, di Nick Berg, un 26enne americano rapito dalla cellula alqaidista di Abu Musab Al Zarqawi. Quelle immagini atroci postate su internet segnano la nascita di una nuova forma di terrore capace di sfruttare la dimensione virtuale della rete sia per diffondere paura e sgomento, sia per raccogliere nuovi adepti. Ai prolissi proclami di bin Laden si sostituiscono così immagini e slogan capaci di farci rabbrividire e trasferire la sensazione d'impotenza direttamente nelle nostre case. Uno sgomento che diventa ammirazione tra gli ex-sostenitori di Al Qaida e tra quelle seconde generazioni delle periferie europee alla ricerca di una rivalsa per la propria mancata integrazione. La nuova comunicazione del terrore trova piena attuazione sotto la guida di Abu Bakr Al Baghdadi, il successore di Zarqawi che nel 2014 conquista Mosul, annuncia la nascita dello Stato Islamico e si auto proclama Califfo. Ma l'emancipazione comunicativa porta con se anche quella organizzativa. Alle cellule strutturate su base territoriale, ma dirette da una regia concentrata sulla realizzazione di piani complessi si sostituisce un'organizzazione in larga parte spontaneista. Un'organizzazione che si limita ad ispirare il lupo solitario e, a volte - come nel caso delle stragi con i camion di Nizza e Berlino - non deve nemmeno fornirgli gli strumenti per l'azione. Così alle strutturate cellule alqaidiste si sostituisce un'organizzazione resa invisibile e imprevedibile dalla dimensione individuale dell'attentatore. Ma l'elaborazione di una comunicazione sofisticata capace di diventare forma organizzativa richiede una base territoriale come quella del Califfato. A garantirne la nascita contribuisce il frettoloso ritiro dall'Iraq che regala ai militanti dell'Isis - come oggi in Afghanistan ai talebani - il controllo di enormi arsenali di armi americane destinate all'esercito di Bagdad. Proprio quegli arsenali consentono al Califfato di espandersi in Siria e assimilare quei militanti jihadisti su cui l'Occidente scommetteva, invece, per far cadere Bashar Assad. Ma l'errore fatale è quello del 2011 quando Europa e Stati Uniti scelgono non solo d'ignorare il fanatismo anti-occidentale nascosto sotto le parvenze riformiste delle cosiddette «primavere arabe», ma anche di abbandonare leader come Muhammar Gheddafi, Hosni Mubarak e quel presidente tunisino Ben Alì pronti ad arginare l'avanzata jihadista Allo stesso modo oggi, dieci anni dopo, abbiamo voltato le spalle al legittimo governo afghano per inseguire l'illusione dei talebani trasformati in «tale-buoni». Un'illusione che rischiamo di pagare, purtroppo, con altre vite umane.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla 

Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere. Fiamma Nirenstein l'11 Settembre 2021 su Il Giornale. Mentre i jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei che alle 7,59 dell'11 settembre 2001 avrebbero dato fuoco al mondo, Israele era già in un bagno di sangue terrorista che l'Occidente riduceva a mere questioni territoriali. A Gilo le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Nei due giorni precedenti, due poliziotti e una decina di civili si erano uniti alle circa 1500 vittime: più o meno la metà di quelle delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida, ma il fenomeno rimase incompreso. Oggi, dopo il penoso ritiro americano dall'Afghanistan, è evidente che questo rifiuto occidentale a capire sopravvive come un pericoloso fantasma, che potrebbe risultare mortale per il mondo intero. Tanti furono gli episodi ignorati in Medio Oriente, Europa e Usa che avevano segnalato la preparazione di un attentato storico; altrettanto, seguitano ad essere equivocate anche le conseguenze dell'attacco alle Torri, come la presa del potere dei Talebani. Si disse anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali erano parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi, come lo si è detto di Hamas. Israele aveva subito attentati a migliaia ed era già da tempo una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena la sicurezza del mondo intero. Nel '95 Bibi Netanyahu in un libro metteva in guardia gli Usa: se non vi accorgete di quello che sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato. Una profezia? No, solo una visione chiara della natura ideologica, e non territoriale o sociale, del terrore. La storia di Israele fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appetito della jihad proponendo scambi territoriali e miglioramenti sociali e che la democrazia, la libertà, siano l'obiettivo di ogni uomo. Al contrario, le culture fondamentaliste islamiche disprezzano ogni libertà. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo di farla osservare. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere alle profferte di pace è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La sharia, per affermarsi, ha necessità di combattere il nemico: l'Occidente delle Torri, Israele che occupa la Ummah, la comunità islamica. Non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat, che aveva osato accettare Israele e stringerci una pace, fa parte di quella dinamica. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, dal carcere stilò la fatwa di assassinio e vent' anni più tardi la stilò per l'attacco delle Twin Towers. Per questo Bin Laden, succedendogli, accumula su di sé la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace e quella degli afghani invasi dai sovietici. È la jihad «contro i sionisti e i crociati», l'attacco per riprendersi territori o per allargare la forza della sharia. Dopo quell'attacco, i palestinesi festeggiarono con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, in piena Intifada condannò disinvoltamente il terrorismo, continuando però a sostenerlo. Oggi Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan, e i palestinesi, hanno festeggiato «il nuovo standard per la resistenza contro Israele». La loro guerra non ha niente a che fare con circostanze politiche, ma è figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale e irrinunciabile. I palestinesi hanno potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas e l'Autonomia Palestinese fanno parte dell'esercito jihadista. Per il quale solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche: «I Talebani - ha detto Musa Abu Marzuk della direzione di Hamas - hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. È una lezione per tutti i popoli oppressi» che va «assorbita» da Israele: «L'occupazione di terra palestinese non durerà e finirà». Quando Netanayhu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva presente la carta geografica del Medio Oriente e del terrorismo che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah sia da vari gruppi sunniti. La scia di sangue è lunga, dagli attacchi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani (241 morti) a quello ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. La scelta strategica era quella che proibisce all'infedele le terre islamiche. Prima e dopo, fino agli attacchi di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America, gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido dell'11 settembre. Il mondo cambiò, la «lunga guerra» al terrore formò una coalizione, i Talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria. Ma l'Isis, gli attentati nel mondo, i Talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati. La trama jihadista è paziente. Per smontarla va decrittata: un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, sostenuto da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott' acqua e non impallidisce il loro sogno. Fiamma Nirenstein

«11 settembre 2001, a New York ho assistito all’epifania della storia». L’aria divenne irrespirabile, sapeva di morte. E la città precipitò nell’orrore che solo i profughi europei avevano vissuto con il nazismo. il racconto dell’allora corrispondente dell’Espresso. Wlodek Goldkorn su L'espresso il 10 settembre 2021. Il primo ricordo non è quello della catastrofe e della fine di un mondo. Il mio primo ricordo del martedì 11 settembre 2001 a Manhattan, è di un’effimera felicità. Effimera, non a causa della Storia che cambiò il suo corso la mattina di quel giorno e trasformò l’euforia in angoscia, ma perché la felicità è sempre provvisoria. La giornata si preannunciava bellissima e non occorre citare la letteratura né certe riprese dei film di Woody Allen per raccontare il fascino di New York all’inizio dell’autunno. Dalla finestra del mio piccolo appartamento, a trecento metri dal Central Park si vedeva un cielo azzurro, un sole mite e si pregustava il profumo, quasi ineffabile, di aria tersa. Il giorno prima avevo mandato all’Espresso un articolo, scritto assieme al collega Andrea Visconti, sul tramonto della città che si credeva il centro del mondo. Fra episodi di cronaca mondana, dati economici pessimi, considerazioni di politica locale (sindaco Rudy Giuliani) e commenti su come New York (con le sue infrastrutture obsolete) assomigliasse a una persona invecchiata, dal glorioso passato che riesce talvolta a illudere chi vi cerca il futuro e la giovinezza. Ero felice perché avevo davanti una bellissima mattinata senza impegni. Decisi quindi di fare una lunga passeggiata al Central Park. E così, alle nove meno un quarto mi sono fatto rapire dalla magia e dallo stupore di fronte alla gamma cromatica delle foglie autunnali sugli alberi del Parco: dal giallo oro, al rosso sangue, al marrone scuro. A un certo punto ho deciso di chiamare il collega. Lui andava in redazione molto presto, dato che chi scrive da New York, causa fuso orario, è sempre in ritardo di sei ore rispetto a Roma. Gli ho chiesto: Andrea, ci sono novità? Risposta: «Be’, una piccola storiella, un aereo turistico, un Cessna, si è schiantato contro una delle torri gemelle. È successo alle nove meno un quarto». Ho fatto una battuta su come a New York niente funzionasse bene, neanche i controlli del traffico aereo. Ho pensato che avrei dovuto inserire la storia di quel Cessna nell’articolo mandato il giorno prima, a conferma delle nostre ipotesi e parole. E così (all’epoca non si facevano telefonate internazionali dai cellulari) tornai a casa per chiamare il giornale. Strada facendo vedevo signore che commentavano l’accaduto con i portieri degli eleganti edifici che si affacciano sul parco: «Ma com’è possibile che un piccolo aereo…».

Entrato in casa, alzata la cornetta del telefono, fatto il numero di Roma, acceso il canale tv delle news locali vidi un grande aereo (altro che Cessna) entrare nella torre Nord delle Twin Towers. Subito dopo, un altro aereo si schiantava contro la torre Sud. Non mi ricordo se l’immagine del secondo aereo era una ripresa in diretta. Mi precipitai sul viale che costeggia il Parco. Da lontano, dalla punta Sud di Manhattan si stava alzando una nuvola color grigio. Avevo capito, all’improvviso, di assistere all’epifania della Storia, in un luogo, Manhattan, che sembrava comandare il mondo, ma è sempre stato al riparo del mondo. La memoria di New York è ambivalente, così come sono capaci di ambivalenza i suoi abitanti: cinici ma propensi a gesti di solidarietà. E poi, a New York si ha uno sguardo attento sull’Europa. Da un lato è forte la nostalgia: per i cibi, per la musica e le canzoni degli antenati venuti dal Vecchio Continente. È come se gli abitanti della città avessero bisogno delle radici, lontane e altrove. Dall’altro, c’è la felicità per non essere nati oltre l’Oceano e per la sensazione della sicurezza che dà l’America. Vale specie per gli ebrei, ma non solo, in questa città, la più ebraica del mondo, dopo Tel Aviv. Ai tempi, tra gli anni Novanta e i primi del Duemila, ci si chiedeva spesso, come mai l’America non avesse portato aiuto, durante la seconda guerra mondiale, agli ebrei intrappolati in Europa. Alle persone, nate dopo la guerra, i genitori e i nonni ripetevano: qui da noi cose come quelle non possono accadere. E poi: qui non c’è guerra. I nostri soldati, quando combattono, lo fanno lontano dai nostri confini. Una città insomma, New York, che non imita l’Europa, ma la cui vita è stata plasmata, in gran parte dai profughi della catastrofe del Novecento. Figlio di profughi ebrei europei era Michael Kaufman, la mia guida nella città e negli States. Kaufman, giornalista del New York Times, era figlio di un padre comunista nella Polonia prebellica (e a lungo prigioniero politico) che se ne andò in Francia e da lì, nel 1940, riuscì con la moglie e il figlio (Michael appunto) arrivare a Lisbona per imbarcarsi su una di quelle navi che con tanti altri rifugiati raggiunsero New York. Ha girato il mondo Michael: ha raccontato le guerre in Angola, Congo, Afghanistan, è stato corrispondente in India e anche a Varsavia, negli anni Ottanta. Ma la cosa che più gli dava soddisfazione, era la rubrica che teneva sulle pagine locali del giornale e in cui raccontava i suoi incontri, sulle panchine dei parchi, con gli uomini e le donne comuni. Guardava New York con gli occhi di chi ha visto Kabul. Appena sono arrivato in città lo chiamai, lui mi invitò a casa sua. Mi servì un gin tonic, scomparve per tre minuti e tornò nel soggiorno con la copia di un reportage su un signore di una comunità rurale, nel centro degli States. Mi disse: «Questo è il ritratto dell’americano medio. È questa è la realtà che devi capire prima di narrare le gesta dei politici». Per questo Michael, scomparso nel 2010, era una guida perfetta: memoria dell’Europa, l’America dei grandi spazi e la New York di chi è uscito da casa per fare la spesa. Aveva una spiegazione plausibile di ogni questione che gli ponevo: dalla visione del mondo di George W. Bush («non ne ha») appena insediato alla Casa Bianca, alle idee di Giuliani, il sindaco che lui non sopportava («autoritario, macho, grottesco»). L’11 settembre lo chiamai nel pomeriggio. Fece elogio dello spirito degli abitanti, dei volontari, dei pompieri (ci tornerò), ma non sapeva dare una spiegazione di quello che era successo. «È crollato il mondo, quel mondo in cui sono cresciuto e che per mio padre era la terra promessa», mi disse. A metà mattinata, il World Trade Center non esisteva più. L’ammasso delle macerie aveva la forma di un gigantesco animale preistorico, sdraiato per terra: un richiamo primordiale rispetto alla tecnica del Terzo millennio. Primordiale anche perché in fondo, gli aerei, prodotto di tecnologie ipersofisticate, sono stati usati come strumenti contundenti, gigantesche asce che tagliano in due edifici, simbolo del sogno americano. Prima però, ci furono le scene che tutti conosciamo dalle immagini: gente che salta dalle finestre, i pompieri che cercano di salvare le persone intrappolate fra le fiamme e le mura cadenti. Il portiere dell’edificio dove si trovava la redazione newyorkese del Gruppo L’Espresso, verso le nove della sera, mentre uscendo lo salutavo, mi disse: «So che è un paragone inappropriato, ma quella gente che saltava dalle finestre degli edifici in fiamme, mi ha ricordato il Ghetto di Varsavia. Non credevo di vedere cose simili, qui in America». L’aria della città era diventata irrespirabile, una mescolanza di odori che sapevano di morte. Lungo i viali, dal sud e verso il nord procedevano gruppi di fuggiaschi. Erano usciti da casa per andare al lavoro vestiti delle loro divise da manager, travet, uomini e donne di finanza: giacche firmate, camicie bianche, cravatte, tailleur, scarpe italiane. Ora, con movimenti rapidi ma incerti camminavano coperti di uno strato di polvere grigia. Erano sporchi e smarriti, come lo sono i profughi che, partendo, in viaggio indossano i migliori vestiti ma poi succede qualcosa per cui in tv vediamo corpi avvolti in coperte termiche. In fondo, tutti noi siamo solo nude vite. Le tv davano altre notizie. Oltre ai due aerei di New York, un terzo, si è schiantato sul Pentagono e un quarto, dove i passeggeri si ribellarono ai dirottatori, è caduto. Il presidente Bush e tutta la leadership istituzionale degli States, è stata spostata «in luoghi sicuri», lo spazio aereo del Paese era chiuso, Manhattan, tagliata fuori dal mondo, i ponti chiusi. Bush, all’epoca, era reduce di una lunga vacanza, durante la quale si faceva fotografare mentre spaccava la legna o passeggiava per i boschi o pescava nei fiumi. Dopo il carismatico (per quanto coinvolto nella storia di una relazione illecita con una stagista) Bill Clinton, il nuovo presidente sembrava poco interessato alla politica internazionale, e anche la sua lunga assenza dalla capitale aveva un significato preciso: Washington con i suoi politicanti corrotti e maniaci sessuali è inutile, gli americani sono un popolo capace di autogovernarsi con onore e virtù, senza l’oppressivo potere statuale. La sera stessa dell’11 settembre fu costretto a imparare in fretta le nozioni di geografia e geopolitica e promise vendetta contro l’Afghanistan, il Paese in cui i talebani ospitavano Osama Bin Laden, l’ideatore dell’attacco all’America. Più tardi alla lista si sarebbe aggiunto l’Iraq di Saddam Hussein. Intanto gli americani scoprivano l’Islam wahabita dell’Arabia saudita, e venivano a sapere che gli alleati sauditi non erano amanti della democrazia né della laicità e che anzi è da quel Paese che venivano gli ideatori degli attentati. Nelle tv non si parlava d’altro, e tutti erano sorpresi di scoprire che la dimensione religiosa fosse così importante in politica internazionale. Si entrava in un mondo nuovo, ma forse quell’universo si era già manifestato nel 1979, quando la religione fu il motore che portò al rovesciamento dello scià dell’Iran (così pensava il grande reporter Ryszard Kapuscinski), o forse la svolta arrivò con la guerra in Bosnia nei primi anni Novanta, dove si capì che la caduta del Muro di Berlino era foriera dei conflitti causati dall’ossessione identitaria. New York cambiò volto. Nella città ferita la gente aiutava l’un l’altro. Si donava sangue, soldi per i feriti e per le famiglie delle vittime, fondi per equipaggiare i pompieri assurti al rango dei nuovi eroi. Nella metropolitana le persone guardavano l’uno l’altro negli occhi, un gesto considerato fino al giorno prima, sconveniente e aggressivo. New York si faceva amare, suscitava sentimento di tenerezza e chiunque fosse allora lì, la considera da allora la sua città. Noi passanti, ci sorridevamo, ci scambiavamo segni di incoraggiamento per strada. Stare a Manhattan significava resistere. Quando riaprirono i ponti, presi il treno per andare a Princeton e fare un’intervista. Passato accanto al cratere del Ground Zero, dove c’erano le torri gemelle, nel vagone c’era silenzio: chi guardava le macerie, chi teneva gli occhi bassi, molti piangevano. Uscire dall’Isola, poi dava una sensazione sgradevole: di tradimento, di aver abbandonato una postazione da presidiare, anche se per poche ore, come lasciare un malato ricoverato in ospedale. Nei giorni seguenti in tutte le finestre apparirono piccole bandierine a stelle e strisce, qualche volta candele in ricordo delle 2.997 vittime ufficiali degli attentati. In alcune vetrine dei negozi veniva esibito il manifesto di Norman Rockwell in cui l’artista illustrava le «quattro libertà» elencate dal presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1941, mentre l’America si avviava alla guerra per sconfiggere il Male. Roosevelt diceva che ogni persona dovrebbe godere di «Libertà di espressione, Libertà di religione, Libertà dal bisogno e dalla miseria e Libertà dalla paura». Poi, tutto mutò. I simboli di solidarietà, di fratellanza cambiarono di segno. Non si parlò più dell’America vittima ma degli States che avrebbero dovuto portare la democrazia nel mondo, sulla punta delle baionette. A vent’anni esatti da allora, guardando Kabul in mano ai talebani e con gli occidentali in fuga, sembra che la Storia abbia fatto un giro di 360 gradi.

11 settembre 2001, il mondo cambia per sempre: 20 anni in foto e date. Le Iene News il 10 settembre 2021. Vent’anni fa, con gli attentati dell’11 settembre 2001 Al Qaeda fa crollare le Torri Gemelle di New York, provocando quasi 3mila morti nell’attentato tragicamente più noto della storia. Poche settimane dopo gli Stati Uniti invadono l’Afghanistan per dare la caccia al leader del gruppo, Osama Bin Laden: la guerra è finita pochi giorni fa. Ecco la cronistoria di quanto accaduto in questi 20 anni, fino all’Afghanistan oggi. L’11 settembre alle 8.46 del mattino, orario di New York, il mondo è cambiato per sempre. Anche se non lo aveva capito subito, chiedendosi per quale ragione un aereo avesse centrato la Torre Nord del World Trade Center, uno dei simboli economici e finanziari degli Stati Uniti d’America. Ci sono voluti altri 17 minuti per capire che non si era trattato di un incidente. Il tempo necessario al volo di linea United Airlines per colpire la Torre Sud. E poi l’impatto del terzo aereo sul Pentagono, il crollo delle due torri, i 2.977 civili innocenti uccisi nell’attento tragicamente più noto della storia dell’umanità. Dopo quel giorno tutto è cambiato. Il clima di inevitabile trionfo seguito alla caduta del Muro di Berlino, la felicità di una società senza nemici da combattere, la “fine della storia” predetta dal famoso politologo americano Francis Fukuyama: tutto era svanito nella polvere e nelle macerie delle Torri Gemelle. “Gli attacchi terroristici possono minare le fondamenta dei nostri edifici più grandi, ma non possono toccare le fondamenta dell’America. Possono piegare l’acciaio, ma non possono piegare l’acciaio della determinazione americana”, reagì nell’immediato il presidente degli Stati Uniti Bush jr, fino a quel giorno considerato un isolazionista in politica estera. Meno di un mese dopo, il 7 ottobre 2001, la Nato dà inizio al conflitto più lungo della storia degli Stati Uniti: la guerra in Afghanistan. O, come veniva chiamata allora, la “guerra al terrore”. L’obiettivo era Al Qaeda, l’organizzazione terroristica guidata da Osama Bin Laden responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle. Il conflitto è terminato il 30 agosto 2021, con il ritiro dell’ultimo soldato americano. Osama Bin Laden è stato ucciso da un commando dell’esercito statunitense il 2 maggio 2011 in Pakistan, dove si era rifugiato dopo l’invasione dell’Afghanistan. Oggi Al Qaeda non esiste (quasi) più. La guerra però si è conclusa senza vincitori né vinti: ha provocato circa 150mila morti civili e lasciato il paese nuovamente nelle mani dei Talebani. 

11 libri per capire l’11 settembre. L’Undici settembre ha aperto una ferita in quello spazio geopolitico e culturale che definiamo “Occidente”. Da vent’anni – senza riuscirci – cerchiamo di scendere a patti con l’incertezza e il caos lasciatici in eredità dall’evento più sconvolgente del nuovo millennio: ecco 11 libri per provare a orientarci in questo disordine. Giuseppe Luca Scaffidi l'11/9/2021 su fanpage.it. L’Undici settembre ha aperto una ferita in quello spazio geopolitico e culturale che definiamo “Occidente”. Da vent’anni – senza riuscirci – cerchiamo di scendere a patti con l’incertezza e il caos lasciatici in eredità dall’evento più sconvolgente del nuovo millennio: ecco 11 libri per provare a orientarci in questo disordine. L'11 settembre ha aperto una ferita profonda non soltanto nella storia di quello spazio geopolitico e culturale che definiamo "Occidente", ma nella società globalmente intesa; da vent'anni – puntualmente senza riuscirci – cerchiamo di scendere a patti con l'incertezza lasciataci in eredità dall'evento che ha segnato un prima e un dopo nelle nostre modalità d'interpretare ciò che ci circonda. Un turning point che ha stravolto, spesso in senso peggiorativo, i rapporti con quelle culture che per qualche motivo percepiamo come lontane (e verso le quali, purtroppo, continuiamo a nutrire un certo senso di sospetto, al netto di tutti i discorsi sul multiculturalismo e i doni della globalizzazione di cui ci siamo riempiti la bocca per vent'anni), inaugurato una nuova stagione di terrore (reale o percepito che fosse), cambiato per sempre il nostro legame con le immagini (lo schianto del primo aereo è la vera e propria istantanea del nuovo millennio) e plasmato in maniera indelebile le prassi e i riti del racconto, scatenando una spasmodica ricerca della "verità". Un solo 11 settembre, tante "verità". Sì, perché di "verità", da vent'anni questa parte, se ne sono rincorse tante, alcune in palese antitesi tra loro, come testimoniato dall'impressionante quantità di inchieste, contro-inchieste e dispute intellettuali tra debunker fiorite nell'ultimo ventennio. Alcune hanno rappresentato dei tasselli importanti – come ad esempio Fahrenheit 9/11, il documentario che valse a Michael Moore la Palma d'oro nel 2004, che ha spiazzato l'opinione pubblica globale gettando nuova luce sul flirt costante che ha caratterizzato i rapporti tra le famiglie Bush e Bin Laden; nella stragrande maggioranza dei casi, però, la volontà di mestare nel torbido per disvelare "quello che non ci hanno detto" ha prodotto esiti per niente edificanti, incentivando la realizzazione di decine di contro-inchieste a tinte complottiste e fondate su premesse che, a essere gentili, potremmo definire "intellettualmente disoneste" (da David Icke al nostrano Massimo Mazzucco). Questi sforzi hanno avuto un solo scopo: legittimare un'oggettività totalmente pretestuosa che, di fatto, ha finito per avvelenare il dibattito pubblico. Come orientarsi, quindi, in questo labirinto di narrazioni che, spesso, finiscono per cozzare tra loro? Forse una soluzione può essere quella di partire da un buon libro: ecco undici opere, tra narrativa e saggistica, utili per provare a capire l'11 settembre.

Le altissime torri. Vincitore del premio Pulitzer per la saggistica nel 2007 Le altissime torri, settima fatica letteraria di Lawrence Wright, giornalista e storica firma del New Yorker, è in realtà uno strano (ma efficacissimo) ibrido a metà strada tra un romanzo postmoderno e la sceneggiatura di una puntata di Black Mirror . Con ogni probabilità, la migliore ricognizione possibile su al-Qaeda, dalla sua ascesa alla sua caduta, scandita da inestimabili scandagli che consentono a chi legge di orientarsi nella complessità della galassia jihadista.

Molto forte, incredibilmente vicino. Il secondo romanzo di Jonathan Safran Foer, pubblicato nel 2005, è stata una delle prime opere di finzione ad assumersi il fardello di affrontare il trauma di una nazione. La toccante vicenda di Oskar Schell, un bambino di 9 anni che è rimasto orfano in seguito all'attentato, ha aiutato una generazione nell'elaborazione di un lutto condiviso.

New York, ore 8.45. Curata da Simone Barillari, questo volume raccoglie alcuni dei migliori articoli pubblicati nei giorni successivi alla tragedia delle Torri Gemelle su tre delle testate americane più prestigiose – New York Times, Washington Post e Wall Street Journal – e poi premiati dal Pulitzer. Un libro importante soprattutto per acquisire un punto di vista interno al dramma, tramite i resoconti dei sopravvissuti e i dubbi sulla corresponsabilità dell’amministrazione Bush, che secondo la maggior parte degli analisti avrebbe potuto evitare la catastrofe.

11 settembre, io c'ero. L'inestimabile testimonianza di Giorgio Radicati, all’epoca console italiano a New York, che in queste pagine prova a far rivivere il dramma di quei momenti attraverso i suoi occhi.

L'uomo che cade. Forse il romanzo definitivo sull'11 settembre: nello spazio di 260 pagine, uno dei più affermati autori postmoderni al mondo prova a interpretare il sentimento di una grande nazione che, in pochissimi secondi, si è scoperta vulnerabile. Per farlo, DeLillo mette in campo tutte le armi che ha a disposizione, provando a fornire un punto di vista interno ai due poli interni al trauma: le inquiete solitudini della famiglia di un sopravvissuto al crollo delle torri e la paradossale normalità di un terrorista che si prepara a diventare un martire.

L'impero del terrore: il cinema horror statunitense post 11 settembre. L'eredità dell'Undici settembre ha, ovviamente, influenzato nel profondo anche le arti, su tutte la Settima: infatti, anche il cinema americano è cambiato da allora, e con esso l'horror, un genere che, sin dalle sue origini, si è rivelato capace di assorbire e tradurre in fotogrammi terrificanti le paure più profonde di un intero Paese. Il libro di Antonio José Navarro, critico cinematografico spagnolo di consolidata fama, prova a reinterpretare la storia dei film dell'orrore statunitensi prodotti dopo il crollo delle Torri.

Da Berlino a Kabul. La lunga scia di sangue dell'11 settembre. Dopo vent'anni e lunghe ore di riflessione e studio, lo scrittore e ricercatore genovese Pietro Ratto racconta alcuni retroscena sull'attentato alle Torri Gemelle, rileggendo l'evento anche alla luce della presa del potere da parte dei Talebani.

11 settembre. Le ragioni di chi? Il più grande punto di cesura del nuovo millennio letto attraverso la lente critica di uno dei più grandi intellettuali del secolo, da sempre animato da un punto di vista non allineato: il libro raccoglie i migliori articoli che Noam Chomsky ha dedicato all'Undici settembre.

Diplopia. L'immagine fotografica nell'era dei media globalizzati. Dicevamo che l'Undici settembre ha stravolto in maniera definitiva il nostro rapporto con le immagini. Questo processo non ha riguardato soltanto il cinema, ma anche la fotografia: in Diplopia (termine che indica un disturbo visivo per cui si percepiscono due immagini di un solo oggetto), lo storico del settore Clément Chéroux ragiona sul nuovo paradigma che segnò il foto-giornalismo nei 9 anni che seguirono l'Undici settembre.

Undici settembre. Contro-narrazioni americane. Una raccolta eterogenea di saggi, poesia e racconti scritti dalle personalità più innovative e influenti della narrativa, dell'arte e della narrativa americana contemporanee, da Don De Lillo a Paul Auster, da David Foster Wallace a Laurie Anderson.

2001. Un Archivio. Uscito da qualche giorno per Manifestolibri, questo breve saggio (disponibile soltanto in Ebook) è il terreno in cui un'intellettuale di primo piano come Ida Dominijanni, all'indomani della presa del potere in Afghanistan da parte dei Talebani, prova a elencare tutti i fallimenti che hanno caratterizzato quella "Guerra globale al terrore" che, stando alle parole dei leader occidentali, avrebbe dovuto produrre libertà, uguaglianza e ricchezza.

La Cronaca di un’Infamia.

Attacco alle Torri Gemelle, l’orrore in onda come mai prima. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2021. Le torri del Word Trade Center in fumo, il Pentagono colpito da un aereo trasformato in bomba, la gente che fugge spaventata. Un incubo seguito in diretta da telecamere sbigottite. Mentre seguivo la diretta delle celebrazioni dell’11 settembre a New York, a un tratto le immagini sono sparite e mi sono trovato dov’ero vent’anni fa. È una sensazione difficile da descrivere, come se riaffiorasse il ricordo della prima volta che la Storia greve, sanguinosa e maldestra ti sfiora. Mi trovo quasi per caso nella redazione del «Corriere» quando un aereo colpisce la prima delle Torri Gemelle: ricordo lo stupore, le prime supposizioni (si parlava di un incidente), l’incredulità dei giornalisti presenti. Poi il salto brusco, il momento di sospensione prima che il terrore celato si impadronisca di tutti: il secondo aereo sta portando «a buon fine» la sua missione di morte. Sento una mano sulla spalla: è il direttore Ferruccio de Bortoli che cerca di organizzare il lavoro: «Vai a casa e scrivi cosa trasmettono le tv straniere». Una folle corsa in bicicletta per immergermi in un grande shock visivo senza frontiere. L’orrore va in onda come mai era andato: la torre del Word Trade Center in fumo, il Pentagono colpito da un aereo trasformato in bomba, la gente che fugge spaventata, disperati che si buttano dai grattacieli per sfuggire alle fiamme, le torri che crollano, l’angoscia dei soccorritori, la polvere, tanta polvere, l’America sotto tiro. E non si sa da chi. E non si sa quante migliaia di vittime si trovino intrappolate sotto le macerie. È solo angoscia, angoscia incandescente. È solo fragilità. Ricordo ancora alcuni titoli che incorniciavano le immagini: «America Under Attack», «Terror in America». Ma non è un film, è un incubo, una terribile realtà seguita in diretta da telecamere sbigottite. Le televisioni — dieci, venti, cento canali — trasmettono immagini d’orrore senza sapere chi le abbia provocate, senza conoscere le conseguenze di questo stato d’angoscia. In diretta stava passando l’angelo della morte e non sapevamo cosa potesse diventare la nostra vita, dopo il suo passaggio.

11 settembre 2001: cosa stavano facendo i campioni dello sport quel terribile giorno di 20 anni fa? Veronica Ortolano l'11/09/2021 su Notizie.it. Furono ore di fuoco per diversi atleti dello sport: da Cristiano Ronaldo, passando per Rossi e arrivando a Totti. Vediamo nel dettaglio. Anche per molti campioni dello sport l’11 settembre 2001 fu un giorno di fuoco. All’epoca, Cristiano Ronaldo era giovanissimo. Aveva soli 16 anni e nella sua prima intervista ha raccontato di essere rimasto sconvolto alla notizia dell’attentato alle Torri Gemelle. Cristiano era elettrizzato per la sua prima intervista. Quel pomeriggio di settembre a Praça Marquês de Pombal, a Lisbona, faceva ancora tanto caldo. L’intervista era stata fissata con un inviato di SportTV per dopo pranzo. In quel periodo Cristiano era già una stella nell’Accademia dello Sporting e aveva da poco firmato il suo primo contratto da professionista. Alloggiava per quell’estate in un piccolo hotel del centro, in camera con Miguel Paixao, in compagnia come tutti i veri 16anni della loro amata playstation. Ronaldo racconta delle sue giornate, impegnate tra gli allenamenti e le passeggiate. Confessa ridendo di non guadagnare chissà quanto, circa 400 euro al mese, gestiti interamente dalla sua adorata mamma Dolores: “Mia madre tiene tutti i miei soldi in banca, quando ne ho bisogno, glieli chiedo. Si occupa lei di tutto”. È proprio mentre Ronaldo sta raccontando ciò, che l’attenzione di tutti ricade su ciò che la tv sta trasmettendo: sono le 14.05, tenendo ovviamente conto del fuso orario del Portogallo che è di un’ora indietro rispetto all’Italia. Il secondo aereo si è appena schiantato sull’altra torre del World Trade Center. A 20 anni esatti dall’attentato delle Torri Gemelle molte cose sono cambiate nella vita di Cristiano Ronaldo: non vive più in un anonimo ostello e a New York è proprietario di un appartamento del valore di 18 milioni di dollari. Se Ronaldo assisteva in diretta all’attentato, sconvolto da quello che i suoi occhi stavano vedendo, contemporaneamente Lionel Messi, invece, era di ritorno dalle vacanze estive. Roger Federer si trovava a New York fino a pochi giorni prima dell’attacco terroristico, che portò a quasi tremila vittime. Federer ricorda che: “Ero al National Tennis Center di Biel e mi allenavo in palestra. Ho ricevuto un messaggio sul telefono e sono corso alla tv: non potevo credere a quello che stava succedendo, che qualcuno potesse anche soltanto immaginare di fare una cosa del genere. È stato uno shock”. Sconvolgente, invece, pensare che le finali di Flushing Meadows si svolsero  nelle vicinanze della tragedia: le sorelle Williams scesero in campo l’8 settembre, Lleyton Hewitt e Pete Sampras il 9. Insomma, a meno di 48 ore dalla tragedia. Salvo, infatti, per miracolo il campione australiano di nuoto, Ian Thorpe, che era diretto alle Twin Towers e fu salvato da una semplice distrazione: aveva dimenticato la macchina fotografica in hotel ed era tornato a prenderla. Forse un sopravvissuto in questa catastrofe c’è stato. E i campioni italiani? All’Estoril era una solita domenica sportiva e Valentino Rossi aveva aggiunto altri importanti punti in classifica, verso il primo trionfo mondiale nella classe regina. Gli uomini di Fabio Capello era, intanto, freschi di scudetto ed erano impegnati contro il Real Madrid dei Galacticos. Francesco Totti era al debutto in Champions, insieme ad Antonio Cassano e Vincenzino Montella, intervistati nel decennale della strage: “Eravamo basiti, incollati allo schermo, come tutti. Furono momenti di sgomento, ma noi dovevamo anche pensare al Real… e invece arrivammo allo stadio discutendo solo delle notizie che provenivano da New York”. Franco Carraro, allora presidente della Lega, aveva informato l’Uefa della necessità di rinvio, tuttavia da Nyon non ne vollero sapere e si optò solo per il lutto al braccio e un minuto di silenzio. Solo la mattina seguente, l’Uefa decide per il rinvio degli altri match di coppa in programma, compreso quello della Juventus. La squadra si organizzò per il rientro in Italia, su un aereo privato, sul quale dovettero fare i conti con uno scherzo: il centro commerciale al fianco del loro hotel si chiamava World Trade Center. Qualcuno aveva comunicato alla polizia che sarebbe saltato in aria, con una bomba e questo gettando nel panico i giocatori, tra cui lo stesso Alessandro Del Piero, che raccontò: “Sulle Twin Towers c’ero stato due mesi fa, pazzesco pensare che non ci siano più. Meglio non giocare, sicuramente: nessuno di noi è riuscito a concentrarsi sul calcio. E poi, magari fermarsi è un segnale che può servire”.

Anna Lombardi per la Repubblica l'11 settembre 2021. «Il mio 11 settembre è tutto in una scatola. C’è una vecchia agenda, biglietti da visita, il badge per entrare nel mio ufficio, al 42esimo piano della Torre Sud, sì, la seconda a essere colpita. Giornali di quei giorni. E un disegno di mio figlio Jacopo che aveva 8 anni. Impressionato dai miei racconti tratteggiò i grattacieli in fiamme e la mia fuga. Un crogiuolo di memoria e dolore. Non lo rivisito quasi mai». Ruggero De Rossi, 58 anni, nato a Roma ma cittadino americano, economista oggi consulente del Dipartimento del Tesoro Usa, ha riaperto quella scatola per noi. Vent’anni fa era nell’inferno del World Trade Center, dove morirono 2753 persone. «Potevo essere uno di loro».

Era una bellissima giornata: tutti i sopravvissuti iniziano così il loro racconto...

«Forse l’ultima davvero bella della mia vita a New York. Da allora il cielo limpido non mi ha più dato serenità. In America da sei anni, ero al top delle mie ambizioni: gestivo un portafoglio miliardario come responsabile degli investimenti internazionali di Oppenheimer Funds. Quella mattina avevo guardato da casa l’andamento dei mercati. Era tutto tranquillo e persi tempo a scrivere una mail arrivando in ritardo. Ero appena entrato nella Torre Sud, quando il primo aereo si schiantò sull’edificio accanto. Un fiume di gente si riversò nella lobby: pensai a un attacco armato da terra, poi mi accorsi che dall’alto cadeva di tutto». 

Che cosa fece?

«Gli ascensori erano intasati. E la polizia aveva circondato l’edificio bloccando le porte. Avevamo fatto delle esercitazioni, ci avevano insegnato a uscire e lasciare tutto dietro: fu quello che salvò i miei colleghi, abbandonarono borse e telefonini e imboccarono le scale: ci vollero venti minuti a venir giù ma si salvarono. Gli impiegati di Cantor Fitzgerald, nostri vicini, fecero il contrario. Restarono alle scrivanie e morirono tutti. Nella lobby eravamo centinaia. Aspettammo intrappolati a lungo. Quando finalmente aprirono le porte, erano le 9.03...»  

Il secondo aereo stava già per schiantarsi sul vostro edificio...

«Avevo fatto due passi fuori dal portone, stavo iniziando a correre quando percepii l’ombra dell’aereo passarmi sulla testa. Sentii lo spostamento d’aria, il rumore assordante, lo schianto. Non mi voltai. Correvo. Piangevo. Urlavo. Quando mi fermai, qualche strada più in là, provai un incredibile senso di impotenza. Dovevo tornare indietro ad aiutare? Il senso di colpa di essermi salvato, non mi ha più lasciato». 

Tornò a casa.

«Ci misi tre ore. Non c’era campo, nessuna possibilità di comunicare. A informarci erano persone incontrate in strada. Gli altri aerei dirottati. Il crollo delle Torri. Pensavo alla mia famiglia. A mia moglie incinta di 8 mesi. Quando entrai piangeva davanti alla tv credendomi morto, e nostro figlio di 2 anni cercava di consolarla carezzandola. Quella scena mi ha sempre fatto pensare a chi non è tornato. Come il collega con cui avevo fatto il percorso in metro la sera prima».

Prego.

«Si chiamava John, lavorava a Cantor e loro, appunto, morirono tutti. Il 10 settembre rientrammo insieme. Aveva comprato delle bistecche. Mi parlò del figlio di 5 anni, amatissimo. Aveva tanti sogni per lui. Conosco molti di coloro che sono morti: ma John resta per me la personificazione della tragedia. Penso sempre a suo figlio, oggi uomo, cresciuto senza il padre che lo amava tanto. Vorrei cercarlo, raccontargli quelle ultime parole d’amore. Ma me ne è sempre mancato il coraggio». 

E dopo, come fu?

«Molti hanno chiesto aiuto. Io in qualche modo ho rimosso. Ma so quanto quel giorno ha determinato la mia vita. Il mio matrimonio si è sgretolato e lo capisco. Diventai paranoico. Ossessionato dal terrorismo islamico. La notte avevo incubi terribili. Sognavo fiamme, saltavo dal letto per mantenere la parete convinto che stesse per travolgere la mia famiglia. Ma ripresi presto a lavorare e quello mi costrinse a mettere da parte le emozioni». 

Quanto presto?

«La mia azienda aveva una sede in New Jersey. Volevano farci ricominciare già il 12. Ottenemmo di rientrare il 17. Un anno dopo ebbero la crudele idea di sfruttare gli incentivi della città di New York per ripopolare Lower Manhattan e presero un ufficio proprio a Ground Zero: guardava nella voragine. Ho resistito qualche mese, poi li ho mollati. Sono andato a JP Morgan. Facevo lo stesso lavoro, ma non dovevo passare ogni giorno davanti a quel cimitero». 

Vent’anni dopo, come si guarda indietro?

«Un evento così grande eppure è la tua vita. Non reggo quelle immagini. Ma penso sempre che non ci hanno fermato. E a quanto è ingiusto il terrorismo. Per colpire un simbolo hanno distrutto migliaia di famiglie. Anche per questo oggi ho voluto trovare la forza di riaprire la mia scatola e raccontare. Le generazioni future devono capire. È difficile, fatico coi miei stessi figli. Ma non si deve dimenticare».

11 Settembre: quando la notizia diventa Storia, il giorno dell'attacco nella redazione dell'AGI. Esplosione, fiamme, fumo. Nessun rumore. Per un tempo che mi sembrò infinito, un silenzio quasi assoluto, dalla tv e nella redazione. Nemmeno un’imprecazione, non un sospiro. Niente. Poi in tv qualcuno disse “Oh my God” e fu come se avessi riacquistato l’udito. “Riaprite la rete!” urlò un caporedattore. Ugo Barbàra su Agi l'11 settembre 2021. Non uscimmo per primi, ma c’è una spiegazione: la redazione era in assemblea per ascoltare il discorso di insediamento del nuovo direttore. Un’assemblea tranquilla, senza tensioni. C’era stato un breve confronto su vari temi, poi si era deciso di rimandare a dopo pranzo la presentazione del piano editoriale, il passaggio più delicato e quindi più meritorio di attenzione. E, si sa, una pancia che brontola non è mai ben disposta. Nell’attesa, parlavo con un collega e buttai un occhio su Televideo – sì, all’epoca era indispensabile in ogni redazione – e... vidi la notizia. Poche righe: un piccolo aereo da turismo si era schiantato contro una delle Torri Gemelle. Tre pensieri: il pilota era una vera schiappa; il pilota si era sentito male come nel film ‘Airport’; peccato che "la rete" fosse chiusa. Perché è così che funziona, quando la redazione di un’agenzia va in assemblea, chiude "la rete", si sospendono le trasmissioni. Quindi eravamo muti. Muti mentre si scatenava l’inferno. Chiesi a un caporedattore centrale se non fosse il caso di riaprire "la rete": lavoravo alla redazione Esteri da meno di due anni e amavo occuparmi di tutto quello che accadeva oltre quelli che mi apparivano come gli asfittici confini nazionali. Una cosa come quella, anche se era solo un piccolo aereo da turismo, ai miei occhi valeva più di qualunque dibattito sindacale. Fatto sta che noi non avevamo ancora scritto una riga e io stavo col naso incollato alla Cnn mordendo il freno. Certo, a guardare le immagini, il ‘piccolo aereo’ aveva fatto un bel danno… Ma quanto era piccolo? Stavo pensando a questo quando vidi il secondo aereo schiantarsi contro la Torre Sud. Esplosione, fiamme, fumo. Nessun rumore. Per un tempo che mi sembrò infinito, un silenzio quasi assoluto, dalla tv e nella redazione. Nemmeno un’imprecazione, non un sospiro. Niente. Ricordo che pensai la cosa più stupida che potessi pensare, ma che oggi serve a dare un’idea di quanto fosse assurdo quello che avevamo appena visto: “Ma che stanno combinando alla torre di controllo?”. Poi in tv qualcuno disse “Oh my God” e fu come se avessi riacquistato l’udito. “Riaprite la rete!” urlò un caporedattore. Nel tempo che servì per riprendere le trasmissioni fu come se si fossero accese mille lampadine nelle nostre teste. Fui io a scrivere il primo flash e molti altri dopo. Internet non era quello di oggi: la mole di utenti aveva reso inaccessibile la rete e le uniche fonti che avevamo erano la Cnn e le agenzie internazionali, che all’epoca viaggiavano ancora su satellite. Ma anche quelle tacevano. Oggi posso solo immaginare che nelle loro redazioni stesse succedendo quello che stava succedendo da noi: troppi interrogativi, nessuna risposta. Chi era stato? Perché? Era finita o era solo l’inizio?  La prima risposta arrivò dritta sul Pentagono, alle 15,37 ora italiana. Nove minuti dopo battevamo la notizia: “Incendio al Pentagono”. Un altro aereo. Davamo una media di notizia al minuto, alcune volte anche due. A leggere ora il ‘mandorlo’, come si chiama in gergo l’elenco dei titoli del notiziario, si percepisce il caos che regnava ovunque. Oggi pochi lo ricordano, ma sembrava che l’attacco fosse ancora più massiccio di quello che era in realtà: alle 15,42 fu dato che un terzo aereo era in avvicinamento su Manhattan, poi alle 16,17, che c’era stata un’esplosione al Campidoglio. Alle 16,34 che un’autobomba era esplosa davanti al Dipartimento di Stato. Quale fosse l’origine di quelle notizie false non è stato mai chiarito perché nel frattempo l’orrore si sommava all’orrore: alle 15,59 crollava la Torre Sud e 29 minuti più tardi toccava alla Nord. La Casa Bianca era stata evacuata (15,44), e così anche per il Campidoglio (15,51) e il Dipartimento di Stato (15,58). Le organizzazioni internazionali cercavano di mettere al sicuro il personale: quello dell’Onu veniva mandato negli scantinati alle 16,16 e alle 16,28 veniva ordinato lo sgombero. Il Programma alimentare mondiale, a Roma, veniva evacuato alle 17,17. Era l’inferno. Chiesi a un collega del politico – eravamo tutti in redazione per l’assemblea – se poteva fare una scheda sulla storia delle Torri Gemelle. Alla cronaca impazzivano dietro agli allarmi che si moltiplicavano anche in Italia e alle dichiarazioni di stato di allerta: alla base di Aviano (16,35), all’ambasciata Usa a Roma (16,45), al comando Nato di Bagnoli (16,35) e all’aeroporto di Fiumicino (16,46). In quel delirio di richieste, telefoni che squillavano e voci che si sovrapponevano, quello che di lì a pochi mesi sarebbe diventato il capo degli Esteri si avvicinò a me con una cartella azzurra su cui era scritto una sigla: al Qaeda. Era piena di ritagli di giornale, lanci di agenzia e materiale vario che andava dall’attentato alle Torri Gemelle nel 1993, a quelli alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, a quello al cacciatorpediniere Cole il 20 ottobre del 2000. “Sono stati loro” mi disse, “facciamo una scheda”. L’unica cosa che avevamo sul notiziario era una rivendicazione del Fronte di Liberazione della Palestina (15,38) smentito appena 11 minuti dopo. La sua sicurezza aveva un senso. Alle 16,56 uscì la scheda su al Qaeda con questo titolo: “Bin Laden minacciò attentati ‘senza precedenti’”. Oggi può non sembrare chissà quale intuizione, ma allora, meno di due ore dopo l’inizio di quell’immane tragedia… possiamo dire di averci visto lungo. Alle 17 la Cnn diede la notizia che un aereo era precipitato in Pennsylvania. Era il volo United 93, quello a bordo del quale i passeggeri si ribellarono ed ebbero la meglio sul piano dei terroristi per farlo schiantare sulla Casa Bianca o sul Campidoglio. La conferma arrivò 54 minuti più tardi. Nel frattempo, sentendosi gli occhi del mondo addosso, i talebani avevano convocato una conferenza stampa (17,18)  durante la quale dissero: Bin Laden non è responsabile (18,02). Dopo aver parlato agli americani per dire che quello su New York sembrava un attentato (15,32) e che i colpevoli non avrebbero avuto tregua (15,36) per tutta la giornata George W. Bush era passato da una base aerea all’altra, in attesa che i servizi segreti e la Difesa capissero se c’era un posto in cui sentirsi al sicuro. Ecco: sentirsi al sicuro. Quando tornai a casa albeggiava. I miei figli dormivano: per mesi la più grande non avrebbe disegnato altro che aerei e grattacieli in fiamme. Ero in piedi da ventiquattr’ore, ma l’adrenalina era tanta, non avrei mai preso sonno. Stava scemando, è vero, lasciava il passo alla consapevolezza di aver vissuto una giornata destinata a entrare nella Storia. Ma soprattutto aprendomi una voragine nell’anima: non potevamo più sentirci al sicuro. Nessuno, da nessuna parte. Mi sedetti sul bordo del letto e piansi tutte le lacrime che avevo.

11 Settembre 2001, la cronaca della tragedia minuto per minuto. Tgcom24.mediaset.it il 10 settembre 2021. A distanza di vent'anni, il ricordo degli attacchi a New York e Washington fa ancora tremare le gambe. Il racconto dettagliato di quelle ore terribili, col fuso orario americano, dall'imbarco dei dirottatori al crollo delle Torri Gemelle. Le lancette come lame, a pugnalare ogni singolo minuto, ogni secondo del giorno più tragico per gli Stati Uniti. Gli attacchi dell'11 settembre 2001 appaiono ancora oggi, a distanza di vent'anni, un episodio di ineguagliata violenza e di irraggiungibile disperazione. Ecco di seguito la cronaca di quelle ore terribili, minuto per minuto col fuso orario americano, dall'imbarco dei dirottatori fino al crollo delle Torri Gemelle e delle speranze dell'Occidente. 

5:33 - Tutto comincia a Portland, nel Maine, circa 500 chilometri a nord di New York. Mohamed Atta e Abd al-Aziz al-Umari lasciano l'albergo "Comfort Inn" di South Portland e si dirigono, a bordo di una Nissan Altima blu, all'aeroporto. 

5:45 - Il fuso orario è sempre quello di New York, di un 11 settembre qualunque. I dirottatori Mohammed Atta e Abdulaziz al-Omari passano i controlli di sicurezza, diretti a Boston. Qui, insieme ad altri tre terroristi, si imbarcano sul volo American Airlines 11 diretto a Los Angeles, con a bordo 92 persone. Sempre allo scalo Logan di Boston, altri cinque salgono su un altro Boeing 767, il volo 175 dell'American Airlines, che decollerà alle 8:14 diretto a Los Angeles con a bordo 51 passeggeri. 

6:00 - Atta ed al-Omari partono con il volo Colgan Air 5930 alla volta di Boston. 

6:45 - I due dirottatori arrivano all'aeroporto Internazionale Generale Edward Lawrence Logan di Boston. 

6:52 - Marwan al-Shehhi, un altro dei dirottatori, pilota del volo United Airlines 175, telefona ad Atta per confermare l'inizio delle operazioni. 

7:00 - Atta, al-Omari, Satam al-Suqami, Walid al-Shihri e Wa'il al-Shihri si imbarcano sul volo American Airlines 11. Al momento dei controlli, al-Suqami e i due fratelli al-Shihri vengono selezionati per un controllo più accurato del bagaglio a mano, superato senza problemi. Nel frattempo, presso un altro terminale dello stesso aeroporto, al-Shehhi, Fayez Banihammad, Mohand al-Shihri, Hamza al-Ghamdi e Ahmed al-Ghamdi si imbarcano sul volo United Airlines 175. Anche in questo caso, nessun intoppo ai controlli di sicurezza. 

7:15 - Hani Hanjour, Khalid al-Mihdhar, Majed Moqed, Nawaf al-Hazmi e Salem al-Hazmi iniziano le procedure per l'imbarco sul volo American Airlines 77, protagonista dell'attentato al Pentagono. Anche qui i dirottatori, Hanjour, al-Mihdhar e Moqed vengono selezionati per un controllo più accurato. Tutto liscio anche in questo caso. 

7:30 - Ziyad Jarrah, Ahmed al-Nami, Sa'id al-Ghamdi e Ahmed al-Haznawi si imbarcano sul Volo United Airlines 93. 

7:59 - Il volo AA11, un Boeing 767, parte con un ritardo di 14 minuti da Boston alla volta di Los Angeles. A bordo ci sono 81 passeggeri (compresi i cinque dirottatori) e 11 membri dell'equipaggio. 

8:13 - Il volo AA11 non risponde più ai comandi del Centro di Boston. I dirottatori entrano in azione probabilmente in questo momento. Daniel Lewin, ex capitano del Sayeret Matkal (forze speciali antiterrorismo israeliane), viene sgozzato per aver tentato di bloccare i terroristi. 

8:14 - Il volo UA175, un altro Boeing 767, parte dall'aeroporto di Boston anch'esso alla volta di Los Angeles. A bordo ci sono 56 passeggeri (compresi i cinque dirottatori) e nove membri dell'equipaggio. 

8:19 - Betty Ong, un'assistente del volo AA11, contatta la American Airlines. La comunicazione è lapidaria: "Credo che il nostro aereo sia stato dirottato". La donna afferma inoltre che sono stati accoltellati un passeggero di business class (Daniel Lewin) e due assistenti di volo (Karen Martin e Barbara Arestegui) e fornisce le prime indicazioni sui posti occupati dai dirottatori. Avviene una prima identificazione dei responsabili. 

8:20 - Il volo AA77, un Boeing 757, decolla dall'aeroporto Internazionale di Washington-Dulles alla volta di Los Angeles. A bordo ci sono 58 passeggeri (compresi i cinque dirottatori) e sei membri dell'equipaggio. 

8:21 - Il transponder (il sistema elettronico di identificazione della rotta, ndr) del volo AA11 viene spento. L'aereo sparisce dai monitor dei controllori di volo. 

8:24 - Il Centro FAA di Boston riceve una comunicazione dal volo AA11. Una voce di uomo (probabilmente Mohamed Atta) afferma: "Abbiamo alcuni aerei. State tranquilli e andrà tutto bene. Stiamo tornando all'aeroporto". Le affermazioni di Atta non vengono però comprese dai controllori. Circa venti secondi dopo, avviene la seconda comunicazione: "Nessuno si muova, tutto andrà bene. Se cercate di reagire, metterete in pericolo voi stessi e il velivolo. State tranquilli". I controllori di volo comprendono che l'aereo è stato dirottato e avvertono i propri superiori. 

8:25 - L'assistente del volo AA11 Madeline Amy Sweeney contatta al telefono il manager della American Airlines, Michael Woodward. La testimonianza di Sweeney permette l'identificazione di tre dirottatori: al-Omari, Atta e al-Suqami. 

8:28 - Il Centro di controllo di Boston notifica al Centro FAA di Herndon, in Virginia, che il volo AA11 è stato dirottato e che sta puntando su New York dopo aver effettuato un'ampia virata verso sud. 

8:33 - Dal volo AA11 proviene un'ulteriore comunicazione, sempre di Atta: "Nessuno si muova, per favore. Stiamo ritornando all'aeroporto. Non cercate di fare mosse stupide". Nel frattempo viene attivata la procedura di sicurezza per garantire la riservatezza delle informazioni. 

8:37 - Il centro FAA di Boston avverte i controllori del Northeast Air Defense Sector riguardo al dirottamento del volo AA11, richiedendo l'aiuto dei militari per intercettare il velivolo. L'ordine effettivo di decollo, però, tarderà ad arrivare. 

8:40 - Vengono approntati due F-15 della United States Air Force alla base aerea militare di Otis (Massachusetts) con l'ordine di intercettare l'aereo dirottato. Contemporaneamente, il volo AA11 entra nello spazio aereo della città di New York. 

8:42 - Il volo UA93, un Boeing 757, decolla dall'Aeroporto Internazionale di Newark alla volta di San Francisco con oltre 40 minuti di ritardo, a causa della congestione del traffico aereo. A bordo ci sono 37 passeggeri (compresi i quattro dirottatori) e sette membri dell'equipaggio. Contemporaneamente, dal volo UA175 parte l'ultima comunicazione. I piloti affermano riguardo al volo AA11: "Abbiamo sentito una trasmissione sospetta quando siamo partiti da Boston. Qualcuno... sembrava che qualcuno avesse preso il microfono e detto a tutti di stare ai loro posti". 

8:44 - I terroristi prendono il controllo del volo UA175, uccidono i piloti ed accoltellano alcuni assistenti di volo. 

8:45 - Sono le 14:45 in Italia. E' l'ora X: il volo AA11 si schianta contro la North Tower del World Trade Center a New York, tra il 93esimo e il 99esimo piano, a 790 chilometri all'ora. L'aereo entra quasi completamente intatto all'interno della Torre, tagliando letteralmente in due i sostegni in gesso di tutte e tre le trombe delle scale dell'edificio. Una terribile onda d'urto scuote il grattaciaelo, mentre scoppia un violento incendio alimentato dal carburante che fuoriesce dal serbatoio dell'aereo. L'impatto è così devastante che alcuni rottami trapassano da parte a parte la Twin Tower. 

8:46 - Da questo momento fino alle 10:28 circa 200 persone, intrappolate nei piani alti della Torre Nord e successivamente anche della Torre Sud, tentano disperatamente di salvarsi gettandosi nel vuoto. Il vigile del fuoco Daniel Thomas Suhr viene colpito da un uomo lanciatosi nel vuoto e muore. 

8:49 - Il servizio di sicurezza della Torre Nord ordina la completa evacuazione del grattacielo. Iniziano ad accorrere i vigili del fuoco, la polizia e le prime ambulanze. 

9:03 - Il terrore scende ancora dal cielo su New York. Il volo United Airlines 175 si schianta sulla Torre Sud, tra il 77esimo e l'85esimo piano, a 870 chilometri l'ora. L'impatto avviene in diretta tv. Dopo il primo impatto, infatti, le telecamere dei media sono puntate sul World Trade Center alla ricerca di notizie per quello che - in un primissimo momento - sembrava un'incidente. Frammenti dell'aereo fuoriescono dai lati est e nord dell'edificio e atterrano fino a sei isolati di distanza. Inizia un'evacuazione di massa dei piani sottostanti la zona di impatto. Una delle scale resta intatta nonostante l'impatto, ma è inagibile per il troppo fumo. Molte persone salgono verso il tetto, nella vana speranza di essere salvate per via aerea. 

9:06 - In una scuola elementare di Sarasota, in Florida, il capo dello staff di George W. Bush, Andrew Card, si avvicina al presidente per sussurrargli all'orecchio: "Un secondo aereo ha colpito il World Trade Center. L'America è sotto attacco". La scena viene ripresa da diverse telecamere, sul posto per documentare la visita presidenziale. L'immagine entra diritta nella storia. Bush per alcuni minuti continua ad ascoltare gli alunni della scuola, facendo finta di nulla e ignorando volutamente le richieste da parte dei servizi segreti di abbandonare immediatamente l'edificio. 

9:10 - American Airlines e United Airlines bloccano il decollo dei loro aerei su tutto il territorio degli Stati Uniti. 

9:18 - Bush cancella gli impegni istituzionali in programma quel giorno.

9:20 - L'Fbi segue la pista del terrorismo. A New York si apprende che l'agenzia federale era stata messa in allerta sul possibile dirottamento di un aereo poco prima della tragedia. 

9:28 - Fonti della Casa Bianca parlano di un attentato. 

9:30 - Vengono evacuati la Borsa del Nymex e il New York Mercantile Exchange. 

9:35 - Comincia l'evacuazione del New York Stocks Exchange, la Borsa valori di Wall Street. 

9:36 - Circola un primo bilancio ufficiale dell'attacco: la Cnbc parla di almeno sei morti accertati e un migliaio di feriti. 

9:37 - La strage non è ancora finita. Il volo American Airlines 77, dirottato da cinque terroristi e partito dal Dulles International Airport di Washington D.C. con destinazione Los Angeles, si schianta contro il Pentagono. Nell'impatto muoiono le 64 persone a bordo dell'aereo e 125 all'interno del quartier generale della Difesa. 

9:40 - La polizia avverte le persone nei pressi del World Trade Center che un terzo aereo potrebbe avvicinarsi alle due Torri già colpite. 

9:45 - Vengono evacuati la Casa Bianca e il Pentagono. In quest'ultimo scoppia un grande incendio. 

9:49 - Vengono evacuati anche il Congresso degli Stati Uniti e il ministero del Tesoro a Washington, in seguito a minacce terroristiche. 

9:53 - La Federal Aviation Administration chiude tutti gli aeroporti degli Stati Uniti.

10:00 - La Cnn mostra una nuova enorme esplosione sulla prima Torre Gemella a essere attaccata. Sono le prime immagini della tragedia, poi riprese dalle televisioni di tutto.

10:03 - A meno di mezz’ora dall'attentato al Pentagono, il volo UA93 lascia l'aeroporto di Newark diretto a San Francisco. I terroristi vogliono dirottarlo su Washington, per colpire presumibilmente la sede del Congresso. Grazie all'eroica rivolta dei passeggeri, il Boeing 757 si schianta però in aperta campagna a Shanksville, in Pennsylvania. 

10:07 - E' l'ora dell'apocalisse. Crolla il primo grattacielo colpito a New York, la Torre Nord del World Trade Center. 

10:27 - Esattamente venti minuti dopo la prima, anche l'altra Torre Gemella rovina al suolo in un nugolo di polvere, macerie, fuoco e terrore. 

12:26 - Crolla un altro palazzo vicino al World Trade Center, per i danni provocati dalle esplosioni. 

12:39 - La polizia di New York parla di migliaia tra morti e feriti.

11 settembre 2001, l’attentato alle Torri Gemelle di New York. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2021. Che cosa è successo l'11 settembre 2001: chi erano gli attentatori, l'attacco alle Torri gemelle, l'aereo schiantatosi contro il Pentagono, la storia del volo UA93, le vittime: 

Alle 5,45 di mattina Mohammed Atta, Abdulaziz al-Omar e altri tre terroristi superano i controlli all’aeroporto di Portland, nel Maine. Sono diretti a Boston. Nei bagagli nascondono qualche coltello e il tremendo segreto che cambierà la storia del mondo. È l’alba di martedì 11 settembre 2001, cielo sereno su New York e su gran parte dell’America. Alla Casa Bianca si è insediato da otto mesi il repubblicano George W.Bush, dopo un’aspra battaglia politica e giuridica contro il candidato democratico Al Gore. Il Paese era segnato dalle divisioni (anche se non polarizzato come oggi). L’Amministrazione doveva ancora carburare. L’opinione pubblica stava «pesando» la personalità del nuovo presidente. La Casa Bianca aveva lanciato un’operazione simpatia e quel martedì di settembre, Bush era atteso nella scuola elementare Emma E.Brooker, a Sarasota, in Florida. Il leader degli Stati Uniti si sarebbe fatto riprendere dalle telecamere mentre leggeva e spiegava una favola a bambini di 7 anni. Poco prima di partire, Bush aveva ascoltato il briefing quotidiano dei servizi segreti: tutto tranquillo, niente da segnalare. Intanto il commando di Al Qaeda guidato da Atta è già a Boston. Qui sale sul volo American Airlines 11, diretto a Los Angeles. A bordo ci sono 87 persone, tra passeggeri ed equipaggio.

L’aeroplano decolla alle 7,59. Gli affiliati di Al-Qaeda entrano in azione pochi minuti dopo. Uccidono il pilota, il primo ufficiale, due assistenti di bordo e un passeggero israeliano, un ex militare. Atta si sistema alla cloche. Sono attimi cruciali, ricostruiti minuziosamente dalla Commissione di inchiesta insediata dal Congresso nel 2002. 

La torre di controllo di Boston perde i contatti alle 8,13. Sei minuti dopo l’assistente di volo, Betty Ong, riesce ad avvisare il desk dell’American Airlines: siamo stati dirottati. Ma devono passare ancora dieci minuti prima che gli ufficiali dell’aviazione civile di Boston lancino l’allarme. 

Alle 8,50 i comandi militari ordinano a due caccia F-15 di intercettare l’American Airlines 11, ma è troppo tardi. Il Boeing 767 si è schiantato quattro minuti prima, a una velocità di 750 chilometri all’ora, contro la facciata nord di una delle Torri Gemelle, a Manhattan. Inizia la strage, comincia il giorno più buio del ventunesimo secolo. Per 5 anni Osama Bin Laden e lo stato maggiore di Al Qaeda avevano studiato un attacco totale. Il piano è tanto crudele quanto ben congegnato. Quattro squadre di terroristi si impadroniscono, quasi simultaneamente, di altrettanti aerei di linea. Due da scagliare contro il World Trade Center, nel centro di Manhattan, nel cuore dell’economia, della società civile americane; gli altri per colpire le istituzioni degli Stati Uniti. 

Poco prima delle 9 la Cnn trasmette le prime immagini da New York. Tutto il mondo guarda sgomento le ondate di fumo che si liberano dal grattacielo. L’Fbi sta indagando, ma le notizie sono confuse, frammentarie. Si pensa a un incidente. 

Ma alle 9,03, ecco il massacro in diretta planetaria. Le telecamere inquadrano un puntino sempre più grande: è l’United Airlines 175 nelle mani di altri cinque attentatori. Perfora con una fiammata la Torre Sud, tra il 77 eseimo e l’85esimo piano. Adesso non ci sono, non ci possono essere più dubbi. No, nessun incidente: «È guerra contro gli Usa», come annunciano tutte le tv americane. New York è nel panico. Il sindaco Rudy Giuliani fa sgomberare gli edifici pubblici, compreso il palazzo della Borsa, a Wall Street. Nel frattempo, nella scuola elementare di Sarasota, Ari Fleischer, capo dello staff della Casa Bianca, sussurra la notizia all’orecchio di Bush. Il presidente è ancora inchiodato sulla sedia, con il libro delle favole aperto sulle ginocchia. Rimarrà immobile ancora per 7 minuti, prima di lasciare l’aula e imbarcarsi sull’Air Force One. 

Alle 9,03 il presidente rivolge un breve messaggio alla nazione: «Sembra un atto di terrorismo». La «fortezza volante» del capo dello Stato non rientra nella capitale. C’è il timore che l’offensiva non sia ancora terminata. A Washington viene evacuata la Casa Bianca. Il vice presidente Dick Cheney assume di fatto il pieno comando. E in effetti il progetto di Al-Qaeda si sviluppa in tutta la sua ampiezza. 

Alle 9,37 un altro aereo si abbatte sul Pentagono. Il terrore si mescola, si impasta con una grandissima confusione. Il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, racconterà nelle sue memorie che, appena udito lo scoppio, si precipitò fuori per dare una mano ai soccorritori. Solo dopo un po’ si rese conto che avrebbe fatto meglio a rientrare in ufficio per coordinare la risposta militare degli Stati Uniti. L’ultima missione suicida, invece, fallisce. Quattro jihadisti si impossessano del Boeing 757 partito da Newark, in New Jersey, alle 8,42 con destinazione San Francisco. I killer puntavano sulla Casa Bianca o probabilmente sul Congresso di Washington. Ma i 33 passeggeri, più 7 componenti dell’equipaggio, si rivoltano: il volo 93 della United Airlines precipita nella campagna di Shanksville, in Pennsylvania. L’epicentro della crisi, in ogni caso, resta New York. L’agonia delle Torri è terrificante. I pompieri, i poliziotti, i soccorritori volontari corrono su è giù dalle scale per portare in salvo migliaia di persone. È l’epopea del sacrificio personale, di vero eroismo: 343 vigili del fuoco e 72 poliziotti perderanno la vita nei tentativi di salvataggio. Le Twin Towers, l’orgoglio di Manhattan, progettate dall’architetto Minoru Yamasaki e inaugurate nel 1973, sono ormai segnate. È il momento forse più agghiacciante. Le tv inquadrano delle sagome che precipitano dai piani alti in fiamme. Sembrano fantocci, pupazzi inanimati. Invece sono uomini, donne. Esseri umani. È l’ultimo illogico tentativo di sopravvivere. Cominciano a circolare immagini impressionanti, indimenticabili: la donna completamente ricoperta di polvere; un uomo che osserva a bocca aperta l’istante dell’impatto; un minaccioso nuvolone di polvere e detriti che insegue persone in fuga. È l’11 settembre di tutti. È con quelle sequenze che prende forma lo slogan «siamo tutti newyorkesi». 

Alle 9,59 la Torre Nord si accascia, sbriciolandosi.

Venti minuti dopo, alle 10,28, crolla anche l’altra Torre. Il bilancio sarà spaventoso: 2606 vittime civili, cui vanno aggiunte le 125 del Pentagono e i 246 passeggeri dei voli dirottati. Una carneficina immane portata a termine da soli 19 terroristi-kamikaze: 15 provenivano dall’Arabia Saudita; 2 degli Emirati Arabi; uno dal Libano e uno, il comandante sul campo, il trentatreenne Mohammed Atta, dall’Egitto.

11/9. Attacco all'America. La cronologia degli attentati minuto per minuto. A cura di Gianluca Di Feo, Paola Cipriani, Paula Simonetti, Corrado Moretti e Nino Brisindi su La Repubblica il 10 settembre 2021.  

11 settembre 2001

Ore 8.46 del mattino. Un aereo Boeing 767 si schianta a circa 800 km orari sulla Torre nord del World Trade Center. È l'inizio del giorno che cambierà la storia degli Stati Uniti e del mondo.

I 4 voli coast to coast

I quattro aerei dovevano volare dalla costa atlantica a quella pacifica. Questo significa che avrebbero avuto i serbatoi completamente pieni.

Ore 7.59 Volo 11 American Airlines Boeing 767 Boston - Los Angeles

Ore 8.14 Volo 175 United Airlines Boeing 767 Boston - Los Angeles 

Ore 8.20 Volo 77 American Airlines Boeing 757 Washington - Los Angeles 

Ore 8.42 Volo 93 United Airlines Boeing 757 Newark - San Francisco 

Gli obiettivi

La scelta degli obiettivi testimonia la volontà di colpire i simboli della potenza americana. Il World Trade Center di New York, poco distante da Wall Street, racchiude l’idea della forza finanziaria globalizzata. Il Pentagono è il cuore del potere militare. E il quarto aereo, avrebbe dovuto schiantarsi su Capital Hill, centro politico della democrazia Usa.

Ore 8.46: il primo schianto

Cinque uomini guidati dall’egiziano Mohamed Atta si impadroniscono del volo American Airlines 11. Alle 8.19 due assistenti di volo comunicano alla American Airlines che il volo 11 è stato dirottato. Alle 8:45 il Boeing si schianta contro la North Tower del World Trade. L'impatto è tra i piani 93 e 99. L'impatto avviene a circa 800 km l'ora.

Volo 11 American Airlines - Boston - Los Angeles

Ore 9.03: lo schianto sulla Torre Sud

Cinque terroristi dirottano il volo United Airlines 175 trenta minuti dopo il decollo da Boston. La loro azione è coordinata con quella della squadra del Boeing dirottato da Mohamed Atta. L'obietivo è la Torre Sud del World Trade Center: l’impatto viene trasmesso in diretta tv. E l’America capisce di essere sotto attacco. 

Volo 175 United Airlines / Boston - Los Angeles

Ore 9.37: lo schianto sul Pentagono

Cinque sauditi hanno la missione di prendere il controllo del volo American Airlines 77 e attaccare il Pentagono. Dal punto di vista aeronautico, è più complesso che non colpire le Torri Gemelle. E infatti, l’aereo si schianta su un settore esterno dell’edificio, quello occidentale, riuscendo comunque a uccidere 125 persone tra militari e civili.

Volo 77 American Airlines / Washington - Los Angeles

Ore 10.03: precipita il volo United Airlines 93

Sul volo ci sono quattro terroristi, guidati dal libanese Ziad Jarrad. Prendono il controllo della cabina. I passeggeri, venuti a conoscenza degli attacchi alle Torri Gemelle, decidono di affrontare i dirottatori e fanno precipitare l'aereo a Shanksville in Pennsylvania.

Volo 93 United Airlines / Newark - San Francisco 

Ore 9.03: il secondo schianto

Il volo 175 della United Airlines si abbatte contro la Torre Sud del World Trade Center tra i piani 77 e 85. Subito dopo viene ordinata la chiusura degli aeroporti di New York.

Manhattan colpita

Tra il primo e il secondo impatto trascorrono 17 minuti

Stato di emergenza in tutta Washington

L’impatto contro la Torre Sud fa scattare la massima allerta in tutto il paese. Ore 9.30: George W. Bush annuncia che la Nazione ha subito un "presunto" attacco terroristico. 

Ore 10.40

Wall Street ferma l’apertura delle quotazioni.

Ore 16.02

Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America annuncia: "Tutti gli indizi sugli attacchi portano a persone vicine a Osama Bin Laden".

Ore: 17.55

La tv irachena festeggia: “Gli Stati Uniti hanno meritato questi attentati per i loro crimini contro l'umanità".

Ore 20.30

Il presidente George W. Bush parla alla Nazione: "Il nostro modo di vivere, la nostra stessa libertà sono stati attaccati. Non faremo distinzione tra i terroristi che hanno commesso questi atti e coloro che li ospitano". 

2.977 vittime

Il bilancio di quel giorno è: 2.977 morti. 266 sono le vittime dei 4 aerei dirottati. Più di 2.753 le persone inghiottite dal World Trade Center. 189 i morti al Pentagono. 

I Morti. Esclusi i dirottatori.

World Trade Center 2753

Pentagono 184

Shanksville 40

Totale 2977

Dalla guerra al ritiro. La sfida di Biden. Federico Rampini su La Repubblica il 9 settembre 2021. Joe Biden era senatore del Delaware l’11 settembre 2001. Subito dopo, si unì ai suoi colleghi democratici e repubblicani nel voto unanime del Senato che autorizzava il presidente George W. Bush a usare la forza militare contro “nazioni, organizzazioni o persone” colpevoli di quell’attacco. Vent’anni dopo il bilancio della “guerra al terrorismo” rischia di confondersi con le immagini ancora fresche del ritiro dall’Afghanistan.

L’11 settembre 2001. Il giorno della verità. L’11 settembre 2001 il mondo capì quanto sarebbe stato difficile il XXI secolo.  L'Inkiesta il 16 agosto 2021. Gli attacchi terroristici hanno stravolto le democrazie occidentali e gli errori politici degli anni successivi hanno peggiorato la situazione. Ora che il problema non sono più i “loro” attacchi armati ma il “nostro” populismo sovranista servirà tutta la saggezza interpretativa che non abbiamo avuto quando il nemico veniva da fuori. Il Ventunesimo secolo è un condensato di crisi economiche, ondate populiste e sovraniste, epidemie e pandemie, assalti alla democrazia e attacchi terroristici. E sono trascorsi solo ventun anni. Ma c’è un punto sulla linea del tempo che rappresenta l’innesco per molti di questi eventi, concatenati tra loro. L’11 settembre è una cesura storica fondamentale, quanto meno nel mondo occidentale. Ed è l’inizio di una nuova fase, come fa notare George Packer in un lungo articolo sull’Atlantic in cui gli attacchi terroristici sul suolo americano sono visti come una finestra sul mondo in cui avremmo vissuto. «Durante i dieci anni compresi tra la fine della Guerra Fredda e gli attacchi terroristici, gli Stati Uniti hanno goduto di un livello di potere, ricchezza e sicurezza che, esclusa forse la Gran Bretagna negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, non ha eguali nella storia», si legge sul magazine statunitense. Nell’ultimo decennio del secolo scorso tra New York e Los Angeles ci sono stati un costante aumento dei prezzi delle azioni in Borsa e uno sviluppo tecnologico impressionante, mentre l’economia dell’informazione sembrava aver trovato la formula per la crescita perpetua. «Nelle elezioni del 2000, molte persone hanno votato, o non hanno votato, come se non importasse davvero chi fosse il presidente. Tanto potere, così poca responsabilità. Nessuno avrebbe mai immaginato che una mattina ci saremmo svegliati con macerie e cadaveri nelle nostre strade», scrive Packer. Ma l’11 settembre ha squarciato il velo e ha costretto gli Stati Uniti e i suoi cittadini a comportarsi finalmente come se esistesse anche il resto del mondo. «Non avevamo pensato ai dirottatori, ma loro avevano pensato a noi. Per quasi un decennio il radicalismo islamico ha cercato di attirare l’attenzione dell’America, dichiarando guerra ai cittadini statunitensi, bombardando le nostre ambasciate, le navi e lo stesso World Trade Center, con scarso successo. Il presidente Bill Clinton ha lanciato missili a lungo raggio contro i campi di addestramento jihadisti senza fare rumore. Quando il nome di al-Qaeda è emerso l’11 settembre, pochissimi americani lo avevano sentito prima», si legge nell’articolo. Il racconto di Packer contiene anche una dimensione strettamente personale. L’autore ricorda le sensazioni del 12 e del 13 settembre, quei giorni successivi in cui tutto stava cambiando: le file insieme agli altri newyorkesi per donare il sangue, le veglie sul lungomare di Brooklyn Heights, le folle alle barriere su Canal Street che offrivano porzioni di cibo in alluminio ai soccorritori, la sensazione di dover fare qualcosa di solidale, di dover aiutare il prossimo. È solo dopo un po’, qualche giorno più tardi, che sarebbe arrivata la consapevolezza. Gli attacchi terroristici di quel giorno hanno catapultato il mondo in una nuova dimensione. Gli Stati Uniti l’hanno vissuto direttamente sulla loro pelle, ma era sotto gli occhi di tutti. «Tutto è cambiato», dicevano gli esperti, ma non è facile adeguarsi a una nuova realtà. Quando si è trattato di interpretare e rispondere agli attacchi di al-Qaeda, la maggior parte dei leader politici ha seguito un copione che, nel giro di una manciata di ore, era diventato obsoleto. L’Atlantic individua tre approcci, evidentemente fallaci, tra le reazioni al terrorismo. Uno sosteneva che gli attacchi fossero come una punizione, una sorta di giustizia universale, per le azioni americane all’estero: il contraccolpo delle politiche imperialiste degli anni precedenti. Un secondo approccio sbagliato vedeva l’America solamente come una vittima, per di più innocente: è quell’atteggiamento riassunto dialetticamente da George W. Bush nel discorso alla nazione del 7 ottobre in cui tracciò una linea di separazione tra il bene e il male. Un terzo era a metà strada: l’America, nonostante tutti i suoi difetti, aveva l’obbligo di sostenere la democrazia e i diritti umani, ma nel farlo poteva fare ricorso al suo esercito per tentare di portare la democrazia in Afghanistan e provocare un cambio di regime in Iraq. «L’11 settembre ha fatto nascere l’idea che la sicurezza in casa dipendesse dall’esportazione dei valori democratici nel mondo musulmano. Questa era l’opinione degli interventisti liberali – me compreso, prima che iniziassi a fare reportage dall’Iraq nel 2003 – e peccava dell’illusione che la guerra e la politica di potere potessero essere usate a scopi umanitari», scrive Packer nel suo articolo. In un modo o nell’altro, tutti e tre questi punti di vista hanno provato a dare una continuità al sogno degli anni Novanta, hanno messo l’America al centro della storia e di ogni ragionamento: tutto ruotava ancora attorno all’idea che gli Stati Uniti potessero portare nel resto del mondo pace o distruzione a piacimento, senza tener conto del contesto. Man mano che gli attacchi jihadisti diventavano globali e quotidiani, a Madrid, Mumbai, Boston, Parigi e Orlando, diventava sempre più evidente quanto una reazione eccessiva o di sottovalutazione del pericolo potesse essere dannosa. L’islamismo radicale può essere compreso per quel che è: non un riflesso della politica estera degli Stati Uniti, né la reincarnazione della Germania nazista, ma un’ideologia estrema alimentata da politiche repressive in tutto un quadrante del mondo. «I leader americani», si legge sull’Atlantic, «sono caduti nella trappola dei jihadisti e si sono imbarcati in una “Guerra al Terrore” indefinita e invincibile, immaginando, come ha dichiarato Bush, che “finirà in un modo e a un’ora da noi scelti”». Una frase che suona ancora più surreale a due decenni di distanza, mentre le truppe americane lasciano il Paese senza aver cavato un ragno dal buco. Così gli anni dopo l’11 settembre hanno dato un nuovo ritmo alla storia. Al primo shock ne seguì un altro, poi un altro ancora: gli atteggiamenti muscolari degli Stati Uniti, la guerra in Iraq, l’uso della tortura, la crisi finanziaria del 2008, il ritorno dei talebani in Afghanistan, l’ascesa dell’Isis in Iraq e Siria e quella del populismo di destra in America, la presidenza di Donald Trump, l’ondata sovranista europea. E, in mezzo, tutte le crisi sanitarie regionali e la pandemia di coronavirus. «Alla luce di tutto questo», scrive Packer, «l’11 settembre non è stato un evento sui generis uscito da un cielo azzurro e limpido. Fu il primo avvertimento che il XXI secolo non avrebbe portato pace e prosperità illimitate. Al-Qaeda non era tanto un primitivo ritorno al Medioevo quanto un presagio della politica antiliberale e del nazionalismo virulento che presto avrebbero raggiunto il mondo, persino l’America, dove un tempo i dirottatori avevano sferrato i loro colpi». Eppure anche l’islamismo radicale che ha dominato le cronache post-11 settembre si è ritirato, almeno come minaccia strategica e almeno per ora. Negli ultimi vent’anni sul suolo americano non si è verificato nulla di simile all’11 settembre, e gli attacchi nel resto del mondo sono diventati sempre meno frequenti. «Due decenni dopo l’11 settembre», conclude l’Atlantic, «non siamo più gli stessi che credevano in un benessere senza confini come all’inizio del millennio. Gli esperti ora vedono il terrorismo nazionalista bianco come una minaccia interna più grande del terrorismo islamista. La nuova battaglia è per la nostra democrazia. Richiederà tutta la moderazione e la saggezza che non abbiamo avuto quando il nemico non eravamo noi stessi».

DAGONEWS il 7 settembre 2021. “11 september: Life Under Attack”, nuovo documentario di 90 minuti per ITV, mette in fila una serie di filmati inediti girati da alcune famiglie di Manhattan durante gli attacchi terroristici che hanno sconvolto New York e il mondo. Tra le persone in preda al terrore c’erano anche Anthony e Kyra Paris, con il figlio neonato Daschiel: erano nel loro appartamento a sei isolati da Ground Zero quando le torri gemelle sono state colpite. Nelle immagini si vedono i due che si agitano mentre scoprono che ormai è troppo tardi per lasciare il palazzo: «C'è polvere e fumo in tutto l'edificio. Non c'è modo di andarcene adesso...» dice Anthony a Kyra. A pochi isolati da loro anche Andrew Einhorn, un newyorkese che stava registrando l'incidente da Lower East Side, è nel panico: «Non so cosa fare, dove andare. La cosa spaventosa è che semplicemente non sai se è finita... Cos'altro inizierà a saltare in aria?». Ci sono intere famiglie che guardano la tv con lo sguardo atterrito e una ragazza che, inconsapevolmente, ha registrato la sua reazione al crollo della torre sud.

“I can hear you”: Bush e l’11 settembre, vent’anni dopo. Andrea Muratore su Inside Over il 14 settembre 2021. George W. Bush è stato un presidente complesso, più di quanto la cronaca dei suoi otto anni alla Casa Bianca abbia teso a rappresentarlo. Un presidente che scoprì il mondo scoprendo il suo Paese, un uomo che ben poco conosceva di ciò che andava oltre il Texas di cui era governatore quando intraprese la corsa alla Casa Bianca che lo portò alla controversa vittoria alle presidenziali del 2000. Un leader ritenuto fautore di una linea di riduzione dell’interventismo e della proiezione globale Usa catapultato a protagonista della storia recente dopo i fatti dell’11 settembre 2001, da cui scaturirono a cascata i conflitti mediorientali in Afghanistan e, due anni dopo, Iraq. L’America diI Bush coincise con l’America della globalizzazione rampante che si faceva interventista mano a mano che nell’amministrazione diventava insostituibile il peso dei falchi neoconservatori. Ma prima del leader interventista intento a gestire una chiamata alle armi condotta con uno zelo religioso prima ancora che politico, contrapponendo all’estremismo islamista il richiamo alla purezza e la divisione maniche tra “buoni” e “cattivi” tipica dell’etica calvinista e protestante, vi fu il Bush coinvolto nel dramma collettivo che gli Usa vissero dopo i giorni dell’11 settembre. Un dramma durante il quale Bush fu chiamato a prendersi sulle spalle le aspettative e i timori di una nazione ferita e spaesata. Nel ventennale del multiplo attentato dell’11 settembre l’ex presidente ha parlato alla commemorazione dei morti nello schianto del volo United 93, precipitato vicino a Shanksville, Pennsylvania, unico dei quattro dirottati da Al Qaeda a non aver raggiunto il suo bersaglio. E nel suo discorso si è concentrato sul senso di unità che si percepiva in America dopo la tragedia collettiva di vent’anni fa: “Nel giorno del dolore e del lutto”, ha dichiarato Bush, “ho visto milioni di persone stringere istintivamente il braccio del loro vicino e dedicarsi alla causa del prossimo. Questa è l’America che conosco”. Un’America che a detta di Bush “è la versione più genuina di noi stessi”, un’America che torna nella retorica del presidente la shining City upon the hill, la nuova Gerusalemme da riscattare: c’è tutto l’evangelismo radicale dell’ex presidente laddove Bush afferma che, nei giorni successivi all’11 settembre, “dopo aver vagato a lungo nell’oscurità, molti hanno scoperto che in realtà stavano camminando passo dopo passo verso la grazia”. La profonda retorica utilizzata da Bush in questa occasione richiama il momento di maggior contatto emotivo tra l’allora presidente e il popolo americano nei giorni appena successivi all’attentato. Il 14 settembre 2001 Bush si recò in visita a Ground Zero a New York e, senza alcuna programmazione anticipata, pronunciò spontaneamente un discorso ai lavoratori intenti a rimuovere le macerie, a mettere in sicurezza l’area e a indagare sui fatti dell’11 settembre. “I can hear you!”, disse Bush salendo su un veicolo distrutto e parlando con un megafono in mano ai lavoratori. “Vi posso sentire! Vi posso sentire! Tutto il mondo vi ascolta”, disse solennemente mettendosi in diretto collegamento con le sofferenze, le tensioni e il dolore di New York e dell’intera America, aggiungendo poi che “coloro che hanno distrutto questi edifici ci sentiranno presto”, preannunciando la risposta militare che, tre settimane dopo circa, avrebbe dato il via all’offensiva afghana. Ebbene, in questo discorso ci fu tutto il profondo dualismo di Bush, uomo chiamato a gestire dinamiche storiche più grandi, profondamente complesse e strutturate del born again Christian che cercava di levarsi dalle spalle l’appellativo di semplice erede del presidente “vincitore” della Guerra Fredda e della Guerra del Golfo, il padre George H. W. Bush. Presidente catapultato suo malgrado nella storia dopo aver vinto le elezioni contro il progressista democratico Al Gore su un tradizionale programma repubblicano fatto di tagli alle tasse, deregulation finanziaria, amministrazione dell’economicismo, a capo di un’amministrazione commissariata dai neoconservatori. Nelle parole del discorso di Ground Zero si leggono l’identificazione dell’uomo con la nazione e lo spaesamento del leader che, inevitabilmente, deve promuovere la reazione energica. Si anticipano gli errori dei mesi successivi e del ventennio che ne è seguito, ma si comprende anche la drammatica profondità del momento storico che si andava delineando. “I can hear you” sembra anche il motto di fondo del discorso che Bush, nel ventennale, ha pronunciato a Shanksville: “nel sacrificio dei primi soccorritori, nel soccorso reciproco tra sconosciuti, nella solidarietà del dolore e della grazia, le azioni di un nemico hanno rivelato lo spirito di un popolo”, ha detto l’ex presidente. Spirito che, però, vent’anni fa si è manifestato forse per l’ultima volta. I semi della divisione e della polarizzazione interna già covavano mano a mano che le faglie culturali, etniche, economiche e sociali corrodevano le possibilità di cooperazione politica e la capacità di gestione delle crisi da parte della superpotenza. Dalla Grande Recessione ai fatti di Capitol Hill, da Occupy Wall Street a Black Lives Matter, passando per il quadriennio trumpiano che è stato sintomo, e non causa, di questa polarizzazione l’America si è scoperta una fragile superpotenza. Tanto fragile come lo era vent’anni fa, come del resto sottolineato da quei commentatori (in Italia Geminello Alvi, Franco Cardini, Marco Tarchi, Massimo Fini, Tiziano Terzani) che nella stessa risposta interventista alla guerra del terrore globale hanno visto non una riscossa degli States quanto piuttosto un emblema delle loro difficoltà. Della tendenza a compattare la nazione dietro il fattore unificante della minaccia esterna. Bush è stato il primo artefice e la prima vittima di questo processo, ma anche la sua figura va letta in chiave umana e non solo politica. Trovarsi a dare voce alle pulsioni e ai timori di una nazione ferita al cuore è compito improbo per qualsiasi capo di Stato. Oggi come vent’anni dopo George W. Bush lo testimonia.

Con le Torri gemelle quel giorno crollò anche lo Stato di diritto. La risposta interna al terrorismo fu il “patriot act”, un dispositivo che fa a pezzi garanzie e libertà civili e che ancora oggi mina la democrazia americana. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 settembre 2021. Nel corso della storia gli Stati Uniti d’America hanno subito appena tre attacchi sul proprio territorio. Il primo nel 1916, quando 500 uomini dell’esercito rivoluzionario guidato da Pancho Villa varcarono la frontiera con il New Mexico per saccheggiare un deposito d’armi nella città di Columbus. Un attacco mordi e fuggi che provocò 17 vittime. La reazione americana fu sproporzionata e terribile: per ordine del presidente Wilson pochi giorni dopo 15mila uomini ai comandi del generale Pershing passarono il confine del Rio Grande per una spedizione punitiva che durò 11 mesi con migliaia di vittime e un netto insuccesso militare.

L’attacco alle Torri gemelle. Il secondo affronto il 7 dicembre 1941 nel celebre attacco di Pearl Harbour, quando l’aviazione dell’impero giapponese rase al suolo la flotta navale statunitense ancorata alle isole Hawai, spingendo Washington nel calderone della Seconda guerra mondiale. La rappresaglia nei confronti dei cittadini di origine giapponese è una delle pagine più buie della recente storia americana: oltre 110mila persone, prevalentemente della costa occidentale furono internate in campi concentramento in quanto «possibili nemici». La deportazione, fuori da qualsiasi norma del diritto moderno, fu autorizzata dal presidente Franklin D. Roosvelt. L’ultimo episodio naturalmente risale all’11 settembre 2001, con gli attentati alle Torri gemelle di New York e al Pentagono in cui persero la vita tremila persone. Quel massacro inaugura l’era della lotta al terrore e della guerra infinita, l’amministrazione di George W. Bush, zeppa di bellicosi orfani della Guerra fredda e di pazzoidi intellettuali neo-con, dichiara guerra all’Afghanistan dei talebani (sic) per preparare poi la successiva invasione dell’Iraq di Saddam Hussein. Sul fronte interno decidono invece di fare a pezzi il proprio Stato di diritto. Cinque settimane dopo gli attentati il Congresso approva all’unanimità (due i voti contrari) il Patriot act, una legge antiterrorismo che sospende buona parte delle libertà civili, trasformando la più grande democrazia del pianeta in una succursale della Germania dell’est.

“Terrorismo interno”. Nessuno si oppone, repubblicani e democratici uniti nella lotta, anche gli intellettuali liberal si mettono l’elmetto: «Bisogna combattere il terrorismo come se non esistessero regole», scrive il New York Times nel suo editoriale in prima pagina. In nome dell’emergenza la società civile americana viene arruolata tutta e la nazione diventa un’immensa trincea. In sostanza il Patriot act, nelle sue prolisse 132 pagine di testo, modifica una quindicina di leggi federali: dall’immigrazione, alle operazioni bancarie, dalla sorveglianza ai mandati di arresto e alle intercettazioni, fino alle manifestazioni di piazza che possono essere associate ad attività anti-patriottiche o addirittura a “terrorismo interno”. Autorizza la brutale intrusione dello Stato nella sfera privata dei cittadini entrando in rotta di collisione con il Quarto emendamento che protegge il diritto degli individui «di godere della sicurezza personale, della loro casa, delle loro carte e dei loro beni, nei confronti di perquisizioni e sequestri ingiustificati». L’Fbi acquisisce poteri mai visti neanche all’epoca di Hoover e della caccia alle streghe, le sue inchieste, spesso fondate su esili sospetti, non hanno più il vincolo del mandato giudiziario, gli agenti possono sorvegliare, spiare, perquisire e arrestare in piena libertà, di fatto i federali hanno gli stessi poteri riservati alla Cia e al controspionaggio.Migliaia di persone vengono messe in custodia cautelare senza capo d’imputazione e possibilità di consultare un avvocato. Le stesse conversazioni tra legali e clienti sono oggetto di intercettazioni selvagge. Viene creato lo status di “combattente nemico” che permette alle autorità di tenere a tempo indeterminato nei centri di detenzione chiunque sia sospettato di attività terroristiche.

Guantanamo Bay. Il più famoso è il carcere di Guantanamo Bay, una zona d’ombra e di illegalità del diritto internazionale di cui parliamo diffusamente in un altro approfondimento del nostro settimanale.I principali fornitori di accesso a internet sono obbligati a mostrare alle agenzie del governo i dati personali di milioni di utenti, la Nsa (agenzia nazionale per la sicurezza) può acquisire senza mandato tutte le mail e tutte le conversazioni telefoniche in provenienza o a destinazione degli Stati Uniti. In premio le aziende web e di telecomunicazione ricevono un’immunità retroattiva per eventuali reati fiscali. Il concetto stesso di privacy si sgretola con le scorribande dei federali che possono ottenere dossier medici, finanziari dei sospetti e informazioni su chiunque prenda a noleggio un video o persino un libro in una biblioteca. Lo scandalo del Datagate scoperchiato nel 2013 dall’ex consulente della Nsa Edward Snowden nasce proprio nel solco profondo scavato dal Patriot Act. Doveva essere una disposizione transitoria di quattro anni e invece il dispositivo si è nel corso del tempo si è “perennizzato”, se l’amministrazione Obama ha approvato alcuni emendamenti che limitano il campo d’azione delle agenzie federali di sicurezza, ancora oggi molte sue misure sono di fatto in vigore come ad esempio le perquisizioni effettuate in assenza del sospetto (dette sneak and peek) o la sorveglianza telefonica e telematica senza l’autorizzazione di un mandato giudiziario. Decine di giudici distrettuali hanno definito in questi anni come incostituzionali diverse nome del Patriot Act rifiutandosi di applicarle nei singoli Stati o contee, ma la Corte suprema ha sempre difeso la mostruosa creatura partorita dall’amministrazione di George W. Bush e dal suo Segretario alla Difesa John Ashcroft.

Il dilemma di Guantanamo dopo la fine della guerra in Afghanistan. Andrea Muratore su Inside Over l'8 settembre 2021. Nei giorni in cui a Guantanamo riprende dopo due anni di sospensione il processo contro i cinque imputati accusati di aver ideato gli attentati dell’11 settembre la rotta afghana degli Stati Uniti riapre il dibattito sul futuro del campo di prigionia americano nella base di Cuba. Una struttura che in questi venti anni ha rappresentato il centro di detenzione per i prigionieri delle forze armate statunitensi ritenuti a vario titolo imputati di collusione col sistema terroristico e con le organizzazioni rivali degli Usa, che ha attratto le critiche trasversali di un’ampia fetta di media, opinione pubblica e mondo politico negli States e non solo.

Guantanamo e i suoi detenuti. Il carcere di massima sicurezza è infatti formalmente fuori dal territorio statunitense, nell’ultimo residuo della presenza militare Usa a Cuba, e dunque non soggetta alla giurisprudenza e alle norme del diritto interno del Paese. I soggetti incarcerati si trovano formalmente in un limbo, privi sia del riconoscimento di prigionieri di guerra (non essendo gli Usa formalmente in conflitto con altre nazioni) sia dello status di ordinari detenuti dell’amministrazione federale statunitense a cui applicare i termini di legge in materia di custodia cautelare, rinvio a giudizio e incarcerazione. Non è un caso che Human Rights Watch abbia sottolineato che dal 2002 in avanti solo 16 dei 780 detenuti passati per Guantanamo abbiano subito un esplicita incriminazione penale, e anche quando ciò è avvenuto i casi sono stati estremamente controversi; l’’ex capo della propaganda di Al-Qaida Khalid Sheikh Mohammed, che ha esplicitamente confessato di essere stata la mente dell’11 settembre, ha dovuto aspettare cinque anni tra la sua cattura, avvenuta nel 2003, e la sua incriminazione, partita nel 2008, e il suo processo è ancora in alto mare mentre sulle confessioni sue e di altri detenuti aleggiano i dubbi di costituzionalità legati al possibile uso della tortura nelle prigioni segrete della Cia. Per questo in America si sta discutendo sulla legittimità del carcere di massima sicurezza creato per operare la detenzione, la punizione e la rieducazione prigionieri catturati in Afghanistan o in Pakistan ritenuti collegati ad attività terroristiche, 39 dei quali sono attualmente rinchiusi a Guantanamo. A riempire le celle, soprattutto nella prima fase, sono stati soprattutto afghani, sauditi, yemeniti e pakistani. Molti di questi detenuti, nota Npr, sono i cosiddetti forever prisoners mai coperti da accuse formali o incriminazioni, mentre in larga misura i detenuti scarcerati o scambiati con prigionieri statunitensi al termine di faticose trattative difficilmente hanno perso l’abitudine di contrastare la superpotenza a stelle e strisce. Anzi, il canale all-news indiano Wion ha dedicato un ampio approfondimento al fatto che diverse figure di spicco dei Talebani tornati al potere in Afghanistan hanno conosciuto da vicino la prigionia a Guantanamo. Khairullah Khairkhwa, membro dell’ala radicale dei Talebani e loro ex ministro dell’Interno, è tra le figure che hanno subito la detenzione a Guantanamo, e anche Gholam Ruhani, esponente dell’intelligence del gruppo, è passato per il carcere cubano. Tra le accuse di tortura, le violazioni dei diritti umani e il comportamento duro e punitivo dei militari Usa verso i prigionieri, Guantanamo è diventato un centro fondamentale per le critiche alle politiche degli Usa nei Paesi dell’Asia centrale e del Medio Oriente e il suo futuro dopo la sconfitta afghana è incerto.

Guerra terminate, detenzioni senza fine. L’associazione Just Security ha pubblicato di recente un dettagliato rapporto in cui attacca il fatto che il termine delle “guerre senza fine” non è ritenuto propedeutico alle prigionie senza fine, nonostante gli appelli in senso contrario che l’attuale presidente Joe Biden ha più volte fatto. Il mantenimento in operazione del carcere viene definito “aberrante, incongruente, illegale”: come possono, è il senso dell’appello, gli Stati Uniti combattere e esporsi per la libertà, la democrazia, i diritti umani senza difenderli in primo luogo erga omnes sul loro territorio? Come definire la responsabilità penale effettiva di soggetti che possono anche essersi macchiati dei più terribili reati di terrorismo ma la cui capacità di sostenere un processo è messa a repentaglio da detenzioni a tempo indeterminato e prevaricazioni tutt’altro che indifferenti? Queste domande non conoscono risposta da vent’anni e sono lo specchio del dibattito aperto dalla gestione emergenziale del diritto interno che gli Usa hanno reso, di fatto, strutturale nel corso degli anni. Il dibattito è di quelli politicamente importanti perché impone una riflessione sulle motivazioni, il senso e le conseguenze dell’intervento statunitense in Medio Oriente, segnalando un’asimmetria tra la retorica e l’azione concreta della superpotenza. Le torture di Guantanamo e la sospensione del diritto sono sotto gli occhi di tutti: e da più parti è emersa chiara la percezione del fatto che se alla barbarie della sfida terrorista si decide di rispondere – in nome della tutela di un generico principio di sicurezza – con la negazione dei capisaldi del diritto che caratterizzano la vita interna della società occidentali, si contribuisce solamente all’instabilità globale diminuendo la sicurezza collettiva. Gli Usa e l’Occidente non hanno altra scelta che quella di recuperare i capisaldi della democrazia feriti negli ultimi anni dalle crisi, dalla conflittualità e dall’ascesa delle disuguaglianze per sconfiggere politicamente i movimenti estremistici e terroristici. Il problema è che il principio securitario su cui la scelta di creare Guantanamo poggia non tramonta con l’Afghanistan, rendendo difficile una svolta che segnerebbe una reale volontà degli Usa di cambiare strategia combattendo politicamente l’estremismo in maniera diversa. E al contempo annacquando ogni prospettiva reale di rendere credibile gli appelli statunitensi per la democratizzazione di Cuba, Paese nei cui confronti gli Stati Uniti stanno esercitando pressioni dopo lo scoppio delle proteste estive. Le grandi potenze difficilmente possono reggere l’accusa di ipocrisia dopo una sconfitta militare e politica come quella afghana: e Washington ciò deve tenerlo ben presente.

Dagotraduzione dalla Nbc il 12 settembre 2021. Doveva essere il processo del secolo, ma la maggior parte degli americani ha smesso da tempo di prestargli attenzione. Due decenni dopo gli attacchi dell’11 settembre e nove anni dopo la formalizzazione delle accuse di crimini di guerra, l’udienza preliminare del processo contro Khalid Sheikh Mohammed, considerato la mente degli attacchi alle Torri Gemelle, e ad altri quattro imputati sono riprese martedì dopo un lungo arresto per Covid. Non sono previste, né a breve né in futuro, udienze per presentare le prove. Secondo Alka Pradhan, impiegato civile del Dipartimento della Difesa che rappresenta uno dei cinque imputati, quello che succedendo è una «farsa». Gli altri avvocati non si sono spinti così lontano, ma quasi tutto sembrano concordare sul fatto che lo sforzo per portare questi imputati davanti alla giustizia è andato male. «Non è colpa degli imputati, dei loro avvocati o dei giudici» ha spiegato Kevin Powers, esperto di sicurezza nazionale al Boston College. «È il modo in cui è stato impostato il sistema. Ed è quello che le persone devono capire davvero: il sistema è impostato per fallire». Sono passati 15 anni dal giorno in cui il presidente Bush ha annunciato l’arrivo dei detenuti nella prigione di Guantanamo. Le ragioni per cui le ruote della giustizia si muovono così lentamente sono molte. Ma la più importante è la segretezza. Ci sono voluti anni perché gli avvocati difensori ottenessero di conoscere le prove raccolte contro i loro clienti, e ancora non hanno tutto ciò di cui hanno bisogno, nonostante siano in possesso di tutti i nulla osta per i documenti top secret. All’interno dell’aula, giornalisti e familiari sono sistemati dietro a una parete di vetro spesso. Il suono viene trasmesso con 40 secondi di ritardo per evitare che gli imputati spifferino qualcosa di riservato. Gli avvocati della difesa sostengono che la ragione per cui qui tutto è avvolto dal segreto è che il governo cerca di nascondere quello che è accaduto ai detenuti trattenuti e torturati dalla Cia in prigioni segrete prima di essere trasferiti a Guantanamo. «Questi uomini sono stati portati a Guantanamo per nascondere le torture che hanno subito, ed è la ragione per cui esiste la detenzione a tempo indeterminato a Guantamano» dice James Connell, avvocato di Ammar al Valuchi. «Il motivo per cui siamo tutti riuniti a Guantanamo per la 42a udienza della commissione militare dell'11 settembre nel 15° anniversario del trasferimento di questi uomini a Guantanamo è nascondere la tortura». Gli esperti dicono che al ritmo in cui procede il caso, potrebbe volerci un altro decennio di udienze procedurali. «C'è la possibilità di non avere alcun processo», ha detto Madeline Morris, professoressa di diritto della Duke, direttore della Guantanamo Defense Clinic. Inoltre la struttura di Guantanamo, che ad oggi ospita 39 detenuti ma ha una capacità di 700, costa ai contribuenti 13 milioni di dollari a prigioniero l’anno. L’amministrazione Biden ha dichiarato di voler chiudere la struttura, ma intanto, a detta dei funzionari, è in corso un’espansione da 15 milioni di dollari per costruire, tra l’altro, una nuova aula di tribunale e spazi di lavoro. Bush ha aperto il centro di detenzione nel 2002 quando ha lanciato quella che ha chiamato una Guerra al Terrore. La sua idea era di mantenere lì a tempo indeterminato i cosiddetti combattenti nemici. L'ha riempita, mescolando soldati di basso livello a menti terroristiche, tutti detenuti senza che venissero presentate accuse. Dopo la condanna del mondo intero, la sua amministrazione ha rilasciato più di 500 prigionieri e ha concesso ai restanti gli avvocati. Molti sono stati rimandati a casa o rilasciati in paesi terzi senza incidenti. Secondo l'ufficio del direttore dell'intelligence nazionale, circa il 17 per cento si è nuovamente dedicato al terrorismo. Due ex detenuti di Guantanamo sono stati nominati il mese scorso in ruoli chiave con i talebani che prendevano il controllo dell'Afghanistan. Come presidente, Barack Obama ha promesso di chiudere la prigione, ma non ci è riuscito, sebbene abbia ridotto ulteriormente la popolazione a 41. Donald Trump si è impegnato a riempirlo di nuovi detenuti, ma non lo ha mai fatto. La Cia e l’esercito, sospettati di tortura, hanno smesso da tempo di trattenere i combattenti nemici per più di pochi giorni. Gli Stati Uniti invece si sono affidati agli alleati per incarcerare quelli catturati sul campo di battaglia. I critici affermano che per l'America è più facile uccidere i sospetti terroristi con attacchi di droni che catturarli e trattenerli. Nel frattempo, gli imputati dell'11 settembre attendono giustizia. «Non ho alcun dubbio che KSM sia colpevole», ha detto Terry McDermott, coautore di "The Hunt for KSM", il resoconto definitivo di come gli Stati Uniti hanno rintracciato Khalid Sheikh Mohammed. «Lo ha ammesso lui stesso più e più volte. Questo doveva essere un caso molto semplice, da aprire e chiudere. Se il processo si fosse svolto nel distretto meridionale di New York, come è successo per altri 200 processi per terrorismo, il tizio sarebbe stato in prigione o giustiziato 10 anni fa. Ma se sei stato a Guantanamo, hai visto la situazione. L'intera faccenda è ridicola».

«L’11 settembre permise la deriva antidemocratica di Bush». L’analisi della storia americana Ruth Ben-Ghiat: «L’attacco fu uno di quegli eventi cataclismatici che spesso permettono ai governanti illiberali, autocratici, di fare cose che avrebbero voluto fare comunque. Il vero pericolo oggi? Il terrorismo interno». Alberto Flores D'Arcais su L'Espresso il 10 agosto 2021. «Vivevo nell’Upper West Side e avevo preso la metropolitana per andare downtown, alla Casa della cultura italiana della New York University. Improvvisamente le carrozze si sono fermate, c’è stato un annuncio, qualcuno aveva un cellulare che funzionava, una cosa strana. Ci hanno evacuato e siamo usciti: e il mondo era cambiato». Ruth Ben-Ghiat l’11 settembre se lo ricorda come fosse ieri. Storica, critica culturale, studiosa del fascismo e dei leader autoritari (il suo ultimo libro “Strongmen. Mussolini to the Present” è un best seller della saggistica), nei giorni successivi all’attacco terroristico di al Qaeda «io stessa, come chiunque avesse un cognome mediorientale - Ben è come Bin - sono finita in una lista nera, per anni mi è stato difficile viaggiare».

Dopo vent’anni cosa pensa?

«È molto interessante pensare oggi all’11 settembre 2001, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto in America negli ultimi cinque anni. Per me è stato un evento-shock, uno di quegli eventi cataclismatici che spesso permettono ai governanti illiberali, autocratici, di fare cose che avrebbero voluto fare comunque. Eventi che permettono a determinati individui di allargare ancora di più i confini anti-democratici».

È accaduto negli Stati Uniti?

«Io credo che questo possa accadere anche nelle democrazie, un esempio di autocrazia è quello di Erdogan dopo il golpe del 2016. L’11 settembre ha permesso al complesso militare-industriale dell’amministrazione Bush di mettere in piedi un intero sistema illiberale, che molti avrebbero voluto ma non avevano avuto l’occasione di iniziare».

Ad esempio?

«Lo stato di sorveglianza e la detenzione degli individui. O come le ho detto quello che è capitato a me stessa. Controlli speciali sugli individui all’inizio, poi è stato creato ad hoc il Dipartimento della sicurezza nazionale. Detenzione, sorveglianza, poi effetti a lungo termine molto interessanti come la guerra in Iraq, dove abbiamo assistito alla distruzione della verità e alla persecuzione della stampa. Dopo il Watergate, l’Iraq è stato il primo esempio di manipolazione dei media e di fabbricazione di bugie a livello statale. L’11 settembre è stato l’evento shock che ha dato il via a questi enormi cambiamenti di politica interna ed estera che, in un certo senso, sono stati una sorta di preparazione per quello che è successo più recentemente».

Si riferisce agli anni di Trump?

«Non solo. Trump è un autoritario, nessun presidente prima di lui lo è mai stato in questo modo. Ma alcune cose nascono già nel 2001. La clientela e i profittatori, in un certo senso, sono il complesso militare industriale, gli appaltatori, l’industria della difesa. La guerra fredda era finita, l’America aveva l’esercito più potente al mondo, possiamo dire che per venti anni c’è stata una sorta di crisi per capire cosa fare con questo potere militare, chi fosse il nemico. Il ventennio che è iniziato con la guerra in Afghanistan è stato in un certo senso di ripensamento, per capire quale potesse e possa essere il ruolo dell’America nel mondo».

Biden ha annunciato il ritiro dall’Afghanistan proprio per il prossimo 11 settembre. Si chiude questo ventennio?

«Il ritiro vuol dire ammettere che questa guerra è stata in un certo senso un fallimento. È stata una “forever war”, una guerra senza fine, che alla fine è diventata sterile».

Si può dire che Trump è, anche, una conseguenza dell’11 settembre?

«No. Non è stato una conseguenza diretta perché ci sono state molte altre cose in mezzo, ad esempio l’ascesa del Tea Party, che ha avuto solo marginalmente a che fare con l’attentato. Tuttavia, ciò che piace agli uomini forti, autoritari, tanto per citare il mio libro, ciò che sanno fare è sfruttare la situazione che c’è e volgerla a scopi illiberali. Possiamo dire che lo stato di detenzione e di sorveglianza che è seguito all’attentato è iniziato con Bush. Trump ha semplicemente capitalizzato su quello che già c’era, ha capitalizzato questi impulsi illiberali che sono fioriti dopo l’11 settembre. Ma non c’è un collegamento diretto».

C’è chi lo accusa di una sorta di tentato golpe. Lei che ne pensa?

«Penso che ci abbia provato, ma la cosa molto interessante negli anni in cui Trump è stato alla Casa Bianca è che non ha avuto successo. Non ha avuto successo nell’usare l’esercito per una svolta autoritaria, per metterlo contro la popolazione. Ci ha provato. E ci sono cose ancora in corso che mi preoccupano molto nella sfera civile militare, ma è un altra questione, perché gli Stati Uniti sono stati lo sponsor principale di colpi di Stato e della guerra psicologica».

Trump è stato un presidente autoritario?

«Trump e alcune delle persone a lui più vicine, Steve Bannon ad esempio, lo sono, miravano certamente ad avere più potere e meno controlli. L’autoritarismo ha sempre un aspetto diverso. E se io sono ancora forse l’ultima persona che non dice che Trump è fascismo, lo faccio perché credo che dargli del fascista sia fuorviante. È autoritario? Sicuro, al cento per cento. Ma non lo definisco fascista comunque: è un’altra questione, stava cercando di avere un governo che fosse autoritario, che lo proteggesse sul piano personale».

Gli anticorpi contro l’autoritarismo hanno funzionato?

«La domanda da farsi è: gli Stati Uniti potrebbero diventare più simili a quanto voleva Trump? Ci sono diverse persone che credono ancora che l’autoritarismo sia utile al capitalismo e potrebbero citare la Cina, ma questo è un po’ un mito. Io penso che gli anticorpi ci siano, c’è stato un grande contraccolpo, come quello che abbiamo visto nelle elezioni del novembre scorso. Trump è stato cacciato via col voto, ed è molto insolito che un popolo interrompa un processo autocratico».

Libertà e sicurezza. Oggi l’America è meno libera e più sicura?

«Sono una storica e da un punto di vista storico lo è. Pensiamo anche a quanto succede oggi, con le risposte alla pandemia. Quando gli Stati implementano misure di emergenza, stati di eccezione, diventa tutto molto difficile. Le cose accadono e il governo si espande e le restrizioni si espandono sulle libertà. E di solito nella storia, non si torna mai indietro come prima. Anche se sei ancora in una democrazia e lo stato di emergenza ufficiale finisce, il governo con più poteri rimane. Le maggiori restrizioni alla libertà rimangono». 

Esportare la democrazia è un’idea giusta o sbagliata?

«Gli Stati Uniti durante la guerra fredda hanno dato una mano ad abbattere democrazie ma hanno anche una storia, più lunga, di portare la democrazia. Ho scritto molto nel mio libro sul Cile, perché lì gli Stati Uniti hanno aiutato il dittatore ad arrivare a prendere il potere ma hanno anche enormemente aiutato il dittatore ad andarsene negli anni Ottanta, sostenendo e finanziando la mobilitazione degli elettori al plebiscito. Poi ci sono interventi in teoria giusti ma che alla fine si rivelano sbagliati, la Libia in questo è un buon esempio. Nel cambio di regime a Tripoli ci sono stati molti attori, non sono solo gli Stati Uniti. C’era da agire di concerto con la Nato e tutto il resto. Oppure in Iraq, il punto non era realmente portare la democrazia, la questione principale era il petrolio, il profitto, i militari Usa vicini al nemico Iran».

Lo ha sostenuto anche Trump.

«Come sempre Trump è stato molto schietto. E a volte dice cose, quando non mente spudoratamente, che altri non dicono. Ha detto che la guerra in Iraq era per ottenere il petrolio e che non ne hanno ottenuto abbastanza. Avrebbero dovuto ottenerne di più. Quindi, se il cambio di regime non riguarda davvero la democrazia ma un profitto, allora non funzionerà perché c’è malafede».

Il terrorismo è ancora una minaccia per gli Usa?

«La minaccia terroristica per gli Stati Uniti è interna. E questi sono i veri terroristi di cui nessuno voleva occuparsi, non sono terroristi islamici. Sono bianchi, prevalentemente bianchi, cristiani americani. Terroristi americani e militanti dell’estrema destra. Il terrorismo islamico, quello che era attivo prima dell’11 settembre non è una minaccia per gli Stati Uniti. E infatti l’amministrazione Trump si è occupata, come regime autocratico, di fare accordi con altri autocrati. Così i finanziatori, i veri finanziatori dell’11 settembre, i sauditi, hanno tratto profitto durante l’amministrazione Trump. Quel tipo di terrorismo oggi non è una minaccia, oggi se parliamo di violenza e di qualsiasi definizione di terrorista dovremmo concentrarci sul terrorismo interno americano».

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Una separazione consensuale. Nero su bianco. Un impegno scritto da Osama in persona e rivolto ai due fratelli che lo proteggevano. Era l'unica scorta che bin Laden aveva nel suo ultimo rifugio, ad Abbottabad, in Pakistan. La coppia non ne poteva più. Oltre a fare da corrieri prendendo rischi seri, si occupavano delle cose quotidiane, della spesa, di qualsiasi necessità del leader e del numeroso nucleo familiare. I due si lamentano, Osama recepisce le preoccupazioni e il 15 gennaio 2011 scrive una lettera ad uso interno. Mossa curiosa, quasi condominiale. Il capo qaedista chiede un po' di tempo per rimediare un altro nascondiglio e si impegna ad andarsene entro il mese di luglio. Le sue previsioni sono errate, le ricerche non danno frutti e le promesse sono spazzate via da una sorpresa: il 2 maggio i Navy Seals piombano sulla casa e lo uccidono. I particolari di quegli giorni della guida jihadista sono emersi dall'analisi del materiale sequestrato dagli americani durante il blitz. Una miniera: 470 mila files, memorie esterne, cinque computer, dozzine di chiavette e CD. In una recente intervista il responsabile dell'operazione, l'ammiraglio William McRaven, ha ricordato la sua ansia durante le fasi critiche dell'assalto quando il team leader sul terreno ha chiesto più tempo rispetto ai 30 minuti previsti dalla tabella di marcia. Permesso ottenuto, sia pure limitato, per rastrellare il grande archivio trovato al secondo piano. I documenti sono stati studiati dall'intelligence, resi pubblici nel 2017 e analizzati dagli esperti. In particolare da Peter Bergen, autore di un libro appena uscito, «The Rise and fall of Osama bin Laden». Sono spezzoni di politica e vita rilanciati dai media Usa, come Wall Street Journal e New York Times. Ad aiutare nella ricostruzione di quegli ultimi giorni è un diario tenuto da due figlie del terrorista, un verbale minuzioso con riferimenti interessanti all'umore del padre ma soprattutto a quanto avveniva all'esterno dell'alto muro che circondava la residenza pachistana. Notevole la parte riguardante le primavere arabe. Secondo le carte Osama era sorpreso e angustiato dal fatto che il suo movimento fosse stato superato dalle piazze e non venisse considerato. È molto deluso, prova a nasconderlo durante delle riunioni alle quali partecipano le due mogli, Umm Hamza e Siham, insieme al resto della micro-comunità. Lui reagisce in modo freddo quando gli chiedono perché i media non citano la fazione, le consorti provano a spiegare cercando di attenuare il colpo. Bin Laden recrimina, ricorda quanto si sia speso per incitare le masse arabe alla rivolta contro i regimi. I congiunti gli suggeriscono di preparare un discorso che possa catturare l'attenzione, riprendere l'iniziativa. Parole che però sono una disperata rincorsa. È solo l'inizio. Negli anni a seguire il qaedismo sarà scavalcato da una forza più agile, feroce e pratica. Lo Stato Islamico. Scavalcato non vuole dire però scomparso, in quanto l'idea qaedista è ancora solida. Osama, sempre in base al diario, considera di riconoscere gli errori del suo movimento, resosi responsabile della morte di molti musulmani in tanti Paesi, civili coinvolti negli attacchi. In questa fase di ripensamento non esclude neppure di cambiare nome alla fazione. Sono aggiustamenti uniti ai consigli per i mujaheddin delle formazioni in Africa o Medio Oriente. Afferma che il presidente Obama e il generale Petraeus sono obiettivi primari mentre ritiene che il vice Biden non sia adeguato, auspica azioni clamorose uguali a quelle dell'11 settembre. Non si fida per nulla dell'Iran, Stato che ha accolto i familiari riservando loro un trattamento duro. Il leader tenta di svolgere il suo ruolo anche se è difficile viste le condizioni della sua latitanza. È auto recluso mentre il mondo gira veloce. Non lo sa, ma l'epilogo è vicino e arriva prima di un possibile trasloco.

Così la guerra interna all’intelligence Usa ha favorito l’11 settembre. La fuga dall’Afghanistan è l’ultimo di una serie di fallimenti, iniziati nel 2001. Quando Al Qaeda non fu fermata e le previsioni sbagliate della Cia e la gelosia tra agenzie regalarono un vantaggio a Bin Laden. Leo Sisti su L'Espresso il 3 settembre 2021. A mezzanotte di lunedì 30 agosto va in scena l’ultimo atto della guerra nel pantano afghano. Stordisce il bilancio di questi vent’anni di guerra. Per il suo costo finanziario, oltre 2.260 miliardi di dollari. Per il triste pedaggio pagato da vittime incolpevoli, cadute sul campo del gioco bellico: 241 mila, di cui 2.442 soldati degli Stati Uniti. Per la catena di errori commessi, oggi, come allora, nel 2001, quando tutto è iniziato, dopo la strage dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. La débacle in Afghanistan, con la sua evacuazione apocalittica, la fotografa il rapporto dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction. Un cahier de doléances impietoso, pubblicato dopo la presa di Kabul di metà agosto, dal titolo significativo: “Quali lezioni trarre dopo vent’anni di guerra in Afghanistan”. «Il governo americano non ha capito il contesto afghano... aver ignorato le prevalenti istanze, sociali, culturali e politiche ha portato al fallimento sul terreno». L’immagine che esce da questo quadro? «Desolante». Questo è il secondo fallimento. Il primo conduce ancora più lontano, ma non è l’incomprensione il suo stigma. È la rivalità, la gelosia all’interno di due agenzie nella gestione di informazioni vitali che avrebbero dovuto essere condivise e sono state invece trattenute. Informazioni che avrebbero potuto impedire l’attentato di New York con i suoi 3000 morti. Qualcuno si sarebbe salvato? Forse sì. Ma qualcosa è andato storto. Lo sa bene chi si è battuto per superare questo stallo. È Mark Rossini, 60 anni, ex agente dell’Fbi, distaccato nel 1999 dal bureau presso la Alec station, l’unità speciale creata dalla Cia nel 1999 per dare la caccia ad Al Qaeda e a Osama Bin Laden. Afghanistan e quella data simbolo, 11 settembre, sono intrecciati nei ricordi di chi, da protagonista, ha vissuto anni di lavoro intenso: segnalando buchi nelle indagini e denunciando chi gli ha fatto terra bruciata, per non permettergli di procedere su una pista che avrebbe potuto risparmiare vite spezzate. Rossini, una laurea in Scienze politiche, oggi titolare di una società di consulenze, se lo rammenta bene quel giorno maledetto, un martedì. «Ero in macchina, radio spenta, senza musica né notizie. Stavo solo attento al traffico. Squilla il telefono, mi chiama un broker di Merrill Lynch, lavorava a due passi dalle Torri Gemelle. Mi dice: “Un aereo ha colpito il World Trade Center”. Che cosa? Sarà stato un Cessna, il pilota avrà avuto un infarto. Mi risponde urlando: “No, era un jumbo jet!”. Stavolta sono io a urlare: vai via subito dall’edificio, esci a tutta velocità. Scappando, vedrà corpi per terra, gente che cade, che si butta dal grattacielo. Sono arrivato di corsa al mio ufficio alla Cia, appena in tempo per vedere in tv un altro aereo entrare nella seconda torre. Scatta un allarme: un altro apparecchio si stava dirigendo verso Washington, riceviamo l’ordine di evacuare il palazzo. Ma noi della Alec station, proprio noi che dovevamo combattere Al Qaeda, non potevamo fuggire. Siamo rimasti al nostro posto. E non ci siamo mossi. Abbiamo cercato di capire chi ci fosse su quei velivoli, i loro nomi». E il fantasma della memoria riaffiora di colpo, andando indietro nel tempo, mettendo insieme le tessere di un puzzle da ricomporre, in una sorta di rewind, di riavvolgimento ossessivo del nastro. Testimone di questo stato d’animo, la sera stessa, la moglie di Mark, che ricorderà: «Prima di andare a letto, continuavi a dire: “Sapevamo chi erano, sapevamo chi erano”. Poi ti sei addormentato». Un nome su tutti ricorre. Quello del saudita Khalid al-Midhar, già nel mirino della Cia da tempo, uno dei futuri attentatori del volo American Airlines 77, poi schiantato sul Pentagono. Rossini e un suo altro collega dell’Fbi, l’agente speciale Doug Miller, anche lui assegnato alla Alec Station, scoprono che proprio questo personaggio aveva nel suo passaporto un visto per gli Stati Uniti. Al-Midhar aveva anche preso parte, ai primi di gennaio 2000, al famoso summit di Al Qaeda a Kuala Lumpur, in Malesia, la prova generale in vista dell’attacco dell’11 settembre. Poco dopo, il 5 gennaio, Miller scrive un messaggio ai capi dell’Fbi informandoli della novità. Avrebbe potuto essere una svolta clamorosa. Nuove piste. Nuove inchieste. Invece Doug viene bloccato. Il suo messaggio non arriverà mai a destinazione. Una giovane analista della Cia, Michael Anne Casey, gli impone di non avvertire l’Fbi, lo ha deciso il vicedirettore, Tom Wilshire. Sono le regole interne della Alec Station: è vietato riferire notizie al di fuori di quel ristretto gruppo. Miller è annichilito. Rossini anche. Miss Casey giustificherà così il suo comportamento: «Questo caso non riguarda l’Fbi. Il prossimo attacco di Al Qaeda avverrà nel sud-est asiatico e i loro visti (quelli degli attentatori, ndr) per l’America sono solo un diversivo. Non devi fare parola con l’Fbi su questo. Se, e quando, vorremo che l’Fbi sia messo al corrente, lo faremo». Rossini si chiede spesso che cosa sarebbe successo se lui non avesse dato retta a quest’ordine: un tarlo che non lo abbandonerà mai. Sarebbe stato possibile intervenire e magari riuscire a salvare delle vite? Non si saprà mai. Quello che avviene dopo è ancora peggio. Lo spiega lo stesso Mark: «Sono in grado di fornire prove, dettagli, perché quel memorandum di Doug è stato soppresso. La Cia era impegnata in un’operazione di reclutamento, all’interno degli Usa, insieme ai servizi segreti arabi del Mabahit. Avrebbero dovuto avvicinare alcuni dei terroristi che avevano partecipato al vertice di Al Qaeda a Kuala Lumpur», e convincerli a collaborare. Ma c’è di più. I capi della Alec station non volevano che l’agente speciale dell’Fbi, John O’Neill, a New York, «interferisse con il reclutamento». Sarebbe infatti emerso che gli uomini del Mabahit avrebbero dovuto svolgere delle «attività negli Stati Uniti, con il consenso della Cia. Ma che la Cia non aveva l’autorità di dare». Insomma, attività clandestine. E una simile iniziativa avrebbe richiesto la supervisione dell’Fbi e l’approvazione del dipartimento di Giustizia. Troppo complicato. E poi c’è un altro aspetto, delicatissimo. Secondo Rossini, la Cia «temeva che O’Neill non potesse essere controllato e dissuaso dal procedere ad arresti». Con due gravi conseguenze: il reclutamento sarebbe saltato e i sauditi si sarebbero arrabbiati. Quando mai, in quel periodo, Washington, che aveva sempre avuto relazioni eccellenti con Riyad, avrebbe potuto sopportare un simile incidente diplomatico? Ormai è chiaro. Il reclutamento è finito miseramente. Eppure, la Cia insiste. Nel giugno 2001 suoi agenti si presentano nella sede del bureau a New York, ma senza invitare Rossini. Sembra sia stata una scena surreale. Gli uomini della Alec station mostrano ai colleghi del bureau foto di alcuni dei terroristi presenti alla riunione di Kuala Lumpur, senza però dirglielo. Domande come: «Chi sono questi? Dove sono state scattate queste fotografie? E perché?», sono scivolate via senza risposta. Ne è stata data una sola: «Non ve lo possiamo riferire». Tra l’altro, una delle foto raffigurava proprio Khalid al-Midhar. Il mistero sulla scomparsa del memo di Doug Miller è sempre lì, sospeso. Mark Rossini è stato sentito in una sessione del Joint congressional inquiry, quindi del Congresso: «Non potevo parlare. Ho tenuto la bocca chiusa. Mi hanno messo in una stanza, senza avvocato, quindi senza protezione. Un agente della Cia scriveva note. Ho detto soltanto: “Non ricordo”». Una brutta situazione: non poteva fare nomi, gli era stato proibito dalla Cia. Forse è per questo che la speciale Commissione d’inchiesta sull’11 settembre non l’ha mai interrogato. Un altro dei misteri che aleggiano in questa atmosfera di cospirazione riguarda il contenuto di 28 pagine di un rapporto esplosivo, intitolato “The Saudi presence in the Usa”. Secondo Mark Rossini, il dossier, classificato, cioè censurato, mette in rilievo le connessioni tra alti dignitari sauditi, appartenenti alla famiglia reale, e i 19 dirottatori. Si tratta di persone che l’Fbi non è mai riuscita a interrogare. Anche perché, proprio subito dopo gli attacchi, quando gli aeroporti erano chiusi, un aereo è atterrato negli Stati Uniti e li ha riportati tutti a casa, in Arabia: «La principessa Haifa bin Faisal, moglie del principe Bandar, allora ambasciatore a Washington, aveva staccato assegni per 130.000 dollari girati a una charity che finanziava Omar al-Bayoumi, un agente saudita, in contatto con due terroristi, da lui aiutati a trovare un appartamento a San Diego, in California». Uno era proprio Khalid al-Midhar e l’altro Nawaf al-Hamzi, anche lui sul volo suicida American Airlines 77. In passato, la Commissione sull’11 settembre aveva concluso: «Non ci sono prove che il governo saudita, come istituzione, o funzionari sauditi, individualmente, abbiano finanziato» Al Qaeda. Per due decenni 1.600 parenti di vittime hanno premuto su quattro presidenti, insistendo che quel materiale diventasse di pubblico dominio. Nel 2016 Barack Obama lo ha parzialmente declassificato. Ma nel 2019 William Barr, ministro della Giustizia nell’amministrazione Trump, è stato risoluto: quei documenti devono essere coperti da segreto, è una questione di sicurezza nazionale. Uno schiaffo per le famiglie che hanno portato in tribunale il Regno saudita con richieste di risarcimento. E che, infuriate per il silenzio della politica, il 9 agosto scorso hanno rivolto un appello al presidente Joe Biden: il prossimo 11 settembre si asterranno dal presenziare alla commemorazione per il ventennale dell’ecatombe se non avranno assicurazioni sulla liberazione totale della censura. Biden avrebbe fatto qualche promessa. Chissà se la manterrà. Anche Rossini lo spera: «Se, e quando, quelle famose 28 pagine saranno tutte desecretate, e rese pubbliche, si potrà capire perché la Alec station ha fermato Doug Miller e perché mi è stato chiesto di stare zitto». Se così fosse, potrebbe anche lui rivolgersi a un magistrato che affronti una causa civile o penale. Per far luce su un mistero che lo accompagna da una vita.

Il pasticcio dell’amministrazione Obama e i soldi ad Al Qaeda. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 30 dicembre 2020. Con l’avvallo dell’amministrazione Obama, l’organizzazione evangelica umanitaria senza scopo di lucro World Vision United States ha negoziato in maniera impropria, nel 2014, con l’Islamic Relief Agency (Isra) inviando fondi governativi a un’organizzazione sanzionata per terrorismo e legata ad al-Qaeda. Come riporta Yahoo News, il presidente della commissione per le finanze del senato, il repubblicano, Chuck Grassley, ha recentemente pubblicato un rapporto che descrive in dettaglio i risultati di un’indagine iniziata dal suo staff nel febbraio 2019 circa il legame tra World Vision e l’Isra. L’indagine ha rilevato che World Vision non era a conoscenza del fatto che l’Isra fosse stata sanzionata dagli Stati Uniti dal 2004 dopo aver inviato circa 5 milioni di dollari a Maktab al-Khidamat, fondata da Osama Bin Laden.

200mila dollari all’associazione che ha finanziato al-Qaeda. “World Vision lavora per aiutare le persone bisognose in tutto il mondo e quel lavoro è ammirevole”, ha detto Grassley in una dichiarazione. “Anche se potrebbe non essere a conoscenza del fatto che l’Isra fosse sulla lista delle associazioni sotto sanzione o che fosse nell’elenco a causa della sua affiliazione al terrorismo, avrebbe dovuto farlo. L’ignoranza non può bastare come scusa. I cambiamenti di World Vision nelle pratiche di controllo sono un buon primo passo e attendo con impazienza i suoi continui progressi”. L’indagine è partita dopo che Sam Westrop, direttore dell’Islamist Watch del Middle East Forum, ha pubblicato un articolo su The National Review nel quale spiegava come l’amministrazione Obama avesse avvallato una donazione di 200.000 dollari all’Isra.

“Mancanza di controllo”. In buona sostanza, il rapporto del senatore repubblicano accusa l’organizzazione umanitaria – e di conseguenza l’amministrazione Obama, che avrebbe dovuto vigilare attentamente – di non aver prestato sufficiente attenzione nell’assicurarsi che l’Isra non fosse un’organizzazione già sanzionata dagli Usa per finanziamento al terrorismo. Non c’è la volontarietà, insomma, ma è totalmente mancato il controllo. World Vision ha scoperto che l’Isra era stata sanzionata solo dopo che l’organizzazione umanitaria evangelica senza scopo di lucro ha discusso una collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) su un progetto umanitario separato in Sudan. Nell’eseguire un controllo di routine di World Vision e dei suoi partner, l’Iom ha scoperto che l’Isra era sotto sanzioni e ha contattato il team di conformità dell’Office of Foreign Assets Control (Ofac) per comunicare la cosa. Come spiega il rapporto del senatore Chuck Grassley, l’Islamic Relief Agency (Isra) ha sede a Khartoum, in Sudan, e dispone di oltre 40 uffici in tutto il mondo. Il governo degli Stati Uniti ha imposto sanzioni all’Isra nel 2004 dopo che quest’ultima aveva incanalato circa 5 milioni di dollari a Maktab Al-Khidamat, controllata da Osama Bin Laden.

Che cos’è al-Qaeda? Come spiega Alberto Bellotto su InsideOver, al-Qaeda nasce ufficialmente l’11 agosto del 1988. Si tratta di un’organizzazione terroristica di stampo sunnita. Il nome può essere tradotto con “la base”. È nota soprattutto per essere stata la responsabile degli attacchi dell’11 settembre condotti contro gli Stati Uniti che costarono la vita a quasi 3mila persone. Per anni il suo nome è stato legato a quello di Osama Bin Laden che la guidò fino alla sua morte nel 2011. Oggi il network di sigle che la compone è sotto la supervisione di Ayman al-Zawahiri.

Come Bin Laden è diventato Bin Laden. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 23 maggio 2021. Sguardo sorridente come quello di un normale ragazzo di 14 anni, sciarpa verde al collo ed espressione del viso spensierata. È così che appare Osama Bin Laden in una foto che lo ritrae nel 1971 assieme ad altri studenti in Svezia. Nulla lascia presagire che proprio in quel periodo il futuro “principe del terrore” inizia a maturare il suo odio verso la società occidentale. Alcuni anni dopo è proprio lui a lanciare la guerra santa all’Occidente. La scalata criminale che lo porta ad essere il mandante dell’attentato dell’11 settembre 2001, è figlia delle ideologie maturate durante quei viaggi di studio in Europa. Ma in che modo è avvenuta la “trasformazione” di Osama Bin Laden?

Una giovinezza tra gli agi economici. Diciassettesimo tra 52 fratelli, Osama Bin Laden nasce il 10 marzo del 1957 in Arabia Saudita dall’unione di Muhammad bin Awad bin Laden con una delle sue 11 mogli, Alia Ghanem. Una vita la sua che non conosce il senso del sacrificio economico. Suo padre, da facchino del porto di Gedda, negli anni ’50 diventa uno dei costruttori edili più importanti del regno saudita. La sua enorme fortuna economica dipende soprattutto dall’amicizia maturata con Re Abdulaziz, fondatore del nuovo Stato saudita nel 1932. Tra appalti ed affari, il padre di Bin Laden costruisce un impero economico e non fa mancare nulla al figlio, nemmeno quando divorzia con la madre di Osama poco tempo dopo la sua nascita. Bin Laden continua così a vivere con la mamma e il suo nuovo marito, Muhammad al-Attas, ricevendo l’educazione tipica di un giovane saudita benestante. E così il giovane ben presto abbraccia la corrente dell’Islam wahhabita, la corrente di pensiero dominante da sempre nel suo Paese e che predica un ritorno alla radice della religione islamica, escludendo le influenze apportate nel tempo. Come tutti i figli degli uomini d’affari sauditi, frequenta la scuola secondaria al-Thager, la più importante di Gedda dato che tradizionalmente ospita anche i figli della famiglia reale. Nel 1971 vola in Svezia per un viaggio di studi che gli permette di conoscere meglio la cultura occidentale. Una cultura che però al giovane Bin Laden non piace. In alcuni diari trovati anni dopo nel suo ultimo rifugio, in Pakistan, emergono diversi pensieri in cui, proprio a seguito dei suoi viaggi tra Svezia e Inghilterra, parla di quella occidentale come di una cultura decadente. Forse è proprio in questo periodo che Bin Laden si trasforma da giovane studente a potenziale terrorista forgiato da ideologie anti occidentali. In patria continua poi gli studi. Nel 1979 si laurea infatti in ingegneria e in quel periodo, raccontano cronache dell’epoca, il giovane si dedica alla beneficienza, alle poesie e anche al calcio. Una vita normale, dove però il tarlo dell’estremismo inizia a farsi strada. Nel 1981 Bin Laden si laurea anche in un settore inerente la Pubblica Amministrazione, in vista di un suo inserimento nell’azienda del padre. Ma poi nella vita, come si sa, sceglie tutt’altra strada.

L’odio verso l’Occidente. “Era un bravo ragazzo e mi amava così tanto”: è con queste parole che la mamma, Alia Ghanem, descrive anni dopo al Guardian il figlio. Lei all’intervistatore appare come una donna non in grado di capire il cambiamento radicale di Osama, affidandone la responsabilità alle cattive frequentazioni durante l’università: “Era un bambino molto bravo fino a quando non ha incontrato alcune persone che gli hanno fatto il lavaggio del cervello più o meno quando aveva 20 anni” dichiara ancora la donna. Secondo i suoi racconti sarebbe proprio a Gedda, quando studiava economia alla King Abdulaziz University, che Osama sviluppa in modo definitivo le ideologie radicali. In particolare la donna fa riferimento ad Abdullah Azzam, membro dei Fratelli Musulmani, quale figura capace di trasformare il figlio e indirizzarlo verso le ideologie di odio nei confronti del mondo occidentale. La donna il sospetto ce l’ha già da allora. Tanto da avvertire il figlio e dal metterlo in guardia contro le cattive frequentazioni. Il destino di Osama Bin Laden è però ormai segnato: nel 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, si avvicina ai mujaheddin. Un appoggio non solo teorico, ma anche militare. Nel 1981 Bin Laden alla madre racconta di dover andare proprio in Afghanistan per affari. Così non è: nel Paese asiatico il futuro terrorista si reca assieme ad Abdullah Azzam. I due, nella nutrita pattuglia di combattenti islamisti stranieri, si fanno riconoscere. Bin Laden in particolare mette a disposizione la sua immensa fortuna economica, Azzam invece la sua capacità oratoria. Danno così vita al Maktab al-Khidamat (Mak), formazione che nel 1984 è attiva nel reclutamento di giovani musulmani da inviare in Afghanistan. Il giovane saudita diventa, già allora, un riferimento per tanti islamisti.

Dalla guerra in Afghanistan all’11 settembre. In Afghanistan Bin Laden però conosce un medico egiziano di nome Ayman al Zawahiri. Sono loro tre, assieme ai più fidati collaboratori, a teorizzare la nascita di un movimento capace di diventare la base per l’esportazione della guerra santa anche fuori dall’Afghanistan. Si arriva nel 1988 alla fondazione di Al Qaeda, che in arabo vuol dire proprio “La base”. Oltre ad esserne il leader più carismatico, Bin Laden fa di Al Qaeda il mezzo per la sua propaganda anti occidentale. Secondo lui, sono proprio i costumi occidentali a corrompere l’Islam e la sua organizzazione ha quindi il compito di attaccare gli “infedeli” in ogni parte del mondo. Nel 1989 la guerra in Afghanistan finisce. I sovietici sono battuti, i gruppi islamisti esultano. Bin Laden torna a casa e inizia a promuovere pubblicamente la sua immagine di “eroe islamico”. Chiama il suo gruppo “legione araba”, nelle interviste dichiara di essere stato decisivo per la cacciata dell’armata rossa. Ben presto però le cose si complicano. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam Hussein invade il Kuwait e i Saud pensano a Bin Laden come possibile alleato per proteggere il loro confinante territorio. Lui mette a disposizione la sua legione araba, ma a patto di non accettare gli aiuti militari statunitensi. I sovrani sauditi respingono la sua proposta. Da allora lo scenario cambia: Bin Laden lancia proclami contro Riad, denuncia la dipendenza dell’Arabia Saudita dagli “infedeli” americani. I rapporti con il governo si incrinano a tal punto da costringere Bin Laden all’esilio. Lui però non si perde d’animo: è certo di essere un eroe popolare arabo, ha di sé stesso l’immagine di un condottiero, ma soprattutto ha ancora i soldi della famiglia. Sposta così il suo quartier generale in Sudan. Qui viene aiutato da Ali Mohamed, egiziano ex collaboratore della Cia e da molti definito come “primo maestro” militare di Bin Laden in Afghanistan. Intervistato da Robert Firsk sul The Indipendent nel 1993, il fondatore di Al Qaeda dichiara di essere un semplice ingegnere impegnato nella costruzione di autostrade nel Paese africano che lo ospita. Ma già in quel momento cova gli attacchi verso il tanto odiato occidente. Si circonda di molti reduci dell’Afghanistan, molti fedelissimi eseguono i suoi ordini e questo fa crescere in sé la convinzione di essere il vero trascinatore islamico. Ben presto però deve fuggire anche dal Sudan. Il governo di Al Bashir è in difficoltà: gli Usa iniziano a vedere in Bin Laden un potenziale nemico per le sue attività di proselitismo anti americane. Torna così in Afghanistan nel 1996, anno in cui a Kabul il potere viene preso dal gruppo islamista dei Talebani. Nel Paese asiatico la sua Al Qaeda ha modo di organizzarsi. Il territorio afghano ospita basi, scuole e campi per la formazione dei terroristi. Nel 1998 inizia la vera guerra agli Stati Uniti: Al Qaeda rivendica infatti gli attentati contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. La Casa Bianca, all’epoca retta da Bill Clinton, reagisce duramente e scaglia contro i suoi nascondigli tonnellate di bombe nel tentativo di ucciderlo. Lui però scappa, i bombardamenti non lo sfiorano. Anni dopo, intervistato nel 2009, il rais libico Muammar Gheddafi dirà: “Gli è stata data troppa importanza, gli Usa ne hanno fatto un idolo nel mondo islamico”. Bin Laden infatti in quel momento crede di poter guidare l’intero mondo musulmano contro gli Usa. Nel 2000 alcuni suoi seguaci si scagliano contro la Uss Cole ormeggiata in Yemen. Ma il vero grande progetto criminale riguarda un attentato da compiere direttamente sul suolo americano. Circostanza che si avvera l’11 settembre 2001. In quel giorno quattro aerei civili nello spazio aereo Usa vengono dirottati: due si schiantano sulle Torri Gemelle, uno sul Pentagono, un altro cade a Shanksville, nei pressi di Pittsburgh. Da allora in tutto il mondo Bin Laden diviene noto con il soprannome di “sceicco del terrore”.

La morte dopo il blitz Usa del 2011. È il 7 ottobre 2001. Dall’attacco che ha sconvolto il mondo e che a Bin Laden ha donato la massima popolarità sono passate poche settimane. Quella sera Bin Laden si mostra in video. Poche ore prima Washington ha attaccato l’Afghanistan. Nel filmato, trasmesso da Al Jazeeera, è ben presente la sofisticata strategica comunicativa di Bin Laden. Parla con enfasi guardando dritto la telecamera all’interno di una caverna, ha addosso una tuta mimetica, alla sua sinistra c’è anche un kalashnikov. Il suo discorso è un proclama contro l’occidente e contro i Paesi musulmani che aiutano gli Usa. Incita i fedeli alla rivolta e alla guerra santa. La sua latitanza come ricercato per l’11 settembre dura dieci anni, nei quali non sempre vive in rifugi di fortuna. Il suo ultimo nascondiglio, scovato dalla Cia nell’agosto del 2010, è all’interno di un lussuoso compound residenziale di Abottabbad, in Pakistan. Qui Bin Laden viene sorpreso nel sonno il 2 maggio 2011 da un commando di Navy Seals. Lui non oppone resistenza ma, secondo la versione ufficiale americana, nella sua camera da letto va alla ricerca di alcune armi in suo possesso. Non fa in tempo a prenderle: il commando lo uccide e porta il suo corpo sulla Uss Carl Vision. Qui, dopo una breve cerimonia funebre, viene gettato in mare. Nel rifugio c’è la vita di Bin Laden degli ultimi dieci anni: vengono trovati documenti, chiavette usb, ma anche medicine per le sue malattie renali e diverse cassette con dei film porno. Immagini contenenti segnali in codice, diranno poi alcuni esperti dell’anti terrorismo. Ma forse anche una deroga di Bin Laden concessa al tanto odiato costume occidentale. Non si sa. L’unica cosa certa è che in quel 2 maggio 2011 finisce la sua carriera criminale finisce assieme alla sua vita.

Il Ritiro della Vergogna.

La “guerra delle spie” che ha portato i talebani a Kabul. Andrea Muratore su Inside Over il 4 dicembre 2021. L’Afghanistan è da sempre un crocevia di spie e uomini d’intelligence. Lo fu ai tempi del “Grande Gioco” tra Russia e Regno Unito nel XIX secolo, lo è stato negli anni dell’invasione sovietica e della guerra civile e, a maggior ragione, lo è oggi, dopo i vent’anni di guerra conclusi dalla vittoria talebana nell’agosto scorso. E proprio i talebani hanno saputo fare sapiente uso strategico dell’arte dello spionaggio per riconquistare il Paese e preparare il terreno a un’avanzata inesorabile nel corso dei mesi estivi, conclusa dall’ingresso a Kabul nel giorno di Ferragosto.

L’infiltrazione-ombra dei Talebani

Un’ampia e dettagliata inchiesta del Wall Street Journal ha mostrato l’ampiezza del coinvolgimento dell’intelligence nell’avanzata dei talebani che – complice il forte radicamento nei meccanismi clanici e fiduciari della società afghana, il pervasivo controllo del territorio e la capacità di accedere a informazioni politiche e militari privilegiate – hanno condotto una vera e propria guerra parallela al dissolto regime della Repubblica islamica dell’Afghanistan.

Agenti addestrati per anni a conformarsi appieno alle usanze tipiche delle città controllate dal governo di Kabul, a padroneggiare modi di essere e abitudini occidentali per entrare nelle grazie dei membri della coalizione a guida Usa, a tenersi pronti per il momento dell’azione trasmettendo, nel contempo, informazioni di elevato valore: questo il quadro tracciato al Wsj da Mawlawi Mohammad Salim Saad, un alto comandante talebano che appartiene alla rete Haqqani, organizzazione attraverso cui la grande strategia degli studenti coranici in ambito spionistico si è concretizzata.

Non a caso oggigiorno il “Fouché talebano” è Sirajuddin Haqqani, primogenito di Jalaluddin Haqqani, capostipite della famiglia e fondatore del gruppo, che attualmente ricopre l’incarico di ministro dell’Interno nel governo del secondo emirato talebano afghano. Gli Haqqani forniscono un appoggio ai talebani che è logistico, strategico e operativo ma che non sfocia in una continuità diretta e in una totale omologazione. Figli del cuore profondo del territorio abitato dal popolo Pashtun, nella regione dei Waziristan, eredi di una storia che data indietro ai tempi della guerra ai sovietici, sono i maestri dello spionaggio nel campo guidato dagli studenti coranici. Stanziati ai confini tra Pakistan e Afghanistan, gli Haqqani hanno compiuto nello scorso decennio alcuni degli attentati più efferati contro il governo e la popolazione civile del Paese, tanto da mettere in difficoltà spesso gli stessi talebani nella fase in cui cercavano un abboccamento con gli occidentali.

Per azioni come l’attentato del 20 gennaio 2018 nei pressi dell’Hotel Continental di Kabul e quello di una settimana dopo nella capitale, quando fu fatta detonare un’ambulanza carica di dinamite, in cui morirono complessivamente 150 persone, gli Haqqani sono da tempo nella lista nera dell’Occidente, sono stati bersagliati dagli Usa con taglie e attacchi diretti e hanno visto Donald Trump e la sua amministrazione chiedere esplicitamente ai talebani il distanziamento dalla rete di Sirajuddin come premessa per la formalizzazione dell’accordo. Molti hanno dunque sussultato di stupore vedendo il terrorista più ricercato d’Afghanistan nominato ai posti apicali del governo dopo la vittoria talebana. Ma nel quadro della guerra delle spie talebane si spiega tutto.

Come si è arrivati alla vittoria talebana

StartMag ha ribadito che “le spie talebane sono riuscite a penetrare con successo nella maggior parte dei ministeri del governo, negli organismi militari e di sicurezza, nonché nelle entità commerciali per diversi anni”, creando una continuazione del loro Stato clandestino nel cuore del potere afghano. Tutto questo ha creato una vera e propria coltrina di fumo che ha distorto la percezione degli apparati securitari occidentali e afghani, tanto che a poche giornate dal crollo del governo di Kabul la Cia indicava in almeno tre mesi il tempo necessario perché i talebani potessero giungere a minacciarla. Le tecniche di infiltrazione hanno portato gli Haqqani e i talebani “all’interno delle università e persino all’interno di organizzazioni umanitarie finanziate dall’Occidente, in particolare quelle con sede nella capitale”, creando una rete capace di attivarsi all’avvicinarsi delle forze ribelli alle città, in cui cellule di spie si mettevano all’opera con sabotaggi, operazioni di distrazione di forze nemiche, operazioni coperte e psyop volte a favorire il crollo della resistenza governativa.

Va da sé che queste capacità operative lasciano presagire un’elevata padronanza di tecniche e tattiche che per i guerriglieri talebani, abituati a una tenace ma ben meno strategica capacità di resistenza, era difficile immaginare come acquisita. E assieme all’avanzamento nelle tattiche militari, nella capacità politica, nel controllo delle informazioni, nella propaganda e nell’uso di armamenti complessi questo rafforza l’idea che settori di servizi segreti stranieri, come il pakistano Isi, possano avere giocato un ruolo nel potenziare le forze degli Studenti coranici.

Una repressione sanguinosa

In questo contesto, un’ulteriore necessità dei Talebani era acquisire informazioni sulla società afghana e sui rapporti di potere nel contesto del governo crollato di fronte all’offensiva estiva. L’occupazione di centrali di polizia, ministeri, uffici pubblici da parte degli infiltrati nelle ore dell’ingresso talebano a Kabul ha permesso di evitare la distruzione di molti documenti tornati ora utili per programmare la repressione di ogni forma di opposizione ai nuovi padroni dell’Afghanistan.

Il 30 novembre scorso Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che afferma che i talebani hanno sistematicamente giustiziato e fatto sparire, solo in quattro province, ex poliziotti e agenti dei servizi segreti dal momento in cui hanno preso il potere, il 15 agosto. Sarebbero cento, secondo Hrw, le persone uccise nelle province di Ghazni, Helmand, Kandahar e Kunduz. E anche Repubblica ha confermato che “I talebani sono stati anche in grado di accedere ai documenti di lavoro che l’ex governo ha lasciato, usandoli per identificare le persone da arrestare ed eseguire. Solo in un esempio, nella città di Kandahar alla fine di settembre, le forze talebane sono andate a casa di Baz Muhammad, che era stato impiegato dalla Direzione nazionale della sicurezza (NDS), l’ex agenzia di intelligence statale, e lo hanno arrestato. I parenti in seguito hanno trovato il suo corpo”.

Il Paese, del resto, è occupato ma non pacificato. I Talebani temono l’insorgenza della cellula afghana dell’Isis, temono di trovarsi alle porte una nuova guerra civile e vogliono saldare la loro presa sul potere. La guerra di spie ha portato alla vittoria e ora a una repressione feroce ma anche a un vero e proprio caso di studio nella storia contemporanea dell’intelligence. Da cui giocoforza i servizi segreti occidentali dovranno trarre amare lezioni: mai sottovalutare la capacità di apprendimento di avversari tenaci come i Talebani. Una presa di consapevolezza necessaria per capire come monitorare al meglio tutti gli scenari, dal narcotraffico al terrorismo internazionale, che con il ritorno al potere dei Talebani e degli Haqqani si possono mobilitare.

Afghanistan: la tragedia dell'intervento Usa e i talebani. Piccole Note il 28 ottobre 2021 su Il Giornale. In una nota precedente ci siamo occupati del “Bacha Bazi”, o “gioco dei ragazzi” così diffuso in Afghanistan, cioè l’abuso dei bambini da parte di adulti, pratica in uso tra i ricchi e potenti, ma non solo, che ha dilagato durante la lunga occupazione del Paese da parte degli Stati Uniti. E abbiamo riferito di come i soldati americani che hanno provato a denunciare tali abusi, diffusi tra l’esercito e la sicurezza afghana (1), vanivano messi a tacere dai loro superiori o peggio.

La storia del soldato Buckley

Di peggio, ad esempio, è capitato a Lance Cpl. Gregory T. Buckley, ucciso insieme a tre suoi commilitoni in un attacco del 2012. Nella sua ultima telefonata in America, aveva raccontato al padre degli abusi commessi dalla polizia afghana in danno ad alcuni bambini, che avvenivano nei pressi del luogo in cui dormiva. “Di notte possiamo sentirli urlare, ma non ci è permesso fare nulla al riguardo”, aveva detto, dato che i suoi superiori gli avevano intimato di “guardare da un’altra parte” New York Times). A compiere l’attacco fu un adolescente che lavorava per il capo della polizia locale, quella della quale Buckley aveva parlato al padre. Bizzarro anche quanto avvenuto successivamente, raccontato all’epoca dal Washington Post. Il padre aveva chiesto di assistere al processo dell’attentatore ricevendo rassicurazioni in proposito da parte dell’esercito. Ma fu avvertito solo a processo finito, quando al ragazzo era stata comminata una pena irrisoria, cioè sette anni e mezzo di reclusione, perché, pur non essendo nota la data di nascita, una perizia aveva stabilito che all’epoca dell’attacco aveva poco più di diciassette anni. Ovviamente la famiglia di Buckley si è detta indignata dell’accaduto…Nella nota precedente abbiamo anche dato conto di un’inchiesta interna avviata dalle autorità americane per capire se le accuse sulla tacita connivenza dell’esercito Usa – più i graduati che i soldati – fossero vere. Di tale inchiesta sono stati resi pubblici solo pochi stralci, che sembrano confermare la circostanza, ma è stata secretata (presumibilmente per evitare scandali).

Di mujaheddin e talebani

Se torniamo sull’argomento è per l’interessante articolo di Pedro Gonzalez su Chronicles, che spiega come questa ambiguità risalga ai tempi dei famosi mujaheddin afghani, gli eroi che vinsero la guerra contro l’invasore sovietico grazie al sostegno Usa. “Durante gli anni ’80, i comandanti dei mujaheddin sostenuti dagli Stati Uniti che combattevano nella guerra sovietico-afghana erano regolarmente dediti ad atti di pedofilia”, scrive Gonzalez, riportando anche quanto scriveva nel 2013 Chris Mondloch sull’autorevole rivista Foreign Policy: i mujaheddin “hanno combattuto il comunismo in nome della jihad e hanno mobilitato migliaia di uomini promuovendo l’Islam, mentre abusavano sessualmente di ragazzi” (Bacha Bazi: An Afghan Tragedy). Quindi arrivano i talebani, prosegue Gonzalez, e siamo a metà degli anni ’90: “La storia racconta che dopo che il fondatore dei talebani, il mullah Omar, intervenne per salvare un ragazzo che stava per essere sodomizzato da due comandanti delle milizie, la gente iniziò a rivolgersi ai talebani per chiedere aiuto [contro questi abusi ndr.]. I talebani si assunsero così il compito di proteggere i minori dai predatori sessuali. Da lì iniziò ad arbitrare anche altre controversie sorte tra la gente, incrementando il suo potere politico”. Probabile che quella del mullah Omar sia una mera leggenda, dato che la buona azione stride con la sinistra fama del personaggio. E però è certo che i talebani non solo dichiararono illecita quella piaga, ma la perseguirono duramente fino a stroncarla, mossi della loro intransigenza in materia sessuale. A riferirlo non è solo Gonzalez, ma anche un altro autorevole media americano, The Diplomat, che in un articolo del 2014, scriveva come il Bacha bazi fosse stato “bandito dai talebani”, ma è riemerso e dilagato nel periodo dell’occupazione americana.

Il ritorno del Bacha bazi

The Diplomat spiegava che Amid Kharzai, il primo presidente fantoccio dell’Afghanistan, lo mise fuorilegge, ma aggiungeva che “la lotta agli abusi sui bambini poveri non è considerata una priorità dall’amministrazione di Kabul”. Da cui il suo dilagare a causa delle povertà e della corruzione e perversione dilagante. Una pubblicazione più approfondita, The Neglected Boys of War: Trapped in a Vicious Cycle of Slavery and Sexual Abuse,, annota: “Il Bacha Bazi è un crimine gravemente sottostimato e il meno perseguito in Afghanistan. Per fare un esempio, in una dichiarazione pubblica sul Bacha Bazi, l’ex presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, ha detto: ‘‘Vinceremo prima la guerra. Poi ci occuperemo di questo fenomeno'” (pagina 183). Sempre The Diplomat raccontava una vicenda esemplare in tal senso, avvenuta nel 2010 in occasione presentazione del documentario “The dancing boys of Afghanistan” di Najibullah Quraishi, che denunciava il ritorno dell’odioso “gioco dei ragazzi” nel Paese:. “Quando il filmato fu proiettato per la prima volta in Afghanistan – scrive il media Usa – provocò un grande imbarazzo nella nazione e alcune delle persone presenti in sala furono arrestate”. Cenno che indica come piuttosto che reprimere il fenomeno si reprimesse chi lo avversava, com’è capitato a diversi soldati americani.

I diritti delle donne e quelli dei bambini

Non si tratta, con questa nota, solo di denunciare una tragedia del passato e le connivenze che l’hanno favorita, ma anche di guardare con occhi disincantati il presente. Oggi l’America ha imposto al mondo di chiedere ai talebani rassicurazioni sui diritti delle donne come condizione per avere un riconoscimento internazionale. Richiesta giusta, ovviamente, ma che stride alquanto con l’afonia sui diritti dei bambini dei decenni passati. Il niet a tale riconoscimento esclude il Paese dalla rete finanziaria e commerciale internazionale, in danno a una popolazione, che annovera una moltitudine di bambini, già duramente provata. Certo, diffidare dei talebani è lecito, ma si spera che la situazione sia affrontata con la duttilità necessaria a evitare agli afghani ulteriori tragedie. Una duttilità necessitata anche dalla storia, che non può essere ridotta a una mera contrapposizione tra buoni, gli americani, e cattivi, i talebani. Questa narrazione in bianco e nero è stucchevole e fuorviante, dato che la storia di questo Paese, come evidenzia anche questa nota, è fatta da innumerevoli sfumature di grigio. 

(1) In un’altra nota avevamo dato conto di come gli Stati Uniti abbiano evacuato 20mila soldati afghani che usavano per le operazioni segrete. Dopo aver avuto contezza delle tragiche derive della sicurezza afghana di cui sopra, le domande sull’integrità di questo contingente segreto, poste già da The Intercept citato nella nota pregressa, aumentano.

L’isolazionismo americano inizia molto prima di Biden e Trump. Stefano Magni su Inside Over il 17 agosto 2021. La precipitosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan, che ha consentito una rapidissima vittoria dei talebani, ricorda a molti la partenza degli ultimi americani da Saigon. Ma, più in generale, pone interrogativi sul neo-isolazionismo statunitense. L’amministrazione Biden non mostra alcun segno di ravvedimento. Il ritiro era considerato “inevitabile”, l’esito scontato. Anche il Segretario di Stato Antony Blinken, mentre i talebani occupavano il palazzo presidenziale di Kabul, respingeva ogni paragone con Saigon e affermava che tutti gli obiettivi dell’intervento statunitense in Afghanistan fossero stati raggiunti. Se ne deduce che, quel che sta accadendo adesso, sia ormai estraneo agli interessi americani, un atteggiamento tipicamente isolazionista. L’idea di ritirarsi dall’Afghanistan non nasce dall’amministrazione Biden. I critici di questa decisione hanno buon gioco a puntare il dito sul suo predecessore repubblicano, Donald Trump, perché è lui che a Doha, il 29 febbraio 2020, ha siglato gli accordi con i rappresentanti dei talebani, di fatto spianando la strada al ritiro e ponendo fine al lungo conflitto. Gli accordi di Doha, pur non riconoscendo la legittimità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan (il governo talebano) prevedevano un calendario di negoziati fra quest’ultimo e il governo (riconosciuto) di Kabul e, al contempo, un piano di ritiro graduale di tutto il personale militare e civile statunitense dal Paese. In cambio, l’Emirato si è impegnato a garantire la sicurezza degli Stati Uniti, dunque a non fornire più le basi a movimenti terroristici internazionali sul suolo afgano. L’amministrazione Trump aveva promesso di porre fine alla lunga guerra in Afghanistan, sin dalla campagna elettorale del 2016, e ha ritardato questa conclusione, di anno in anno, solo a causa del peggioramento delle condizioni militari sul terreno. L’amministrazione Biden non ha fatto altro che seguire l’agenda dettata dagli accordi di Doha, anche se l’ha accelerata. Contrariamente a Trump, infatti, ha ritirato tutto il personale statunitense nonostante l’offensiva talebana fosse in corso e un accordo fra Emirato e governo di Kabul fosse ormai impossibile. Tuttavia, non è nemmeno attribuibile a Trump il programma di ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan, ma risale ai tempi dell’amministrazione di Barack Obama. Nel suo primo mandato, il presidente democratico aveva rafforzato il contingente statunitense, ritenendo quello afgano come una “War of Necessity” (guerra per necessità, dunque indispensabile), contrapponendolo a quello iracheno che era una “War of Choice” (guerra per scelta, meno indispensabile). Obama ha puntualmente ritirato le truppe combattenti Usa dall’Iraq entro il dicembre 2011, come aveva promesso nella sua campagna elettorale del 2008. Però aveva, al contempo, rafforzato il contingente statunitense in Afghanistan, ottenendo anche una maggior partecipazione della Nato. Nel febbraio 2009, primo anno di Obama, gli Usa inviarono un contingente di 17mila uomini nel Paese asiatico, che si sommarono ai 32mila già schierati. Gli screzi fra comando militare e amministrazione, però, iniziavano già allora. Il generale McChrystal, per aver criticato pubblicamente, in un’intervista su Rolling Stone, la riluttanza di una parte dell’amministrazione a intraprendere una vera escalation, venne rimosso dal comando e sostituito da David Petraeus, eroe della guerra in Iraq. McChrystal accusava soprattutto l’allora vicepresidente Joe Biden di essere apertamente contrario alla prosecuzione dell’intervento americano in Afghanistan. Il 2 maggio 2011, Osama bin Laden venne ucciso da una squadra di Navy Seals ad Abbottabad: in Pakistan, non in Afghanistan. La caccia allo “sceicco del terrore” e la guerra contro Al Qaeda erano gli obiettivi principali dell’intervento in Afghanistan. Il fatto che l’obiettivo principale fosse stato raggiunto con un raid in Pakistan diede forza alla corrente dell’amministrazione favorevole al ritiro dall’Afghanistan. Un mese dopo, l’allora Segretario alla Difesa Robert Gates (un ex direttore della Cia) rivelò per la prima volta alla stampa che erano in corso dei primi contatti segreti “di riconciliazione” con rappresentanti dei talebani. Fu un chiaro segnale di disimpegno americano nella regione. Il 22 giugno 2011, nemmeno due mesi dopo l’uccisione di bin Laden, Obama annunciò il ritiro dall’Afghanistan: la forza combattente si sarebbe dovuta ridurre di nuovo a 30mila uomini entro un anno e a zero entro il 2014. Da allora il destino della missione fu segnato. Anche i contingenti alleati, inclusi quelli della Nato, entrarono nell’ordine di idee di andarsene non appena concluso il lavoro di addestramento di un esercito locale. Tuttavia, nonostante i tentativi di colloqui di “riconciliazione” con i talebani, la guerriglia jihadista riprese forza subito dopo il primo annuncio di ritiro statunitense. Così la data finale venne posticipata dal 2014 al 2016, perché gli Usa non intendevano lasciare il Paese nelle mani dei talebani, facendo apparire il loro disimpegno come una sconfitta. Alla fine, sempre a causa dell’escalation della guerriglia talebana, le truppe non tornarono a casa neppure per la fine del 2016. Nella sua campagna elettorale, Trump ebbe buon gioco a promettere di fare quel che Obama aveva solo annunciato. La fine della lunghissima “War of Necessity”, ampiamente prevedibile sin dall’estate del 2011, non è un caso isolato. La tendenza americana, a ritirare la propria presenza militare, riguarda tutti i teatri di conflitto e potenziale conflitto. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, la presenza militare statunitense in Europa è passata dai 320mila uomini del 1991 ai 64mila odierni. Era nelle intenzioni di Obama, nel 2013, ridurre ulteriormente il contingente nel Vecchio Continente a soli 35mila uomini, ma lo scoppio della guerra in Ucraina (dunque la richiesta di maggior protezione da parte, soprattutto, dei Paesi Baltici e della Polonia) lo ha indotto a moderare il suo piano di disimpegno. Anche nel Pacifico settentrionale, altro principale teatro di potenziale conflitto, la presenza Usa è ora ridotta a 80mila uomini in tutto, di cui 55mila in Giappone e 26mila in Corea del Sud. Alla fine della Guerra Fredda erano 40mila nella sola Corea del Sud e sono stati costantemente ridotti, anno dopo anno. La tendenza statunitense a ritirarsi dal mondo è evidente anche nella politica estera. Sebbene sia ora ricordato come un “falco” interventista per aver iniziato i conflitti in Afghanistan (2001) e in Iraq (due anni dopo), George W. Bush venne votato dalla maggioranza degli americani nel 2000 come candidato isolazionista. Gli Usa erano appena intervenuti due volte nei Balcani, sotto l’amministrazione Clinton (1995 e 1999) e non avevano più alcuna intenzione di farsi coinvolgere in guerre all’estero. La politica estera di Bush dovette cambiare drasticamente a causa degli attacchi a New York e Washington dell’11 settembre 2001. Obama vinse nel 2008 dietro la promessa di ritirare le truppe americane dall’Iraq. E diede da subito chiari segni di non volersi impegnare in altri conflitti all’estero. In Libia, il 19 marzo 2011, l’intervento militare contro Gheddafi fu iniziato dalla Francia. Il lancio di missili Tomahawk della marina americana, che, dalla Guerra del Golfo del 1991, marcava l’inizio delle operazioni internazionali, fu lanciato ore dopo, come secondo colpo. Nel corso della lunga campagna aerea in Libia che ne seguì, gli Usa mantennero una posizione di “leading from behind”, concettualmente un ruolo di guida, ma da una posizione defilata. Due anni dopo, nel 2013, Obama non intervenne nella guerra civile di Siria neppure dopo la denuncia dell’uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco. Al di là della veridicità di queste accuse, tuttora disputate, l’amministrazione Obama aveva promesso un intervento nel caso si fosse passata la “linea rossa” (morale) dell’uso delle armi di distruzione di massa. E non rispettò l’impegno. L’amministrazione successiva, quella di Donald Trump, fu la prima, dai tempi di Carter (1976-1980) a non iniziare nuovi interventi americani all’estero. L’evacuazione, in elicottero, del personale statunitense dall’ambasciata di Kabul e le dichiarazioni di Blinken sugli “obiettivi raggiunti”, dunque, possono sbalordire, ma non stupire. Sono il culmine di una politica di disimpegno di lungo periodo che ora sta giungendo alle sue logiche, estreme, conclusioni.

Lucio Caracciolo per “la Stampa” il 17 agosto 2021. L'umiliante sconfitta degli Stati Uniti d'America in Afghanistan è anche nostra e degli altri paesi europei integrati nella costellazione a stelle e strisce. Disastro inscritto nella sua stessa origine: la cosiddetta "guerra al terrorismo", ideologia priva di basi strategiche su cui Washington ha impiantato la sua risposta all'11 settembre. Si consideri solo la bizzarra scelta di elevare una tecnica - il terrorismo - a soggetto nemico. O l'altrettanto curiosa decisione di vendicare l'attacco saudita-pakistano alle Torri Gemelle invadendo l'Afghanistan. Quanto di meno razionale si possa immaginare. Spiegabile ma non giustificabile con l'emozione di quei giorni, quando l'opinione pubblica americana reclamava una rappresaglia devastante, degna del Numero Uno che all'epoca torreggiava senza sfidanti sul pianeta. Avversari che la "guerra al terrorismo" ha contribuito a imbaldanzire. La Cina specialmente ringrazia. Si aggiunga l'insipiente servilismo di alcuni alleati Nato, italiani compresi, che per dimostrarsi utili al capo che ne aveva immediatamente rifiutato l'offerta di soccorso ("la missione determina la coalizione, non il contrario") decisero poi di piantare radici nelle sabbie mobili afghane. Alcuni sinceramente illudendosi di proiettare quel paese poverissimo - già cuscinetto e/o poligono di tiro nei grandi giochi delle potenze imperiali - verso i nostri standard di civiltà. Esempio di come le velleità da "missione civilizzatrice" classiche dei colonialismi europei siano sopravvissute alla loro fine. Risultato: venti anni di occupazione senza sbocco, nella logorante perpetuazione di una postura insensata, mentre migliaia di mercenari e quasi altrettanti soldati regolari occidentali, tra cui 53 italiani, morivano per nulla. E con loro molti più afghani. I superstiti, giovanissimi uomini e donne per i due terzi minori di 25 anni, si ritrovano oggi sotto il dominio incontrollato degli "studenti dell'islam". I quali hanno invece seguito, con crescente scaltrezza, un copione fin troppo facile. Coperti dai loro burattinai pakistani. Con la nostra orgogliosa perseveranza abbiamo inguaiato noi stessi e di riflesso gli americani, che pure ci hanno sempre considerato irrilevanti. Sino alla fine, quando gli ultimi marines sono scappati dimenticandosi degli "alleati". Ma questa non è una novità. E' diritto consuetudinario, tanto più cogente perché non scritto, che l'egemone usa arrogarsi. La caduta di Kabul, ultimo tassello della presa talibana sull'intero Afghanistan, comprese le aree del Nord e dell'Est originariamente refrattarie ai jihadisti oggi prontamente consegnatesi ai vincitori, sta provocando alcuni smottamenti geopolitici nella regione. Di questi i più visibili paiono la sconfitta dell'India causa allargamento all'intero Afghanistan della sfera d'influenza del Pakistan (peraltro strutturalmente vacillante, con le sue circa 160 testate atomiche) e la facilitazione del corridoio cinese verso Oceano Indiano (porto di Gwadar) e Mediterraneo via Afghanistan-Pakistan. Sulla Russia gravano invece gravi incognite, tali da spingere Mosca a stringere patti informali di controassicurazione con Kabul rispetto a rischi di infiltrazione jihadista nel suo "estero vicino", financo nelle sue regioni meridionali esposte all'islamismo militante. Auguri. Su scala globale, molto dipenderà da Washington. La sconfitta viene addolcita alla Casa Bianca inscrivendola nello sforzo complessivo di ridurre la sovraesposizione in teatri secondari o in prolungata sedazione - tra cui spicca lo spazio euromediterraneo - per concentrarsi nel contenimento di Cina e Russia. Ma anzitutto per concentrarsi nella riabilitazione di casa propria: ne consegue la "geopolitica della classe media", basata sullo scansare le crisi internazionali per sanare invece le fratture socio-culturali domestiche varando piani economici iperkeynesiani in cui l'amministrazione Biden conta di investire fantastiliardi. Scelta accompagnata dalla richiesta agli "amici e alleati" - atlantici in testa - di rafforzare il presidio delle rispettive aree di competenza. Di qui una possibile salutare conseguenza, anche per noi: invece di battere bandiera a casaccio in giro per il mondo, addestrando e armando i nostri futuri nemici solo per ostentarci serventi alla causa del Superiore e ottenere l'esatto opposto di quanto proclamato, potremmo finalmente concentrare le nostre scarse risorse, non solo militari, nelle aree di immediato interesse. Con la benedizione di Washington, o almeno dei suoi apparati meno disorientati. La priorità italiana è lo Stretto di Sicilia, non quello di Taiwan. E' il deserto del Sahara con le proiezioni saheliane, non quello del Rigestan, il "paese delle sabbie" afghano. Sono i disputati rilievi balcanici con i loro santuari jihadisti, non lo Hindu-Kush. Carta canta. Basta leggerla.

Il prezzo del tradimento. Lorenzo Vita su Inside Over il 20 agosto 2021. Gli Stati Uniti hanno trovato un accordo con i talebani e hanno consegnato loro l’Afghanistan con un’accelerazione che ha sorpreso anche l’intelligence Usa. A Washington è il tempo delle riflessioni e dei primi redde rationem. Qualcuno probabilmente pagherà per le falle mostrate. Gli Stati Uniti avevano firmato un accordo con i talebani per il ritiro dall’Afghanistan. Eppure sono riusciti a fare apparire questo ritiro come una resa caotica di fronte all’avanzata degli islamisti. Hanno mantenuto in piedi un apparato militare che per venti anni ha provato a costruire un esercito e una forma più o meno fragile di Stato, e invece hanno visto le forze di sicurezza dissolversi davanti agli studenti coranici e gli apparati di Kabul e dei distretti provinciali sparire. Una sconfitta cui si aggiunge l’immagine del tradimento della società afghana. Un popolo che seda un lato ha subito un’occupazione, dall’altra ha avuto per venti anni anche garanzie di diritti, di una parvenza di democrazia e di ricomposizione delle guerre che per decenni hanno lacerato il Paese. Il tradimento non è iniziato con la caduta di Kabul. Sbaglia chi crede che sia tutto frutto di questa fuga di agosto davanti all’orda talebana. Tutto è iniziato quando gli Stati Uniti hanno scelto – in piena autonomia – di interloquire con i talebani e di giungere a un accordo a Doha. Tutti sapevano erano perfettamente consapevoli che accettare un accordo con i talebani significava inevitabilmente riconoscerli. E se è vero che nessuno si aspettava una tale piega degli eventi, è altrettanto evidente che da tempo negli States si era deciso di considerare gli uomini di Haibatullah Akhundzada come controparti. Lasciando questi ultimi certi di avere di nuovo un ruolo nella vita dell’Afghanistan. Trattare con i talebani e rinnegare un certo tipo di guerra (e l’ideologia che l’ha giustificata) è lecito. Nulla vieta in politica di modificare un approccio, specialmente se infruttuoso e dopo due decenni di morti e di fiumi di dollari. Ma il problema è farlo in maniera repentina e confessarlo, come ha fatto Joe Biden, in un modo pilatesco che rischia di creare diverse conseguenze nei rapporti degli Stati Uniti e dell’Occidente con il mondo. Specialmente se messe a confronto con le altre grandi potenze, coinvolte, seppure indirettamente, nel Grande Gioco afghano. È chiaro che un impegno bellico non possa né debba essere mantenuto in eterno, ed esiste la sconfitta. Ma questo non significa necessariamente rimangiarsi le promesse e tradire gli impegni presi verso un popolo. Dire, come ha fatto Biden, che non c’era l’intento di costruire una nazione ma solo di combattere Al Qaeda è una frase che smentisce anni di negoziati, truppe, scontri e impegni umanitari. La credibilità si basa anche sul sapere mantenere una linea quantomeno con se stessi e verso chi hai abbracciato. L’esperienza afghana, in questo senso, getta un’ombra sulla credibilità e la capacità di mantenere gli impegni. E implica anche la perdita di quella presunzione di superiorità morale che si considera spesso parte dell’arsenale dell’Occidente nella grande partita a scacchi con i chi considera nemico strategico. Basti pensare a chi oggi combatte Cina e Russia e che confida nell’aiuto di Washington: sarà impossibile credere a un impegno effettivo nonostante le promesse. Un dubbio che può essere messo in parallelo con chi ha chiesto aiuto in questi anni alla Russia o anche alla Turchia o all’Iran e a tutti i Paesi considerati estranei in tutto o in parte a un certo mondo. Questi governi o queste forze hanno visto effettivamente visto arrivare supporto militare e tecnologico contro i propri nemici. E hanno visto soprattutto che queste potenze, specialmente Mosca, hanno sempre considerato il sostegno all’alleato come marchio di fabbrica, a qualunque costo. Certo, ogni potenza ha i suoi scopi pragmatici e non fa beneficenza. La Russia fa ciò che serve alla Russia, al pari degli Stati Uniti e di tutti i Paesi. Anche mettere in parallelo guerre diverse e Stati diversi è un gioco rischioso. Ma l’immagine, in questo mondo, ha un peso enorme. Sia per propaganda sia per sostanza. Nella guerra culturale che l’Occidente (e gli Stati Uniti in particolare) pensa di condurre contro i suoi avversari, il precedente afghano è un monito per chiunque cercherà di avvicinarsi al blocco guidato da Washington. E rischia di essere invece un aiuto insperato verso le grandi potenze che si avvicineranno a nuovi scenari bellici o a nuovi partner e potranno offrire il loro supporto senza essere macchiati da un’onta recente. Mosca non ha tradito Damasco: Washington non può dire lo stesso con quella parte di Kabul che confidava nella fine di un incubo. Il tradimento afghano rischia di essere un conto salato che pagherà non solo chi ha sbagliato i calcoli dell’avanzata talebana, ma anche la politica estera americana.

Come successe all’antica Roma l’impero americano è al declino. Troppe frontiere da sorvegliare, troppi avversari. I gendarmi del mondo non hanno più le risorse. Successe all'antica Roma, ora tocca all'impero americano. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 19 agosto 2021. «How many more American lives is it worth?/ quante altre vite americane ancora vale?» – chiede il presidente Biden, mentre spiega perché ha deciso di andare via dall’Afghanistan, e perché non si poteva fare altrimenti. D’altronde, il 70 percento degli americani, di quella guerra non voleva più saperne. Per quante bandiere americane sventolino nei vialetti residenziali, per quanti nastri gialli si appuntino sui baveri di giacche e cappotti, per quante scariche a salve si possano sparare nel cimitero di Arlington – la questione poi è sempre quella, dannata, della guerra in Vietnam: quante bare regge l’opinione pubblica americana? C’era un film cubano con una marcetta che faceva And they’re coming to take me away – stanno venendo a prendermi – e si vedeva l’immagine del presidente Johnson e una fila di bare coperte con la bandiera a stelle e strisce che sfilavano nella sua testa. Ogni volta che le immagini delle bare dei soldati caduti giravano nei telegiornali, ogni volta cresceva l’insofferenza americana per quella guerra. Johnson non resse e si ritirò, non si poteva fare altrimenti. È lì, nella fuga caotica dall’ambasciata di Saigon, 1975, che è iniziato il declino americano? Sono decenni che ci si interroga sul declino dell’impero americano. Una trentina d’anni fa ebbe uno straordinario successo editoriale con stupore generale, restando in cima alle classifiche per mesi, The Rise and Fall of the Great Powers, Ascesa e declino delle Grandi Potenze, di Paul Kennedy, uno storico inglese che insegna alla University of East Anglia, Norwich, un ponderoso saggio di taglio accademico con migliaia di note e riferimenti bibliografici. Kennedy, dopo aver analizzato l’ascesa e il declino dei grandi imperi del passato, sosteneva che gli imperi crollano, paradossalmente, a causa delle loro stesse vittorie in termini di espansione e conquiste territoriali. Troppi confini da sorvegliare, troppi nemici da tenere a bada, quindi una macchina militare sempre più grande e costosa che alla fine con la sua stessa esistenza schiaccia la macchina economica che la sostiene. Alla conclusione del suo libro, Kennedy volgeva lo sguardo al futuro dell’America: «Gli Stati Uniti corrono ora il rischio, tanto familiare agli storici dell’ascesa e della caduta delle grandi potenze del passato, di quella che si potrebbe approssimativamente chiamare “eccessiva estensione imperiale”: vale a dire che i governanti di Washington devono affrontare lo spiacevole e assodato fatto che il numero degli interessi e impegni degli Stati Uniti va oggi ben oltre le effettive possibilità che il paese ha di proteggerli e mantenerli». In poche parole, l’inevitabile declino americano era “scontato”: gli Stati Uniti avevano imboccato la parte discendente della loro parabola, come tutte le altre grandi potenze del passato. In realtà, gli Stati uniti nascono “costitutivamente” isolazionisti e, soprattutto, avevano in gran odio la guerra: i Padri pellegrini venivano dalle persecuzioni e dalle guerre di religione e di stati che avevano dilaniato l’Europa, e che ciclicamente continuavano a dilaniarla. Washington e Jefferson furono i maggiori esponenti di una dottrina isolazionista. Quando Jefferson fece il suo discorso di inaugurazione nel 1801 auspicò «pace, commercio, e amicizia sincera con tutte le nazioni, alleanze intricate con nessuna». Agli Stati uniti d’America interessava concentrarsi sugli Stati uniti d’America. È con la “dottrina Monroe”, 1823, che le cose cambiano: gli Stati uniti ( che tali in realtà ancora non erano) non avrebbero tollerato per l’avvenire alcun tentativo delle potenze europee di fondare colonie nel continente americano; che eventuali ingerenze dei governi europei negli affari interni delle nazioni americane sarebbero state considerate dagli USA come una minaccia alla loro sicurezza e alla pace; che a sua volta Washington si sarebbe astenuta dall’intervenire nelle questioni politiche e nei conflitti europei.

La dottrina aveva un sapore anti- colonialista (c’erano ancora “territori” sotto le corone europee nell’America del nord). Ma – dopo l’annessione del Texas nella guerra contro la Spagna, 1846- 48 – si trasformò presto, con Theodore Roosevelt, nel praticare una propria forma di egemonia nel continente americano, fondamento dell’idea di protettorato sull’area centroamericana e caraibica. Con l’intervento nella Prima guerra mondiale, gli Stati uniti rompono l’isolamento “americano” – erano ormai diventati una potenza economica e i loro interessi in prestiti a Francia e Gran Bretagna erano rilevanti e andavano “garantiti”. Eppure, è proprio con il presidente Wilson che prende forma l’idea di una Società delle nazioni che garantisca la pace nel mondo – soprattutto dopo la contemporanea fine dei tre imperi, russo, austriaco e ottomano. Solo che il Congresso americano bocciò la Società delle nazioni voluta dal suo presidente. Con la partecipazione alla Seconda guerra mondiale, le cose cambiano radicalmente. L’economia registrò una crescita senza precedenti, aggiungendo più di 17 milioni posti di lavoro e aumentando la produzione industriale di oltre il 90 percento: si raggiungeva il livello di prosperità a cui Roosevelt aveva ambito con il New Deal. Dalla produzione delle automobili alle navi di guerra: tutto ciò rese l’America non solo una potenza bellica formidabile, ma anche la prima economia al mondo. Decisero di non tornare all’isolazionismo: il paese era pronto ad assumere il ruolo di leader economico e politico. Iniziava, a ritroso e in avanti, il secolo americano. Il Piano Marshall – una montagna di denaro, di aiuti, di tecnologie e know- how perché l’Europa si riprendesse dalle devastazioni della guerra – ne fu parte integrante. Questa decisione fu dettata anche dalla temuta crescente influenza sovietica. La guerra al comunismo divenne un’ossessione, gli Stati uniti diventarono il poliziotto del mondo. E spesso erano il poliziotto cattivo. Quando è iniziato il declino? E d’altronde, quand’è che l’impero romano ha cominciato ad andare a rotoli? Fu nel 410 quando Alarico saccheggiò Roma, o nel 451 dopo l’effimera vittoria ai Campi catalaunici quando le truppe del generale romano Ezio, reclutate soprattutto tra i popoli Germani e affiancate dagli alleati Visigoti di Teodorico I, prevalsero sugli Unni di Attila? Stessa domanda per l’impero britannico: sparì con l’indipendenza dell’India e del Pakistan nel 1947, “la perla dell’Impero”, o nel 1968 con la decisione della Gran Bretagna di ritirarsi a est del Canale di Suez? Proveremo a scoprirlo.

Il declino americano è iniziato trent’anni fa ma pochi lo vedevano. All’esterno cadeva il muro e spuntavano nuovi nemici. All’interno invece si incrinava la fiducia del popolo nella nazione: così iniziò il declino americano. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 20 agosto 2021. Forse, per capire meglio le cose ci possono aiutare la letteratura e il cinema. Nel 2001, l’anno dell’11 settembre e dell’attacco alle Torri gemelle, esce Il declino dell’impero Whiting, di Richard Russo. Siamo nel Maine, a Empire Falls: l’Empire Avenue, la grande arteria che un tempo brulicava di gente, auto e attività commerciali, ora è un viale deserto che lo sguardo può abbracciare fino in cima, là dove troneggiano le imponenti sagome delle vecchie fabbriche abbandonate. Prima che i Whiting – la famiglia le cui alterne vicende si intrecciano alla vita della cittadina – vendessero i loro stabilimenti alle multinazionali, prosperava una florida comunità di lavoratori e lavoratrici. Ora, quelli bisognosi di lavoro si sono trasferiti altrove e all’esigua popolazione di Empire Falls non resta che trascorrere il tempo coltivando speranze e illusioni. Sogni e disinganni di rinascita che caratterizzano puntualmente i giorni di Miles Roby, il gestore dell’Empire Grill, il ristorante che, con le sue ampie vetrine, spicca lungo il viale principale della città. Sono vent’anni che Miles prepara hamburger, venti lunghi anni in cui sono svanite le sue speranze. Nel 1989 era uscito al cinema Roger and me, di Michael Moore. Moore è nativo di Flint, nel Michigan, dove c’è la General Motors che dà lavoro a 35mila dei 150mila abitanti. A metà degli anni Ottanta il presidente della GM, Roger Smith (è lui, il Roger del titolo), decide di chiudere la fabbrica di Flint, licenziando i suoi operai. Moore, che era giornalista, si improvvisa regista e prova a fare un’intervista a Smith – un tentativo che dura tre anni, in giro per tutti gli Stati uniti, senza mai riuscire a parlargli. Intanto, “le autorità”, senza farsi carico della disoccupazione, organizzano sfilate di reginette di bellezza o manifestazioni canore, oppure cercano assurdamente di creare un centro turistico inutile, sprecando grandi quantità di danaro. La vita a Flint assume una coloritura drammatica: il susseguirsi degli sfratti di famiglie di ex operai, che non possono più pagare l’affitto; alcuni disoccupati si arrangiano vendendo il proprio sangue per trasfusioni, o allevano conigli; altri diventano criminali o guardie carcerarie, perché la delinquenza dilaga nella città. Ma le ricche signore del posto giocano a golf o a Scarabeo, e la vigilia di Natale, durante un retorico e banale discorso d’occasione pronunciato da Roger Smith alla televisione, a Flint il solito vice- sceriffo effettua ancora uno sfratto. D’altronde, quest’anno l’Oscar è andato a Nomadland di Chloè Zhao. Siamo a Empire ( proprio lo stesso nome della cittadina del libro di Richard Russo), Nevada. Nel 1988 la fabbrica presso cui Fern e suo marito Bo hanno lavorato tutta la vita ha chiuso i battenti, lasciando i dipendenti letteralmente per strada. Anche Bo se ne è andato, dopo una lunga malattia, e ora il mondo di Fern si divide fra un garage in cui sono rinchiuse tutte le cose del marito e un van che la donna ha riempito di tutto ciò che ha ancora per lei un significato. Vive di lavoretti saltuari poiché non ha diritto ai sussidi statali e non ha l’età per riciclarsi in un paese in crisi, e si sposta di posteggio in posteggio, cercando di tenere insieme il puzzle scomposto della propria vita. Fern non è nomade per scelta, si muove continuamente sulla sua “casa mobile” fermandosi in campi improvvisati popolati da gente come lei, sradicata e itinerante, quella Nomadland che sono diventati gli Stati Uniti a cominciare dalla fine degli anni Ottanta: la frontiera del mito americano si è trasformata in un vagabondaggio circolare. La sensazione di declino – di non essere più una nazione produttiva, potente, ricca, felice, la più produttiva, la più potente, la più ricca, la più felice – alberga da tempo in America. Un malessere crescente che le statistiche ufficiali confermano. Secondo il Center for Disease Control and Prevention, il tasso di suicidio è cresciuto del 34 percento dal 2000 al 2016. Le morti per overdose aumentano in modo esponenziale, stando ai dati dello stesso Centro. Riflesso di questo malessere dai contorni indefiniti, il numero dei detenuti negli Stati Uniti è il più alto del mondo, in termini assoluti e relativi. Quando ha cominciato a installarsi questo senso di decadenza? Quando Richard Nixon decise di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro, il 15 agosto 1971? Quella decisione decretò la fine degli Accordi di Bretton Woods dell’agosto 1944, con i quali gli Usa avevano imposto il dollaro quale moneta di riserva internazionale. Oppure, con l’implosione dell’Unione Sovietica il 21 dicembre 1991? Non c’era più un nemico, e questa data segnava contemporaneamente l’apogeo americano – Francis Fukuyama si affrettò a proclamare La fine della storia – e la fine del suo “destino manifesto”: se tutto il mondo voleva diventare come l’America, che senso aveva più l’America? Una decina d’anni fa il dibattito si fece incandescente, se perfino Barack Obama si sentì in dovere di intervenire. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2012, disse: «Chi vi dice che siamo in declino, non sa di cosa parla». Forse rispondeva proprio a Francis Fukuyama, che aveva scritto su Le Monde dell’ 11 settembre 2011, dieci anni dopo gli attacchi di al Qaeda, che essi avevano «segnato l’inizio della fine dell’egemonia degli Stati Uniti». Stephen Walt, professore di Harvard, gli aveva fatto eco scrivendo nel The National Interest di novembre 2011 che «l’apparizione di nuovi poteri e la doppia débacle in Iraq e in Afghanistan annunciano un brutale declino della capacità statunitense di forgiare l’ordine mondiale». Impressiona, a rileggerlo oggi, per la sua capacità profetica l’analisi di Alfred W. McCoy, professore di storia all’Università del Wisconsin- Madison, pubblicata su The Nation nel dicembre 2010. Per McCoy gli imperi sono organismi fragili, e quando le cose cominciano a andare male precipitano con inaspettata velocità: bastò un anno per il Portogallo, ce ne vollero due per l’Unione sovietica, otto per la Francia, undici per l’impero ottomano, diciassette per la Gran Bretagna. Per gli Stati uniti ce ne vorranno ventidue – McCoy fissa la data del collasso al 2025 e la data in cui tutto è cominciato nel 2003, l’anno dell’invasione dell’Iraq. Nel 2008 l’US National Intelligence Council ammise per la prima volta che il potere globale dell’America era ormai in una traiettoria declinante. In uno dei suoi report “futuristici”, Global Trends 2025, il Council citava «lo spostamento di ricchezza e potere economico da Occidente a Oriente, senza precedenti nella storia». In un sondaggio del 2010, il 65 percento degli americani considerava il proprio paese in uno “stato di declino”. La questione non è “se” l’impero americano declinerà, ma “quando” e in che modo: se sarà una caduta dolce o un precipizio. McCoy indica una serie di questioni cruciali – il ruolo del dollaro, la crisi economica, la crisi del petrolio e energetica, le divisioni maggiori all’interno del paese con il prevalere della destra – ma soprattutto la “pressione” che subiranno le centinaia di basi militari all’estero. E parla dell’Afghanistan, situando l’acme della crisi nel 2014: «Presto, i mullah predicheranno il jihad dalle moschee di tutta la regione, e le unità dell’esercito afghano, a lungo addestrate dalle forze americane per invertire le sorti della guerra, inizieranno a disertare in massa. I combattenti talebani lanceranno una serie di attacchi alle guarnigioni statunitensi in tutto il paese, facendo salire vertiginosamente le vittime americane. In scene che ricordano Saigon nel 1975, elicotteri statunitensi salveranno soldati e civili americani dai tetti di Kabul e Kandahar». Beh, per essere una “profezia” ci ha sbagliato solo di qualche anno. Roma non fu costruita in un giorno, si dice, per indicare quanto tempo occorra a realizzare grandi imprese. Grandi imperi. Anche a cadere, gli imperi non ci mettono un giorno.

Gino Strada, il ricordo della moglie: «Non gli piaceva la parola impossibile. Ci ha insegnato che la guerra non è mai la soluzione, ma sempre il problema». L’incontro con i feriti civili che segnò l’inizio della sua vita di chirurgo di guerra. L’avventura di Emergency per portare un ospedale in ogni parte del fronte e curare tutti. Il ricordo di chi gli è stato accanto. Simonetta Gola Strada su La Repubblica il 20 agosto 2021. Con chiunque parlasse per un po’ di tempo, prima o poi tirava fuori l’Afghanistan. L’argomento poteva essere la cardiochirurgia o i progetti contro il Covid-19: non importa, a un certo punto l’Afghanistan entrava nel discorso con naturalezza. Anche in casa, le fotografie della Kabul degli anni ’70, qualche monile dei Kuci, i tappeti mantenevano vivo il legame indissolubile con un luogo del cuore. Ci aveva vissuto 7 anni in tutto, ma non era una questione di biografia: quel Paese e la sua gente gli avevano lasciato un segno profondo. Forse perché erano stati l’inizio di tutto. La prima volta che Gino ha avuto a che fare con l’Afghanistan è stato nel 1989. Aveva deciso di provare a fare il suo lavoro di chirurgo in un Paese a basse risorse. Presentò il curriculum alla cooperazione italiana e ricevette la chiamata dopo pochi giorni. Doveva esserci stata una rinuncia improvvisa, ed era il suo il curriculum in cima alla pila. Venne mandato a Quetta, in Pakistan, dove arrivavano i profughi e i feriti afgani ai tempi dei combattimenti tra le forze ufficiali filosovietiche e i mujaheddin. L’impatto con quell’ospedale della Croce rossa internazionale fu spiazzante. Per un chirurgo eccellente, specializzato alla Scuola di chirurgia di urgenza del professor Vittorio Staudacher, con diversi anni di lavoro nelle Università di Stanford e Pittsburgh nei trapianti cuore-polmone, lavorare in un ospedale per feriti di guerra era un cambiamento radicale. Raccontava sempre che all’inizio non aveva il tempo di pensare. I feriti erano tantissimi, passava ore in sala operatoria, a volte giorni: tagliava, cuciva, tagliava, cuciva. Serviva quello. Affrontava l’emergenza e intanto aveva un grandissimo interesse per il suo lavoro, gli piaceva imparare e lì vedeva ferite che non aveva mai curato prima. Enormi, sconvolgenti. Scoprì lì, a Quetta, gli effetti delle mine antiuomo, vedendo un bambino con le mani bruciate dall’esplosione: «Erano diventate dei piccoli cavolfiori». A distanza di anni e di altre migliaia di feriti, quell’immagine lo turbava ancora. Dopo il primo periodo a testa bassa sul tavolo operatorio, iniziò a leggere i registri e vide che le vittime erano contadini feriti mentre badavano ai campi, commercianti dilaniati al bazar, donne e bambini colpiti mentre tornavano a casa. In 9 casi su 10, erano civili. Che cosa c’entravano i civili con la guerra? Gino non ha mai smesso di chiederselo per tutta la vita, neanche quando si dedicò anima e corpo ad altri progetti. L’incontro con quei feriti segnò l’inizio della sua vita di chirurgo di guerra: Pakistan, Etiopia, Tailandia, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Poi nel 1994 fondò Emergency e fu il tempo del Ruanda, dell’Iraq, della Cambogia. Nel 1999, durante la guerra civile tra talebani e Alleanza del Nord, Gino tornò in Afghanistan, nella valle del Panshir. Aveva una forte sintonia con il comandante Massoud, che guidava i mujaheddin dell’Alleanza. Uno stratega militare, ma anche un idealista, uomo colto e pragmatico. Durante una delle loro partite a scacchi, Massoud gli disse: «Se vuoi aiutare le donne afgane, non mi parlare di burqa, ma porta istruzione e lavoro. Il resto verrà da sè». E così è stato. I risultati straordinari del Centro di maternità in Panshir in termini di donne curate e che ci lavorano danno ragione a quella scommessa, che all’inizio era sembrata una follia, «la solita follia di Gino». Per Gino quei dati erano la conferma che la democrazia non si porta con gli F16, ma riconoscendo diritti e dando una possibilità di scelta alle persone. «Dai alla gente “qualcosa da perdere” e vedrai quanti metteranno da parte il kalashnikov». Massoud mise a disposizione una vecchia caserma e lì sorse il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. Gino teneva profondamente a quell’ospedale e a quelle montagne – ai piedi dell’Hindukush – e costruì intorno all’ospedale una rete di Posti di primo soccorso per dare le prime cure a chi abitava troppo lontano. Cambiò la vita della gente della valle: l’ospedale offriva cure gratuite dove non c’era niente, e lavoro, e formazione; i Posti di primo soccorso aiutavano persone che altrimenti sarebbero state abbandonate a se stesse. Ho capito quanto era profondo l’amore di Gino per l’Afghanistan - e il Panshir in particolare – ancora prima di metterci piede. Bastava guardare la mappa dei Posti di primo soccorso: Shutul, Oraty, Anjuman... Villaggi sconosciuti sulle montagne più isolate, abituati a fare la conta dei morti alla fine dell’inverno, e che invece con Emergency sapevano dove chiedere un antibiotico o ricevere una medicazione. Non erano luoghi da telecamere o crocevia di organizzazioni internazionali: solo una persona innamorata di quella gente straordinaria e di quel Paese poteva averli scovati. Nella primavera del 2001, è stata la volta di aprire un secondo ospedale a Kabul e nel 2004 un terzo a Lashkar-gah, nel profondo sud. Un ospedale in ogni parte del fronte: era la sua filosofia, già da prima in Iraq, perché le cure fossero accessibili a tutti i feriti. Emergency non doveva – non poteva - essere accusata di privilegiare la popolazione di una parte sola. Questo è il principio che ha finora salvaguardato Emergency: curare bene tutti, senza distinzioni, nell’assoluta imparzialità. Dopo gli attentati dell’11 settembre, con Emergency e tanti altri, ci demmo da fare in ogni modo per evitare l’entrata in guerra dell’Italia, ma intanto Gino aveva deciso di partire alla volta dell’Afghanistan. Tutti i voli per Kabul erano stati cancellati per motivi di sicurezza, e allora intraprese un viaggio rocambolesco: Milano – Zurigo – Dubai – Karachi - Islamabad via aereo e poi da Chitral a dorso di cavallo per attraversare i passi montani più impervi, a 4.000 metri. Per uno che aveva già avuto un infarto qualche anno prima, in Iraq, l’altitudine e lo sforzo avrebbero potuto essere proibitivi, ma non aveva, Gino, nessuna simpatia per la parola «impossibile». Bisognava arrivare a Kabul e ci arrivò, ed Emergency fu l’unica ong occidentale a testimoniare la presa di Kabul. L’ultima volta che Gino è stato in Afghanistan era il 2018. Ci eravamo tornati insieme. Aveva ritrovato tanti vecchi amici e collaboratori, ma un Paese profondamente cambiato: nuove costruzioni in tutta Kabul e anche nella valle del Panshir le case di fango avevano lasciato spazio a ville con i vetri a specchio. Erano i soldi dell’oppio e della corruzione. Erano cambiate tante altre cose, ad esempio gli imponenti T-wall a separare la città degli internazionali da tutto il resto, gli attentati quasi quotidiani, che non aveva mai visto prima. Solo una cosa era rimasta la stessa: erano le vittime, i feriti, gente che con la guerra non c’entrava niente. Qualche mese prima dell’annuncio del ritiro delle truppe, Gino aveva previsto quello che poi è successo. Si continuava a stupire di quanto poco strateghi e militari internazionali conoscessero la storia del Paese: già nel 1996, i talebani avevano preso la capitale in un lampo. Gino aveva previsto tutto questo – la fuga delle truppe internazionali, il ritorno dei talebani più forti di prima, in casa e a livello internazionale, - ma non aveva nessuna soddisfazione a ricordarlo. Il suo pensiero costante erano le vittime – anche indirette - di questa guerra lunga 20 anni: chi non aveva da mangiare, chi non aveva la possibilità di farsi curare, i profughi. Oggi sono 5 milioni tra sfollati interni e richiedenti asilo e, a guardare i disperati tentativi di fuga da Kabul degli ultimi giorni, ce ne saranno presto altre decine di migliaia. Il bilancio di questa guerra è ormai definitivo e sotto gli occhi di tutti, eppure Gino non aveva fiducia che l’Occidente avesse imparato la lezione. «Dalle loro basi militari, non hanno mai visto la realtà della gente e non conoscono la storia, la cultura di questo Paese che è stato sempre il cimitero degli imperi», diceva. Sicuramente, dalle loro basi militari, hanno sempre ignorato la sofferenza di un corpo straziato dalle bombe e di chi lo deve operare. Gino era un chirurgo, di professione e per attitudine verso la vita. E da chirurgo, vedeva le cose in modo molto lineare. C’erano gli oleodotti, la geopolitica, le alleanze internazionali, certo, ma poi la guerra era una cosa molto più semplice: la differenza tra un corpo integro e uno ferito, tra la dignità dell’uguaglianza e la sopraffazione. E per questo, per Gino, la guerra non era mai la soluzione, ma era sempre – sempre - il problema. C’è ancora tanto da fare, Gino, e andremo avanti come tu ci hai insegnato. Continueremo a essere estremamente realisti e, allo stesso tempo, a coltivare l’utopia: continueremo a curare le vittime e a darci da fare per abolire la guerra. 

Come è diventato il nostro mondo dopo l’11 settembre. Alberto Flores D'Arcais su L'Espresso il 2 settembre 2021. Il costo esponenziale delle guerre dopo l’attacco, il razzismo e ora il rischio del terrorismo di destra. Parla Melani McAlister, saggista, accademica e scrittrice americana. «Ero a Washington, all’inizio era molto difficile da credere, lo guardammo come tutti gli altri in televisione. Ma il giorno dopo fu piuttosto impressionante vedere i carri armati per le strade della capitale degli Stati Uniti, non è certo qualcosa che si veda molto spesso. Ho avuto decisamente la sensazione di un mondo che era stato messo sottosopra, non avevamo davvero idea di cosa sarebbe successo o cosa aspettarci. L’11 settembre la paura era reale». Melani McAlister, saggista, accademica e scrittrice è specializzata nelle diverse “visioni globali” prodotte da e per gli americani. I suoi scritti e il suo insegnamento (ha la cattedra di American Studies and International Affairs alla George Washington University) hanno al centro i rapporti tra storia culturale e politica e il ruolo della religione e della cultura popolare nel plasmare gli “interessi” degli Stati Uniti in altre parti del mondo.

Ha un ricordo particolare di quel giorno?

«Anche allora insegnavo alla George Washington University, c’erano molti studenti e c’è un ospedale. Appena hanno saputo cosa era successo in centinaia hanno iniziato a mettersi in fila per donare il sangue, immaginando che ci sarebbero stati molti feriti. Questo è quanto accadeva anche a New York. In realtà non c’erano molti feriti, o si sopravviveva o non si sopravviveva. Ma la sensazione che quei ragazzi cercassero così tanto per trovare qualcosa da fare in quel momento è qualcosa che rimarrà sempre con me».

La situazione politica di oggi è in qualche modo una conseguenza di quell’attacco?

«Certamente. Molte cose oggi sono state plasmate da quell’attentato. Ne citerò un paio. La prima è che dobbiamo pensare, da un punto di vista degli Stati Uniti, all’enorme costo dei 20 anni di guerra: costo in termini di morti militari, 7mila soldati americani, più altri 8mila tra contractor e civili; costo economico, qualcosa come 6,4 trilioni di dollari spesi finora con altri 6,5 trilioni di dollari probabilmente in scadenza, solo di interessi sul debito che abbiamo contratto finora per le guerre».

E il costo globale?

«Naturalmente è molto più alto. Il Cost of War Project stima che ci sono stati circa 335mila civili uccisi in varie guerre dopo l’11 settembre, quindi Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, Yemen, un’intera gamma di guerre, ma in particolare ovviamente in Iraq e Afghanistan. E poi ci sono 37 milioni di persone sfollate. Quindi, stiamo parlando di un mondo profondamente plasmato sia negli Stati Uniti che all’estero. Non riesco a pensare a quanto diverse sarebbero state le nostre vite se l’11 settembre non fosse successo, ma anche se la reazione degli Stati Uniti fosse stata diversa da quella che è stata e se avessimo avuto un presidente diverso o un diverso insieme di scelte fatte». 

Anche Trump è una conseguenza?

«L’intero fenomeno di Trump e il populismo negli Stati Uniti hanno una forma particolare, diversa dall’Europa. Il Make America Great Again non può essere compreso separatamente dalle conseguenze dell’11 settembre. Essere stati in guerre molto lunghe e devastanti dal punto di vista economico, ma allo stesso tempo molto lontane. Molti dei sostenitori incalliti di Trump sono spesso le persone più vicine al mondo che compone l’esercito americano».

Per quali motivi?

«L’esercito degli Stati Uniti è molto vario dal punto di vista razziale, ma non molto vario dal punto di vista regionale. Si concentra nel sud e nel sud-ovest, da lì arrivano in maggioranza le persone che si offrono volontarie per entrare nell’esercito. L’Afghanistan è stata una guerra senza successo, una guerra impopolare, penso che sia sicuramente collegata, insieme al costo economico, all’aumento della retorica populista più arrabbiata».

Allora negli Usa quasi tutti dicevano che era una guerra giusta, era così?

«Possiamo dire che ci sono stati alcuni successi nello smantellamento di Al Qaeda nel corso del tempo e nella lotta contro l’Isis in termini di aiuto effettivo per interrompere le principali reti terroristiche. Anche se, naturalmente, sono riapparsi in Africa. Ma penso che quando guardiamo a quello che è successo all’Afghanistan negli ultimi 20 anni, la quantità di denaro che è stato speso e sprecato, il fatto che quando ce ne andremo i talebani torneranno subito al potere, non credo che ci sia modo di considerare questo qualcosa di diverso da un disastro. Ci saranno alcune cose che forse sono cambiate in meglio, nel senso che forse le donne manterranno qualche diritto e posizione in più, potranno andare a scuola, non proprio il tipo di restrizioni severe che affrontavano prima sotto i talebani. Ma dato il costo, dato il numero di morti, dato il fatto che, in realtà, molto poco è cambiato non credo che ci sia modo di vedere questo come un successo». 

È fallita l’idea di esportare la democrazia?

«La democrazia non è come un piatto con cui ti presenti a casa di qualcuno e glielo dai. Io sostengo gli sforzi di democratizzazione che sono non violenti, che riguardano il lavoro con tutti i tipi di persone, sulle diverse forme di democrazia che potrebbero funzionare nella loro situazione. Certamente la democrazia non deve essere solo una cosa, ma l’idea che si possa democratizzare un Paese invece di lavorare con la gente, a volte è un processo lungo, lento e frustrante per cercare di muoversi verso strutture più democratiche che includano il maggior numero di persone possibile. Non chiamiamola democratizzazione, chiamiamola per quello che era, cioè un cambio di regime, perché ci sono molti Paesi antidemocratici nel mondo, e gli Stati Uniti, grazie al cielo, non sono andati in giro a cercare di cambiarli tutti».

La bilancia tra sicurezza e libertà?

«È cambiata, molto. C’è l’accettazione di una sorveglianza maggiore, che non riguarda solo l’11 settembre ma anche Google e la tecnologia. La gente è sempre più disposta a permettere la sorveglianza delle telefonate, la sicurezza di internet, la mancanza di privacy si espande. C’è un aumento dei poteri della polizia e la militarizzazione di questi poteri, ora stanno ricevendo attrezzature militari usate dall’esercito americano e il loro addestramento è sempre più simile a quello di un soldato. Gli americani sembrano essere disposti ad accettare una sorta di militarizzazione della loro stessa società, che non ha nulla a che fare con l’11 settembre, ma in qualche modo ne è una conseguenza».

Il terrorismo 20 anni dopo è ancora una minaccia reale per gli Stati Uniti?

«Uno dei successi dell’apparato di sicurezza nazionale dopo l’11 settembre è stato l’aumento della capacità di monitorare e intercettare e prevenire le varie forme di attacco terroristico che le persone hanno tentato. Ci saranno altri attacchi? Ci possono essere ma non credo della portata dell’11 settembre, sarei molto sorpresa. Basta che qualcuno si presenti in una stazione ferroviaria con una mitragliatrice e si possono fare molti danni, quindi penso che sarebbe sciocco dire che non esiste alcuna minaccia».

C’è un problema di terrorismo interno?

«Sì, c’è. Da molto tempo si è capito che il più grande rischio di terrorismo all’interno degli Stati Uniti è il terrorismo di destra. Quelle reti sono più organizzate, stanno facendo un sacco di piani, molti dei quali non si realizzano mai, ovviamente. E c’è una presenza molto più grande di persone che potrebbero essere interessate alla destra suprematista bianca. La destra radicale negli Stati Uniti non è piccola, può toccare, come nel caso del 6 gennaio, persone che in altre circostanze non avrebbero mai pianificato un attacco terroristico. Penso che ci si possa aspettare, visto il modo in cui gli Stati Uniti stanno diventando sempre più polarizzati, di vedere sempre più attacchi di questo tipo e come dice l’Fbi questi sono gli attacchi di cui dobbiamo preoccuparci».

Qual è l’atteggiamento verso i musulmani negli Stati Uniti?

«Ho scritto un libro sull’argomento, c’erano atteggiamenti piuttosto negativi già dopo la crisi degli ostaggi in Iran alla fine degli anni Settanta e più in generale l’incomprensione di una fede importante di cui la maggior parte degli americani non sapeva molto. La prima risposta che ho visto dopo l’11 settembre è stata negativa. Un drammatico aumento dell’islamofobia, ogni sorta di ostilità espressa. L’idea che questa fosse una cultura arretrata in tutti i 50 Paesi in cui viene praticata, le donne musulmane come tutte oppresse. Negli Stati Uniti siamo arrivati a legislazioni contro la Sharia, in piccole città in Tennessee, o in Kansas».

Oggi è diverso?

«Già allora abbiamo visto persone riconoscere immediatamente che questo sarebbe stato un problema e cercare di affrontare il sentimento anti-musulmano negli Stati Uniti. Una delle cose che mi ha commosso più profondamente nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre è accaduta in Virginia, che ha una grande popolazione musulmana. Le donne venivano importunate se indossavano l’hijab. E così un gruppo di chiese cristiane ha deciso di far indossare l’hijab a tutte le donne delle loro chiese per una settimana. Un modo per dire “siamo solidali con voi”. Hollywood ha fatto un lavoro orribile nel rappresentare le guerre e le conseguenze di queste guerre, ma è stato fatto anche altro. C’era ogni sorta di terroristi musulmani nelle trasmissioni tv, ma sono state bilanciate da quelle che hanno mostrato la molteplicità delle vite dei musulmani».

I giovani di oggi, nati dopo, cosa sanno dell’11 settembre?

«Stavo pensando di scrivere una rubrica su 20 anni di insegnamento, insegno un corso chiamato “Incontro culturale in Medio Oriente”. È pieno di studenti di diversi tipi, ci sono arabi, studenti musulmani, studenti ebrei e ragazzi bianchi del Kansas. Inizialmente avevano sempre ansia, perché non sanno nulla di quella regione, sono spaventati e confusi. Nel corso degli anni la classe è diventata sempre più grande, ho iniziato a insegnare a molti veterani di guerra dell’Iraq e dell’Afghanistan, ad altre persone che sono coinvolte nell’esercito. Gli studenti di oggi il terrorismo non lo sentono affatto come un problema importante. Vedono le guerre come una questione di impero americano e di potere americano, non come una questione di terrorismo».

Vent’anni dopo l’America è migliore?

«Penso che per molti versi è un posto più difficile in cui vivere. È più difficile a causa dell’aumento del razzismo, sia del razzismo anti-nero che dell’islamofobia come fatti quotidiani della vita, e a causa dell’ascesa di Trump e di tutta quell’ala della destra radicale negli Stati Uniti. E a causa delle cose che stanno colpendo tutti, come il cambiamento climatico, che portano molte persone a sentire la disperazione quotidiana, non importa quanto la propria vita sia o non sia personalmente facile. Ci sono però cose che mi fanno sperare e che secondo me migliorano la situazione. Una sono i giovani, molto più consapevoli e critici nei confronti del potere americano. Sono arrabbiati con le persone della mia generazione, sono davvero disposti ad andare a fondo su cose come il clima e il razzismo e a sfidare le nozioni di impero americano. Questo mi fa sentire speranzosa».

Il dopo 11 settembre 2001. "DICEVAMO 20 ANNI FA CHE LA GUERRA IN AFGHANISTAN SAREBBE STATA UN DISASTRO PER TUTTI" - L’ULTIMO ARTICOLO DI GINO STRADA PUBBLICATO SU "LA STAMPA": "NON MI SORPRENDE LA SITUAZIONE CHE C'È IN QUEL PAESE, DOVE HO VISSUTO IN TUTTO 7 ANNI. LA GUERRA È STATA - NÉ PIÙ NÉ MENO - UNA GUERRA DI AGGRESSIONE INIZIATA ALL’INDOMANI DELL’ATTACCO DELL’11 SETTEMBRE, DAGLI STATI UNITI A CUI SI SONO ACCODATI TUTTI I PAESI OCCIDENTALI..."

Gino Strada per "La Stampa" Il 13 agosto 2021. Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico. È difficile ignorare la notizia diffusa ieri: i talebani hanno conquistato anche Lashkar Gah e avanzano molto velocemente, le ambasciate evacuano il loro personale, si teme per l’aeroporto. Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino - meglio: che siano sempre mancate - entrambe. La guerra all’Afghanistan è stata - né più né meno - una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il Consiglio di Sicurezza - unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza - era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato: gli Usa procedettero con una iniziativa militare autonoma (e quindi nella totale illegalità internazionale) perché la decisione di attaccare militarmente e di occupare l’Afghanistan era stata presa nell’autunno del 2000 già dall’Amministrazione Clinton, come si leggeva all’epoca sui giornali pakistani e come suggerisce la tempistica dell’intervento. Il 7 ottobre 2001 l’aviazione Usa diede il via ai bombardamenti aerei. Ufficialmente l’Afghanistan veniva attaccato perché forniva ospitalità e supporto alla “guerra santa” anti-Usa di Osama bin Laden. Così la “guerra al terrorismo” diventò di fatto la guerra per l’eliminazione del regime talebano al potere dal settembre 1996, dopo che per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994. Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. Invito qualche volonteroso a fare questa ricerca sui giornali di allora perché sarebbe educativo per tutti. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Nei mesi e negli anni successivi le informazioni sulle vittime sono diventate più incerte: secondo Costs of War della Brown University, circa 241 mila persone sono state vittime dirette della guerra e altre centinaia di migliaia sono morte a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Solo nell’ultimo decennio, la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha registrato almeno 28.866 bambini morti o feriti. E sono numeri certamente sottostimati. Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 2001. E soprattutto è un Paese distrutto, da cui chi può cerca di scappare anche se sa che dovrà patire l’inferno per arrivare in Europa. E proprio in questi giorni alcuni Paesi europei contestano la decisione della Commissione europea di mettere uno stop ai rimpatri dei profughi afgani in un Paese in fiamme. Per finanziare tutto questo, gli Stati Uniti hanno speso complessivamente oltre 2 mila miliardi di dollari, l’Italia 8,5 miliardi di Euro. Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe. Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency - pieni di feriti - continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”.

Le accuse a Obama sul ritiro "Ha illuso tutti con le sue bugie". Valeria Robecco il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. La cerimonia del 2014 è rimasta scritta sulla sabbia. New York. «La grande illusione: nascondere la verità sulla conclusione della guerra in Afghanistan». Così il Washington Post inizia a raccontare - a puntate - il contenuto di un libro esplosivo, The Afghanistan Papers: A Secret History of the War, che sarà pubblicato il 31 agosto da Simon & Schuster. Scritto dal giornalista investigativo del quotidiano Craig Whitlock, tre volte finalista al Pulitzer, racconta cosa è andato storto in Afghanistan, con ricostruzioni basate su più di 1.000 interviste a persone che hanno giocato ruoli diretti nella guerra, e su migliaia di pagine di documenti. Whitlock rivela come i presidenti che si sono avvicendati alla guida del Paese abbiano ingannato il pubblico per quasi due decenni: anche George Bush e Donald Trump hanno nascosto la verità sull'andamento delle operazioni, ma a fine 2014, l'allora comandante in capo Barack Obama aveva promesso di porre fine alla guerra. Il 28 dicembre - ricorda il Wp - i funzionari di Usa e Nato tennero una cerimonia in pompa magna nel loro quartier generale a Kabul per l'occasione, con un discorso di un generale a quattro stelle che arrotolò solennemente la bandiera verde della forza internazionale guidata dagli Stati Uniti. «Grazie agli straordinari sacrifici dei nostri uomini e donne in uniforme, la nostra missione di combattimento in Afghanistan sta finendo e la guerra più lunga della storia americana sta arrivando a una conclusione responsabile», disse Obama. Secondo il Washington Post per essere un momento storico la cerimonia sembrò decisamente sotto tono. Il presidente parlò dalle Hawaii mentre era in vacanza, e durante l'evento, che ebbe luogo in una palestra, nessuno esultò. In effetti, la guerra non era affatto vicina a una conclusione e le truppe statunitensi avrebbero continuato a combattere e morire per ancora molti anni. «Le sfacciate affermazioni contrarie - prosegue il Wp - sono classificate tra gli inganni e le bugie più eclatanti che i leader statunitensi hanno diffuso durante due decenni di guerra». Obama aveva promesso di ritirare il resto delle truppe - 10.800 militari - entro la fine del 2016 (prima della fine del suo secondo mandato). Voleva evitare di ripetere in Afghanistan quello che era successo in Irak dopo il ritiro degli americani, che aprì le porte al ritorno dello Stato islamico, ma aveva bisogno di guadagnare tempo affinchè le forze Usa potessero contribuire a rafforzare il traballante esercito afghano in modo che non crollasse. Per fare funzionare tutto - si legge ancora - fece credere agli americani che le truppe rimaste sarebbero state lontane dal fronte, con compiti marginali. In realtà, le eccezioni sono state numerose. Ora, scrive sempre il Washington Post, «l'Afghanistan si sta dimostrando un terreno accidentato anche per Joe Biden», parlando di «scommessa» da parte dell'attuale presidente, che ha scelto di confermare il ritiro militare annunciato dal predecessore.  Valeria Robecco

Promesse tradite e illusioni di pace. Gian Micalessin il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Ipotizzare, come fa il ministro Di Maio in un'intervista al Corsera, la disponibilità talebana ad offrire "le dovute garanzie sul rispetto dei diritti acquisiti" equivale ad accarezzare una tigre affamata nell'illusione di sentirla far le fusa. Ignoriamo dove fosse il ministro degli Esteri Luigi Di Maio tra il 1996 e il 2001, quando i talebani ospitavano un Osama Bin Laden intento a progettare l'11 settembre e, intanto, governavano l'Afghanistan a colpi di lapidazioni e mutilazioni rituali. Possiamo però garantirgli una cosa: ipotizzare, come fa il ministro in un'intervista al Corsera, la disponibilità talebana ad offrire «le dovute garanzie sul rispetto dei diritti acquisiti» equivale ad accarezzare una tigre affamata nell'illusione di sentirla far le fusa. Un'illusione che può ben illustrargli il suo predecessore Massimo D'Alema, ritrovatosi a gestire, nel marzo 2007, la vicenda del giornalista Daniele Mastrogiacomo rapito dai talebani e costretto ad assistere allo sgozzamento del suo interprete. Ascoltare Di Maio appellarsi alla clemenza talebana, formulando un involontario, ma sostanziale ossimoro, è anche irrispettoso per le vite dei 53 nostri soldati caduti in Afghanistan e il sangue degli oltre 700 feriti che di quella clemenza non hanno beneficiato. Per non parlare dei 389 collaboratori afghani delle nostre Forze Armate che attendono di venir trasferiti in Italia e rischiano, intanto, una brutta fine, mentre - spiega ancora il ministro - ci apprestiamo a sgomberare la nostra ambasciata a Kabul. Ancor più sconcertante è sentirgli affermare che «non possiamo pensare di abbandonare dopo 20 anni il popolo afghano». Qualcuno, per cortesia, gli spieghi che i talebani si sono appena impossessati di Farah e Herat, le province dell'Afghanistan occidentale dove per quasi 20 anni abbiamo promesso democrazia, benessere e rispetto dei diritti delle donne. Promesse platealmente tradite quando ce ne siamo andati al seguito degli americani. Certo, soli non potevamo restare, ma la figuraccia resta. E un ministro farebbe meglio a non aggravarla con un'inutile retorica. Fra tante banalità, l'unico punto apprezzabile è l'appello ad un'Europa chiamata a «recitare un ruolo di primo piano e porsi come interlocutore credibile». Un ruolo che l'Europa dovrà giocare non appena sulla rotta balcanica si muoveranno migliaia di afghani. Peccato che anche qui Di Maio finisca con il confondere i disperati in fuga dall'odio talebano con gli «irregolari» muscolosi e ben pasciuti scaricati sulle nostre coste dalle navi delle Ong. Una confusione che vanifica l'appello ad un'Europa chiamata non ad infischiarsene, come fa con gli «irregolari» sbarcati in Italia, ma ad offrire loro asilo e assistenza. Nel rispetto della Convenzione di Ginevra. 

Dopo vent’anni di false promesse il caos sta lacerando l’Afghanistan. Filippo Rossi da Kabul su L'Espresso il 4 agosto 2021. I combattimenti sono ancora più intensi dopo il ritiro della Nato. E al confronto armato tra governo e talebani si aggiungono le milizie che controllano intere aree del Paese. L’Afghanistan si trova nella situazione peggiore della sua storia. La ragione principale è il ritiro della Nato, fuggita in un momento in cui i combattimenti non fanno che intensificarsi e ogni giorno muoiono centinaia di afghani. Il fatto peggiore da digerire è che ora, senza un attore forte come gli Usa, governo e talebani faranno fatica a trovare un accordo. Non c’è fiducia fra le parti e nessuno sa come andrà a finire». L’analista Nasratullah Haqpal ama ripetere questo concetto: quando le cose sembrano collassare l’incertezza offusca ogni tipo di proiezione futura. «L’incertezza per il futuro ha ripercussioni sull’economia, la vita sociale, l’educazione e la sicurezza. In questo caso il principale responsabile è il governo americano che lascia gli afghani nella situazione di 20 anni fa. Se c’è qualcuno che ha la capacità e la responsabilità di trovare un accordo fra governo e talebani, sono loro». La dichiarazione fatta da Joe Biden un mese fa, secondo cui gli Usa «non sono andati in Afghanistan per fare “Nation-building”» ha fatto infuriare gli afghani: «Siamo forse noi afghani ad aver invitato gli americani e la Nato? Hanno occupato il paese dicendo che volevano sradicare il terrorismo, portare la prosperità e la democrazia», continua Haqpal. «Dov’è la democrazia? E La prosperità? Se non sono venuti per fare “Nation building”, allora sono rimasti per ucciderci? Sono riusciti a dividere la popolazione più che mai. E ora che dovrebbero risolvere il problema scappano, addossando la colpa agli afghani». Una cosa che rende tutti unanimi in Afghanistan è la gioia nel vedere gli stranieri lasciare il paese. Tutti hanno perso fiducia nei loro confronti, giudicando l’operato e il lavoro di 20 anni di presenza come inutile. Un fiasco totale costato trilioni di dollari. Il riflesso di tutto ciò si manifesta nel ritiro affannoso delle forze Nato degli ultimi mesi. In particolare, l’abbandono inatteso della base aerea di Bagram. È successo venerdì 2 luglio, in mezzo alla notte, quando l’ultima compagnia di soldati americani è decollata dalla pista, lasciando sguarnita la base, senza avvertire gli afghani. «Ci siamo accorti che erano partiti dopo due o tre ore. Nessun afghano aveva il diritto di entrare nella zona. La notte abbiamo sentito i rumori degli aerei. Una cosa normale, come ogni notte. Quando abbiamo notato che era stata smantellata, abbiamo colmato subito il vuoto mandando i soldati a controllare il perimetro», racconta il generale Mir Asadullah Kohistani, divenuto comandante di tutta la base aerea dopo la partenza americana. Un comportamento criticato che però Kohistani tiene a difendere: «Siamo militari. Abbiamo dei codici per proteggere le missioni. Gli americani ci avevano avvertito che sarebbero partiti, ma senza darci un giorno e un’ora esatti». L’abbandono di Bagram è stata una sorpresa, anticipando di quasi due mesi l’11 settembre, data simbolica annunciata da Biden come limite per completare il ritiro. Soprattutto per i miliardi di dollari investiti per sviluppare la base, il simbolo dell’occupazione Nato e una vera e propria cittadina che ospitava circa 70 mila persone, con centinaia di voli alla settimana, 3500 edifici e tutte le infrastrutture di un normale centro urbano. Bagram oggi è deserta, silenziosa. Girare per le sue strade, osservare la segnaletica e l’architettura, richiama più una cittadina remota e desertica del Nevada in decadimento. C’è da immaginarsi quindi la sorpresa delle forze afghane nell’assistere a tale spettacolo: tutto vuoto, niente elettricità, negozi svuotati di ogni bene. Una città fantasma. Fra le forze afghane c’è fierezza e amarezza: «Siamo fieri di poter controllare la base, ma gli americani ci hanno traditi. Lasciare l’Afghanistan sì, ma non Bagram», commenta un sergente. Senza dimenticare i dubbi circa le capacità delle forze afghane di mantenere il controllo sulla base, visto che nelle provincie faticano a resistere agli attacchi dei talebani. «I Talebani hanno annunciato che avrebbero attaccato, ma la difenderemo a ogni costo. Chi controlla Bagram, controlla l’Afghanistan». Questi timori derivano dalla situazione militare. L’esercito è stato criticato per le sconfitte subite sul campo oltre alle migliaia di diserzioni e perdite. I Talebani hanno conquistato molto territorio, accerchiando le principali città e conquistando i principali valichi di frontiera, mettendo alle strette il governo e la popolazione. Tuttavia, Haqpal dice che secondo «alcune teorie, l’esercito si sarebbe ritirato da territori difficili e remoti per concentrarsi sulle città. I soldati sono demoralizzati perché non credono nei loro leader, non perché non sono ben armati o addestrati». Ma lo scacchiere afghano non si limita a talebani contro governo. Oltre a una guerra mafiosa collaterale e conflitti fra gruppi tribali, c’è un dettaglio che molti non hanno voluto vedere per molto tempo e che oggi rappresenta un vero pericolo: per contenere gli attacchi incessanti dei Talebani, da ormai più di un anno governo e servizi segreti hanno fatto ricorso alla creazione e al sostentamento di centinaia di milizie, chiamate oggi forze di insurrezione popolare. In mano ai molti signori della guerra diventati improvvisamente paladini democratici nel governo, controllano interi territori, rischiando di diventare la spina nel fianco di qualsiasi possibile soluzione politica. Da anni ormai, molti politici corrotti a Kabul, parlamentari ma anche alti ranghi del governo, armano le milizie o le sostengono in base ai propri interessi. Le appoggiano spesso anche con il benestare di Stati terzi, impauriti di perdere privilegi e potere, con il possibile ritorno dei talebani. Solamente a Kabul ci sono interi quartieri dove l’esercito e la polizia non hanno giurisdizione. Uno sviluppo preoccupante che negli ultimi due mesi ha visto un peggioramento. Con il deterioramento della situazione, infatti, migliaia di civili hanno raggiunto nuove milizie, spesso senza saper combattere. Per ora affiancano l’esercito governativo ma rimane un punto interrogativo: «Bisognerà vedere se queste milizie si allineeranno con il governo oppure seguiranno i loro leader su base etnica, come in passato. Possono essere sia un grande appoggio che un pericolo per la stabilità del governo», commenta il professore Fahim Sadat. Haqpal è molto negativo: «Come nel passato, queste milizie commettono abusi. Uccidono per il beneficio di pochi e potrebbero far scoppiare una guerra interetnica diventando un attore incontrollato in un conflitto fra esercito governativo e talebani». Il parlamentare della provincia di Parwan Abdul Zaher Salangi, lui stesso parte di una milizia, la vede però differentemente: «Sono essenziali. La gente dovrebbe avere le armi e combattere i talebani. Dopo l’arrivo della Nato, i programmi di disarmo nelle province non hanno fatto altro che regalare territorio ai talebani. Ora la Nato se ne va, lasciando l’inferno agli Afghani». Se nelle provincie i cannoni tuonano, paradossalmente a Kabul, nell’ultimo mese, la situazione si è calmata con meno esplosioni e meno bombe magnetiche sulle macchine. Ma è una calma apparente. I prezzi dei viveri di base sono alle stelle e non si capisce se il governo crollerà, se ci sarà un accordo con i Talebani oppure se questi prenderanno le città principali con la forza. Moltissimi cercano di scappare dal paese (circa 5 mila passaporti sono emessi ogni giorno). «I Talebani sanno di non essere in grado di controllare le città. Non conquisteranno Kabul», dice Haqpal. «Se prendessero Kabul con la violenza, cosa che avrebbe un costo umano altissimo, perderebbero sicuramente molta legittimazione. Sembra piuttosto che vogliano mettere pressione per avere più potere sul tavolo dei negoziati di fronte alla comunità internazionale». Fahim aggiunge che «sono forti nel conquistare, ma come si è visto in varie occasioni, non riescono a mantenere una regione e a gestirla. Ora vogliono capitalizzare il momento del ritiro americano». Fra chi prima vedeva nei Talebani un movimento di liberazione, oggi, con i molteplici abusi dei diritti umani, la distruzione di moschee, e le violenze contro soldati e civili, molti si stanno ricredendo. Anche se la leadership talebana di Doha nega e condanna gli atti criminali delle truppe sul campo, la fiducia viene meno. Nel campo governativo invece, i politici a Kabul - come il presidente Ghani - sono nel panico, minacciano giornalisti e attivisti, arrestando chi critica il loro operato. Tutti sembrano fare i propri interessi. «I Talebani, reprimendo, mostrano che non hanno le capacità di governare. Mentre il governo, oltrepassando ogni limite della costituzione democratica che dice di difendere, mostra il suo vero volto», tuona Haqpal. Ma una certezza sembra risiedere in una frase di Salangi: «Non ci sarà pace fintanto che la comunità internazionale non la vorrà. Ci impongono una guerra e noi dobbiamo combatterla». In Afghanistan lo sanno benissimo tutti: che sia con milizie, governo o talebani, è una guerra per procura. Gli interessi degli stati regionali e della comunità internazionale hanno molto peso. Tutti gli attori sul campo sono delle pedine, carne da macello, che sembrano più che altro sostentare un’economia di guerra piuttosto che difendere le loro idee. Il caos sta lacerando l’Afghanistan e gli afghani. E la causa risiede molto in 20 anni di false promesse.

Biden tira dritto dove Trump e Obama hanno mollato: infrastrutture e Afghanistan. Alessandro Maran,  Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Sono passati vent’anni e Joe Biden si è convinto che se gli Stati Uniti non se ne vanno ora dall’Afghanistan non se ne andranno mai più, perché il momento giusto per andarsene non verrà mai. L’ho raccontato nei mesi scorsi proprio su questo blog. Ora gli americani sono accusati di abbandonare l’Afghanistan nelle mani dei talebani, ma sono stati sul banco degli accusati anche quando hanno invaso il paese per rimuovere dal potere i talebani che avevano ospitato e protetto Osama Bin Laden nel suo progetto di guerra santa. Le cose sono andate come sono andate, ma gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti: annientare le capacità operative di al Qaeda e consegnare Osama bin Laden «alle porte dell’inferno». E ancora una volta, da quelle parti, il «nation building» si è rivelato un’impresa che va al di là delle possibilità degli Stati Uniti (e di chiunque altro). Il ritorno al potere dei talebani comporterà certamente serie conseguenze umanitarie e la perdita della libertà per gli abitanti del paese. Ma il presidente americano non è disposto a riconsiderare la sua decisione. Gli Stati Uniti, ha spiegato, hanno speso più di mille miliardi di dollari e perso migliaia dei loro soldati per addestrare ed equipaggiare le forze armate afgane: «I leader afgani devono unirsi», ha ribadito Biden, «devono combattere per se stessi e per il loro paese… devono voler combattere». Sul piano geopolitico non cambierà molto. Nessuno ha soldi, energie e risorse da buttare in Afghanistan, neppure la Cina. Specie se si considera che la priorità per gli Stati Uniti è ora quella di ricostruire l’economia (e quindi la potenza) americana e la coesione interna di una società in «frantumi» (per usare l’espressione del celebre libro di George Packer). Inoltre, il ritiro dall’Afghanistan non cambierà le dinamiche politiche interne degli Stati Uniti. La guerra resta oltremodo impopolare. Gli americani non ne possono più di conflitti che hanno prosciugato le forze del paese in posti dimenticati da Dio. Le critiche verranno soltanto da qualche falco repubblicano, dai giornalisti e da qualche esperto di politica estera di Washington, non dalla gente che conta davvero: quella che vota. Ogni presidente, da George Bush in avanti, aveva annunciato che era venuto il momento di andarsene dall’Afghanistan per dedicarsi al «nation building» in patria. Ora Biden, come ha sottolineato la CNN, lo sta facendo davvero. «Non c’è più una linea di demarcazione tra politica estera e politica interna: ogni iniziativa che assumiamo nella nostra condotta all’estero, va presa con in mente le famiglie dei lavoratori americani», aveva detto non per caso Biden nel suo primo significativo discorso dedicato alla politica estera (L’America é tornata, constatavo su questo blog ,«ma non come prima»). Messe così le cose, il provvedimento sulle infrastrutture di oltre 4500 miliardi di dollari (che persino la redazione del Financial Times ha giudicato importantissimo) e il ritiro dalla più lunga guerra mai combattuta dall’America, potrebbero segnare davvero un punto di svolta nella sua presidenza.

L’avanzata inarrestabile, gli elicotteri, la fuga: l’Afghanistan come il Vietnam. Paolo Mauri su Inside Over il 16 agosto 2021. C’è una foto che in queste drammatiche ore sta circolando sui social. In realtà una composizione di due immagini che ritraggono due elicotteri, simili, in due epoche molto lontane nel tempo, che atterrano in due città diverse, ma per lo stesso scopo: evacuare il personale diplomatico statunitense. La prima è stata scattata a Saigon, la capitale dell’ex Repubblica del Vietnam, e mostra un CH-46 Sea Knight in atterraggio sul tetto dell’ambasciata americana nelle tragiche ultime ore di vita del Vietnam del Sud. La seconda è stata scattata domenica mattina, e ritrae un CH-47 Chinook mentre compie la stessa manovra, ma nei pressi della legazione statunitense di Kabul, la capitale dell’Afghanistan. Quella foto che ci arriva dal 1975 è una delle tante, e nemmeno la più famosa, dell’epilogo di un altro tragico conflitto durato un decennio: quello che è comunemente conosciuto come “Guerra del Vietnam” ma che abbracciò – clandestinamente – anche il Laos e la Cambogia. È stata definita una “sporca guerra”, con l’ipocrisia, o forse con il disincanto, di chi pensa che ci siano guerre “pulite”, ed il suo epilogo non poteva che essere altrettanto drammatico: dopo la rotta dell’esercito sudvietnamita, sotto i colpi di quello del Nord e dei Vietcong, col nemico ormai alle porte della capitale, una massa di profughi cercava disperatamente vie di fuga per sottrarsi alle vendette del nemico, mentre il personale diplomatico occidentale organizzava le operazioni di evacuazione. Il primo aprile 1975, infatti, prendeva il via l’operazione Frequent Wind per evacuare il personale Usa e sudvietnamita che durante i lunghi anni di guerra aveva collaborato con gli americani. Washington mobilitò tutte le sue risorse militari, e in 30 giorni 51888 persone, di cui 6763 da parte dei velivoli Usa che hanno fatto registrare l’impressionante cifra di 19mila sortite, erano state portate in salvo. Sono però le ultime ore quelle che sono rimaste impresse nella storia: le immagini degli elicotteri che atterravano sui tetti dei palazzi di Saigon e che venivano gettati in mare dal ponte delle portaerei per fare spazio, sono rimaste nella nostra memoria collettiva. A proposito: la famosa fotografia dell’UH-1 Huey atterrato sulla sommità di un edificio con la fila di persone pronte a salire non ritrae il tetto dell’ambasciata statunitense, ma quello di un palazzo poco distante. Dicevamo che gli ultimi momenti di quel conflitto, con i nordvietnamiti e i vietcong a cingere d’assedio Saigon, sono rimasti impressi nella storia: la gente che premeva sui cancelli dell’ambasciata Usa, gli elicotteri sempre in volo, il fumo dei combattimenti e dei documenti riservati dati alle fiamme, la bandiera a stelle e strisce ammainata e ripiegata. Ci sono evidenti analogie con quanto sta accendo in queste ore a Kabul, ed è per questo che i giorni che stiamo vivendo, indipendentemente da quello che riserverà il futuro, resteranno nella storia: immagini altrettanto potenti ci giungono dall’Afghanistan, come le file di profughi ai valichi di frontiera o quelle dell’incessante ponte aereo per evacuare il personale diplomatico occidentale, tra cui quello italiano. Ancora gli elicotteri protagonisti, perché i talebani hanno tagliato le vie di accesso all’aeroporto della capitale afghana, esattamente come i nordvietnamiti avevano isolato e circondato l’aeroporto di Tan Son Nhut, lo scalo utilizzato dagli Stati Uniti per l’evacuazione dal Vietnam. Ancora la tragedia dei profughi, che si sono visti i valichi di frontiera a nord, con l’Uzbekistan, prima chiusi dalle autorità uzbeke, poi passati sotto controllo talebano. Centinaia, forse migliaia di ex appartenenti alle Ansf (Afghan National Security Forces) e alle altre milizie rimasti bloccati al di qua del confine, con, sulla testa, il peso di una condanna a morte per aver collaborato con “l’invasore”, nonostante le rassicurazioni di una possibile amnistia da parte dei talebani. Amnistia che quasi certamente non ci sarà, almeno non per tutti. Perché i talebani, in questi giorni, stanno mostrando – ancora una volta – il loro vero volto: esecuzioni sommarie, a macchia di leopardo, di militari governativi, espulsione di donne da uffici pubblici e scuole e condanne a morte eseguite negli stadi. Un copione già visto. Arrivano anche rapporti di uccisioni di studentesse. Le donne, ancora una volta, pagheranno il prezzo più alto insieme ai soldati: venti anni di progresso azzerati in pochi giorni, con lo sfaldamento delle Ansf, che si sono disgregate ancora più rapidamente una volta caduta Mazar-i-Sharif, la storica roccaforte della resistenza ai talebani nel nord del Paese. Un dramma nel dramma è proprio quello dei collaboratori delle forze occidentali e delle loro famiglie, che è quasi sicuro saranno oggetto di vendetta: il “collaborazionismo” non viene mai scontato nei giorni immediatamente successivi al termine di un conflitto. Del resto questo quadro lo abbiamo già visto. Le analogie col conflitto vietnamita non si fermano, infatti, all’evacuazione e agli elicotteri che volano ininterrottamente per fare la spola, ma anche per le masse di profughi in fuga – che in Vietnam non diminuirono nemmeno a conflitto ultimato prendendo il nome di “boat people” – che premono ai confini per cercare scampo dal ritorno dell’integralismo islamico: un dramma umanitario che, molto probabilmente, presto passerà nel dimenticatoio. Perché se c’è una verità, scomoda, in questi venti anni di conflitto in Afghanistan, è stata la poca attenzione mediatica che gli è stata dedicata: si parlava di quel Paese solo quando, disgraziatamente, uno Ied, un ordigno improvvisato usato per le imboscate, esplodeva provocando morti tra i militari del nostro contingente. Dopo i primissimi anni in cui è cominciata la missione, l’Afghanistan è quasi del tutto sparito dalle cronache: c’è una generazione di ventenni italiani, oggi, che – forse – sta sentendo parlare di quel luogo e di quella guerra solo in questi ultimi giorni per via dei tragici fatti a cui stiamo assistendo. Sembra quasi che si sia voluta dimenticare quella guerra, così come, immediatamente dopo il termine del conflitto nel Sudest Asiatico, gli americani hanno voluto – colpevolmente – dimenticare il Vietnam nonostante i 58mila morti che è costato loro. Ecco perché è importante parlare dell’Afghanistan, parlare del destino dei nostri collaboratori afghani come dei nostri morti, quei 53 “ragazzi con le stellette” che hanno lasciato la vita nella polvere di un Paese lontano. Perché l’Afghanistan è, in un certo senso, il “nostro Vietnam”, e perché ci sono ancora quasi 4mila afghani – se contiamo i familiari dei collaboratori – che vanno portati in salvo prima che la vendetta talebana scenda su di loro. Il tempo è poco: si calcola che entro 36 ore (al più tardi martedì nelle più ottimistiche previsioni) il ponte aereo andrà ad esaurirsi con la fine dell’evacuazione del personale statunitense. Sbrighiamoci. Altrimenti sarà, davvero, un altro Vietnam.

Nel “Vietnam” afghano hanno perso la vita 53 nostri soldati. Paolo Mauri su Inside Over il 16 agosto 2021. Afghanistan 2021. I talebani sono avanzati inesorabilmente, come da copione, conquistando un villaggio dietro l’altro, una provincia dietro l’altra: Kandahar, Herat e Lashkar Gah fino a prendere il controllo di Kabul. Le Ansf (Afghan National Security Forces), le forze di sicurezza afghane addestrate e armate dalla Nato e dagli Stati Uniti, si sono sgretolate, passando “al nemico” o semplicemente abbandonando le armi, sperando in una clemenza che non c’è e non ci sarà. Nella loro marcia verso Kabul, i talebani hanno dimostrato, una volta di più, che le regole della guerriglia, dei conflitti insurrezionali asimmetrici, sono impietose: da più parti arrivano rapporti frammentari di uccisioni di soldati che si sono arresi. Alla tragedia si aggiunge la beffa della propaganda talebana, che sui social mostra il trattamento “umano” riservato a chi si arrende. Tutto falso. Tutto costruito ad arte per cercare di guadagnare consenso e legittimazione. Ci sono sacche di resistenza tra la popolazione civile, che imbraccia le armi per contrastare il ritorno dei talebani, ma si tratta di episodi sporadici: l’Afghanistan si sta trasformando sempre più in un “Vietnam” senza la giungla. Lo sapevamo. Lo sapevano i vertici militari e politici, del resto c’è stato il precedente dell’invasione sovietica degli anni ’80: il Paese che è stato definito “la tomba degli imperi” (chiedere a tal proposito anche agli inglesi) non fa sconti a nessuno, in tutte le epoche. Herat, capoluogo della provincia omonima nell’ovest del Paese, è caduta da poche ore. Herat per ogni italiano, dovrebbe avere un significato particolare: è stata il quartier generale delle forze italiane in Afghanistan. Il nostro Paese ha infatti partecipato alla missione internazionale Isaf praticamente da subito: era l’11 agosto del 2003. Isaf si conclude nel 2014, ed il nostro intervento in quel Paese cambia pelle, ma continua sino al 2021, quando a giugno, con una cerimonia solenne tenutasi nella base di Herat, è stata ammainata per l’ultima volta la nostra bandiera. A quella cerimonia hanno preso parte il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il capo di Stato maggiore Enzo Vecciarelli, il comandante del Coi (Comando Operativo Interforze) il generale Luciano Portolano, il capo della missione Resolute Support, il generale statunitense Austin Scott Miller, e il generale Beniamino Vergori, responsabile del comando locale. Il tricolore è tornato per sempre in Italia, insieme agli ultimi 500 soldati. Un tricolore che ha sventolato per quasi vent’anni e che, come in ogni guerra, ha avvolto idealmente in un abbraccio i corpi dei nostri soldati caduti in Afghanistan. Sono 53 i caduti italiani in quel conflitto, 651 i feriti. Un impegno in seno alla Nato che ha richiesto il più pesante tributo di sangue della storia repubblicana. Un onere umano, prima che finanziario (8,5 miliardi di euro) che non avrà nessun tipo di compensazione. In Afghanistan l’Occidente non lascia nulla se non una parentesi di “democrazia”, zoppicante e fallace, la cui eredità sta per essere sepolta nella sabbia e nella polvere. Forse. La speranza – flebile – è che venti anni di libertà dall’oppressione talebana abbiano in qualche modo plasmato le menti dei giovani (soprattutto delle donne), che così potrebbero coltivare, in sé, il seme della ribellione all’ordine castrante del fondamentalismo islamico. Il tempo sarà giudice ultimo, ma stiamo divagando. Cinquantatre soldati morti. Cinquantatre vite spezzate, molte nel fiore degli anni. Andate a vedere le date di nascita di quei “ragazzi con le stellette” che sono caduti in battaglia. Trentuno di essi in combattimenti, gli altri per incidenti, con una “giornata nera”, quella del 17 settembre del 2009, in cui perdono la vita sei nostri militari. Quel giorno, a Kabul, un’auto carica di esplosivo (si stima circa 150 chilogrammi) riesce ad infilarsi tra due mezzi Lince del 186esimo Reggimento della Brigata Folgore, esplodendo. Tutti gli occupanti del primo mezzo, ed uno del secondo, muoiono sul colpo, insieme a 4 poliziotti e 20 civili afghani. Una strage. Coi loro nomi, che riportiamo, commemoriamo idealmente anche gli altri nostri soldati che hanno lasciato la vita in Afghanistan, insieme al personale locale e ai civili: Roberto Valente, sergente maggiore, Matteo Mureddu, primo caporal maggiore, Antonio Fortunato, tenente, Davide Ricchiuto, primo caporal maggiore, Giandomenico Pistonami, primo caporal maggiore e Massimiliano Randino, primo caporal maggiore.

Apriamo una piccola parentesi: il tributo di sangue dei nostri militari in quella lunga campagna sarebbe stato sicuramente più pesante senza i Lince, mezzi pensati per resistere agli ordigni improvvisati (Ied) che vengono usati dalla “guerriglia” in imboscate. L’ultimo soldato a morire in quel Paese che – forse – non troverà mai la pace è Giuseppe La Rosa, 31 anni, capitano del Terzo Reggimento bersaglieri, caduto in un’imboscata a Farah mentre era di ritorno alla base a bordo di un Lince. Pochi invece sanno che il primo sangue italiano versato in Afghanistan precede di qualche anno la missione Isaf: il 22 agosto del 1998 il tenente colonnello Carmine Calò, 48 anni, unico militare italiano in missione a Kabul come osservatore della forza di pace dell’Onu, muore in seguito alle ferite riportate durante un attentato portato da un commando di talebani che attacca a colpi di pistola il minibus che stava guidando nel centro della capitale afghana. Cosa resta di quella missione? Quasi nulla: il ritorno in Patria dei nostri soldati è stato talmente in tono minore da essere passato praticamente inosservato. Sì, le nostre forze armate hanno accumulato anni di preziosa esperienza, è vero, ma il sacrificio di tutti gli uomini, dal colonnello Calò sino al capitano La Rosa, non ha permesso di sconfiggere i talebani né ha messo in sicurezza il Paese dal possibile ritorno del terrorismo islamico, ora paventato da tutti, anche dalla Russia. Missione fallita.

Afghanistan: il nuovo Vietnam americano. Piccole Note il 13 agosto 2021 su Il Giornale. I talebani stanno prendendo in fretta il controllo di tutte le città afghane, con l’obiettivo, non ancora dichiarato, di prendere Kabul. Notizie strazianti giungono dal Paese, nel quale le moltitudini fuggono di fronte all’avanzata delle milizie islamiche. Da registrare che l’informazione su quanto sta accedendo ha un tono drammatizzante, al contrario di altre guerre, come ad esempio quella in Yemen, dove i raid aerei dell’alleanza guidata dai sauditi, che pure da anni fanno strage di civili e bambini, non hanno guadagnato nemmeno un millesimo della copertura mediatica data alla guerra dei talebani. Ma non è sull’usuale miopia mediatica che vogliamo appuntare l’attenzione, quanto sulle notizie in sé. Al solito, è difficile districarsi nel bailamme dell’informazione, e spesso il bombardamento mediatico impedisce di porsi le domande più banali. In particolare sulla ferocia delle milizie in questione. Se ci si fa caso, i notiziari non riportano notizie di stragi di civili, né di massa né più limitati. Al massimo i media riportano notizie di matrimoni forzati, con i talebani che andrebbero nelle case a sposare a forza le donne. Pratica odiosa, ma che potrebbe essere anche frutto di propaganda, che usa di eventi reali dilatandoli oltremisura. A fare insospettire in tal senso la reiterazione automatica di tale notizia, che rimbalza sui media sempre uguale a se stessa, come accade per le news diffuse nella rete dai bot.

Non è una campagna in stile Isis. Ma al di là della veridicità della notizia, resta che è questa la pratica più feroce denunciata finora. Nessuna notizia, appunto, di stragi indiscriminate, pur se i morti ammazzati non mancano. Data l’enfatizzazione mediatica di cui sopra, vuol dire che semplicemente, almeno al momento, non avvengono eccidi. Cioè che le milizie islamiche, quando prendono il controllo di un’area, non infieriscono più di tanto sulla popolazione.

Non stiamo affermando che, arrivati in un posto, distribuiscano fiori, o che la guerra in corso sia cosa buona e giusta, che tutte le guerre hanno i loro orrori, ma che è una guerra come altre e soprattutto del tutto diversa da quella portata in Siria e Iraq dall’Isis e da al Nusra – milizie alle quali i talebani sono spesso associati -, le cui conquiste sono state disseminate di orrori indicibili. Quella alla quale stiamo assistendo è, con tutti i limiti del caso, una guerra di liberazione: dopo venti anni di occupazione americana, gli afghani si stanno riprendendo il loro Paese.

Certo, a condurla sono milizie islamiche, ma chi voleva combattere l’invasore non aveva altra scelta che loro. E tanti afghani comuni, che hanno vissuto la presenza Usa come una disgrazia, si sono intruppati in tal modo. Tra questi, di certo anche tanti che hanno visto i loro cari  sterminati dai droni made in Usa (“incidenti” che possono capitare, soprattutto se si sganciano dal cielo centinaia di migliaia di bombe, come da titolo della rivista del MIT: “La vita nel Paese più bombardato del mondo“). Peraltro, i ribelli non hanno l’esclusiva della ferocia, dato che a guidare l’esercito di Kabul è stato chiamato (se non su suggerimento Usa, di certo col loro placet) Rashid Dostum, già signore della guerra con un curriculum disseminato di crimini inenarrabili.

L’Afghanistan come il Vietnam. Sui media americani la guerra afghana trova spesso paralleli con quella del Vietnam, anch’essa terminata con il frettoloso ritiro delle truppe Usa. Tanto frettoloso che quando i marines si sono ritirati dallo strategico quanto simbolico aeroporto di Bagram, lo hanno fatto di notte, senza neanche avvertire gli afghani di stanza alla base. I media Usa si interrogano sulla disfatta, perché di questo si tratta, come ormai è chiaro a tutti. E sul fatto che tale esito era chiaro da tempo. Tanto che Ishaan Tharoor sul Washington Post spiega che i presidenti Usa lo sapevano già dal 2005-06. ma hanno deciso di far finta di niente. Esattamente quel che è accaduto con il Vietnam. Perché, come per il Vietnam, nessuno di loro voleva passare alla storia come il presidente che aveva perso una guerra, né, soprattutto, ha avuto il coraggio di sfidare a fondo i falchi, se non Trump e a fine mandato.

Biden ha avuto questo coraggio e si è ritirato, dando compimento all’impegno di Trump (e attirandosi l’odio di falchi, che stanno montando una campagna per restare nel Paese: l’enfatizzazione mediatica di cui sopra serve a questo).

Patti violati. Da chi? Certo, i patti erano che i talebani si accordassero con Kabul. Ma qualcuno ha rotto i patti, e forse non solo i talebani, dato che la campagna per contrastare la decisione presidenziale si è accompagnata con alcuni bombardamenti realizzati dai B-52, le cui bombe sono ancora meno intelligenti di altre (e probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di operazioni più oscure e segrete). Peraltro, l’accordo era davvero difficile. Se ci si mette nei panni dei talebani –  mutatis mutandis – era come se al termine della Seconda guerra mondiale si fosse chiesto a Parigi di accordarsi con Vichy. Così la parola resta alle armi, con l’esercito afghano, armato e addestrato dagli Usa, che si sta squagliando come neve al sole, pur se tre volte superiore al nemico. A decretarne il collasso le defezioni di massa, che indicano il tasso di adesione all’asserita “democrazia” afghana creata da Washington, ma che hanno anche evitato scontri più feroci. Biden per ora tiene il punto, potendo anche ostentare l’immane costo della guerra afghana (1.5 trilioni di dollari) a fronte di risultati così minimali. Ma la situazione è magmatica e in evoluzione: come per gli altri Paesi devastati dalle guerre infinite, la variabile caos da queste prodotte sfugge a previsioni e controlli.

Afghanistan: gli Usa non erano parte della soluzione, ma del problema. Piccole Note il 17 agosto 2021 su Il Giornale. Ahmad Massoud ucciso in un attentato il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle torri gemelle. Kabul cade, e gli Usa vivono un nuovo momento Saigon. I talebani controllano l’Afghanistan, avendo vinto la guerra iniziata nel 2001, la guerra più lunga intrapresa dall’America. Tanti giornalisti e politici che non saprebbero neanche indicare dove si trova l’Afghanistan sul mappamondo, esprimono il loro dolore per quanto sta avvenendo, allarmando sui pericoli di tale infausto sviluppo della storia, piangendo sulla sorte delle donne afghane e altro. Non siamo fan dei talebani, lo esplicitiamo perché il precedente articolo sul tema ha suscitato incomprensioni, nondimeno non siamo meravigliati di quanto sta avvenendo, sviluppi ovvi e che stridono con la meraviglia che promana da tante narrazioni. Meraviglia e allarme, come se il Paese fosse di colpo precipitato in un incubo, dimenticando che tale incubo è iniziato decenni fa, e ha maciullato migliaia di vite. Un incubo raccontato dalla storia, che chi scrive ha seguito da vicino, avendo dedicato all’Afghanistan il suo primo articolo di politica internazionale. Tutto inizia alla fine degli anni ’70 con l’invasione sovietica, chiamata dalle autorità del Paese a puntellare il loro vacillante potere. Uno dei tanti conflitti della Guerra Fredda, che assicurava a Mosca e Washington piena libertà nelle loro aree di influenza, secondo il principio della non interferenza reciproca. Ma a Washington, dove iniziava a prendere corpo la prospettiva di un Impero globale, vollero cambiare l’equazione di Yalta e decisero che la guerra afghana era un’occasione per porre grave criticità all’avversario. Fu così creata al Qaeda, come fu chiamato il database che serviva a gestire la legione straniera di islamici che la Cia, tramite Osama bin Laden, iniziò a reclutare in giro per il mondo arabo e a riversare in Afghanistan per combattere i sovietici. Una guerra costosa, che non poteva venire finanziata solo dai contribuenti americani. Fu così che, per pagare i mujaheddin si utilizzò il narcotraffico, e l’Afghanistan iniziò a essere disseminato di papaveri d’oppio. Alla ritirata delle truppe dell’Unione sovietica (primo indizio del suo crollo) incapaci di sostenere quel nuovo metodo di guerra, tanto caotico e sanguinario (i partigiani non facevano prigionieri…), seguì un periodo magmatico. La liberazione dall’invasore, piuttosto che portare pace, sprofondò il Paese in un caos ancora più profondo, con i vari signori della guerra, i più feroci capi dei mujihaiddin, a darsi battaglia per controllare città e regioni. L’Afghanistan divenne preda di una destabilizzazione permanente, con un’unica costante, la coltivazione dell’oppio: il Paese ne divenne il più importante esportatore del mondo (l’80% del totale). Più che probabile che i signori della guerra, ai quali serviva  vendere l’oppio per finanziarsi, si rivolgessero agli stessi acquirenti di prima e che uguali fossero i canali bancari sui quali passava questo denaro sporco. E si può intuire quali fossero…Ciò fino agli inizi degli anni ’90. Verso il ’93 apparvero d’improvviso i talebani. Ai confini tra Pakistan e Afghanistan iniziarono a spuntare come funghi madrasse che propagavano il verbo wahabita nella sua forma più integrale. Un’iniziativa nella quale l’Arabia Saudita profuse miliardi di dollari e sostenuta dall’Isi, il servizio segreto pakistano, due stretti alleati degli americani, che dunque non potevano non sapere quel che si ordiva. Così com’erano apparsi, i talebani iniziarono a prendersi il Paese, abbattendo uno a uno i vecchi signori della guerra. Un’onda in piena, irrefrenabile, un po’ come l’epifania dell’Isis in Iraq in tempi più recenti. Uno sviluppo guardato con apparente preoccupazione da Washington, allora guidata da Bill Clinton, ma che nascondeva una malcelata soddisfazione, con tanto di supporto al lavoro dei suoi più stretti alleati – allora il Pakistan era tale – con armi, addestramento e altro. Si stava creando il primo Califfato della storia moderna: un nucleo di integralismo islamico in Asia, dove tale forma di deriva islamista era ignota. Non solo a ridosso dei confini della Russia, ma anche delle repubbliche ex sovietiche come Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Turkmenistan etc, dove larga era la presenza islamica. Il verbo wahabita nella sua forma talebana avrebbe cioè potuto dilagare in queste repubbliche, bruciando i confini meridionali della Russia, con un incendio che l’avrebbe col tempo incenerita, dato che per sedarlo avrebbe consumato  le sue residue risorse, incenerendola. Senza indulgere in dietrologie, si può dire che se pure gli Usa non hanno creato i talebani, ne hanno di certo apprezzato la genesi e la loro rapida ascesa al potere. Ma un imprevisto fece saltare tale prospettiva. Un imprevisto di nome Ahamd Masud che, attestato nel Nord dell’Afghanistan, sbarrò la strada ai telebani per anni, impedendo loro di dilagare. Non solo Masud, i Paesi della regione, Russia, Cina e Iran su tutti, allarmati dalla follia che era stata creata nel cuore dell’Asia, iniziarono un’opera diplomatica volta a stemperare il pericolo, usando soldi per comprarsi la pace e la ragionevolezza delle tribù locali, che talebane erano di nome e non di fatto. Riuscì, tanto che i talebani, da forza rivoluzionaria, divennero un potere stanziale, limitandosi a gestire l’Afghanistan e a offrire al mondo il loro triste spettacolo di integralismo islamico. Su tutti il famoso quanto odioso burqua, variante rozza e locale del più elegante, ma non meno occultante, velo integrale, più o meno obbligatorio fino a poco tempo fa in altre nazioni dell’islam wahabita, e ancora molto diffuso, in particolare nella molto civile Arabia Saudita. Ciò fino al 2001, quando i talebani fecero due errori gravissimi. Ospitarono il vecchio amico della Cia Osama bin Laden ed eradicarono le coltivazioni d’oppio dal Paese. Che qualcosa di grave, anzi gravissimo, stesse avvenendo nel mondo fu chiaro quando, il 9 settembre del 2001  Masud rimase vittima di un attentato, perché il leone del Panshir, ignoto ai più, era un punto di equilibrio del mondo. Qualcosa si era rotto, nel profondo. Un giorno di trepidazione, poi il giorno dopo l’attentato, la notizia della sua morte confermò i nefasti auspici. E l’11 settembre, l’attentato alle Torri Gemelle. Osama Bin Laden fu indicato come la mente di tutto e si chiese ai talebani di consegnarlo. Dai talebani, divisi, vennero risposte alterne, un ufficioso quanto fantomatico diniego, ma nessuna risposta ufficiale. E il 7 ottobre la guerra iniziò. Serviva una guerra per placare l’opinione pubblica americana, o forse la si era semplicemente cercata, ché la conquista di un Paese era un obiettivo più facile e spettacolare di una sfuggente caccia all’uomo. Il mondo seguì gli Usa, sotto lo shock dell’11 settembre. La vittoria, disse George W. Bush, era obiettivo facile e, tra l’altro, avrebbe eradicato per sempre l’oppio afghano. Ma gli Usa non si limitarono a vincere, rimasero in loco con l’obiettivo di costruire un Paese libero e democratico ed eliminare per sempre la minaccia talebana dal Paese e, con loro, l’oppio. Non fu così. Il Paese, benché vi si svolgessero elezioni, fu preda di una cleptocrazia consegnata ai liberatori, con Karzai prima e Ghani dopo a fungere da presidenti fantoccio, che le cose importanti erano decise dagli Usa. Il Paese è rimasto fermo, bloccato per sempre al momento dell’ingresso degli americani, che negli anni hanno controllato Kabul e poco altro. D’altronde le montagne e le gole afghane avevano già inghiottito due imperi, quello britannico e quello sovietico, ed era destino inghiottisse il terzo. L’oppio non sparì, anzi tornò, e l’Afghanistan toccò produzioni record. Si potrebbe pensare che lo usavano i talebani per finanziarsi, ma le foto dei marines a guardia dei papaveri dicevano altro. La sua vendita serviva a finanziare il Terrore internazionale, al Qaeda prima e l’Isis dopo, palese contraddizione dell’antiterrorismo militante. L’occupazione Usa aveva anche suscitato speranze, ma presto il malcontento iniziò a dilagare. Le bombe l’hanno accompagnata in maniera costante, anche grazie a un’innovazione sperimentata qui per la prima volta in forma massiva: i droni. Da remoto, gli addetti a questi nuovi strumenti di guerra, iniziarono una campagna alzo zero. Dal cielo, iniziarono a far strage: ai matrimoni, ai funerali, nei mercati. Così alle incursioni e agli attentati telabani facevano pendant gli eccidi di civili – danni collaterali- made in Usa, in un botta e risposta nel quale era difficile distinguere torti e ragioni. Uno strazio senza fine, che offriva nuove leve ai talebani e manovalanza al Terrore internazionale, come ben sanno Siria e Libia, dove i regime-change made in Usa conobbero l’apporto di tali sanguinarie milizie. Un caos nel quale provò a insinuarsi anche l’Isis, che aveva come obiettivo i civili e i talebani stessi, ai quali volevano sostituirsi, ma trovò un argine proprio nei talebani. La lunga e odiosa occupazione Usa offrì ai talebani una nuova occasione, potendosi presentare alla popolazione stremata come unica opposizione all’invasore, che si era presentato come liberatore, ma aveva fatto dell’Afghanistan il Paese più bombardato del mondo, come registrava la rivista del Mit. Tutto questo orrore non ha mai suscitato la minima parte delle reazioni sdegnate che si levano adesso, ora che l’America ha capito che era tempo di ritirarsi. Gli Usa si sono ritirati e i talebani hanno preso il loro posto, come era logico accadesse, ché la geopolitica non conosce vuoti. In Vietnam a prendere le redini del Paese furono i comunisti che mangiavano i bambini, qui i talebani che fanno lo stesso. A muoversi è la mano potente della storia. Due considerazioni: la prima è che, come avvenuto per Siria e Libia, anche l’Afghanistan è rimasto incenerito dalle guerre infinite. La seconda è che la strategia di cambiare i Paesi a suon di bombe non funziona. Serviva la Politica, la diplomazia, e serviva un accordo con i Paesi confinanti, Cina, Russia, Iran, Pakistan, India su tutti, per trovare una via di uscita dal caos creato in trent’anni dagli errori e orrori degli Usa. Ma il contrasto con Teheran, Mosca e Pechino era troppo forte. E gli Stati Uniti sono andati via così come sono entrati, come ladri nella notte. Il punto è che non avevano molte alternative: non potevano più sostenere un’occupazione che finora è costata 2.5 trilioni di dollari la cui unica prospettiva era la destabilizzazione permanente del Paese. Ora limitarsi a urlare che i talebani mangiano i bambini è del tutto inutile, anche perché nessuno a breve si ripeterà in un intervento militare. Occorre evitare che i talebani, che hanno preso il Paese quasi senza colpo ferire, cosa che pure va registrata, prendano derive pericolose, che li portino a incrudelire sulla popolazione o a riprendere la loro spinta propulsiva, facendo dilagare l’integralismo islamico oltre confine. A porre un argine a tali prospettive dovrebbero essere chiamate le vittime di questa tragedia. Gli afghani che non si riconoscono nel loro integralismo e le nazioni asiatiche, le uniche che potrebbero risolvere questo rebus impazzito. E ciò perché gli Usa, anche volendo accreditare loro una buona volontà, non sono mai stati parte della soluzione, ma del problema.

L'eccezionalismo americano è diventato un'arma. Eleonora Piergallini su Piccole Note il 21 agosto 2021 su Il Giornale. “Mentre ci avviciniamo al 20° anniversario degli attacchi dell’11 settembre, vale la pena chiedersi cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero agito in modo radicale e fantasioso, evitando il sopravvento imperiale. E se invece di lanciare una Guerra al Terrore, il più grande disastro strategico nella storia moderna degli Stati Uniti, i leader statunitensi avessero usato l’11 settembre come catalizzatore per creare un mondo più tollerante, pacifico e prospero, l’antitesi di al-Qaeda?”. Così scrive Fawaz A. Gerges, professore di relazioni Internazionali alla London School of Economics sul Washington Post di due giorni fa. L’Afghanistan inaugurò la stagione della guerra al Terrore, diventata guerra infinita con l’attacco all’Iraq, perché Saddam non era un terrorista, ma un despota (peraltro in ottimi rapporti con la Cia), una declinazione che aggiungeva alla guerra imperiale una prospettiva temporale inquietante. La guerra afghana, scrive Georges, lungi dall’aver annientato o indebolito i gruppi terroristici islamici, ha creato all’opposto un terreno fertile perché proliferassero. Non solo, dichiarando guerra ad un intero paese islamico, gli Stati Uniti hanno creato i presupposti per la Jihad, la guerra santa contro gli infedeli, e hanno aiutato al- Qaeda a uscire dalla profonda crisi che affliggeva il gruppo terroristico verso la fine degli anni ’90. La guerra afghana e le altre imprese di questi anni hanno dato armi e milizie al Terrore, basti pensare che i membri di al- Qaeda, poche migliaia nel 2001, contano oggi tra i 100 mila e i 230 mila combattenti in tutto il mondo. “l”industria del terrorismo‘ nata sulla scia degli attacchi” dell’11 settembre, spiega Gerges ha “fatto dilagare la paura e distorto la realtà”., dissipando quel tesoro accumulato grazie alla solidarietà internazionale che, dopo gli attentati, aveva stretto tutto il mondo attorno agli Usa. Un flusso di solidarietà al quale si era unito anche l’Iran, nonostante decenni di embargo, e quel messaggio di partecipato dolore è stato “il primo contatto ufficiale diretto tra i due paesi dalla rivoluzione iraniana del 1979”. Invece di rispondere a quegli attacchi partendo da quella unanime solidarietà, scrive Georges, gli Stati Uniti hanno scelto la guerra, “sprecando l’opportunità di lavorare insieme ad altre nazioni”, anche e soprattutto quelle musulmane, “per rimediare ai danni delle politiche della Guerra Fredda che hanno contribuito a far emergere di al-Qaeda” (il riferimento puntuale è al supporto Usa ai mujaheddin afghani che lottavano contro l’invasore sovietico, che pose le basi per la creazione al Qaeda). Continua Gerges: “In qualità di nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo. Questa è stata la ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e altrove. I leader statunitensi, in politica estera, devono liberarsi dell’impulso da crociati e dal complesso di superiorità morale che ha fatto più male che bene alla nazione. Invece, dovrebbero riconoscere i limiti insiti nell’imbracciare le armi e mostrare umiltà, prudenza e rispetto per le altre culture”. “Tragicamente, l’idea dell’eccezionalismo americano è stata trasformata in un’arma, trasformando così gli Stati Uniti in un impero al collasso. Iraq e Afghanistan sono solo gli ultimi esempi di questa hubrys”. “[…] Invece di cercare di provare a rendere altri paesi a immagine degli Stati Uniti, Washington, insieme alla comunità internazionale, dovrebbe investire nella ricostruzione degli Stati falliti, nell’eliminazione della povertà assoluta e nella lotta all’estremismo. I leader statunitensi devono anche colmare il divario esistente tra la loro rosea retorica sui diritti umani e la democrazia e le loro azioni, che sono viste come ciniche ed egoistiche in molte parti del mondo”. “[…] Il presidente Biden e il suo team insistono sul fatto che la politica estera degli Stati Uniti dovrebbe riflettere gli interessi e le preoccupazioni della classe media – Conclude Georges – Ma c’è un compito più urgente, che è quello di democratizzare la politica estera degli Stati Uniti e renderla più inclusiva, anziché essere dominata da un’élite ristretta e omogenea, che, più e più volte, ha coinvolto la nazione in avventure militari in terre lontane”. . “Lo dobbiamo ai quasi 3.000 americani uccisi l’11 settembre, come anche ai molti soldati statunitensi e ai tanti civili, iracheni e afgani, morti in guerre che non avrebbero dovuto essere combattute”.

Fawaz A. Gerges per "washingtonpost.com" il 21 agosto 2021. Mentre gli Stati Uniti terminano bruscamente la loro guerra in Afghanistan, i talebani sono tornati per vendicarsi. Molti afghani si sentono traditi. L'America ha promesso sicurezza e libertà, ma gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno abbandonato il popolo afghano, lasciandolo in balia di un movimento brutale e repressivo. Questo poteva essere evitato. Mentre ci avviciniamo al 20° anniversario degli attacchi dell'11 settembre, vale la pena chiedersi cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero agito in modo diverso. E se invece di lanciare una Guerra al Terrore, il più grande disastro strategico nella storia moderna degli Stati Uniti, i leader statunitensi avessero usato l'11 settembre come catalizzatore per creare un mondo più tollerante, pacifico e prospero, l'antitesi della visione del mondo di al-Qaeda? Questo non era né uno scenario inverosimile né un pio desiderio. Prima che la polvere si posasse sulle scena del disastro negli Stati Uniti, c'è stata un'ondata di simpatia e solidarietà con gli americani da parte di tutto il mondo, compreso il mondo arabo e musulmano. La comunità internazionale si è schierata con gli Stati Uniti. Il 13 settembre 2001, un editoriale in prima pagina del quotidiano francese “Le Monde” fece eco a un sentimento diffuso in Europa, e non solo, e quel giorno titolò: “Siamo tutti americani”. Anche in Iran, che aveva sofferto sotto un assedio economico guidato dagli americani per quasi due decenni, i leader hanno inviato le proprie condoglianze alle loro controparti americane, il primo contatto ufficiale diretto tra i due paesi dalla rivoluzione iraniana del 1979. Invece di costruire su questa basi di solidarietà, tuttavia, gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra totale di due decenni contro nemici sia reali che immaginari. In tal modo, ha sprecato un'opportunità storica di lavorare insieme ad altre nazioni per riparare ai danni delle sue politiche della Guerra Fredda, che hanno contribuito all'emergere di al-Qaeda. E se gli Stati Uniti avessero preso di mira solo al-Qaeda, invece di invadere l'Afghanistan e l'Iraq, costruendo una vera coalizione internazionale che includesse arabi e musulmani? Se gli Stati Uniti lo avessero fatto, avrebbero potuto negare ai militanti islamisti l'ossigeno sociale o il sostegno popolare che avevano dato loro una nuova prospettiva di vita dopo l'11 settembre. In un memorandum del 1999 ai suoi luogotenenti in Yemen, portato alla luce in seguito dall'esercito americano e citato nel mio libro "The Far Enemy: Why Jihad Went Global", Ayman al-Zawahiri, che ora è il capo di al-Qaeda, ha cercato di convincere il gruppo che attaccare gli Stati Uniti era l'unico modo per resuscitare un movimento militante islamista morente (alla fine degli anni '90, i militanti islamisti erano sull'orlo della sconfitta in Egitto, Algeria e altrove). Zawahiri ha scritto che se la patria americana fosse stata attaccata, gli Stati Uniti si sarebbero scagliati con rabbia non solo contro i militanti islamisti, ma anche contro le nazioni musulmane. Ciò avrebbe consentito ai militanti islamisti di dipingersi come difensori della comunità musulmana, e guadagnare più seguaci. La strategia di Zawahiri ha funzionato. Al culmine della sua abilità nel 2001, i membri di al-Qaeda non superavano i 1.000-2.000 combattenti. A vent'anni dall'inizio della Guerra al Terrore, ci sono approssimativamente tra 100.000 e 230.000 militanti islamisti attivi indozzine di paesi in tutto il mondo. La Guerra al Terrore ha alimentato proprio i gruppi che doveva distruggere. Sulla scia dell'atrocità di massa dell'11 settembre, è comprensibile che la priorità sarebbe stata la punizione, ma se fossero stati un po' più acuti e lungimiranti, i leader degli Stati Uniti avrebbero potuto non solo vendicare le vittime e assicurare alla giustizia al-Qaeda, ma anche cambiare radicalmente la natura dei rapporti del Paese con il mondo arabo e musulmano. I leader degli Stati Uniti avrebbero potuto riconoscere i costi di sostenere continuamente i dittatori e assumere un impegno strategico per la promozione della democrazia, non attraverso la canna di una pistola, ma collaborando con la società civile locale e la comunità internazionale. Gli Stati Uniti avrebbero potuto usare il loro potere per aiutare a risolvere i conflitti regionali e le guerre civili, ricostruire le istituzioni e investire nell'istruzione e nel lavoro, i mattoni della democrazia. La Guerra al Terrore è stata una guerra per scelta, non per necessità, ed è stata costosa in termini di sangue e denaro. Anche se non possiamo tornare indietro nel tempo, mentre ci avviciniamo al 20° anniversario dell'11 settembre, parte del dibattito negli Stati Uniti dovrebbe essere concentrato su cosa è andato storto. Essendo la nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo. Questa è stata una ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e oltre. I leader degli Stati Uniti devono liberarsi di un impulso crociato e di un complesso di superiorità morale negli affari internazionali che ha fatto più male che bene alla nazione. Dovrebbero invece riconoscere i limiti del potere duro e mostrare umiltà, prudenza e rispetto per le altre culture. Tragicamente, l'idea dell'eccezionalismo americano è stata trasformata in un'arma, trasformando così gli Stati Uniti in un impero per impostazione predefinita. Iraq e Afghanistan sono solo gli ultimi esempi di questa arroganza. Invece di cercare di fare di altri paesi l'immagine degli Stati Uniti, gli Stati Uniti, insieme alla comunità internazionale, dovrebbero investire nella ricostruzione delle istituzioni fallite all'estero, nell'eliminazione della povertà assoluta e nella lotta all'estremismo. I leader degli Stati Uniti devono anche colmare il divario tra la loro rosea retorica sui diritti umani e la democrazia e le loro azioni, che sono viste come ciniche ed egoistiche in molte parti del mondo. Il presidente Biden e il suo team insistono sul fatto che la politica estera degli Stati Uniti dovrebbe riflettere gli interessi e le preoccupazioni della classe media. Ma c'è un compito più urgente, che è quello di democratizzare la politica estera degli Stati Uniti e renderla più inclusiva, anziché essere dominata da un'élite ristretta e omogenea, che, più e più volte, ha coinvolto la nazione in avventure militari in terre lontane.  Lo dobbiamo ai quasi 3.000 americani uccisi l'11 settembre, e lo dobbiamo ai molti soldati statunitensi, civili iracheni e afgani, morti in guerre che non avrebbero dovuto essere combattute.

La presa del Potere dei Talebani.

Talebani inarrestabili. Trappola Afghanistan il Vietnam di Biden. Gian Micalessin il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. Errori strategici e fretta di firmare l'intesa zoppa di Trump: la ritirata piena di pericoli. La trappola afghana, la stessa in cui tra il 19mo e il ventesimo secolo finirono avviluppati l'impero inglese e quello sovietico, sta per divorare anche Joe Biden e la sua amministrazione. E più il presidente cerca di allontanarsene più sembra restarne invischiato. Persino l'ultima sua uscita, ovvero la promessa di mettere una pezza al frettoloso addio a Kabul inviando stormi di B-52 ad arginare l'avanzata talebana, rischia di rivelarsi l'ennesima dimostrazione d'inadeguatezza. I B-52, le fortezze volanti capaci di scaricare 30mila chili di bombe a oltre 8mila chilometri di distanza, simboleggiano sicuramente la potenza degli Usa. Dall'altra parte, però, richiamano alla memoria l'amara sconfitta del Vietnam dove, analogamente a quanto potrebbe succedere nei prossimi mesi (o settimane) in Afghanistan, i B-52 non bastarono a bloccare la marcia dei vietcong. Ma l'illusorio ricorso alle «fortezze volanti» promesso poche ore prima della caduta di Aibak - sesto capoluogo provinciale conquistato dai talebani dopo la presa di Kunduz Taloqan Sheberrghan Zaranj e Sar -e-Pul - è soltanto l'ultima delle assai avventate e sconsiderate mosse inanellate dal Presidente democratico. L'inizio di tutto è stata la precipitosa sottoscrizione dell'avvelenato negoziato sull'Afghanistan ricevuto in eredità da Donald Trump. Un negoziato condizionato dalla fretta di un presidente uscente convinto che l'addio alla guerra più lunga della storia americana gli avrebbe regalato la rielezione. Un negoziato durante il quale gli Usa si sono ben guardati dall'imporre una trattativa tra gli alleati di Kabul e il movimento talebano come avrebbe fatto qualsiasi potenza occupante chiamata a gestire un'ordinata transizione. Al contrario il governo di Kabul - eletto in base ai principi democratici imposti dagli Usa dopo la sconfitta talebana del 2011 - è stato trattato alla stregua di un'inutile zavorra ed estromesso dai negoziati. A gestire le intese con i talebani è stato mandato Zalmay Khalilzad, l'inviato di origini afghane già ambasciatore a Kabul e Baghdad. Lo stesso Khalilzad che nel 1997, alla vigilia degli attentati di Al Qaida alle ambasciate Usa in Africa, teorizzava l'opportunità di un'intesa con il mullah Omar per garantire il passaggio dall'Afghanistan del gasdotto progettato, al tempo, dalla multinazionale americana Unocal. E a rendere il tutto più svantaggioso per Washington e Kabul s'è aggiunta la scelta d'accettare come mediatore quell'Emirato del Qatar che - pur garantendo agli Usa le principali basi utilizzate in Medio Oriente - è stato sospettato, nei decenni, di appoggiare prima Al Qaida e i talebani in Afghanistan e poi lo Stato Islamico in Siria e Irak. Ma tutti questi drammatici peccati originali sono sembrati bazzecole agli occhi di un Biden convinto che l'uscita dall'Afghanistan imbastita dal suo predecessore restasse, in fondo, un'ottima opportunità per conquistar consensi anche tra quella destra repubblicana più allergica agli interventi esterni. E non pago di sottoscrivere il lacunoso progetto trumpiano Biden ha confermato nella sua carica anche l'inviato per l'Afghanistan Zalmay Khalizad. E così, a soli 20 giorni dalla prevista conclusione del ritiro americano ecco servito il disastro afghano. Mentre l'America ha già ritirato la sua flotta aerea, abbandonato la base di Baghram, centro nevralgico di ogni operazione anti talebani, e si ritrova con appena 700 uomini ancora sul terreno, ecco prendere corpo il grande inganno intessuto dai talebani con l'appoggio del Qatar e la benedizione di un Khalizad convinto, oggi come trent'anni fa, che i nipotini del Mullah Omar siano interlocutori affidabili. La promessa talebana, messa nero su bianco durante i negoziati di Doha, di attendere il ritiro americano, avviare negoziati diretti con Kabul e astenersi dal prendere di mira i capoluoghi principali è già carta straccia. E dietro le quinte prende corpo una prospettiva ancor peggiore per l'amministrazione Biden. Quella che nel ventesimo anniversario dell'11 settembre non si celebri la fine della più lunga guerra americana, ma la rievocazione di un nuovo, e assai amaro, Vietnam.

Ecco cosa può succedere in Afghanistan dopo l’avanzata dei Talebani. Mauro Indelicato su Inside Over il 25 luglio 2021. I Talebani stanno tornando alla guida di buona parte dell’Afghanistan. Questo è oramai un dato assodato. Ma l’espressione è forse fin troppo semplicistica. In primo luogo perché i Talebani non se n’erano mai andati. In secondo luogo perché la situazione che si sta venendo a creare nel Paese è profondamente diversa da quella del 2001, anno della loro cacciata da Kabul per opera delle milizie aiutate dagli Stati Uniti. Questa volta il movimento islamista sta avanzando anche a nord, in zone cioè mai controllate dai seguaci del Mullah Omar nemmeno quando erano al potere. Più di qualcosa in Afghanistan sta cambiando sotto gli occhi degli ultimi soldati stranieri rimasti. E il futuro per la regione naviga tra mille incognite.

Quali sono le roccaforti talebane. Per comprendere le dinamiche talebane, occorre sempre partire da un presupposto: il movimento nasce all’interno dei membri dell’etnia Pasthun, quella più diffusa in Afghanistan e che negli scorsi secoli ha permeato il concetto stesso di identità nazionale afghana. I Talebani dunque hanno le loro principali basi nelle province abitate dai Pasthun. Queste corrispondono grossomodo al sud del Paese, così come a buona parte dell’est e del sud ovest. Kandahar, seconda città afghana e punto di riferimento delle province meridionali, non a caso è stata per anni la roccaforte del Mullah Omar che qui aveva installato il suo quartier generale. Ci sono lande del sud in cui le forze dello Stato afghano insediatosi dopo l’intervento Usa non hanno mai messo piede. Si credeva però che il controllo talebano sarebbe rimasto confinato solo alle zone rurali. La stessa Kandahar nel 2002 è stata tolta al movimento islamista e, almeno sulla carta, per anni è rimasta nelle mani del governo centrale. Da qualche mese a questa parte i Talebani stanno avanzando anche nei centri abitati delle province meridionali. I Pasthun danno loro appoggio e non soltanto per motivi ideologici. Per molti appartenenti a questa etnia il movimento è l’unica garanzia di sicurezza ed è l’unico gruppo in grado di portare avanti le loro istanze. Il sostegno di cui godono i talebani non è quindi dettato soltanto dalla visione islamista ma anche da un latente “nazionalismo Pasthun” sempre vivo nel sud dell’Afghanistan. Nelle zone al confine con il Pakistan e nelle province di Kandahar, Ghazni ed Helmand negli ultimi giorni sono stati registrati episodi in cui gli stessi soldati dell’esercito centrale hanno evitato di combattere. In alcuni casi hanno semplicemente preferito togliersi la divisa, in altri hanno apertamente appoggiato i Talebani. Le grandi città della zona però non sono al momento cadute. Il governo sta provando a trattenerle, contando sulle maggiori possibilità di difesa dei centri urbani. Ma sia Kandahar che Ghazni sono comunque circondate con i membri del movimento islamista alle loro porte.

La non prevista avanzata a nord. Quando gli americani lo scorso anno hanno deciso di andarsene e di iniziare le operazioni di ritiro dall’Afghanistan, le quali dovrebbero concludersi entro l’11 settembre 2021, erano ben consapevoli di lasciare terreno fertile ai Talebani nelle zone meridionali. Non avevano però forse messo in conto l’avanzata degli islamisti a nord. Qui i seguaci del Mullah Omar non hanno mai goduto di appoggi popolari. Tranne che a Kunduz, enclave Pasthun in un territorio composto essenzialmente da tagiki e uzbeki. Washington nel 2001 per cacciare i Talebani da Kabul ha dato manforte ai miliziani della cosiddetta Alleanza del Nord. Il nome non era affatto casuale. Si trattava di un gruppo composto proprio da tagiki e uzbeki che controllava le estremità settentrionali del Paese. Quando si fa riferimento al nord dell’Afghanistan dunque si pensa ai territori più ostili ai Talebani. Eppure anche da queste parti l’esercito centrale ha ceduto le armi senza quasi combattere. Gli islamisti il 22 giugno hanno conquistato Shir Khan Bandar, strategica località di frontiera con il Tagikistan. Nelle ultime settimane il controllo talebano si è esteso anche nella provincia del Badakhshan, uno dei fortini del generale Mossoud, tagiko e oppositore del movimento fino alla sua uccisione avvenuta il 9 settembre 2001. Tutti i Paesi confinanti hanno messo i rispettivi eserciti in stato di allerta. Il governo tagiko ha inviato rinforzi in prossimità delle frontiere. Anche da Mosca si seguono con preoccupazione gli ultimi eventi: “Le province settentrionali, un tempo relativamente calme, si stanno rapidamente trasformando in un altro hotspot – ha dichiarato nei giorni scorsi il vice ministro della Difesa russo, Andrey Rudenko – I Talebani controllano quasi completamente il confine con il Tagikistan”. Se da un lato è facile intuire i motivi che hanno portato all’avanzata talebana a nord, riconducibili al ritiro delle forze internazionali, è difficile prevedere cosa accadrà da queste parti in futuro. Se cioè il movimento Pasthun riuscirà o meno a mantenere la presa di zone abitate da altre etnie. Nelle prossime settimane potrebbero scoppiare violenti scontri per il controllo di città importanti quali la stessa Kunduz e Mazar i Sharif, così come il conflitto potrebbe arrivare anche ad Herat, da poco lasciata dagli italiani e feudo storico dell’etnia tagika.

Le due possibili enclavi: Kabul e la zona Hazara. Difficile quindi la ricomposizione dello stesso quadro pre 2001. Questa volta i Talebani potrebbero infatti controllare territori un tempo bastioni dei gruppi a loro contrapposti. La loro avanzata però potrebbe essere bloccata in due specifiche zone: nella capitale Kabul e nelle province a maggioranza Hazara. La città più grande dell’Afghanistan è l’unica dove il governo può vantare un vero controllo. Qui sono inoltre presenti le rappresentanze internazionali e si parla di presidi armati stranieri per la difesa dell’aeroporto. I turchi, stando a quanto dichiarato da Erdogan negli ultimi giorni, sono pronti a mettere le mani sullo scalo di Kabul. Di diversa lettura invece la situazione nel centro dell’Afghanistan, abitato storicamente dai membri dell’etnia Hazara. Si tratta di una minoranza sciita, considerata eretica dai Talebani. Gli Hazara ricordano bene le persecuzioni attuate dai fondamentalisti e sono al momento gli unici ad appoggiare realmente le forze governative. Se si guarda una mappa sulla situazione militare in Afghanistan, le loro province risultano fuori dal controllo talebano. I movimenti Hazara daranno filo da torcere ai seguaci del Mullah Omar. E forse insieme a Kabul costituiranno una delle poche enclavi non insidiate dai Talebani. Almeno per il momento. L’impressione è che agli stessi islamisti non interessi il controllo totale dell’Afghanistan, ma al contrario avere in mano delle carte sempre più pesanti da giocare in sede di trattative. 

I talebani stringono d'assedio Kandahar. Decapitato un interprete: "Spia degli Usa". Fausto Biloslavo il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Sotto il loro controllo metà dei distretti del Paese, Kabul quasi isolata. "Quando i proiettili dei talebani hanno cominciato a fischiare vicino a casa ho deciso di scappare verso Kabul. Kandahar è sotto attacco e se mi prendono mi ammazzano. Ho paura per mio figlio di 5 mesi e mia moglie. Solo l’Italia può salvarci", racconta Alì H., uno degli interpreti che ha lavorato per il nostro contingente e spera di venire evacuato nel nostro Paese. Prima di fuggire, pochi giorni fa, mandava messaggi drammatici sui talebani che stanno avanzando nella periferia della seconda città del Paese. Kandahar è la “capitale” spirituale degli studenti guerrieri e del sud del paese a maggioranza pasthun. Il Mullah Omar, quando i suoi uomini controllavano il 90% del Paese nel 1996, si era insediato nell’ex palazzo del re. E proprio a Kandahar aveva ospitato in un compound trasformato in fortino Osama bin Laden. Non è un caso che i talebani stanno concentrando uomini attorno alla città e hanno già cominciato ad attaccare da sud, ovest e nord verso la zona dello stadio e piazza Shaheedin. Negli ultimi due giorni gli americani hanno riesumato i radi aerei colpendo soprattutto attorno a Kandahar per distruggere l’artiglieria catturata all’esercito afghano e utilizzata dagli studenti guerrieri per aprirsi un varco. Dall’inizio dell’offensiva sulla città sarebbero già stati lanciati 20 attacchi suicidi. Negli ultimi tre mesi sono caduti quattro distretti strategici attorno a Kandahar: Arghandab, Dand, Shah Wali Kot e Zhari. Dalla provincia di Farah, un tempo controllata dai soldati italiani, gli insorti hanno superato il fiume penetrando in periferia. “Sono arrivati a casa mia travolgendo l’ultimo posto di blocco governativo a 200 metri", racconta Alì riparato a Kabul. L’obiettivo dei talebani è tagliare la strada principale per la capitale e quella verso l’aeroporto ancora in mano governativa. Nell’area dovevano esserci 5mila uomini delle forze di sicurezza afghane ma, quando è caduto Spin Boldak, il posto di frontiera con il Pakistan, che ha aperto la strada ai talebani verso Kandahar, solo un migliaio erano in linea pronti al combattimento. Secondo una fonte internazionale del Giornale gran parte delle truppe esistevano solo sulla carta per i salari pagati, ma non come reali effettivi. I 600mila abitanti di Kandahar sono in fuga o chiusi in casa per timore dei combattimenti. Il ministero della Difesa di Kabul ha reagito alla propaganda talebana che sostiene di controllare il 90% delle frontiere afghane e tre quarti del Paese. “Non è vero. La maggior parte del territorio è in mani governative e stiamo riconquistando aree perdute” sostiene il portavoce Fawad Aman. La situazione, però, rimane critica. Lo stesso capo degli Stati maggiori riuniti Usa, il generale Mark Milley, ammette che i talebani hanno colto “un momentum strategico controllando metà dei distretti del Paese”, ovvero 219 su 421. Nella provincia di Kandahar occupano 13 distretti su 16 e se i governativi controllano tutte le grandi città ben 16 capoluoghi provinciali su 34 sono sotto attacco. Oltre a Kandahar anche centri come Ghazni e Kunduz potrebbero venire occupati nelle prossime settimane. Pure la capitale, Kabul, rischia di venire isolata e 18 province potrebbero cadere del tutto nelle mani degli insorti. Ieri la Cnn ha rivelato l’orribile fine di Suhail Pardis, un interprete di 33 anni, minacciato via telefono: “Sei una spia degli americani, un infedele, la pagherai”. Il 12 maggio è stato fermato ad un posto di blocco degli insorti sulla strada per Khost dove voleva raggiungere la sorella. Nel disperato tentativo di fuggire l’automobile è stata crivellata di proiettili finendo fuori strada. I talebani lo hanno tirato fuori ancora vivo scoprendo che era un traduttore degli americani. Anche in altri casi sembra che usino l’avanzata attrezzatura di riconoscimento biometrico e delle impronte digitali sequestrato nelle razzie di basi afghane e Nato. I talebani lo hanno decapitato senza pietà. Gli americani stanno preparando il trasferimento di 35mila collaboratori afghani e familiari verso due basi in Kuwait e Qatar per controllarli e poi portarli in salvo negli Usa. L’Italia deve ancora evacuare 390 afghani fra collaboratori, interpreti e familiari dopo i primi 228 arrivati in Italia con l’operazione Aquila. E ci sono ulteriori 300 richieste di aiuto compresa quella di Alì, fuggito da Kandahar.

Afghanistan, viaggio a Kandahar: nella culla del movimento, dove l’80% appoggia i talebani. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2021. KANDAHAR «Con i talebani ha vinto l’Islam, quello vero dei pashtun. Chiedete, chiedete pure alla nostra gente qui per le strade. Troverete che oltre l’80% è soddisfatta della situazione». S’illumina d’un sorriso sincero il volto barbuto di Jamalhuddin Dost, cartolaio 45enne la cui bottega s’affaccia sulla Ghazi Amanullah Khan, la via principale di Kandahar, quella che da Piazza dei Martiri (difficile non trovarne una con questo nome nelle città della regione) imbocca il deserto che porta verso Herat. I suoi ragionamenti sono semplici, primitivi, ma non è difficile capire che nella città-culla dei talebani hanno presa immediata. «Non avevo neppure 14 anni nel 1994, quando il Mullah Omar fondò il movimento dei talib, gli studenti reclutati nelle scuole coraniche. Frequentavo la madrassa (scuola religiosa) Imam Abu Hanifah. Molti ragazzi più grandi lasciarono lo studio del Corano per prendere il fucile e unirsi alla nostra guerra di liberazione. Il Mullah Omar predicava nelle nostre classi. E in quelle della madrassa vicina, la Hashrafia. I miei genitori non mi lasciarono partire. Il Kalashnikov imparai ad utilizzarlo più tardi. Ma ovvio che i talebani erano e sono popolarissimi, allora come oggi. Anche se adesso sono cambiati. Però, occorre dare loro tempo. Devono imparare a governare. Tra sei mesi anche in Occidente capirete che sono diversi da quelli degli anni Novanta». Fuori fa caldo, un’afa molto più oppressiva che non a Kabul. Il traffico è scorrevole. Non ci sono posti di blocco. Quasi non si vedono pattuglie armate. In centro troviamo pochi segni della battaglia del 13 agosto, quando le forze di sicurezza dell’ex governo Ghani si arresero in massa. «Qui i talebani sono di casa. Lo sono sempre stati, anche in presenza del fior fiore delle truppe americane e britanniche. Le donne non si sono mai tolte il burqa e certo non nei villaggi pashtun della regione. Oggi sono tranquilli. A Kandahar godono del monopolio assoluto del potere, non hanno bisogno di pattuglie», spiega nel suo panificio il 26enne Mohammad Haider. In questa città, dove tre secoli fa proprio le dinastie pashtun locali inventarono l’Afghanistan moderno, siamo arrivati ieri a metà giornata con un velivolo di linea Ariana, l’unica compagnia nazionale che ha ripreso quotidianamente le tre tratte interne principali dalla capitale per Herat, Mazar-i-Sharif e Kandahar. Sul volo c’era il nuovo presidente talebano della banca centrale. Dietro di lui, in business class, anche Wakil Ahmed Muttawakil, il ministro degli Esteri del primo governo talebano, che nel 1999 aveva lanciato un appello forte al mondo: «Se non ci riconoscete, tra noi vinceranno le correnti estremiste favorevoli ad Al Qaeda e sarà peggio per tutti». Non fu ascoltato. Pochi mesi dopo venivano fatti saltare in aria i Buddha di Bamiyan, seguirono gli attentati dell’11 settembre 2001 e tutto il resto. Sono tutti esponenti delle correnti legate al Mullah Abdul Ghani Baradar, il vicepremier pragmatico che solo tre settimane fa aveva parlato della necessità di un «governo inclusivo» per garantire la pacificazione. Pare abbia perso, il nuovo gabinetto riflette le posizioni intransigenti del clan Haqqani. Addirittura, sui social rimbalzano messaggi che danno Baradar per morto o ferito grave in un diverbio con gli avversari politici. I talebani di Kandahar fanno muro, sono nazionalisti, si preoccupano di rimettere in moto il sistema Paese, non apprezzano affatto i fanatici pan-islamici. «Isis qui non osa farsi vedere, verrebbe distrutto», dicono. Però fanno del loro meglio per occultare gli scontri interni. «Sia ben chiaro che Baradar sta benissimo. Siete voi giornalisti occidentali a esagerare le diatribe tra i nostri leader», reagisce Hafez-Nurahmad Said, portavoce della municipalità. A suo dire, i problemi ora sono altri. «Dobbiamo nutrire una popolazione impoverita e affamata. La mancanza di piogge e il riscaldamento climatico hanno prosciugato il bacino della diga di Kajakai, che forniva energia elettrica al sud del Paese. Necessitiamo di 38.000 litri di gasolio al giorno per fare funzionare i generatori pubblici». Le sue parole sono confermate dall’Onu, che mette in allarme sulla crisi umanitaria. L’Unicef parla di oltre un milione di bambini a rischio di vita per malnutrizione. Degli oltre 600.000 sfollati interni circa metà hanno meno di 16 anni. E molti minorenni vengono reclutati per combattere, spesso dai talebani.

Il terrore talebano dilaga. Coprifuoco in Afghanistan. E gli interpreti: "Salvateci". Fausto Biloslavo il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Violenze e soprusi. Nuovo appello all'Italia. Biden adesso stanzia 100 milioni per i profughi. «Siamo terrorizzati, come il resto della popolazione. Se il governo italiano non accelera l'evacuazione di noi interpreti rimasti in Afghanistan, i talebani potrebbero entrare a Herat e il nostro destino sarebbe terribile». Il disperato appello arriva da Mohammad Ali Safdari, «portavoce» di 58 ex interpreti dei nostri soldati, che attendono di venire salvati con le loro famiglie dall'operazione Aquila lanciata dalla Difesa per portare in Italia i collaboratori afghani. Nel paese è stato imposto da ieri il coprifuoco in 31 province su 34 «per frenare le violenze e limitare i movimenti dei talebani», che stanno avanzando sempre più in fretta. Il coprifuoco notturno è in vigore dalle 22 alle 4 del mattino a parte Kabul, la capitale, la valle del Panjsher, roccaforte degli anti talebani e la provincia di Nangarhar.

Il coprifuoco, l'avanzata talebana nell'entroterra che punta a isolare le città e a tagliare le principali vie di comunicazione rendono ancora più rischiosa e difficile l'evacuazione dei collaboratori della Nato. «Più passa il tempo e più siamo a rischio di venire sgozzati come collaborazionisti degli infedeli» è il tono dei messaggi via whatsapp che arrivano al Giornale da interpreti e lavoratori locali rimasti indietro. «Sarò in cima alla lista delle persone che verranno uccise dai talebani se entreranno a Herat» ha scritto un nostro interprete all'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. «Lancio un appello a tutte le forze politiche perché si impegnino a velocizzare le procedure d'accoglienza» annuncia l'ex grillina, oggi con l'Italia dei valori. «Coloro che restano nel paese dopo aver lavorato con le forze straniere - spiega - subiscono e subiranno persecuzioni e vendette». Herat si trova dall'altra parte dell'Afghanistan rispetto a Kabul, dove partiranno i prossimi aerei per l'evacuazione. L'aeroporto potrebbe smettere di funzionare se i talebani continuano a stringere il cerchio. Avventurarsi via terra con mogli e figli è un rischio perché gli insorti stanno interrompendo le strade con posti di blocco volanti. «L'apparente inarrestabile avanzata dei talebani rende sempre più difficile per i nostri collaboratori e relativi nuclei familiari, poter raggiungere i punti di raccolta per la successiva evacuazione in Italia» sottolinea il generale Giorgio Battisti, non più in servizio, ma che conosce bene l'Afghanistan. «Il fattore tempo costituisce l'elemento decisivo per organizzare le operazioni di recupero dei rimanenti collaboratori ed evitare che possano essere vittime di vendette degli insorti, come sta già avvenendo in questi giorni» mette in guardia l'alto ufficiale degli alpini. Il presidente americano Joe Biden ha annunciato lo stanziamento di 100 milioni di dollari per la temuta ondata di profughi e rifugiati dall'Afghanistan «comprese le persone che hanno fatto richiesta del visto speciale per gli Usa». Il presidente, in un colloquio telefonico con il capo di Stato afghano, Ashraf Ghani, ha garantito «il sostegno degli Stati Uniti alle forze di sicurezza» governative. I talebani sono avanzati perché il ritiro della Nato ha fatto mancare l'appoggio aereo. Negli ultimi giorni sette raid Usa hanno timidamente invertito la tendenza, ma i caccia devono arrivare da lontano, in alcuni casi dalle portaerei nel Golfo Persico. Stati Uniti, Unione Europea, Nato, Francia, Germania, Italia, Norvegia e Regno Unito chiedono in una dichiarazione congiunta «ai talebani di mettere fine alla loro offensiva militare, un cessate il fuoco permanente e un governo di transizione fino a quando non sarà raggiunto un accordo politico finale».

Assistenti stranieri traditi. L'Italia ne caccia sessanta. Fausto Biloslavo il 12 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sono fondamentali nei Paesi a rischio, ma per il governo costano troppo. E ora rischiano la vita. Una situazione di emergenza che coinvolge italiani sequestrati, un aereo o una nave militare che devono arrivare in fretta, i contatti con le autorità militari locali in zone di guerra «fredda» o «calda» per non parlare delle traduzioni degli incontri riservati fra i nostri generali, ammiragli o il ministro della Difesa con le controparti in Paesi non solo a rischio. Tutti compiti delicati svolti soprattutto dai collaboratori locali degli addetti militari nelle ambasciate. Una sessantina di persone chiave in 43 addettanze, ancora più fondamentali in paesi «caldi» o dove abbiamo missioni militari come Libano, Egitto, Libia, Cina, Russia, Ucraina. Tutti fedeli collaboratori che da domani verranno licenziati. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha «scoperto», grazie all'ispezione in un'ambasciata, che i contratti rinnovati annualmente ai collaboratori locali non vanno bene. E così i preziosi collaboratori locali vengono mandati a casa provocando un danno allo stesso funzionamento dell'ufficio degli addetti militari. «Ci sentiamo traditi, abbandonati dall'Italia, che è pure il nostro paese perché alcuni hanno la doppia cittadinanza. Non ho neanche il coraggio di dirlo a mia moglie dopo avere sacrificato per anni la famiglia per questo lavoro» si sfoga uno dei collaboratori locali, che da domani è in strada. E a rischio di rappresaglie, ritorsioni o energiche pressioni per ottenere informazioni riservate. Una storia sotto certi aspetti già vista nel dicembre dello scorso anno quando gli interpreti che lavoravano per il nostro contingente in Afghanistan, alla fine restituito al regime dei talebani, vennero licenziati. Poi siamo corsi ai ripari, ma è andata a finire nella totale emergenza.

«Non siamo solo interpreti, ma ci occupiamo di tutte le questioni delicate di carattere militare» spiega un collaboratore. Non a caso devono ricevere un nulla osta dall'Aise, i servizi segreti per venire assunti «a tempo determinato» come recita il contratto che viene rinnovato a seconda delle necessità talvolta da 6, 10 o 20 anni. Un addetto militare in un paese dove la tensione è alta conferma al Giornale «che pur essendo civili sono una specie di ufficiali di collegamento. Se i militari del posto devono parlarci chiamano loro».

I 54 addetti militari in giro per il mondo dipendono dallo Stato maggiore della Difesa che conferma «i rilievi amministrativi dagli organi di controllo dello Stato». Il bubbone era già scoppiato ad ottobre, quando è arrivato lo stop al rinnovo annuale. Secondo lo Stato maggiore per tre collaboratori «in teatro operativo/aree a rischio è in via di rinnovo il contratto di lavoro». In realtà, però, sono ben di più calcolando paesi come la Cina o la Russia, dove il clima è da guerra fredda, l'Egitto con le tensioni sul caso Giulio Regeni e Patrick Zaki, la Libia con l'emergenza migranti, ma pure paesi africani come l'Angola o medio orientali come l'Iraq e l'Iran.

«Anche nei cosiddetti Paesi tranquilli ed alleati tutte le note verbali si scrivono nella lingua del posto dalla Serbia agli alleati polacchi o ungheresi oppure a Stoccolma dove non possiamo usare il traduttore di google» sottolinea un addetto militare. La Difesa «esclude di assumere personale contrattista civile presso le sedi estere con le modalità finora adottate». E valuta «la possibilità di affidarsi a società di servizi terze che possano assicurare le prestazioni ed i requisiti di sicurezza richiesti». Gli addetti ai lavori fanno notare che è un azzardo, anche in paesi europei ed alleati, affidarsi a società esterne, che possono venire infiltrate o fare il doppio gioco.

Un ex addetto militare in un Paese a rischio fa presente che «non si tratta di un semplice interprete. Era di fatto il mio braccio destro. Se dovevo seguire il classico canale diplomatico ci mettevo tre mesi. Il collaboratore locale prendeva la richiesta e andava a contattare le persone giuste per metterci sopra il timbro necessario in tempi minimi». Un ruolo insomma a tutto tondo. In Paesi dove la guerra è «calda» come in Ucraina, in Libia oppure la tensione è latente in Libano o Iraq sapere trattare e avere il numero di cellulare non solo della controparte ufficiale, ma del miliziano di turno è fondamentale.

Nel 2022 il budget per 54 addettanze militari è di 48 milioni e mezzo di euro. I contratti annuali finiti nel mirino di «una burocrazia becera», secondo un addetto militare, si aggirano sui 35mila euro lordi o anche meno. «Durante le visite ufficiali del ministro o del Capo di stato maggiore della Difesa - spiega l'ex addetto militare - Pure i dettagli sono importanti, come il tappeto rosso sì o no. Oltre alla traduzione durante gli incontri riservati. Il nostro collaboratore locale non è un solo un interprete, ma un mediatore culturale e un prezioso consigliere».

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le

Diffusi per errore mail e foto di 250 interpreti afghani, ora sono in pericolo. AGI il 22 settembre 2021. In una fuga di dati sensibili, sono stati divulgati nomi, indirizzi di posta elettronica e fotografie di 250 afghani che hanno lavorato come interpreti per le forze britanniche dispiegate in Afghanistan, mettendo a rischio la loro incolumità e creando nuovo scompiglio nel governo di Londra. “Dire che questa situazione mi ha fatto arrabbiare è un eufemismo”, ha commentato il segretario alla Difesa, Ben Wallace, annunciando l’apertura di una indagine per fare piena luce sull’accaduto e presentando scuse formali durante una seduta alla Camera dei Comuni. I media britannici hanno riferito che ad essere diffusi sono stati gli indirizzi mail di più di 250 afghani che stanno cercano di lasciare il loro Paese, tornato sotto il dominio dei talebani, per raggiungere il Regno Unito. Secondo la ricostruzione dei fatti, gli indirizzi sono stati tutti copiati per errori in una e-mail del ministero della Difesa, consentendo a tutti i destinatari del messaggio di vedere i nomi dei singoli interpreti e in molti casi anche le loro foto associate. Dopo questo errore una seconda mail è stata inviata agli stessi destinatari, in cui è stato consigliato loro di cancellare il messaggio precedente e di modificare i propri indirizzi di posta elettronica. In attesa dei risultati dell’indagine in corso, una persona è stata sospesa. Non si sono fatte attendere le critiche all’interno della stessa maggioranza e le accuse dell’opposizione. Su Twitter il deputato conservatore Johnny Mercer ha denunciato una “negligenza criminale” che probabilmente obbligherà gli interpreti a “cambiare subito casa” per evitare rappresaglie. “Abbiamo detto a questi interpreti che assicureremo la loro sicurezza, ma questa fuga di dati ha inutilmente messo in pericolo le loro vite”, ha deplorato su Twitter John Healey, incaricato delle questioni difesa nel Labour, principale partito di opposizione. Il deputato laburista ha chiesto al governo di “intensificare i suoi sforzi per far arrivare questi afghani in tutta sicurezza nel Regno Unito”. Dal lancio del programma britannico Arap, destinato a rimpatriare il personale locale impiegato dalle forze britanniche, circa 68 mila afghani hanno richiesto l'adesione alla procedura. Del resto, la complessa situazione creatasi in Afghanistan è già valsa la poltrona al ministro degli Esteri, Dominic Raab, pesantemente criticato per essere rimasto in vacanza mentre Kabul cadeva nelle mani dei talebani. Raab è stato sostituito in un rimpasto di governo operato la scorsa settimana dal premier conservatore Boris Johnson.

Un altro disastro per la Nato: i suoi 550 collaboratori afghani lasciati nelle strade di Kabul dopo le bombe Isis. Quando il 27 agosto l’Alleanza atlantica è partita dall’aeroporto con l’ambasciatore Pontecorvo (il rappresentante «civile») e il suo staff, la comitiva dei 550 non era ancora al sicuro. Ci hanno pensato gli americani poi a mettere in salvo gran parte del gruppo. Controllo dello scalo, errori e ritardi: ecco la storia segreta che imbarazza i vertici di Bruxelles.  Carlo Tecce su L'Espresso il 17 settembre 2021. S’era detto insieme dentro, insieme fuori. Con più slancio anglofilo: «Together in, together out». E invece l’Alleanza atlantica «politica e militare» Nato ha fallito pure l’ultima promessa in Afghanistan dopo vent’anni di guerra con frammenti di pace, decine di migliaia di vittime civili, 3.541 soldati caduti, 2.000 miliardi di dollari. Nei giorni della fuga da Kabul con i militari rintanati in aeroporto fra le bombe, il sangue, le lacrime, come ha ricostruito l’Espresso che svela un drammatico episodio avvenuto tra il 26 e il 27 agosto, la Nato era uno spettatore a volte distratto, che staziona nei pressi, gesticola, proclama, osserva, ma non decide, non incide. Ognuno con la propria divisa: americani, inglesi, tedeschi, francesi, italiani, spagnoli, polacchi, norvegesi, danesi. Ciascuno ha badato a sé stesso, a evacuare informatori, assistenti, familiari, profughi e ciascuno ha supportato l’altro per quel vincolo profondo di solidarietà che lega i militari. A rappresentare l’Alleanza atlantica in Afghanistan c’era l’italiano Stefano Pontecorvo, diplomatico di rango ministro plenipotenziario, già ambasciatore in Pakistan e consigliere dei ministri Mario Mauro e Roberta Pinotti alla Difesa nei governi di Enrico Letta e Matteo Renzi. Pontecorvo era il capo «civile» della missione Nato ritrovatosi nel posto sbagliato al momento giusto. Il passaparola omerico e la semplificazione giornalistica hanno trasformato l’inconsapevole diplomatico nel «gestore» dell’aeroporto di Kabul durante l’evacuazione sotto le pressioni dei talebani e le minacce dei terroristi islamici. Al contrario, il compito di Pontecorvo era davvero ingrato: ricordare l’esistenza dell’Alleanza atlantica. Il club con sede a Bruxelles da sempre dominato dal socio forte Usa. Il piano di uscita Nato concordato con i talebani, dopo gli accordi di Doha (Qatar) stipulati dall’amministrazione americana di Donald Trump e subìti e criticati dai governi europei, prevedeva che fosse l’esercito turco a mantenere il controllo dell’aeroporto prima di riconsegnare l’Afghanistan al suo passato oscurantista con i talebani. Quel confine sottile fra la vita e la morte a Kabul è saltato ancora alla vigilia di ferragosto: migliaia di disperati salvati dagli occidentali e centinaia di disperati ammassati in pista fra le colonne dei velivoli, schiacciati dalle ruote, aggrappati ai carrelli, precipitati in volo. Allora gli americani hanno imposto regole diverse e con gli inglesi hanno preso il possesso dell’aeroporto: presidio degli ingressi, ordini di partenza, distribuzione degli spazi. E in un luogo defilato c’era l’ufficio del rappresentante Pontecorvo con un gruppo di funzionari Nato e una dozzina di valenti carabinieri del reggimento paracadutisti Tuscania. Il traffico, i decolli, gli arrivi erano diretti dagli americani con gli inglesi. Alle riunioni mattutine si confrontavano i delegati nazionali per stabilire i turni in pista, al tavolo c’era anche Pontecorvo, ma il comando informale e sostanziale era degli Usa. L’eccellente sintonia degli apparati italiani, militari, diplomatici e di intelligence, con gli americani ha permesso di trasferire a Roma oltre 5.000 afghani. Così fonti ufficiali Nato descrivono la funzione di Pontecorvo e ammettono che l’Alleanza atlantica all’aeroporto di Kabul non aveva né il «gestore» né la «gestione»: «L’ambasciatore e la sua squadra hanno svolto un ruolo fondamentale nel mantenere i contatti con i rappresentanti dei Paesi Alleati e della Comunità Internazionale. Nel corso di due settimane, oltre 120.000 persone sono state evacuate, su centinaia di voli, anche dalle nazioni alleate. Le truppe degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Turchia e della Norvegia hanno svolto un ruolo chiave nella messa in sicurezza dell’aeroporto. Circa 800 membri del personale Nato hanno svolto operazioni di rilievo come il rifornimento e le comunicazioni». In aggiunta ai contatti, Pontecorvo e il suo gruppo erano impegnati con la mensa, la fureria, le segnalazioni. Questa premessa è essenziale per raccontare l’episodio del 26 e del 27 agosto. Il 26 agosto era un giovedì. Ormai da dieci giorni l’aeroporto era l’unico accesso alla libertà. La discussione fra gli occidentali era già lacerante: lasciare la pista il 31 agosto come garantito ai talebani oppure prolungare il ponte aereo. Il 26 agosto non si era prossimi a una scelta, i terroristi targati Isis Khorasan hanno scelto per gli altri nel pomeriggio di Kabul con un doppio attentato: uno ai varchi dell’aeroporto dove gli afghani si accalcavano aspettando una mano che li tirasse su, e un altro all’albergo internazionale Baron, un attacco ampiamente annunciato nei modi e nei tempi dai servizi segreti americani. Il 26 sera con le ambulanze stracolme di feriti e una stima difettosa di 200 morti, più di 550 collaboratori Nato di nazionalità afghana erano in cammino per le strade di Kabul con mezzi privati per raggiungere l’aeroporto. Se non stupisce che più di 550 collaboratori Nato, obiettivo di possibili ritorsioni talebane e di concrete violenze terroristiche, fossero ancora lontani da un rifugio a 5 giorni dal fatidico 31 agosto, stupisce che fossero radunati su una decina di autobus dopo un attentato, la confusione totale e l’esercito americano colpito dalla morte di 13 compagni. La tabella di marcia del convoglio non protetto era di responsabilità della Nato e perciò del diplomatico Pontecorvo. Il 26 sera gli americani hanno chiuso l’aeroporto per motivi di sicurezza. Nessuno poteva neanche avvicinarsi. Più di 550 collaboratori Nato, però, non volevano tardare all’appuntamento notturno, già rinviato di un giorno, al punto di incontro a pochi chilometri dalle piste. E poi qualcuno, qualche militare, forse qualche militare americano, a rischio della propria vita, doveva gettarsi fra il tanfo di cadaveri e di carne arsa per strapparli alla notte. Non è successo. I collaboratori Nato di livello 1 e 2, cioè fra quelli più esposti, ex dipendenti della sede di Kabul o impiegati delle agenzie atlantiche, sono rimasti intrappolati chissà dove. Il 26 erano partiti i tedeschi, i danesi, altri europei. Il venerdì 27 toccava agli italiani. E l’ambasciatore Pontecorvo ha ammainato l’ultima bandiera Nato, quella simbolicamente inastata nel suo ufficio, e si è preparato al lungo viaggio verso Roma con l’apprensione per i 550 collaboratori non ancora entrati. Nel pomeriggio è decollato l’aereo dell’Aeronautica. A bordo c’erano il personale diplomatico con il giovane secondo segretario della Cancelleria, il «console» Tommaso Claudi diventato icona con la foto mentre in giubbotto antiproiettile estrae dalla ressa un bimbo, l’ambasciatore Pontecorvo e il suo gruppo dell’Alleanza atlantica che avevano affidato i 550 al buon cuore degli americani. A Roma entrambi sono stati accolti da eroi. Fra il 28 e il 29 agosto, gli americani sono riusciti a «esfiltrare», termine tecnico che sta bene per una evacuazione assai complessa, gran parte della comitiva dei collaboratori Nato mentre la Nato non c’era più. Le prime settimane di settembre le hanno trascorse in Qatar. Non si conoscono altri dettagli: l’Alleanza atlantica, sollecitata dall’Espresso, non ha commentato l’accaduto. Sempre la Nato ha confermato che numerosi afghani sono a «rischio»: «Migliaia di afghani sono già sbarcati nei Paesi alleati e amici, tra cui Stati Uniti, Canada, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito, Albania, Ucraina e Georgia. Altri sono ospitati in Paesi terzi in attesa di essere smistati; e il Qatar sta giocando una parte fondamentale. La Nato non concede asilo né approva le domande di visto, ma sta facendo il possibile con gli alleati su questo tema. Numerose strutture in Europa vengono utilizzate anche per gli afghani in transito, tra cui la base aerea di Ramstein in Germania, Rota in Spagna, Sigonella in Italia e Camp Bechtel in Kosovo. Questo è stato uno sforzo enorme, in condizioni pericolose, ma finora non tutti gli afghani a rischio sono stati evacuati. I nostri sforzi continueranno». Il caso dei 550 conferma il terribile congedo Nato dal ventennio afghano e giustifica il dibattito europeo, per la verità, già stagionato, sulla necessità di costituire un esercito continentale con altre armi, altri soldi e altre medaglie appuntate ai generali. L’ambizione: dotare l’Unione di una difesa comune. Almeno per insistere con l’abitudine di andare poi da soli.

I talebani stringono d'assedio 17 città su 34. Gli ospedali al collasso: troppi morti e feriti. Fausto Biloslavo 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Il governo invia rinforzi a Herat. Gli interpreti: "Se arrivano siamo morti". Il colonnello Abdul Hamid Hamidi è seduto a terra a gambe incrociate, impolverato e disarmato. I talebani lo hanno appena catturato e nel video che stanno facendo girare si sentono le raffiche di mitra dei combattimenti nei dintorni. Gli uomini della sua scorta sono inginocchiati, nella polvere, con le mani legate dietro la schiena. Hamidi era il comandante della prima brigata dell’esercito afghano ad Herat, il capoluogo provinciale da dove il contingente italiano si è ritirato un mese fa. I talebani lo hanno brutalmente giustiziato e sabato si sono svolti i funerali militari nella terza città del paese sotto attacco dalla scorsa settimana. Gli estremisti islamici stanno intensificando l’offensiva stringendo la morsa anche attorno a Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand, che rischia di cadere e Kandahar, la “capitale” spirituale dei seguaci di mullah Omar nel sud del paese. “Sono arrivati rinforzi da Kabul, ma i talebani stanno penetrando in città da tre direzioni soprattutto il distretto 7 e 10. Chi ha lavorato, come me con il contingente italiano, è condannato a morte certa se conquisteranno Herat” racconta al Giornale via whatsapp uno dei nostri interpreti, che abbiamo lasciato indietro. Almeno una ventina, che hanno chiesto da fine maggio di essere messi in salvo, sono bloccati nella zona di Herat assieme ad altri collaboratori afghani. “L'Italia deve agire subito e accelerare le operazioni di evacuazione promesse Abbiamo l'obbligo morale di tutelare chi ha rischiato la propria vita lavorando al nostro fianco. Dimostriamo che non si è trattato di fuga e abbandono” è l’appello del deputato Guido Germano Pettarin di Coraggio Italia. A Kabul sarebbe giunto personale dall’Italia di rinforzo alla nostra sede diplomatica per gestire più velocemente le pratiche e le operazioni di evacuazione. Alcuni collaboratori afghani sono stati contattati dall’ambasciata per il prossimo volo di evacuazione nella prima metà di agosto, ma Herat è tagliata fuori con l’aeroporto chiuso alle compagnie civili. Ieri è atterrato un aereo di trasporto militare con qualche centinaio di uomini dei corpi speciali giunti in rinforzo dalla capitale. Lo scalo si trova a fianco di Camp Arena, l’ex quartier generale italiano a 500 metri dagli scontri. La strada che porta al centro viene ripetutamente tagliata dai talebani. “Ci sono scontri nei sobborghi meridionali e sudorientali della città - ha dichiarato il governatore Abdul Saboor Qani in tenuta da combattimento - Le forze di sicurezza afghane e di resistenza (le milizie anti-talebane del leggendario Ismail Khan nda) stanno combattendo per respingere i talebani. Abbiamo fatto del nostro meglio per proteggere la popolazione, ma il nemico ha preso posizione nelle case private. Ci muoviamo con prudenza per evitare perdite tra i civili”. Il fronte più caldo è sul ponte Malan, uno dei punti di attraversamento del fiume a sud della città, secondo la tv afghana Tolo news. I talebani minacciano 17 dei 34 capoluoghi provinciali afghani cercando di interrompere le vie di comunicazione e bloccare gli aeroporti. Tre razzi sono stati lanciati sullo scalo di Kandahar, seconda città del paese con 600mila abitanti interrompendo i voli civili. L’offensiva dell’ultima settimana si sta concentrando su Lashkar Gah, che potrebbe essere il primo capoluogo provinciale a cadere. Emergency gestisce uno storico ospedale in città. ”Ci sono stati combattimenti molto pesanti. Abbiamo sentito bombardamenti per tutta la notte e al mattino, oltre al fuoco di armi, mitragliatrici, cecchini e artiglieria” ha raccontato Viktor Urosevic, il coordinatore medico. L’ospedale ha rischiato il collasso per l’arrivo di feriti e moribondi. “In questo momento siamo pieni al 90% - ha spiegato - e accettiamo solo i casi più gravi”. Secondo i residenti la caduta della città, circondata dai talebani da quattro lati, è questione di ore o giorni. Solo il centro sarebbe ancora in mano ai governativi.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo

Continua l'avanzata dei talebani in Afghanistan: conquistato il primo capoluogo. Giampaolo Cadalanu su La Repubblica il 6 agosto 2021. Nelle mani degli "studenti coranici" la città più importante della provincia di Nimroz. Accuse di torture ed esecuzioni a freddo sui soldati catturati. L’assalto alle città va avanti: si combatte vicino a Kandahar, Herat e Lashkar-Gah, ma nel frattempo i talebani hanno conquistato Zaranj, capitale della provincia di Nimroz, al confine con l'Iran. Al di là del modesto significato strategico, il passaggio è significativo perché la città è la prima capitale provinciale ad essere caduta nelle mani degli integralisti da quando l'amministrazione Biden ha dichiarato che avrebbe completamente ritirato le truppe statunitensi dall’Afghanistan.

Afghanistan, l’avanzata dei talebani. E una città dietro l’altra ripiomba nel terrore. Giampaolo Cadalanu su La Repubblica l'8 agosto 2021. Venerdì hanno occupato Zaranji, al confine iraniano, e sabato Sheberghan, frontiera turkmena. Domenica sono avanzati anche a Kunduz, Sar-i-Paul e Taloqan dove sono in corso combattimenti. I primi a percepire la paura sono i soldati afgani: si insinua sotto l’uniforme, si fa largo di fronte ai rifornimenti che non arrivano, dilaga quando dalle zone dei combattimenti più aspri arrivano notizie di militari torturati, accecati, giustiziati a freddo dopo aver finito le munizioni. E per qualcuno la tensione è insostenibile, l’unica scelta è buttare la divisa in un fosso e sparire, sperando che nessuno si ricordi.

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 9 agosto 2021. I talebani conquistano tre importanti città in sole 24 ore, cinque negli ultimi tre giorni. Altre 11 sono sotto assedio e nella «capitale» del sud, Kandahar, i combattimenti hanno costretto alla fuga 22mila famiglie afghane. L'avanzata è impressionante e si comincia a temere che in vista dell'11 settembre potrebbe insidiare Kabul. In questo disastro, poco più di un mese dopo il rientro dell'ultimo soldato italiano, dozzine di nostri collaboratori afghani, che sperano nell'evacuazione, rischiano di rimanere tagliati fuori. Al Giornale arrivano drammatici appelli: «Sono un ex interprete dell'esercito italiano. La mia casa è nel territorio occupato dai talebani. Se mi scoprono mi uccidono». Non facciamo i nomi per sicurezza, ma spiegano di «avere inviato la richiesta di aiuto all'ambasciata a Kabul. Mi hanno risposto che valuteranno e poi silenzio. Ci hanno abbandonati». A giorni partirà la seconda fase di Aquila, l'operazione di evacuazione che la Difesa avrebbe dovuto completare prima del ritiro del nostro contingente per evitare il caos. «Diteci se siamo stati accettati e raggiungeremo Kabul rimanendo in attesa. La capitale è più sicura di Herat assediata dai talebani» sottolinea un altro interprete. Fa parte di una lista di 59, che attendono una risposta definitiva con i talebani che avanzano. «La rapida, seppur prevedibile, espansione del controllo del territorio da parte degli studenti coranici rende ancora più impellente l'esigenza di esfiltrare speditamente i nostri collaboratori afghani e relative famiglie - dichiara il generale Giorgio Battisti che ha servito in Afghanistan - che rischiano di non potersi più muovere dalle località oramai occupate dai talebani per recarsi nei punti di raccolta per la successiva evacuazione verso l'Italia ed essere così individuati ed ammazzati in quanto considerati traditori». Nelle ultime 24 ore gli insorti hanno conquistato Kunduz, Sar i Pul e Talaqan, tutti capoluoghi di provincia stringendo il cerchio attorno a Mazar i Sharif, la «capitale» del nord. La battaglia più dura è scoppiata a Kunduz, importante città a 300 chilometri da Kabul. Le forze governative sarebbero ancora asserragliate all'aeroporto e in una base dell'esercito, ma il capoluogo è caduto in mano ai talebani. Il primo obiettivo, come nelle altre città conquistare, è la prigione per liberare i detenuti motivati a combattere e continuare l'offensiva. Kunduz è un crocevia strategico tra Kabul ed il Tajikistan. «I mujaheddin hanno anche catturato la città di Sar-e-Pul compresi tutti gli edifici governativi» annunciano gli insorti. Sempre nel Nord del Paese, dove i pasthun, serbatoio etnico talebano, sono meno presenti e più deboli rispetto al sud. Nel pomeriggio di ieri è giunta la notizia della caduta di Talaqan, capoluogo della provincia settentrionale di Farkhar, assediata da due mesi, ma un tempo roccaforte anti talebana. Nei due giorni precedenti è stato occupato per primo Zaranj, capoluogo di Nimroz, nel sud ovest del paese vicino al confine iraniano. Un punto di partenza per esercitare ulteriore pressione sulle grandi città del Sud a rischio caduta come Lashkar Gah e Kandahar. Poi è stata conquistata Shebarghan, 132mila abitanti, il capoluogo a nord della provincia di Jawzjan. La città è un feudo del signore della guerra, Rashid Dostum, che è stato anche vicepresidente. I talebani hanno razziato la sua villa e indossato l'alta uniforme di maresciallo d'Afghanistan per prenderlo in giro. Il figlio, Yar Mohammad Dostum, che guida la milizia uzbeka del padre, filo governativa, non è riuscito a tamponare la disfatta. Gli Usa appoggiano l'esercito afghano con i bombardamenti dai B52, ma fonti dell'amministrazione confermano che Biden «non avrebbe cambiato idea sul ritiro entro fine mese».

Afghanistan: Usa prevedono caduta di Kabul entro 90 giorni. (ANSA l'11 agosto 2021) L'amministrazione Biden si prepara alla caduta di Kabul nelle mani dei talebani entro un periodo ben più breve rispetto ai 6-12 mesi previsti in precedenza alla luce del ritiro delle truppe statunitensi dal Paese: lo scrive il Washington Post, che cita funzionari americani al corrente della situazione. Secondo un funzionario che ha voluto mantenere l'anonimato i militari stimano adesso che la capitale afgana cadrà entro 90 giorni, mente altri ritengono che la disfatta avverrà entro un mese. 

Dagotraduzione dal Sun l'11 agosto 2021. Fonti interne hanno riferito al Sun che i leader talebani, dopo essersi fatti consegnare con la forza dai leader locali l’elenco delle persone tra i 12 e i 45 anni, stanno tentando di rapire e sposare forzatamente le donne. Secondo Bloomberg, la mossa è l'inizio di un ritorno alla dura legge della sharia: le donne non possono uscire di casa senza un accompagnatore maschile ed è obbligatorio indossare l'hijab. Siccome molte aziende e scuole vengono distrutte, le donne potranno frequentarle solo se l’insegnante è di sesso femminile. I talebani hanno avvertito che chiunque venga sorpreso a sfidare le regole sarà «trattato seriamente». Di conseguenza, le donne terrorizzate che temono per il loro futuro stanno fuggendo dal paese devastato dalla guerra mentre i padri afgani hanno espresso il timore che i delinquenti talebani portino via le loro figlie e le costringano a essere schiave. Farkhunda Zahra Naderi, membro dell'Alto Consiglio per la riconciliazione nazionale dell'Afghanistan, ha espresso il suo timore che i diritti civili esistenti nel paese cadano in rovina. Ha detto: «La mia più grande paura è che stiano emarginando le donne che hanno lavorato in queste posizioni di leadership, che sono state una voce forte contro i più potenti abusatori, ma che lavorano anche con loro per cambiare la situazione sul campo». Se eliminano questi leader, dice, chi sarà lasciato a parlare per le donne e difendere le conquiste fatte negli ultimi 20 anni? Le sue parole evidenziano le ricadute della decisione di Stati Uniti, Regno Unito e altre nazioni di ritirare le ultime truppe rimaste dall'area. Ha permesso ai soldati talebani di scatenarsi mentre i gruppi estremisti continuano con la loro grande offensiva, sequestrando campioni di territorio, costringendo migliaia di soldati a fuggire o ad arrendersi. I rapporti di questa settimana dicono che i talebani hanno catturato più della metà del territorio afghano dopo il ritiro delle truppe americane e britanniche. E ora stanno prendendo di mira città chiave, compresi i capoluoghi di provincia Herat a ovest e Lashkar Gah a sud. Zaranj, l'ultima cattura dei talebani, è un importante centro commerciale vicino al confine con l'Iran. I video condivisi all'inizio di questa settimana sui social media mostrano i talebani a bordo di camion militari statunitensi. Un filmato mostra i combattenti a piedi che assaltano le strade armati di pistole, anch'esse rubate all'esercito americano. I colpi vengono sparati in aria al grido di "Allahu Akbar" mentre il gruppo fa sapere che ora hanno il controllo. Le scene ricordano quelle del 2014 quando membri dell'ISIS mascherati sfilarono attraverso la Siria e l'Iraq negli Humvee statunitensi durante la loro offensiva lampo. Gli scontri con le forze afgane si sono intensificati, decine di soldati del paese sono stati rastrellati, giustiziati e gettati in fosse comuni. Le immagini mostrano i corpi insanguinati di quello che si dice sia il personale militare nel distretto di Kang, nel sud-est dell'Afghanistan. La gente del posto che ha ripreso le immagini inquietanti ha affermato che «un certo numero di soldati che sono stati fatti prigionieri dopo i combattimenti sono stati prima torturati, le loro mani sono state legate e gli occhi sono stati cavati». 

L’ombra di un regime islamico sempre più concreta. Cosa sta succedendo in Afghanistan, l’avanzata dei talebani verso Kabul. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 12 Agosto 2021. Neanche il più avveduto dei generali americani o della Nato avrebbe previsto la rapida, inarrestabile avanzata dei talebani alla conquista dell’Afghanistan. La realtà ha superato le più pessimistiche aspettative. I talebani hanno conquistato nove dei 34 capoluoghi di provincia del Paese, due nuovi a ovest e a nord il giorno precedente, facendo fuggire civili in massa. Farah, a ovest, e Pul-e Khumri, a nord, sono caduti martedì. Da venerdì – scrive Agi/Afp – i talebani hanno preso Zaranj (sud-ovest), Sheberghan (nord), la roccaforte del famigerato signore della guerra Abdul Rashid Dostom, e soprattutto Kunduz, la principale città del nord-est, così come altre tre capitali del nord, Taloqan, Sar-e-Pul e Aibak. «I talebani sono ora in città, hanno alzato la loro bandiera nella piazza centrale e nell’ufficio del governatore», ha detto all’Afp Mamoor Ahmadzai, un membro del parlamento della provincia di Baghlan, di cui Pul-e Khumri è la capitale, a 200 km da Kabul. Gli insorti hanno anche preso Farah, capitale della provincia omonima, martedì dopo brevi combattimenti. «Hanno preso l’ufficio del governatore e la sede della polizia. Le forze di sicurezza si sono ritirate in una base dell’esercito», ha spiegato all’Afp il consigliere provinciale Shahla Abubar. Zabihullah Mujahid, un portavoce degli insorti, ha confermato la cattura delle due città su Twitter. La violenza ha costretto decine di migliaia di civili a fuggire dalle loro case in tutto il paese, con i talebani accusati di numerose atrocità nelle aree che hanno conquistato. «Quando ci sono due ragazze in una famiglia, ne prendono una per sposarsi, quando ci sono due ragazzi, ne prendono uno per combattere», ha detto all’Afp Marwan, una giovane vedova fuggita da Taloqan, in un parco di rifugiati a Kabul. Abdulmanan, uno sfollato di Kunduz, ha detto di aver visto i talebani decapitare uno dei suoi figli, senza sapere «se il suo corpo è stato mangiato dai cani o sepolto». Circa 359.000 persone sono state sfollate in Afghanistan dai combattimenti dall’inizio dell’anno, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). Almeno 183 civili sono stati uccisi e 1.181 feriti, compresi i bambini, in un mese nelle città di Lashkar Gah, Kandahar, Herat (ovest) e Kunduz, ha detto martedì l’Onu, aggiungendo che queste erano solo le vittime che potevano essere documentate. Se gli “Student coranici” riuscissero a conquistare Mazar-i Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, per loro sarebbe un successo decisivo non solo militare ma anche politico. I talebani hanno lanciato questa offensiva a maggio, all’inizio del ritiro definitivo delle forze americane e straniere, ma la loro avanzata ha accelerato negli ultimi giorni con la cattura di diversi centri urbani. La partenza delle forze internazionali deve essere completata entro il 31 agosto, 20 anni dopo il loro intervento in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. «Non ho rimpianti per la mia decisione di lasciare l’Afghanistan», ha affermato martedì il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Gli afgani “devono avere la volontà di combattere” e “devono combattere per se stessi, per la loro nazione”. Washington è sempre più frustrata dalla debolezza dell’esercito di Kabul, che gli americani hanno addestrato, finanziato ed equipaggiato per anni. Il portavoce diplomatico statunitense Ned Price ha detto che le forze governative erano “largamente superiori in numero” ai talebani e avevano “il potenziale per infliggere perdite maggiori”. «Questa idea che l’avanzata dei talebani non può essere fermata» non è la realtà sul terreno, ha dichiarato. Fatto sta che da un giorno all’altro gli afghani si sono trovati senza supporto aereo americano, fondamentale in molte delle operazioni militari compiute contro i talebani, e senza migliaia di contractor operanti nel settore della logistica che si occupavano di far funzionare i complessi sistemi d’arma che gli Stati Uniti avevano fornito all’Afghanistan. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtunsi si aggiungono Tajiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni e Baluchi. Un altro sviluppo piuttosto recente che sembra poter favorire i talebani è l’appoggio più o meno esplicito ottenuto dal gruppo islamista da parte di governi stranieri, anche quelli che fino a oggi si erano mostrati più freddi, come la Cina e l’India. I talebani possono contare inoltre sull’appoggio di altri paesi: del Pakistan, che insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti aveva riconosciuto per primo il regime talebano quando aveva preso il controllo di Kabul, nel 1996, ma anche dell’Iran e della Russia. L’insieme di tutte queste situazioni sembra poter favorire una eventuale vittoria dei talebani, che potrebbero rinunciare ai colloqui di pace con il governo afghano se i successi militari diventassero ancora più netti. L’obiettivo dei talebani è quello di riprendere il controllo del governo e di costringere alle dimissioni il presidente Ghani. Mohammad Zahid Himmat, comandante talebano nella provincia di Wardak, nell’est del paese, ha parlato di istituire un «regime islamico puro» attraverso il controllo dei «confini economici» e dei flussi commerciali. Non è detto che il gruppo ci riesca, ma per come si stanno mettendo le cose è uno scenario possibile, e molto concreto. Se dovesse realizzarsi, sarebbe la disfatta dell’Occidente. Dalla fuga sul campo a una Waterloo geopolitica. Dopo venti anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Venti anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2021: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli. Lo chiamano ritiro, ma è una fuga ignominiosa. E ora l’Europa torna a pietire un cessate-il-fuoco.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

I talebani assediano Kabul. Ghani: spartiamo il potere. Riccardo Pelliccetti il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Agli integralisti 18 capoluoghi in una settimana. Offerta del presidente con i soldati ormai in rotta. I talebani dilagano. Continua, infatti, la rapida riconquista dell'Afghanistan da parte dei miliziani islamici dopo il ritiro delle truppe occidentali. Ieri sono cadute altre città strategiche sotto i martellanti attacchi: la prima è Lashkar Gah, nel Sud del Paese. Secondo fonti russe, i talebani avrebbero imposto un cessate il fuoco di 48 ore per permettere l'evacuazione della città. Il secondo centro conquistato dalle milizie islamiche è stato Feroz Koh, capoluogo della provincia di Ghor. Il governatore della provincia ha tentato di abbandonare la città con le forze di sicurezza ma i talebani glielo hanno impedito. Dopo un breve negoziato, la città è stata evacuata. Nella giornata di giovedì, invece, i talebani avevano conquistato le due città più grandi dell'Afghanistan dopo Kabul, Kandahar ed Herat, dove era dispiegato il contingente italiano fino a poche settimane fa. Herat, però, non è completamente in mano agli islamisti. Le forze governative, almeno fino a ieri, controllavano ancora una base militare e l'aeroporto della città. A Herat c'è stato anche un colpo di scena: il potente «signore della guerra» Ismail Khan, che per giorni ha combattuto per difendere Herat, ha deciso di unirsi ai Talebani dopo la sua cattura. Kandahar, invece, è caduta dopo aspri combattimenti e, oltre a essere un centro strategico, ha un significato simbolico perché era la roccaforte dei Talebani. Dopo l'offensiva di ieri, sono diventati 18 i capoluoghi delle 34 province afghane conquistati dai miliziani in una settimana. I talebani gongolano e il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, ha parlato di «popolarità» tra la popolazione afghana. «Non è possibile con l'uso della forza» far cadere 18 capoluoghi in una settimana, ha scritto Mujahid su Twitter. E gli islamisti hanno annunciato anche che concederanno un'amnistia a quelli che hanno collaborato con il governo di Kabul e con le forze armate straniere. «Le braccia dell'Emirato Islamico sono aperte a loro», ha aggiunto. I talebani ormai controllano oltre il 60% del territorio afghano e si preparano all'assalto finale di Kabul. Tutte le potenze occidentali si stanno preparando per tutelare il personale nella capitale e la Nato ha convocato una riunione d'emergenza proprio per affrontare il tema dell'evacuazione dei cittadini dei Paesi dell'Alleanza Atlantica. Washington e Londra hanno già deciso di inviare un contingente militare (8mila soldati americani e 600 inglesi) per sgomberare diplomatici e civili e hanno annunciato la riduzione del personale civile nella capitale afghana. Il segretario di Stato, Antony Blinken, e il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, in un colloquio telefonico con il presidente afghano Ashraf Ghani, hanno «sottolineato che gli Stati Uniti rimangono impegnati per la sicurezza e la stabilità dell'Afghanistan di fronte alla violenza dei talebani». Ma quanto resisterà Kabul? Il presidente americano Joe Biden, poco prima del ritiro delle truppe Usa, aveva parlato di sei mesi, ma con la pressante avanzata delle milizie fondamentaliste ormai si parla di settimane. Il Washington Post, citando fonti dell'amministrazione americana, ha scritto che non resisterà più di 90 giorni, ma è probabile che cada già entro un mese. Per evitare una totale disfatta, i negoziatori del governo di Kabul hanno proposto ai talebani di condividere il potere in cambio della fine delle violenze. La proposta è stata consegnata al Qatar, in qualità di mediatore, ma difficilmente sarà accettata dai talebani. L'Emirato islamico che sta per consolidarsi non ha alcuna intenzione di spartire il potere. Riccardo Pelliccetti

Catturato anche il leone di Herat. Il simbolo anti fondamentalisti. Fausto Biloslavo il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Ai domiciliari l'ex ministro e mujaheddin Ismail Khan. La foto che lo ritrae come un trofeo in mezzo ai combattenti talebani con i turbanti, che gli hanno sequestrato l'arma, è scattata sul divano di casa sua. Il leone di Herat, Ismail Khan, con l'inconfondibile barbone bianco e ancora le giberne militari dei caricatori addosso, ha lo sguardo incerto, quasi stupito di essere stato catturato dagli eredi di mullah Omar. Proprio lui quasi ottantenne aveva mobilitato una milizia locale per fermare l'avanzata dai talebani combattendo al fianco dei governativi con il timido appoggio aereo americano. Per settimane gli attacchi degli insorti sono stati respinti e le foto dei cadaveri nemici disseminate sui social. Giovedì qualcosa deve essere andato storto. Forse un promesso e mancato appoggio da Kabul o il tradimento della polizia e reparti dell'esercito Camp Zafar, la grande base dove addestravamo gli afghani del 207° corpo d'armata è caduto e in serata resisteva ancora la centrale dell'Nds, i servizi segreti afghani. Proprio in questo edificio o all'uscita, nel tentativo di raggiungere l'aeroporto per scappare a Kabul, è stato catturato Ismail Khan assieme al vice ministro dell'Interno, il comandate militare, il capo dell'intelligence e il governatore. «Mi hanno trattato bene» ha detto brevemente in un video il leone di Herat riferendosi all'arresto. I talebani hanno subito annunciato che aderiva all'Emirato islamico, ma non è chiaro se sia vero o propaganda. La cattura e sconfitta del leone di Herat è un colpo durissimo alla «difesa popolare», le milizie su base locale o etnica, che dovrebbero reggere l'urto dell'avanzata talebana assieme ai governativi. Tajiko di fede sciita, Khan è una figura leggendaria fin dai tempi dell'invasione sovietica quando portava i gradi di capitano e cavalcò la rivolta di Herat contro l'Armata rossa massacrando 350 consiglieri militari russi con le famiglie. La rappresaglia è stato un bombardamento aereo a tappeto della città con migliaia di morti. Dopo avere creato la leggenda del leone di Herat combattendo con i mujaheddin contro i sovietici è diventato governatore di Herat al crollo del regime comunista nel '92. I talebani sono riusciti a catturarlo già allora con il tradimento e incatenarlo in una sordida cella a Kandahar. Grazie a tanti soldi è riuscito a scappare con una fuga da Papillon. Dopo l'11 settembre è tornato in auge con un pugno di uomini. Grazie all'appoggio aereo americano sono diventati un esercito riconquistando Herat. Per otto anni è stato ministro dell'Energia del governo di Kabul e buon amico dei soldati italiani che presidiavano l'Afghanistan occidentale. Nel 2009 hanno cercato di farlo fuori con un attacco suicida, ma è sopravissuto. Khan è affezionato alla sua kafya bianca e nera, che portava anche durante l'arresto. Combattente, poco voltagabbana e abbastanza onesto, ha vinto e perso un ugual numero di battaglie. Questa volta è finito ai domiciliari nella sua villa, ma i talebani gli avrebbero detto che è libero di andare a Kabul.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’... 

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2021. Il governo afghano «amico e alleato» dell'Occidente, «forte di un esercito di 330mila effettivi» si è liquefatto in dieci giorni: il 6 agosto è caduto il primo capoluogo di provincia, il 15 i talebani sono entrati a Kabul. La loro cavalcata è stata caratterizzata più da diserzioni che da combattimenti. Il presidente americano Joe Biden l'ha spiegato con la mancanza di volontà di combattere da parte afghana. Il ministro della Difesa di Kabul, Bismillah Khan Mohammadi, ha invece detto: «Ci hanno legato le mani e venduto il Paese». All'inizio della primavera finisce il raccolto dell'oppio nelle province meridionali pashtun che possono quindi inviare i figli tra le fila talebane per la consueta stagione dei combattimenti che arriva sino a ottobre. Mentre l'armata part time dei talebani si assemblava, quella in difesa dell'Afghanistan filo-occidentale si disgregava. Trump aveva concordato con i talebani il ritiro americano per maggio e Biden lo rinvia solo a settembre, ma il «supporto aereo» comincia già a diminuire ad aprile. Dal canto suo il presidente Ashraf Ghani, spaventato da voci di un golpe, caccia ministri della sicurezza, governatori e generali. Sceglie uomini soprattutto pashtun, come lui, ma anche come i talebani e quindi più ricattabili perché vivono nelle stesse città dove è forte l'infiltrazione integralista. Nelle guarnigioni più lontane non arrivano soldi, spesso neppure munizioni. I talebani offrono un salvacondotto a chi si arrende. In giugno ci sono attacchi in 26 delle 34 province del Paese. Gli avamposti lamentano che gli aerei americani non arrivano più e quelli afghani, 160, sono operativi solo a metà. I contractor della manutenzione, in maggioranza americani, non si fanno più vedere nelle basi afghane. L'8 giugno chiude la base italiana ad Herat, il 2 luglio quella americana di Bagram. Il supporto aereo Usa è virtualmente finito. Eppure l'8 luglio il presidente Biden scandisce le parole: «I talebani non hanno neanche lontanamente le capacità militari dei Vietcong, non vedremo persone scappare in elicottero dal tetto dell'ambasciata». Domenica primo d'agosto il presidente Ashraf Ghani ammette che «non arrivano stipendi e munizioni sul fronte» e venerdì 6 agosto cade Zaranj, il primo capoluogo di provincia. I soldati hanno il permesso talebano di rifugiarsi in Iran. Chi è in trincea capisce di potersi salvare la vita arrendendosi. Il presidente Ghani chiede aiuto ai signori della guerra che aveva sempre osteggiato, ma è tardi. L'11 agosto vola a Mazar-i-Sharif, già assediata, per mostrare un'alleanza con il leader uzbeko Dostum. Il giorno dopo cade Herat: l'altro mujaheddin su cui Ghani pensava di contare non scappa, ma non può far altro che farsi arrestare. Ad aprire le porte della città sono il comandante del Corpo d'Armata e il governatore, entrambi pashtun. Venerdì 13 si arrendono Kandahar, culla pashtun, e Lashkar Gah. C'è chi immagina un assedio di Kabul, combattimenti strada per strada come ai tempi della guerra civile. Washington, però, sospende l'invio del denaro e non promette bombardamenti. Sabato cade anche Mazar-i-Sharif, Dostum fugge in Uzbekistan. Gli Usa decidono l'invio di 3, poi 5mila marines per mettere in sicurezza l'aeroporto. Domenica 15 Kabul si sveglia con gli elicotteri Chinook che fanno la spola tra il tetto dell'ambasciata americana e la pista. Il rumore dei motori spiega a tutti la situazione. Gli afghani lasciano caserme e divise, i talebani entrano a piccoli gruppi. Il presidente Ghani fugge in elicottero «per evitare spargimenti di sangue». All'aeroporto è il caos. Il secondo Emirato talebano è sorto. 

Afghanistan, dalla «guerra giusta» al ritiro: vent’anni cancellati in dieci giorni. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 19 agosto 2021. L’operazione Enduring Freedom parte con un sostegno globale ma perde slancio con il ritorno della guerriglia. Con l’aumento di attacchi e vittime, cresce il desiderio di ritiro. Biden fissa la data al 31 agosto, ma il supporto aereo alleato comincia a diminuire già ad aprile e l’esercito afghano si disfa. Così dal 6 al 15 agosto nasce il secondo Emirato talebano. Il governo afghano «amico e alleato» dell’Occidente, «forte di un esercito di 330mila effettivi» si è liquefatto in dieci giorni: il 6 agosto è caduto il primo capoluogo di provincia, il 15 i talebani sono entrati a Kabul dando vita al secondo Emirato talebano. Nella loro cavalcata inarrestabile e velocissima più diserzioni di nemici che combattimenti, segno di una tattica astuta capace di sfruttare le debolezze del nemico: uno Stato sostenuto per 20 anni dall’Occidente con 300 milioni al giorno, in tutto quasi 2.300 miliardi di dollari. Col senno del poi, eventi e dichiarazioni assumono il valore di campanelli d’allarme che nessuno ha voluto o saputo ascoltare. Eccone alcuni.

Giovedì 18 marzo, Mohamed Ghiliji è contento. Ha raccolto l’oppio dei suoi campi a Helmand, nel sud dell’Afghanistan. La metà dell’eroina afghana viene da qui e i taleb non solo comprano la pasta di oppio, ma procurano semi geneticamente modificati che, con meno acqua, rendono di più. Sistemati i campi, il figlio minore può tornare in polizia, il maggiore tra i talebani. Resteranno in contatto via sms, stesso modo con il quale ha raccontato la sua storia al Corriere. La stagione della guerra part time talebana può cominciare.

Venerdì 19 marzo, il presidente Ashraf Ghani sostituisce il ministro della Difesa e dell’Interno con due uomini di sua fiducia. C’è chi dice siano parenti, pashtun come lui. Ghani pensa ai talebani, ma soprattutto ha paura di un putch degli ufficiali tajiki che formano la colonna vertebrale delle forze armate. Senza i consiglieri americani a vigilare per lui, il suo esercito gli fa paura. Il suo predecessore Karzai ha avuto per anni guardie del corpo americane. Washington non si è mai fidata delle minoranze.

Martedì 13 aprile, il presidente Joe Biden annuncia «la fine della più lunga guerra americana». «Il ritiro sarà ordinato, coordinato e volontario». Comincerà il primo maggio e terminerà l’11 settembre, anniversario degli attentati di Al Qaeda. Quanto a Kabul, Biden assicura di «sostenere il processo di pace in corso guidato dagli afghani» e accoglie l’iniziativa di una Conferenza di pace a Istanbul.

Martedì 20 aprile, mullah Baradar, numero due dei talebani, rientra nel lussuoso hotel di Doha (Qatar) dove 13 mesi prima ha accettato di cessare ogni attacco sui marines in cambio del ritiro americano. Da allora Baradar finge di trattare con i rappresentati di Kabul, ma di fatto passa il tempo al buffet dell’albergo. «Non parteciperemo a nessuna Conferenza di pace fino a che il “burattino” Ghani sarà presidente».

Lunedì 3 maggio, i figli di Mohamed Ghiliji si sentono al telefonino. «Gli americani hanno cominciato a ritirarsi?». «Sì». «Dove sei?». «Con la polizia di Lashkar Gah», il capoluogo della loro provincia. «Non ti muovere da lì. Assolutamente». Il giorno dopo comincia un’offensiva talebana.

Lunedì 7 giugno, Ahmed Burannuddin arriva al Ministero della Difesa di Kabul e capisce che il clima è peggiore del solito. È lui ad inviare le mail ai giornalisti internazionali: nelle ultime 24 ore sono stati uccisi 150 soldati afghani e ci sono combattimenti in 26 delle 34 province del Paese. Gli avamposti lamentano che gli aerei americani non arrivano più e quelli afghani, 160, sono operativi solo a metà. I contractor della manutenzione non si fanno più vedere nelle basi afghane.

Martedì 8 giugno nell’hangar degli elicotteri Mangusta il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è zuppo di sudore. Presenzia alla cerimonia di ammaina bandiera di Camp Arena: la base italiana ad Herat chiude assieme a una missione che dal 2001è costata 20 miliardi e 53 vittime. «Sosterremo l’Afghanistan nel difendere i successi raggiunti».

Venerdì 2 luglio, gli alleati afghani scoprono che Bagram, la maggior base aerea americana, è deserta. Di notte senza avvertire nessuno i marines se ne sono andati. I ristoranti a tema, i McDonald’s, le mense di Bagram erano arrivati a servire 60 mila pasti. La seconda pista era costata 67 milioni, le casette in legno 200, la piscina e la famigerata prigione senza avvocati non si sa. Le operazioni di supporto aereo Usa sono virtualmente finite. La credibilità dell’alleanza anche.

Giovedì 8 luglio, il presidente Usa Joe Biden scandisce le parole: «I talebani non hanno neanche lontanamente le capacità militari dei Vietcong, non vedremo persone scappare in elicottero dal tetto dell’ambasciata». Sembra il George Bush della «missione compiuta». L’incapacità dell’intelligence di capire l’ambiente in cui ha operato per 20 anni è clamorosa.

Domenica 1 agosto, il presidente Ashraf Ghani presenta il «governo digitale» contro la burocrazia. È a Kabul, ma pare nel Paese delle fate. I giornalisti guardano i taccuini: 2.400 civili, 350 militari uccisi tra maggio e giugno. A luglio peggio. Ghani assicura di avere un piano. «Il problema è che non arrivano soldi e munizioni sul fronte. Chiedo ai funzionari di non farmi fare figuracce davanti ai partner. In alcune province i posti statali sono occupati da una singola famiglia. La Repubblica non dovrebbe essere un affare ereditario». La sua lotta alla corruzione inizia e finisce lì.

Venerdì 6 agosto il figlio di Mohamed entra a Zaranj con i talebani, il primo capoluogo di provincia conquistato. È nel sud-ovest pashtun. Telefona al padre. «Gli anziani hanno mediato con i soldati e li abbiamo lasciati scappare in Iran. Avevano finito le munizioni». «Stai attento». «Tranquillo, non ci sono più bombardieri. Dì a mio fratello di raggiungermi».

Martedì 10 agosto, il presidente Ghani scrive su Twitter: «I leader della Guerra Santa lavoreranno spalla a spalla con le forze armate per difendere l’Afghanistan». Dopo anni passati a ridurre il potere dei vecchi combattenti della guerra civile di etnia diversa dalla pashtun, ora, senza americani, Ghani chiede il loro aiuto. Nel frattempo ha restituito il ministero della Difesa a un tajiko del Panshir. È tardi. I capoluoghi in mano talebana sono più di dieci.

Mercoledì 11 agosto Ghani veste i panni del leader militare e vola a Mazar-i-Sharif già assediata. Vuole sollevare il morale delle truppe e accordarsi con il signore della guerra uzbeko Dostum. L’ultima analisi del Pentagono dice: l’intero Paese potrebbe cadere in 90 giorni, ma non aggiunge «lo impediremo». Chi ha voglia di morire per un destino segnato?

Giovedì 12 agosto il vecchio leone di Herat, il tajiko Ismahil Khan, non scappa. Resta nel suo fortino anche mentre i talebani entrano in città con l’assenso del governatore e del generale di Corpo d’Armata. Abdullah Abdullah, il tajiko che ha lasciato il governo dopo l’accordo Usa-talebani, offre alla mediazione del Qatar un piano di divisione di poteri con i mullah.

Venerdì 13 agosto si arrendono Kandahar, culla dei pashtun, e Lashkar Gah mentre in provincia resiste un generale (tajiko). Il governatore della banca Centrale Ajmal Ahmady riceve un messaggio da Washington: non mandiamo più dollari. Ahnady, laureato in Usa come la maggior parte dei tecnici e dei consiglieri governativi, rassicura le banche, ma compra «per prudenza» un biglietto aereo per lasciare il Paese lunedì.

Sabato 14 agosto si arrende con pochi combattimenti dopo la fuga dell’uzbeko Dostum anche Mazar-i-Sharif. Washington decide l’invio di 3 mila e poi 5 mila soldati per mettere in sicurezza l’aeroporto. Avanguardie talebane in motocicletta sono alle porte della capitale.

Domenica 15 agosto, Kabul si sveglia con gli elicotteri Chinook che fanno la spola tra il tetto dell’ambasciata americana e l’aeroporto. Il rumore dei rotori spiega a tutti la situazione. Soldati e poliziotti afghani lasciano caserme e divise, i talebani entrano a piccoli gruppi. Il presidente Ghani scappa in elicottero «per evitare spargimenti di sangue». I russi dicono con 160 milioni di dollari. Il ministro della Difesa Bismillah Khan Mohammadi, tajiko del Panshir, scrive su Twitter: «Ci hanno legato le mani e venduto il Paese. La maledizione cada su Ghani e la sua gang». 

Afghanistan, tutto quello che c'è da sapere sul nuovo conflitto. Gabriella Colarusso su La Repubblica il 13 agosto 2021. I talebani hanno riconquistato 18 capoluoghi provinciali su 34. Perché hanno lanciato un'offensiva? E perché gli Usa hanno annunciato il ritiro delle forze? E qual è stato il ruolo dell'Italia? Entro il prossimo 11 settembre, tutte le truppe straniere, gli statunitensi e gli alleati della Nato, lasceranno l’Afghanistan dopo 20 anni di guerra e un accordo siglato nel febbraio del 2020 a Doha in cui i talebani si sono impegnati a non permettere che il Paese diventi di nuovo una base operativa del terrorismo internazionale per colpire l’Occidente. Il ritiro delle truppe internazionali però ha riacceso il conflitto: in meno di due settimane i talebani hanno riconquistato 18 capoluoghi provinciali e controllano più del 60% del territorio. I guerriglieri islamisti sono entrati anche a Herat, nell’Ovest, e assediano Kandahar, nel Sud, due grossi centri urbani. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e gli altri Paesi della coalizione stanno evacuando il proprio personale diplomatico e cercando di organizzare dei voli aerei per far uscire dall'Afghanistan anche gli interpreti e i collaboratori che hanno lavorato con gli Occidentali e ora temono le rappresaglie degli “studenti coranici”. Secondo l’alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, da gennaio più di 250mila afghani hanno lasciato le loro case, sfollati interni che vanno ad aggiungersi agli oltre 4 milioni di afghani che sono già fuggiti dal Paese, in maggioranza nel vicino Iran o in Pakistan.

Ecco tutto quello che c'è da sapere sulla nuova offensiva nel Paese.

Chi sono i talebani?

Talebani nella lingua Pashtu significa “studenti”: sono fondamentalisti islamici armati che si rafforzarono come gruppo organizzato militarmente durante la resistenza contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, negli anni Ottanta. Usciti vincitori dalla guerra civile, a metà degli anni Novanta instaurarono un regime teocratico basato su una interpretazione estremista dell'Islam e sull'applicazione della sharia, la legge coranica. Sotto il loro controllo le donne erano sottoposte a un regime di segregazione e violenza, non potevano per esempio lavorare all'esterno delle mura domestiche, fatta eccezione per alcuni medici e infermiere, dovevano essere accompagnate da un mahram, un parente stretto, per uscire di casa, avevano l’obbligo di indossare il burqa, un velo integrale che copre anche il viso. Nel 2001 il regime dei talebani fu rovesciato dall’intervento militare americano.

Perché gli americani sono entrati in guerra in l’Afghanistan vent'anni?

L’11 settembre del 2001, due aerei pilotati da attentatori suicidi si schiantarono contro le torri Gemelle di New York, uno contro il Pentagono, in Virginia e un quarto areo precipitò in Pennsylvania grazie alla resistenza dei passeggeri. Morirono 2.977 persone, più di 6mila rimasero ferite. Gli attentati erano stati ideati, pianificati e realizzati dall’organizzazione terroristica islamista al Qaeda e dal suo leader, Osama Bin Laden. Il comando centrale di Al Qaeda e le basi principali dell’organizzazione erano in Afghanistan sotto la protezione dei talebani. Gli Stati Uniti guidati dal presidente repubblicano George W. Bush decisero di intervenire militarmente, disperdendo i talebani e instaurando a Kabul un nuovo governo che si insediò dopo l’approvazione di una nuova costituzione e le elezioni presidenziali dell'ottobre 2004, le prime libere nella storia dell’Afghanistan vinte da Hamid Karzai.

Nel 2009 il presidente democratico Barack Obama approvò un consistente aumento delle truppe nel Paese, portandole a 140mila uomini, per stroncare il tentativo dei talebani di riorganizzarsi.

Nel 2011 le forze speciali americane, i Navy Seals, catturarono e uccisero il leader di al Qaeda, Osama Bin Laden, che si era rifugiato in Pakistan, ad Abbottabad. Ma gli attacchi dei talebani sono continuati e dal 2015, un anno dopo la fine della missione di combattimento della Nato, hanno ricominciato a conquistare terreno e forza.

Quante vittime ha fatto la guerra in Afghanistan?

Non esistono cifre precise e definitive delle vittime del conflitto, la Brown university stima che in totale, tra vittime dirette e indirette del conflitto in Afghanistan e in Pakistan, siano state uccise 240mila persone in 20 anni, 70mila uomini e donne delle forze di sicurezza afghane, più di 3.500 soldati della coalizione, due terzi dei quali americani. L’Italia ha perso in guerra 53 soldati. Più di 4 milioni di afghani hanno lasciato il Paese e vivono per la maggior parte nei Paesi confinanti, in primis Iran e Pakistan.

Perché gli Usa hanno deciso di trattare con i talebani?

La guerra in Afghanistan è stata la guerra più lunga combattuta dagli americani e ha attraversato quattro presidenze: iniziata con il repubblicano George W. Bush, è proseguita con il democratico Barack Obama. L’arrivo del repubblicano Donald Trump alla presidenza nel 2016 ha impresso una svolta: “Le grandi nazioni non possono combattere guerre senza fine”, disse, promettendo il ritiro delle truppe Usa dal Paese.

L’uscita dall’Afghanistan, secondo Trump, passava per i negoziati con i talebani. Nel febbraio 2020, dopo quasi due anni di trattative, gli Stati Uniti hanno concluso a Doha un accordo che li impegnava a ritirarsi dal Paese in cambio dell’assicurazione da parte dei talebani che l’Afghanistan non sarebbe più stata la piattaforma per il terrorismo internazionale. 

Perché i talebani hanno riconquistato terreno?

L’accordo di Doha prevedeva anche l’avvio di un dialogo intra-afghano con il governo di Kabul e i talebani per arrivare a una spartizione pacifica del potere e a una soluzione negoziata che rispettasse i principi democratici della costituzione afghana, i diritti delle donne, delle minoranze. Questo dialogo non è mai iniziato e quando il nuovo presidente Usa, il democratico Joe Biden, ha annunciato ad aprile il ritiro di tutte le truppe i talebani hanno sfruttato il momento per ricominciare la guerriglia e lanciarsi alla conquista del Paese. Nonostante siano numericamente inferiori finora hanno prevalso contro l’esercito regolare afghano. In venti anni gli americani hanno speso 87 miliardi di dollari solo per addestrate le l’esercito e le forze dell’ordine afgane. La guerra è costata agli Usa circa 2,26 trilioni di dollari. Quando Biden ha deciso il ritiro completo entro la data simbolica dell'11 settembre, gli americani avevano già ridotto di molto la loro presenza sul terreno. In Afghanistan rimanevano tra i 2mila e i 3mila soldai con funzioni per lo più di intelligence. Un presidio sostenuto dall'aviazione americana che funzionava come deterrente e aveva impedito ai talebani di avviare una nuova campagna militare.

Qual è stato il ruolo dell’Italia nella guerra in Afghanistan?

L’Italia è entrata in guerra accanto agli alleati Nato il 30 ottobre del 2001. Il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi. L’impegno militare è durato 20 anni ed è stata la guerra più lunga combattuta dagli italiani, costata almeno 8,5 miliardi di euro e soprattutto 53 vite umane. La base operativa del contingente italiano era a Herat, caduta nelle mani dei talebani due giorni fa. Appena poche settimane prima, il 12 luglio, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini aveva annunciato il ritiro di tutti i soldati italiani in anticipo rispetto al previsto.

Marta Serafini per il Corriere.it il 16 agosto 2021. Dopo oltre 20 anni di missione internazionale in Afghanistan, il Paese è tornato sotto il controllo dei talebani, spodestati nel 2001. Anche la capitale Kabul è caduta in queste ore nelle mani delle forze di opposizione. Il presidente Ashraf Ghani, che sabato ha parlato alla nazione per la prima volta dall’inizio dell’offensiva, ha lasciato il Paese. I signori della guerra con cui ha negoziato pochi giorni prima si sono arresi ai talebani o sono fuggiti, lasciando Ghani senza un’opzione militare. Anche i negoziati in corso in Qatar non sono riusciti a fermare l’avanzata degli insorti. Migliaia di civili ora sono accampati nei parchi e negli spazi aperti della stessa Kabul, temendo per il loro stesso futuro. Intanto nella capitale alcuni bancomat hanno smesso di distribuire contanti mentre centinaia di civili si sono radunati davanti alle banche, per ritirare i risparmi di una vita e ingorghi di auto in fuga hanno bloccato le strade. Momenti tragici che all’inizio della giornata hanno visto il presidente Ghani affidare l’autorità di risolvere la crisi nel Paese ai leader politici. E domani una delegazione si recherà a Doha per colloqui sulla situazione del Paese. La delegazione comprende leader politici chiave, tra cui Younus Qanooni, Ahmad Wali Massoud, Mohammad Mohaqiq. Fonti vicine ai talebani hanno affermato che è stato concordato che Ghani si dimetterà dopo un accordo politico e consegnerà il potere a un governo di transizione.

Qui di seguito gli aggiornamenti minuto per minuto. Ore 9.36 «I talebani sono entrati nella capitale da tutti i lati». A dirlo sono - secondo Reuters - il ministro degli Interni afghano. Kabul è dunque ufficialmente sotto controllo delle forze di opposizione.

Ore 9.53 E continua negli stessi momenti concitati l’evacuazione dell’ambasciata statunitense, simbolo di quella che le forze di opposizione chiamano occupazione durata 20 anni. Elicotteri sono atterrati vicino all’ambasciata mentre veicoli diplomatici lasciano il complesso. Secondo fonti Usa meno di 50 persone dello staff rimarranno per il momento.

Ore 9.56 Anche il resto del Paese è ormai sotto controllo dei talebani. Con la capitolazione di Mazar-i-Sharif, Maymana e Jalalabad - quinta città più grande dell’Afghanistan - sono arrivati a 26 i capoluoghi di provincia caduti in mano ai talebani, che controllano ormai tutte le maggiori città afghane, tranne Kabul. Tutte le strade principali nella capitale, riportano fonti sul posto, sono chiuse e la città è di fatto circondata. La maggior parte delle città si è arresa senza combattere, riporta l’emittente Tolo News, secondo la quale ormai solo le province di Kabul, Parvan, Kapisa, Panjshir, Maidan Vardak, Khowst, Nuristan e Bamyan sono sotto il controllo del governo centrale.

Ore 9.57 Un funzionario afghano ha confermato all’Ap anche la caduta del capoluogo di provincia di Khost.

Ore 9.58 il Pakistan intanto ha chiuso i valichi di frontiera presi dai talebani riaperti nei giorni scorsi per permettere agli sfollati di lasciare il Paese.

Ore 10.06 «Non vogliamo che nessun civile innocente sia ucciso o ferito mentre prendiamo il controllo. Ma non abbiamo ancora dichiarato un cessate il fuoco», ha dichiarato un portavoce talebano a Reuters 

Ore 10.11 L’ufficio stampa del palazzo presidenziale dell’Afghanistan ha negato l’attacco dei talebani a Kabul, affermando che in alcune parti di Kabul si sono verificati solo sporadici colpi di pistola. Ma è evidente come ormai la situazione sia fuori controllo. In un tweet l’ufficio del presidente ha detto che le forze di sicurezza hanno la situazione sotto controllo.

Ore 10.11 Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto di aver parlato con il presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani «per discutere dell’attuale situazione della sicurezza e dei nostri urgenti sforzi diplomatici e politici per ridurre la violenza». Lo riferisce Tolo News.

Ore 10.12 Diversi membri dello staff dell’Ue sono stati trasferiti in una località segreta e più sicura a Kabul. Lo riferiscono fonti della Nato, citate dalla Reuters

Ore 10.21 I talebani hanno preso sotto controllo l’università di Kabul, nella parte occidentale della capitale afghana e hanno innalzato la loro bandiera i un quartiere della città. Lo riporta l’agenzia russa Ria Novosti, citando sue fonti, immagini su Twitter non confermate mostrano i talebani innalzare la loro bandiera sull'edificio.

Ore 10.37 «I talebani sono all’ingresso di Kabul». I mujahideen non hanno ucciso o ferito nessuno ha detto un rappresentante dei talebani a Doha alla Reuters.

Ore 10.42 «L’Emirato islamico ordina a tutte le sue forze di attendere alle porte di Kabul, di non tentare di entrare in città». Lo scrive su Twitter Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, come riporta Afp. Una fonte residente in un quartiere della capitale afghana ha comunque detto a Af che «vi sono combattenti talebani armati nella zona, ma non vi sono combattimenti».

Ore 10.54: il presidente afghano Ghani ha fatto sapere di aver iniziato colloqui di emergenza con il rappresentante statunitense a Doha Khalilzad e i massimi funzionari della Nato.

 Ore 11.09 Kabul non sarà attaccata e la transizione avverrà pacificamente. Lo ha assicurato il ministro dell’Interno afghano ad interim, Abdul Sattar Mirzakwal, in un video twittato da Tolonews. Il ministro ha anche assicurato che le forze di sicurezza garantiranno l’incolumità dei cittadini.

Ore 11.18 Sono iniziate questa mattina le operazioni per il rientro in Italia del personale dell’ambasciata a Kabul e dei connazionali presenti in Afghanistan. A quanto si apprende, la partenza del volo è prevista per le 21.30 locali. Ieri, l’appello della Farnesina, tramite una mail mandata agli italiani presenti in Afghanistan, a ritornare in Italia tramite il volo messo a disposizione dall’Aeronautica militare. Per ora, viene confermato un «presidio dell’ambasciata» all’aeroporto di Kabul, anche se la valutazione a riguardo è in continuo aggiornamento in base alla situazione sul campo.

Ore 11.20 Talebani sono diretti al a palazzo presidenziale per trasferimento del potere.

Ore 11.39 Ci sarà un «pacifico passaggio di poteri verso un governo di transizione». Lo ha assicurato il Ministro dell’Interno afghano nei momenti convulsi.

Ore 12.04 Nell’imminenza della presa del potere da parte dei talebani, la gente sta scappando da Kabul anche in auto, causando lunghe code di traffico in uscita dalla città. Lo riporta la Bbc mostrando le immagini della fuga. I talebani sono alla periferia della capitale, ma hanno ordinato ai loro combattenti di astenersi dal perpetrare violenze e di consentire un passaggio sicuro a chiunque scelga di andarsene. Alcune persone, secondo quanto viene riferito, abbandonano i veicoli fermi in coda e proseguono a piedi verso l’aeroporto.

Ore 12.06 «Il popolo dell’#Afghanistan non ti dimenticherà mai. Hai iniziato tutto questo e noi lo continueremo, seguendo il tuo esempio». Kabul, ospedale di EMERGENCY, ieri. Così il tweet postato da Emergency dall’ospedale della capitale afghana in ricordo del fondatore Gino Strada scomparso venerdì

Ore 12.26 Un funzionario afghano ha riferito che le forze della base aerea di Bagram, sede di una prigione che ospita 5.000 detenuti, si sono arrese ai talebani. Il capo del distretto di Bagram, Darwaish Raufi, ha riferito che la resa ha consegnato l’ex base americana già lasciata dalle forze statunitensi a luglio agli insorti. La prigione ha avuto tra i suoi detenuti sia i talebani che i combattenti del gruppo dello Stato Islamico.

Ore 12.54 L’ex ministro dell’Interno afghano ed ex ambasciatore in Germania Ali Ahmad Jalali, guiderà il governo di transizione dopo le dimissioni del presidente Ghani. Lo riportano fonti diplomatiche citate da diversi media internazionali.

Ore 12.55 Il portavoce dei talebani ha annunciato che anche Bamiyan è caduta: la città e la sua valle sono famose per i Buddha distrutti proprio dai talebani esattamente 20 anni fa, nel 2001.

Ore 13.01 Un portavoce talebano ha assicurato che alle donne sarà concesso avere accesso all’educazione, lavorare e indossare l’hijab.

Ore 13.17 Il presidente afghano, Ashraf Ghani, ha chiesto alle forze governative di mantenere la sicurezza a Kabul, dopo che i talebani sono arrivati praticamente al centro della capitale. «È nostra responsabilità e lo faremo nel miglior modo possibile; chiunque pensi a caos, razzie e saccheggi amenti sarà contrastato con la forza», ha detto Ghani in un video messaggio.

Ore 13.18 Secondo quanto riporta la Cnn che cita due fonti informate sui fatti gli Stati Uniti ritireranno completamente tutto il personale dall’ambasciata a Kabul, compresi gli alti funzionari nelle prossime 72 ore. La maggior parte dei diplomatici andrà all’aeroporto di Kabul e poi tornerà negli Usa. Un piccolo numero di membri del personale di base, incluso il massimo diplomatico statunitense nel Paese, rimarrà per ora all’aeroporto di Kabul, hanno detto le fonti. Ciò significa che l’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul sarà chiusa, almeno per il momento, entro martedì, afferma Cnn.

Ore 13.20 La scorsa settimana il ministero della Difesa di Londra ha dichiarato che 600 soldati britannici sono stati schierati a Kabul per aiutare a evacuare circa 3.000 cittadini britannici e circa 2.000 afgani che hanno lavorato con le forze britanniche. Secondo quanto riferito, un aereo Hercules della Royal Air Force sarebbe volato fuori dall’aeroporto sabato trasportando diplomatici e civili. Il segretario alla Difesa Ben Wallace ha difeso la mossa del Regno Unito di ritirare le truppe dal Paese. Scrivendo sul Sunday Telegraph, ha detto «non abbiamo tradito l’Afghanistan».

Ore 13.44 Un certo numero di alti funzionari afgani, tra cui alcuni consiglieri del presidente Ashraf Ghani, sono arrivati nella sala vip dell’aeroporto di Kabul in attesa di un volo. Lo riferisce alla Cnn una fonte dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai ma l’emittente non ha saputo stabilire la loro destinazione. Stamani un volo Air India proveniente da Delhi è atterrato all’aeroporto, secondo i dati dei tracciamenti di volo. Un aereo Emirates in arrivo da Dubai ha invece evitato l’atterraggio e ha proseguito il volo.

Ore 14.00 Il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha riferito che gli insorti vogliono che nei prossimi giorni «le persone riprendano le loro normali attività», e che «non c’è vendetta contro tutti coloro che lavorano con l’amministrazione di Kabul o con le forze straniere». Lo riporta il Guardian, citando dichiarazioni del portavoce alla Bbc. «Vogliamo che tutte le ambasciate continuino il loro lavoro, non ci saranno rischi per i diplomatici... tutti dovrebbero continuare il lavoro che stavano facendo in passato», ha aggiunto. «Chiediamo a Ghani e ad altri leader di lavorare con noi», ha affermato il portavoce. 

Ore 14:01 «Durante il comitato per la sicurezza abbiamo saputo della presa di Kabul da parte dei talebani. Abbiamo fatto un focus sul problema dell’accoglienza degli afgani che hanno collaborato con gli italiani in Afghanistan». Lo ha detto il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a Palermo. «Finora abbiamo accolto - ha aggiunto - 228 persone. La situazione comporterà un’accelerazione dell’accoglienza».

Ore 14.08 Il rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan Zalmay Khalilzad ha chiesto che i combattenti talebani non entrino a Kabul fino a quando i cittadini statunitensi non saranno evacuati, secondo una fonte vicina alle discussioni. Lo riferisce Cnn. I talebani sono attualmente in trattative per una resa pacifica della capitale e stanno dicendo ai loro combattenti di rimanere in attesa ai margini della città mentre si circa una transizione pacifica del potere, ha detto un portavoce dei talebani. Gli Stati Uniti hanno accelerato l’evacuazione della loro ambasciata a Kabul e sperano di completare il processo entro le prossime 72 ore.

Ore 15.12 Gli Usa stanno spostando l’ambasciata all’aeroporto di Kabul secondo quanto riferito dal Segretario di Stato Antony Blinken

Ore 15.13 Una delegazione di alto livello del governo afghano si recherà a Doha «presto» per avviare i colloqui con i talebani. A riferirlo alla Cnn è una fonte a conoscenza dei colloqui intra-afghani. «La situazione sta cambiando di minuto in minuto, ma potremmo aspettarci che una delegazione del governo afghano che ha più potere e autorità si rechi presto a Doha», ha detto la fonte. La delegazione dovrebbe tenere colloqui con i rappresentanti dei talebani.

 Ore 15.15. La Germania ha chiuso la sua ambasciata a Kabul. «La situazione della sicurezza è deteriorata in modo drastico. L’ambasciata tedesca a Kabul si è chiusa da oggi», ha comunicato il ministero degli Esteri tedesco che ha ribadito l’appello ai connazionali a lasciare l’Afghanistan. Secondo Bild am Sonntag, Berlino invierà domani diversi A400M da trasporto militare con a bordo ognuno 30 paracadutisti per evacuare lo staff dell’ambasciata e gli afghani che hanno collaborato con la Germania.

Ore 15.21 «A seguito del deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan, nei giorni scorsi, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha richiesto al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Enzo Vecciarelli che, con la massima urgenza, venissero evacuati il personale diplomatico dell’ambasciata Italiana a Kabul e i nostri connazionali, contestualmente ha disposto l’accelerazione del trasferimento in Italia dei collaboratori afghani». Lo sottolinea in una nota lo Stato maggiore della Difesa.

Ore 15.22 Quanto sta avvenendo a Kabul «non è Saigon». Lo ha dichiarato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, sottolineando che in Afghanistan gli Stati Uniti hanno portato a termine la missione di fermare gli attacchi contro l’America.

Ore 15.59 I vertici dei talebani hanno ordinato ai combattenti di entrare a Kabul per prevenire caos e saccheggi. Lo riferisce al Jazeera.

Ore 16.01 Il presidente Ghani ha lasciato il Paese secondo quanto confermato ad Ap da due rappresentati, uno del suo governo e l’altro del governo Karzai. Ghani è partito per l’estero oggi. Con lui, riferisce Tolonews, anche i suoi stretti collaboratori, tra cui il vicepresidente Amrullah Saleh. Ghani si sarebbe trasferito in Tagikistan, secondo media locali.

Ore 16.58 La Russia è pronta a cooperare con il governo di transizione afghano e sta partecipando «molto attivamente» ai contatti politici in corso tra i talebani e le altre fazioni. Lo ha dichiarato l’addetto stampa dell’ambasciata russa a Kabul, Nikita Ishchenko.

Ore 17.15 - A dispetto delle dichiarazioni delle prime ore, l’ingresso dei talebani a Kabul è accompagnato da diffuse sparatorie. Testimoni di queste violenze sono i medici di Emergency, l’organizzazione fondata da Gino Strada che mantiene aperto il suo ospedale nella capitale afghana. «Arrivati nel nostro ospedale oltre 40 feriti, la maggior parte proviene dalla zona di Qarabagh» dice Emergency in un tweet.

Ore 17.45 - I comandanti talebani hanno preso il controllo del palazzo presidenziale a Kabul. Lo scrive l’agenzia Reuters su Twitter.

Ore 18.00 - Sparatorie sarebbero in corso anche nella zona dell’aeroporto di Kabul. Un’allerta è stato diramato dall’ambasciata Usa. Proprio in aeroporto si stanno concentrando in queste ore i cittadini stranieri - compresi gli italiani - in procinto di lasciare l’Afghanistan. I funzionari americani hanno ordinato ai connazionali della zona di mettersi al riparo, poiché «la situazione della sicurezza a Kabul sta cambiando rapidamente».

Ore 18.15 - La bandiera americana all’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul è stata rimossa. L’ambasciatore Usa e la bandiera sarebbero ora all’aeroporto di Kabul, unica via d’uscita dall’Afghanistan. Lo riporta il Guardian. La sede diplomatica ha anche annunciato di aver sospeso con effetto immediato tutte le operazioni consolari.

Ore 19.05 - Caos all’aeroporto di Kabul, alla ricerca di voli per lasciare il Paese. La Bbc riferisce di un vero e proprio «assalto» alla zona per i cittadini afghani. La gente è stata vista correre verso gli aerei sulla pista, secondo i racconti dei testimoni oculari. Ci sono pochissime persone rimaste per il personale della compagnia aerea e i banchi dell’immigrazione, scrive la Bbc. sul suo sito. All’aeroporto sospesi tutti i voli commerciali.

Ore 19.20 - I talebani proclameranno a breve la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Lo riferisce l’agenzia di stampa Press association, citando una fonte dei talebani, secondo cui la dichiarazione verrebbe fatta dal palazzo presidenziale di Kabul.

Ore 20.30 - La bandiera dei talebani sventola sul palazzo presidenziale di Kabul. È la prova visibile del cambio di potere ai vertici dello Stato. L’ex presidente Ghani, fuggito all’estero, ha parlato su Facebook con un video: «I talebani hanno vinto... e ora sono responsabili dell’onore, della proprietà e della tutela dei loro connazionali» ha affermato. Ghani che non ha riferito dove si è recato dopo aver lasciato l’Afghanistan, ha detto di credere che «innumerevoli patrioti sarebbero stati martirizzati e la città di Kabul sarebbe stata distrutta» se fosse rimasto nel Paese.

Ore 22 - Parlando con la tv araba Al Jazeera, il portavoce dei talebani ha detto che «abbiamo raggiunto ciò che volevamo: la libertà e l’indipendenza per il nostro Paese. Presto saranno chiari il tipo di governo e le forme del regime in Afghanistan»»

Ore 22.35 - «In questo momento il volo dell’aeronautica militare con a bordo i nostri connazionali è partito da Kabul», ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a RadioUno Rai. «Sul volo un centinaio di italiani, priorità proteggere connazionali» ha aggiunto, precisando che nei prossimi giorni verranno effettuati altri collegamenti e che a Kabul l’Italia manterrà un «presidio diplomatico» in aeroporto.

Lunedì, ore 00.01 - Il KC767 dell’Aeronautica Militare partito da Kabul sta riportando in Italia anche alcuni ex collaboratori afghani, oltre al personale diplomatico e ad alcuni connazionali. Il velivolo arriverà all’aeroporto di Fiumicino in mattinata.

Ore 2.48 - Gli Stati Uniti hanno ammainato la bandiera sulla loro ambasciata a Kabul e hanno trasferito quasi tutto il personale all’aeroporto, dove le forze statunitensi stanno assumendo il controllo della sicurezza per garantire le partenze degli americani e degli altri occidentali dalla capitale afghana ormai in mano dei talebani. «Stiamo completando una serie di misure per rendere sicuro l’aeroporto internazionale di Hamid Karzai per consentire la partenza sicura del personale statunitense e alleato dall’Afghanistan tramite voli civili e militari», hanno affermato il Pentagono e il Dipartimento di Stato in una dichiarazione congiunta.

Ore 4.30 - L’esercito americano ha «messo in sicurezza» l’aeroporto di Kabul, dove il personale dell’ambasciata si è raccolto in attesa dell’evacuazione dopo che la capitale è stata conquistata dai talebani: lo ha annunciato il Dipartimento di Stato. «Possiamo confermare che l’evacuazione sicura di tutto il personale dell’ambasciata è stata completata», ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price in una nota. «Tutto il personale dell’ambasciata si trova nell’aeroporto internazionale di Hamid Karzai, il cui perimetro è protetto dalle forze armate statunitensi».

Ore 4.34 - La Russia non evacuerà la sua ambasciata a Kabul. Fonti diplomatiche hanno fatto sapere all’agenzia stampa Ria-Novosti: «L’evacuazione dell’ambasciata non è in programma» ha detto Zamir Kabulov, inviato speciale di Putin per l’Afghanistan. «Sono in contatto con l’ambasciatore che sta lavorando e segue gli sviluppi degli eventi». Secondo il diplomatico i talebani avrebbero comunque garantito a Mosca la sicurezza della sede diplomatica. Lo stesso ambasciatore ha in programma un incontro con i talebani, hanno fatto sapere dall’ambasciata.

Ore 7.41 - Arriverà nel primo pomeriggio a Roma il primo volo dell’aeronautica militare con a bordo i nostri connazionali, ma anche una ventina di cittadini afghani, partito ieri sera da Kabul.

Afghanistan, gli ultimi giorni di Kabul. La capitale che aspetta l’arrivo dei talebani, la crisi umanitaria che assume la sua forma più brutale, le grida di dolore unite al pianto della fame. Il racconto della città che si arrende e le storie di chi è già condannato a morte. Francesca Mannocchi su La Repubblica il 20 agosto 2021.

5 AGOSTO 2021, LAGHMAN

Dall’alto della collina arriva il suono dei combattimenti. «Sono le dieci del mattino, è strano. Di solito combattono di notte, per questo siamo terrorizzati quando cala il sole: non sappiamo se saremo vivi la mattina dopo». Zahidullah ha trent’anni, è stato nominato dagli anziani della comunità rappresentante per le famiglie scappate dalla provincia di Laghman, famiglie che oggi vivono in un campo improvvisato a Metherlam, otto chilometri dal loro villaggio, Alinghar. I talebani hanno preso il controllo di quattro distretti della provincia di Laghman pochi giorni prima e per tutti gli abitanti dei villaggi l’unica soluzione è stata scappare via. Le crisi umanitarie di questi anni ci hanno abituato a immagini di campi per sfollati: le tende bianche delle agenzie delle Nazioni unite, i bagni chimici, i bidoni dell’acqua con i loghi delle Ong che si occupano della sanificazione, cancelli e recinzioni che proteggano le persone. A Metherlam tutto questo non c’è. Il campo sorge su una distesa di terra arida sul ciglio della strada principale che dal centro città conduce ai monti: da una parte le forze di sicurezza dell’esercito afghano che provano a resistere, dall’altra i talebani. In mezzo i civili, siano essi abitanti della città o sfollati interni giunti qui dopo l’inizio dei combattimenti, dunque doppiamente vulnerabili. A Metherlam non ci sono tende ma lenzuola, lembi di stoffa, veli femminili tenuti in piedi da pezzi di legno. Le donne e i bambini si riparano cercando un frammento di ombra per proteggersi dalle temperature che possono raggiungere anche i 45-47 gradi. Negli ultimi due mesi sono arrivate piu’ o meno duecento famiglie, approssimativamente 1.500 persone: alcune vivono accampate sui terreni, altre hanno trovato riparo negli edifici in costruzione. La casa di Zabidullah, a Alinghar, era sulla linea del fronte, è stata danneggiata dai colpi d’artiglieria pesante. Come quella di Berhem, 60 anni. Mostra due fotografie, una ritrae casa sua e una il bestiame. Ha perso sia l’una che l’altro. Della sua vita di pastore non resta niente: «È una guerra sporca, più sporca di quelle del passato. Nessuno combatte nel nome dell’Islam, l’Islam è una religione di pace», dice. La comunità ha perso uomini, donne e bambini. Ogni tenda improvvisata ospita i sopravvissuti e la storia di una perdita. Le giornate sono scandite dai sacrifici per la sopravvivenza. «Nessuno ci aiuta se non i vicini che ci portano cibo e acqua per i bambini quando possono. Ma qui non arriva nessuno a portare supporto», dice Zabidullah. Significa che non arrivano le organizzazioni umanitarie, né le Nazioni unite, troppo pericoloso. Un’ assenza scritta sulle ferite degli adulti e sulla pelle dei bambini. Tutti sporchi, molti malati. «Come si lavano i bambini?». «Non li laviamo, quando è proprio necessario li portiamo al pozzo dei vicini». Fatima è stesa in tenda con due bambine, il marito è rimasto ucciso nei combattimenti. «Che farò, ora, da sola?», una domanda che si ripete, un’eco in ogni tenda con donne sole e bambini. Rahimullah, 35 anni, ha perso suo fratello, oggi tocca a lui prendersi cura della vedova e dei bambini. Habiba, 45 anni, invece si prende cura di suo marito Chenargul, che ha 50 anni ma ne dimostra 80, non parla, ascolta e piange. È gravemente malato, respira a stento, ma nel campo non arrivano neppure le medicine. «Non ci sentiamo sicuri, la notte scorsa i talebani hanno attaccato i mezzi dell’esercito proprio qui, lungo la strada. Abbiamo abbandonato le nostre case per sopravvivere ma non siamo al sicuro. Se arrivano e ci catturano, se prendono le nostre donne, come possiamo difenderci? Non abbiamo un altro posto dove andare. Non c’è via di scampo in Afghanistan», dice Zabidullah. L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati, stima che dall’inizio dell’anno circa 400 mila afghani siano stati sfollati a causa dei combattimenti, portando il totale degli sfollati interni a cinque milioni di persone. I numeri però sono difficilmente verificabili e molto fluidi, secondo l’Afghan independent human rights commission (Aihrc), solo negli ultimi tre mesi, dall’inizio dell’offensiva talebana, sarebbero invece 900 mila persone le persone sfollate solo da aprile a giugno, numero che rappresenta un aumento del 74 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’80 per cento degli afghani costretti a fuggire è composto da donne e bambini. Secondo un rapporto pubblicato il mese scorso congiuntamente dall’Ufficio delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr) e dalla Missione di assistenza delle Nazioni unite in Afghanistan (Unama), nella prima metà del 2021 sono state uccise e ferite più donne e bambini che nei primi sei mesi di qualsiasi anno dall’inizio delle registrazioni nel 2009. I combattimenti hanno anche creato nuove sfide nel raggiungere le comunità bisognose di assistenza alimentare, in un Paese in cui 18 milioni e mezzo di persone hanno già bisogno di assistenza umanitaria. 

7 AGOSTO 2021, KABUL

«Quando ho iniziato a studiare non volevo solo migliorare la mia vita, ma anche il mio Paese. Laurearmi qui è stato il mio modo di dire: voglio contribuire a un Afghanistan libero dall’oscurantismo. Ora siamo al punto di partenza». Sono centinaia i giovani, ben vestiti, istruiti, in coda all’ufficio passaporti di Kabul. Quando chiedi loro quali sono di mostrare i documenti che portano con sé, piegati con cura, chiusi in cartelle di plastica, la prima cosa che mostrano sono i certificati di laurea, i master, i corsi di lingua. Vogliono mostrare e dimostrare di aver studiato, che non avrebbero voluto partire, ma che ora non hanno scelta. Abdel Tahir ha 26 anni, è arrivato a Kabul da Laskargah. Prima di raccontare la sua fuga, mostra la laurea, è un ingegnere. Abdel Tahir parla ad alta voce, forse vuole che gli altri lo sentano o forse è solo un modo per sfogare la sua frustrazione. Quello che ha visto a Laskargah è l’ultima cosa di cui vuole parlare: «Del futuro, dovremmo parlare del futuro ma la nostra vita è un costante passo indietro nel passato». A Laskhargah suo padre aveva un’officina meccanica, distrutta dai combattimenti. Due giorni prima che Abdel Tahir fuggisse il loro vicino è stato ucciso dopo essere rimasto intrappolato in casa sua, occupata dai talebani. Il padre ha messo in tasca di Abdel Tahir dei risparmi, dicendo: «Vai a Kabul e cerca di salvarti, almeno tu». E così la vita di Abdel Tahir è diventata la vita di uno sfollato. Ora vive in una stanza in affitto a Kabul, i soldi stanno finendo e non ha un lavoro e dice: «È iniziata la mia vita da miserabile». Perché la guerra sta già facendo quello che fa sempre: far emergere speculatori. Prima un biglietto da Laskargah a Kabul poteva costare 5 dollari, ora costa almeno 13 dollari. Aumentano i prezzi di ogni cosa: il carburante, il pane, la farina. «Non voglio lasciare il Paese illegalmente ma non posso restare qui, vedendo i miei sacrifici e quelli della mia famiglia annientati da un gruppo di estremisti», dice Abdel Tahir. Dall’inizio dell’offensiva, a maggio, migliaia di afghani provano a ottenere visti e passaporti per lasciare il Paese, ogni giorno 2 mila persone si mettono in fila all’ufficio passaporti per rinnovare i documenti, migliaia sono in coda di fronte alle ambasciate in attesa di un visto, soprattutto quella iraniana. Anche Ghulam, 28 anni, è in coda dalle otto del mattino all’ufficio passaporti. È scappato dalla provincia di Helmand, a Kabul vive a casa di uno zio. «È la mia terra e questo ritiro delle truppe avrebbe dovuto essere un’opportunità per tutti, la prova che sappiamo prenderci cura del nostro Paese, soprattutto la mia generazione, cresciuta con l’idea che si potessero costruire e difendere diritti per tutti. Invece quell’opportunità è diventata una trappola. Chi avrebbe dovuto aiutarci ci ha tradito». Parla della vita a Kabul da sfollato come di una vita da reietto, sempre in attesa dell’aiuto di altri, sempre costretto a chiedere qualcosa: «Non posso restare ospite a casa d’altri, la vita qui è troppo costosa e non posso permettermi di sostenere me stesso né tantomeno la mia famiglia. So che lasciare il Paese è solo questione di tempo, non esiste un posto sicuro in Afghanistan». Ghulem ha provato a chiedere un visto per la Turchia, in tempi normali la procedura costava 140 dollari, oggi le procedure di visto solo bloccate. L’unica via è comprarlo al mercato nero. Per seimila dollari. Secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nelle ultime settimane il numero di afghani che hanno attraversato il confine illegalmente è aumentato di circa il 30-40 per cento rispetto al periodo precedente al ritiro delle truppe internazionali a maggio. Almeno 30mila persone fuggono ogni settimana. La stragrande maggioranza dei rifugiati afghani registrati vive nei paesi confinanti: Iran e Pakistan, che ospitano due milioni e mezzo di persone anche se i numeri non ufficiali sono considerati molto più alti. 

8 AGOSTO 2021, JALALABAD

Parwan Firozi ha 27 anni. È un giovane dal viso scavato, le rughe gli segnano la fronte. È magro, molto magro. Arriva a Jalalabad da Laghman, dopo aver guidato per cinquanta chilometri. Il suo villaggio è ormai da mesi sotto il controllo dei talebani, così come le strade che attraversano la campagna. Incontrarlo lì, quindi, non sarebbe stato possibile. Meglio qualche ora al sicuro, nascosti a Jalalabad. Nessuno deve vedere che incontra gli stranieri. Se i talebani lo sapessero, lo ucciderebbero, considerandolo un collaboratore degli infedeli. Parwan, tornato in Afghanistan dopo aver lavorato in Germania, costretto a nascondersi perché considerato infedele. Parwan è il più giovane di sei figli. Dieci anni fa, quando era ancora minorenne, la sua famiglia ha raccolto fondi per dargli la possibilità di viaggiare in Europa. Come spesso accade, il più giovane diventa il progetto di un intero gruppo familiare: Parwan sarebbe arrivato in Europa, avrebbe trovato lavoro e da lì avrebbe aiutato economicamente la sua famiglia di pastori e contadini: «L’insicurezza, la povertà e il nostro nemico interno, i talebani, mi hanno spinto fuori dal Paese», racconta, ricordando la paura e l’instabilità che la sua terra, l’Afghanistan, viveva già dieci anni fa.

Il padre gli ha dato soldi sufficienti per raggiungere l’Iran, dove già viveva e lavorava uno dei fratelli che ha pagato il resto: il viaggio con i trafficanti che lo ha portato dall’Iran alla Turchia e da lì all’Europa. Destinazione Heilbronn, Eppingen, Germania. Parwan chiede asilo, ottenendolo in fretta e inizia a lavorare, prima in un ristorante, poi come muratore e carpentiere. Sempre in regola, lo sottolinea, sempre amato da tutti e da tutti rispettato. Per anni, dice, «non mi sono sentito sentito discriminato ma accolto». Ha studiato tedesco, si sentiva un cittadino tedesco, un cittadino europeo. «Avevo tutto, avevo tutto ciò che un ragazzo di vent’anni potesse desiderare. La libertà, un lavoro, degli amici». La sua vita precedente è ferma nelle fotografie memorizzate sul suo telefono. Guardando quelle fotografie è quasi impossibile riconoscere il volto del ragazzo che oggi è seduto in una stanza d’albergo a Jalalabad, spaventato dal primo rumore, sempre a guardarsi le spalle. Nel 2018, mentre lavorava in un cantiere edile, ha perso due dita di una mano: «Si sono presi cura di me, ho avuto le indennità che spettano a un lavoratore in regola, ero un cittadino come gli altri», ricorda. Poi improvvisamente tutto è cambiato. Due anni fa è stato convocato dall’ufficio di polizia di Heilbronn: qualche multa non pagata, qualche rata delle tasse ancora da versare. Rischiava l’espulsione, gli hanno detto. Parwan, spaventato dalla possibilità di essere riportato in Afghanistan perde il controllo, insulta i funzionari pubblici, cerca di picchiarli. «Avevo paura, quella non era più la Germania che mi aveva accolto anni prima, i sentimenti verso noi profughi erano cambiati. Lo sentivo dagli sguardi, gli occhi su di me non erano più quelli di un tempo. In pochi anni noi stranieri, anche gli esuli, gli integrati, siamo passati dall’essere parte di una comunità a essere ospiti indesiderati». Il giorno dopo la sua convocazione all’ufficio di polizia, due soldati l’hanno prelevato da casa e portato all’aeroporto. Era arrivato l’ordine di espulsione. Parwan non ha avuto tempo di contattare un avvocato per provare a fare appello. Gli hanno consegnato una lettera con la decisione di rimpatrio e un biglietto, destinazione Kabul, insieme a lui altri 17 cittadini afghani. «Sono partito da un Paese che consideravo ormai casa, e sono tornato a una vita sconosciuta. Oggi la mia esistenza è un buco nero». Delle prime settimane dopo il suo ritorno, ricorda il rifiuto della comunità e dei suoi fratelli che vedono in lui non la tragedia della deportazione ma l’onta del fallimento, tornato al villaggio con un fallimento sulle spalle, senza soldi, senza lavoro. Delle prime settimane ricorda il terrore dei talebani che aveva cercato di dimenticare. In due anni il suo corpo e il suo viso sono cambiati. Non resta niente del ragazzo che era, l’immagine delle sue fotografie a Heilbronn si è dissolta, oggi Parwan è un uomo che si sente ostaggio nel suo stesso Paese. «I talebani hanno conquistato il mio villaggio, pochi mesi dopo la mia deportazione. Oggi cerco di uscire il meno possibile. Quelli come me, che hanno vissuto in Occidente, si nascondono. Siamo macchiati, siamo considerati infedeli». Tornare al villaggio per Parwan è stato prendere una macchina del tempo, tornare all’oscurantismo da cui era fuggito: «Stanno convincendo le persone di essere magnanimi, provvedono ai bisogni della gente per rafforzare il consenso, ma non sono cambiati. I talebani sono gli stessi di dieci anni fa. Se non peggio. Radunano le persone nelle campagne, improvvisano tribunali islamici per giudicare coloro che considerano peccati e punirli». Alza i pantaloni, mostra i segni delle cicatrici che porta sulle gambe. «Hanno sparato anche a me, perché mi sono rifiutato di combattere. Temo che la mia morte sia solo questione di tempo». Il mese scorso, l’allora governo afghano di Ghani aveva invitato le nazioni europee a fermare le deportazioni alla luce dell’avanzata talebana. «Dobbiamo espellere il più a lungo possibile», ha detto martedì scorso il ministro degli interni austriaco Karl Nehammer. L’Austria insiste sulle deportazioni anche dopo la presa di Kabul, suggerendo di istituire centri di espulsione. L’Austria è stato uno dei sei Stati membri dell’Unione europea che la scorsa settimana ha messo in guardia la Commissione europea dal fermare la deportazione dei richiedenti asilo afgani respinti che arrivano in Europa. Da allora, tre dei sei (Danimarca, Germania e Paesi Bassi) hanno invertito la rotta. Ma l’atteggiamento europeo verso la grave crisi umanitaria afgana dimostra, una volta ancora, paura e incapacità di gestione. Il giorno dopo la caduta di Kabul, Armin Laschet, candidato alla carica di cancelliere tedesco dell’Unione democratica cristiana (Cdu) ha dichiarato che la principale priorità dell’Ue dovrebbe essere quella di impedire ai rifugiati afghani in fuga di raggiungere l’Europa: «Il 2015 non dovrebbe ripetersi», facendo riferimento alla cosiddetta crisi che sei anni fa portò un milione di persone per lo più siriane ad attraversare la Turchia, la Grecia e i Balcani per raggiungere l’Europa. Analogamente, nel primo discorso pubblico dopo la presa del potere dei talebani, il presidente francese Macron ha detto: «Dobbiamo anticipare e proteggerci dai grandi flussi migratori irregolari». «L’Europa sarà all’altezza», ha detto il premier Mario Draghi. Intanto, l’Europa sta a guardare. Prende le misure con i talebani al potere, ipotizza accordi con paesi terzi, i paesi confinanti per bloccare i profughi. Una storia già vista. L’Unhcr ha pubblicato il 17 agosto un avviso di non ritorno per l’Afghanistan, chiedendo un divieto di rimpatrio forzato dei cittadini afgani, compresi i richiedenti asilo la cui richiesta è stata respinta. «Gli Stati hanno la responsabilità legale e morale di consentire a coloro che fuggono dall’Afghanistan di cercare sicurezza e di non rimpatriare forzatamente i rifugiati», scrive Unhcr.

Secondo i funzionari dell’Ue, dall’inizio del 2021, 1.200 persone sono state rimpatriate dall’Unione europea verso l’Afghanistan. 

12 AGOSTO 2021, KABUL

I talebani hanno ormai circondando il paese, tengono sotto assedio le città. Controllano i valichi di confine, passaggi strategici perché conquistare i confini equivale a controllare i traffici che li attraversano. L’aumento dell’inflazione si avverte soprattutto nella capitale, Kabul, città pensata per ospitare mezzo milione di persone ma che accoglie, oggi, piu’ di quattro milioni di abitanti. Pochi tra gli sfollati quelli che possono pagare un affitto, è aumentata la domanda, sono aumenti i prezzi. Per molti non sostenibili. Chi non può finisce in sistemazioni di fortuna, come quelle nella zona Pd5 alla periferia della città. Insediamenti urbani che ospitano migliaia di persone, case di terra attraversate dalle acque di scolo. Abdul Ghfar è arrivato da Lashkar Gah, nell’Helmand, il piede segnato dall’esplosione di un ordigno. Nei combattimenti ha perso sua madre e da due settimane vive in una stanza con altre quattro persone, fuggite dalla parte meridionale del Paese come lui. Non ha lavoro, non ha soldi, casa sua oggi è una coperta grigia stesa a terra, in una stanza piena di mosche che ha l’odore di una latrina. Anche la gamba di Karham Kham è segnata dalla guerra, ma non da questa. Ha perso l’uso della gamba durante la guerra civile degli anni Novanta. Anche lui è scappato da Lashkar Gah da pochi giorni e vive nella zona Pd5 con i due figli e otto nipoti. «È il nostro destino, è il nostro destino. Sono troppo vecchio per andare via, troppo stanco per vedere un’altra guerra, ma di loro, dei bambini, che ne sarà?». Dall’inizio dell’anno, secondo i dati forniti dall’Unhcr, più di 550.000 afgani sono stati sfollati a causa dei combattimenti e della mancanza di sicurezza. Solo nelle ultime settimane sono arrivate a Kabul trentamila persone dalle città controllate dai talebani. L’escalation dei combattimenti ha anche reso più difficile e pericoloso per le organizzazioni umanitarie assistere le famiglie più bisognose, secondo Nrc (Norwegian refugee council), che ha affermato di avere difficoltà a fornire aiuti alimentari a 900 mila afgani, che equivalgono all’80 per cento dei progetti che hanno nel Paese, a causa del conflitto. 

13 AGOSTO 2021, KABUL

Sono le prime ore del pomeriggio quando arriva la notizia della morte di Gino Strada. Medici, infermieri si fermano. Si fermano anche i pazienti, tanti come sempre nelle corsie dell’ospedale di Kabul. Non si fermano le ambulanze, i feriti continuano ad arrivare dal fronte. Tre sono ragazzini. Said Moh-Agha, 13 anni, dalla provincia di Helmand. mentre andava a casa un proiettile lo ha colpito alla schiena recidendogli il nervo spinale. Non può più camminare. Said Moh-Agha ha tredici anni, è stato trasportato da Helmand. Tornava a casa da scuola quando un colpo di proiettile l’ha ferito al bacino. Non potrà piu’ camminare. Ma parla ancora. Vorrebbe essere medico anche lui. Vorrebbe che non ci fosse la guerra. Chissà che pensa mentre lo dice, lui che in Paese senza guerra non ha vissuto mai. Dal 2010 a oggi i ricoverati con ferite da guerra negli ospedali di Emergency in Afghanistan sono aumentati del 170 per cento. 

14 AGOSTO 2021, KABUL

Quando cala la sera, sul quartiere di Sarai Shamali, periferia nord della città, al traffico congestionato si aggiungono i camion, i pullman e i mezzi privati che trasportano gli sfollati. Sui tetti delle auto buste, valigie e scatoloni chiusi di fretta e legati con le corde, coperte e elettrodomestici, le culle dei bambini. Si fermano sul ciglio della strada nei pressi di una radura. I bambini scendono dalle auto con un telo in mano per accaparrarsi un pezzo di spazio, lo stendono. E quel telo diventa casa, lo spazio dove trascorreranno le ore seguenti, i giorni seguenti, forse le settimane e i mesi. Mohammad Gul è scappato da Kunduz con sua moglie e i suoi tre figli, la più piccola dorme disturbata dalle mosche mentre la più grande la bacia sulla fronte. Era un venditore ambulante a Kunduz, la casa della sua famiglia è stata colpita da un razzo, Mohammad Gul ha raccolto i risparmi e due piccole borse con gli abiti dei bambini ed è scappato a Kabul. «I talebani occupano le case dei civili, con i civili dentro. Impediscono alle persone di lasciare le loro abitazioni. Volevo solo salvare i bambini, ma ora che li ho salvati che ne sarà di loro». A pochi metri, due donne coprono il volto, si sostengono e piangono. Sono sole, perché i loro mariti sono soldati dell’esercito afghano rimasti a Kandahar. Mentre arrivano notizie dei violenti combattimenti in città e della prigione di Sarpuza caduta nelle mani dei talebani che hanno rilasciato tutti i prigionieri, le donne si stringono le mani. La caduta della città è alle porte. Dei loro mariti rimasti a combattere non dicono nemmeno: che ne sarà di loro? Come sapendo che la sorte per le forze dell’esercito afghano catturate dai talebani sia una sola: le esecuzioni sommarie. La luce, in Afghanistan, ha mille sfumature di ocra, l’aria pomeridiana solleva vortici di sabbia sul campo profughi, si poggia sui volti emaciati dei bambini che attraversano il campo a piedi nudi, nelle acque di scolo. Le donne anziane che non hanno più nemmeno la forza di piangere o lamentarsi. Resta loro solo la forza dei gesti, la schiena che oscilla avanti e indietro, come cullata nell’illusione che tutto questo non sia vero. Un’ombra si avvicina lentamente. Il burqa blu copre una silhouette che avanza, un passo dopo l’altro. La donna si ferma, le sue gambe sembrano non reggere più il peso della fuga. La donna tiene in braccio un fagotto. È un neonato avvolto in un lenzuolo bianco, chiuso da corde di iuta. È nato quindici giorni fa, nella Kunduz assediata. Fawzia, questo è il suo nome, ha 22 anni, è arrivata al campo un giorno prima, sola con suo figlio. Suo marito è stato ucciso dai talebani perché era un poliziotto delle forze di sicurezza afghane. Vedova, con un bambino appena nato non ha potuto fare altro che raggiungere le donne, altre mogli e altre vedove e lasciare Kunduz, che stava cadendo nelle mani dei talebani. Gli uomini rimasti a combattere hanno affidato le donne agli anziani della comunità e ad un autista, per arrivare a Kabul e mettersi in salvo. Una fuga durata tre giorni, due notti all’addiaccio a dormire nei boschi. Troppo pericoloso attraversare le strade sotto il controllo talebano. Fawzia non sa dire dove fosse, di quei giorni ricorda solo il pianto di suo figlio. E la sete. Ha speso i pochi risparmi che aveva per raggiungere Kabul, ma quando è arrivata al campo si è resa conto di non essere arrivata al sicuro. Non c’è posto per dormire, non ha latte: «forse la paura, ha ucciso il mio latte», ripete. Non ha niente per cui vivere, dice tenendo il bambino tra le braccia come in uno stato di incoscienza. «Non so cosa fare», dice più volte, mentre si allontana, così come era arrivata, senza aver svelato il volto, avvolta nel blu del suo burqa, mentre la sabbia ammanta la sua sagoma nella luce della sera. Quando comincia a calare la sera sul campo, arrivano le auto di comuni cittadini. Qualcuno porta del pane, qualcuno dei biscotti per bambini, qualcuno distribuisce pasti confezionati. A proteggere le auto poliziotti armati. Gli uomini e i bambini urlano, si strattonano per una busta di pane, per una coperta in più. I neonati piangono perché nessuno porta latte. Le donne che li stringono al petto, piangono di conseguenza, aprendo il palmo della mano senza nemmeno chiedere. Chiedere non serve. L’immagine della crisi umanitaria in Afghanistan ha già assunto la sua forma più brutale: le grida di dolore unite al pianto della fame. 

15 AGOSTO 2021, KABUL

Kabul è caduta. Mahmoud Omid ha 31 anni, vive a Kabul. Fino all’anno scorso era un interprete delle truppe statunitensi in Afghanistan. Quando gli chiedi di descriversi dice: «Sono nato e cresciuto in un Paese in guerra, e probabilmente morirò in un paese in guerra». Ha lavorato per tre anni con le truppe americane. La sua base di lavoro era nel New Kabul compound nella capitale, ma ha preso parte ad alcune missioni operative in altre province come Kandahar e Helmand. Nel 2019 Mahmoud ha partecipato a una missione delicata in una delle 11 divisioni di Kabul, ha contribuito a identificare un membro della Rete Haqqani e sventare un piano per attaccare i comandanti delle brigate delle forze speciali afghane e di quelle statunitensi. Ha ricevuto una medaglia al merito e una targa che recita: «Il tuo supporto è stato cruciale e ha giocato un ruolo importante per il successo della missione dei nostri consiglieri, più di un semplice interprete, ci hai aiutato a capire e a rimanere vivi. Non possiamo ringraziarti abbastanza per il tuo tempo e cosa più importante per la tua amicizia»- Omid ha chiesto un visto. La sua domanda è stata rifiutata. Da maggio, dall’inizio dell’offensiva, ha vissuto chiuso in casa per paura di ritorsioni. Per paura di essere ucciso. Quando, il 15 agosto, Kabul è stata conquistata, Mahmoud Omid è uscito di casa, era tra le migliaia di persone che hanno assaltato l’aeroporto Karzai di Kabul. «Sono morto comunque», dice, mentre invia le fotografie delle persone intorno a sé rimaste ferite e uccise dai colpi d’arma da fuoco sparati per impedire che raggiungessero le piste dell’aeroporto. Poi aggiunge: «Aiutatemi se potete, fate qualcosa per tirarmi fuori da questo inferno, prima che ci massacrino».

La notte più nera di Kabul: "Per noi è finita". Francesca Mannocchi su La Repubblica il 15 agosto 2021. I talebani alle porte della città: salta l'elettricità e scatta l'ordine di evacuazione per tutti gli stranieri. Ma gli afgani restano bloccati: non c'è possibilità di fuga per chi ha creduto in un futuro diverso. Il giallo delle dimissioni del presidente Ghani. All'alba i guerriglieri entrano a Jalalabad. Alle nove di ieri sera il rumore di aerei ed elicotteri militari ha invaso il cielo di Kabul. Mazar-i Sharif, la quarta città più importante del Paese, la porta di quel Nord su cui il governo del presidente Ashraf Ghani contava per resistere all'assalto dei talebani, è appena caduta, seguito dalla provincia di Laghman. In città dilaga la paura. Due ore dopo gli aerei militari statunitensi hanno preso di mira un gruppo di combattenti talebani che hanno condotto un attacco missilistico all'aeroporto di Kandahar Alcuni dei tremila soldati destinati ad aiutare il personale Usa nell'evacuazione d'emergenza sono già arrivati: altri lo faranno presto. Il presidente Usa Joe Biden ha annunciato che manderà 1000 marines in più rispetto al previsto per far fronte alla situazione in rapido deterioramento. Le ambasciate chiudono, lasciano il Paese. I cittadini statunitensi ricevono mail per il ponte aereo: recatevi in aeroporto ora o non potremo aiutarvi più. Lo stesso per i canadesi. Poi tocca a noi, gli italiani: "Le comunichiamo che visto il grave deterioramento delle condizioni di sicurezza viene messo a disposizione un volo dell'aereonautica militare nella giornata di domani, 15 agosto". Ponte aereo, l'ambasciata sospende il lavoro: a Kabul resterà solo il console, per assistere i traduttori che per anni hanno aiutato i soldati italiani in Afghanistan, a cui l'Italia ha garantito assistenza per lasciare il Paese. Tutti gli altri che lo vorranno - diplomatici, personale umanitario, giornalisti - verranno evacuati con un volo militare dall'aeroporto Hamid Karzai, oggi controllato dai turchi, che hanno schierato le truppe dopo il ritiro della Nato. Alle undici la tensione sale ancora: arrivano le prime notizie dei combattimenti alle porte della capitale. I talebani hanno assaltato la prigione di Poli Chakri, nel quartiere PD12. E' la prigione più grande di Kabul,  sarebbero entrati liberando i prigionieri come in tutte le province cadute come birilli nell'ultima settimana: la polizia non conferma, appurare quale sia la verità è difficilissimo. A mezzanotte le notizie si accumulano e si confondono. I talebani sono a tredici chilometri, i talebani sono già in città, e combattono contro le forze governative, riceviamo una chiamata dopo l'altra: difficile capire cosa è vero e cosa no. Solo la caduta di Jalalabad, l'ultima grande città che restava in mano al governo assieme alla capitale, è cosa certa: è arrivata alle prime luci del giorno di domenica, senza sparare un colpo pare. Secondo alcuni il presidente della Repubblica, Ashraf Ghani sarebbe già fuori dal Paese, prelevato da un elicottero militare americano, per altri sarebbe in viaggio per Doha, pronto alle dimissioni. Solo poche ore prima, mentre cercavamo di prevedere Shahab, il nostro collega, amico afgano, quando i talebani sarebbero arrivati in città, ha detto: "Guardati intorno per vedere se ci sono ancora le guardie presidenziali. Se ci sono, significa che c'è ancora il presidente". Ma ce ne sono sempre meno, forse sono già scappate via, come tutti quelli che hanno trattato per mettersi in salvo. La sera, mentre gli elicotteri evacuavano lo staff statunitense, S., il nostro fixer di cui non facciamo il nome per ragioni di sicurezza, ha chiamato ogni quindici minuti, con premura che in pochi minuti si è trasformata in preoccupazione ci mette in guardia: "Non muovetevi dall'hotel, non rispondete al telefono, non aprite neanche se si qualificano come staff dell'hotel, i talebani stanno occupando avamposti e stazioni di polizia. Taglieranno la corrente. Tagliano la corrente. E' finita". Lo ripete senza piangere. Ma scandisce, è finita. Prova a dormire S., prova a dormire. Noi chiamiamo l'ambasciata e lasciamo l'hotel ma tu, prova a dormire. Dopo quindici minuti richiama. "State bene? La strada da Kabul a Jalalabad è caduta". E' la strada che porta in Pakistan. "Shahab stai bene?". "E' finita". Comincia a mancare la corrente in intere aree della capitale quando i mezzi dell'ambasciata vengono a prelevarci, nella Green Zone. Sede del palazzo presidenziale, il governo, l'ambasciata, delle Nazioni Unite, delle organizzazioni umanitarie. Nella Green Zone sono fortificati gli hotel, le ambasciate, gli uffici consolari. Per entrare nel nostro hotel, per 15 giorni, abbiamo attraversato il controllo esterno dei soldati, quello esterno, due metal detector e altre due porte blindate. Sono blindate anche le porte delle stanze, e quelle dei bagni. E' l'una e mezza quando un convoglio blindato ci scorta per qualche centinaia di metri dentro l'ambasciata italiana a Kabul. E' arrivato l'ordine dal ministero: via tutti, e subito. Shahab richiama. "State bene?".  "Stiamo bene. S.. E tu?". "Ci sentiamo tra poco, di qualsiasi cosa abbiate bisogno io sono qui". Io sono qui, dice lui che è costretto a restare a noi che possiamo partire. Cade Kabul, insieme all'incapacità del governo di Ashraf Ghani. Cade Kabul e fuggono i signori della guerra, come Ata Mohammed Noor scappato da Herat in Uzbekistan dopo la caduta di Herat. Cade Kabul, e cadono gli afgani. Intrappolati in una guerra lampo che li ha riportati in tre mesi indietro di trent'anni. All'ambasciata italiana si chiudono valigie. 'Non torneremo a breve" dicono tutti "povera gente". Sono le tre e dieci, squilla il telefono. E' S.. "Non abbiamo fatto in tempo a salutarci, amica mia". "Non abbiamo fatto in tempo, no, S.. Sarà per la prossima volta, no?". "Inshallah". Non abbiamo fatto in tempo a bere un altro thè. Nessuno di noi pensava che quello di ieri pomeriggio sarebbe stato l'ultimo, l'ultimo per ora. L'ultimo chissà per quanto. I talebani hanno ormai praticamente tutte le strade intorno alla città. Quando arriveranno all'aeroporto di Kabul - questione di ore ormai - il Paese sarà definitivamente nelle loro mani. Significa bloccare le merci, significa soprattutto bloccare le persone. "Ci vediamo alle undici per il volo militare" ci dicono in ambasciata prima di congedarsi. Sì, torneremo a casa. Al sicuro. Due sere fa mentre tornavamo nella Green Zone dopo aver incontrato le decine di famiglie sfollate che dormono all'aperto alla periferia nord di Kabul, siamo rimasti bloccati nel traffico per due ore e mezza, poi magicamente una volta varcata la soglia del primo check point dell'area fortificata, S. mi ha detto: "Vedi, siamo arrivati nell'altra Kabul, non è la nostra, è la vostra". E ha ragione. C'è un pezzo di città che da anni non appartiene più al popolo afgano e per anni ha preteso di proteggerla. Ma era una finzione, dissolta stasera al buio del black out, dei combattimenti entrati nella capitale, della prigione assaltata. Del ponte aereo per chi può essere salvato dalla barbarie fondamentalista. "Fuori dalle loro mura fortificate la nostra vita non vale niente. Loro sono quelli che invadono e vengono evacuati, noi siamo quelli che restiamo, andiamo a lavorare la mattina, salutando sempre la nostra famiglia come se fosse l'ultima volta". 

Francesca Mannocchi è a Kabul per una serie di reportage per conto dell'Espresso

La grande paura di Kabul. Francesca Mannocchi su La Repubblica il 16 agosto 2021. Una massa indistinta che si muove caotica intorno all'aeroporto, le auto bloccano le strade, non ci sono più i soldati dell'esercito nazionale. I talebani sono in città, è saltata la linea di comando. Ognuno, come può, tenta di mettersi in salvo. I ministeri si svuotano, così come gli uffici di polizia. I cittadini di Kabul che fino a poche ora prima, con i talebani a Wardak, ultima porta della capitale, ascoltavano con apprensione le notizie per capire quando si sarebbero avvicinati, si sono svegliati con i talebani davanti alla porta di casa. Pronti a dichiarare vittoria. È in quel momento che la libertà di andare via, a Kabul, ha preso due forme. La prima quella delle evacuazioni delle sedi diplomatiche, dei ponti aerei e dei mezzi militari pronti all'aeroporto Hamid Karzai per portare via i diplomatici, staff consolare e civili stranieri, e la seconda quella degli afghani, intrappolati, all'assalto dell'unica via d'uscita rimasta nel paese. Migliaia di uomini e donne, bambini aggrappati ai cancelli, gridavano disperati, una reazione collettiva, incontrollata, mentre i talebani si stavano insediando a Kabul quasi senza incontrare resistenza. La paura degli afghani era diventata rabbia. Assalti ai convogli blindati, lanci di pietre, e urla: "Vergognatevi". E urla più forti: "Dovete portarci via". È in questo clima che l'ambasciata italiana è stata evacuata, il 15 agosto. Troppo pericoloso per il convoglio blindato il tragitto via terra, si decide per il ponte aereo dalla sede diplomatica all'aeroporto. Dalle ricetrasmittenti una voce dice: "Si sta mettendo male". Si stava mettendo male su tutti i fronti. I talebani erano ormai nelle strade, gli afghani sapevano che l'aeroporto era rimasta l'unica via d'uscita dal paese. Tutti avevano capito che quella che si stava consumando non fosse un'entrata pacifica e senza spargimento di sangue come dichiarato dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, un'entrata verso la formazione di un governo di transizione. Kabul assisteva a una resa. I talebani non hanno dovuto conquistare la città, come a Kandahar, Kunduz, Lashkharga. Kabul gli è stata consegnata. Dall'inefficienza del governo di Ashraf Ghani, che avrebbe potuto trattare tre mesi fa, quando era già evidente che i talebani stavano avanzando senza sosta, Ghani il presidente da cui pochi, in Afghanistan si sentono rappresentati, che poteva mediare e non l'ha fatto. Kabul è stata consegnata dalle forze armate, prive di indirizzo, leadership, corrotte e demotivate mentre i ministeri e gli uffici di polizia si svuotavano in fretta. Dai soldati che scappavano, in fuga con aerei ed elicotteri verso l'Uzbekistan, prima di essere cacciati. O peggio uccisi. Kabul è stata consegnata ai talebani mentre i cittadini afgani gridavano: "Ci avete tradito", nascondendosi dai rastrellameti casa per casa. Una cosa però ieri è stata rispettata: gli accordi di Doha, in cui i talebani hanno ottenuto il ritiro delle truppe impegnandosi a garantire la loro uscita in sicurezza dal paese. E così è stato, i diplomatici e i civili occidentali sono stati evacuati, è stato garantito loro un passaggio sicuro verso la parte militare dell'aeroporto Karzai, con seimila soldati americani a difenderla. Oggi arriveranno anche i solati francesi, con due aerei per garantire il rimpatrio di chi ha lavorato con loro. "Abbiamo combattuto per una giusta causa, non abbandoneremo nessuno", dice Macron. A Doha i talebani si erano detti pronti a un dialogo diplomatico con i politici afgani. Impegno di cui non hanno avuto bisogno. Quando gli americani, con l'amministrazione Biden, hanno confermato il ritiro e l'hanno confermato senza condizioni del dialogo intra afgano non c'era piu' bisogno. È stata proprio l'assenza di condizioni a rafforzare i talebani, e dare loro lo slancio per vincere la partita militare. Kabul è stato il capitolo finale, non conquistata ma consegnata ai talebani, nel giorno della grande evacuazione dei diplomatici e del presidente Asfrah Ghani scappato via. Anche a lui e ai suoi collaboratori è stato garantito un passaggio sicuro verso l'aeroporto, un'evacuazione, una fuga. Salito sulla scala del veicolo senza dire una parola al paese, senza congedarsi, né scusarsi con i cittadini che solo pochi giorni prima aveva invitato a resistere. Le sirene hanno lanciato l'allarme sicurezza all'interno dell'aeroporto per tre volte. I soldati hanno imbracciato le armi, i civili da evacuare restavano chiusi all'interno, accucciati a terra mentre la città, fuori, si infuocava di rabbia. Più persone a premere sui cancelli per entrare, più gli spari a rompere l'aria. Ma è troppa la paura, e migliaia di afghani scavalcano le transenne di sicurezza, occupano gli aerei. Kabul è divisa in due: gli aerei militari pronti per le ultime evacuazioni della notte pronti sulla pista, gli aerei civili fermi. Si ripete l'appello per le liste dei voli militari. Gli italiani ci sono tutti. Mancano gli afghani che non riescono ad arrivare, non riescono ad attraversare i cancelli. Troppa la folla, troppe le urla, il pericolo, i colpi sparati in aria dalle truppe americane a difesa dello scalo, per disperdere la ressa. "Bisogna andare a prenderli", "Non partiamo senza di loro". Frasi carpite, strappate all'impegno dell'ambasciata per portare in Italia i collaboratori afghani con le loro famiglie. Per tutti visto pronto da tempo, e ormai svanita la speranza di non avere bisogno di usarlo per scappare. I funzionari diplomatici si spendono fino a notte fonda, anche oltre le norme di sicurezza per andare a prendere i cittadini afgani nella parte civile dell'aeroporto. Il convoglio si muove tre volte, per due sotto il tiro dei proiettili. E torna, tre volte, con le famiglie afghane. I collaboratori, due ragazzi, tre bambini. Frasi strappate agli abbracci che si consumano nella notte: "Per uno che riusciamo a portarne via troppi resteranno qui". Ieri i cittadini di Kabul, e quelli arrivati da lontano, hanno provato di nuovo a occupare la pista, correndo dietro gli aerei, e aggrappandosi mentre decollavano, corpi caduti nel vuoto come l'undici settembre. È la storia che si ripete nella sua forma più tragica. Andrà avanti così tutto il giorno. Gli ospedali ricevono i corpi dei cittadini uccisi dai colpi che hanno provato a impedire la loro fuga. Gli afghani sanno che si scappa solo da lì, dall'aeroporto Karzai, e che partito l'ultimo diplomatico il rischio è che nessuno più entri ed esca dal paese. Sono da poco passate le tre del pomeriggio, è appena atterrato al terminal 5 dell'aeroporto di Roma Fiumicino il volo militare che ha riportato a casa l'ambasciatore italiano a Kabul Vittorio Sandelli, parte della delegazione diplomatica, i civili della cooperazione internazionale e delle organizzazioni umanitarie e sedici afghani con le loro famiglie: collaboratori contrattisti della sede diplomatica italiana a Kabul. "Avremmo voluto fare molto di più". Sono le parole dei diplomatici arrivati a Roma, che tengono insieme la forza e la stanchezza degli ultimi giorni. La concitazione dell'evacuazione, lo sforzo per salvare più persone possibile il più in fretta possibile, la frustrazione di non averlo potuto fare.

Bandiera talebana sul palazzo presidenziale: Kabul è caduta. Lorenzo Vita il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Il governo sarebbe pronto a una "transizione pacifica", ma i talebani, dopo la fuga di Ghani, pensano al pieno potere. Gli Stati Uniti e i Paesi occidentali evacuano le ambasciate. I talebani hanno preso Kabul. Mentre il presidente afghano, Ashraf Ghani, fugge in Tagikistan, i guerriglieri prendono il controllo della capitale e del palazzo presidenziale. L'immagine della bandiera degli insorti issata sul palazzo è un'immagine potente, che non lascia spazio a interpretazioni. E i talebani ora si dicono pronti a proclamare l'emirato islamico dell'Afghanistan.

Ghani fugge in Tagikistan. Il governo ha assicurato che non ci saranno spargimenti di sangue e si lavora per una "transizione pacifica". Molti ritengono che l'ex ministro dell'Interno ed ex ambasciatore in Germania, Ali Ahmad Jalali, possa essere il nome adatto per guidare il governo di transizione. Tuttavia le ultime informazioni da Doha, dove sono in corso i negoziati, parlano di un altro scenario, con il leader dei talebani, il Mullah Abdul Ghani Baradar, che sarebbe partito in direzione di Kabul per assumere il ruolo di leader ad interim dell'Afghanistan.

Il messaggio del presidente. I capi talebani hanno chiesto ai miliziani di evitare violenze e rappresaglie, ma la paura inizia a prendere il sopravvento e sono già migliaia le persone in fuga dalla capitale e dalle aree dove ancora non è arrivata la milizia islamista. Il presidente ha voluto inviare un messaggio ai suoi connazionali. "Oggi, mi sono imbattuto in una scelta difficile: dover affrontare i talebani armati che volevano entrare nel palazzo o lasciare il caro paese alla cui protezione ho dedicato la mia vita a proteggere negli ultimi vent'anni", ha detto Ghani. Il presidente, fuggito oltre confine (qualcuno ipotizza non in Tagikistan ma in Uzbekistan), ha confermato di averlo fatto per evitare spargimenti di sangue. "I talebani hanno vinto il giudizio di spada e pistole e ora sono responsabili della tutela dell'onore, della ricchezza e dell'autostima dei connazionali", scrive Ghani su Facebook. "Ma hanno guadagnato la legittimità nei cuori? Mai nella storia il solo potere ha dato legittimità a nessuno e mai glielo darà". Ghani spera che i talebani superino la "nuova prova storica" per proteggere "il nome e l'onore dell'Afghanistan". Gli insorti hanno anche conquistato la prigione di Bagram, con la liberazione di migliaia di detenuti. Un portavoce talebano alla Bbc ha confermato che "ci sarà una transizione" e "non ci sarà alcuna vendetta". "Assicuriamo alle persone in Afghanistan, in particolare a Kabul, che le loro proprietà e le loro vite sono al sicuro".

Il caos in aeroporto e per le strade. La situazione sembra però precipitare di ora in ora, tanto che l'ambascita degli Stati Uniti, dopo aver velocizzato le procedure di evacuazione, ha avvertito i connazionali di spari all'aeroporto e forse anche di un incendio. Il caos nella capitale dilaga e il rischio di violenze è sempre più elevato. I cittadini hanno preso d'assalto gli sportelli delle banche già da questa mattina per prelevare i propri risparmi, mentre si confermano lunghe code di automobili dirette verso l'aeroporto e per fuggire dalla capitale.

La drammatica svolta. Tutto è degenerato nelle ultime 24 ore. Con la caduta di Mazar-i-Sharif e Jalalabad, e con la notizia dei talebani a una decina di chilometri da Kabul, la situazione è apparsa immediatamente peggiore delle aspettative più nere di molti funzionari locali e delle intelligence di mezzo mondo. Molti comandanti delle forze di sicurezza si sono arresi senza sparare un colpo. Tanti funzionari si sono accordati per cedere la città ai ribelli e fuggire prima dell'arrivo dei guerriglieri.

L'Italia dà il via all'evacuazione. Anche l'Italia ha dato il via alle procedure di evacuazione. Il ministero della Difesa ha annunciato che "a seguito del deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan" il ministro Lorenzo Guerini ha richiesto al Capo di Stato Maggiore Enzo Vecciarelli l'evacuazione con la massima urgenza di tutto il personale diplomatico, dei connazionali presenti nel Paese e "ha disposto l'accelerazione del trasferimento in Italia dei collaboratori afghani". Oggi è previsto l'arrivo di un KC767 dell'Aeronautica Militare, con un primo volo di rientro in Italia che atterrerà il 16 agosto.

David Puente per open.online il 16 agosto 2021. Con la caduta di Kabul, conquistata dai Talebani, è circolata un’immagine che ritrae il palazzo presidenziale afghano con issata la bandiera talebana. La foto non è reale, si tratta di un fotomontaggio diffuso dall’utente Zarhgay Suweil (@ZahidSddique). Il tweet originale del 15 agosto 2021 è stato cancellato, ma rimane a disposizione un nostro salvataggio (qui). Lo scatto ha fatto il giro della Rete ed è stato condiviso da utenti e ripreso da diversi siti di informazione italiani e non (qui, qui, qui, qui e qui alcuni esempi). Attraverso una ricerca inversa è possibile trovare l’immagine originale priva della bandiera talebana, pubblicata il 26 luglio 2021 dalla pagina Facebook ufficiale di Shamshad TV. Sovrapponendo le immagini, riscontriamo che la foto diffusa già nel mese di luglio risulta identica a quella diffusa il 15 agosto 2021. L’auto parcheggiata in basso a destra e le nuvole sono le prime evidenze che si riscontrano. Di seguito alcuni degli utenti che tramite Twitter hanno evidenziato l’errore: @evaristegal0is e @WWEJ7t7dgsjbt9L. Alcuni articoli che hanno diffuso la foto in Italia riscontrati tramite una ricerca Google.

Da lastampa.it il 16 agosto 2021. È stata una notte lunghissima. Migliaia di afghani hanno passato la notte all'aeroporto di Kabul mentre la città è in preda al caos dopo la conquista della capitale da parte dei talebani. L'agenzia Tolo news ha diffuso sui social un video che mostra una folla di persone sulle piste dell'aeroporto che tentano di imbarcarsi sui voli internazionali. Nell’aeroporto di Kabul, inoltre, le truppe statunitensi hanno sparato colpi in aria all'aeroporto di Kabul mentre migliaia di afgani hanno affollato l'asfalto cercando di prendere un volo dall'Afghanistan. Nel caos il bilancio al momento è di almeno 5 morti e 13 feriti. Intanto diverse compagnie aeree hanno sospeso i collegamenti con l'Afghanistan o cambiato i piani di volo per evitare lo spazio aereo afghano. Emirates ha annunciato lo stop ai voli da e per Kabul. Stessa decisione per FlyDubai, come confermato da un portavoce. United Airlines ha invece fatto sapere che cambieranno i piani di volo con una decisione che interessa in particolare i collegamenti con l'India. Stessa scelta, secondo la Bbc, anche da parte di British Airways e Virgin Atlantic. Da Air India hanno fatto sapere alla Cnn che la compagnia aerea «sta monitorando attentamente la situazione» con l'obiettivo di continuare a garantire i voli da e per l'Afghanistan a patto che la situazione lo consenta. Oggi I talebani che hanno preso il potere a Kabul hanno lanciato un nuovo video in cui il vicecapo promette «serenità» alla nazione e di occuparsi dei bisogni della gente. «Questa è l'ora della prova. Noi forniremo i servizi alla nostra nazione, daremo serenità alla nazione intera e faremo del nostro meglio per migliorare la vita delle persone», dice nel video, citato dalla Bbc, il mullah Baradar Akhund seduto nel palazzo presidenziale circondato da miliziani armati. «Il modo in cui siamo arrivati era inatteso e abbiamo raggiunto questa posizione che non ci aspettavamo» dice ancora Akhund. «Hanno vinto, ora i talebani tutelino gli afghani». Così l'ex presidente dell'Afghanistan spiega in un messaggio su Facebook di essere fuggito «per evitare un massacro» a cominciare dalla capitale Kabul. Ghani, sua moglie, il capo dello staff e il consigliere per la sicurezza nazionale sono arrivati a Tashkent, capitale dell'Uzbekistan. Ma sono tantissimi i cittadini stranieri in fuga utilizzando ponti aerei con gli italiani che riescono a lasciare la città dopo ore drammatiche: restano indietro migliaia di persone disperate, che si sentono tradite e abbandonate. Il caos è totale, con assalto alle banche, ai negozi, ovunque. Sul palazzo presidenziale ora sventola la bandiera talebana, bianca con la shahada, la scritta in arabo della testimonianza su Dio: «Testimonio che non c'è nessun dio, al di fuori di Dio e testimonio che Maometto è il profeta di Dio». I talebani hanno ordinato ai mujaheddin di lasciare in pace i residenti. Intanto l'Afghanistan tornerà al nome precedente all'arrivo degli americani nel 2001: Emirato Islamico dell'Afghanistan. A guidare la prima fase sarà il Mullah Abdul Ghani Baradar. È uno dei negoziatori di Doha e a Kabul avrà l'incarico di leader ad interim dell'Afghanistan dopo il passaggio di consegne dal governo afghano esistente. «In questo momento il volo dell'aeronautica militare con a bordo i nostri connazionali è partito da Kabul», ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio poco dopo le 23 e poi ha aggiunto che nei prossimi giorni ci saranno altri voli da Kabul. A bordo del KC 767 dell'Aeronautica Militare decollato da Kabul che sta riportando in Italia personale diplomatico stanziato nella capitale afghana sono presenti anche alcuni ex collaboratori afgani. L'aereo dovrebbe atterrare all'aeroporto di Fiumicino nella mattinata di lunedì. «Dopo che abbiamo formato le forze militari e dell'ordine afghani, una resa così veloce lascia vari interrogativi ed è urgente una riflessione. Voglio ribadire che non abbandoneremo il popolo afghano, porteremo avanti progetti di cooperazione per tutelare i diritti dei bambini, delle donne e dei cittadini afghani». Lo afferma Luigi Di Maio al Giornale Radio Rai. «La situazione in corso è tragica. E' nostro preciso dovere tenere la linea della collaborazione con gli afghani per aiutare a tutelare i loro diritti facendo quello che l'Italia sa fare meglio, la cooperazione allo sviluppo con progetti che aiutino la società civile». Alle 10 di mattina, ora di New York, si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'Onu. In precedenza il primo ministro britannico, Boris Johnson, aveva parlato con il segretario Generale dell'Onu, Antonio Guterres, e con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e aveva domandato una rapida convocazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e del Consiglio Nord Atlantico. Il premier britannico, in un'intervista in tv ha sottolineato che la decisione degli Stati Uniti di ritirare le truppe «ha accelerato» l'attuale evolversi della situazione, parlando di una «situazione sempre più difficile». La fuga di Ghani ha accelerato la caduta di Kabul. Nella capitale si è innescato il caos. In diverse zone sono stati sentiti spari, in periferia si registrano più di 40 feriti negli scontri. La strada per l'aeroporto si è rapidamente bloccata visto che la struttura è il solo modo per lasciare il Paese. Chiuse le ambasciate ed evacuati i diplomatici di parecchi Paesi, Usa e Gran Bretagna in testa. In attesa del volo di rientro i nostri connazionali e il personale dell'ambasciata. La Cina intanto resta alla finestra. Non meglio precisati «esperti cinesi» hanno spiegato al Globale Times che Pechino non manderà militari cinesi a colmare il vuoto lasciato dagli Usa. Al più, dicono, la Cina potrà «collaborare alla ricostruzione una volta che la situazione si sarà stabilizzata. Il presidente americano Joe Biden ha deciso di inviare altri mille soldati a Kabul che si aggiungono ai 5.000 già inviati per garantire l'evacuazione dei civili americani e afghani. In totale «nei prossimi giorni saranno 6.000 i soldati americani a raggiungere la capitale afghana». «Osserviamo completamente scioccati mentre i talebani prendono il controllo dell’Afghanistan. Sono profondamente preoccupata per le donne, le minoranze e i difensori dei diritti umani –, è quanto scrive su Twitter l’attivista e premio Nobel per la pace pakistana, Malala Yousafzai –. I poteri mondiali, regionali e locali devono chiedere un cessate il fuoco immediato, fornire urgenti aiuti umanitari e proteggere i rifugiati e i civili». «Abbiamo iniziato il Comitato per l'Ordine e la sicurezza parlando di Afghanistan, perché la notizia della presa di Kabul è arrivata poco prima – ha detto la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese parlando con i giornalisti a Palermo –. E abbiamo ritenuto di fare un focus su quelli che sono i problemi connessi all'accoglienza di cittadini afghani che hanno collaborato con le truppe italiane in Afghanistan». Non saranni i primi: «Abbiamo già accolto 228 persone ed erano in programma altri arrivi in questo periodo, certamente questa accelerazione comporterà anche una accelerazione conseguente delle attività di accoglienza».  «Ci sarà un ulteriore flusso di migranti afghani che arrivano dalla rotta balcanica ma anche via mare. Sò che Unhcr ha dato una quantificazione dei flussi dei prossimi mesi che potrebbero farci preoccupare tenendo conto anche del rischio terrorismo. Noi stiamo monitorando e su questo abbiamo la garanzia da parte di tutte le forze che opereranno al meglio», ha aggiunto il ministro dell'Interno. Il Regno Unito sta preparando l’evacuazione dell'ambasciatore britannico a Kabul, Sir Laurie Bristow, da effettuare entro domani sera. Lo riportano Times e Sunday Telegraph. Il Foreign Office, inizialmente, voleva che Sir Laurie e un piccolo gruppo di funzionari rimanessero all'aeroporto della capitale afghana con gli altri diplomatici internazionali, secondo quanto riferito da Press Association. La Germania ha chiuso l’ambasciata e sta inviando aerei militari per iniziare l'evacuazione del personale dell'ambasciata lunedì. L'agenzia di stampa tedesca dpa ha riferito che la missione includerà l'evacuazione del personale afghano locale che lavora per l'ambasciata. Gli aerei militari dovrebbero portare gli sfollati da Kabul a una base in Asia centrale, da dove dei charter li porteranno in Germania. La Francia sta trasferendo la sua ambasciata a Kabul all'aeroporto, da cui evacuerà tutti i cittadini ancora in Afghanistan, trasferendoli inizialmente ad Abu Dhabi. Il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drain ha detto che rinforzi militari e aerei saranno schierati nelle prossime ore negli Emirati Arabi Uniti, «in modo che possano iniziare le prime evacuazioni verso Abu Dhabi». Le evacuazioni sono in corso da settimane. Da maggio, la Francia ha accolto dipendenti afgani di strutture francesi potenzialmente minacciate, con 600 persone trasferite nel Paese. La Francia ha gradualmente ritirato le truppe dall'Afghanistan tra il 2013 e il 2015 e da allora l'ex personale che lavorava per l'esercito francese e le loro famiglie, circa 1.350 afghani, è stato portato in Francia, si legge nella nota del ministero degli Esteri francese.

Kabul, talebani verso palazzo presidenziale per negoziare. (ANSA il 15 agosto 2021) Negoziatori talebani si stanno dirigendo al palazzo presidenziale di Kabul per negoziare un trasferimento pacifico dei poteri. Lo riferisce una fonte afghana all'Associated Press. Il presidente afghano Ashraf Ghani, scrive la Bbc, sta tenendo in questo momento consultazioni d'emergenza con l'inviato Usa Zalmay Khalilzad e altri rappresentanti della Nato. (ANSA). 

Ministro Interno Kabul, verso un governo di transizione. (ANSA-AFP il 15 agosto 2021) Ci sarà un "pacifico passaggio di poteri verso un governo di transizione". Lo ha assicurato il Ministro dell'Interno afghano nei momenti convulsi . (ANSA-AFP).

Da corriere.it il 15 agosto 2021. Decine di combattenti talebani che armi in pugno entrano nel sontuoso palazzo Abdul Rashid Dostum, signore della guerra e acerrimo nemico degli insorti che avrebbe dovuto difendere la città di Mazar-i-Sharif e invece è fuggito. A mostrarli è un video diffuso da Al Arabya nel quale i talebani, che proseguono la loro avanzata, si riprendono mentre ridono e si siedono sui divani di raso, passandosi i servizi di tè dorati e mostrando lo sfarzo del palazzo.

Giordano Stabile per "La Stampa" il 15 agosto 2021. Con i taleban a undici chilometri dal suo palazzo, il presidente Ashraf Ghani si è rivolto alla nazione, o a quel che ne resta. Un appello a mobilitarsi e a resistere. Il suo predecessore Hamid Karzai veniva chiamato con sarcasmo «il sindaco di Kabul», quando i jihadisti si erano presi gran parte del Paese. Poi il «surge», i rinforzi massicci inviati da Barack Obama, li avevano respinti sulle montagne. Adesso non c'è alcun «surge» in vista, se non l'arrivo di 3.500 soldati americani e 600 britannici per portar via gli espatriati occidentali. I primi reparti sono atterrati già ieri. Kabul, con la caduta ieri sera di Mazar-e-Sharif, è accerchiata, l'evacuazione coinvolgerà anche alcuni collaboratori afghani più esposti, ma non per il momento lo stesso Ghani. Le trattative sono in corso per un accordo dell'ultimo momento, cioè di fatto una resa onorevole che risparmi la vita agli uomini di governo e agli alti ufficiali. Di fronte a 100 mila insorti che vedono le loro fila ingrossarsi di giorno in giorno, e fanno man bassa di armi di fabbricazione statunitense, c'è poco altro da fare. Il disfacimento delle forze governative è continuato anche ieri, con almeno quattro capoluoghi di provincia, e ora fanno 22 su 34, caduti senza combattere. Per la prima volta anche i reparti speciali hanno cominciato ad arrendersi. Le colonne in moto degli studenti barbuti si sono spinte fino a Char Asyab, 11 chilometri da Kabul. Hanno preso la cittadina di Maidan Shar, 40 chilometri a Sud dalla capitale. Più a Est si sono impadroniti dell'intera provincia di Paktika, al confine con il Pakistan. Si è ripetuto il copione. La base della polizia è stata saccheggiata, dalla prigione sono stati liberati altri jihadisti pronti a riprendere le armi, le forze locali si sono squagliate. Persino una compagnia della temibile Khost Protection Force, addestrata dalla Cia, ha deposto le armi. Il terzo capoluogo a cadere è stato Asadabad nella provincia di Kunar. Da Nord in serata è arrivata la notizia della caduta di Mazar-e-Sharif, e del generale Abdel Rashid Dostum, ultimo alleato di Ghani, in fuga. Spronato dall'amministrazione Biden, Ghani si è rivolto alla popolazione e ai militari. «Come presidente - ha sottolineato - il mio compito è evitare ulteriore instabilità, violenza, sfollamenti. La priorità è mobilitare le nostre forze armate». Stati Uniti e Nato, gli hanno fatto notare da Washington, hanno speso 3 mila miliardi di dollari in vent' anni, una parte consistente per addestrare ed equipaggiare al meglio 320 mila fra soldati e poliziotti. Sono evaporati, quando non sono passati in massa con il nemico. L'esito della guerra, a meno di non rispedire indietro decine di migliaia di militari occidentali, è segnato. Ghani e gli Usa cercano di uscirne alle migliori condizioni. L'aviazione resta l'arma più efficace e ieri pesanti raid sull'aeroporto di Kandahar hanno eliminato decine di guerriglieri. A Kabul sono arrivate le prime truppe del corpo di spedizione incaricato di far uscire dal Paese gli occidentali. Il dispositivo anglo-americano consentirà di far partire dall'aeroporto «migliaia di persone al giorno». Nessuna capitale si fida più delle promesse dei Taleban. Agli occidentali dicono che «non toccheranno nessuno», che dopo la resa i soldati, «di tutte le etnie», saranno trattati con onore. Le testimonianze in arrivo dalle province sono di diverso tenore. Alle donne è proibito lavorare, vedove e ragazze vengono date in spose ai militanti. Da Kabul la giornalista della Bbc Yalda Hakim racconta di ricevere messaggi di amiche e colleghe che hanno«"bruciato i documenti» o si sono nascoste in rifugi sotto la propria casa. Un flusso continuo di sfollati inonda il centro, con file di persone «in lacrime» davanti alle ambasciate, in cerca di una via di fuga.

Skynews, spari nelle strade di Kabul. (ANSA il 15 agosto 2021) Il principale corrispondente di Skynews Stewart Ramsay, inviato a Kabul, ha riferito che ci sono stati spari nelle strade della capitale e notizie non confermate secondo cui il palazzo presidenziale sarebbe in lockdown. I talebani entrano a Kabul. Il governo: "Avanzano da ogni lato". Elicotteri Usa atterrano all'ambasciata per evacuare il personale.

Estratto da repubblica.it il 15 agosto 2021. "I talebani hanno iniziato a entrare a Kabul e avanzano da ogni lato": lo riferisce il ministro dell'Interno afgano. Una notizia che, probabilmente, segna l'inizio della caduta del governo del presidente Ghani, sempre più isolato nel Paese. Sono ore drammatiche nella capitale, con migliaia di civili in fuga. I capi talebani hanno ordinato ai propri combattenti di astenersi da ogni violenza, permettendo il passaggio a chi voglia lasciare la città. Ma in molti non si fidano. (…)

Stefano Piazza per “La Verità” il 15 agosto 2021. Mentre si attende la caduta di Kabul, capitale dell'Afghanistan, ormai cinta d'assedio, iniziano ad emergere i misfatti dei quali i talebani si sono macchiati anche durante questa insurrezione. Ancora una volta sono le donne a pagare il prezzo più alto della furia islamista messa in atto dai barbuti ex studenti di teologia; nella città e nei villaggi conquistati hanno battuto il terreno casa per casa alla ricerca di donne dai 12 ai 45 anni prima da violentare e poi costringere alla schiavitù sessuale. Alcuni testimoni che hanno parlato con il quotidiano inglese The Guardian hanno raccontato che i comandanti talebani hanno dato istruzione agli imam delle aree che si trovano sotto il loro controllo di fornire l'elenco delle donne «non sposate, di età compresa tra 12 e 45 anni affinché i loro soldati possano sposare in quanto qhanimat (bottino di guerra) che spetta ai vincitori». Poi dopo la violenza sessuale le stesse possono essere vendute o cedute nell'ambito di qualche trattativa commerciale vedi armi o droga. Inoltre, nelle aree sotto il loro controllo alle donne è stato vietato di andare a scuola, lavorare o di uscire di casa senza permesso. Intervistato dal Guardian Omar Sadr, professore di politica all'Università americana dell'Afghanistan, ha detto: «I combattenti talebani si sentono autorizzati a fare tutto questo in base alla loro rigida interpretazione dell'Islam, che vede le donne come kaniz (merce)». Quanto riservato alle donne non è che uno dei segnali di quanto accadrà all'Afghanistan non appena tornerà ad essere un Emirato islamico perché i talebani lasciano dietro di loro cadaveri per le strade e persone impiccate e lasciate penzolare per giorni, in modo che la popolazione sappia cosa accadrà a chi non riconoscerà la loro autorità. Mentre sul fronte governativo la situazione è alquanto confusa. Il presidente afgano Ashraf Ghani che inizialmente si era detto certo che l'esercito afgano avrebbe fatto fronte alla minaccia talebana, visto che gli Usa li avevano addestrati spendendo più di 80 miliardi di dollari, ha esautorato il generale Wali Ahmadzai promuovendo il generale Hibatullah Alizai dopo che l'esercito afgano ha rimediato una serie di sonore batoste sul campo, anche se va detto che in molti non hanno nemmeno combattuto, un po' come accadde in Iraq quando nel 2014 l'Isis arrivò a Mosul e i soldati si cambiarono d'abito e fuggirono in massa. Ashraf Ghani per tentare la difesa della capitale si è rivolto anche a signori della guerra come Atta Mohammad Noor e al più noto di loro in chiave anti talebana quel Abdul Rashid Dostum formatosi militarmente tra le file sovietiche. E adesso che accadrà? Non ha dubbi Franco Iacch, analista esperto in information warfare, terrorism, security and defense: «Secondo la Cia, il governo del presidente Ashraf Ghani potrebbe crollare entro l'anno. Centinaia di migliaia di afgani, qualora i talebani dovessero conquistare il Paese, saranno massacrati. Gli alleati di Al Qaeda, qualora conquistassero l'Afghanistan, attueranno una sistematica pulizia etnico religiosa dalle proporzioni apocalittiche». E cosa accadrà quando i talebani conquisteranno Kabul e quindi l'Afghanistan? «Il problema non è mai stato conquistare, ma gestire ciò che si è preso. I talebani non sono la Wehrmacht. È lecito supporre che la rapida caduta di Kabul porterà a livelli di violenza e spargimento di sangue senza precedenti per una guerra civile che potrebbe durare anni. Nel frattempo, la retorica talebana continuerà a pubblicizzare la vittoria sugli infedeli americani e questo darà una spinta ai gruppi terroristici di tutto il mondo».

Marco Ventura per “il Messaggero” il 13 agosto 2021. Qualche raffica sporadica attorno ai palazzi del governo, poi il silenzio. L'esercito governativo in rotta. Cade in questo modo Herat, la terza città dell'Afghanistan, dove gli italiani fino a poche settimane fa garantivano la presenza della Nato. In un mese i talebani potrebbero entrare a Kabul ed entro l'11 Settembre, esattamente vent' anni dopo l'attacco alle Torri Gemelle, chiudere con una clamorosa vittoria la long war, la lunga guerra cominciata con l'invasione del 7 ottobre 2001, la missione Enduring Freedom di USA e alleati fino al 2006, ISAF della Nato fino al 2014, e Resolute Support dal 2015, quest' ultima già un disimpegno col passaggio a un'operazione no combat, mirata non più al combattimento ma alla ricostruzione e all'addestramento delle forze locali. Le crudeli ritorsioni contro i civili e contro chiunque sia sospettato di collaborazione con gli occidentali - amputazioni, pubbliche esecuzioni e lapidazioni sono la diretta conseguenza del ripiegamento Nato segnato da varie tappe: la campagna elettorale del presidente Trump sul ritiro dei giovani soldati americani delle fasce povere, prima ancora la sorprendente formulazione della teoria di Obama sulla impossibilità per l'America di continuare a essere il Gendarme del Mondo, infine la conferma dem del neo-presidente Biden del ritiro, concluso alla fine di giugno, quando già i talebani partivano al contrattacco calpestando, come previsto, gli accordi di Doha sul riconoscimento del governo ufficiale afghano e la tutela dei diritti. Ed ecco riemergere, dagli Stati Uniti all'Europa, le polemiche sui costi umani ed economici di un conflitto tanto lungo quanto fallimentare e l'imbarazzo della Casa Bianca. I calcoli li ha fatti in aprile il Watson Institute della Brown University, per un totale di costi diretti e indiretti del conflitto in Afghanistan, e di riflesso nel confinante Pakistan - solo per gli Stati Uniti - di oltre 2.260 miliardi di dollari. Vanno considerati, infatti, gli altri costi finanziari e di gestione e le spese per l'assistenza medica e psicologia per i veterani di guerra. Ben 933 i miliardi di finanziamento diretto del contingente Usa e fino a 1.000 quelli spesi dall'intera coalizione. Impressionante il prezzo in vite umane. I caduti americani sono 2.248, si aggiungono quasi 4.000 contractor e 1.144 altri militari Nato non statunitensi (quasi 500 i britannici). Poi, oltre 47mila i civili morti in Afghanistan (e 24mila in Pakistan), 136 i giornalisti e gli operatori dei media, 549 i volontari delle organizzazioni umanitarie. Considerando anche le vittime tra le fila dell'esercito e della polizia afghani (quasi 70mila), si arriva a oltre 170mila solo in Afghanistan e 66mila in Pakistan. Sono 2.7 milioni i profughi fuggiti all'estero e 4 milioni gli sfollati interni. Un bilancio drammatico anche per l'Italia: 53 morti e 723 feriti tra i nostri militari, in oltre 50mila hanno messo piede in Afghanistan in vent' anni. L'Osservatorio Milex sulle spese militari italiane calcola finanziamenti diretti alle missioni per quasi 7 miliardi di euro (6.77) dal novembre 2001, più 720 milioni per le forze armate e la polizia afghane e altri 925 milioni per mezzi, materiali e trasporto truppe, per un totale di 8.5 miliardi. Nel momento di massimo impegno internazionale, la coalizione aveva schierato sul campo 140mila soldati, ma gli americani si erano ridotti ormai a 2500, gli italiani a circa 800, le forze straniere nel complesso a 7mila. E vivevano dentro gli accampamenti. Per l'Italia, di positivo c'è l'esperienza acquisita sul campo, sia in termini di combattimento che di supporto e addestramento, la fedeltà e consistenza del contributo anche numerico alla Nato (sempre fra i primi cinque contingenti) e l'influenza nei forum internazionali. Davvero poco, in confronto al dispendio umano ed economico. 

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2021. «Siamo tornati indietro al 2001. È tutto andato, i nostri sogni, le nostre speranze, tutto finito». Abdul ha 43 anni, due lauree, una in biotecnologie presa in India, l'altra in informatica, conosce cinque lingue. Ha tre figlie, la più grande il prossimo anno voleva iscriversi all'università. La linea va a singhiozzo, ogni spunta blu è un sospiro di sollievo. Hamid e la sua famiglia vivono a Herat da sempre. «Tutta l'area è presa, stanno ancora combattendo. Hanno portato via delle persone dal quartiere ma non so dire molto di più perché siamo chiusi in casa da ieri. La mia testa non funziona, non so dove possiamo andare. Pregate per noi». La città blu. La cittadella fortificata voluta da Alessandro Magno e da poco messa in lizza per diventare patrimonio dell'Unesco e tappa sulla Via della Seta che fino al mese scorso ha attirato qualche turista temerario. La moschea Jami Masjid dove il guardiano ti faceva entrare a vedere le maioliche anche se eri una donna non musulmana. La città alle porte dell'Iran, sulla strada per la via dell'oppio, con l'accento dari, in cui se il velo scivola sulle spalle non succede niente. Herat, la città dei sufi afghani e delle bancarelle di telefonini che affollano la zona intorno ai giardini di Taraqi Park. «Ricordati di noi». Con Hamid il saluto è davanti all'aeroporto poco meno di un mese fa. Alle spalle, la lapide intitolata al tenente Massimo Ranzani, ucciso nel 2011 da una bomba. Uno dei 53 caduti in questa guerra che ha coinvolto anche noi. Perché Herat in Afghanistan fino a pochi giorni fa significava Italia. Luogo simbolo, Camp Arena, la base che ha visto transitare dall'inizio del 2005 almeno 50mila soldati tricolori. Qui l'Italia - dopo aver partecipato alla messa in sicurezza della zona di Kabul - si vide affidata l'intera parte occidentale della regione di Herat. E qui comparvero i Prt, gli organismi di sostegno ai civili. Poi, dal 2015 con la missione Resolute support i compiti diventano soprattutto di addestramento. «Una presenza discreta», era il giudizio più diffuso. Fino all'8 giugno, quando con l'ammaina bandiera alla presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, Camp Arena ha iniziato ad essere letteralmente smantellata mentre i soldati si mettevano in fila per salire sui C-130 che li hanno riportati a casa. «Ciao italiani, ci mancherete», era stato il commento di tanti in città di fronte alla pizzeria Alfredo affollata dalle famiglie e dai più giovani. «E soprattutto ci mancherà il vostro ospedale», aveva scherzato Hamid. «Uno dei pochi a funzionare per davvero». Ed è così che del tricolore a Herat è rimasta solo la bandiera disegnata vicino alla pista dell'aeroporto. Ma Italia a Herat è anche la scuola intitolata a Maria Grazia Cutuli a Kush Rod, un piccolo villaggio a 15 kilometri dalla città, dove Mario Cutuli il fratello dell'inviata del «Corriere» uccisa in Afghanistan nel 2001 ha posto la prima pietra di una scuola per i bambini e le bambine del villaggio. Una costruzione in mattoni dipinti di blu. Un luogo di pace, dove tra i fiori e gli uccellini una coppia di conigli scorazzava libera mentre le alunne giocavano a rincorrersi nell'intervallo. Che cosa ne sarà di loro? Che cosa ne sarà di tutte le scuole dell'Afghanistan e di quelle bambine che vogliono solo studiare? Il pensiero corre a Nadia Anjuman, poetessa che a Herat è nata e ad Herat è morta a 25 anni nel 2005, in seguito alle percosse del marito. Nadia scrisse: «A voi, ragazze isolate del secolo condottiere silenziose, sconosciute alla gente voi, sulle cui labbra è morto il sorriso, voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due, cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti se tra i ricordi vedete il sorriso ditelo: non avete più voglia di aprire le labbra, ma magari tra le nostre lacrime e urla ogni tanto facevate apparire la parola meno limpida».

Da tg24.sky.it il 15 agosto 2021. Il presidente ha spiegato che "un anno o cinque anni in più di presenza militare Usa non avrebbe fatto la differenza se l'esercito afghano non può o non vuole tenere il suo Paese. E una presenza americana senza fine nel mezzo del conflitto civile di un altro Paese non è accettabile per me: non passerò questa guerra a un quinto presidente".  Biden ha poi messo in guardia i talebani che "ogni loro azione sul terreno che mette a rischio il personale Usa o la nostra missione riceverà una rapida e forte risposta militare". Intanto, il segretario di stato Usa Antony Blinken ha parlato col presidente afghano Ashraf Ghani (che ieri aveva annunciato di aver avviato "consultazioni" per trovare rapidamente una soluzione politica che garantisca "pace e stabilità"), discutendo "l'urgenza degli attuali sforzi diplomatici e politici per ridurre la violenza".

Da "tgcom24.mediaset.it" il 16 agosto 2021. Decine di combattenti talebani che armi in pugno entrano nel sontuoso palazzo Abdul Rashid Dostum, signore della guerra e acerrimo nemico degli insorti che avrebbe dovuto difendere la città di Mazar-i-Sharif fuggiti e invece è fuggito. A mostrarli è un video diffuso da Al Arabya nel quale gli insorti si riprendono mentre ridono e si siedono sui divani di raso, passandosi i servizi da the in oro e mostrando lo sfarzo del palazzo. Da lastampa.it il 16 agosto 2021. È trascorso poco più di un mese da questa conferenza stampa di Joe Biden dopo l'annuncio di voler ritirare le truppe dal paese asiatico. Il Presidente aveva più volte rassicurato i giornalisti affermando che l'esercito avrebbe resistito alla possibile avanzata dei talebani ma aveva già segnalato che l'unica via verso la pace sarebbe stata la convivenza con gli stessi.

 (ANSA il 16 agosto 2021) - Le fondazioni islamiche con sede nei paesi del Golfo Persico sostengono finanziariamente i Talebani. Lo ha detto Zamir Kabulov, l'inviato speciale del presidente russo in Afghanistan e direttore del secondo dipartimento Asia del ministero degli Esteri russo. "I Talebani sono sostenuti da alcune fondazioni islamiche situate, come si capisce, nella regione del Golfo Persico, dove hanno ricchi sponsor", ha detto Kabulov alla stazione radio Ekho Moskvy, ripreso da Interfax.

 (ANSA il 16 agosto 2021) - "Nessuno ha fornito armi ai talebani negli ultimi anni". Lo ha detto lunedì alla stazione radio Ekho Moskvy (o Eco di Mosca) l'inviato speciale del presidente russo per l'Afghanistan, Zamir Kabulov. "Quando i talebani erano in guerra con le forze governative, hanno acquistato armi dai magazzini dell'esercito e della polizia afgana e hanno sequestrato le munizioni lasciate durante le attività militari", ha sottolineato Kabulov, citato dalla Tass. 

Da Ansa.it il 16 agosto 2021. I talebani che hanno preso il potere a Kabul hanno lanciato un nuovo video in cui il vicecapo promette «serenità» alla nazione e di occuparsi dei bisogni della gente. «Questa è l'ora della prova. Noi forniremo i servizi alla nostra nazione, daremo serenità alla nazione intera e faremo del nostro meglio per migliorare la vita delle persone», dice nel video, citato dalla Bbc, il mullah Baradar Akhund seduto nel palazzo presidenziale circondato da miliziani armati. «Il modo in cui siamo arrivati era inatteso e abbiamo raggiunto questa posizione che non ci aspettavamo», dice ancora Akhund. Poche ore dopo aver annunciato la sua fuga, giustificata su Facebook dall'intenzione di «evitare un bagno di sangue», il presidente afghano, Ashraf Ghani, è stato subissato dalle critiche sui social, in cui viene accusato di vigliaccheria, di un gesto egoista e sconsiderato e «antipatriottico», mentre l'Afghanistan cadeva nelle mani dei talebani. Fra i maggiori critici, il suo ministro della Difesa, Bismillah Khan Mohammadi, che su Twitter - scrive Bbc - sbotta: «Ci hanno legato le mani dietro alla schiena e venduto la nostra patria. Maledetto sia il riccone e la sua gang», riferendosi a Ghani. Ma la fuga del presidente, che sarebbe riparato in Uzbekistan, forse via Tagikistan, viene considerata dai critici solo come la «ciliegina sulla torta», dopo aver lasciato - si afferma - che la corruzione dilagasse, che l'esercito lo abbandonasse e dopo aver fallito nel contenere e nel trattare coi talebani. Un corrispondente del New York Times a Kabul, Sharif Hassan, scrive che «gli afghani non perdoneranno mai Ghani e i suoi due leccapiedi, Mohib e Fazly», riferendosi ai suoi due principali consiglieri.

 Lo sfogo del medico afghano rientrato da Kabul: "I nostri colleghi rischiano di morire, i talebani li cercano casa per casa". Da la7.it il 16 agosto 2021. Le parole rotte dal pianto per una situazione che si è creata negli anni. Quello che racconta Arif Oryakhail, medico dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione, è un paese allo sbando, dove chi ha collaborato con l'occidente ora ha paura: "Ho paura per chi ha lavorato con noi ed ora sta per morire. I talebani li cercano casa per casa. La situazione è gravissima, la comunità internazionale li salvi" (Fonte: Agtw/CorriereTv)

(ANSA il 16 agosto 2021) L'aereo dell'Aeronautica Militare con 74 persone a bordo proveniente da Kabul è atterrato a Fiumicino alle 14.28.

(ANSA il 16 agosto 2021) È iniziata la fase di accoglienza e di controllo sanitario dei circa 70 tra personale dell'ambasciata, altri nostri connazionali presenti in Afghanistan e 19 ex collaboratori afghani del corpo diplomatico, presso il Terminal 5 dell'aeroporto di Fiumicino, decentrato rispetto alle altre aerostazioni. Presenti funzionari della Farnesina, personale del ministero della Difesa e militari dell'Esercito. Personale sanitario, con Croce Rossa e ministero della Salute, ha cominciato a sottoporre tutti i rimpatriati al tampone anti Covid mentre l'area interna ed esterna è sotto la stretta sorveglianza di polizia e carabinieri. Le operazioni di sbarco e di accoglienza dei rimpatriati avvengono senza contatto ravvicinato della stampa presente dietro un cordone all'esterno del Terminal.

(ANSA il 16 agosto 2021) "Ho paura per chi ha lavorato con noi ed ora sta per morire. I Talebani li cercano casa per casa. Abbiamo lasciato migliaia di persone che rischiano la vita. La situazione è gravissima, la comunità internazionale li salvi". Così, intervistato a Fiumicino, uno degli afghani arrivati oggi col volo da Kabul.

(ANSA il 16 agosto 2021) "È stato triste lasciare l'Afghanistan. Quando siamo partiti noi era abbastanza ordinata la situazione ma abbiamo comunque dovuto attendere per il decollo. Tanta gente doveva venire sui voli ma non è venuta. C'è stato anche un tentativo da parte di qualcuno di entrare sull'aereo nostro. Ora grande gioia ed un ringraziamento a tutti. Certo, l'Afghanistan è molto imprevedibile e questo è uno dei classici esempi di imprevedibilità. Ce l'ho nel cuore e non ne uscirà mai". È la testimonianza di Giuseppe Grandi, direttore dell'Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo a Fiumicino.

(ANSA il 17 agosto 2021) - "Vogliamo assicurarci che l'Afghanistan non sia più un campo di battaglia". Lo ha affermato il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid nella sua prima conferenza stampa. "Abbiamo perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro di noi. Le animosità sono finite. Non vogliamo nemici esterni o interni", ha assicurato.

Talebani, niente burka per le donne, sì all'istruzione.  (ANSA il 17 agosto 2021) - Uno dei portavoce dei talebani, Suhail Shaheen, ha dichiarato a Sky News che le donne afghane potranno accedere all'istruzione, compresa l'università, sotto il dominio dei talebani, aggiungendo che le donne dovranno indossare l'hijab ma non il burka. Suhail Shaheen ha affermato inoltre che "migliaia" di scuole continuano a funzionare. Il gruppo ha già annunciato una "amnistia generale" in Afghanistan e rassicurato coloro che avevano lavorato con il precedente governo: "Le loro proprietà saranno salvate e il loro onore e le loro vite saranno al sicuro".

Usa, nessuna azione ostile dai talebani ad aeroporto Kabul. (ANSA il 17 agosto 2021) - Nessuna azione ostile da parte dei talebani all'aeroporto di Kabul: lo ha detto il portavoce del Pentagono John Kirby in un briefing con i giornalisti.

Pentagono, comandanti in contatto con i talebani per sicurezza. (ANSA il 17 agosto 2021) comandanti Usa "hanno avuto comunicazioni" con i talebani: lo ha detto il portavoce del Pentagono John Kirby in un briefing con la stampa, precisando che i contatti sono finalizzati a garantire la sicurezza delle operazioni di evacuazione. 

Ferdinando Fedi per infosec.news il 17 agosto 2021. Ancora non ha suscitato i dovuti commenti il quadro alle spalle dei talebani appena insediati nel palazzo di Ashraf Ghani, l’aristocratico presidente fuggito in Uzbekistan. Alle loro spalle sembra un’immagine di Gesù! Forse distratti dal successo non se ne sono accorti anche perché l’integralismo cui si ispirano vieta qualsiasi immagine.

Sarà interessante capire i motivi della presenza di quel quadro in una sede sicuramente da sempre nella disponibilità di rappresentanti islamici più o meno moderati. Quando era presidente Karzai ebbi modo di visitare il palazzo e posso essere certo di non aver visto quel quadro, ben individuabile. Essendo Gesù riconosciuto anche dall’Islam quale profeta, può darsi che Ghani avesse scelto quell’immagine quale "punto d’incontro" tra le due religioni per compiacere gli interlocutori cristiani delle delegazioni occidentali che riceveva. Oppure, molto semplicemente, i talebani lo hanno mostrato appositamente al fine di profanare un simbolo della cultura occidentale.

Media e regime.

Le notizie dal mondo, la rassegna stampa internazionale. Tweet di Paolo Cappelli  su Rainews.it il 17 agosto 2021 - Da un lato la disperazione afgana, quelle immagini di uomini che precipitano nel vuoto dagli aerei che lasciano Kabul, l'eco drammatica di altre persone che vent'anni fa si gettarono dalle Torri gemelle colpite a NYC. Dall'altro, il tentativo di spiegare e spiegarsi l'epilogo disastroso della guerra. Una spiegazione che non è la stessa, forse, sulle due sponde dell'Atlantico, negli USA e in Europa, dove si vota a settembre in Germania e l'anno prossimo in Francia. L'Afghanistan di nuovo dei Talebani è titolo dei titoli, oggi:

Welt "Abbiamo tutti valutato male gli sviluppi" Angela Merkel ha giudicato fallimentare la missione internazionale in Afghanistan. Al di là della lotta al terrorismo, la missione, durata quasi 20 anni, "non ha funzionato come avevamo previsto", ha affermato ieri sera la cancelliera della CDU davanti alla stampa a Berlino. "Questo è un epilogo amaro". Gli alleati dovrebbero ammettere "che gli sforzi compiuti non hanno avuto successo". Vanno tratte lezioni da questo "e anche gli obiettivi devono essere ridotti" in tali operazioni. "Dal ritiro delle truppe straniere, abbiamo visto come i talebani hanno riconquistato provincia per provincia, città per città e riportato l'intero Paese sotto il loro controllo. Questo è uno sviluppo estremamente amaro ", ha detto Merkel. "Questo sviluppo è amaro, drammatico e terribile, soprattutto per il popolo afghano", ha aggiunto la Cancelliera. La situazione è "terribile per i milioni di afgani che hanno lottato per una società libera". il ministro degli Interni Horst Seehofer (CSU) ha affermato che dopo l'ascesa al potere dei talebani, da 300.000 a cinque milioni di afgani in più fuggiranno dal Paese. Seehofer non ha fatto riferimento a un preciso lasso di tempo. L'autodistruzione dell'Occidente, la sua vana decostruzione per viltà, sta dando i suoi frutti. Con la fiducia nelle proprie idee, la capacità di difendersi e di comprendere la politica estera, di sicurezza e di sviluppo secondo principi illuminanti è diminuita. I talebani e il loro islamismo arcaico con tutte le sue atrocità disumane e misogine tornano a controllare l'Afghanistan dopo il cieco ritiro delle truppe occidentali. I talebani portano la sharia, l'omicidio di gay, adultere, dissidenti, cristiani, qualunque cosa. Questo è accettato con un'alzata di spalle. "Via dall'Afghanistan"  ciò che la sinistra e i pacifisti hanno sempre chiesto, ora è successo. Con conseguenze disastrose per la popolazione locale che soffre la crudeltà dei talebani. Le nostre élite intellettuali e culturali hanno ridotto i loro orizzonti di pensiero alla portata della loro bici da passeggio.

Bild "Come dovrei spiegare tutto questo ai tedeschi? Da settimane la Merkel temeva la catastrofe di Kabul ma non ha fatto nulla. Ora vede la gente fuggire in preda al panico e morire al decollo degli aerei. Maas ammette: abbiamo valutato male gli sviluppi degli eventi.

FAZ Il caos all'aeroporto di Kabul ostacola l'evacuazione del corpo diplomatico e dei collaboratori della missione tedesca in Afghanistan. Il Vietnam della Germania: la macchina dei rimpatri da Kabul colta di sorpresa dalla rapidità della caduta della capitale. I servizi segreti, i responsabili dell'intelligence e gli analisti del ministero degli Esteri dovrebbero trarre conclusioni dalla loro sequenza di errori  Nicolas Busse: scarsa conoscenza dell'Afghanistan L'opposizione quasi sempre accusa il governo di fallimento totale, fa il suo mestiere. Nel caso della debacle in Afghanistan, però, anche molti cittadini si chiederanno anche perché i responsabili nei ministeri degli Esteri e della Difesa, oltre che nei servizi di intelligence, non abbiano visto l'avanzata rapida e trionfante dei talebani. Gli aerei di soccorso dell'aeronautica non sono partiti fino a quando i combattenti non sono arrivati nella capitale, Kabul. E non è una consolazione che altri governi, soprattutto quello americano, non abbiano saputo fare di meglio. Dopo vent'anni di servizio, l'Occidente nel suo insieme sa ancora sorprendentemente poco dell'Afghanistan. In Germania l'imminente ondata di profughi dall'Afghanistan occuperà sicuramente gli elettori. È facile immaginare quale partito potrebbe trarne vantaggio. L'Unione, d'altro canto, sta ancora pagando pesantemente su questo tema l'eredità del 2015. Laschet non avrà vita facile nella fase finale della campagna elettorale.  

Die Zeit L'aiuto e la paura del 2015 I partiti tedeschi vogliono aiutare gli afghani minacciati, allo stesso tempo temono un aumento del numero di rifugiati. Le carenze della politica di asilo dell'UE sono ora chiaramente evidenti.

Tagesspiegel Tragedia all'aeroporto di Kabul Assalto per cercare di fuggire dal Paese Biden e l'Afghanistan: crollo di autorevolezza. Restano vergogna e rabbia, scrive Malte Lehming 20 anni dopo l'11 settembre e l'intervento in Afghanistan la domanda va posta: i terroristi hanno raggiunto i loro obiettivi? Tutto questo è stato per niente? Ora i sapientoni dicono: una guerra sbagliata non può finire bene. Può essere. Ma quasi nessuno si aspettava che in Afghanistan un esercito di 300.000 soldati, addestrati in molti anni dalla NATO, dotati di armi all'avanguardia, si arrendesse in poche ore senza combattere a truppe di ribelli su camioncini con kalashnikov. Apparentemente nessuno ha capito l'Afghanistan e la sua gente. L'accusa colpisce principalmente l'amministrazione del presidente Joe Biden. La guerra in Afghanistan non è stata neanche un acceleratore di democratizzazione. L'idealismo predicato dai neocon americani, secondo cui valori come la libertà e l'uguaglianza sono contagiosi ed esportabili, è stato smentito. Ciò che resta della lotta americana contro il "male" sono Guantanamo, un'enorme agenzia di sicurezza interna, servizi di intelligence onnipotenti, diritti civili limitati, lo scandalo delle torture nella prigione di Abu Ghraib e le spaccature transatlantiche sulla guerra in Iraq. Tutto questo sta tornando a galla.  I talebani nel palazzo presidenziale a Kabul: questa foto intacca l'autorità di Joe Biden. È lui il responsabile di ciò che sta accadendo in questi giorni. Possiamo ancora contare sulla sua parola? Ci si può ancora fidare del suo giudizio?

Le Monde I talebani di nuovo padroni dell'Afghanistan Di fronte al dramma umanitario annunciato in Afghanistan, Emmanuel Macron fa l'equilibrista. Nel discorso di ieri sera ai francesi, il presidente della Repubblica ha risposto alla sinistra che chiede un ponte umanitario e alla destra che lo mette in guardia contro ogni tentazione angelica per la pressione migratoria che porterà sull'Europa intera questa crisi.  "In Afghanistan la nostra lotta è stata giusta ed è un onore della Francia aver assolto l'impegno. La Francia ha sempre avuto un solo nemico: il terrorismo", ha insistito Macron, confutando l'idea che questo tipo di intervento mirasse a sostituire la sovranità del popolo afgano o, come ha affermato Fabien Roussel, segretario nazionale del Partito Comunista Francese (PCF) e candidato alla presidenza, per "soddisfare gli interessi di potere degli Stati Uniti e della NATO" . 

Liberation Afghanistan, si salvi chi può Aeroporto preso d'assalto, i talebani di nuovo al potere dopo 20 anni di guerra scatenano il panico della popolazione e segnano la disfatta dell'Occidente, che continua l'operazione rimpatri. Da Macron un discorso sotto pressione. Oggi prevista la riunione dei ministri degli esteri dei Paesi dell'Unione europea, il presidente francese ha chiesto una consultazione europea, in particolare sulla lotta al terrorismo. "L'Afghanistan non deve diventare ancora una volta il santuario per il terrorismo che è stato", ha avvertito Macron. Sotto la pressione delle critiche da parte della destra e del RN il Capo dello Stato è stato fermo anche sulla questione migratoria, chiedendo una "risposta solida, coordinata e unitaria e collaborazione con i Paesi di transito e di accoglienza". Sul punto Macron è intransigente: "Dobbiamo anticipare e tutelarci da significativi flussi migratori irregolari che metterebbero in pericolo chi ne fa uso e alimenterebbero traffici di ogni genere". Anche a costo di suscitare reazioni immediate da parte di socialisti e ambientalisti che, ancora una volta, denunciano una gamba destra presidenziale più muscolosa della sinistra.

Le Figaro I talebani impongono l'ordine islamista a Kabul I nuovi signori dell'Afghanistan prendono il controllo della sicurezza, caos all'aeroporto della capitale, sospese le evacuazioni. Macron promette di lottare contro i flussi migratori clandestini. Nelle province afgane riprese le violazioni dei diritti umani Editoriale: capitolazione ammettiamo che Joe Biden abbia ragione: la guerra in Afghanistan è impossibile da vincere. Che restare un anno o altri 5 in più nel paese tomba degli imperi non avrebbe cambiato niente (…) Ma 20 anni dopo l'11 settembre il presidente degli USA deve assistere all'immagine devastante della bandiera talebana che getta un'ombra sull'ambasciata americana a Kabul. Questa debacle era perfettamente evitabile. Biden poteva blindare la ritirata in altre condizioni, ha fatto esercizio di presunzione della sua potenza decretando la fine della guerra. La guerra continua, lui se ne lava le mani. L'America abbandona l'Afghanistan a talebani più raffinati e più agguerriti (… e grazie dell'arsenale americano) di 20 anni fa. Gli Occidentali sono in prima linea: disastro umanitario, esodo di rifugiati, santuario di terroristi islamici. Che si realizzi o no il peggio, una macchia indelebile sulla presidenza Biden.

ABC L'Occidente fugge dall'Afghanistan senza voltarsi indietro The Times Kabul, fuga dalla carneficina Centinaia di cittadini britannici e di collaboratori afgani ancora intrappolati. Sospesa l'evacuazione, caos all'aeroporto.

The Guardian Caos a Kabul, migliaia lottano per fuggire dai talebani Dan Sabbagh: la rapida presa dei talebani dimostra che la lettura della situazione di Stati Uniti e Regno Unito era gravemente errata. Biden e Boris Johnson appena 5 settimane fa avevano assicurato che il governo afgano non sarebbe caduto così facilmente. "È improbabile che i talebani ottengano il pieno controllo se scegliessero di combattere fino alla fine su tutto l' Afghanistan ", ha detto appena pochi giorni fa il generale Sir Nick Carter, capo delle forze armate britanniche, evidenziando una serie di altri possibili scenari, tra cui la sopravvivenza del governo di Kabul  il cui presidente è fuggito nel fine settimana  o un accordo negoziato tra questo e i talebani. I contribuenti britannici hanno dato 75 milioni di sterline per l'accademia di formazione degli ufficiali dell'esercito afgano. Nick Reynolds, un analista del thinktank Rusi, spiega però che il crollo delle forze di sicurezza afghane era prevedibile, esacerbato dalla corruzione e dalla mancanza di legittimità locale. "Anche le questioni di base come garantire che i soldati ricevessero una paga regolare e fossero adeguatamente riforniti ed equipaggiati non sono mai state completamente risolte".

Daily Telegraph Biden difende il volo dell'America Il presidente americano sotto forte pressione internazionale per l'evoluzione drammatica degli eventi in Afghanistan Nick Timothy: il rifiuto di Biden del fardello imperiale degli USA rende la GB più vulnerabile. Dopo questa umiliante sconfitta in Afghanistan dovremo rivedere politiche e capacità di intervento.

The Independent Caos a Kabul  Migliaia di civili disperati cercano la fuga, assalto all'aereo americano in decollo. Ma Biden difende la sua decisione di ritirare le truppe NYT Di fronte al caos afgano, Biden difende il ritiro La tragedia afgana Tragico perché il sogno americano di essere la "nazione indispensabile" per dare forma a un mondo in cui regnano i valori dei diritti civili, dell'emancipazione femminile e della tolleranza religiosa si è rivelato proprio questo: un sogno. Questa, la più lunga delle guerre americane, fu chiamata prima Operazione Enduring Freedom e poi Operazione Freedom's Sentinel. Eppure, dopo più di 2 trilioni di dollari e almeno 2.448 vite di militari americani perse in Afghanistan, è difficile vedere cosa sia stato raggiunto di duraturo. È tanto più tragico a causa della certezza che molti degli afgani che hanno lavorato con le forze americane e hanno accettato il sogno - e specialmente le ragazze e le donne che avevano abbracciato una misura di uguaglianza - sono stati lasciati alla mercé di uno spietato nemico. L'amministrazione Biden aveva ragione a porre fine alla guerra. Eppure non c'era bisogno che finisse in un tale caos, con così poca previdenza per tutti coloro che hanno sacrificato così tanto nella speranza di un Afghanistan migliore.    

WSJ Caos travolge il ritiro americano. Biden definisce il ritiro la 'decisione giusta' Biden ha giocato con il sentimento degli americani che sono stanchi delle missioni militari straniere. È un punto forte parlare di mandare ragazzi a rischiare la vita in un paese straniero, e senza dubbio colpirà molti americani. È una domanda che ogni presidente dovrebbe porsi. Ma il presidente è stato disonesto nell'inquadrare la missione degli Stati Uniti semplicemente come combattente nella "guerra civile" di un altro paese. Gli Stati Uniti non sono rimasti in Afghanistan per 20 anni per mandare le donne a scuola o per "costruzione della nazione". La missione principale era impedire che il paese diventasse di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi. La vittoria dei talebani ora attirerà migliaia di giovani jihadisti da tutto il mondo, e avranno gli americani e la patria degli Stati Uniti nel mirino.

Washington Post Fareed Zakaria: abbiamo perso la guerra in Afghanistan da molto tempo Gli Stati Uniti hanno trascorso 20 anni, $ 2 trilioni , comandato al loro apice 130.000 truppe della coalizione , costruito una forza di sicurezza afgana di 300.000 (almeno sulla carta) e utilizzato la potenza aerea più sofisticata e letale del mondo. Tuttavia, non è stato in grado di sconfiggere una forza talebana mal equipaggiata di forse 75.000 persone . Come mai? Carter Malkasian, che ha servito come ufficiale civile nella provincia di Helmand ed è diventato consigliere anziano del presidente del Joint Chiefs of Staff, ha scritto nel suo libro, " La guerra americana in Afghanistan " di un talebano incontrato nel 2019 a Kandahar. "I talebani combattono per la fede, per janat (paradiso) e ghazi (uccisione di infedeli). … L'esercito e la polizia combattono per soldi". L'identità afghana è strettamente legata alla resistenza contro l'invasione straniera, in particolare l'invasione degli infedeli. La storia afgana glorifica la lotta secolare contro gli inglesi e la jihad contro l'empia Unione Sovietica. Il governo di Ashraf Ghani non aveva una narrativa controbilanciata di uguale intensità per ispirare le sue truppe. Gli USA avrebbero potuto ritirarsi meglio, più lentamente, in una stagione diversa, dopo più trattative? Certamente. Questo ritiro è stato mal pianificato ed eseguito. Ma la nuda verità è questa: non esiste un modo elegante per perdere una guerra.

Afghanistan, Franco Bechis contro Biden e sinistra: "Cosa scopriamo dopo 20 anni". Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. L'intenzione degli Stati Uniti non è mai stata quella di esportare la democrazia in Afghanistan: Joe Biden è stato molto chiaro nel discorso pronunciato ieri alla Casa Bianca. Un discorso nel quale ha difeso la scelta degli americani di lasciare definitivamente il territorio dopo ben 20 anni. Franco Bechis, però, in un editoriale sul Tempo sottolinea che le intenzioni degli Usa, in realtà, non sono mai state molto chiare: "Non l'avevamo capito noi, non lo avevano tragicamente compreso nemmeno le migliaia di giovani di Kabul che ieri hanno dato l'assalto all'aeroporto provando disperatamente ad aggrapparsi ai grandi aerei della Us Air Force che stavano decollando per rimpatriare il personale di ambasciate e consolati". Il presidente americano ha spiegato anche che il loro unico obiettivo - raggiunto - in Afghanistan fosse quello di sconfiggere il terrorismo ed Al Quaeda. La "figuraccia", però, non riguarderebbe solo l'America, ma anche l'Italia. "Stiamo abbandonando al loro destino e a morte quasi certa almeno due mila afghani che avevano creduto alle fesserie che continuiamo a pronunciare in libertà e che per tutti questi anni hanno lavorato con noi", ha scritto il direttore del quotidiano romano.  Bechis poi ha condannato anche l'assenza di un rappresentante del governo all'aeroporto: "Se penso al can can che ci fu quando fu portata nello stesso aeroporto Silvia Romano, appena liberata e avvolta dal velo dell'Islam a cui si era convertita, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro degli Esteri Luigi Di Maio (oggi ancora in carica, ma ha preferito restare in spiaggia in Puglia) lì a fare mille salamelecchi, c'è da vergognarsi di essere italiani per le assenze di ieri".

Il fardello della vergogna.

Perché i giornali americani sono durissimi con Joe Biden. Linkiesta su L'Inkiesta il 16 agosto 2021. I principali quotidiani sono unanimi nel criticare le scelte dell’Amministrazione democratica, che avrebbe potuto evitare una ritirata così caotica ma ha deciso di non farlo e di difenderla con un discorso del presidente alla nazione. Dopo la caduta di Kabul i principali quotidiani americani hanno pubblicato editoriali molto duri nei confronti di Joe Biden, quasi unanimemente ritenuto responsabile della disordinata ritirata americana dall’Afghanistan. Con una nota comune, inaudita nella storia recente del giornalismo americano, gli editori dei tre grandi quotidiani – New York Times, Washington Post e Wall Street Journal – hanno formalmente chiesto al presidente di facilitare la protezione e l’evacuazione del personale afghano che in questi anni ha lavorato fianco a fianco con i giornalisti americani. I giudizi politici sulla scelta della Casa Bianca sono severi e non si sono attenuati dopo il discorso alla nazione con cui il presidente ha difeso la sua scelta di uscire dal teatro di guerra afghano. Il New York Times, in un articolo firmato da David Sanger, accusa il Presidente di aver gestito in modo caotico e poco competente «l’umiliante atto finale» della guerra in Afghanistan, suggerendo implicitamente che il ritiro dal paese poteva finire in altro modo, soprattutto rispetto ai collaboratori degli Stati Uniti e degli alleati, che non sono stati tutelati in modo adeguato. Non solo, anche nella sconfitta militare dell’esercito afghano, l’Amministrazione ha delle responsabilità «Non c’era un meccanismo affidabile con cui i contractors potessero mantenere operativa l’aviazione afghana una volta partite le truppe regolari americane». Il giornalista americano riconosce che Biden non ha sbagliato da solo, e che i rapporti di intelligence non avevano previsto un’avanzata così rapida da parte talebana, e soprattutto un collasso repentino delle forze armate locali. Eppure, il presidente è in carica da sette mesi, aveva deciso anche grazie alla sua lunga esperienza in politica estera di concludere l’avventura in Afghanistan per concentrarsi su altre priorità, e avrebbe dovuto preparare in modo accurato il ritiro completo. E invece, scrive Senger, «Joe Biden sarà ricordato per aver sopravvalutato la forza dell’esercito afgano, e per non essersi mosso in fretta quando è diventato chiaro che lo scenario che gli era stato prospettato era sbagliato». Secondo il Washington Post, che dedica alla ritirata americana un’analisi firmata da Aaron Blake, la reazione dell’Amministrazione Biden alle critiche ricevute in questi giorni è stata deludente: «Ci siamo trovati di fronte alla più classica strategia politica e diplomatica: di fronte a domande difficili, rispondi a una domanda diversa e correlata che inquadra il dibattito in modo più favorevole per te. C’era un forte consenso bipartisan sul ritiro! I presidenti di entrambi i partiti hanno cercato di farlo per anni!». Gli uomini del presidente sono rimasti fedeli al copione: il ritiro era la cosa giusta da fare nonostante gli effetti collaterali. Secondo Blake, il punto della questione non è mai stato questo: tutti erano d’accordo sul fatto che la guerra e l’occupazione dovessero finire. Tuttavia, ciò su cui l’opinione pubblica avrebbe giudicato Biden, come sta facendo adesso, «riguardava il modo in cui è stato effettuato questo ritiro a lungo pianificato e a lungo cercato. E i risultati sono brutali per l’amministrazione Biden. Le sue dichiarazioni degli ultimi mesi su come sarebbe andato a finire si sono rivelate eccessivamente ottimiste e, in alcuni casi, completamente sbagliate. Anche per chi era convinto che le cose non sarebbero andate in modo liscio questo atteggiamento solleva enormi interrogativi su quanto l’Amministrazione fosse in sintonia con la situazione sul campo e quanto fosse preparata per una situazione come questa». Insomma, un giornale molto influente che mette in discussione il punto centrale della narrazione dell’Amministrazione Biden, ovvero la sua competenza e la sua capacità di gestire situazioni complesse, soprattutto a livello internazionale e soprattutto rispetto ai metodi di Donald Trump, che avevano danneggiato la reputazione americana nel mondo. Biden si è ostinato a negare paragoni tra Kabul e Saigon, ma le immagini che abbiamo visto in questi giorni gli danno torto, scrive Blake: «Abbiamo visto elicotteri evacuare personale americano come a Saigon, semplicemente non dal tetto dell’ambasciata ma da un eliporto. Ma forse la scena più forte è stata quella dell’aeroporto, quando decine di persone si sono aggrappate a un aereo americano in fase di decollo». Anche il Wall Street Journal non risparmia critiche al presidente democratico, in un articolo firmato dall’editorial board che rispecchia la posizione “ufficiale” del quotidiano finanziario sulla vicenda. È forse il pezzo più duro pubblicato dalla grande stampa americana, e comincia in modo abbastanza esemplificativo: «Il comunicato di sabato, con cui il presidente Biden dimostra di lavarsene le mani dell’Afghanistan, merita di essere ricordato come uno dei più vergognosi della storia di un Commander in chief che deve condurre il ritiro delle sue Forze Armate». Secondo gli autori, il presidente in questi giorni si è autoassolto, ha accusato il suo predecessore di avere creato questa situazione e addirittura ha «più o meno invitato i talebani a prendere il controllo del paese». Dopo aver ricordato che il Wall Street Journal è sempre stato costruttivo nei suoi confronti, e ha anche criticato alcune scelte di Donald Trump, l’editorial board ricorda che Biden aveva delle alternative. «Le giustificazioni date lo scorso sabato dal presidente Biden esemplificano la sua disonestà. “Tra uno, cinque o più anni la presenza militare americana non avrebbe fatto la differenza. Se l’esercito afgano non è capace o non vuole voluto mantenere sotto controllo il proprio paese noi possiamo poco”, ha spiegato. Ma gli afgani erano pronti a combattere e sopportare delle perdite con il supporto degli Stati Uniti e degli alleati Nato, specialmente con la loro copertura aerea. Poche migliaia di truppe regolari e contractors avrebbero fatto il loro dovere e impedito questa rotta». Più in generale, secondo il Wall Street Journal la comunicazione del presidente americano è stata incoerente: «Sembra essere più critico con il suo predecessore che con i talebani. Ha passato i primi sette mesi del suo mandato a rovesciare la politica estera e interna tenuta da Donald Trump e però sull’Afghanistan sostiene di non aver potuto fare nulla». Anche sull’Atlantic si può leggere una durissima critica alla decisione di Joe Biden, stavolta concentrata sul tradimento nei confronti del popolo afgano e soprattutto delle migliaia di persone che hanno aiutato gli americani e gli alleati in questi venti anni. George Packer, giornalista di lungo corso della rivista, è piuttosto netto nell’attribuire gravi responsabilità all’Amministrazione in carica, colpevole di non «avere ascoltato gli avvertimenti sull’Afghanistan e di non avere agito con urgenza. Il fallimento dell’Amministrazione ha lasciato decine di migliaia di afgani a un destino terribile». Non solo, il giudizio è ancora più duro nei confronti del presidente, attaccato personalmente: «Questo tradimento vivrà nell’infamia, e il fardello della vergogna ricadrà sul presidente Joe Biden». Anche secondo Packer, in effetti, la ritirata militare e l’evacuazione del personale civile afgano potevano essere gestite in modo diverso. Ciò che è accaduto non era affatto imprevedibile: «Per mesi, i membri del Congresso e le organizzazioni per i rifugiati, i veterani e i diritti umani hanno esortato l’amministrazione Biden a evacuare gli alleati afgani dell’America in caso di un’improvvisa emergenza. Per mesi, sulla stampa sono apparsi terribili avvertimenti. Le risposte dell’amministrazione, invece, non sono mai state adeguate». Nonostante tutto questo, e nonostante le pressioni ricevute anche dal suo staff alla Casa Bianca, «Biden ha resistito, come se non volesse permettere all’Afghanistan di interferire con le sue priorità, come se avesse chiuso con l’Afghanistan nel momento in cui ha annunciato il ritiro di tutte le forze americane rimaste nel paese». Di taglio diverso invece la riflessione di Tom Nichols, sempre sull’Atlantic. Secondo il giornalista, è impossibile non attribuire le colpe del disastro afgano anche e soprattutto ai cittadini americani. I paragoni con Vietnam e Corea non sono calzanti, ragiona Nichols: «Quello che è accaduto in quelle due guerre era oltre il controllo del pubblico americano. I ragazzi erano arruolati e mandati in battaglia, spesso in missioni nascoste all’opinione pubblica. In Afghanistan le cose sono state diverse. In primo luogo la guerra è stata molto popolare ed è stata condotta senza nascondere nulla. Il problema è stato che, dopo l’iniziale euforia, il pubblico non era molto interessato: la copertura della carta stampata è rimasta solida, quella delle tv via cavo no». E quindi, per quanto possa essere facile e di conforto criticare Donald Trump o Barack Obama, gli americani devono semplicemente guardare loro stessi: «Abbiamo messo i nostri leader politici di fronte a un dilemma politico impossibile da vincere. Se avessero scelto di andarsene, sarebbero diventati dei codardi che abbandonano l’Afghanistan. Se avessero scelto di restare, sarebbero diventati dei guerrafondai interessati a perseguire “guerre senza fine”». La verità, conclude il giornalista dell’Atlantic, è che «non esisteva una versione di “basta con la guerra senza fine” che non si concludesse con la caduta di Kabul. Pensavamo che potesse esistere, come nazione, perché volevamo crederci».

"Non possiamo restare all'infinito". E Biden scarica su Trump. Francesco Boezi il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. Il presidente Joe Biden conferma la decisione di abbandonare l'Afghanistan. Non ci sarà un passo indietro degli Stati Uniti . Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, dopo qualche giornata di attesa, si è espresso sul disastro in Afghanistan. Il discorso era stato annunciato per oggi, alle 21.45 ore italiane. Con un po' di ritardo rispetto alla tabella di marcia, Biden ha esordito, dicendo di aver "seguito" quanto sta accadendo in queste ore. Il Comandante in capo ha posto accenti, come aveva già fatto in questi giorni il segretario di Stato Blinken, sull' "obiettivo" che sarebbe comunque stato raggiunto dalla missione ventennale dell'Occidente. Come ha riportato pure la Lapresse, il leader Dem ha infatti rimarcato come il fine della missione in Afghanistan fosse quello di evitare che gli Stati Uniti venissero attaccati un'altra volta, partendo dalla nazione interessata dagli eventi di questa settimana. Il capo di Stato ha comunque aggiunto che gli Usa stanno "monitorando" in maniera attenta "la situazione". Mentre la costruzione di una nazione - ha fatto presente l'uomo che ha sconfitto Donald Trump, che nel frattempo ha chiesto le dimissioni del Dem, lo scorso novembre - non era la finalità che gli Stati Uniti si erano preposti. E ancora: "Abbiamo dato la caccia a Bin Laden e lo abbiamo preso", ha annotato, ricordando il principale frutto geopolitico, forse, dell'operazione ventennale. "Le forze Usa - ha aggiunto Biden - non devono morire in una guerra che Kabul non sa combattere", così come sottolineato dall'Adnkronos. Sempre all'interno del ragionamento sulla necessità o meno della continuazione di un intervento, Biden ha continuato, sostenendo che gli States hanno fornito "tutti gli strumenti", ma di non poter disporre della "volontà di combattere". Il riferimento è al fronte che si sarebbe dovuto opporre, secondo alcune disamine, alla possibile avanzata dei talebani, che si è poi verificata con estrema velocità. Poi Biden ha voluto evidenziare come gli americani non possano "restare all'infinito". Per quel che riguarda la minaccia terroristica, come ha raccontato anche l'agenzia Nova, il Comandante in capo ha detto che "oggi la minaccia si è metastatizzata con Al Nusra in Siria, Boko Haram in Africa". E quindi che "tali azioni valgono le nostre risorse e le nostre energie, ma non vogliamo una presenza militare permanente da nessuna parte, ivi compreso l'Afghanistan". Dunque l'attenzione potrebbe essere spostata altrove. In estrema sintesi, Biden ha confermato la decisione di abbandonare l'Afghanistan, motivando il tutto pure con un riferimento alla mancanza di un momento preciso in cui andarsene, in questi casi, è meglio rispetto a rimanere. Il presidente Usa ha detto di non voler tornare indietro sul ritiro: "Quello che abbiamo visto in Vietnam - ha tuonato - non si deve ripetere". Biden ha rammentato di aver ereditato l' "accordo" per far sì che i soldati americani tornassero in patria da Trump. Dal punto di vista politico, ha asserito di preferire "le critiche" al tergiversare attorno ad una vicenda che ritiene inderogabile.

"Obiettivo era demolire il terrorismo". Biden “scarica” su Trump: “Accordo suo ma basta far morire soldati per l’Afghanistan, obiettivo era demolire terrorismo”. Redazione su Il Riformista il 16 Agosto 2021. Da una parte “scarica” le responsabilità sul suo predecessore Donald Trump, dall’altra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ricorda che “la nostra missione in Afghanistan non è mai stata pensata per costruire una nazione” bensì per “demolire il terrorismo” ed “evitare nuovi attacchi” dopo l’11 settembre 2001 facendo “in modo che Al Qaeda non usasse l’Afghanistan come rifugio”.

Nel discorso agli americani dopo la presa di Kabul da parte dei talebani, che nel giro di pochi giorni hanno riconquistato buona parte del Paese dopo 20 anni sotto il controllo occidentale, Biden dalla Casa Bianca spiega che “gli Stati Uniti non possono restare in eterno in Afghanistan”, rimarcando che “l’accordo con i talebani lo abbiamo ereditato da Trump. Prevedeva che entro il 1 maggio 2021 le truppe americane presenti in Afghanistan dovevano ritirarsi. La scelta era fra il ritirare le nostre forze secondo l’accordo o, in alternativa, un’escalation del conflitto”.

“Non è nell’interesse degli Usa combattere una guerra civile senza fine in un Paese straniero, non chiederò alle forze americane che hanno fatto tanti sacrifici in questi 20 anni, di rimanere all’infinito” aggiunge. L’obiettivo del presidente Usa è “non ripetere gli errori del passato, le truppe americane non devono morire in una guerra che gli afghani non sono in grado di combattere. Non faremo ciò che loro non sono disposti a fare”. Qui l’attacco ai politici, tra cui il presidente Ashraf Ghani, e all’esercito afghano. “I leader politici afghani – ha detto Biden – si sono arresi e hanno lasciato il Paese. L’esercito afghano è collassato, in alcuni casi senza neanche combattere. Se qualcosa, gli sviluppi della scorsa settimana rafforzano, è che mettere fine al coinvolgimento militare americano in Afghanistan è stata la decisione giusta”.

Poi avverte i talebani: “Nei prossimi giorni evacueremo migliaia di cittadini americani che sono in Afghanistan. Abbiamo detto ai talebani che se dovessero essere attaccati membri del nostro contingente la risposta sarà immediata e decisa”.

Sul parallelismo con la disfatta in Vietnam, Biden sottolinea che in Afghanistan non deve ripetersi quello che gli Usa hanno vissuto nel corso dei 20 anni nel Paese del sud-est asiatico. “Io ero giovane durante la guerra in Vietnam, non voglio che si ripeta in Afghanistan quello che abbiamo vissuto allora. So che sarò criticato però preferisco essere criticato piuttosto che aspettarmi che ancora un altro presidente, il quinto, debba prendere queste decisioni”, ha aggiunto.

Il disastro Usa in Afghanistan e le frasi che imbarazzano la Casa Bianca. Francesco Boezi su Inside Over il 16 agosto 2021. Distribuire giudizi per il fallimento occidentale in Afghanistan non è semplice, perché la decisione di lasciare quella nazione è stata presa tempo fa, ma adesso il Comandante in Capo è Joe Biden, dunque a lui vanno ascritte le responsabilità per la gestione della terribile crisi di questo periodo. Se non altro perché l’attuazione del ritiro è opera della sua amministrazione. Per essere certosini, bisogna tornare ai tempi di Barack Obama. Era appena il 2014. La linea del disimpegno – come ricordato su Il Giornale – è partita da lì: “Grazie agli straordinari sacrifici dei nostri uomini e donne in uniforme, la nostra missione di combattimento in Afghanistan sta finendo e la guerra più lunga della storia americana sta arrivando a una conclusione responsabile”, aveva detto il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti. Conosciamo come la realtà, con tutta la sua crudezza, abbia smentito di netto le convinzioni del leader Dem. Poi è arrivato Donald Trump, che ha confermato quanto era stato disposto dal suo predecessore. L’ex inquilino oggi sgomita, affermando che, nel caso avesse trionfato alle presidenziali del novembre del 2020, le cose sarebbero andate in modo diverso: non esistono prove né controprove. The Donald, in queste ore, ha anche domandato a Joe Biden di dimettersi dalla Casa Bianca in virtù del disastro cui stiamo assistendo in queste ore. Trump, comunque, si era incaponito a sua volta sulla necessità di lasciare l’Afghanistan, pure in funzione della linea non interventista che il tycoon ha perseguito durante il suo mandato. Oggi Biden cerca di scaricare le colpe addosso al suo rivale, ma anche il Wall Street Journal ha criticato l’atteggiamento assunto dal presidente degli Stati Uniti d’America: “Come se Winston Churchill, con le sue truppe accerchiate a Dunkerque, avesse dichiarato che Neville Chamberlain lo aveva messo in questo pasticcio e gli inglesi avevano già combattuto troppe guerre nel continente”, si legge sul quotidiano. Il clima statunitense, insomma, non sembra sorridere a Joe Biden ed alle modalità scelte dal leader Dem per affrontare un dossier che rischia di sconvolgere il mondo. E poi, in relazione alle scelte compiute mentre Kabul capitola, possono essere elencate alcune frasi, tutte recenti, che svelano quanto il Comandante in Capo ed il segretario di Stato siano arrivati impreparati all’appuntamento con la storia. Prima, però, facciamo un piccolo salto all’indietro. Era il 2009 e, come riporta l’Ispi, addirittura scavalcando la presa di posizione di Obama, Joe Biden si schierava per un abbandono precoce dell’Afghanistan. La minimizzazione dei rischi ha origini antiche. E Biden, se possibile, ha azzardato più degli altri “colleghi”. Veniamo così ad oggi. Circola ormai ovunque la frase riguardante l’evacuazione dei diplomatici americani. Come ripercorso pure da Il Corriere della Sera, è passato un solo mese da questa pronuncia di Biden: “Scene come in Vietnam? No, non vedremo le persone evacuate dal tetto di un’ambasciata Usa”. Invece, com’è noto, è successo proprio quanto Biden aveva escluso nella maniera più categorica possibile. Un errore di valutazione che non è il solo ad aver accompagnato il vertice statunitense nei primi mesi di presidenza. Come specificato da Formiche, infatti, Biden si diceva anche sicuro che l’esercito afghano, quello che era stato preparato ed addestrato dalle forze occidentali, sarebbe stato preparato ad affrontare l’offensiva dei talebani: “Sono fiducioso che oggi l’Afghanistan, grazie al nostro aiuto e addestramento, abbia delle forze armate capaci di fronteggiarli”, aveva fatto presente. Non è andata così. Ma Biden non è il solo ad avere la palla tra i piedi adesso. Il segretario di Stato Antony John Blinken, oggi, si esprime, come rimarcato dall’Adnkronos, dicendo che “Eravamo lì per uno scopo ben preciso: bloccare chi ci ha attaccato l’11 settembre. Semplicemente, non è nel nostro interesse rimanere”. Blinken, per giustificare gli Stati Uniti, sta battendo sugli “obiettivi raggiunti”. Ma quella frase circola tra le dichiarazioni del segretario di Stato da almeno aprile scorso, quando la ripresa dei talebani era già ipotizzata. “Abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati. E ora è il momento di portare a casa la nostra forza”, rendeva noto il segretario di Stato, nel mese indicato, come si legge ancora su Rai News.

«Nel disastroso ritiro dall’Afghanistan, Joe Biden ha fatto la figura di uno che non sa quello che sta facendo». Il fallimento dell’intelligence statunitense, i mancati rapporti con gli alleati sul territorio. E l’influenza della Cina su quell’area e su altri possibili scenari. Parla Ian Bremmer, fondatore e presidente della società di consulenza geopolitica Eurasia Group. Federica Bianchi su L'Espresso il 17 agosto 2021. Ian Bremmer, fondatore e presidente della società di consulenza geopolitica Eurasia Group e della start up media Gzeroworld, osserva con incredulità la terribile esecuzione del ritiro americano dall'Afghanistan. Un ritiro che lui ha sempre peraltro ritenuto inevitabile. «Tutto è andato male. È stato un ritiro catastrofico. Pensavano che i talebani ci avrebbero messo due o tre mesi per conquistare il Paese e ci hanno impiegato due o tre giorni. Un fallimento incredibile dell'intelligence americana. Inoltre gli Usa hanno fatto tutto da soli, senza chiedere nulla agli alleati ed è stato un vero disastro di pianificazione. Non si sono preparati per lo scenario peggiore, che poi si è avverato. A causa di questa mancanza molta gente ha perso e perderà la vita. Sul piano comunicativo è andata ancora peggio, con Biden che aveva escluso una simile eventualità solo un mese fa e ha fatto la figura di uno che non sa quello che sta facendo».

E l'Europa in tutto ciò?

«Gli europei sono molto delusi dal fatto di non essere stati coinvolti dopo 20 anni di lavoro insieme, dopo avere perso vite. L'ambasciatore americano è fuggito nel fine settimana mentre quello inglese è ancora lì a stampare visti. Perché non ci siamo coordinati con i nostri alleati? Perché non abbiamo gestito insieme l'emergenza umanitaria? Ora gli europei si ritrovano da soli a gestire di corsa la questione dei rifugiati senza avere un piano concordato insieme agli americani».

Questa ritirata frettolosa è l'inizio di un disimpegno americano in Paesi che fino ad oggi hanno contato sulla protezione degli Usa?

«L'Afghanistan è una catastrofe enorme ma la situazione è simile a quella dell'Ucraina e della Georgia, Paesi che gli Stati Uniti non considerano priorità strategiche. Certo molti soldi, molti sforzi e molte vite sono state investite in Afghanistan ma adesso, vent'anni dopo, le priorità americane sono cambiate. E l'Afghanistan non ne fa più parte. Stessa cosa vale per l'Ucraina, per la quale infatti gli Usa non hanno mosso un dito durante l'invasione russa. Gli Stati Uniti non investono dove non hanno obiettivi strategici».

Il direttore di Global Times, il giornale portavoce del governo cinese, ha scritto e diffuso sui social che anche i taiwanesi si devono preparare alla resa visto che gli americani non correranno in loro soccorso quando Pechino deciderà di riprendersi quella che considerano la loro “provincia ribelle”. È questo il caso?

«Taiwan è una priorità diplomatica strategica verso la quale gli Stati Uniti hanno un impegno profondo anche sul piano militare e tecnologico. E il governo cinese lo sa. Adesso sfrutta la propaganda anti-americana, in un momento di grande debolezza di immagine di Washington, di enorme imbarazzo, per mettere pressione sul governo e sui cittadini di Taiwan, per persuaderli che gli americani non saranno al loro fianco quando Pechino deciderà di riprendersi la “provincia ribelle”, che prima o poi dovranno arrendersi alla Cina. Ma Pechino sa bene che non è così. Lo stesso vale per i Paesi dei Balcani, che per la Russia sono no-limit. Anche in quel caso Washington interverrebbe».

Vuol dire che l'attenzione americana adesso sarà davvero spostata verso l'Asia, come aveva cominciato a fare il presidente Obama?

«Certo, ci sarà molta più attenzione all'Asia. Il ritiro dall'Afghanistan fa parte della nuova strategia americana che considera la Cina come il primo pericolo alla sua sicurezza nazionale. Purtroppo il ritiro dall'Afghanistan è stato un disastro ma questo non cambia il fatto che gli Usa sono ancora la prima potenza mondiale, con le principali aziende tecnologiche del mondo e con la principale valuta mondiale».

L'Afghanistan rimarrà in mano cinese?

«La Cina sarà la principale potenza in Afghanistan, Paese su cui ha mire il Pakistan, tradizionale alleato cinese, che, a differenza di 20 anni fa, ora conta più sulla Cina che sugli Usa per ogni assistenza. Pechino non può permettersi uno stato fallito al confine con la regione dello Xinjiang (dove vivono gli uiguri, la minoranza perseguitata da Pechino). E dunque è disposta a finanziare il governo talebano, eventualmente anche contro il volere della popolazione. Ma non sarà facile tenere il Paese insieme. La verità che Pechino non può dire è che non avrebbe mai voluto che gli americani se ne andassero. È contro i loro interessi strategici».

 Assedio a Joe Biden: consensi ai minimi e attacchi bipartisan. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 21 agosto 2021. Media, opinione publica, intelligence, avversari repubblicani e colleghi democratici: tutti contro Joe Biden, assediato e criticato da tutte le parti. La disastrosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan, infatti, sta costando caro al Presidente Usa in termini di consenso e credibilità: per la prima volta l’inquilino della Casa Bianca è seriamente messo in discussione dall’opinione pubblica in maniera bipartisan, compresa quella democratica e progressista. Secondo un sondaggio Reuters/Ipsos, il tasso di approvazione del presidente Biden è sceso di ben 7 punti percentuali negli ultimi giorni e ha toccato il livello più basso da quando la sua amministrazione si è insediata. Il sondaggio di opinione nazionale, condotto lunedì, ha rilevato che solamente il 46% degli elettori americani approva il suo operato, in calo rispetto al 53% di venerdì scorso. La popolarità di Biden, sottolinea Reuters, è scesa ai minimi quando i talebani sono entrati nella capitale, Kabul, spazzando via due decenni di presenza militare statunitense che è costata quasi mille miliardi di dollari dei contribuenti e migliaia di vite americane. In generale, sottolinea Chris Cillizza sulla Cnn, l’indice di gradimento di Biden è sotto al 50%, segnale che la luna di miele con l’elettorato americano è – per il momento – finita. Come nota l’analista, è probabile che la caduta libera di Biden nei consensi non si fermi qui. A destare preoccupare “c’è anche il picco della quarta ondata di Covid-19 che sta devastando il Paese, con nuovi casi in aumento del 52% a livello nazionale rispetto a due settimane fa e decessi in aumento dell’87% nello stesso periodo di tempo” osserva. Dati che sicuramente peseranno, in negativo, sul consenso del Presidente in carica.

I media contro il Presidente Usa: “È una débacle”. Il presidente Joe Biden è stato duramente criticato dalla stampa statunitense per non essersi assunto le sue responsabilità dinanzi al disastroso ritiro delle truppe Usa e aver scaricato le responsabilità sui leader afghani. “I leader politici dell’Afghanistan si sono arresi e sono fuggiti dal Paese; l’esercito afghano è crollato; le truppe statunitensi non possono e non devono combattere in una guerra che le forze afgane non sono disposte a combattere per sé stesse” ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca nei giorni scorsi. Il Wall Street Journal ha sottolineato in un editoriale che Biden si è “rifiutato di accettare le sue responsabilità per il ritiro fallimentare mentre incolpava gli altri” e che “l’unico gruppo che evidentemente non ha incolpato erano i talebani”, per poi osservare che l’intervento di Biden è stato “uno dei più vergognosi della storia di un comandante in capo che presiede il ritiro delle sue forze armate”. Critico anche il Washington Post, il quale ha osservato come il Presidente Usa avrebbe potuto e dovuto ascoltare gli esperti che gli avevano proposto delle alternative al ritiro, aggiungendo che incolpare gli altri è “sconveniente” dato che 2.448 soldati americani sono morti in 20 anni; il New York Post ha inoltre sottolineato che nessun soldato americano è morto in Afghanistan da 18 mesi a questa parte e che solo Biden è il “responsabile” della presa di potere dei talebani definita una “catastrofe assoluta, per gli afghani e per la sicurezza mondiale”; altri media, invece, come il New York Times e The Atlantic hanno timidamente preso le difese del Presidente in carica. Che qualcosa sia andato storto, tuttavia, ne sono convinti in molti. Fra questi c’è Jeff McCausland, colonnello dell’esercito in pensione ed ex membro del Consiglio di sicurezza nazionale, il quale ha ricordato, in un’analisi pubblicata su Nbc News, che lo scorso 8 luglio Joe Biden assicurava al popolo americano che era “altamente improbabile” che i talebani prendessero il controllo dell’Afghanistan. Il Presidente ha rilasciato questa dichiarazione all’inizio di luglio sulla base di un’analisi che, a suo dire, gli era stata fornita dalla comunità dell’intelligence statunitense. Tuttavia, questa sua ricostruzione è stata smentita: come già sottolineato da InsideOver, infatti, a partire da luglio i servizi avevano trasmesso rapporti più pessimistici, inascoltati dalla Casa Bianca e dal presidente Usa.

I Repubblicani scrivono a Biden. Nel frattempo tutta la politica americana è in fermento. In una lettera inviata a Biden lunedì sera, i repubblicani membri della commissione per gli affari esteri della Camera Michael McCaul, della commissione per i servizi armati della Camera Mike Rogers e dell’intelligence, Devin Nunes, hanno criticato il “ritiro sconsiderato” dell’amministrazione Usa, sostenendo che la débacle di Biden in Afghanistan ha messo in pericolo gli alleati e ha indebolito la posizione degli Stati Uniti sulla scena mondiale. “Scriviamo per esprimere la nostra indignazione per il suo sconsiderato ritiro delle forze statunitensi in Afghanistan e per la cattiva gestione del disastro che si sta verificando lì. Il mondo sta osservando uno dei più grandi fallimenti della politica estera nella storia americana”, hanno osservato gli esponenti del Gop. “È spaventoso che durante questa crisi in corso, lei Presidente abbia scelto di difendere la sua decisione, scaricando la colpa sugli afghani che lei ha abbandonato invece di assumersi le sue responsabilità per le ripugnanti conseguenze che stiamo osservando sui nostri schermi televisivi”, hanno continuato.

Al via tre commissioni di inchiesta. Anche i democratici vogliono vederci chiaro sulla débacle dell’amministrazione Usa. Tre commissioni del Senato guidate dai democratici, riporta Politico, hanno promesso di indagare sul caotico ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan da parte dell’amministrazione Biden. Come sottolinea la testata americana, le dichiarazioni dei leader delle commissioni dell’intelligence, delle relazioni estere e dei servizi armati del Senato riflettono la “diffusa rabbia bipartisan” per quella che è “ampiamente percepita come un’uscita caotica e mal pianificata dalla guerra più lunga d’America”. “Sono deluso dal fatto che l’amministrazione Biden non abbia chiaramente valutato con precisione le implicazioni di un rapido ritiro degli Stati Uniti”, ha dichiarato in una nota il presidente della commissione relazioni estere al Senato, il democratico Bob Menendez. “Ora stiamo assistendo agli orribili risultati di molti anni di fallimenti politici e di intelligence”. Anche il senatore democratico Mark Warner, che presiede la commissione per l’intelligence, ha affermato che lavorerà per “porre domande difficili ma necessarie sul motivo per il quale non eravamo adeguatamente preparati per uno scenario che contemplasse un così rapido crollo del governo afghano e delle forze di sicurezza”. E anche la Commissione per i servizi armati del Senato, presieduta da un altro dem, Jack Reed, terrà udienze su “cosa è andato storto in Afghanistan”. Pure la figlia del senatore John McCain, Meghan, ha criticato duramente la scelta di Biden: “Sono furiosa con il nostro presidente perché è stato così incompetente da non vedere quello che ogni esperto del pianeta avrebbe potuto comprendere” accusa l’ex conduttrice di The View, sostenitrice di Biden in occasione dell’ultima campagna presidenziale. Il Presidente Joe Biden sembra essere assediato, nel suo fortino, mentre deve gestire la sua prima, grave, crisi di consenso da quando si è insediato. 

Ugo Caltagirone per l’ANSA il 20 agosto 2021. Joe Biden nell'occhio del ciclone, costretto ancora una volta a difendersi in tv davanti al suo Paese e al mondo intero: "Gli Usa rispetteranno tutti gli impegni", promette. Ma è difficile tentare di spiegare non solo quanto accaduto con la caduta di Kabul, ma anche un'evacuazione che assume contorni sempre più drammatici col passare delle ore. Sono 13 mila finora le persone evacuate in quella che il presidente Usa definisce "la più difficile operazione di ponte areo della storia". Ammettendo però di non poter garantire l'esito finale: "Non sappiano quanti americani sono in Afghanistan". Le pressioni sul presidente Usa sono fortissime, sia in patria che da parte degli alleati. Tra questi ultimi Emmanuel Macron, che invoca la "responsabilità morale" verso quelle centinaia di migliaia di afghani che in 20 anni di guerra hanno aiutato le truppe della Nato e i diplomatici occidentali: "Non possiamo abbandonarli", il suo appello in una telefonata con l'inquilino della Casa Bianca. Appello che per qualcuno suona più come un monito. Del resto la linea difensiva di Biden sembra ormai vacillare, tra le tragiche immagini che arrivano dall'inferno di Kabul e le indiscrezioni che rafforzano la tesi di un'amministrazione Usa consapevole di quanto stesse accadendo, con la rapida e inarrestabile avanzata dei talebani. Tesi che getta un'ombra sulla Casa Bianca, e alimenta più di un sospetto sul fatto che il presidente non abbia detto tutta la verità. La versione ufficiale dei fatti - più volte ripetuta anche dal Pentagono, dal Dipartimento di stato e dai vertici delle forze armate - è che nessuno prevedeva un epilogo così devastante, con i talebani che hanno conquistato Kabul in soli undici giorni. Ma a smentire questa narrativa arriva anche uno scoop del Wall Street Journal, che ha tirato fuori un cablogramma dai toni drammatici inviato il 13 luglio scorso direttamente al segretario di stato Antony Blinken da una ventina di diplomatici dell'ambasciata Usa a Kabul. Un memo interno che già metteva in guardia sul probabile collasso della capitale nel giro di poco tempo, a causa della rapidissima avanzata talebana e dell'altrettanto rapido disfacimento delle forze di sicurezza afghane. Un chiaro messaggio che ora imbarazza non poco il capo della diplomazia americana e che difficilmente - sostengono in molti - non è stato condiviso con il presidente e i vertici del Pentagono. Intanto, dopo le promesse di aiuto, sono centinaia di migliaia gli afghani che hanno lavorato con gli Usa ancora nel limbo, costretti a nascondersi dalla vendetta talebana in attesa di un visto per l'America. Con Biden sempre più pressato perchè si velocizzino al massimo le procedure. Si calcola che in tutto siano 300 mila i civili afghani che in 20 anni hanno collaborato con gli Stati Uniti. Di questi 15 mila sono già entrati negli Usa con le loro famiglie grazie a un visto speciale. Visto ancora in sospeso invece per altri 18 mila afghani, mentre per tutti gli altri è notte fonda. Così Biden cambia i programmi e, invece di patire per la sua residenza di famiglia in Delaware, ha deciso di restare l'intero weekend alla Casa Bianca per essere costantemente aggiornato nello Studio Ovale e seguire in prima persona gli sviluppi dalla Situation Room. (ANSA).

(ANSA il 21 agosto 2021) - "Quello che sta accadendo a Kabul è una vergogna per l'America, una enorme macchia per la reputazione e la storia americana". Parole di Donald Trump, che nel corso di un comizio in Alabama attacca Joe Biden definendo "un terribile errore" quanto deciso dalla Casa Bianca sull'Afghanistan: "Siamo di fronte a un disastro senza precedenti", ha aggiunto l'ex presidente Usa, aggiungendo come "l'Europa e la Nato non credono più in noi". "Con me l'America era rispettata - ha concluso - ora la bandiera talebana sventola sull'ambasciata americana". Trump si è quindi vantato delle sue relazioni amichevoli con i talebani, descrivendoli come "grandi negoziatori e combattenti tenaci" e sottolineando come con lui alla Casa Bianca i talebani "non si sarebbero mai sognati di catturare i nostri campi di aviazione o di mostrarsi in giro con le nostre armi americane.

La debacle in Afghanistan può minare la credibilità di Washington in Asia. Federico Giuliani su Inside Over il 21 agosto 2021. “Biden’s debacle“, ovvero la debacle di Biden. La copertina dell’ultimo numero dell’Economist, dedicato in gran parte al tema afghano, non lascia spazio all’immaginazione. Il prestigioso settimanale ha sottolineato come il fiasco in Afghanistan rappresenti un durissimo colpo per la posizione globale degli Stati Uniti, e che gran parte della colpa di quanto avvenuto sia da imputare al presidente Biden. La missione americana a Kabul e dintorni, durata circa un ventennio, ha avuto un costo altissimo, tanto in termini economici che di vite umane, che non ha tuttavia portato risultati sperati. Le immagini strazianti dei cargo americani in partenza lungo la pista inseguiti da afghani disperati hanno fatto il giro del mondo, e sono presto diventate carne da cannone per la propaganda anti Usa. Il governo locale, sostenuto dagli Stati Uniti, si è di fatto praticamente arreso ai talebani senza combattere. Eppure, soltanto pochi giorni prima, i funzionari statunitensi insistevano che non sarebbe mai accaduto niente di simile. L’America ha speso 2 trilioni di dollari in Afghanistan e oltre 2mila vite, da aggiungere alle innumerevoli vittime afghane. Certo, questi ultimi, fino a pochi mesi fa, erano più prosperi di quando gli Stati Uniti invasero il loro Paese; ma adesso il castello di sabbia è crollato e l’Afghanistan è tornato al punto di partenza. I talebani controllano più territorio di quanto non ne controllassero quando avevano il potere, sono meglio armati – hanno sequestrato le armi che l’America aveva consegnato all’esercito afghano – e, dal punto di vista mediatico, possono vantarsi di aver sconfitto una superpotenza come Washington.

Immagine a pezzi. Alla luce di quanto descritto, e come evidenziato anche da Asia Times, la disfatta afghana ha offuscato la credibilità degli Stati Uniti in tutta l’Asia. La sconclusionata uscita di scena da Kabul perpetuata da Joe Biden ha regalato alla Cina un’occasione d’oro per descrivere Washington come un alleato inaffidabile e ambiguo. Il messaggio in questione, ovviamente, è diretto ai vari Paesi dell’Asia, molti dei quali geopoliticamente contesi tra americani e cinesi. Del resto Biden aveva espresso il desiderio di riorientare la politica estera dell’America in chiave di contenimento anti cinese, lasciando perdere scenari come Medio Oriente e Afghanistan. Nonostante gli alti funzionari della difesa Usa avessero avvisato l’inquilino della Casa Bianca di un imminente crollo del governo afghano in favore delle forze talebane, il successore di Trump è andato avanti per la sua strada. Risultato: la disordinata uscita di scena degli Stati Uniti dall’Afghanistan ha provocato una vera e propria onda d’urto che non solo ha minato la credibilità dell’America, ma ha anche sollevato dubbi sui suoi impegni a lungo termine con gli altri alleati sparsi nel mondo, per lo più nel contesto asiatico. Cosa potrebbero mai pensare Singapore, Vietnam, Filippine e Taiwan di quanto andato in scena a Kabul e dintorni?

Effetto domino. Inutile nascondersi dietro a un dito: l’incapacità dell’amministrazione Biden nel prevedere la rapida caduta del governo afghano può e deve essere considerata un fallimento da parte dell’intelligence americana. Tutto ciò ha offerto alla Cina una poderosa narrazione mediatica. Pechino non si è fatta pregare e ha subito ritratto Washington come un alleato desideroso di intervenire negli affari di altre nazioni per poi rinnegare tutto e tutti nel momento del bisogno. Per vincere il braccio di ferro con la Cina, Biden ha più volte spiegato di voler creare una grande coalizione da contrapporre all’ascesa del Dragone. Il punto focale è che, per riuscire nell’intento, Washington aveva (e ha) bisogno di credibilità. Ma come giustificare la debacle afghana agli occhi dei Paesi del sud-est asiatico e degli altri alleati asiatici? Il rischio è che, a causa di quanto avvenuto in Afghanistan, la strategia di Biden possa andare in frantumi, offrendo alla Cina una prateria potenzialmente immensa. “La probabilità che i talebani invadano tutto e posseggano l’intero paese è altamente improbabile”, affermava, del resto, il presidente statunitense soltanto poche settimane fa. I primi effetti del nodo afghano sono ben visibili nella penisola coreana. In Corea del Sud, infatti, si sono alzate le prime voci riguardo l’ottenimento del pieno controllo operativo delle forze armate sudcoreane da parte di Seul. “La crisi dell’Afghanistan dovrebbe essere usata come un’opportunità per coltivare ulteriormente la volontà e la capacità di una forte difesa indipendente”, ha scritto il rappresentante Song Young-gil in post su Facebook. Nel caso in cui dovesse scoppiare una guerra con la Corea del Nord, gli eserciti combinati di Stati Uniti e Corea del Sud sarebbero guidati dal generale Paul LaCamera. Già da tempo l’amministrazione del presidente sudcoreano Moon Jae In sta cercando di accelerare il processo per ottenere il pieno controllo delle proprie forze armate. Adesso, visto l’atteggiamento americano in Afghanistan, a Seul c’è chi ha iniziato ad alimentare dubbi e supposizioni.

La missione di Harris. Nel frattempo la vicepresidente Usa, Kamala Harris, è pronta ad effettuare un tour nel Sud-Est asiatico, dove dovrà rassicurare gli alleati, preoccupati dopo il ritiro americano dall’Afghanistan. Tra le tappe in programma, ha fatto notare l’agenzia Agi, c’è Saigon, vera trappola politica, considerati i paralleli di questi giorni, tra la fuga dalla capitale del Vietnam nel ’75, assediata dai vietcong, e quella da Kabul, in mano ai talebani. Il viaggio, che comincia ufficialmente domenica a Singapore, rappresenta una grande opportunità per la vice presidente di riconquistare una dimensione politica di spessore, dopo mesi di marginalità. Martedì sarà anche il giorno della sua tappa cruciale: il Vietnam, il cui solo evocare il nome, più che la Corea o l’Iraq, provoca ancora una fitta negli americani, non solo per la morte di migliaia di soldati, ma per il modo in cui era finita. Harris sarà chiamata a superare il parallelo con gli elicotteri che sorvolano l’ambasciata di Kabul, e dovrà farlo fin da lunedì, quando risponderà alle domande dei giornalisti. Biden ha bocciato qualsiasi paragone con Saigon, Harris dovrà scegliere se seguire la linea del presidente o dare una chiave diversa, che le restituisca un po’ di autonomia. Ma la trappola del parallelo non dovrà far perdere di vista il vero obiettivo della missione di Harris, che si concluderà giovedì: rinsaldare i legami con Singapore e Vietnam, in un momento segnato dalle incursioni di Pechino nel Mar meridionale cinese e che hanno suscitato, di recente, la reazione preoccupata del segretario di Stato Antony Blinken.

DAGONEWS il 20 agosto 2021. “Biden è totalmente impreparato per diventare presidente, porterà gli Stati Uniti in una crisi”. Questa “profezia” risale al 2010 e a pronunciarla è stato Osama Bin Laden. Il leader di Al Qaeda stava mettendo a punto un piano per assassinare l’allora presidente Usa Barack Obama e l'ex direttore della CIA Petraeus, e in una lettera ai suoi fedelissimi vietava esplicitamente di uccidere Biden, qualora il progetto fosse stato portato a termine. La lettera è stata ritrovata insieme ad altri documenti nel complesso di Abbottabbad, in Pakistan, dove il terrorista fu ucciso, nel 2011. Il documento è stato reso pubblico per la prima volta nel 2012, ma è stato riportato alla luce (e ha un nuovo significato) dopo il caotico ritiro degli Stati Uniti dall'Afghanistan, che ha restituito il paese in mano ai talebani. La lettera era lunga 48 pagine e il destinatario diretto era “Shaykh Mahmud', alias Atiyah Abd al-Rahman. Nella missiva si discute della necessità di concentrare gli attacchi terroristici verso gli Stati Uniti. A pagina 36, Bin Laden esprime il desiderio di formare due squadre d'assalto - una in Pakistan e l'altra in Afghanistan - il cui compito sarebbe dovuto essere quello di pianificare attacchi contro l'allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l'ex direttore della CIA David Petraeus, in caso di visita in uno dei due paesi. Spiegando il suo ragionamento per attaccare Obama, Bin Laden dice dice: 'Obama è il capo degli infedeli e ucciderlo farà assumere automaticamente a Biden la presidenza per il resto del mandato, come è la norma laggiù. Biden è totalmente impreparato per quel posto, che porterà gli Stati Uniti in una crisi…” 

LA PROFEZIA DI BIN LADEN. JOE BIDEN? UN UTILE IDOTA. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 26 Agosto 2021. Joe Biden? Un perfetto, utile idiota. L’impietosa diagnosi non è stata appena formulata da uno psichiatra a stelle e strisce dopo le fresche, ultime performance presidenziali sul fronte Afghanistan e quello anti covid. Ma nientemeno che dalla primula rossa del terrorismo internazionale per anni, il ricercato numero uno al mondo dal 2001 in poi, al secolo Osama bin Laden. Che ha avuto davvero la vista lunga. Anzi lunghissima. Vengono infatti solo adesso alla luce alcune lettere e lunghi messaggi risalenti anche al 2010, un anno prima della sua rocambolesca (e ancora densa di misteri e punti interrogativi) uccisione avvenuta il 2 maggio 2011 in Pakistan, nel compound di Abbottabad. E proprio in quel rifugio-nascondiglio era custodito un archivio zeppo di documenti, scritti tra il 2006 e il 2011, oggi catalogati e raccolti da un controverso centro studi americano, il “Combating Terrorism Center” di West Point. Il "New York Post" è entrato in possesso di alcuni documenti, tra cui non poche lettere. Una, datata maggio 2010, è di particolare interesse. Perché si parla esplicitamente di Joe Biden, di cui Osama, con estrema semplicità, dice: “Biden è totalmente impreparato per quel posto, e porterà gli Stati Uniti in una crisi”. Aveva la sfera di cristallo, bin Laden? O era dotato di poteri paranormali e/o precognitivi? La lettera (così come la gran parte dei messaggi) è inviata ad un ‘fratello musulmano’, Shaykh Mahmud, con la finalità di diffonderla tra tutti i seguaci. Cosa intendeva dire il Profeta del Terrore con quella lapidaria frase? Se noi ammazziamo Barack Obama, va a prendere il suo posto – come prevede la legge americana – il suo vice, che all’epoca era proprio Biden. Motivo per cui – teorizza Osama – è necessario eliminare a tutti i costi Obama, che del resto “è il capo dell’infedeltà”. Un altro da far fuori – nei piani elaborati da bin Laden –  era il generale Petraeus, ex numero uno della CIA dopo una lunga esperienza proprio in Afghanistan e, soprattutto, figura strategica in quei mesi bollenti. “Quanto a Petraeus – scrive bin Laden – è l’uomo di casa di quest’ultimo anno di guerra, e ucciderlo cambierebbe il corso delle cose”. Mesi dopo, comunque, Petraeus penserà bene di togliere il disturbo, coinvolto in uno dei tanti scandali a luci rosse che hanno caratterizzato le storie politiche statunitensi. Ecco il passaggio chiave contenuto nella missiva di maggio 2010. “Ho domandato a Shaykh Sa’id, Allah abbia pietà della sua anima, di chiedere al fratello Ilyas di preparare due gruppi- uno in Pakistan e l’altro nell’area di Bagram in Afghanistan – con la missione di anticipare e individuare le visite di Obama o Petraeus in Afghanistan o Pakistan, per prendere di mira l’aereo di uno dei due. Non devono puntare alle visite del vicepresidente degli Usa Biden, del Segretario di Stato Gates, del Capo di Stato Maggiore Mullen o dell’inviato speciale in Pakistan e Afghanistan Holbrook. I gruppi rimarranno alla ricerca di Obama o Petraeus”. Ecco il motivo, come spiega il lungimirante bin Laden: “La ragione per concentrarsi su di loro è che Obama è il capo dell’infedeltà e ucciderlo automaticamente farà di Biden il Presidente per il resto del mandato, come prevede la legge laggiù. Biden è totalmente impreparato per quell’incarico (“Biden is totally unprepared for that post”), che porterà gli USA dentro una crisi (“which will lead the US into a crisis”). Quanto a Petraeus, lui è l’uomo del momento in quest’ultimo anno di guerra, e ucciderlo potrà cambiare il corso della guerra”. Sorge spontanea, a questo punto, una domanda. Facendo uscire tali documenti (non pensiamo che West Point sia un covo di giovani marmotte), gli Usa hanno già deciso di dare il benservito a Biden? E di incoronare quindi a breve la sua vice, Kamala Harris? Intanto l’ex presidente Donald Trump se la gode e posta un video tutto anti Biden. In basso trovate anche il PDF contenente la cinquantina di pagine (tutte in lingua originale) firmate da Osama bin Laden (il passaggio clou è a pagina 36) in quel maggio del 2010. Una lettura non poco istruttiva, soprattutto alla luce delle ultime tragedie afgane. 

Marta Serafini per corriere.it il 22 agosto 2021. «Chiaramente questa storia è stata trattata con secondi fini politici e non in modo pragmatico e realistico. Potremo rivedere sempre le immagini ma la conclusione sarà sempre la stessa: dovevamo andare via nel 2005», ha affermato l’ex militare in un’intervista al quotidiano francese Journal du Dimanche. «La nostra missione iniziale era sconfiggere Al Qaeda e prendere Osama bin Laden. Quindi avremmo dovuto andare via dopo. Punto e basta. Assistere a un tale disastro è una vergogna. Sono molto triste soprattutto per quelli che sono morti laggiù». Per l’ex Navy Seal, noto all’inizio come the «Shooter», gli Stati Uniti comunque non hanno perso. «Abbiamo vinto tutte le battaglie e abbiamo ucciso bin Laden. Ma i talebani stanno costruendo una leggenda. Dopo i britannici e i russi tocca agli americani di smammare e in oltre non hanno neanche avuto bisogno di combattere». Nel 2005, spiega O’Neill, «ci saremmo posizionati al di fuori dall’Afghanistan e avevamo ampiamente il tempo di assicurarci un sostegno aereo. Sarebbe stato sufficiente mettere in sicurezza la base di Bagram al di fuori di Kabul, lasciata invece dagli Stati Uniti all’inizio di luglio. E ancora: «Utilizzare lo spazio aereo per eliminare i terroristi perché li abbiamo visti superare il confine con il Pakistan. Sapevamo dove stavano, bastava solo lanciare qualche bomba. La nostra partenza era ancora più evidente per me visto che avevamo finito il lavoro nel 2011. Abbiamo ucciso bin Laden». Figlio di un ex-operaio irlandese di una miniera di rame, ed ex ballerino di danza classica, O’Neill si arruola volontario a 19 anni nei Marines degli Stati Uniti nella speranza di diventare un cecchino. Dopodiché, nel gennaio 1996, prende parte al BUD/S, il Basic Underwater Demolition o corso di addestramento dei Seal, sulle spiagge di San Diego e viene così arruolato per essere poi assegnato al SEAL Team Two di stanza a Little Creek. Dal giugno al luglio 2003, O’Neill, due anni dopo aver assistito agli attacchi dell’11 settembre 2001 mentre si trovava di stanza in un ufficio a Stoccarda, in Germania, ha partecipato all’Operazione Shining Express in Liberia con il compito di riportare in patria diversi militari americani. Dopodiché, nel 2004 si arruola nel DevGru, l’unità antiterrorismo della Marina. Nel corso della sua carriera ha partecipato ad altre 10 operazioni in Iraq e Afghanistan, compresa quella per salvare il capitano Richard Phillips nell’aprile 2009, sequestrato da un commando di 4 pirati somali durante il dirottamento della nave mercantile Maersk Alabama. Fino al primo maggio 2011 e al blitz nel compound di Abbottabad in Pakistan. Nel corso degli anni O’Neill è stato spesso al centro delle polemiche. Non da ultima quella che l’ha visto salire a bordo di un aereo senza mascherina, con tanto di tweet sessista autocelebrativo. Sconfiggere Al Qaeda, sottolinea O’Neill, «era questa la nostra road map e ripeto dove restare quella. Di questa storia di nation Building gli afghani non ne vogliono sapere e i talebani ancora di meno. Dicono no alla democrazia. I nostri telefoni sì, il nostro modo di vivere dal punto dei costumi sicuramente no. Ma anche i più intelligenti fanno degli errori. La cosa assurda è che il governo americano sicuramente invierà nuovamente delle truppe in modo di fare uscire tutti» dal paese. «Dopotutto - sottolinea - gli afghani hanno già sofferto, francamente non meritavano questo. E ora lasciamo tutto, il nostro materiale, le nostre armi, i nostri blindati leggeri, i nostri elicotteri». Quello che succede oggi, aggiunge l’ex Navy seal, «è solo patetico. Valeva la pena uccidere bin Laden, provare ad annientare al Qaeda ma non lasciare un tale vuoto che sarà colmato dallo Stato islamico appena i talebani saranno al comando. Daesh (Isis) farà la stessa cosa che è successo in Iraq e in Siria, colmerà i vuoti». O’Neill non si dice sorpreso per la rapidità dei talebani nel conquistare il Paese. «Tutti quelli che sono stati sul campo vi diranno la stessa cosa. I talebani staranno ridendo di gusto. Dopotutto hanno sempre detto: “voi americani avete gli orologi, noi abbiamo tutto il tempo. Sapevano che avrebbero vinto ed è un fatto». «The shooter», che è da tempo un sostenitore dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, afferma che «Biden non ha ascoltato gli argomenti del Pentagono che suggerivano di non procedere» come stava facendo. Una versione che poi Biden ha smentito giovedì scorso in un’intervista alla tv. «Non mi piace l’immagine che l’America ha dato di sé stessa. E’ veramente l’illustrazione di una cattiva leadership». 

Su Dagospia. Douglas London su justsecurity.org il 22 agosto 2021. E’ certamente opportuno descrivere lo shock e l'errore di calcolo dei funzionari statunitensi sulla tragica e rapida caduta dell'Afghanistan sotto i talebani come un fallimento dell'intelligence, ma non basta: la realtà è molto peggiore. Il crack della Cia è una comoda deviazione delle responsabilità per decisioni prese a causa di considerazioni politiche e ideologiche e fornisce un capro espiatorio per una decisione politica che altrimenti non è in grado di offrire una difesa persuasiva. In qualità di capo dell'antiterrorismo della CIA per l'Asia meridionale e sudoccidentale prima del mio ritiro nel 2019, ero responsabile delle valutazioni sull'Afghanistan preparate per l'ex presidente Donald Trump. E come volontario con il gruppo di lavoro antiterrorismo del candidato Joe Biden, mi sono consultato su queste stesse questioni. La decisione presa da Trump e ratificata da Biden di ritirare rapidamente le forze statunitensi è arrivata nonostante gli avvertimenti che proiettavano il risultato a cui stiamo ora assistendo. Ed è stato un percorso a cui Trump e Biden sono rimasti prigionieri a causa dello slogan "terminare le guerre per sempre" che entrambi hanno abbracciato. La comunità dell'intelligence statunitense ha valutato le sorti dell'Afghanistan secondo vari scenari e condizioni e in base alle molteplici alternative politiche tra le quali il presidente poteva scegliere. Quindi, sono passati 30 giorni dal ritiro al collasso? 60? 18 mesi? In realtà, era tutto valutato, le proiezioni allineate con i vari "e se". In definitiva, le forze afgane potrebbero capitolare in pochi giorni nelle circostanze a cui abbiamo assistito, nelle proiezioni evidenziate ai funzionari di Trump e ai futuri funzionari di Biden. Nelle sue osservazioni preparate lunedì, il presidente Biden ha dichiarato: "Ma ho sempre promesso al popolo americano che sarei stato sincero con voi. La verità è che questo si è svolto più rapidamente di quanto avessimo previsto". Questo è fuorviante nella migliore delle ipotesi. La CIA lo prevedeva come uno scenario possibile. All'inizio del 2018, era chiaro che il presidente Trump voleva uscire dall'Afghanistan, indipendentemente dai risultati allarmanti avvertiti dalla comunità dell'intelligence. Ma allo stesso modo non voleva presiedere alle scene da incubo a cui abbiamo assistito. L'allora segretario di Stato Mike Pompeo è stato il principale artefice dell'impegno dell'America con i talebani che è culminato con il catastrofico accordo di ritiro del febbraio 2020, termini destinati a far superare al presidente le prossime elezioni. Pompeo ha sostenuto il piano nonostante l'avvertenza della comunità dell'intelligence che i suoi due obiettivi chiave - garantire l'impegno dei talebani a rompere con al-Qaeda e perseguire una risoluzione pacifica del conflitto - erano altamente improbabili. Il rappresentante speciale dell'America, l'ambasciatore Zalmay Khalilzad, era un privato cittadino che si dilettava nel 2018 con una serie di dubbi interlocutori afgani contro i quali la comunità dell'intelligence lo aveva messo in guardia. Imperterrito, si impegnava a garantire l'accordo di cui Trump aveva bisogno, benché i professionisti dell'intelligence, dei militari e della diplomazia del presidente sostenevano non fosse possibile in assenza di una posizione di maggiore forza. La nostra impressione era che Khalilzad stesse cercando di diventare il Segretario di Stato di Trump in una nuova amministrazione, se avesse vinto, e avrebbe essenzialmente fatto o detto ciò che gli era stato enunciato per garantire il suo futuro compiacendo il mutevole presidente. Ma era altrettanto chiaro che il candidato Biden era impegnato a lasciare l'Afghanistan: la sua squadra aveva più fiducia di poter gestire le implicazioni di sicurezza rispetto all'intelligence trumpiana. L'approvazione dell'accordo di ritiro di Trump è stata considerata vantaggiosa per tutti, anche dalla maggior parte degli americani. Inoltre, dal mio punto di vista, sembravano credere che le conseguenze negative sarebbero state almeno in gran parte a carico di Trump, del partito repubblicano e di Khalilzad, il cui essere lasciato sul posto, intenzionalmente o meno, gli ha permesso di servire ancora di più come capro espiatorio. Per il candidato Biden, che aveva a lungo sostenuto il ritiro, il risultato era, come lo era stato con Trump, una conclusione scontata nonostante ciò che molti dei suoi consiglieri antiterrorismo consigliavano. Lo stesso presidente Biden lo ha confermato in termini di decisione. C'era una fiducia piuttosto ingenua tra i più influenti consiglieri di politica estera di Biden che i migliori interessi dei talebani fossero serviti aderendo ai punti principali dell'accordo. In questo modo, sostenevano, garantirebbe il ritiro degli Stati Uniti e lascerebbe spazio a un impegno più costruttivo, forse anche a un aiuto, se i talebani salissero al potere. I talebani hanno imparato molto sull'utilità delle pubbliche relazioni dal 2001 e hanno massimizzato il loro accesso ai media occidentali, come evidenziato dal deputato talebano e leader dell'Haqqani Taliban Network, Sirajuddin Haqqani. La realtà, naturalmente, come sosteneva a lungo la comunità dell'intelligence, era che il controllo dei talebani sul paese si basava sull'isolamento dal resto del mondo, piuttosto che sull'integrazione. Il riconoscimento internazionale, l'accesso finanziario globale e gli aiuti esteri non avrebbero influenzato il governo dei talebani. I responsabili politici statunitensi sono stati anche avvertiti che l'ampia coalizione di politici, signori della guerra e leader militari afgani, che beneficia del denaro e del potere che derivano dalla presenza americana, rischiava di saltare in caso di ritiro delle forze militari statunitensi e del personale dell'intelligence. Inoltre, cambiare schieramento per un accordo migliore o per combattere un altro giorno è un segno distintivo della storia afghana. E la politica statunitense di imporre un progetto americano per un governo centrale forte e un esercito nazionale integrato è servita solo a consentire la gestione disastrosa e intransigente del presidente Ashraf Ghani. Perché l'intelligence è una scienza imprecisa dato che le condizioni su cui viene fatta qualsiasi valutazione probabilmente cambieranno in base alla presenza militare degli Stati Uniti, alle dinamiche interne afghane e alla credibilità dell'impegno dei talebani a negoziare in buona fede. Gli scenari per un ritiro ordinato andavano da quelli in cui gli Stati Uniti mantenevano circa 5.000 soldati e la maggior parte delle basi operative militari e di intelligence esistenti, a quella che era determinata essere la presenza minima di circa 2.500 soldati che mantenevano le basi più grandi nella grande Kabul, Bagram, Jalalabad e Khost, così come le infrastrutture per supportare le basi che affideremmo ai partner afghani. La più ampia di queste due opzioni è stata giudicata più probabile per prevenire il crollo dell'Afghanistan per 1-2 anni e fornire ancora un certo grado di continua pressione antiterrorismo degli Stati Uniti; l'impronta più piccola era più difficile da valutare, ma consentiva agli Stati Uniti la flessibilità di aumentare o ridurre ulteriormente la propria presenza in caso di rapido deterioramento delle circostanze. (Sarebbe utile se i commentatori e la copertura delle notizie includessero un maggiore apprezzamento di come funzionano tali valutazioni basate sulla contingenza piuttosto che confondere le valutazioni.) Inizialmente, anche un'opzione "solo Kabul" includeva il mantenimento della tentacolare base aerea americana di Bagram e di altre strutture di intelligence nella grande area della capitale attraverso le quali gli Stati Uniti potevano proiettare la forza, mantenere l'essenziale supporto logistico, di intelligence e medico alle basi gestite dall'Afghanistan, e mantenere alcune capacità di raccolta di informazioni tecniche e antiterrorismo in tutto il paese. Ma senza alcuna presenza militare e di intelligence degli Stati Uniti al di fuori dell'ambasciata a Kabul, di fronte a un'offensiva militare e propagandistica talebana e minata dalle relazioni irritabili di Ghani con i suoi partner politici nazionali, la comunità dell'intelligence ha avvertito che il governo potrebbe dissolversi in pochi giorni. E così è andata. L'orologio ha iniziato ad accelerare quando elementi militari e di intelligence statunitensi si sono ritirati da Kandahar il 13 maggio , e da allora in poi hanno chiuso le rimanenti basi operative avanzate e "ninfee", il termine usato per le aree di sosta temporanee sotto il controllo degli Stati Uniti o della coalizione. Quando Bagram fu chiusa il 1 luglio, anche gli Stati Uniti e la NATO avevano lasciato Herat, Mazar I Sharif, Jalalabad, Khost e altre località che non sono autorizzato a nominare. I talebani si stavano muovendo proprio mentre stavamo facendo i bagagli. A loro si unirono molto probabilmente i molti membri di al-Qaeda (alcuni dei quali avevano goduto del rifugio iraniano), se non un supporto operativo diretto, aumentato inoltre dai talebani rilasciati di recente dalla detenzione afghana a Bagram e altrove. I responsabili politici erano anche consapevoli dell'uso efficace da parte dei talebani di una struttura parallela di "governo ombra" mantenuta dopo la perdita del potere che forniva linee di comunicazione affidabili con gli anziani locali nelle province, nonché con le autorità governative, spesso a causa di legami familiari o clan condivisi. Per un americano potrebbe essere sorprendente, ma non era niente di straordinario per un comandante militare o un capo della polizia afghano essere in contatto regolare anche con coloro che affrontavano quotidianamente in combattimento. I talebani erano quindi ben posizionati per negoziare piuttosto che farsi strada verso successive conquiste. Inoltre, i talebani erano pronti a governare e fornire rapidamente servizi nei territori che erano sotto il suo controllo. E dando la priorità alla periferia per proteggere i confini e le linee di comunicazione necessarie per sostenere un'insurrezione, colpendo per primi da dove furono sconfitti nel 2001, i talebani hanno chiaramente imparato dalla storia, mentre noi ancora no. Ma da dove vengono i soldi per finanziare questa campagna? Persuadere i combattenti ei funzionari governativi di basso livello a consegnare le armi e ad abbandonare i loro posti era ampiamente nei mezzi dei talebani, ma era indubbiamente più costoso assicurarsi la cooperazione di alti funzionari con l'autorità di consegnare i capoluoghi di provincia. A questo si aggiunge la necessità di pagare l'ondata dei propri combattenti, molti dei quali essenzialmente part-time e stagionali. Il salario e l'assistenza alle famiglie dei combattenti uccisi e feriti è spesso la spesa maggiore per i talebani e i loro gruppi terroristi partner, e in Afghanistan, allo stesso modo, l'incentivo più importante per attrarre combattenti. Le finanze dei talebani sono complicate, soprattutto da una struttura non monolitica e fortemente dipendente dalla vasta rete criminale internazionale gestita dalla rete talebana Haqqani in Oriente e da comandanti regionali alquanto autonomi in Occidente. Le entrate sono variamente tratte dalle tasse imposte alla gente del posto, traffico di stupefacenti, donazioni straniere, in gran parte dai paesi del Golfo Arabo, proprietà immobiliari (alcune delle quali all'estero), estorsioni alle compagnie minerarie che operano nelle aree sotto il loro controllo, molte delle quali sono del governo cinese e altri paesi stranieri. Il Pakistan è stato a lungo uno dei principali sostenitori, ma Russia e Iran hanno aumentato i loro investimenti per corteggiare il gruppo negli ultimi anni. Lo slancio di cui i talebani avevano bisogno per assicurarsi la cooperazione dei loro avversari è stato facilitato da una robusta macchina di propaganda che, in molti casi, ha manipolato con successo i media in una copertura positiva e sproporzionata fin dall'inizio della loro offensiva, definendo la loro conquista come inevitabile. Né il governo afghano né gli Stati Uniti potrebbero mai contrastare efficacemente gli sforzi mediatici persistenti ed esperti dei talebani data la necessità di proteggere fonti e metodi, restrizioni legali e una sfortunata mancanza di investimenti e immaginazione. E nel valutare i propri compiti, l'establishment della difesa degli Stati Uniti ha solo esacerbato il problema. Anche se non sorprende che il Dipartimento della Difesa non fosse disposto a valutare obiettivamente la determinazione e la capacità di coloro che hanno addestrato, equipaggiato e consigliato di resistere a un'imminente offensiva talebana, le loro rappresentazioni rosee dei risultati ottenuti in 20 anni hanno volato di fronte alla realtà, ed è stato costantemente messo in discussione dalle proiezioni più cupe, anche se realistiche, della CIA. In qualità di ex capo dell'antiterrorismo regionale della CIA, e poi di un privato cittadino, ho sostenuto la necessità per gli Stati Uniti di rimanere in Afghanistan con una presenza piccola, mirata e antiterrorismo, ma di adottare un approccio radicalmente diverso che non richiedesse che fossimo in prima linea di fuoco tra le forze nazionali rivali i cui conflitti hanno preceduto il nostro intervento e continueranno a lungo dopo che ce ne saremo andati. E mentre ho criticato la CIA e la comunità dell'intelligence per vari mali che richiedono una riforma, non c'è stato alcun fallimento dell'agenzia nell'avvertire sia Trump che Biden su come si sarebbero svolti gli eventi. Operare nell'ombra e “sostenere la Casa Bianca” impedirà alla comunità dell'intelligence di difendersi pubblicamente. Ma il fallimento non è dovuto a una mancanza di preavviso, quanto piuttosto all'arroganza e al calcolo di politici le cui scelte sono troppo spesso fatte nel loro interesse personale o con scelte già decise, piuttosto che influenzate da (a volte sconvenienti ) valutazioni di intelligence e il pieno interesse del paese.

Kabul, il fallimento del sistema America. Biden non sa neanche quanti sono quelli da evacuare, con il governo afghano sembra sia franato anche quello degli Stati Uniti. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 22 agosto 2021. Il presidente americano Biden e la sua amministrazione, ogni giorno di più, assomigliano un treno che sta deragliando. Non sappiamo quanti siano e dove siano gli americani, ha detto Biden nella sua conferenza stampa di venerdì. È un’affermazione sconcertante: sembra che con il governo di Kabul sia franato anche quello americano. Gli Usa si sono ritirati e non sanno neppure quanti e dove siano i loro cittadini. E se non lo sa il presidente americano, emblema della superpotenza tecnologica, dovremmo saperlo noi? Sono stati vent’anni con le truppe e l’intelligence della Cia in un Paese e almeno questa informazione che li riguarda direttamente dovrebbero averla. Sul resto ormai nessuno fa più affidamento sugli Stati uniti: dotati della migliore tecnologia al mondo, in Afghanistan hanno speso miliardi in uomini e mezzi, ci hanno fatto pure credere di avere addestrato un esercito e non hanno saputo prevedere il crollo devastante delle forze armate locali. Si sono coperti di ridicolo dopo una guerra infinita che ha fatto 240 mila morti di cui oltre 70 mila civili, in buona parte uccisi dalle bombe occidentali. Abbiamo però una certezza, che ci ha dato lo stesso Biden. L’Afghanistan era pieno di migliaia di americani – dai contractors, ai funzionari, agli esperti di cooperazione – che dovevano tenere in piedi il Paese facendo finta che fossero gli afghani a farlo. Gli americani in giro per l’Afghanistan sarebbero almeno 11mila, secondo il Financial Times. Se a questi aggiungiamo i collaboratori afghani si arriva a decine di migliaia di persone: un ponte aereo gigantesco in una situazione intenibile, se non con un accordo con i talebani. E i talebani fanno pagare per ogni afghano esfiltrato: paga l’Italia, pagano quasi tutti. Insomma è il business del salvataggio, che il nuovo Emirato rende ancora più drammatico andando a caccia di giornalisti, donne, attivisti. Un caos che per il momento ai talebani conviene perché mette in scena, sotto gli occhi del mondo, quella disfatta americana e occidentale. L’Afghanistan era stato messo in una sorta di “bolla” americana e occidentale che doveva tenere sotto vuoto, a distanza al Paese reale, le istituzioni, le forze armate, i media, le donne, gli attivisti, gli intellettuali. I talebani e il resto degli afghani osservavano la bolla sgonfiarsi giorno dopo giorno, mentre galleggiava in una retorica anni luce lontano dalla realtà. La bolla di sapone è scoppiata, l’Afghanistan è esploso e si è riversato nell’unico punto dove se ne rintraccia ancora la schiuma: l’aeroporto di Kabul, con dentro 6mila soldati americani, il doppio di quelli che erano stati ritirati. E già questo la dice lunga sui calcoli sbagliati fatti non solo ovviamente da Biden ma anche da Trump che avviò i negoziati di Doha con i talebani. Non si tratta di un fallimento soltanto presidenziale ma di un sistema intero incapace di elaborare e soppesare le informazioni che riceve. È il sistema America che ha fallito, tutto insieme.

Il dibattito sul conflitto in Afghanistan. Il disastro Biden in Afghanistan, la ritirata Usa consegnerà Kabul e i suoi narcodollari alla Cina. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Agosto 2021. Seguito a pensare che noi – in Europa e specialmente in Italia – abbiamo una visione ridotta e deformata dell’America e di tutto ciò che accade in quel grande paese da cui ci arrivano soltanto echi deformati e filtrati, in modo tale da poter soddisfare due o tre tipi di palati, non di più. Così è successo con il caso Biden. Biden più che un presidente è un enigma della storia americana. Il Presidente del passato che gli somiglia di più, ma con alte capacità visionarie fu Jimmy Carter, l’uomo nuovo che avrebbe vendicato la sinistra dopo le arroganze repubblicane, ma che portò il paese alla rovina avendo avuto anche la sfortuna di trovarsi di fronte all’insediamento dell’ayatollah Khomeini in Iran, alla cattura degli ostaggi americani nell’ambasciata e al più sfortunato blitz della storia di quel paese quando gli elicotteri dei corpi speciali mandati a soccorrere gli rovinarono tutto per una diabolica serie di errori e guasti meccanici. Oggi è diverso. Biden è il successore di Donald Trump. I lettori del Riformista probabilmente ricordano e ancora si indignano per questa mia scandalosa opinione, ma il tycoon è stato per me l’uomo che scelse di esporsi in maniera ustionante all’opinione pubblica così da attirarsi i fulmini, le maledizioni e l’odio ideologico delle sinistre che lo volevano al rogo. I fatti: Donald Trump aveva deciso di ritirare le truppe americane da tutto il mondo dichiarando che l’America non avrebbe più fatto da babysitter (mandando a morire i propri soldati in ogni angolo del mondo) a chi risparmia sulla propria difesa e spendendo i miliardi di dollari così risparmiati – il riferimento era agli europei e soprattutto alla Germania per promuovere industrie concorrenti a quelle americane. Tutto fu condensato nello slogan “America First” che voleva dire: per noi americani viene prima l’America, gli altri si arrangino. Questa posizione non poteva piacere alle Cancellerie ma aveva una logica evidente e brutalmente pacifista. L’America prima del Covid toccava i massimi picchi di occupazione di afroamericani e di tutte le minoranze emarginate grazie a un taglio delle tasse drastico usato dalle aziende per espandersi e assumere. Tutto ciò in Europa era visto più o meno come i conservatori potevano vedere la Rivoluzione Russa dai loro consigli d’amministrazione nella City di Londra e nella Wall Street di un secolo fa: un pessimo esempio di stroncare. Trump stava dando un pessimo esempio della utilità sociale del più brillante (e regolato) capitalismo che tra l’altro ha prodotto in tempi in tempi fulminei i vaccini che ci stanno salvando la pelle. Gli stessi vaccini su cui Trump contava per poter essere rieletto. Biden è stato riciclato da uomo d’apparato e di rappresentanza ai cocktail come antagonista vendicatore delle sinistre di tutto il mondo unite. In realtà Biden non è nessuno. È stato scelto come il più anziano candidato degli Stati Uniti perché si portava in ticket Kamala Harris, una donna che finge di essere nera mentre è soltanto figlia di un funzionario indiano dell’ex impero inglese. La Harris, come Obama, non discende dagli schiavi acquistati dagli inglesi presso i mercanti arabi anche alla Serenissima Repubblica di Venezia (che cosa pensate che fossero tutti quegli africani in livrea e scimmietta sulle spalle nei quadri del Canaletto?). I progettisti della vittoria di Biden (l’unico presidente eletto con una maggioranza di voti postali recapitati per camion, tutti soltanto col suo nome) sono stati i clan Obama e Clinton, desiderosi di insediare un presidente traballante sulla cui longevità nessuno scommette, e di piazzare automaticamente, insieme a lui, non solo una donna, ma una donna che finge di essere nera: «I’m not a socialist – disse la Harris in un’intervista – but just a mother of a black child». «Non sono una socialista, sono soltanto la mamma di un bimbo nero». Quanto alle sue proprie qualità, oltre a un lifting facciale da neonato, è una che perde la parola e che dà distrattamente del killer al presidente. Per la Harris in Italia stravedono tutti per riflesso pavloviano. È colorata? È il nostro idolo. Perché? perché prevale un pregiudizio razziale, prudentemente espresso in maniera inversa. Io ho due figli americani con cui parlo ogni giorno, e loro e i loro amici detestano Kamala Harris perché come Procuratore ha mandato in galera il più alto numero di ragazzi di colore solo per aver fumato marijuana. Biden ha combinato una catastrofe in Afghanistan di proporzioni ancora ignote. L’Afghanistan produce due beni: la più grande quantità di eroina destinata ai mercati mondiali che frutta ai talebani fra i tre e i quattrocento miliardi di dollari l’anno. Ma c’è dell’altro e Biden lo sa. O dovrebbe saperlo. L’Afghanistan produce minerali, detti “terre rare”, con cui varare la futura generazione dei cellulari, dei sistemi d’arma, del tiro dei carri armati, dei satelliti. La Cina è già in Afghanistan, ben piantata insieme ai russi e al Pakistan. I cinesi sono i nemici già scelti della prossima guerra americana che Trump aveva disegnato come possibile e che Biden ha fatto riclassificare come “probabile” in quel mare del Sud della Cina che non è della Cina ma dove la Cina si è piazzata armando abusivamente gli atolli per spingere i confini oltre i limiti già rifiutati dal tribunale dell’Aja. In quel mare la Cina ha varato una flotta che per qualità e quantità supera quella degli Stati Uniti. L’India è permanente terra di frontiera con la Cina, che a sua volta si è riavvicinata alla Russia con cui compie continue esercitazioni militari. Il mondo è dunque una polveriera minacciato da una guerra di cui non abbiamo la più pallida idea. La Cina grazie a Biden è in trattativa con i talebani per un faraonico programma di industrializzazione, sapendo che i narcotrafficanti travestiti da santissimi uomini della sharia pagheranno in narco-dollari. Tutti gridiamo il nostro sdegno per il mostruoso dramma delle donne e delle bambine afghane che già vengono uccise e cacciate dalle scuole. Ma non abbiamo visto una sola grande manifestazione nelle città italiane perché al di là di quattro parole di circostanza la sinistra italiana non se la sente di scendere in piazza contro le pratiche islamiche nemiche della donna e della democrazia. Quanto al fatto che le democrazie non si esportano con le armi, il Giappone è il lampante esempio del contrario: il generale americano MacArthur, dopo aver imposto al Giappone la resa senza condizioni e dopo averne impiccato i criminali di guerra, dette ordine di edificare un Parlamento, poi scrisse la Costituzione del Giappone e disse: da oggi, e in nome delle nostre armi, questa è una democrazia parlamentare libera con elezioni libere. Da quel momento il Giappone è diventato una delle più perfette e funzionanti democrazie del mondo. Ma la sinistra italiana imbavagliata e legata come un salame dai propri pregiudizi seguita a fare il tifo per un uomo come Biden, che ha dato dei vigliacchi ai poveri afghani (che hanno avuto settantamila morti in combattimento, mentre gli americani sono stati poco più di mille) vittime di un’invasione esterna, quella talebana, e che accusa di incapacità. Abbiamo visto che gli afghani forse non volevano ancora la democrazia non sapendo bene che cos’è ma avevano imparato qualcosa come la libertà, il rispetto delle donne per le donne, la pubblica istruzione, l’umanità. I nostri soldati in Afghanistan avevano le braccia legate dietro la schiena quanto a uso delle armi perché non potevano far altro che rispondere al fuoco se attaccati ma hanno fatto miracoli incredibili per aiutare le persone e difenderle. Gli afghani hanno assaggiato la libertà dalla paura e oggi si passano i bambini attraverso il filo spinato, che è il filo spinato di Biden il quale rischia di portare l’umanità sull’orlo della catastrofe e – udite, udite – i democratici hanno deciso di metterlo sotto inchiesta davanti al Senato e alla Camera bassa per indagare con quali criteri abbia agito il loro Presidente per produrre un danno così devastante all’immagine degli Stati Uniti, agli ideali degli Stati Uniti, al prestigio degli Stati Uniti, alla vittoria del male contro il bene. Biden balbetta. Fa discorsi carichi di odio nei confronti dei perdenti e ammette di aver ordinato la rotta dall’Afghanistan perché doveva pagare la cambiale elettorale all’estrema sinistra socialista che lo aveva votato. E non sapendo come chiudere un discorso imbarazzante per il mondo intero, dopo una lunga pausa e strizzando gli occhi per far capire che è molto arrabbiato, assicura che se i talebani si comporteranno male, be’, allora la sua vendetta sarà devastante. Il corpo dei giornalisti accreditati si è chiesto a base di quale bevanda fosse stato l’aperitivo. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La debacle afghana ci insegna che l’Occidente da solo non può salvare il mondo. Savino Pezzotta su Il Riformista il 24 Agosto 2021. La debacle afghana deve essere un’occasione per gli Stati Uniti e i suoi alleati di una pausa di riflessione e di praticare una virtù che di solito esula dai loro atteggiamenti: la modestia. L’Occidente deve capire che da solo non può salvare il mondo. Washington non è più il Praeceptor Mundi. Londra, Parigi o Berlino non lo sono certo. Non puoi imporre i valori della tua civiltà che si sono costruiti attraverso tante contraddizioni, contributi interni ed esterni, lotte civili, religiose e guerre, alle altre civiltà: si deve fare uno sforzo per riconoscere i valori delle altre civiltà e su come le differenze costruiscono un comune e plurale sentire. Se l’Occidente interviene, deve pensare attentamente a dove utilizzare e quali risorse. Soprattutto, dovrebbe agire solo per una causa in cui crede veramente e che vale il sacrificio. Altrimenti scapperà di nuovo. Ovunque dovrebbe misurare con attenzione l’opportunità di azioni militari e valutare strade alternative e in particolare quelle nascono dai popoli. Ero contrario all’intervento militare in Afghanistan. Avrei preferito un intervento civile e cooperativo basato sulla partecipazione degli afghani. Certo che bisognava difendersi dalla violenza armata dei talebani, ma resto convinto che bisognava cercare strade alternative. Detto questo non voglio unirmi a coloro che dicono che si è perso con il ritiro delle truppe. Ora bisogna che venga elaborata una strategia di intervento in quella regione che non tenda solo a ragionare sui punti di forza, ma su come quelli che sono stati considerati punti di debolezza possano aiutare a capovolgere la logica della violenza e a dare vita a un ordine basato sul rispetto e la convivenza delle differenze. La presenza militare con tutti i suoi limiti ha ancora una volta insegnato che dal male e dagli errori può inavvertitamente sorgere qualche cosa di bene che oggi vediamo emergere nella nuova consapevolezza delle donne afghane che, ne sono certo, i talebani non riusciranno a soffocare e che sarà la fonte dove nascerà qualche cosa di nuovo e di imprevedibile.

Vanno pertanto pensate azioni di cooperazione popolare ad iniziare dall’accoglienza dei profughi che possono diventare la base della rinascita civile di quel martoriato Paese, come i fuoriusciti italiani del tempo fascista lo sono stati per noi. Savino Pezzotta

«In Afghanistan abbiamo visto la catastrofe culturale e politica dell’intero Occidente». Massimo Cacciari su L'Espresso il 23 agosto 2021. L’ignoranza da una parte e un bagaglio confuso di idee su egemonia e libertà dall’altra. Così, disarmato, non avrà più la forza culturale per agire. Se riuscissimo a sollevare il nostro sguardo di una spanna sopra le nebbie in cui Covid-19 e green pass ci hanno immerso, forse vedremmo che ben altri pericoli incombono sui nostri destini. La riconquista di Kabul da parte dei Talebani e le scene della nostra fuga, la fuga di tutti coloro che li hanno combattuti, sono avvenimenti che segnano un’epoca. Lasciamo volentieri a quegli “scienziati” che ci spiegheranno tutti i dettagli economici e politici della crisi, i retroscena e i possibili micro-scenari futuri, l’analisi delle diverse specie arboree, nulla potrà nascondere l’immane foresta: la catastrofe culturale e politica dell’intero Occidente che si è consumata in questi giorni. Ma è storia vecchia, si dirà. In fondo, alla stessa scena avevamo assistito a Saigon quasi mezzo secolo fa. È vero, dalla seconda Guerra Mondiale gli USA non hanno mai vinto una guerra-guerra che avesse un peso strategico globale. Ma le sconfitte prima del crollo del Muro avevano un significato completamente diverso; in fondo, riaffermavano la necessità di un equilibrio tra le due superpotenze, per quanto dinamico o instabile potesse apparire, che garantiva un governo delle aree potenzialmente più esplosive. Al di là della competizione tra loro, che è giunta certamente più volte ai limiti della rottura, valeva su questo piano una “divisione del lavoro” che nei fatti ha funzionato fino all’ ’89. Quante volte si è ripetuto: vae victoribus! Guai ai vincitori! Gli USA hanno vinto contro l’URSS, non contro i vietnamiti, non contro i talebani; e non hanno rattoppato le cose in Medio-oriente se non grazie agli interventi, in lotta tra loro, di Russia e di Turchia. L’America non ha compreso nulla del significato della sua vittoria sull’URSS, interpretandola ideologicamente come la vittoria contro una civiltà straniera. Molti da noi videro in questo un calcolo ben ragionato, un’arma di grande efficacia soprattutto in mano ai Reagan, ma non fu machiavellismo. La leadership americana ci credeva davvero. Quella fu invece la vittoria in una guerra civile, la dittatura sovietica era fragilissima nelle sue fondamenta culturali, poiché in palese contrapposizione sia nei confronti delle tradizioni occidentali potentemente presenti in Russia fin dal XVIII secolo, sia di quelle religiose “autoctone”. Gli americani possono vincere le guerre civili (come in fondo furono anche la Prima e la Seconda Guerra Mondiale), non quelle contro altre nazioni o popoli che hanno, per il momento almeno, assunto dall’Occidente soltanto la Tecnica come strumento, e non come forma di vita e di mente. Contro di loro la potenza assimilativa dell’Occidente, l’idea del suo primato non solo economico ma etico, nel senso più ampio del termine, non ha alcun peso. Abbiamo affrontato le crisi medio-orientali e la tragedia afghana alla luce di un bagaglio ormai confuso di idee di democrazia, di costituzione, di procedure parlamentari, distinguendo le forze in campo in base alla loro distanza rispetto a questi nostri “valori”. Antica abitudine, d’altronde, si dirà, dai Giovani Turchi all’Iran dello Scià, agli sgangherati appoggi a questo o quell’altro “riformismo” islamico. E preferibile sempre la più orrenda dittatura militare (di cui possiamo almeno fingere di intendercene come roba nostra, vedi Pinochet), all’imprevedibile di posizioni culturali, religiose, politiche che fuoriescono dal nostro cono di luce. L’Occidente ha affrontato le grandi crisi post-’89 dimostrando una sciagurata ignoranza della storia, della cultura e della vita delle nazioni con cui entrava in conflitto. Ed ora era solo, perché l’altra, fondamentale gamba del tavolo (occidentale anch’essa) era stata sconfitta. La fuga dall’Afghanistan apre il sipario su un Occidente disarmato. Nessun ovvio ragionamento sulla sua perdurante potenza economico-finanziaria, può coprire il significato storico della sconfitta subita sul campo. La potenza economica non basta, anche fosse immensa, e non lo è più, a governare alcun conflitto di valore globale, e neppure a garantire un’efficace funzione di polizia. Che cosa comporterà nella storia del nostro piccolo pianeta il ritiro dell’Occidente dalla egemonia esercitata (anche attraverso l’URSS!) da oltre due millenni? L’Occidente, ”guidato” dagli USA, saprà certo difendersi e sopravvivere ancora per chissà quanto. In realtà è appunto in questa dimensione, in questo esercizio di “affluente” e prospera sopravvivenza che ha affinato da vari decenni le sue migliori virtù. Sa e saprà vaccinarsi ancora a lungo, senza dubbio. Arduo ormai sperare che sia in grado di prevenire i mali o estirparne le cause. Dopo Kabul il sogno che dal definitivo tracollo delle sue idee di guida imperiale l’Occidente potesse diventare oriente di una politica internazionale basata su riconoscimento reciproco, accoglienza, diritti storicamente fondati (e non astratta espressione di quella che per secoli abbiamo preteso essere l’unica Ragione ben fondata, la nostra), questo sogno, dopo Kabul, consummatum est. L’Occidente non avrà più la forza culturale per agire, per sentire che ha in sé un futuro di guida – poiché quello di esclusivo comando, che aveva cercato in modo suicida di affermare dopo l’’89 con le guerre dei Bush colpevolmente appoggiate dall’Europa, finisce definitivamente già in Iraq e Siria. Molto dipenderà dai Talebani vittoriosi. Che questa volta, credo, vorranno piantare radici più solide che con i Bin Laden. E dunque faranno politica, come si dice. Con chi? Con i vinti o con coloro che hanno assistito alla guerra? Quale ruolo vorrà giocare la Cina? Tenterà di passare dalla sistematica, pervasiva “infiltrazione”nelle nostre economie, alla presenza politica diretta alle porte del Mediterraneo e dell’Europa? Da parte loro, i popoli del vecchio Continente, passato l’entusiasmo per il “senza frontiere” e l’ “internazionale”, pensano ai prossimi muri da erigere contro gli esodi imminenti, a come bloccare i porti, a quanto pagare Erdogan, libici & Co. per l’ingrato mestiere. Anche questa pandemia dovrà essere arrestata! E tanto basta, per domani, chi più vive più vedrà. 

Il doppio smacco inflitto dai Talebani. Bernardo Valli su L'Espresso il 23 agosto 2021. Una terra tra le più povere e arretrate ha messo alla porta l’ex Unione sovietica e poi gli Stati Uniti, due tra le nazioni più armate del pianeta. I Talebani (“studenti in teologia”) erano una formazione molto attiva ma non tanto organizzata di musulmani radicali quando mi aggiravo in territorio pakistano, al confine con l’Afghanistan negli anni Ottanta. Mohammed Omar, indicato come il loro fondatore, li avrebbe battezzati e rafforzati durante la guerriglia contro i russi. I quali erano sul piede di partenza dopo dieci anni di occupazione e quando non si profilava ancora la guerra americana, cominciata nel 2001 come reazione all’ attentato alle torri gemelle di New York. Nel frattempo, i Talebani si erano rafforzati al punto da poter governare gran parte del Paese, dopo essersi distinti dagli altri gruppi di resistenza impegnati contro gli invasori sovietici. Erano accampati alla frontiera afghana che superavano per andare ad alimentare la guerriglia antisovietica. Era facile distinguerli dagli altri gruppi di resistenti. Erano più disciplinati e diffidenti con gli estranei. Una volta individuati, sia pure ancora senza nome, avevano un’identità in quella striscia di confine. Il contatto si rivelava più facile del previsto. Erano guerriglieri, terroristi, con una propensione alla diplomazia spiccia. Che usavano con me, giornalista straniero maschio, ma non per la giornalista francese, femmina, mia compagna di lavoro. A lei i futuri Talebani non rivolgevano mai la parola. Neppure uno sguardo. Un’occhiata a una femmina era come una bestemmia. Le femmine non meritavano attenzione quando erano in pubblico. Bisognava comportarsi come se non esistessero. Entrambi, la mia collega e io, sapevamo che nelle zone controllate dai Talebani, allora piccole isole nel cuore dell’Afghanistan, era proibito alle ragazze di frequentare le scuole. Erano confinate in casa, dove non venivano loro risparmiate severe punizioni, anche corporali, se ascoltavano musica o indossavano abiti che non le coprivano abbastanza. Ma in quel momento, negli anni Ottanta, non pensavo al loro fanatismo. Se ne parlava senza darvi troppa importanza. Contava l’aperto aiuto del Pakistan ai Talebani. Continuato fino ai nostri giorni. Gli americani, da amici nascosti, sarebbero diventati occupanti, i nuovi invasori. La loro, era un’altra superpotenza destinata a perdere un conflitto con un Paese del Terzo Mondo, un tempo praticamente amico, se non alleato, perché nemico dei propri nemici. L’alleanza con quei musulmani radicali, ancora impegnati nella lotta contro i sovietici, cercava di essere clandestina. Non era troppo sbandierata ma decisiva perché avrebbe contribuito in seguito alla sconfitta dell’Armata rossa, al ritiro dall’ Afghanistan della potenza comunista, nonostante disponesse nel paese di alleati anche ideologici. Un’umiliazione politica e militare dell’Urss che fu una delle cause, tra le tante, della sua dissoluzione. Ricordo quel primo contatto con i Talebani, dei quali allora conoscevo ben poco. Mi colpì il loro rigido atteggiamento nei confronti della cronista francese che cercava invano di incrociare il loro sguardo. Sono regole che si sono poi allentate in molte regioni, ormai tutte in mano ai Talebani, diventati la forza militare senza veri rivali nel Paese. Anche negli anni americani, durante i soggiorni in Afghanistan, ho avuto contatti con loro, senza che i miei interlocutori dichiarassero la loro affiliazione. Gli americani se ne sono andati, gli ultimi se ne stanno andando. Uno pensa al Viet Nam. I musulmani di stampo radicale sono diventati una potenza della regione. Hanno rapporti con i Paesi vicini, l’Iran e naturalmente il Pakistan. Ma anche con la Cina e con la Russia un tempo nemica. L’Afghanistan, mosaico di gruppi etnici, ha sconfitto, ha costretto a ritirarsi dal suo territorio le più grandi potenze. Nell’epoca coloniale annientarono una colonna britannica che cercava di inoltrarsi nel Paese per assumerne il controllo. Poi nel 1979 è intervenuta l’Unione Sovietica che ha rimpatriato i suoi soldati dopo avere tentato di aiutare invano gli alleati afghani per dieci anni. Gli americani hanno resistito di più: dal 2001 al 2021. In questi giorni i Talebani stanno estendendo il loro potere all’intero Afghanistan. Una terra tra le più povere, tra le più arretrate, ha messo alla porta due tra le nazioni più armate del pianeta. L’Unione sovietica, anche in seguito al fallimento afghano, ha smarrito la sua rivoluzione, ed è ritornata a essere la Russia. E gli Stati Uniti sono in un questo momento castigati. Sono prudenti poiché lasciano di gran fretta il campo in cui erano impegnati. I loro alleati afghani (300mila negli effettivi ufficiali) esibivano cifre false. Molti battaglioni che esistevano sulla carta ricevevano aiuti americani senza avere un solo soldato.

Alessandro Rico per “La Verità” il 23 agosto 2021.

Pierluigi Battista, editorialista di Huffington Post, ha seguito con sgomento la crisi afgana. Su Twitter, ha parlato di «catastrofe assoluta», «orrore», «trionfo dell'oscurantismo più feroce». 

È finita l'era dell'universalismo democratico, ovvero dell'esportazione della democrazia?

«È finito l'Occidente, inteso come alleanza internazionale nata dalla seconda guerra mondiale». 

Si spieghi.

«Cominciamo con il ricordare che, negli Stati Uniti, la corrente isolazionista è stata sempre fortissima. La maggior parte degli americani - e della sinistra americana - la pensa così. Molti americani erano contrari persino a intervenire contro Adolf Hitler. Gli Usa non sarebbero entrati in guerra se i giapponesi non avessero attaccato Pearl Harbor». 

La vera anomalia, dunque, è stato il periodo della pax americana?

«Certo. E nella seconda guerra mondiale, lo sbarco in Normandia non fu altro che l'esportazione della democrazia. O meglio, il suo ripristino, visto che i Paesi europei già avevano un passato democratico, a differenza di quelli islamici. Comunque, è allora che nasce questo concetto di Occidente, inteso anche come rete di protezione dal totalitarismo comunista». 

Lo scenario della guerra fredda.

«Quando Ronald Reagan introdusse lo scudo spaziale, non si servì di un intervento militare diretto, ma di un fortissimo strumento di pressione contro la dittatura comunista, in chiave di protezione di quest' alleanza occidentale. Il discorso di Joe Biden seppellisce completamente questa storia». 

Non sarà stato un errore pensare che si potesse applicare lo schema del sistema di alleanze occidentali anche al Medio Oriente?

«Non è che l'idea della cosiddetta esportazione della democrazia nasca dal nulla. Il ragionamento era: solo imponendo con le armi istituzioni democratiche, o comunque più libere, si sottrae un territorio ai terroristi islamici. Biden, invece, ha separato completamente il tema della lotta al terrorismo da quello del nation building». 

Ha detto che gli americani erano andati lì solo per sconfiggere Al Qaeda.

«Se così fosse, perché sono rimasti 20 anni? Osama Bin Laden è stato ucciso nel 2011». 

Quindi?

«La teoria, fallita in Iraq e in Afghanistan, è appunto che, introducendo elementi di democrazia in quei sistemi, si sarebbe tolto l'ossigeno al terrorismo. Il fatto è che i due aspetti erano strettamente correlati, mentre Biden li ha separati».

Peraltro, fino a pochi anni fa Biden auspicava proprio il nation building in Afghanistan.

«Non è solo un problema di Biden. Questa è la rivincita dell'isolazionismo, che fa parte del Dna americano». 

Isolazionismo o sovranismo?

«Anche sovranismo, certo. Quello che ha fatto Biden è la più compiuta realizzazione dell'appello trumpiano all'"America first"». 

Eppure, quando Biden vinse le elezioni, i commentatori celebrarono il funerale del sovranismo.

«Invece, ci dobbiamo abituare a un'America che non è più disposta a sobbarcarsi i costi dell'egemonia. La Cina, ad esempio, ragiona diversamente». 

Come?

«Ha interesse alla protezione, alla tutela e anche all'occupazione di interi territori. L'Africa, in primo luogo; l'Europa - e nell'Italia di Giuseppe Conte, Pechino aveva trovato una sponda: per fortuna, Mario Draghi ha rimediato - e, ora, pure l'Afghanistan, dove i cinesi cercheranno di comprarsi i talebani. L'Occidente democratico, dinanzi a questo, è totalmente privo di strumenti». 

Siamo inermi?

«Be', di che parla l'Europa? Di profughi, mica di geopolitica». 

Non è una visione apocalittica?

«Consideri che in ballo non c'è semplicemente la vittoria di una non democrazia. Pure il Venezuela o il Nicaragua sono non democrazie». 

E allora?

«Le non democrazie islamiche, dove la legge si mutua sulla sharia, sono la negazione di ogni diritto umano. Il punto vero è questo». 

In che senso?

«L'impiccagione, la lapidazione, il taglio delle mani, la negazione di ogni più elementare diritto della donna sono il buio totalitario completo. Non stiamo uscendo dall'Afghanistan. Stiamo consegnando un'intera popolazione a dei banditi. Il tracollo sta qui: per l'Occidente i diritti umani non valgono più». 

È anche vero che i diritti umani sono stati spesso usati come un pretesto per guerre di conquista

«Ma qui non c'è in ballo la Realpolitik. Questo è un grosso "chissenefrega". Chissenefrega se le donne vengono lapidate, massacrate, umiliate, mortificate». 

Il primo discorso di Biden, nel suo cinismo, è stato abbastanza esplicito in questo senso.

«Biden ha tirato in ballo la democrazia. Ma qui siamo oltre la questione della democrazia, appunto». 

C'entra l'islam?

«Ma certo. Insomma, è la differenza che passa tra una dittatura qualsiasi e il regime di Hitler. Noi ce ne fottiamo che ci sia Hitler. Perciò il paragone con Saigon è fuori luogo». 

Come mai?

«Quella fu una guerra perduta. Questa è la cancellazione di una tradizione democratica». 

È vero che l'accordo di Doha, che sanciva l'impegno degli americani a lasciare l'Afghanistan, lo siglò Donald Trump. Ma se questa fuga da Kabul l'avesse permessa lui, ci staremmo tutti a stracciare le vesti

«Questo è un topos della destra, però, sinceramente, non vedo una strenua difesa di Biden. Sì, non ci sono le manifestazioni di piazza. Ma nessun giornale internazionale lo giustifica».

E l'opinione pubblica statunitense? Il calo nei sondaggi non sembra catastrofico.

«Perché l'opinione pubblica americana è isolazionista. Sono quasi gli stessi che non sarebbero voluti entrare nella seconda guerra mondiale. Certo, poi le immagini contano». 

A che si riferisce?

«A queste persone disperate che fuggono, a chi lancia i bambini per cercare di salvarli, a chi s' aggrappa a un aereo, andando incontro a una morte certa. Queste immagini sono peggio di Saigon. Migliaia di persone che scappano con orrore. Ecco perché Biden ha parlato delle bare dei soldati avvolte con la bandiera americana». 

Cioè?

«Noi non accettiamo più l'idea che la guerra è morte. Meglio i corridoi umanitari per far arrivare i profughi. Ma alla fine, chi si fiderà più dell'Occidente?».

È questa una delle conseguenze geopolitiche potenzialmente più insidiose del flop in Afghanistan.

«Ma ve li ricordate i curdi, che ci hanno salvato il culo dall'Isis e sono stati abbandonati da Trump? E l'Arabia Saudita? Fanno a pezzi Jamal Kashoggi e Matteo Renzi va a dire che quello è il nuovo rinascimento. Andremo a giocare i Mondiali in Qatar: che penseranno i dissidenti del regime e le donne? A questo punto, sono sicuro che gli Usa si accorderanno pure con l'Iran». 

Dice?

«Ma sì, che gli frega se questi si fanno l'atomica. Meno male che c'è Israele, che bombarda, ma non si fida più degli Usa. E secondo me si stanno facendo due domande anche in Ucraina e in Bielorussia». 

La Nato?

«Non esiste più. Anche l'Europa è uno zero». 

L'Europa non è parte lesa? Ci aspettavamo che, con Biden alla Casa Bianca, i rapporti tra Bruxelles e Washington sarebbero tornati idilliaci. Invece il presidente ha di nuovo scaricato l'Ue.

«Biden mantiene rapporti cordiali, perché è sempre meglio che l'Europa non gli metta i bastoni tra le ruote. Ma l'Europa non conta nulla nel quadro internazionale. Al centro ci sono Usa, Russia e Cina. È a questo mondo che si devono abituare i nostri figli. Al secolo cinese. Il mondo nato a Pearl Harbor è finito all'aeroporto di Kabul». 

E che ci dobbiamo aspettare dal secolo cinese?

«Cupezza. Appannamento dei valori democratici. Subordinazione. Conte, grillini». 

Ecco, Giuseppe Conte ne è uscito malissimo, con quella frase sui talebani «distensivi»

«Che je frega, poi recupera... Ma poi, è uscito male rispetto a cosa? Che gliene importa al mondo di quello che dice lui? Lui e i grillini, politicamente, sono dei morti viventi. È quella cultura, semmai, che si sta affermando». 

E Luigi Di Maio in spiaggia?

«Ma che ci rimanga per sempre, con Michele Emiliano e Francesco Boccia. Teniamoli in vacanza, per evitare danni». 

Le femministe?

«Sono delle ipocrite. Ma vorrei fare una proposta». 

Che proposta?

«Freghiamocene di quello che dicono o non dicono. Chi sono? Chi rappresentano? Come possono aiutare le Saman, o le donne iraniane e saudite? La domanda non è perché le femministe non parlino, ma perché noi dovremmo porci il problema di quello che dicono. Lasciamole alla loro totale inutilità culturale». 

La «proposta» vale anche per quelli che, 20 anni fa, difendevano i talebani e ora piangono per il ritiro degli Usa?

«Che dire: questa, oltre che la fine dell'Occidente, è anche la fine della logica».

Afghanistan, roba che neanche l'Urss. Tutti gli errori dell'Occidente: perché il ritiro da Kabul è diventato un disastro. Dario Rivolta su Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. Quale sarà negli anni a venire la definizione corretta per quanto accade in questi giorni in Afghanistan: «ritirata», «sconfitta», «fuga», «disfatta», o soltanto «vergogna»? Ciò che già possiamo dirci, sin da oggi, è che, se la partenza delle truppe americane e Nato era giusto si ordinasse, il modo in cui è stata attuata è solo l'ultimo degli errori di una guerra che ebbe condivisibili ragioni per cominciare, ma è stata poi continuata con superficialità e incompetenza. Ora si colpevolizza, giustamente, Biden quando le immagini televisive ci mettono sotto gli occhi il risultato della sua improvvida decisione: migliaia di afghani terrorizzati pronti a rischiare di essere uccisi nella calca per giungere all'aeroporto, persone disperate che si attaccano alle scalette degli aerei in partenza o perfino alle ali e non le mollano nemmeno nel momento del decollo, prospettiva di violenze di ogni genere contro donne e bambine, truppe di talebani festeggianti che entrano nelle città senza colpo ferire, il presidente che fugge dal Paese poche ore dopo aver annunciato che Kabul «resisterà»...

SAIGON NON C'ENTRA

Perfino un giornale americano tradizionalmente vicino ai democratici, The Atlantic, scrive: «Questo tradimento vivrà nell'infamia e il peso della vergogna ricadrà sul presidente Joe Biden». Assolutamente condivisibile, ma il paragone che qualcuno fa con Saigon e la debacle in Vietnam non è appropriato. Dopo la partenza dei soldati americani il governo del generale Van Thieu durò ancora due anni prima di dover cedere tutto ai vietcong. Nemmeno l'andarsene dei sovietici nel 1989 è comparabile. Le loro truppe ci misero nove mesi a lasciare definitivamente il territorio afghano e la loro ritirata fu organizzata nei minimi particolari. Il governo afghano che lasciarono a Kabul resistette ad una guerra civile fino all'aprile del 1992 e non cadde per mano dei soli talebani ma trattò anche con il famoso generale Massud che occupava tutta la parte nord del Paese. Gli eventi di questi giorni fanno dunque storia a sé e, mentre la maggior parte degli analisti cerca (comprensibilmente) di prevedere quanto potrebbe succedere e come si comporteranno i nuovi "padroni" del Paese, credo sia altrettanto utile, se non perfino di più, capire cosa sia andato storto e come sia stato possibile, dopo venti anni di combattimenti tra le truppe più armate del mondo e un gruppo di scalcagnati guerriglieri, che i primi se ne vadano con la coda tra le gambe e i secondi vedano ingrossarsi le proprie fila ogni giorno che passa.

TORME DI DISPERATI

Una cosa importante da sottolineare è che le immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo che inquadrano torme di disperati che cercano di imbarcarsi su un qualunque aereo danno, comprensibilmente, un'immagine fortemente negativa non solo degli americani ma di tutta la Nato e, di conseguenza, di tutti noi occidentali. Nessuno può negare che chi comanda nella Nato siano proprio gli americani e che loro erano a capo delle operazioni militari e impartivano le disposizioni agli alleati su come comportarsi con il governo locale, cosa fare, dove e cosa finanziare, ecc. Tuttavia, erano presenti tutti i membri dell'Alleanza ed è naturale che il mondo guardi a chi c'era come ad un'unità politica accomunando tutti nello stesso giudizio. Certo i nostri competitor, massime i cinesi, saranno felici di alimentare questa immagine negativa e già da Pechino c'è stato chi ha invitato a osservare che «gli occidentali sanno solo distruggere senza costruire, mentre noi andiamo negli altri Paesi solo per costruire». Prima di enumerare tutti gli errori fatti dalla gestione americana del dossier Afghanistan è comunque bene ricordare anche ciò che di buono è accaduto alla popolazione durante questi vent' anni: la mortalità infantile si è addirittura dimezzata, gli anni di frequentazione scolastica sono aumentati dando istruzione a ben tre milioni e mezzo di ragazze (nonostante circa due milioni ancora non frequentino), il numero dei laureati è decuplicato e molte donne hanno un'occupazione dignitosa in settori privati o pubblici. L'aspettativa di vita per le donne è cresciuta di almeno dieci anni, c'è una certa diffusione di telefoni portatili e di computer privati e questo, assieme al moltiplicarsi dei media indipendenti, ha offerto un'apertura sui fatti del mondo. Purtroppo, non si può sapere quanto di tutto ciò resterà sotto il governo dei Talebani che si basa solamente su una misera lettura della Sharia. Tuttavia, anche per questi fanatici non sarà facile cancellare molte delle abitudini e della cultura aperta che, almeno nelle città, ha permeato gli animi di molti uomini e donne.

ASPETTATIVE DELUSE

Riflettiamo, però, sugli errori commessi e sul perché una vittoria militare e politica (mantenuta tra il 2001 e il 2005) si è poi tramutata in una totale disfatta. Quando la guerra cominciò e le truppe della Nato cacciarono i talebani da Kabul nacque un atteggiamento generalmente positivo tra tutta la popolazione. Le aspettative degli afghani verso una vita più libera e di maggior benessere furono tante e i soldati stranieri furono considerati più come dei "liberatori" che degli "invasori". Anche i Talebani compresero di essere stati sconfitti e tra il 2002 e i 2004 chiesero più volte al Presidente eletto Karzai di essere associati al governo del Paese, seppur come forza minoritaria. Karzai lo chiese agli americani, ma l'allora Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld fece sapere, addirittura attraverso una conferenza stampa (sic!), che non se ne parlava nemmeno. Fulì il vero inizio della fine.

Kamala Harris, le chiedono dell'Afghanistan? E lei scoppia a ridere davanti ai giornalisti: figuraccia senza precedenti. Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. Kamala Harris è letteralmente scoppiata a ridere quando una giornalista le ha fatto una domanda sulla crisi in Afghanistan. La vicepresidente degli Stati Uniti ha avuto questa reazione incontrollata, probabilmente dovuta a un certo nervosismo, dopo essere atterrata a Singapore. Era lì per incontrare il primo ministro Lee Hsien Loong. La scenetta, però, non è piaciuta quasi a nessuno e sui social si sono scatenate le reazioni di sgomento e i commenti contro la dem. Nel video che circola sui social, la si vede sorridere già in lontananza mentre si avvicina ai giornalisti. Poi, quando una reporter prova a chiederle un commento sulla questione afghana, lei la interrompe prima che possa finire di parlare: “Aspetta, aspetta, rallenta”, e nel frattempo scoppia a ridere, scuotendo le spalle. Gli utenti sui social si sono indignati, come riporta Dagospia. Qualcuno ha scritto: "È come uno sketch del Saturday Night Live (programma tv americano). Peccato sia reale e che lei non sia una comica. Non c’è niente da ridere". Quella in Asia, ricorda Dago, è la seconda missione all’estero della Harris. La prima era stata quella in Guatemala e in Messico. E anche in quel caso alcune delle sue dichiarazioni sono finite al centro del mirino. In quell'occasione, infatti, aveva fatto un’altra figuraccia intimando ai migranti di non andare negli Stati Uniti pena il respingimento. 

Joe Biden, il generale Petraeus: "Mai nessuno umiliato così dopo 7 mesi", clamorosa rimozione lampo? Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. "Gli Usa hanno fatto tanti errori all’estero, ma mai un leader era stato così umiliato in soli sette mesi dall’arrivo al potere": a lanciare questo pesante giudizio contro il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato il generale David Petraeus, grande stratega, colui che scongiurò la disfatta nell’Iraq sotto Bush junior. Il riferimento è, ovviamente, alla crisi in Afghanistan, dove dopo l'arrivo dei talebani si è manifestata la necessità di evacuare più cittadini possibile. Contro il numero uno della Casa Binaca, in effetti, le critiche negli ultimi giorni sono state numerose. E non sono arrivate solo dai suoi detrattori. A puntare il dito contro di lui sono stati anche i quotidiani dem che lo avevano appoggiato al momento dell'elezione. In primis il Washington Post, dove la giornalista Emma Ashford si è chiesta: "C’è un cervello in chi dà gli ordini ai soldati?". Il Giorno fa notare che il nome di Biden non viene citato espressamente, ma è innegabile che il Commander in Chief sia lui. La stampa dem, inoltre, si chiede se - davanti alle immagini in arrivo da Kabul - la parola degli Usa sia ancora credibile". Adesso, inoltre, ci si chiede per quanto tempo ancora Biden, 78 anni, possa rimanere a capo di una potenza come gli Stati Uniti. Per alcuni, infatti, l'ipotesi più probabile al momento sarebbe proprio quella delle dimissioni. E mentre su di lui aleggia lo spettro di una rimozione lampo, il suo gradimento va a picco. 

Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera” il 25 agosto 2021. Sidney Blumenthal è stato senior advisor di Bill Clinton dal 1997 al 2001, ed è uno stretto consigliere e amico di Hillary. Negli anni alla Casa Bianca, durante la guerra del Kosovo, ha sempre tenuto le fila dei contatti con gli europei. Oggi si dice sconcertato da come il presidente Biden ha gestito il ritiro. «La mancata consultazione con gli alleati mi è sembrata una sorprendente omissione. Durante la crisi nei Balcani avevo rapporti personali con tutti i leader europei, compreso Romano Prodi. Fu una guerra difficile, ma gli alleati non soffrirono una singola perdita umana, e proteggemmo i musulmani dalla pulizia etnica. È l'ultimo esempio di successo di una missione militare condotta dagli alleati a guida Usa. Questo non vuol dire che non ci furono tensioni, con i francesi, gli italiani, i tedeschi, a volte anche con i britannici. Ma restammo uniti attraverso consultazioni costanti». 

L'Europa deve abituarsi a contare meno sull'America?

«L'Afghanistan non è necessariamente l'esempio di una nuova dottrina. È un caso a parte. Se c'è un internazionalista quello è Joe Biden, e io non credo che questo passaggio sia il segnale di un ripudio dell'internazionalismo, è solo la conseguenza di quello che Joe Biden pensa, e non da oggi, dell'Afghanistan». 

In effetti Biden vuole il ritiro da oltre un decennio, da quando si scontrava con i generali che convinsero Obama a mandare oltre 30 mila soldati.

«Esatto, ha avuto rapporti terribili con Hamid Karzai, lo detestava e già da tempo considera perduta la missione, soprattutto a causa della corruzione. Era determinato a uscire e Trump gli ha fornito le basi per farlo attraverso il suo trattato di resa, non posso definirlo altrimenti, ai talebani (gli accordi di Doha, ndr). Il problema è che sono stati ignorati gli allarmi che venivano da alcuni funzionari del dipartimento di Stato e dai generali e non è stata programmata l'evacuazione: così è sembrato che abbandonassimo i nostri alleati afghani». 

La catena di fallimenti è lunga 4 amministrazioni...

«La responsabilità principale è di Bush, Rumsfeld e Cheney per come hanno condotto la guerra, e come l'hanno minata invadendo l'Iraq; Rumsfeld poi si oppose a inviare peacekeeper internazionali nei primi due anni, e questo consentì ai talebani di riformarsi e ricompattarsi. Ma tutto questo non ci aiuta ora, non aiuta nessuno all'aeroporto di Kabul. È Biden che deve rispondere di quel che succede adesso». 

Era giusto comunque andarsene?

«Non è mai stato plausibile sconfiggere definitivamente i talebani. Il punto era se mantenere un certo status quo e provare a rafforzare la società civile con un impegno che sarebbe durato generazioni. Non era quello che voleva Biden. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se avesse stracciato gli accordi di Trump. Di sicuro possiamo già valutare degli errori tattici come aver lasciato la base di Bagram (a luglio, ndr) che ha creato un vuoto totale di forza militare nel Paese, e sottratto un luogo che sarebbe stato prezioso per le evacuazioni».

Biden pagherà un prezzo politico?

«Ci saranno indagini del Congresso...ma i due terzi degli americani sostiene il ritiro. Probabilmente tra un anno, quando ci saranno le elezioni di midterm, questo non sarà più un punto debole per lui». 

Il presidente ha accelerato sul ritiro anche per concentrarsi sul «fronte interno»?

«Penso di sì, il 6 gennaio non è veramente finito. Non è solo polarizzazione politica, è molto di più. Il principale pericolo per l'America come democrazia e per l'internazionalismo è domestico».

Parla il generale già a capo del contingente italiano in Libano. “Guerra a Kabul inutile, ma ora non possiamo abbandonare gli afghani”, parla l’ex comandante Nato Angioni. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 25 Agosto 2021. «In Afghanistan sono stati commessi innumerevoli errori: in primo luogo politici, culturali, di comprensione della realtà in cui si operava. Ma gli errori dell’Occidente non devono essere pagati a caro prezzo, al prezzo della vita stessa, da quanti in quel martoriato Paese hanno creduto in noi. L’Occidente è loro debitore. Lasciarli in balia dei Talebani sarebbe molto più di un tradimento. Sarebbe un crimine contro l’umanità». A sostenerlo è uno che la guerra l’ha conosciuta sul campo: il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri.

Generale Angioni, come andrebbe letta la tragedia afghana? Si è parlato e scritto di fuga, di resa, di tradimento da parte dell’Occidente.

Lasciamo perdere le definizioni fuorvianti. La vicenda afghana va letta alla luce della storia. Della storia in generale e della storia di quel Paese in particolare. L’Afghanistan è un Paese diverso da tutti gli altri, per questione di tradizione, di costume. Che ci vogliamo fare, è così. Solo che gli americani hanno abboccato all’amo e si sono fatti trascinare nella “gestione” di questo Paese, come se si trattasse di un Paese normale. Ma l’Afghanistan non è un Paese normale. E fuori dalla norma, fuori dal tempo, fuori dalla storicità del momento. Non averlo compreso, illudendosi di poter “occidentalizzare” l’Afghanistan è stata la madre di tutti gli errori. Ora, però, questi errori non possono, non debbono essere scaricati sui civili afghani. Ora, il problema non è più politico ma totalmente umanitario. Non è possibile abbandonare milioni di persone alla mercé di gente ormai ubriaca di queste dottrine che noi non conosciamo, non vogliamo. Lo sottolineo di nuovo: ci siamo fatti coinvolgere in una situazione che sfugge al controllo.

Vent’anni fa, l’azione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati, nacque come risposta a un immane attacco terroristico, quello delle Torri Gemelle. Ma poi quell’azione in cosa si è trasformata? Perché si è deciso di restare lì per vent’anni, anche dopo aver eliminato Osama bin Laden?

Perché quel Paese è turbolento, è stato visto come una minaccia al mondo. Gli americani si sono fatti agganciare da questa situazione, non sapendo o non volendo cogliere la peculiarità di quel Paese in cui si stavano andando a impantanare, e noi con loro. Si è colpevolmente sottovalutato il peso del fanatismo religioso e anche del tribalismo. Farsi coinvolgere in una situazione del genere è estremamente pericoloso e peraltro pure inutile. Capisco e posso anche apprezzare che esista una volontà di portare un Paese “eccezionale” nell’alveo della normalità occidentale. Ma perché questo obiettivo possa essere perseguito con qualche chance di successo, ci vogliono dei criteri che sono fuori delle norme occidentali. Bisogna entrare nella mentalità orientale e in particolare di quella vena religiosa. E questo non è stato fatto…

Perché, generale Angioni?

Per quella che io chiamo una forma di “infantile entusiasmo”, quello americano, volto a vendicare l’attacco alle Torri Gemelle. Si doveva agire razionalmente. Sia chiaro: non è che si doveva far finta di niente, assolutamente no, ma non imbarcarsi in un’avventura come se giocassimo a guardie e ladri tra ragazzini. Non era possibile, non era conveniente, e la storia di questi vent’anni lo ha dimostrato, farsi coinvolgere a casa loro in una guerra infinita. Il problema adesso è uscirne dignitosamente. Il che significa evitare di commettere altri errori e tenendo conto dei fattori umani. L’Occidente, essendosi così fatto coinvolgere in Afghanistan, ha dei debiti nei confronti di quel Paese e della sua gente. Perché ha introdotto delle novità, molte delle quali positive, penso per esempio ai diritti delle donne, e ora non è che possa dimenticarsene. Dire che il problema oggi è essenzialmente, se non unicamente, quello dell’evacuazione, è al tempo stesso una inaccettabile riduzione e, mi permetto di dire, anche un tradimento, questo sì, verso i tanti afghani che a quelle novità hanno creduto. Dopo aver commesso l’errore di pretendere di “educare” alla maniera occidentale quel Paese, ora non si può abbandonarlo alla ventura. Ormai, almeno in parte, l’Occidente ha “adottato” l’Afghanistan. Non possiamo disconoscerlo. L’Occidente si è lasciato coinvolgere nelle vicende di quel Paese, ci ha lasciato centinaia di migliaia di morti. Si è portato dalla propria parte un segmento non marginale della società afghana. Adesso questi sono nostri “compatrioti”, non li possiamo abbandonare. Li abbiamo coinvolti, dato loro una specie di cittadinanza occidentale, e ora non possiamo abbandonarli in balia delle arroganze talebane. Siamo umanamente e razionalmente coinvolti.

Non è una contraddizione parlare come fanno gli americani di ritiro, e poi mandare 6mila marines per gestire il ritiro stesso?

Sul piano operativo mi pare un numero eccessivo. Diciamo le cose come stanno: l’evacuazione, per essere completata senza altri spargimenti di sangue, necessita di una concertazione con le forze talebane, coinvolgendo in questa operazione anche i Paesi confinanti, come il Pakistan, l’Iran, le ex repubbliche sovietiche asiatiche. È un problema politico-diplomatico, non militare. Ridurlo a questo, significa persistere negli errori. Noi dobbiamo dare conto delle nostre azioni a quella parte più avanzata dell’Afghanistan. A quella parte di persone che parla l’inglese, anche l’italiano, che noi abbiamo “adottato”. E loro sono venuti con noi. A questo punto, dopo venti anni, non due giorni. È dall’inizio del 2000 che abbiamo “adottato” e coinvolto la popolaziona afghana. Quelli che oggi hanno 20 anni, sono nati con le nostre spinte, americane, italiane, tedesche, occidentali insomma. Questa gente è diventata oggi creditrice nei nostri riguardi e non possiamo abbandonarla. E bene fa l’Italia a dare rifugio a queste persone. È un nostro dovere, prim’ancora che un loro diritto. Mi lasci aggiungere una cosa che mi ribolle dentro sentendo discorsi “muscolari” da parte di chi un campo di battaglia o un’area calda non li ha visti neanche col binocolo. Non posso essere certo tacciato di essere un inveterato pacifista, so quanto sia indispensabile lo strumento militare per supportare azioni di peacekeeping o di institution building. Ma quello militare deve restare uno strumento e non trasformarsi in un fine. Perché altrimenti si combinano solo disastri, anche se “a fin di bene”. Per essere davvero efficace, lo strumento militare deve essere messo a servizio di una strategia politica, di una visione inclusiva e lungimirante. Perché una guerra può anche essere vinta sul campo, ma se poi non hai una strategia chiara per il dopo, allora sono guai, maledettamente seri.

Generale Angioni, nella sua lunga e prestigiosa carriera militare, lei ha vissuto i fronti più caldi. Basta citare il Libano, negli anni della sanguinosa, devastante guerra civile. Che differenza trova tra gli Hezbollah, con cui lei ha dovuto fare i conti, e i Taliban?

La differenza è alle origini. Perché hanno delle matrici completamente diverse. Nella realtà sono assimilabili. Sono fanatismi che vanno gestiti, compresi, che devono essere valutati non con il metro occidentale ma con quello locale. E di conseguenza devono essere accettati, o comunque con loro si deve interloquire, perché coinvolgono migliaia di persone che hanno una forma mentis e un’educazione diversa dalla nostra. Non devi comportarti da padrone a casa d’altri. Devi conoscere le persone con le quali hai a che fare, stabilire rapporti di dialogo fattivo con le popolazioni locali. È questo l’insegnamento che abbiamo avuto in Libano. Siccome noi, lo dico con modestia e tra virgolette, siamo più “avanzati”, più capaci di valutare, di accettare, di discutere anche, non possiamo essere così superbi da considerarci superiori e abbandonarli. No. Non l’abbiamo potuto fare con il Libano, benché il Libano sia più avanzato in termini globali, culturali e anche religiosi dell’Afghanistan. L’Afghanistan è invece una realtà del tutto autonoma, con un fanatismo che è unico nel mondo. E ha una cultura e un assetto sociali incomprensibili all’Occidente e ai principi umanitari universali. Quella rappresentata da Hezbollah come dai Taliban è una realtà, non è una moda. Non stiamo parlando di gruppi estremisti ristretti, dediti solo al Jihad, ma a movimenti complessi, anche articolati al proprio interno, che, ci piaccia o no, e certo a me non piace, rappresentano settori importanti delle rispettive società. Se non fosse così, sarebbero stati spazzati via da tempo, mi creda. Sono indietro di cento anni? Culturalmente dobbiamo accettarlo. Ma non è che possiamo ucciderli perché sono indietro di un secolo rispetto a noi. Resta il fatto che la cosa più importante è oggi quella di non tradire gli afghani che hanno creduto in noi. Abbiamo un dovere umanitario nei loro confronti. E quel dovere deve essere assolto.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 agosto 2021. L'ex capo dell'esercito britannico ha accusato Joe Biden di «abrogazione della capacità di statista» per la sua decisione di ritirare le forze statunitensi dall'Afghanistan entro il 31 agosto. Lord Richard Dannatt, capo di stato maggiore dal 2006 al 2009, ha detto che «ha poco senso strategico» uscire dal paese ora solo per porre fine alla missioone prima del 20° anniversario degli attacchi terroristici dell'11 settembre. Secondo Dannat Biden ha preso la «decisione strategica semplicemente per soddisfare uno slogan elettorale» e per porre fine alla cosiddetta «guerra per sempre». Lord Dannatt ha anche dichiarato che le richieste di un'inchiesta sul «processo decisionale di alto livello» durante il conflitto in Afghanistan «non devono cadere nel vuoto o nell'imbarazzo politico». Boris Johnson e altri alleati della Nato avevano esortato il presidente degli Stati Uniti a posticipare la scadenza per concedere più tempo ai ponti aerei dall'aeroporto di Kabul. Ma Biden ha scelto di attenersi alla sua data di uscita, anche se a Washington temono che ritardare la chiusura della missione potrebbe mettere le truppe statunitensi a rischio di un attacco da parte dei talebani o dell'Isis. Il Biden aveva dichiarato all'inizio di quest'anno che «è ora di porre fine alla guerra per sempre» nel paese, ponendo le basi per il ritiro. Sul The Telegraph, Lord Dannatt ha dichiarato: «Fino al mese scorso, l'esercito nazionale afghano, sostenuto da una forza internazionale modesta ma altamente efficace, ha contenuto con successo i talebani mentre la società civile afghana ha continuato a svilupparsi. In questo contesto, la decisione precipitosa di Biden di porre fine alla cosiddetta guerra per sempre entro il 20° anniversario dell'11 settembre ha poco senso strategico». Lord Dannatt ha affermato che la decisione di lasciare il Paese entro il 31 agosto è «l'ultimo di una serie di errori che hanno caratterizzato la campagna afghana» e ha avvertito che la partenza caotica dall'Afghanistan danneggerà la reputazione della NATO. 

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 26 agosto 2021. «L'idea del premier italiano Draghi di usare il G20 per includere Cina e Russia nei negoziati con i taleban è ottima. Avremmo dovuto metterla in pratica diversi anni fa, ma non è ancora troppo tardi: anzi, forse è l'unica strada per evitare una catastrofe». L'appoggio dell'analista americano Robert Kaplan al G20 straordinario dedicato all'Afghanistan è entusiastico. Lo giustifica come unica via d'uscita realistica, nella speranza che Washington lo sostenga con convinzione, anche se in colpevole ritardo.

Cosa pensa del ritiro?

«La decisione di andare via era corretta, il modo in cui lo abbiamo fatto è stato disastroso. Ritirandoti dall'Afghanistan non dovresti mai indicare scadenze precise, impegnandoti dal principio a rispettarle in maniera rigida. Non dovresti mai farlo all'inizio della stagione dei combattimenti, che ripartono sempre ad aprile quando il tempo migliora, come ha deciso invece il presidente Biden. Dovresti aspettare novembre, cioè l'inverno, quando arriva il freddo e la neve copre il paese, rendendo difficili le grandi offensive come quella che abbiamo visto nelle settimane scorse. Dovresti pianificare il ritiro in maniera graduale, non rendere pubblico il calendario, e certamente non collegarlo a date molto simboliche come l'11 settembre».

Gli Usa vogliono completare evacuazione e ritiro entro il 31 agosto. Stanno nuovamente sbagliando?

«La scadenza del 31 agosto andrebbe ignorata. Dovremmo restare tutto il tempo necessario per evacuare i cittadini americani, gli afghani che hanno combattuto con noi, e far partire in piena sicurezza le ultime truppe rimaste».

L'amministrazione teme attacchi dei taleban e attentati terroristici.

«È un rischio che esiste, ma lo abbiamo corso per venti anni: non ha senso ordinare un ritiro catastrofico, con gravi conseguenze di lungo termine, per evitare questo pericolo nelle ultime settimane. I talebani hanno interesse a facilitare la nostra partenza, anche se durerà qualche giorno in più, perché sancisce la loro vittoria».

Ammesso che funzionerà, come bisognerà gestire poi il rapporto con Kabul?

«Credo che vedremo diverse componenti del regime taleban. La fazione più sofisticata al vertice, basata a Kabul per guidare il governo nazionale, sarà più incline a negoziare con Russia, Cina, forse anche gli Usa. Poi però ci saranno estremisti nel resto del paese, che opereranno in una maniera diversa rispetto ai leader nella capitale. Vedremo una combinazione di sofisticatezza da una parte, e atteggiamenti primitivi dall'altra. Sarà una situazione molto complessa, anche perché non sappiamo quanto intense saranno le sfide al regime che verranno dal nord, uzbeki, tagiki, turcomanni».

Draghi vuole usare il G20 per negoziare, coinvolgendo Cina e Russia. Ha ragione?

«Avremmo dovuto farlo molti anni fa. Bisognava internazionalizzare il conflitto afghano verso una soluzione regionale, in cui non erano solo gli Usa a negoziare con i taleban, ma anche Nato, Russia e Cina, incontrandosi in una conferenza per organizzare insieme il futuro del paese. Ciò avrebbe richiesto diplomazia creativa. Purtroppo l'amministrazione Trump era incompetente per prendere questa iniziativa, e anche Biden lo è stato, per altre ragioni». 

È ancora una buona idea?

«Certo, resta l'idea migliore».

Come possono essere utili Cina e Russia?

«Hanno interessi diretti in Afghanistan. Entrambe vogliono un Afghanistan stabile, capace di controllare i propri confini, che non diventi un santuario per il terrorismo internazionale. Mosca tema il fondamentalismo islamico, così come Pechino, preoccupata per la minoranza degli uiguri. Quindi Russia e Cina hanno interesse a controllare l'islam radicale in Afghanistan».

Xi vorrebbe includere Kabul nella Via della Seta: c'è anche una leva economica da usare?

«Certo. Sul piano economico l'Afghanistan è al collasso: sopravvive grazie agli aiuti internazionali, oltre alla droga e i commerci sommersi. Ha enormi risorse naturali da sfruttare, ma non è in grado di farlo da solo. Ha bisogno di assistenza di altri paesi, come la Cina, e tutto ciò può essere usato come leva per spingere i taleban a mitigare l'estremismo». 

Afghanistan, perché gli Usa hanno fallito. Henry Kissinger su Il Corriere della Sera il 26 agosto 2021. L’ex segretario di Stato: la trasformazione in un Paese moderno richiedeva tempi non conciliabili con i processi politici americani. La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ci costringe a dare la massima priorità all’espatrio e messa in sicurezza di decine di migliaia di persone, tra americani, alleati e cittadini afghani dislocati in tutto il Paese. Occorre tuttavia un’attenta riflessione per capire come mai l’America si sia ritrovata a dare l’ordine del ritiro, con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent’anni di sacrifici. E come mai la principale questione in Afghanistan sia stata concepita e presentata al pubblico come la scelta tra il pieno controllo dell’Afghanistan o il ritiro totale. Un problema di fondo ha tormentato a lungo i nostri interventi di contrasto alla guerriglia, dal Vietnam all’Iraq. Quando l’America mette in pericolo la vita dei suoi militari, e in gioco il suo prestigio, chiamando a raccolta anche altri Paesi, deve farlo sulla base di una combinazione di obiettivi strategici, per chiarire quali sono le circostanze che hanno motivato la guerra, e politici, per definire la struttura governativa in grado di appoggiare efficacemente i risultati raggiunti, all’interno del Paese coinvolto e sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l’appoggio delle istituzioni politiche americane. Gli obiettivi militari sono stati troppo assoluti e irraggiungibili, quelli politici troppo astratti e sfuggevoli. L’incapacità di collegarli tra loro ha fatto sì che l’America restasse invischiata in conflitti privi di termini ben definiti, e ci ha portati, in patria, a perdere di vista la finalità condivisa, sconfinando in un marasma di diatribe interne. Siamo sbarcati in Afghanistan sull’onda di un ampio sostegno popolare in risposta agli attacchi terroristici di Al Qaeda sferrati contro l’America da un Afghanistan controllato dai talebani. La campagna militare iniziale ha raggiunto i suoi scopi con la massima prontezza. I talebani sono sopravvissuti essenzialmente nei covi forniti dal Pakistan, dai quali hanno continuato a combattere la loro battaglia in Afghanistan con il supporto di una parte delle autorità pakistane. Ma proprio nel momento in cui i talebani lasciavano il Paese, noi abbiamo perso di vista il nostro principale obiettivo strategico. Ci siamo persuasi che l’unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. Una tale impresa non poteva prevedere un calendario certo, conciliabile con i processi politici americani. Nel 2010, in un articolo in risposta all’invio di nuovi effettivi americani in Afghanistan, avevo lanciato un monito contro un procedimento talmente lungo e invasivo che rischiava di alienare le simpatie della maggioranza degli afghani, anche di coloro che si erano opposti ai jihadisti. Perché l’Afghanistan non è mai stato un Paese moderno. La sovranità presuppone un sentimento di doveri condivisi e l’accentramento del potere. Il territorio afghano, ricco com’è di tanti elementi, è particolarmente carente in questi settori. Erigere uno Stato democratico moderno in Afghanistan, dove i decreti del governo vengano rispettati da un capo all’altro del Paese, richiede anni, se non decenni. E va a scontrarsi con la componente geografica, etnica e religiosa del territorio. È stata appunto la litigiosità, l’isolamento e l’assenza di un’autorità centrale in Afghanistan a renderlo particolarmente invitante come base per le organizzazioni terroristiche. Benché si possa far risalire la presenza di una società distintamente afghana al secolo XVIII, le sue popolazioni si sono sempre ferocemente opposte alla centralizzazione. Il raggruppamento politico, e in particolar modo militare, in Afghanistan ha sempre seguito le linee delle etnie e dei clan, in una struttura essenzialmente feudale, nella quale i detentori del potere sono coloro che organizzano le milizie di difesa del clan. Tipicamente impegnati in conflitti latenti gli uni contro gli altri, questi signori della guerra spesso si associano in larghe coalizioni ogni qualvolta una potenza esterna interviene per imporre centralizzazione e coesione — vedi l’invasione da parte dell’esercito britannico nel 1839 e delle forze armate sovietiche che occuparono l’Afghanistan nel 1979. Tanto la drammatica ritirata degli inglesi da Kabul nel 1842, nella quale un solo europeo riuscì a sottrarsi alla morte o alla cattura, che la storica ritirata dei sovietici dall’Afghanistan nel 1989, furono causate dalla mobilitazione temporanea di tutti i clan. L’attuale tesi che gli afghani non siano disposti a combattere per il loro Paese è ampiamente smentita dalla storia. Gli afghani, anzi, si sono rivelati intrepidi combattenti per i loro clan e per la loro autonomia tribale. Con il passar del tempo, la guerra ha assunto progressivamente i connotati delle precedenti campagne di contrasto alla guerriglia, durante le quali il sostegno dell’opinione pubblica americana è andata via via affievolendosi. La distruzione delle basi talebane era stata essenzialmente terminata. Ma la costruzione di una nazione, in un Paese dilaniato dalla guerra, ha richiesto un ingente spiegamento di mezzi militari. I talebani sono stati tenuti sotto controllo, ma non eliminati. L’introduzione di forme di governo inconsuete, d’altro canto, ha indebolito l’impegno politico e incoraggiato la corruzione già dilagante. Si può pertanto affermare che l’Afghanistan ha ricalcato i precedenti modelli delle polemiche americane interne. Quello che i fautori della lotta ai ribelli definivano come progresso, veniva classificato come disastro dall’ala politica opposta nel dibattito. I due gruppi si sono paralizzati a vicenda durante i successivi governi, nell’uno e nell’altro schieramento politico. Ricordiamo la decisione presa nel 2009, di far seguire all’invio di nuove truppe in Afghanistan l’annuncio simultaneo dell’inizio del ritiro militare nel giro di diciotto mesi. Quello che avevamo trascurato, però, era un’alternativa possibile, capace di mettere insieme obiettivi raggiungibili. La lotta ai ribelli poteva essere ridimensionata a contenimento, anziché annientamento, dei talebani. E il percorso politico-diplomatico avrebbe potuto esplorare uno degli aspetti particolari della realtà afghana: che i Paesi confinanti — anche se in aperta ostilità tra di loro e non di rado con l’America — potessero sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell’Afghanistan. Sarebbe stato possibile coordinare sforzi comuni di lotta ai ribelli? Certamente India, Cina, Russia e Pakistan spesso manifestano interessi contrastanti. Ma una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan. Questa alternativa non è mai stata esplorata. Dichiaratisi apertamente contrari alla guerra, i presidenti Donald Trump e Joe Biden hanno avviato trattative di pace con i talebani, che avevamo giurato di sterminare una ventina d’anni prima. Quei negoziati oggi sono sfociati nel ritiro incondizionato degli americani, per opera del governo Biden. Spiegarne i motivi non cancella la brutalità, e soprattutto la precipitazione, della decisione intrapresa. L’America non può sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non può rinnegarli, semplicemente ritirandosi dall’Afghanistan. Il governo Biden è agli esordi. Avrà sicuramente l’occasione di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva, compatibile con le esigenze interne ed internazionali. Le democrazie si evolvono nello scontro tra le varie fazioni e siglano il loro successo con la riconciliazione. The Economist Newspaper Limited, London (25-8-2021) (traduzione di Rita Baldassarre)

«Paghiamo oggi l’errore dell’Iraq». Alberto Flores D'Arcais su L'Espresso il 26 agosto 2021. “La risposta agli attentati del’11 settembre fu legittima, ma lo sbaglio strategico è stato coinvolgere Saddam”. Secondo lo storico di Yale Ben Kiernan questo ha innescato la propagazione di al-Quaeda e Isis. «La prima cosa che mi viene da dire è questa: gli attacchi dell’11 settembre 2001 sono stati un crimine contro l’umanità». Ben Kiernan, storico di origini australiane e americano d’adozione, è il direttore del Genocide studies program dell’Università di Yale (il suo libro Blood and Soil: A World History of Genocide and Extermination from Sparta to Darfur è stato premiato come miglior libro di storia nel 2008) e in questa intervista esclusiva con L’Espresso parla di come gli Stati Uniti (e non solo) siano cambiati dopo (e a causa) degli attacchi alle Twin Towers.

Cosa significa oggi quella data?

«Come prima cosa occorre pensare a come siamo arrivati all’America di oggi partendo dall’11 settembre 2001. Molte cose sono dipese da quella che è stata la risposta degli Stati Uniti a quel crimine contro l’umanità, all’aggressione contro due città americane avvenute dall’esterno degli Stati Uniti, aggressione che ha ucciso circa tremila americani. Gli Usa avevano ovviamente il diritto di rispondere a quegli attacchi per autodifesa, sfortunatamente la risposta è stata difettosa, iper aggressiva e, in larga misura, ha fallito».

Pensa all’Afghanistan?

«Partiamo da lì. Gli Stati Uniti avevano tutto il diritto di perseguire e rintracciare i responsabili di quegli attacchi, Osama bin Laden e Al-Qaeda, e anche di perseguire e rovesciare il governo dell’Afghanistan, i talebani, che ospitava Osama bin Laden e Al-Qaeda e si rifiutava di consegnarli. Avevano il diritto di intervenire in Afghanistan e credo che fosse necessario rovesciare il governo dei talebani, che era particolarmente repressivo, se non genocida, contro la minoranza musulmana sciita. Un governo che ha anche distrutto l’inestimabile patrimonio dei Buddha di Bamiyan, da condannare sotto molti aspetti».

Qual è l’errore allora?

«La risposta degli Usa è stata iper-aggressiva, hanno creato un caso per invadere anche l’Iraq, sostenendo falsamente che Saddam Hussein avesse armi di distruzione di massa, un’invasione su larga scala che non era sostenuta dalle Nazioni Unite ed era, secondo le leggi internazionali, illegale. Così la giustificabile invasione dell’Afghanistan si è trasformata in un attacco ad un altro paese musulmano. Con un occhio al vero nemico, l’Iran, terzo paese musulmano, in un confuso tentativo di coinvolgerlo. Prendendo di mira un regime laico come quello di Saddam, l’intervento Usa ha finito per creare una reazione musulmana in Iraq. Prima con Al- Qaeda, poi con la trasformazione, durante l’invasione-occupazione, nel movimento che è diventato lo Stato Islamico, che poi si è diffuso in Siria e oggi è presente anche in Africa. Ed è molto più di una minaccia terroristica per il mondo».

Perché?

«Perché si è diffuso anche in Europa. E un numero enorme di rifugiati ha lasciato la Siria, ha influenzato la Turchia. La risposta sbagliata, vista oggi si potrebbe dire anche fallimentare, all’11 settembre ha alterato il mondo e in quell’area lo ha peggiorato. Ora, 20 anni dopo, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan senza aver sconfitto i talebani che riprendono il potere. Ha fallito anche in Iraq, dove abbiamo un regime al potere che è ancora vicino all’Iran, cosa che non era l’obiettivo dell’amministrazione Bush-Cheney. E oggi abbiamo una minaccia terroristica dilagante in luoghi come la Siria e l’Africa».

È fallita l’esportazione della democrazia?

«Il tentativo era quello di imporre la democrazia con la forza, imporla in Iraq nella speranza che si diffondesse. E in effetti la primavera araba si è poi verificata in molti paesi, ma adesso vediamo che anche l’ultimo paese dove aveva avuto successo, la Tunisia, sta fallendo».

In venti anni che effetti ci sono stati?

«Negli Stati Uniti è cambiato molto. Dopo l’invasione dell’Iraq, l’invio di maggiori truppe, la continua presenza di truppe in Afghanistan, la stanchezza per le avventure militari all’estero, hanno certamente aiutato Trump ad arrivare al potere. La Casa Bianca di Trump ha trascurato le alleanze, ha minato quelle con l’Europa, è stata una politica disastrosa per l’America. Pensi solo al fatto che, è stato rivelato di recente, che in un viaggio in Europa per il centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale nel 2018, Trump ha detto a uno dei suoi collaboratori che Hitler ha fatto un sacco di cose buone. Lo hanno convinto a non dire niente del genere in Europa, ma il solo fatto che ci abbia creduto e abbia pensato di poter dire qualcosa del genere è scioccante».

L’11 settembre ha veramente cambiato tutto, come si disse allora?

«Ha cambiato molto. Molte cose sono migliorate, altre sono peggiorate. Penso che quello che abbiamo visto il 6 gennaio nella rivolta in cui un gran numero di insorti ha tentato di prendere il controllo del Congresso a Washington e interrompere, o addirittura fermare i lavori dei rappresentanti del Congresso democraticamente eletti, cosa che non era mai successa prima negli Stati Uniti, sia un segno del deterioramento della democrazia. Soprattutto se si considera che uno dei partiti politici in America non è favorevole a indagare su ciò che è successo quel giorno. Non voglio paragonare gli eventi del 6 gennaio 2021 con quelli dell’11 settembre 2001, ma guardate al contrasto tra le attività dei rivoltosi del 6 gennaio con i coraggiosi americani del volo 93 dell’11 settembre 2001, che presero in mano l’aereo dopo che venne dirottato dai terroristi di Al-Qaeda».

L’elezione di Biden rappresenta una svolta?

«È un buon inizio. È il tentativo di fornire un migliore standard di vita alle famiglie con bambini. È il tentativo di ridurre il livello di povertà in America. Biden, naturalmente, ha un problema politico nel fatto che il partito repubblicano ha come scopo abbattere l’attuale amministrazione e impedirle di avere qualche successo. Al Senato, Biden può contare al massimo su un piccolo numero di senatori repubblicani, e non su tutti i senatori democratici, disposti a sostenerlo. Molto dipenderà dalle elezioni dell’anno prossimo. Biden è consapevole della necessità di risolvere il problema del tenore di vita, di lottare contro la pandemia per far vaccinare la gente e prevenire un’altra ondata con la variante Delta, ma sono problemi molto difficili da risolvere in un sistema politico americano che è molto antiquato».

Teme derive di autoritarismo come accaduto con Trump?

«No, però non è un sistema pienamente democratico. Ai piccoli Stati viene dato un potere sproporzionato nel Senato degli Stati Uniti. I cittadini di Washington, la capitale, non hanno una rappresentanza al Senato. Essendo cresciuto in Australia, posso affermare che lo squilibrio tra elettori rurali e urbani, e il peso che veniva dato in Australia agli elettori rurali rispetto a quelli urbani, è stato ampiamente risolto negli anni Settanta. Ma questo persiste ancora negli Stati Uniti quasi 50 anni dopo».

Il terrorismo oggi è ancora una minaccia per gli Stati Uniti?

«È difficile dirlo. Penso che le cause a lungo termine del terrorismo possano essere ancora intatte, ma il potere delle organizzazioni terroristiche sia ridotto rispetto a 10 anni fa. Penso che il fallimento della primavera araba sia un problema nei paesi musulmani. Però in Indonesia, il più grande paese musulmano, ci sono stati grandi passi avanti nella democrazia dalla caduta del regime di Suharto nel 1998. Nonostante un aumento del terrorismo c’è stato anche un aumento della democrazia su scala globale».

In vent’anni il mondo è diventato complessivamente migliore o peggiore?

«Penso che ci siano stati sviluppi positivi. Non necessariamente maggiori dopo l’11 settembre, ma dagli anni Novanta e dalla fine della guerra fredda, ci sono stati sviluppi positivi e attenzione sulla scena internazionale, ad esempio per prevenire e punire il genocidio: i tribunali istituiti dalle Nazioni Unite per il Ruanda e per la Bosnia, il tribunale misto delle Nazioni Unite con il governo cambogiano, che ha dichiarato i Khmer Rossi colpevoli di due casi di genocidio nel 2018. Purtroppo ci sono ancora focolai di genocidio, anche in Birmania, dove la minoranza musulmana, il popolo Rohingya, che è stato preso di mira su scala crescente dal 1978, con una persecuzione che ha raggiunto il livello di genocidio decenni dopo nel 2016, 2017, 2018. C’è la persecuzione del popolo uiguro in Cina, c’è la proliferazione di gruppi terroristici islamisti in Africa, in posti come la Nigeria, Boko Haram e altri. Gruppi terroristici che sono genocidi, almeno nell’ideologia, che massacrano popolazioni o un gran numero di civili in nome dell’ideologia islamista, che sono più diffusi di quanto non fossero 20 anni. E poi ci sono le cause a lungo termine per i genocidi».

Quali?

«Il cambiamento climatico, la povertà, la guerra, le malattie, l’instabilità politica. Poi ci sono i fattori a breve termine, che sono le decisioni politiche prese da gruppi genocidi che arrivano al potere grazie ai fattori a lungo termine e che poi possono attuare le loro politiche genocide».

La disfatta e le bugie degli Usa con la Nato (e noi) complice. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2021. DOPO l’inutile G-7 di ieri il bilancio è questo: agli Usa degli alleati importa poco e niente, e ancora meno importano gli afghani, altrimenti ci avrebbero pensato prima. C’è da fare un bilancio politico sulle strategie americane e occidentali e uno morale e umanitario. Partiamo dall’ultimo che ha sancito la fine dell’evacuazione alla data del 31 agosto. La scadenza del 31 agosto non l’hanno decisa i talebani: in un primo momento Biden aveva indicato quella dell’11 settembre, il ventennale degli attacchi del 2001, per dare un significato simbolico al ritiro, poi, sentendosi sicuro di sé, ha anticipato al 31 agosto. I talebani saranno pure dei disgraziati ma la Casa Bianca ha agito in maniera pessima di fronte al crollo delle forze locali: gli Usa di Trump hanno trattato due anni a Doha e Biden aveva ancora il tempo di recuperare qualche margine di negoziato sul ritiro. Perché non l’ha fatto? Perché questa è una storia di disfatte e bugie. Il capo della Cia Burns e anche quello dello stato maggiore avevano avvertito a fine luglio che il governo Ghani stava disgregandosi. Quindi avevano intuito che ci sarebbe stata una corsa degli afghani a uscire dal Paese. Ma gli americani non volevano fare nessun ponte aereo per salvare i collaboratori dell’Occidente, limitandosi a portarne fuori un numero limitato. “America First” era lo slogan di Trump, che significava: prima l’America e che gli altri si arrangino. Lo slogan di Biden è “America is back”, l’America è tornata: sì, è tornata casa voltando le spalle agli amici e a tutti coloro che hanno creduto in una superpotenza “buona”, che difende i diritti umani e civili. Ma gli Stati, come diceva Churchill, non hanno amici, soltanto interessi. E gli Usa di Biden, che se la prendono giustamente con Mosca e Pechino sui diritti umani e civili, alla prova dei fatti hanno abbandonato al suo destino un Paese dove sono stati vent’anni. Quindi hanno poco da dare lezioni, visto che tra l’altro sono alleati di Paesi come Arabia Saudita e Pakistan che quanto a oscurantismo non sono secondi ai talebani.  I sauditi sono un regime di assassini di giornalisti e oppositori, i pakistani sono il maggiore sponsor dei talebani, anzi li hanno creati proprio loro. Il bilancio umano e morale, almeno in cifre, è il seguente: il New York Times stima che gli afghani in pericolo per avere collaborato con l’Occidente siano 300 mila, fino a martedì ne sono partiti 70mila. Non si sa neppure una cifra precisa degli americani da evacuare: si pensa intorno ai 10mila, 4mila sono già usciti dal Paese. Ricordiamo che Biden  aveva detto, testualmente, di non sapere “quanti e dove fossero gli americani in Afghanistan”. Siamo di fronte a un presidente inadeguato e a un’amministrazione, dai civili ai militari, sgangherata ma soprattutto bugiarda, che ha volutamente ignorato i pericoli.   Del resto gli accordi di Doha con i talebani non erano un “deal” per la pace in Afghanistan come ha tentato di vendere Washington, ma un “exit deal”, un’intesa per uscirsene fuori dal Paese il prima possibile. Di tutto questo anche la Nato (cioè pure noi) è stata complice. Per vent’anni l’Alleanza Atlantica è stata la maggiore protagonista dei piani per trasformare l’Afghanistan in un Paese filo-occidentale. La Nato ha addestrato le truppe, quell’esercito che si è liquefatto in pochi giorni, è stata la Nato che ha venduto all’opinione pubblica i “progressi” che si facevano in Afghanistan, mentendo clamorosamente per coprire una missione in gran parte fallimentare.  I nostri ministri della Difesa e degli Esteri andavano in Parlamento a raccontare che le cose non andavano male in Afghanistan. Si facevano belli volando a Herat per cerimonie retoriche che per altro duravano poche ore. Perché non sia mai che fermandosi un po’ di più si prendesse atto della realtà. Andavano a Herat per sfilare con il giubbetto militare davanti alle telecamere e prendersi un’abbronzatura afghana. Potremmo rimandarli laggiù senza biglietto di ritorno: tanto non ci servono. Quanto alla politica estera americana, bene fa Draghi a puntare sul G-20, sulla Russia e la Cina, perché sugli Usa si potrà contare sempre di meno. Lo avevamo già visto con l’Isis in Iraq, con la Siria e soprattutto con la Libia, dove una sfilata di governi italiani farlocchi si è fatta vendere per anni da Washington la “bugia” della cabina di regia. Quanto alla politica estera di Biden eccola: è entrato alla Casa Bianca dicendo che avrebbe fatto una “politica estera per la classe media”. Togliete l’aggettivo estera è avrete la verità: c’è solo una politica per la classe media. Soltanto americana naturalmente.

L'Occidente e il regalo della credibilità. Così ora i talebani potranno battere cassa. Gian Micalessin il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. L'accordo tra Cia e il leader Baradar dà al regime il ruolo di interlocutore. Altro che Kabul e l'Afghanistan, il dono più prezioso regalato ai talebani da Joe Biden è la credibilità internazionale. Un dono recapitato direttamente dal Direttore della Cia William Burns che precipitandosi a Kabul dal Mullah Abdul Ghani Baradar, probabile futuro presidente dell'Emirato, ha sciolto anche le ultime incertezze. D'ora in poi nessuno osi sostenere l'impossibilità di dialogare con chi ospitava Bin Laden. E soprattutto, visto che il primo a parlarci è il Direttore della Cia, nessuno osi più chiamar terroristi i talebani o, peggio, dubitare delle loro parole. E gli ultimi a doversi stupire per l'inatteso rivolgimento sono gli amici dell'America convocati martedì in un'inutile G7. Riuniti in conferenza virtuale per decidere la fine dell'evacuazione hanno scoperto le nuove regole del gioco quando Biden ha spiegato loro, in meno di sette minuti, che l'America aveva già deciso di voler rispettare la data del 31 agosto concordata con l'ex-nemico talebano. Ma se così vanno le cose c'è da chiedersi perché mai criticare Russia e Cina che da anni la prima, da settimane la seconda, dialogano con i nipotini del Mullah Omar trattandoli come legittimi interlocutori internazionale. Se arriva a farlo, in prossimità del ventesimo anniversario dell'11 settembre, l'Amministrazione Biden perché non dovrebbero farlo loro. E soprattutto, perché non dovremmo farlo noi europei. Se quello è l'esempio messo sul tavolo, nel nome del consueto pragmatismo, da chi prometteva che l' «America is Back» allora anche l'Europa farà bene ad archiviare diffidenze e cautele. Poco importa se i talebani fustigheranno le donne, le cacceranno da scuole e posti di lavoro o, peggio ancora, se torneranno a lapidarle. Perché in fondo chi se ne frega se l'Afghanistan tornerà ad essere il rifugio di Al Qaida o se i talebani torneranno a trasformare gli stadi in comodi patiboli per esecuzioni di gruppo e mutilazioni pubbliche. Se la priorità è solo risolvere i problemi e fare i propri interessi allora l'Europa non deve far altro che seguire l'esempio americano. Già da domani Bruxelles scelga i «Burns» nostrani da inviare a Kabul per prevenire il rischio di una nuova invasione di rifugiati. Se la priorità è farsi gli affari propri basterà replicare con lo sdoganato e legittimato Mullah Baradar gli accordi stretti a suo tempo con il presidente Recep Tayyp Erdogan. Perché se l'obbiettivo ultimo è fermare i tanto temuti rifugiati allora meglio riempire di miliardi chi controlla i blocchi di partenza anziché chi promette di fermarli solo a metà strada. Dunque molto meglio girare all'ormai «amico» Baradar i soldi promessi al Sultano proponendogli di sigillare le frontiere e impedire a chiunque di lasciare paese. Di una cosa siamo certi, la commessa, oltre a venirgli assolutamente naturale, ci risparmierà anche il fastidioso imbarazzo di accogliere qualche disgraziato deciso a raccontarci che la tanto auspicata conversione dei talebani in «tale-buoni» era solo una favola. E già che ci siamo meglio chiedere all'ormai rispettabile Mullah Baradar anche quanti miliardi servono per convincere Al Qaida a non colpirci. Che tanto la guerra al terrorismo l'abbiamo già buttata alle ortiche.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed inte

Domenico Quirico per “La Stampa” il 26 agosto 2021. Soldi, euro, dollari, contributi, finanziamenti, linee di credito, diritti speciali di prelievo, palanche sotto infiniti nomi e definizioni: sotto le percosse delle cronache di Kabul siamo tornati subito al nostro terreno, l'unico in cui, forse, abbiamo qualcosa da offrire quando solchiamo acque pericolose. Per affatturare i talebani alla mansuetudine almeno formale, resta dunque all'Occidente ormai una sola strategia, far balenare lo sblocco di miliardi di «aiuti umanitari», astuta metafora per non dire che siamo disposti a pagare perché gli emiri siano buoni. La faranno fruttare, probabilmente, a partire dai prossimi vertici allargati sul futuro del Paese caduto, per nostra colpa, nel potere crudo dei turbanti neri. I talebani tengono in pugno milioni di afgani? Purtroppo. Ma noi, per fortuna, abbiamo in cassaforte le riserve della loro Banca centrale. Con questo tesoretto dovremmo cercare di mantenerci spiritualmente in piedi sotto le percosse della Storia. Usciti di scena marines e bombardieri, è sconveniente contrapporre le seduzioni del modello democratico vista la triste esperienza di quella farsesca, puramente propagandistica che abbiamo per vent' anni gettato come elemosina agli afghani, cambiamo partita, scendiamo un po' più in basso. Entrano in scena le nostre uniche divisioni corazzate, il Fondo monetario, la Banca mondiale, le casseforti molto miracolose della Unione europea. Stringe il cuore dirlo, la prognosi non è fausta. Non basta individuare segni incoraggianti di una normalizzazione economica dei nuovi taleban: annuncio cioè della riapertura delle banche, nomina di un ministro dell'economia. Forse qualcuno si illude che avrà un ruolo centrale nell'Emirato, analogo a quello che da anni riveste nelle nostre economie. Difficile possa rubar la scena, ad esempio, al funebre capo della commissione militare, che l'addestramento all'arte del governo, purtroppo, l'ha svolto nella galera di Guantanamo. Potrebbe funzionare la leva economica, la conversione al pratico, al tornaconto, si insiste, perché i talebani dovranno pur sfamare trentacinque milioni di sudditi del nuovo Emirato, e non hanno soldi. Dal permanere della miseria potrebbero insorgere motivi infiniti di ribellione. Vero. Se non fosse per un particolare: che per i fondamentalismi come quello talebano l'economia, al contrario di quanto accade nel nostro mondo, non costituisce una voce fondamentale del progetto politico e sociale. Anzi: un mondo di poveri ma puri, a cui provveda per l'essenziale la carità medioevale della zakat, l'elemosina maomettana, è meglio che un emirato di benestanti dove inevitabilmente con lo «sterco del diavolo», arriverebbero tutti i vituperati vizi e le tentazioni dell'idra occidentale. È gente che ascolta non gli economisti, ma i profeti. Ciurme operose in quella parte del mondo predicano che il paradiso è la guerra santa, non un Pil ben aggiustato. Ancora una volta, nonostante la lezione che la diserzione afgana dovrebbe averci inflitto, commettiamo l'errore di attribuire agli altri il nostro modo di pensare, il nostro modello. Mercato e democrazia viaggiano insieme, si dice sempre con una svelta sintesi di alcuni secoli di travagliato percorso zeppo di smarrimenti: peccato che in Afghanistan la caricatura della democrazia abbia fatto prova disastrosa, perché dovrebbe far meglio l'economia dell'aiuto con clausola? Parlare a un mullah talebano dei vantaggi di buoni rapporti con il Fondo monetario: tanto varrebbe intrattenerli sul mistero trinitario. Con gli occhi dell'Occidente a guardare nello specchio afgano ci si ritrova nudi. Fuori corso per incapacità e bugia i meravigliosi slogan del modello fatto di diritti e tolleranza, restii ormai a usare una forza umanitaria non per dubbi sull'ipocrisia e l'unilateralità, ma perché non abbiamo la forza e l'interesse di sopportarne costi e conseguenze, non ci resta che pagare, come gli antichi imperi moribondi, i nuovi barbari che si affacciano ai nostri inutili muri. Altri milioni di persone diventano sudditi del non diritto, dopo che abbiamo fatto balenare illusorie meraviglie. Non c'è nulla che gettar denaro a coloro che sorvegliano con mano di ferro quel non diritto. Come sempre. I migranti fuggono guerre e carestie, luoghi dove l'odio mette fusto e foglie: si paga perché li si custodisca lontano da noi. Infiniti Paesi sono manomessi dal malgoverno? Paghiamo i ladri che li affamano perché ci evitino il corpo a corpo con le nostre colpe. Come a Kabul

Basta Nato: ora difesa europea. “Kabul è la fine dell’imperialismo, occupazione dell’Afghanistan fuori tempo massimo”, parla l’ex ambasciatore Romano. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 27 Agosto 2021. Le lezioni sono sempre bene accette quando a impartirle sono “professori” che la materia la padroneggiano con sapienza e indipendenza politica e intellettuale. Lezione di storia e geopolitica. È quella concessa a Il Riformista da uno dei più autorevoli analisti di politica estera, profondo conoscitore del “pianeta Usa”, come di quello russo: l’ambasciatore Sergio Romano. Nella sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica, è stato, tra l’altro, ambasciatore presso la Nato e ambasciatore a Mosca (1985-1989), nell’allora Unione Sovietica. È stato visiting professor all’Università della California e ad Harvard, e ha insegnato all’Università di Pavia, a quella di Sassari e alla Bocconi di Milano. Tra i suoi numerosi scritti, ricordiamo, per quanto riguarda l’America, Il rischio americano (Longanesi, 2003); Il declino dell’impero americano (Longanesi, 2014); Trump e la fine dell’American dream (Longanesi, 2017).

Nell’agosto 2019, l’ambasciatore Romano scrisse un articolo per il Corriere della Sera che, alla luce degli accadimenti del presente, ha una sorta di valenza profetica, fin dal titolo: “Afghanistan, la guerra inutile. E i rischi del ritiro americano”. “I 18 mila soldati che il presidente Trump vuole ritirare dall’Afghanistan sono nella regione da 18 anni. Vi arrivarono nell’ottobre del 2001, insieme a qualche migliaio di soldati europei, quando il governo americano, dopo l’attentato terroristico di Al Qaeda alle Torri Gemelle chiese al governo di Kabul di estradarne il capo, Osama bin Laden, che aveva trovato rifugio nel Paese. Gli afghani invocarono il sacro dovere dell’ospitalità e le forze americane risposero invadendo l’Afghanistan. Vinsero rapidamente sul terreno, ma dovettero constatare che una vittoria militare, fra le montagne dell’Afghanistan, può essere insignificante. Lo avevano già appreso gli inglesi e i russi quando si erano contesi il Paese durante l’Ottocento nel corso di una partita che durò parecchi anni e fu chiamata il «grande gioco». Lo avevano appreso anche i sovietici quando intervennero militarmente nel 1979…”. A quel “grande gioco” l’America ha inteso partecipare. Perdendo.

Fuga, tradimento, resa dell’Occidente. In molti si sono cimentati nel definire gli accadimenti in Afghanistan. Ambasciatore Romano, qual è la sua chiave di lettura?

Non intendo prenderla alla larga ma credo che per capire gli accadimenti dell’oggi sia buona cosa andare indietro nel tempo, in questo caso all’epoca degli imperi coloniali che hanno caratterizzato la storia degli Stati Uniti e dell’Europa nel corso di parecchi anni. Adesso gli imperi coloniali stanno scomparendo. Questi imperi non hanno più ragione di esistere. Però un certo desiderio di continuare a recuperare poteri perduti esiste ancora nelle società politiche degli Stati Uniti, dell’Europa, dell’Occidente in generale. C’è ancora un tentativo di recuperare spazi perduti. E allora l’Afghanistan è diventato, per così dire, il boccone più desiderabile, anche per il grande disordine che vi regna. Tutto questo ha aperto delle prospettive. Detto questo, bisognerebbe chiedersi tanto per cominciare se tutto ciò abbia un senso. Perché francamente ai tempi degli imperi coloniali un senso ce l’aveva: c’era una gara, questa gara era in qualche modo giustificata dai rapporti internazionali e anche in qualche caso da considerazioni esclusivamente economiche, cioè lì c’era qualcosa che poteva servirmi e allora si cercava di metterci le mani sopra. In questa faccenda afghana c’è una nota di controtempo, che la rende qualche volta addirittura un po’ ridicola. Questo gioco all’imperialismo ormai defunto…

In Europa, e anche qui da noi, si è puntato l’indice accusatorio contro Joe Biden. E adesso ci si è messo anche Trump. Lei lo vede il presidente Usa nei panni di un “traditore” degli afghani?

No. Questo casomai mi suggerisce un’altra considerazione che concerne soprattutto gli Stati Uniti. Dico questo, perché io non ricordo un’altra situazione in cui un presidente degli Stati Uniti sia stato così vittima, schiavo di motivazioni strettamente elettorali. Una piccola elezione che si profila all’orizzonte, una visita in un luogo dove vi sono persone che spero voteranno per me alle prossime elezioni ma so che hanno quella particolare voglia, quel particolare desiderio, quella particolare fissazione… Insomma, non solo gli Stati Uniti sono fra i Paesi che sotto il profilo imperiale sono più a rischio, perché stanno perdendo quello che c’era se c’era, ma sono anche molto condizionati da considerazioni elettorali. E considerazioni di questa natura producono ulteriori difficoltà e problemi. Così è e così continuerà a essere ancora per un po’.

A proposito di questo. Vent’anni fa l’intervento militare in Afghanistan fu giustificato come un atto dovuto nella guerra al terrorismo, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Ora Biden, parlando a raffica agli americani, afferma che quell’obiettivo è stato raggiunto con la cacciata di al-Qaeda dall’Afghanistan e l’eliminazione di Osama bin Laden. Ma se è così, cosa siamo rimasti a fare in quel Paese per tutto questo tempo?

Anche qui, bisogna ancora una volta tornare a questo problema di crisi degli imperi coloniali. Quando gli imperi coloniali sono diventati più o meno accettabili di quanto erano stati in passato, criticati da una parte dell’opinione pubblica, è successo che molti Paesi hanno cercato di dare una copertura di nobiltà dicendosi Paesi maestri, che avrebbero aiutato le generazioni dei loro cittadini coloniali a diventare cittadini moderni. Ci siamo tutti in qualche modo promossi maestri, insegnanti del mondo coloniale, quasi per riscattare il nostro passato di colonialisti e, al tempo stesso per conservare una presenza, perché era questo ciò che s’intendeva veramente fare. E allora assistiamo a queste situazioni, in cui si giustificano la propria presenza o il desiderio di essere presenti, con una funzione morale. Quello di cui credere, su cui credere, su cui scommettere di questi tempi è piuttosto limitato, ma su quello che è oggetto della nostra conversazione, direi che è quello che sta accadendo, mi lasci aggiungere, guardando a questi vent’anni.

A proposito di imperi. L’Afghanistan è stato definito, storicamente, “il cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero” della Nato?

Le confesso che non si deve mai dire di sì a qualche cosa che si desidera. Perché francamente se questo accadesse, direi innanzitutto che ha una certa logica. Perché anche la Nato è in una situazione per certi aspetti simile, sotto il profilo politico, morale, di quello che le dicevo prima, cioè gli imperi che si promuovono insegnanti, missionari, cultori. Anche la Nato è a caccia di un ruolo internazionale. Con la fine della Guerra fredda, la Nato è finita tra i disoccupati. E siccome a un certo punto, qualche persona, anche in buona fede, ha pensato che dopotutto la Nato rappresenta pur sempre un legame con gli Stati Uniti che non sarebbe prudente mandare a carte all’aria, e allora c’è questo tentativo della Nato di rivalutare se stessa, di dimostrare uno scopo, una qualche utilità. Io guardo soprattutto a noi, all’Europa, perché in Europa ci sono Paesi e gruppi politico-sociali che questo discorso sulla Nato lo fanno. Questo discorso di rivalutazione della Nato con queste funzioni, presenta per noi uno straordinario svantaggio. Perché ci fa dimenticare che la prossima mossa dell’Unione Europea è ricostruire la Ced, la Comunità Europea di Difesa che poi saltò al Parlamento francese. Noi dobbiamo far rinascere la Ced. Non si chiamerà più così, si chiamerà Unione Europea di Difesa o qualcosa del genere. Noi non abbiamo bisogno della Nato. Noi abbiamo bisogno dell’Unione Europea di Difesa.

In Italia si è aperto un dibattito su trattare sì, trattare no con i Talebani. Intanto, il direttore della Cia ha incontrato nei giorni scorsi a Kabul il leader dei talebani. Come la mettiamo? Non c’è un po’ tanto di ipocrisia in questo rovello?

Debbo dire che il realismo finisce sempre per prevalere. E anche chi si era esposto dichiarando impossibile parlare con i Talebani, prima o dopo finirà a dire che con i Talebani bisogna parlare. Questa è una specie di logica che presenta molti inconvenienti. Perché nel momento in cui lei parla con una organizzazione che è così agli antipodi di quello che noi consideriamo democrazia politica, stato di diritto, parità di genere etc., è come se li avesse promossi, autorizzati a esistere. Le confesso che questo mi dà un po’ fastidio. M’infastidisce l’idea che si debba parlare con questa gente. Per carità, tutti hanno la loro giustificazione di esistere, ma parlare con coloro che, salvo clamorosi ripensamenti, continueranno a essere ciò che sono sempre stati, beh, è davvero dura da accettare. Loro sono la negazione di tutto ciò che noi consideriamo utile per il maggior numero possibile di persone. Sono esattamente il contrario. Perché i Talebani non sono una formazione politica. Sono dei “missionari”. E ragionare con i missionari non è mai facile, e qualche volta è addirittura inutile. 

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Francesca Musacchio per liberoquotidiano.it il 27 agosto 2021. «Qualcuno ha sbagliato in maniera pesantissima. Mi sono preso la briga di andare a rileggere quelle parti che sono pubbliche degli accordi di Doha e sono la testimonianza di un dilettantismo impressionante da parte dell’amministrazione americana, all’epoca guidata da Donald Trump». Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali, non ha dubbi: «È un accordo scritto sulla sabbia».

Cosa intende quando parla di accordi scritti sulla sabbia?

«Non ci sono le minime garanzie di rispetto da parte dei talebani. Capisco le forti pressioni interne su Trump e altrettanto forti su Biden, però si poteva gestire meglio l’operazione di "sganciamento" dall’Afghanistan. Invece è stata fatta nel peggiore dei modi possibili e si stanno pagando le conseguenze, soprattutto gli afghani. Ma c’è anche una drammatica crisi di credibilità che colpisce in primis gli Stati Uniti e tutto il mondo occidentale. Tutti noi alleati della Nato li abbiamo seguiti in questa avventura e forse avremmo dovuto chiederci un po’ prima se e perché stare in Afghanistan, con tutto quello che ci è costato, per poi vedere questo esito». 

Se al posto di Biden ci fosse stato Trump il ritiro sarebbe finito allo stesso modo?

«Sicuramente. Gli accordi sono di febbraio 2020. L’attuazione è stata dilazionata per una serie di motivi, tra cui probabilmente anche il Covid. Però quegli accordi erano di una fragilità spaventosa e hanno legittimato di fatto i talebani. Si è riconosciuto che in Afghanistan si sarebbe instaurato un Emirato islamico. Ma non solo. Non è stato coinvolto il governo in carica, quello legittimo che gli Usa hanno aiutato ad insediarsi. Uno degli impegni principali, che riguarda la formazione di un santuario jihadista, non contempla alcuna possibilità di monitorare che venga rispettato, per lo meno secondo quanto riportato nella parte degli accordi resa pubblica. Immagino che negli Usa si scatenerà una polemica feroce nei confronti di questa amministrazione e della precedente per capire come è stato possibile gestire questa cosa con tanta leggerezza, pur nella legittima volontà di volersene andare dopo 20 anni. Ma si poteva e si doveva gestire in maniera più decente». 

A questo punto diventa uno scontro tra talebani e Isis?

«Se si tratta di un attentato compiuto dall’Isis Khorasan, vuol dire che i talebani, come prevedibile, non sono in grado di controllare il territorio, soprattutto in un punto nevralgico come le vie di accesso all’aeroporto. La seconda considerazione riguarda gli impegni che i talebani si erano assunti nei famosi e scellerati accordi di Doha: impegnarsi a far sì che l’Afghanistan non diventasse il santuario delle formazioni jihadiste. Quello che è successo dimostra che non sarà così facile debellare il terrorismo in Afghanistan, ammesso che i talebani lo vogliano. Quindi c’è preoccupazione per quello che potrà svilupparsi nei prossimi giorni se questi episodi dovessero ripetersi». 

Ci saranno altri attentati?

«Cresce enormemente il rischio che questo tipo di attentati terroristici possano ripetersi nei prossimi giorni, settimane e mesi. Questo è un problema enorme per gli afghani che stanno pagando sulla loro pelle questa situazione. In una prospettiva di medio termine potrebbe diventare un problema enorme anche per il resto del mondo se in Afghanistan si riproducessero le condizioni che hanno consentito a suo tempo ad al Qaeda di insediarsi e di operare. Che questo sia un episodio che riguarda uno scontro tra due componenti della galassia dei talebani, oppure da ricondurre ad una rivalità con l’Isis o il rischio di ritorno di al Qaeda, sono tutte ipotesi plausibili su cui non mi sento di fare previsioni. Ma quello che è successo oggi (ieri, ndr), aggrava una situazione già molto complicata e drammatica».

Massimo Basile per agi.it il 27 agosto 2021. Una rapida carrellata di immagini e il duro attacco al presidente Joe Biden, definito il “capo della resa”, o “resa in capo”, gioco di parole con il ‘Commander in Chief’, in un montaggio che lancia due messaggi: il trionfo talebano e la confusione americana nell’evacuazione dall'Afghanistan. “Save America”, la campagna presidenziale di Donald Trump per il 2024, ha lanciato oggi un video di un minuto e mezzo che è uno schiaffo al presidente. “Biden ha mentito all’America e al mondo - recita la voce narrante - quando ci disse che l’'America era tornata’. Invece, si è arreso ai talebani e ha lasciato gli americani morire in Afghanistan”. “Questo - continua - passerà alla storia come uno dei più grandi fallimenti militari. Sono i talebani a essere tornati, non l’America". "Questa - prosegue nel video l'ex presidente - non è l’America che conosciamo. I media si rifiutano di chiedere conto a Biden per la tragedia che ha provocato. È tempo per la verità”. Le immagini passano dal sottopancia di un notiziario che titola sull'inflazione alla crisi pandemica, Biden che inciampa più volte sulla scaletta dell’aereo presidenziale, talebani che ridono come a farsi beffa del presidente e poi i notiziari che annunciano la presa di Kabul da parte degli integralisti, fino alla sovrapposizione d'immagini di dolore delle donne afghane unite alla risata di Kamala Harris e alla scena di Biden che brinda con il presidente cinese Xi Jinping, poi ancora il presidente mentre si impappina e perde, per un attimo, il filo del discorso. Il video si chiude con lo slogan della nuova campagna di Trump, “Save America”.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 28 agosto 2021. La fine ingloriosa della missione in Afghanistan, la più lunga onerosa impegnativa sanguinosa nella storia dell'alleanza, lascia in macerie l'alleanza stessa. Lo rimproverano gli analisti americani a Joe Biden, su tutti Ian Bremmer: «Quando è venuto il momento di staccare la spina - ha scritto - Biden lo ha fatto da solo, sia in termini di scelta politica che di decisione, comunicazione, attuazione e ripercussioni. Gli alleati si aspettavano dagli americani un atteggiamento diverso nei confronti degli amici». È ormai stranoto, a questo punto, che Washington non ha minimamente consultato o ascoltato gli alleati nelle trattative con i taleban. A malapena sono stati informati a cose fatte. Ma ci sono alcuni retroscena su quanto avvenuto negli ultimi giorni che se possibile hanno avvelenato ancor di più i rapporti euro-atlantici. Il 15 agosto, quando i primi taleban hanno fatto ingresso a Kabul - e di certo l'Amministrazione Biden non l'ha saputo dai media - al mattino è scattato il piano di evacuazione dell'ambasciata. C'è da dire che era una struttura enorme, con quasi 4000 addetti. Una città nella città. Ebbene, che i diplomatici americani stessero scappando gli altri lo hanno scoperto sentendo il rumore degli elicotteri. Al pari della gente comune. È stata una doccia gelata per tutti, afghani e alleati. Che infatti si sono riversati confusamente tutti verso l'aeroporto. Nella nostra ambasciata hanno distrutto in fretta i cifrari, bruciato le carte più sensibili, manomesso le automobili nel garage. E sono andati via. La seconda sgradita sorpresa si è avuta all'aeroporto. L'area civile era inutilizzabile ed era in mano talebana. La parte militare, invece, dove fino alla sera prima c'era l'esercito afghano a protezione, il 15 mattina sono subentrati i marines a stelle e strisce. Loro e solo loro. Tutti gli altri, salvo gli inglesi che avevano avuto un canale di comunicazione più riservato, si sono ritrovati nella scomoda posizione di ospiti poco graditi. Gli alleati hanno scoperto che le forze armate americane avevano preventivamente requisito buona parte degli spazi, compreso il terminal, adibito a Centro di smistamento per il loro ponte aereo. Tutti gli altri hanno dovuto arrangiarsi. Gli italiani, per dire, si sono presi un hangar che era rimasto vuoto e hanno provato ad attrezzarlo con quel poco che trovavano in giro. Restava poi una palazzina su due piani, separata con cancelli e reti dall'area americana, e lì, alla buona, ogni Paese Nato si è sistemato in una stanza. Ora si racconta con una certa enfasi del ponte aereo. Se però si osservano i comunicati di Washington, salta agli occhi che giornalmente veniva diramata una contabilità su quanti aerei americani e quanti profughi avevano portato via loro, più un'aggiunta su quanti voli e profughi erano stati aiutati dagli alleati. Già la contabilità separata dà l'idea di una frattura profonda. Dentro l'aeroporto, poi, è montata una specie di lite coniugale. Per i primi tre giorni, gli americani hanno preteso di ricevere dagli europei le liste di chi aveva avuto il loro visto, da girare ai marines ai cancelli, che avrebbero poi provveduto a farli passare. Un meccanismo che da subito si è rivelato impossibile da applicare, vista la marea umana che faceva da tappo davanti ad ogni ingresso. Nei giorni seguenti, le rigidità si sono parzialmente allentate. Tutti hanno capito che bisognava ingegnarsi. Ed è iniziata la trafila di presentarsi al canale di scolo per farsi riconoscere e tirare su dal famoso muro. Ciascuno dal proprio contingente di riferimento. La salvezza è stata affidata ai messaggi whatsapp da fuori a dentro e viceversa. A tentare un minimo di coordinamento, quantomeno a salvare le forme, è rimasto fino all'ultimo l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, un diplomatico italiano designato solo pochi mesi fa «Rappresentante Nato» nel Paese. Pontecorvo è salito ieri sul penultimo C130J dell'Aeronautica italiana assieme al giovane console Tommaso Claudi, il diplomatico che in questi dodici giorni ha rappresentato il nostro Paese all'aeroporto. «Lascio Kabul con il cuore pesante», ha scritto Pontecorvo nel suo ultimo tweet. Forse non si riferiva solo all'Afghanistan.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 28 agosto 2021. Uno spettro insegue Joe Biden. Ha le fattezze di Jimmy Carter: il presidente democratico la cui stella politica fu abbattuta dai khomeinisti iraniani nel 1979, con la presa di ostaggi americani all'ambasciata di Teheran. Un disastro di politica estera qualche volta può essere irrimediabile, per Carter lo fu. Biden sta attraversando la crisi più drammatica della sua carriera politica (anche se sul piano umano la vita gli ha inflitto prove ancora più dure, la perdita di moglie e figli). La giornata più tragica dell'ultimo decennio per gli americani in Afghanistan segna anche il punto più basso toccato da Biden. 13 morti fra i "suoi ragazzi" sono una macchia per qualsiasi presidente, ancor più per un anziano statista che fra i suoi vanti aveva l'esperienza in politica estera. Il coro di critiche contro di lui si fa sempre più assordante. Due parlamentari repubblicani già hanno annunciato di voler avviare la procedura d'impeachment, com' era prevedibile dopo che il loro presidente ne subì ben due in un solo mandato. Ma le sconfitte militari o d'intelligence non rientrano nella fattispecie costituzionale per l'interdizione, altrimenti la Baia dei Porci (1961) avrebbe chiuso la presidenza di John Kennedy, la caduta di Hanoi (1975) avrebbe finito Richard Nixon, i 241 marines uccisi a Beirut (1984) avrebbero segnato la crisi di Ronald Reagan. Soprattutto, non ci sono i numeri al Congresso per avviare la macchina dell'incriminazione. I repubblicani possono invece trovare dei voti democratici sufficienti ad aprire una commissione d'indagine sulla strage di Kabul. Senza essere finalizzata all'impeachment, un'indagine del Congresso costringerebbe a testimoniare generali e ministri, col risultato di garantire la massima visibilità e prolungare l'effetto negativo sull'immagine di Biden fino alle legislative del novembre 2022. Quello sarà il vero test. Prima di allora Biden può continuare a scendere nei sondaggi, senza conseguenze concrete. La prova che arriva tra 14 mesi è cruciale. L'elezione parlamentare di metà mandato rinnova tutta la Camera e un terzo del Senato. Non è quasi mai un appuntamento favorevole al presidente in carica. Clinton, Bush, Obama e Trump, tutti subirono emorragie di voti nel mid-term. Biden arriverà a quel test in una situazione già delicata a priori, perché i democratici ebbero un risultato mediocre nel novembre 2020: la loro maggioranza alla Camera è sottile, il Senato è in parità assoluta e solo il voto di spareggio della vicepresidente Kamala Harris garantisce l'approvazione delle misure più importanti. Se Biden perde anche un solo ramo del Congresso, buona parte della sua agenda di riforme finirà paralizzata. Guardando ancora più lontano, l'indebolimento di Biden può compromettere le chance di una candidatura di Kamala Harris alla Casa Bianca nel 2024: nessun vicepresidente ha mai guadagnato dalle disfatte politiche del suo capo. Biden ha una speranza. Nel novembre 2022 l'Afghanistan sarà un ricordo distante, per quanto tragico. Gli elettori si orienteranno con ogni probabilità su altri temi: la gestione della pandemia, la ripresa economica, l'occupazione e l'inflazione. La sinistra del partito è abbastanza silenziosa sull'Afghanistan - salvo chiedere una politica generosa di accoglienza dei profughi - perché ha altre priorità: il Green New Deal, le grandi riforme sociali, il nuovo Welfare. Tenere duro sul progetto di lungo periodo forse è l'unica cosa che gli resta da fare, nella speranza che il tempo partorisca un giudizio diverso. La storia a volte gioca degli scherzi a chi tiene lo sguardo incollato sull'attualità. La caduta di Hanoi nel 1975 - spesso evocata a sproposito nei paragoni con la débacle di Kabul - fu seguita 14 anni dopo dal trionfo americano nella guerra fredda. Non esistono ritirate gloriose, tantomeno eleganti. Non può essere un bello spettacolo, l'abbandono della periferia di un impero che era ormai al di sopra della forza reale dell'America, nonché inadeguato alle sfide del domani. Dietro l'anziano Biden, scosso e indebolito, c'è una squadra di giovanissimi che lo hanno assecondato perché puntano a ricostruire un strategia "light", concentrando risorse sull'unico fronte davvero strategico, la sfida con la Cina.

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 29 agosto 2021. La diagnosi di Kurt Volker mette paura: «L'Afghanistan sarà uno stato fallito, con governo debole e brutale. Tornerà il paradiso dei terroristi, e se colpiranno di nuovo America ed Europa dipenderà solo da quanto forti riusciranno a diventare. L'idea di Draghi di usare il G20 è utile per gestire l'ondata di rifugiati, che minaccia la nostra sicurezza».

Lei, ex analista Cia, era dentro la stanza quando cominciò l'intervento: sottosegretario di Stato per l'Europa e ambasciatore alla Nato nell'amministrazione Bush. Poi è stato inviato di Trump in Ucraina: cosa pensa del suo accordo per il ritiro?

«Negoziare con i taleban senza il governo afghano è stato un errore enorme dell'amministrazione Trump. Abbiamo creato una dinamica in cui noi facevano concessioni inaccettabili per il governo afghano, consentendo ai taleban di dettare le condizioni. Avremmo dovuto sapere che erano spietati assassini, e non potevamo fidarci».

La sua ex collega Condoleezza Rice ha scritto che serviva un intervento più lungo, citando la Corea.

«Sono d'accordo. Gli afghani hanno combattuto con noi». 

L'intervento doveva durare a lungo, perché costruire la democrazia richiede tempo?

«Concordo. Aveva un costo relativamente basso sul piano militare, ma serviva a creare le condizioni in cui gli afghani dovevano ricostruire il Paese».

Biden ha giustificato il ritiro dicendo che aveva le mani legate da Trump.

 «Non ha senso. Ha cambiato tante politiche di Trump: poteva farlo anche con l'Afghanistan, se avesse voluto. I taleban si aspettavano il ritiro Usa il primo maggio, e se fosse rimasto avrebbero aumentato gli attacchi, ma non sarebbe stato nulla di nuovo. Avevamo la capacità di proteggerci e fermarli». 

I collaboratori di Biden non lo hanno avvertito che così finiva male?

«Non posso crederlo».

E non li ha ascoltati?

 «O non li ha sentiti. Conosco bene molti leader militari e diplomatici dell'amministrazione, sono sicuro che hanno detto al presidente che ritirandoci così avremmo provocato una catastrofe. Accetto l'incertezza sui tempi: il governo afghano poteva durare tre mesi, sei, oppure uno. Ma questo punto è irrilevante, perché se sai come andrà a finire, devi pianificare meglio». 

Che effetti avrà sulla coesione della Nato?

«Biden ha fatto più danni di Trump. Lui ha insultato gli alleati, ma poi non ha preso iniziative concrete. Biden invece ha ritirato i soldati americani da un'operazione in cui gli alleati avevano ancora truppe sul terreno, senza consultarli. Da quanto ho sentito, sono tutti insoddisfatti. L'articolo 5 resta forte, ma nella gestione di ogni crisi futura, quando gli Usa chiederanno aiuto per sicurezza e protezione, gli alleati saranno molto riluttanti». 

Che effetto avrà sulla riscossa delle democrazie e la sfida con la Cina? «Questo ritiro ha mandato diversi messaggi. Il primo è la mancanza di risolutezza per ottenere un obiettivo, il secondo la mancanza della volontà di usare la forza. Tutto ciò è stato notato e preso dagli avversari, Cina, Russia, terroristi, come un via libera: possiamo avanzare, non subiremo una risposta seria. C'è un vuoto, pensano di riempirlo, a Taiwan o in Ucraina. Anche gli alleati hanno imparato la stessa lezione: non vorranno più respingere le autocrazie, perché non si fideranno che gli Usa faranno altrettanto». 

Il G20 voluto da Draghi è utile?

«Se parliamo di assistenza umanitaria e rifugiati, perché ce ne saranno molti. L'esecutivo talebano non darà stabilità, sicurezza e ricchezza. Sarà un Afghanistan governato male e frammentato, in continua guerra civile. Dobbiamo dare aiuto umanitario, perché ne va della nostra sicurezza». 

L'attentato all'aeroporto è stato l'inizio della guerra civile fra taleban e Isis-K?

«Sì. Vedremo diverse cose: scontri fra taleban e altri estremisti; sforzo dell'Alleanza del Nord di ricostituirsi sotto il figlio di Massoud; un po' di resistenza civile; regionalizzazione; i signori della guerra che riemergeranno, come leader nelle loro aree. Sarà un macello».

E santuario dei terroristi per la jihad globale?

«Certo. I taleban dicono di no, ma prima di tutto non sono sinceri, e poi non possono impedirlo, anche se volessero». 

Europa e Usa rischiano attacchi?

«Sì, se diventeranno abbastanza forti per raggiugerci. Ma ci sono anche un sacco di obiettivi locali. Sarà il paradiso dei terroristi, e dove colpiranno dipenderà solo da quanto si rafforzeranno».

Gli Usa hanno già punito l'Isis-K: si possono fermare i terroristi senza essere sul terreno?

«Il ritiro degrada le nostre capacità. Essendo presenti avevamo intelligence elettronica ed umana, e potevamo intervenire in tempo reale. Ora dovremo ricostituire la raccolta dell'intelligence in altri modi, da altri paesi, e saremo più limitati. Possiamo ancora farlo e avremo capacità globali e locali, ma è un colpo significativo che riduce la nostra forza». 

L'ex capo di Pentagono e Cia con Obama, Panetta, prevede che dovrete tornare a combattere Isis e al Qaeda.

«Sì, dovremo combatterli. Come e dove non lo sappiamo ancora. Ma Isis e al Qaeda potranno ricostruire, e noi dovremo combatterli». 

Si può fare qualcosa sul piano politico e diplomatico?

«Non credo. I taleban non sono così coordinati internamente. C'è una leadership rispettata, ma non controlla tutto. Non sono aperti alle influenze esterne. Sento chi punta sull'isolamento internazionale, ma non importa, perché questa è la loro ideologia. Non vogliono essere parte del mondo moderno e venire integrati, vogliono restare una cosa a parte».

Non serviranno neanche i soldi della Cina?

«Non abbastanza, perché non importano». 

Quindi il destino dell'Afghanistan è diventare uno stato fallito?

«Sì. Sarà un governo debole e brutale».

Gli errori, i talebani, il caos: “Ma gli Usa hanno fatto un affare…” Lorenzo Vita su Inside Over il 28 agosto 2021. L’Afghanistan invade le cronache quotidiane. Al dramma dell’evacuazione di centinaia di migliaia di persone in fuga dal nuovo regime talebano, si è aggiunto il tragico bilancio degli attentati di Kabul, una strage che ha coinvolto anche marines degli Stati Uniti. Per comprendere cosa è successo e cosa potrebbe accadere nel Paese ne abbiamo parlato con il generale dell’Esercito Giorgio Cuzzelli, oggi docente nel campo degli studi strategici e della sicurezza internazionale. Nel corso della carriera ha comandato unità ad ogni livello, nazionali e multinazionali, ed è stato impiegato in operazioni nei Balcani e in Afghanistan.

Partiamo dalla cronaca. Le auto-bombe scuotono Kabul e l’esercito si è dissolto nel giro di pochi giorni. La domanda che sorge spontanea è: cosa abbiamo fatto in venti anni?

Nonostante ciò che ha affermato il presidente degli Stati Uniti, in Afghanistan l’Occidente ha provato a fare nation building. Abbiamo cioè tentato di costruire una nazione da zero, comprese le sue forze di sicurezza. Ma gli eserciti sono la fotografia della società dalla quale hanno origine: quindi delle tribù, delle tradizioni religiose e delle abitudini. Se la società è poco evoluta e frammentata, lo sarà anche l’apparato militare.

Cosa salva di questi venti anni?

In venti anni è stato fatto tantissimo, glielo assicuro, ma l’Occidente si è dato obiettivi forse troppo ambiziosi. In secondo luogo, l’Occidente manca di quella che è stata definita “pazienza strategica”. In buona sostanza ci vuole tempo per costruire un Paese: servono generazioni. Pensi ai Balcani. Siamo ancora lì adesso, checché se ne dica, ed è Europa. Probabilmente in Afghanistan abbiamo iniziato a rispondere alle domande delle élite intellettuali delle città, ma il paese profondo era – ed è tuttora – una società cristallizzata nella sua storia e nelle sue tradizioni. La parte più evoluta ha fatto sforzi eroici per progredire, ma venti anni sono davvero pochi per uno sforzo del genere.

Questo vale anche per le truppe?

Il modello di esercito e operazioni adottato era tipicamente occidentale. Questa differenza tra il nostro modo di pensare e preparare un esercito e il loro modo di fare la guerra era notevole: loro hanno cercato di adattarsi, ma hanno incontrato grosse difficoltà. In più, col senno di poi possiamo dire ora che sono state compiute delle scelte non del tutto azzeccate.

Ovvero?

Le faccio qualche esempio. Al di là del fatto che annunciare pubblicamente la data del proprio ritiro all’avversario significa servirgli la vittoria su un piatto d’argento, dalla tarda primavera al primo autunno è l’unico periodo in cui in Afghanistan si può combattere su larga scala, sia perché il clima lo consente e ci si può muovere sia perché sono disponibili i combattenti. Non ci sono raccolti da fare e il tempo è buono. Potrà sembrare una visione arcaica della guerra, e lo è secondo i nostri standard, ma è la realtà di buona parte del mondo. Non bisognava andarsene dall’Afghanistan in estate, perché è l’unico periodo in cui i contadini possono imbracciare il fucile. Altro esempio. Nella costruzione dell’esercito si è pensato sin dall’inizio di mischiare la provenienza etnica e regionale dei soldati per sopraffare il tribalismo e costruire uno strumento unitario. In buona sostanza, i soldati del Nord sono stati mandati a combattere nel Sud e viceversa. Il combinato disposto della lontananza da casa, dell’impossibilità di aiutare le famiglie nelle attività agricole e della sostanziale impossibilità di andare in licenza ha fatto lievitare a dismisura le diserzioni. Senza contare che in genere, in un contesto insurrezionale, le unità locali che conoscono i posti e hanno un comune vincolo di sangue sono quelle che combattono meglio. Vi è stato poi il problema dell’organizzazione e della logistica di tipo occidentale, che mal si conciliavano con la mentalità e la cultura locale, ma che sono state comunque imposte. Per tacere della corruzione dilagante. Ma di esempi così, con il senno di poi, se ne possono fare molti.

I talebani sono davvero così forti? Fa paura pensare ai talebani con le armi lasciate dagli Usa?

Dal punto di vista tecnico non credo che almeno per ora i talebani abbiano capacità paragonabili a quelle delle forze occidentali per la manutenzione dei materiali, e non solo di quelli. La richiesta alla Turchia di gestire l’aeroporto di Kabul deve far riflettere. In più, le condizioni dei mezzi che hanno ereditato non erano già di per sé esaltanti, e senza manutenzione il degrado sarà rapidissimo. In Afghanistan ci sono ancora cimiteri di mezzi lasciati dai sovietici quarant’anni fa: quando i talebani hanno preso il potere l’altra volta, nel paese da tempo non volava più nulla. Sotto il profilo politico-militare stiamo parlando di una forza insurrezionale composta da molte componenti locali e con un controllo centrale piuttosto labile. Una forza che sta ancora prendendo il potere in un paese enorme e geograficamente complesso, dove le comunicazioni via terra sono estremamente difficili e dove non vola più nulla. Di conseguenza, da un lato l’Emirato ci metterà parecchio prima di prendere il controllo di tutto il paese e dall’altro, almeno per ora, non ha neppure il pieno controllo delle sue forze, come dimostrano gli eccessi commessi a livello locale nonostante le dichiarazioni aperturiste dei vertici.

Tratteremo con i Talebani?

Dal punto di vista del diritto internazionale esiste il concetto dello stato successore per fatto bellico o rivoluzionario, e l’Emirato è uno stato successore, che piaccia o meno. E’ lo stesso discorso dell’impero zarista e dell’Unione Sovietica. In Afghanistan prima o poi si riapriranno le ambasciate e si riallacceranno i rapporti, all’inizio freddi e poi man mano sempre più sviluppati. Un forte condizionamento verrà sicuramente dalla pressione dell’opinione pubblica occidentale e della diaspora afghana, finché durerà. Per contro, un forte contributo alla normalizzazione dei rapporti sarà dato comunque dalla necessità – comune all’Occidente e ai talebani – di combattere lo Stato islamico, come dimostrano i recenti attentati. Paradossalmente è su questo che, a mio avviso, si verrà a realizzare una comunanza di interessi con i Talebani e, di riflesso, con la Cina, la Russia, l’India e il Pakistan.

Cosa succederà ora?

Il paese si chiuderà al mondo per un certo periodo. Chi è stato toccato dalla modernizzazione occidentale vorrà andare via e ci sarà un peso rilevante della diaspora, che manterrà accesi i riflettori almeno per qualche tempo. Poi il realismo prenderà il sopravvento.

L’Occidente ha perso? Gli Stati Uniti sono veramente i primi perdenti?

Può apparire una sconfitta morale perché l’Occidente è partito con grandi ambizioni nel 2001, ha fatto grandi sacrifici, ha imposto grandi sacrifici alla popolazione afgana, e dopo vent’anni ripiega senza avere in apparenza concluso nulla. Anche se sono convinto che abbiamo comunque ben seminato, e che prima o poi ne vedremo i frutti. Nondimeno, dal punto di vista geostrategico gli Stati Uniti hanno fatto un affare: era un impegno in cui non credeva più nessuno e al quale si doveva porre fine prima o poi. Prova ne sia che all’ultimo vertice della Nato prima della crisi l’Afghanistan era un punto assolutamente secondario dell’agenda dei lavori. Tuttavia, nell’andarsene sono stati commessi a mio avviso tre errori di tipo politico prima ancora che militare, che hanno in qualche modo compromesso il buon esito del disimpegno. Negoziare con i talebani per porre fine al conflitto senza coinvolgere il governo legittimo, annunciare la data del ritiro e abbandonare del tutto il paese. Se si fosse mantenuta una presenza militare sul posto – anche simbolica, badi bene – tutto questo non sarebbe mai successo perché le forze di sicurezza afgane stavano combattendo, e anche bene. Gli afghani hanno mollato quando qualcuno ha cominciato a negoziare con i talebani alle loro spalle.

Perché si sono sfasciati dunque?

Di sicuro vi sono cause militari, la corruzione, il reclutamento sbagliato, l’assenza di rifornimenti, eccetera, ma la causa fondamentale è che soldati e poliziotti non hanno ritenuto di dover rischiare ulteriormente la vita perché si sono sentiti traditi. Ed hanno reagito di conseguenza consegnando il paese ai talebani. In ciò aiutati dal grosso della popolazione, che a mio avviso non ne poteva più della guerra.

Cina e Russia?

Non è detto che la Cina sia molto felice per la vittoria dei talebani, e neppure i russi. Perché è un bubbone islamista che non fa comodo a nessuno, e perché ora l’America è libera di guardare altrove. La Cina ha un modello particolare di intervento all’estero che è quello usato per esempio in Africa. Grandi investimenti e turiamoci il naso pur di fare affari. I cinesi possono usare la stessa influenza indiretta in Afghanistan? Non è così semplice. I talebani per ora sono interessati perché hanno bisogno di soldi. I russi sono molto preoccupati dalle repubbliche centroasiatiche ma non sembrano avere alcuna voglia di tornare in Afghanistan. E c’è un’altra cosa da dire: l’America ha reso un ottimo servizio a sé stessa svincolandosi da Kabul, mentre ha creato non pochi problemi a Mosca e Pechino. Ora che Usa e Occidente non hanno in agenda l’Afghanistan, possono concentrarsi su altri obiettivi. Cina e Russia, invece, hanno un vuoto interno all’Asia centrale.

Non è un fallimento dell’Occidente?

Da sempre gli Stati Uniti agiscono in politica estera in base ai propri interessi nazionali percepiti, che non necessariamente coincidono o tengono conto delle aspirazioni degli alleati. Pensiamo solo a Woodrow Wilson a Versailles, a Franklin Delano Roosevelt a Yalta o a George W. Bush a Baghdad. Il ritiro dall’Afghanistan è un discorso iniziato già con Obama. Le scelte operate da Donald Trump ne sono state la logica conclusione e Biden non ha fatto altro che portarle a compimento. Che poi sia stata una scelta avventata per come è stato concluso tutto, questo è un altro discorso. Ma, al di là del giudizio sulla conclusione della vicenda, l’Italia deve prendere atto della decisione e agire di conseguenza. Ora quello che possiamo fare è quello che stiamo facendo: abbiamo un dovere morale di accoglienza per chi ci ha aiutato e i nostri funzionari e militari a Kabul stanno lavorando benissimo. Quella è l’unica cosa da fare e stiamo agendo in modo eccezionale. Per il futuro si vedrà.

"Il mondo è senza leader. Il disastro umanitario è un fallimento globale". Fiamma Nirenstein il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. Il grande filosofo israeliano: assenti Onu, Usa e Ue, da tempo avrebbero dovuto salvare vite. Quando il mondo è scosso nelle fondamenta da eventi che implicano la ferocia dell'uomo contro l'uomo, non si sa cosa pensare. Un faro di saggezza e anche, come capita ai giusti, di motivato scetticismo, è Asa Kasher, professore emerito di etica e filosofia all'università di Tel Aviv, membro dell'Accademia d'Europa di arti e scienze, e famoso autore del Codice Etico delle Forze di Difesa Israeliano.

Abbiamo visto scene di fuga e terrore molto oltre la tragedia quotidiana: scene di orrore. Che significa?

«La risposta è semplice: fallimento della società e delle istituzioni contemporanee».

Di tutte? Di tutti?

«In particolare, dell'Onu. Pensiamo a quando e come è nata questa istituzione, dopo la Shoah, dopo la guerra mondiale, fatta apposta per creare un rapporto costruttivo fra tutti gli Stati, una grande assemblea che doveva scavalcare tutte le falle etiche e pratiche che avevano portato al disastro: pregiudizi, questioni di colore, etnia, religione, interessi, discriminazione, prepotenza. Ed eccoci qua, di fronte alle scene che abbiamo dovuto vedere. È un fallimento globale, che ci impone un'enorme contrazione di coscienza».

Che vorrebbe fare professore?

«Ricominciare da capo, ridefinire tutto, smontare, ricostruire. Prima di tutto mettere tutta la nostra attenzione e il nostro lavoro su quello che abbiamo visto, svegliarsi».

Nel frattempo abbiamo 350mila persone che fuggono verso di noi.

«E tuttavia c'è molta indifferenza»

Non vedo indifferenza, ma sconcerto.

«Lei parla delle élite, giornali, discussioni in tv, o della gente sconvolta dalle immagini degli aerei cui la gente si appende, o delle madri che porgono i bambini. No, io parlo degli Stati, che sono indifferenti, che mantengono, nelle istituzioni e nella diplomazia, atteggiamenti non adeguati a ciò che richiede il momento. Poiché è chiaro che non si può intraprendere una nuova guerra, allora i mezzi in campo, quelli diplomatici, quelli economici, quelli di sicurezza, ma soprattutto quelli di umanità, devono essere eccezionali, come lo è la situazione».

Molti dicono che l'emergenza contenga anche molti pericoli per noi.

«Facciamo ordine: intanto bisogna parlare coi talebani».

Per sentire le loro bugie mentre compiono esecuzioni sommarie, recludono le donne, impiccano i gay?

«Non importa parlarci ufficialmente, ma garantire soluzioni sotto il tavolo e tramite intermediari. Occorre negoziarci senza apparire, promettere di aiutarli in cambio di rassicurazioni sui diritti. Gli intermediari non mancano. Certo non potremo discutere la sharia, ma potremo cercare di imporre la salvaguardia della vita umana».

Ora abbiamo il problema di centinaia di migliaia di persone in fuga.

«Il mondo avrebbe già dovuto da tempo essersi dotato di un sistema di intervento collettivo per salvare molte vite, siamo falliti anche in questo. Ed ecco, ora siamo in emergenza, non c'è Stato che non si possa far carico di qualche centinaia di persone in pericolo di vita. Anche Israele, e specialmente, dato ciò che abbiamo attraversato. Queste persone scappano via per salvare la vita, come facemmo noi».

Ma Germania, Austria, Francia, Ue, Inghilterra, esprimono molta cautela.

«Non sono attrezzate concettualmente. Da tempo si sarebbero dovuti costruire sistemi di immigrazione temporanea, in cui la gente viene ospitata rispettando la sua dignità fino a indurla, attrezzata, a ritornarsene a casa. È il contrario di ciò che è accaduto coi turchi in Germania. Restano per sempre, perché non si sono creati tramiti decenti per rientrare. Questo deve cambiare: l'emigrazione deve essere un'emergenza temporanea, in cui si studia, si lavora, si impara qualcosa che sarà utile a casa propria».

Anche in Afghanistan? Non sarebbe meglio allora promuovere un «regime change»?

«Il guaio è che non abbiamo una leadership morale che si senta o sia investita di un compito così alto come salvare l'umanità. Gli Usa se ne sono andati».

L'Europa non dovrebbe avere un esercito?

«Non è nemmeno riuscita a contrapporsi a Putin. Gli Usa hanno deposto il primato. L'Europa non l'ha mai avuto. L'Onu è opportunista. Non c'è nessuno che possa dire ai talebani se non smetti di terrorizzare il tuo popolo incontrerai i miei paracadutisti». Non ci sono leader morali che possano fare. Quindi, meglio parlare». Fiamma Nirenstein

Quella telefonata tra Carter e Trump sulla Cina che spiega (anche) la scelta di Biden. Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 30 Agosto 2021. Da vent’anni a questa parte, prima o poi, tutti i presidenti americani hanno annunciato che era venuto il momento di andarsene dall’Afghanistan per dedicarsi al «nation building» in patria. Joe Biden lo ha fatto davvero. E una telefonata di qualche tempo fa spiega quel che sta accadendo meglio di mille articoli. L’ha raccontata Emma Hurt su WABE, una stazione radio di Atlanta affiliata a NPR, il 14 aprile 2019 e la riporta anche Giulia Pompili nel suo «Sotto lo stesso cielo», il bel libro che ha dedicato all’«altra» Asia, ovvero a quella che Cina non è e a cui la Cina è legata in modo indissolubile («Non esiste Pechino senza Taipei, non esiste Pechino senza Seul, ma soprattutto non esiste Pechino senza Tokyo», spiega Pompili). La Domenica delle Palme del 2019, dal pulpito della Maranatha Baptist Church, la chiesetta battista della sua città natale di Plains in Georgia dove insegna religione la domenica mattina, l’ex presidente americano Jimmy Carter ha raccontato la conversazione che la sera prima aveva avuto con Donald Trump, il presidente allora in carica. All’inizio dell’anno, Carter aveva inviato una «bellissima lettera» a Trump con alcuni consigli per gestire il rapporto tra Stati Uniti e Cina. Fu infatti Carter a guidare, quarant’anni fa, la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. E la sera del sabato precedente la Domenica delle Palme, Trump chiamò Carter per parlarne. Era la prima volta che parlavano e Trump, spiega Carter ai parrocchiani, gli dice di essere molto preoccupato del fatto che la «la Cina ci sta superando». «E sai perché?», replica Carter dicendosi d’accordo. «Ho normalizzato le relazioni diplomatiche con la Cina nel 1979. Dal 1979, sai quante volte la Cina è stata in guerra con qualcuno? Nessuna. E noi invece siamo rimasti sempre in guerra». A dire il vero, Cina e Vietnam hanno combattuto una breve guerra di confine all’inizio del 1979, alcune settimane dopo la normalizzazione delle relazioni con la Cina, ma il succo del discorso non cambia: Pechino, a differenza dell’America, da allora ha inaugurato una politica di apertura e di riforme economiche avviando un inarrestabile processo di trasformazione e si è messa a costruire infrastrutture e non a fare la guerra in giro per il mondo. Carter si rivolge ai parrocchiani (lo seguono in centinaia, fedeli e meno fedeli, alcuni accampati dalla sera prima per poter ascoltare i sermoni dell’ex presidente americano) e dice loro che gli Stati Uniti sono «la nazione più bellicosa nella storia del mondo», proprio perché vuole imporre i valori americani ad altri paesi, e racconta loro che la Cina ha investito nelle proprie infrastrutture (ricorda che la Cina ha 18.000 miglia di ferrovia ad alta velocità) anziché spendere per la difesa. «Quante miglia di ferrovia ad alta velocità abbiamo in questo paese?». «Zero», risponde la congregazione. «Abbiamo sprecato, credo, 3000 miliardi di dollari», dice Carter, riferendosi alla spesa militare americana. «La Cina non ha sprecato neanche un centesimo in guerra, ed è per questo che sono davanti a noi. In quasi tutti gli aspetti. E credo che la differenza sia che se si prendono 3 trilioni di dollari e si mettono nelle infrastrutture americane, probabilmente ne avanzano 2 trilioni di dollari. Avremmo la ferrovia ad alta velocità. Avremmo ponti che non stanno per crollare. Avremmo strade mantenute correttamente. Il nostro sistema educativo sarebbe buono come quello della Corea del Sud o di Hong Kong». «Non sto paragonando il mio paese alla Cina in modo malevolo», puntualizza l’ex presidente americano. «Lo sto solo facendo notare perché ieri sera ho ricevuto una telefonata». Carter dice di comprendere che Trump sia preoccupato del sorpasso della Cina come principale superpotenza economica del mondo. «La circostanza non mi fa paura, ma la cosa infastidisce il presidente Trump, e non so perché. Non lo sto criticando – questa mattina», Carter replica cedendo alle risate del pubblico. La Casa Bianca ha poi confermato la conversazione. «Il presidente Jimmy Carter ha scritto al presidente Trump una bellissima lettera sulle trattative in corso con la Cina e sabato hanno avuto un’ottima conversazione telefonica sulla posizione del presidente Trump sul commercio con la Cina e su numerosi altri argomenti», si legge nella dichiarazione rilasciata il giorno dopo. Il sermone della Domenica delle Palme di Carter (l’ex presidente, come ha sempre fatto, continua ad insegnare religione ogni due domeniche nella sua parrocchia) era incentrato, racconta Emma Hurt, sulla pace e la bontà e si è temuto davanti ad un pubblico composto perlopiù da visitatori, molti dei quali avevano fatto la fila durante la notte per poter assistere al servizio religioso. Certo, come osserva Pompili la «versione di Carter» è a dir poco semplicistica, ma spiega senza tanti fronzoli la strategia di Biden e la decisione di chiudere una stagione, costi quel che costi. Il ritiro è stato disastroso ed il collasso improvviso, i civili in preda al panico che si aggrappano agli aerei, le stragi dello Stato Islamico e la morte dei soldati americani costeranno parecchio all’amministrazione in carica. Ma resta il fatto che gli americani non ne possono più di conflitti che sono costati una quantità mostruosa di risorse e hanno prosciugato le forze del paese in posti sperduti mentre la Cina (ed il suo regime) si rafforzava. La priorità degli Stati Uniti è ora quella di rimettere in sesto il paese, le sue istituzioni e le sue infrastrutture, rimettendo insieme «i frantumi dell’America» descritti da George Packer nel suo celebre libro. «Non c’è più una linea di demarcazione tra politica estera e politica interna: ogni iniziativa che assumiamo nella nostra condotta all’estero, va presa con in mente le famiglie dei lavoratori americani», aveva detto, del resto, Biden nel suo primo significativo discorso dedicato alla politica estera. Sarà bene tenerlo a mente. Anche perché gli Stati Uniti (e qui Trump o Biden non fa molta differenza) hanno ormai rinunciato alla speranza che l’integrazione della Cina nei mercati internazionali e nelle strutture della governance globale trasformi il regime di Pechino aprendo la strada alle richieste di democrazia. Il tempo in cui ci si era illusi che la Cina avrebbe prima o poi accettato i principi dell’ordine liberale è passato e ora si tratta di far convivere potenze con sistemi politici agli antipodi.

DAGOREPORT il 30 agosto 2021. Biden nel fortino, Biden sotto attacco, Biden al minimo nei sondaggi. La vicenda Afghana ogni giorno assume connotati nuovi e indica responsabilità, dove "negligenze” fa rima con intelligence. Prima presi per il culo, poi legnati, infine sbattuti al muro, Biden e il suo sottosegretario di Stato Blinken, pur storditi stanno cercando di difendersi. E riavvolgendo il bandolo della matassa. Si sono insospettiti di molte stranezze e stanno indagando: c’è qualcosa che non torna nella catastrofe afghana. Ad esempio: perché il presidente Ashraf Ghani, considerato un fantoccio in mano americana, è stato il primo a scappare da Kabul per rifugiarsi ad Abu Dhabi, dove l’attendeva, reverentissimo ospite, lo sceicco degli Emirati Arabi, Mohammed Bin Zayed? Cronaca vuole che l’accordo tra Usa e talebani, condotto dal sottosegretario di Stato di Donald Trump, Mike Pompeo, sia avvenuto a Doha, capitale del Qatar, dove gli Usa hanno la più grande base navale del Medio Oriente (l’altra è nel Barheim). Ed notorio che tra l’emiratino Bin Zayed e lo sceicco qatarino, Tamim bin Hamad al-Thani non scorra buon sangue. Aggiungere infine che Pompeo non aveva informato della trattativa di Doha con i talebani il presidente Ashraf Ghani. Una volta tagliato fuori, il “fantoccio” afghano si era incazzato. Altro fatto strano: come mai all’indomani della fuga dell’ex presidente afghano Ashraf Ghani, il di lui fratello Hashamt Ghani Ahmadzai, ha giurato fedeltà ai talebani durante una cerimonia che si è tenuta nella capitale Kabul, davanti a Jalil al Rahman Haqqani, un esponente dei Talebani associato alla rete Haqqani? Ancora. Nel suo primo discorso, all’indomani della caduta di Kabul, Biden ha balbettato davanti alle telecamere di aver ricevuto dall’intelligence l’assicurazione che l’esercito afghano di Ghani sarebbe riuscito a mantenere l’ordine per almeno 8 mesi. E’ durato 8 minuti. Come mai? Il passaggio di consegne, tra le quali c’era l’accordo di Doha con i talebani, tra l’amministrazione di Trump e quella di Biden è avvenuto in maniera più che caotica con Donald che contestava la regolarità del voto. Insomma, non è avvenuto. Né si sa cosa abbia trattato nelle segrete stanze Pompeo. Insomma, a Biden e Blinken la catastrofe afghana puzza di bruciato….

Stefano Mannoni e Guido Stazi per “Mf- Milano Finanza” il 31 agosto 2021. Diceva Bismarck che i Balcani non valevano le ossa di un granatiere della Pomerania. Guardando le drammatiche immagini che provengono dall'aeroporto di Kabul, si sarebbe tentati di imputare al presidente degli Stati Uniti Joe Biden un'affermazione altrettanto cinica che parafrasa quella del grande statista tedesco: l'Afghanistan non vale le ossa di un marine americano. Gli attentati suicidi di Isis-K, la variante jihadista afghana che considera i talebani venduti agli americani, hanno massacrato decine di civili afghani e altri 13 marines che si aggiungono ai 2.400 americani morti dall'inizio dell'occupazione. La decisione di abbandonare il campo, costi quel che costi, e riportare a casa i soldati e i collaboratori deriva da quel sentimento. Ma la precipitosa evacuazione da Kabul richiama alla mente le immagini della fuga da Saigon: lo stesso elicottero Chinook che preleva in tutta fretta personale e profughi dai tetti dell'ambasciata in un clima da si salvi chi può. Impressione e similitudini forti, certo, ma sbagliate. Biden ha ragione: la guerra più lunga in cui gli Stati Uniti siano stati mai impegnati (vent' anni) va chiusa per non essere persa. A sostegno di tanta conclusione giunge innanzitutto la storia di quella tormentata regione. Gli europei da tempo hanno messo in soffitta la prospettiva storica, ma qualcuno in America non ha ritenuto di fare altrettanto. E a giusto titolo. Invaso dai persiani e poi dai macedoni; devastato dai mongoli; attraversato da eserciti britannici e sovietici l'Afghanistan ha sempre sostenuto la sfida. E' caduto ma si è risollevato accreditando la preveggente intuizione di un dignitario britannico secondo il quale quella terra «è come una scarpa che ferisce solo chi la porta: la potenza che occupa il Paese è anche quella contro cui la popolazione si solleverà». Gli inglesi ne sapevano qualcosa. Tre guerre combattute la prima delle quali, nel 1842, segnata da una orrenda disfatta delle gloriose armi inglesi all'insegna di un monito, formulato allora e ribadito oggi da un attento studioso di quelle popolazioni, Gastone Breccia: «Facile da conquistare, impossibile da controllare». E la vicenda di Enduring freedom, la missione Nato/Onu iniziata nel 2001 all'indomani degli attentati alle Torri gemelle, conferma la piena validità di questa diagnosi. Non importa quante vittorie sul campo si possano ottenere: il risultato netto sarà quello di vedersi sfuggire il target, come un pugno di sabbia dalla mano. Soprattutto quando una missione insegue obiettivi politici poco chiari: affrancarsi dal pericolo di Al Qaeda eliminando Osama Bin Laden? O esportare i valori occidentali e la democrazia? Perché se è così il primo scopo è stato raggiunto, il secondo no. Ed è su questo secondo obbiettivo che bisogna concentrare l'attenzione perché, ancora una volta, è la storia afghana a insegnare quanto attaccamento i gruppi tribali e le etnie provassero per valori tradizionali come, per esempio, la struttura strettamente gerarchica della famiglia e quanto quelle popolazioni siano ostili a ogni ipotesi di centralizzazione del potere politico. Sconfitta della politica dell'Occidente allora? Solo se si ritiene che Woodrow Wilson e il suo idealismo aggressivo sia ancora di attualità. E invece no, non lo è, persino per un presidente come Biden che con Wilson condivide l'affiliazione partitica. Il punto è che Biden ha dalla sua una permanenza in Senato che supera quella di Lyndon Johnson e anni di vice-presidenza degli Stati Uniti. La memoria storica non gli manca davvero e nemmeno l'esperienza. Il suo pragmatismo è in sintonia con la concezione realista delle relazioni internazionali che tiene conto dei rapporti di forza sul campo, senza avanzare la pretesa di assumere una progettualità etica ad alto rischio di danni diretti e collaterali. E la variabile umanitaria? Il realismo non la esclude affatto dal suo campo di osservazione. Solo la persegue senza pose pedagogiche e intolleranti di una situazione di fatto che non può essere ignorata. E che comunque ha consentito di porre in salvo oltre centomila persone in pochi giorni, nonostante il rischio incombente e purtroppo puntualmente realizzato di azioni terroristiche. E che questa sia la linea lo testimonia la presenza nella capitale afghana del direttore della Cia, William Burns, il quale si suppone proprio di questo si stia occupando; trattando direttamente con il nuovo capo dei talebani, Abdul Ghani Baradar, catturato dagli americani in Pakistan nel 2010 e rilasciato nel 2018 per trattare con la Cia le condizioni della fine delle ostilità e di uscita. Biden persegue con fredda determinazione, che a qualcuno, sbagliando, è sembrata goffaggine, l'obiettivo di riportare tutti gli americani a casa; obiettivo che il suo predecessore Donald Trump aveva perseguito e sancito con gli accordi di Doha del 2020 con i talebani, su cui nessuno aveva obiettato. Ma prima di Trump, Biden aveva contestato la politica di occupazione dell'Afghanistan di Bush jr.; e da vice presidente di Barack Obama sosteneva il ritiro dopo l'eliminazione di Bin Laden. Perse perché gli interessi che una volta venivano definiti il complesso militare industriale americano, il cui bilancio ha largamente beneficiato dei vent' anni di campagna afghana, prevalsero. Adesso è lui il Comandante in Capo e coerentemente se ne va, col consenso di due terzi degli americani e con la concreta possibilità di sgonfiare la bolla Trump già nelle elezioni di midterm del prossimo anno. Quanto agli europei e alle reazioni isteriche che si sono levate dalle capitali del Vecchio Continente, ebbene danno l'impressione di volere tacitare la cattiva coscienza di chi ha alzato i tacchi dal teatro bellico prima degli altri, cui è stato delegato di sciogliere la matassa. E benissimo fa Draghi ad elevare la mediazione politica sulla crisi afgana a livello globale, convocando il G-20 straordinario del settembre prossimo. Ma il valore della democrazia che fine fa in questo scenario, calpestata sulle piste polverose di un aeroporto? Orbene se di democrazia si vuole parlare, si tratti anche di quella degli americani, che a furore di popolo se ne vogliono andare da uno stillicidio di uomini e risorse senza fondo. Crocifiggere Biden per avere dato ascolto al suo corpo elettorale equivale a ipotecare in modo un po' ipocrita quel primato del governo attraverso il consenso popolare in nome del quale si voleva che (gli altri) continuassero a battersi.

Il discorso di Biden: «Afghanistan, è finita la guerra più lunga. Il ritiro? Un successo». E avverte l’Isis-K. Marilisa Palumbo il 31 agosto 2021 su Il Corriere della Sera. Sin dall’inizio di questa crisi è sempre sembrato provato ma ostinato, convinto di avere ragione, che fosse il momento di staccare la spina e mettere fine a 19 anni e 47 settimane di guerra afghana. Lo è stato anche davanti alla caduta di Kabul — che Washington non aveva saputo prevedere —, davanti alle insistenze degli alleati perché spostasse la data del ritiro oltre il 31 agosto, e davanti al lutto della morte di 13 soldati americani uccisi giovedì scorso da un kamikaze del l’Isis-K.

Afghanistan, la fine della «guerra più lunga». E lo è stato ancora di più ieri quando, dopo quasi 24 ore dall’annuncio da parte del capo dell’Us central command Frank McKenzie della partenza dell’ultimo soldato americano dall’Afghanistan, ha parlato al Paese dal podio della Casa Bianca. «Non avevo intenzione di prolungare questa guerra eterna. E non avevo intenzione di prolungare una uscita infinita», ha detto, rilanciando: «Devo pensare alle minacce del futuro, non a quelle del passato». La scelta di concludere questo conflitto, ha spiegato, segna «la fine dell’era delle grandi operazioni militari per cambiare altri Paesi». D’ora in poi le missioni dovranno avere «obiettivi chiari e raggiungibili». Deciso e apparentemente impermeabile alle critiche che gli sono piovute addosso dai repubblicani ma anche dai democratici, ha cominciato dalle spiegazioni, provando a rispondere punto per punto. L’evacuazione doveva partire settimane se non mesi prima: «Con tutto il rispetto non sono d’accordo», ha detto il presidente argomentando come una uscita massiccia dal Paese nel mezzo di una guerra civile e dell’avanzata talebana sarebbe stata forse ancora più caotica, e assicurando che l’invio dei seimila rinforzi era parte di un piano studiato in precedenza: «Eravamo pronti quando gli afgani hanno visto il loro governo collassare e il presidente scappare». La promessa di «restare finché non saranno tutti fuori», fatta appena pochi giorni fa durante una intervista televisiva, resta inevasa davanti ai circa 200 americani che non sono riusciti a scappare, ma il presidente ha assicurato che per chi vorrà «non c’è scadenza», «resta l’impegno a tirarli fuori se vogliono essere tirati fuori». E ha lodato lo «straordinario» successo dell’evacuazione, che ha portato a casa «il 90 per cento degli americani che lo desideravano», oltre 5500, e decine di migliaia di afghani: «Non una missione di guerra, ma una missione di misericordia». Conclusa grazie al «coraggio incredibile» di militari e diplomatici. Non poteva mancare l’omaggio ai caduti – proprio nel giorno in cui il Washington Post ha scritto dei momenti di grande tensione alla cerimonia per l’arrivo delle salme a Dover, con alcuni familiari incerti fino all’ultimo se incontrare il presidente ritenuto responsabile della morte dei loro cari. «Con voi non abbiamo finito», ha detto rivolgendosi all’Isis-K, che ha rivendicato quell’attacco. Ma a tutti quelli che in questi giorni e settimane hanno ripetuto che si poteva continuare come negli ultimi anni, con una presenza militare e delle perdite limitate, Biden ha risposto ricordando che l’accordo siglato a Doha dall’amministrazione Trump con i talebani cambiava tutto: se l’America non avesse tenuto fede alla promessa del ritiro gli attacchi dei talebani sarebbero ricominciati, e quindi la scelta vera era «tra andarsene e una escalation». E l’escalation non rispondeva all’«interesse nazionale» degli Stati Uniti: «Siamo andati lì per al Qaeda... abbiamo ucciso bin Laden dieci anni fa e decimato al Qaeda. Era il momento di finire questa guerra. Questo è un mondo nuovo dove il rischio terroristico è “metastatizzato”». «Devo difendere l’America - ha concluso — non dalle minacce del 2001 ma da quelle di oggi e di domani». Tra queste gli attacchi hacker e e le sfide rappresentate da Cina e Russia che «non vogliono altro che vederci impantanati per un altro decennio in Afghanistan». I prossimi giorni diranno se gli americani crederanno alla «versione di Joe», o se avrebbero preferito un presidente più umile e pronto ad ammettere (almeno) qualche errore.

Biden: "Ritiro la scelta giusta. Il ponte aereo un successo". Federico Rampini su La Repubblica il 31 agosto 2021. “La guerra più lunga è finita, ho mantenuto la promessa fatta agli americani di non mandare un’altra generazione sul fronte afghano. Abbiamo già chiesto troppo a quell’un per cento fra noi che portano la divisa. Non esistono guerre a bassa intensità e basso costo umano”. Joe Biden torna a parlare alla nazione, per ribaltare la narrazione sulla ritirata, mentre l’ultimo aereo militare Usa ha lasciato Kabul e i talebani cantano vittoria. Biden tenta di descrivere anche l’evacuazione come “un successo straordinario, il più grande ponte aereo che una nazione abbia mai organizzato per portare in salvo i propri cittadini e quelli di altri paesi, un’operazione in cui 13 eroi americani hanno perso la vita, e tanti altri militari, diplomatici, hanno rischiato la loro per aiutare altri”. Ricorda le circostanze drammatiche: “Donald Trump aveva promesso ai talebani di ritirare le truppe già entro il primo maggio, e aveva costretto il governo afgano ad aprire le prigioni liberando 5.000 combattenti. Quando sono diventato presidente io, i talebani erano già tornati al massimo delle loro forze dal 2001. In qualunque momento avessimo fissato l’evacuazione, o se avessimo cominciato il rimpatrio a giugno o a luglio, si sarebbe scatenata la stessa ressa, lo stesso panico verso l’aeroporto”. Stima che “il 90% dei nostri cittadini sia uscito”, che rimangano in Afghanistan tra i cento e i duecento americani, molti dei quali con doppia cittadinanza e forse intenzionati a rimanere, ma “per loro non c’è scadenza, li riporteremo a casa quando vorranno”. Ricorda che gli Stati Uniti e tutta la comunità internazionale hanno intimato ai talebani di rispettare la libertà di movimento e il diritto di partire. Biden difende la scelta strategica con un argomento già usato nelle ultime giornate: non c’era una via di mezzo. Ritirarsi oppure ricominciare un’escalation, e lui aveva promesso di non sacrificare altre vite per una guerra che doveva finire già molto prima. “Ho sempre assicurato che essendo il quarto presidente in questa guerra, non l’avrei passata a un quinto”. No a un conflitto a tempo indefinito, dopo che 2.400 soldati Usa hanno già perso la vita nella guerra più lunga. “Ci sono ragazzi ventenni che non hanno mai conosciuto un’America in tempo di pace”. Ripercorre la storia di questo conflitto anomalo: cominciò per dare la caccia a Osama Bin Laden e colpire i responsabili dell’11 settembre, ma questa precisa missione anti-terrorismo era già esaurita dieci anni fa, visto che Bin Laden fu ucciso nel 2011. Dopo, quale interesse vitale dell’America era in gioco in Afghanistan? Nessuno. Se Al Qaeda avesse avuto la sua base nello Yemen, di certo non saremmo andati a invadere l’Afghanistan. Prosegue la sua polemica contro i fautori spesso tardivi del “nation building”: nessuno è mai riuscito a costruire la nazione afghana. Difendere i diritti umani – garantisce Biden – resterà un principio guida della nostra politica estera, ma chi ha mai detto che il modo per farlo sia attraverso le guerre? E poi, spiega il presidente, il mondo è cambiato. Devo difendere la mia nazione dalle minacce del 2021, non da quelle del 2001. Il terrorismo rimane un pericolo, ma si è trasformato e si è allargato: continueremo a inseguirlo e a colpirlo, ma il modo migliore non è quello di immobilizzare migliaia di truppe sul suolo afgano. Dagli hacker alla cyber-guerra, sullo sfondo si stagliano i pericoli di oggi, a cominciare dalla Cina, che in questi vent’anni secondo Biden e la sua squadra ha goduto di una rendita di posizione: poteva risparmiarsi interventi militari facendo da parassita di una stabilità puntellata da truppe americane in giro per il mondo. Uno dei fili rossi che attraversano tutta la revisione strategica in atto a Washington è proprio questo: non è una versione di sinistra dell’isolazionismo, è la certezza che l’ultimo ventennio sia stato favorevole ad una formidabile accelerazione della Cina, proprio perché Pechino si è risparmiata avventure militari mentre Washington s’impantanava su teatri strategici secondari. “Dobbiamo imparare dai nostri errori. D’ora in avanti saremo concentrati su ciò che conta davvero per l’interesse nazionale e il futuro dell’America. E’ finita l’era delle grandi guerre per rifare nazioni”. 

Biden prova a difendersi e minaccia l'Isis: "Con voi la faremo finita". Valeria Robecco su Il Giornale l'1 settembre 2021. Fucile impugnato con la canna rivolta verso il basso, elmetto in testa, mimetica e anfibi con cui muove gli ultimi passi sul suolo afghano. È l'immagine in notturna del generale a due stelle Chris Donahue - Comandante della U.S. Army 82nd Airborne Division - che sale sul C-17, ultimo militare statunitense a lasciare l'Afghanistan dopo 19 anni, 10 mesi e 24 giorni di missione americana, il fotogramma consegnato alla storia con cui gli Usa archiviano la loro guerra più lunga. Conflitto terminato sulla base degli accordi stipulati da Donald Trump a Doha e attuati dal suo successore Joe Biden. «La guerra in Afghanistan è finita» dice il presidente parlando alla nazione e tentando di difendere le sue controverse scelte: l'evacuazione è stata «uno straordinario successo». Ma i repubblicani lo attaccano e viene duramente criticato anche da quelli che lo hanno sempre difeso, con i media liberal che lo accusano di «disastro morale». «Gli ultimi 17 giorni hanno visto le nostre truppe eseguire la più grande evacuazione aerea nella storia degli Stati Uniti, portando via oltre 124 mila americani, cittadini dei Paesi nostri alleati e afghani alleati dell'America. Lo hanno fatto con coraggio impareggiabile, professionalità e risolutezza», ribadisce invece Biden: «La scadenza del 31 agosto non era una data arbitraria, era per salvare vite americane. Tutte le scommesse sarebbero saltate se fossimo rimasti dopo». Poi ammette che «ci sono ancora 100-200 americani in Afghanistan», ma assicura che «per loro non c'è nessuna scadenza, li faremo uscire se vogliono uscire». Il segretario di stato Antony Blinken, da parte sua, garantisce che gli Usa restano impegnati, anche dopo il ritiro, ad aiutare tutti gli americani che vogliono lasciare il Paese. Ma nel frattempo conferma il ritiro della rappresentanza diplomatica da Kabul, trasferita a Doha, in Qatar. «Era il momento di porre fine a questa guerra. C'è un mondo nuovo e dobbiamo difendere gli Usa da nuove minacce, dobbiamo affrontare le sfide di questo secolo e la competizione con la Cina o la Russia» ripete invece Biden: «Mi prendo la responsabilità per tutte le decisioni prese. Non volevo continuare questo conflitto per sempre». E rivolto ai militanti dell'Isis-k, avverte: «Con voi non abbiamo ancora finito». Le sue parole non hanno tuttavia convinto i critici riguardo la gestione del ritiro. «Biden ha creato un disastro, abbandonando degli americani e i nostri interessi», ha denunciato la numero uno del partito repubblicano, Ronna McDaniel: «Questo prova quello che sapevamo già: Biden è incapace di servire come comandante in capo». «Ha abbandonato degli americani alla mercè dei terroristi», ha aggiunto il leader dei repubblicani alla Camera, Kevin McCarthy. Ma non sono solo gli avversari politici a criticare le mosse dell'inquilino della Casa Bianca. Anche il Washington Post, sempre piuttosto benevolo nei confronti del presidente, in un editoriale, ha definito la frettolosa e caotica ritirata da Kabul che ha lasciato indietro «migliaia di persone, compresi gli ex interpreti e le loro famiglie» un «disastro morale, attribuibile non alle azioni del personale militare e diplomatico, che è stato coraggioso e professionale di fronte a pericoli mortali, ma agli errori, strategici e tattici di Biden e della sua amministrazione». Per la Cnn, invece, «il trauma delle due settimane dopo la caduta di Kabul ha già lasciato un segno indelebile sulla presidenza di Biden e sulla reputazione dell'America tra i suoi alleati». «Lui può vantare di avere avuto il coraggio di porre fine a una guerra che era stata persa da tempo - ha proseguito l'emittente di Atlanta - ma i suoi errori di calcolo hanno permesso ai repubblicani di costruire una narrativa che porteranno fino alle elezioni di Midterm del prossimo anno».

Joe Biden, Afghanistan addio: "Con l'Isis non abbiamo finito". Poi indica i veri nemici: Cina e Russia. Libero Quotidiano l'1 settembre 2021. La vera minaccia per Joe Biden non arriva dai talebani o dall'Isis-K, ma da Vladimir Putin e Xi Jinping. Nel suo discorso alla Casa Bianca dopo il ritiro dell'ultimo soldato americano dall'Afghanistan, il presidente degli Stati Uniti esce allo scoperto con una schiettezza che rischia di far saltare il banco della diplomazia mondiale. "Non avevo intenzione di prolungare questa guerra eterna. E non avevo intenzione di prolungare una uscita infinita - ha spiegato Biden al Paese -. Devo pensare alle minacce del futuro, non a quelle del passato". Ecco il punto: l'uscita di scena dal pantano afghano rappresenta un cambio di scenario per il mondo intero. È "la fine dell’era delle grandi operazioni militari per cambiare altri Paesi". Insomma, se sarà ancora "guerra al terrore" sarà di certo con operazioni limitate e "obiettivi chiari e raggiungibili". Sotto accusa per il caos generato dalla fuga precipitosa da Kabul, il leader democratico ribatte parlando di "straordinario successo" dell'evacuazione. Duecento americani sono rimasti in Afghanistan, ma "il 90% degli americani che lo desideravano" (5,500 persone) è tornato a casa anche grazie al "coraggio incredibile" di militari e diplomatici. Il vero punto però è sui nuovi "nemici" degli Usa. Certo, i terroristi dell'Isis che hanno provocato la strage all'aeroporto, con 13 soldati americani morti e oltre 170 vittime civili tra gli afghani. "Con voi non abbiamo finito", ha minacciato nuovamente il presidente. Era impossibile però rimanere ancora a Kabul perché se si fossero disattesi gli accordi di Doha sul ritiro si sarebbe rischiata una nuova sanguinosa guerra sul campo. "La scelta vera era tra andarsene e una escalation - avverte Biden -. Siamo andati lì per al Qaeda... abbiamo ucciso bin Laden dieci anni fa e decimato al Qaeda. Era il momento di finire questa guerra. Questo è un mondo nuovo dove il rischio terroristico è metastatizzato. Devo difendere l’America non dalle minacce del 2001 ma da quelle di oggi e di domani". Che si chiamano Cina e Russia: "Non vogliono altro che vederci impantanati per un altro decennio in Afghanistan".

Biden prova a voltare pagina. Ma ora i segreti di Kabul imbarazzano il presidente. Valeria Robecco il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Joe Biden volta pagina dopo la fine della guerra in Afghanistan. Joe Biden volta pagina dopo la fine della guerra in Afghanistan. «È ora di guardare al futuro, non al passato, a un futuro più sicuro e che onori quelli che hanno servito il nostro Paese», afferma il presidente americano in un post su Facebook in cui ribadisce come fosse giunto il momento di chiudere i 20 anni di missione. Nel suo discorso alla nazione il comandante in capo ha ricordato che ora «dobbiamo affrontare le sfide di questo secolo, e la competizione con la Cina o la Russia»: proprio Mosca torna al centro dell'agenda di politica estera della Casa Bianca, dove Biden ha visto il collega ucraino Volodymyr Zelensky. Un incontro in cui il presidente Usa ha ribadito il fermo sostegno di Washington a Kiev, annunciando un nuovo pacchetto di assistenza alla sicurezza dell'Ucraina di 60 milioni di dollari. L'obiettivo, spiegano a Pennsylvania Avenue, è contrastare le provocazioni al confine della Russia, che continua ad occupare la Crimea. Per quanto riguarda il contraccolpo politico interno, invece, Biden confida nel fatto che con il tempo l'impatto della decisione di porre fine alla guerra superi gli effetti negativi della caotica ritirata da Kabul. Ad ora, secondo un sondaggio del Pew Research Center, per il 54% degli intervistati lasciare l'Afghanistan è stata la mossa giusta, ma solo il 27% crede che l'amministrazione Usa abbia fatto un buon lavoro nel gestire la situazione. Per diversi osservatori, tuttavia, nel lungo periodo saranno il controllo della pandemia e la ripresa dell'economia i fattori cruciali nel determinare il successo o il fallimento dell'agenda. Intanto, un drammatico appello arriva da Kabul attraverso le pagine del Wall Street Journal: «Buongiorno presidente, salvi me e la mia famiglia. Non si dimentichi di me qui». A lanciarlo è l'interprete afghano che nel 2008 aiutò l'allora senatore Biden bloccato in una remota zona del Paese: Mohammed, che chiede di non riportare il suo nome completo per motivi di sicurezza, non è stato evacuato, e con la moglie e i quattro figli si sta nascondendo dai talebani dopo che i suoi tentativi di uscire dall'Afghanistan sono rimasti incagliati nella burocrazia. «Lo tireremo fuori, onoreremo il suo servizio», commenta la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki. Mohammed era interprete per l'esercito Usa nel 2008, quando due elicotteri militari hanno effettuato un atterraggio di emergenza in Afghanistan durante una tempesta di neve: a bordo c'erano tre senatori, Biden, Kerry e Hagel. Fondamentale è stato il suo aiuto per garantire la sicurezza dei tre. Nei mesi scorsi la sua domanda di visto è rimasta bloccata e dopo la presa di potere da parte dei talebani ha tentato la fortuna recandosi all'aeroporto, dove è stato respinto dalle forze statunitensi: lui poteva entrare, ma non moglie e figli. Nel frattempo, è stato pubblicato il contenuto dell'ultima chiamata tra Biden e l'ex presidente afghano Ashraf Ghani, il 23 luglio scorso. Secondo una trascrizione ottenuta da Reuters, il comandante in capo ha fatto pressioni sul collega per creare la «percezione» che i talebani non stessero vincendo. «La percezione in tutto il mondo e in alcune parti dell'Afghanistan è che le cose non stiano andando bene in termini di lotta contro i talebani - ha detto il presidente - c'è bisogno di proiettare un'immagine diversa». Il suo tono - spiegano i media - fa pensare che non si aspettasse per nulla il crollo del governo di Ghani meno di tre settimane dopo. Valeria Robecco 

Afghanistan: la fine della prima guerra infinita. Piccole Note il 31 agosto 2021 su Il Giornale. I talebani hanno annunciato che la guerra è finita. Una banale registrazione di un dato, che però banale non è perché la guerra afghana era stata immaginata come una guerra infinita, anzi il primo capitolo delle guerre infinite post 11 settembre. Una nuova modalità di conflitto, mai sperimentata prima, che serve anche ad alimentare all’infinito l’apparato militar-industriale americano e a porlo al centro della scena politica insieme alla Tecno-finanza, alla quale è legato da vincoli indissolubili, erodendo sempre più il ruolo della Politica. Così aver posto fine alla guerra infinita apre prospettive, sia nei rapporti di forza interni all’Impero che per la sua proiezione globale, dato che riguarda gli altri conflitti aperti dagli Usa in questi anni, al momento sopiti, ma che possono riaprirsi. Per questo la dichiarazione che la guerra è finita è tanto dirompente e per questo si sta facendo di tutto per evitare che il passaggio di consegne in Afghanistan proceda con relativo ordine e come da accordi intercorsi (vedi nota precedente). A questo serviva anche la strage di Kabul, alla quale abbiamo dedicato una nota nella quale si riferiva della bizzarra intervista della Cnn al leader dell’Isis afghano, il quale preannunciava l’attentato.

Il Gate lasciato aperto. Ad accrescere il mistero sull’eccidio di Kabul, il fatto che il Comando dell’esercito degli Stati Uniti sapeva dell’attacco e, in una riunione riservata, aveva individuato l’Abbey Gate, dal quale si accedeva all’aeroporto, come il sito a “più alto rischio” (The Guardian). Aveva anche pianificato di chiudere tale accesso giovedì pomeriggio, cioè quando si è verificato l’attentato, ma l’avrebbe lasciato aperto per consentire l’evacuazione del personale britannico. Tutto questo è stato documentato da un’inchiesta di Politico, che si è attirato le ire dell’esercito Usa perché avrebbe rivelato del materiale sensibile, mettendo a rischio la sicurezza di non si sa bene chi. I britannici hanno negato di aver fatto richieste in tal senso, ma è un particolare di poco conto: quel che conta è che quell’ingresso doveva essere chiuso ed è rimasto aperto, consentendo all’attentatore di mischiarsi alla folla e di aumentare così al parossismo la portata dell’eccidio.

Le vittime collaterali che non interessano a nessuno. Un errore di valutazione, per fare un’ipotesi come un’altra, come un errore di valutazione ha viziato il successivo attacco di un drone Usa a una cellula di attentatori. Attacco “riuscito” secondo le prime dichiarazioni ufficiali che hanno fatto arrabbiare molte persone. Tra queste, i superstiti della famiglia Ahmadi, che il raid ha falcidiato: dieci i morti di questa famiglia, tra cui sei o sette bambini, di cui due di due anni. Così citiamo Roberto Benigni, che ieri ha pianto le “mamme che gettano i bambini oltre il filo spinato” dell’aeroporto perché siano portati via dal Paese, concludendo: “Anch’io ho il desiderio di gettare il mio cuore oltre il filo spinato quando vedo quelle immagini, perché riguardano me: io sono loro, io sono quel bambino, io sono tutte le facce del Cristo”. Anche questi bambini, uccisi in un’azione a dir poco rozza, hanno le facce di Cristo, ma di loro non interessa nulla a nessuno. Sono solo vittime collaterali, non fanno parte della tragedia afghana che interessa i media. Né, come scrive, The Intercept, ci sarà una seria indagine “sull’incidente”, per appurare anche se sia vera la seconda versione ufficiale, secondo la quale sono morti a causa dell’esplosione degli ordigni trasportati dalla cellula terrorista. Anche perché, nonostante spesso i militari Usa pubblichino i video degli attacchi riusciti, non si sa se verrà reso pubblico il video di questa azione, come da risposta che l’esercito ha dato alla richiesta specifica di Intercept. D’altronde non sono altro che le più recenti vittime collaterali delle bombe Usa, che, come scrive The Intercept:  “Hanno ucciso un gran numero di civili […] hanno colpito famiglie che viaggiavano in auto e autobus, feste di matrimonio, ospedali pieni di pazienti e gruppi di contadini che lavorano nei campi”. Uno stillicidio quotidiano che il liberale Ron Paul commenta così: “Gli interventisti amano fingere di interessarsi alle ragazze e alle donne in Afghanistan, ma in realtà è solo un disperato tentativo per perpetuare i 20 anni di occupazione statunitense. Se ce ne andiamo, dicono, le ragazze e le donne saranno discriminate dai talebani. In realtà, è difficile immaginare una discriminazione peggiore dell’essere inceneriti dall’attacco di droni”… Non si tratta di sminuire i rischi del futuro, ma di essere coscienti anche degli orrori del passato, a cui la conclusione della guerra ha posto (forse) fine.

Trump – Biden: convergenze parallele. Ma i falchi Usa stanno facendo di tutto per tornare nel Paese, come evidenzia anche il duro intervento del generale  HR McMaster, già Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, che subito dopo l’attentato ha incolpato i talebani (Newsweek). Per fortuna è rimasto isolato, ma, dato che tali accuse senza fondamento ricalcano una dinamica usuale dei falchi Usa, McMaster potrebbe rivelarsi un apripista di operazioni simili in futuro. Per fortuna i falchi sono in “declino”, come scrive David Druker sul Washington Examiner, il quale lamenta che Trump ha cambiato il volto dei repubblicani, emarginando i guerrafondai. Tanto è vero che, pur criticando le modalità del ritiro, nessuno di loro (tranne due) ha chiesto di rimanere in Afghanistan. Così Dana Milibank può scrivere sul Washington Post che “Biden ha perseguito un’agenda sorprendentemente trumpiana”. Tale la convergenza parallela dei due presidenti, con polemiche accese motivate più che altro dalle future elezioni di midterm. Sul cosa fare in futuro, rimandiamo a un’intervista molto intelligente di Ian Bremmer per la Stampa, che spiega come sarebbe un errore isolare i talebani, in cambio ovviamente di garanzie, e che è necessario un “approccio multilaterale” che coinvolga Cina e Russia. Un’idea suggerita da Mario Draghi che ha lanciato l’ipotesi di un G-20 (1), ma che sembra per ora andata in fumo, per usare un’immagine suggestiva suggerita dal rogo che ha consumato un grattacielo a Milano. 

(1) Possibile un imput americano – e certo un placet – sull’atlantista Draghi, ché certo Biden non poteva dire all’America, dopo il disastro, di essere aperto a un aiutino da parte di Russia e Cina… doveva muoversi qualcun altro per lui. E che fosse  (sia?) un’ipotesi seria lo dimostra la visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Roma.

Biden dichiara la fine dell'era delle guerre infinite. Piccole Note l'1 settembre 2021 su Il Giornale. Il discorso alla nazione che Biden ha tenuto ieri è stato sbertucciato un po’ ovunque sui media. La critica più blanda è che sia stato un’accozzaglia di banalità senza costrutto, mentre per tanti non avrebbe risposto alle critiche sul ritiro dall’Afghanistan ed eluso in maniera riprovevole le tante domande poste sull’accaduto. In realtà, il discorso di Biden è stato uno dei più importanti e più coraggiosi mai tenuti da un presidente degli Stati Uniti, almeno tra quelli diretti al popolo americano, quelli più istituzionali, nei quali l’Imperatore parla al mondo. Coraggioso non solo perché ha difeso a spada tratta il ritiro dall’Afghanistan, ma perché ha dichiarato finita la guerra infinita, ben sapendo che queste parole sarebbero riecheggiate come una sfida al Potere occulto, quello vero, che ha grande influenza sull’apparato della Sicurezza (intelligence ed esercito) e sulla Tecnofinanza, e che ha imperversato nel mondo dal ’68 ad oggi. prendendo saldamente le redini del potere imperiale nel post 11 settembre, quando, profittando del Grande attentato, ha preso in mano tutto il potere degli Stati Uniti d’America e lo ha scagliato contro il mondo. Tale la hubrys dei neocon americani, i quali, nati in seno alla sinistra, si sono riversati nel partito repubblicano portando in esso l’idea di rivoluzione. Così che la politica estera americana è diventata rivoluzionaria, da cui l’interventismo massivo, l’antiterrorismo militante (che ha alimentato il Terrore globale), le rivoluzioni colorate etc. Proprio tale genesi progressiva ha fatto sì che tale ambito abbia avuto una sponda progressista, tanto che l’ala liberal dei democratici, dei quali Hillary Clinton è stata icona, nelle sue prospettive globali fosse indistinguibile dai neocon.

Le armonie nascoste. Un potere trasversale che non poteva essere arginato se non da un altro potere trasversale, così che alle elezioni del 2016 trovò il contrasto, a livello politico, nel combinato disposto Sanders – Trump, non per nulla accomunati dalla stampa consegnata alla narrazione neocon come populismi. Un asse che si è riproposto alle ultime elezioni e nel corso della presidenza Biden, con Sanders e Obama che hanno portato sugli scudi l’anziano vice di Obama e l’hanno aiutato a formare l’amministrazione emarginando i liberal, come evidenzia il ruolo ancillare al quale è stata relegata, al momento, la Vice Kamala Harris. Asse che ha in Trump, appunto, il suo supporto antagonista, con l’ex presidente che è riuscito nel capolavoro di emarginare a sua volta i neocon, ingaggiando con essi una lotta durissima, che ha avuto nella detronizzazione della figlia del guerrafondaio Dick Cheney, cacciata dal suo ruolo di speaker dei repubblicani alla Camera, il suo momento più simbolico. Così Dana Milibank ha potuto scrivere sul Washington Post che “Biden ha perseguito un’agenda sorprendentemente trumpiana”, anche se questa è una mezza verità: in realtà tale armonia nascosta era già prima, con Trump che era riuscito a fare quel che a Obama era stato negato dallo strapotere neocon, cioè a frenare l’aggressività Usa nel mondo.

Gli interventi militari massivi appartengono al passato. Così riportiamo dal New York Times: Biden “ha detto che non farà interventi armati che richiedano grandi schieramenti di truppe, preferendo invece una strategia guidata più dalla competizione economica e dalla sicurezza informatica con Cina e Russia e focalizzata a contrastare le minacce usando la tecnologia militare, che consente di attaccare i terroristi evitando di dispiegare truppe sul terreno al modo dell’Afghanistan”. “Biden l’ha definita una ‘nuova era’ dell’uso del potere americano, un’era nella quale gli Stati Uniti non cercheranno più di rimodellare i Paesi rivali […]. “il mondo sta cambiando”, ha detto Biden, e la leadership americana deve cambiare esso”. Retorica a parte, il discorso di Biden apre una nuova prospettiva. Peraltro anche nel rapporto con Russia e Cina, nei confronti dei quali si apre un’era di competizione tra potenza, come suggerito da tanti analisti Usa. Viene cioè a decadere la prospettiva dei neocon che vedeva in Russia e Cina degli ostacoli all’Unica potenza globale e, come tali, da abbattere anche a costo di una guerra globale. Una prospettiva, quest’ultima, che abbiamo definito opzione apocalisse e che, seppure mai messa in pratica, è stata brandita più spesso di quanto si immagini, portando il mondo più volte sull’orlo della catastrofe.

Biden, il democristiano. Certo, quelle di Biden sono solo parole, ma il ritiro dall’Afghanistan, e la difesa strenua di tale decisione, sono fatti. Non vuol dire che non ci saranno più guerre, né che il futuro sarà necessariamente più roseo del recente passato. Ma che la follia neocon, volta alla destabilizzazione globale, il caos creativo che avrebbe forgiato il nuovo mondo, ha trovato un freno reale, un katekon, per citare la parola cristiana  usata per l’apocalisse. La Politica ha ripreso, anche se solo in parte, il suo posto alla guida del mondo, così com’era prima della follia esoterica neocon, sempre che Biden riesca a perseverare sul cammino intrapreso (i presidenti Usa sono sempre a rischio). Da ultimo, ci si consenta una digressione di colore, suggerita dalla religione cattolica del presidente, il secondo dopo JFK (a proposito di presidenze sfortunate). La modalità con cui Biden si sta muovendo ricorda molto quel centrismo prudente e realistico, ma fermo sui principi, dispiegato in Italia dagli esponenti della democrazia cristiana (ricordo, sul punto, che a definire Obama un democristiano fu l’acuta Maria Giovanna Maglie per Dagospia, in una nota che purtroppo non ritroviamo). Ecco la Dc, distrutta in Italia dai neocon de’ noantri e dai poteri a questi ancillari, perché eretica rispetto ai dogmi atlantici (la famosa anomalia italiana), sembra essere rinata, con tutte le distanze e differenze del caso, oltreoceano, riuscendo a esprimere addirittura un imperatore. 

Joe Biden sulla fine della guerra e il ritiro da Kabul: “uno straordinario successo”. Il presidente USA si prende "tutte le responsabilità per la decisione" che dice ha "salvato vite americane" ma resta il dubbio sul prezzo politico da pagare. Massimo Jaus il 31 Agosto 2021 su lavocedinewyork.com. Addio Kabul. Dopo 20 anni è calato il sipario sul teatro di guerra afghano. Un’altra guerra inutile, un’altra guerra persa, questo il riassunto dei commenti sui maggiori giornali americani che sintetizzano come sia stata giusta la decisione del ritiro, ma pessima l’esecuzione. Da capire ora che questo capitolo si è chiuso quale sarà il prezzo politico che il presidente Biden dovrà pagare. E’ ancora presto per percepire quali saranno le conseguenze elettorali della vicenda, non solo per il frettoloso ritiro, ma anche per la rinata minaccia che l’Afghanistan torni ad essere il paese di accoglienza dei nemici degli Stati Uniti. “Io non ho voluto continuare per sempre una guerra – ha detto Biden parlando alla Nazione – la nostra è stata una evacuazione di misericordia non una operazione di guerra. Uno straordinario successo. La scadenza del 31 agosto per il ritiro dall’Afghanistan non era una data arbitraria ma una data per salvare vite americane” ha aggiunto il presidente. “Di fronte all’avanzata dei talebani avevamo due scelte: o seguire gli accordi fatti dal mio predecessore, o inviare altre migliaia di soldati in una nuova escalation militare. Dopo 20 anni era ora di mettere fine alle operazioni militari. C’è un mondo nuovo e dobbiamo difendere il Paese da nuove minacce. La nostra strategia deve cambiare. Non avevamo bisogno di continuare una guerra di terra. Il mondo sta cambiando – ha spiegato Biden – dobbiamo affrontare le sfide di questo secolo e la competizione con la Cina o la Russia, continuando a combattere il terrorismo. Ci sono ancora 100-200 americani in Afghanistan e per loro non c’è nessuna scadenza. Li faremo uscire se vogliono uscire”. Edward Luce, analista di politica estera sul Financial Times scrive “Non esiste un modo elegante per uscire da una guerra che hai perso”. E per questo Joe Biden sta cercando di fa capire agli americani che 20 anni di guerra non si possono far pagare ad un presidente in carica da 8 mesi. Ma questa guerra in Afghanistan è ancora tutta da capire. Un blitz lanciato dagli Stati Uniti per catturare l’ideatore degli attentati dell’11 settembre, trasformato poi in una guerra di occupazione senza obiettivi specifici con la presunzione di trasformare una società teocratica tribale con regole millenarie in una democrazia. Dopo la morte di 2 mila e 600 soldati americani, il ferimento di altri 20 mila militari, l’uccisione di centinaia di migliaia di persone, miglia di miliardi di dollari buttati al vento il conto viene ora portato a Joe Biden. “La caduta di Saigon nel 1975 non ha insegnato nulla – sostiene l’Atlanta Journal Courier – tenere in piedi un governo fantoccio e corrotto che alla prima occasione fugge o si arrende al nemico non può essere una sorpresa per nessuno”. I timori restano specie dopo il video che mostra come gli uomini legati ad Al Qaeda siano nuovamente nell’orbita dei talebani. In un video della Bbc viene ripreso Amin-ul-Haq, ex capo della sicurezza di Osama bin Laden. Al suo rientro nella sua provincia d’origine di Nangarhar, al confine con il Pakistan accolto con entusiasmo da alcuni abitanti del posto. I repubblicani attaccano: “Biden ha abbandonato 200 americani a Kabul” tuona Kevin McCarthy il leader della minoranza repubblicana alla Camera. Si deve prendere le sue responsabilità”. “Ha creato un disastro, abbandonando degli americani e i nostri interessi”, ha denunciato la presidente del Gran Old Party, Ronna McDaniel, che ha accusato Biden “di essere un incapace di servire come commander in chief, gli Stati Uniti e il mondo sono meno sicuri a causa sua”, ha aggiunto. Il congressman Andy Biggs, chair del Freedom Caucus se l’è presa con Nancy Pelosi. La trumpiana Lauren Boebert vuole mettere sotto impeachment Biden, Kamala Harris e il segretario di Stato Blinken. Altri repubblicani dei Freedom Caucus, invece, se la prendono con i loro stessi compagni di partito. Le elezioni di Mid Term ci saranno tra un anno e questa vicenda inevitabilmnte avrà il suo peso politico nelle decisioni dell’elettorato. Secondo l’opinione di Matt Bai pubblicata dal Washington Post la situazione per Joe Biden non è così compromessa come i repubblicani cercano di dipingerla. “John Kennedy – scrive Bai – è sopravvissuto al disastro della Baia dei Porci, Ronald Reagan al massacro dei 200 Marines a Beirut che, al contrario di Biden, aveva deciso lui di impiegare. Bill Clinton all’uccisione dei 18 Marines in Somalia. Eppure sono sopravvissuti al giudizio dell’elettorato”. Infatti nelle elezioni di Mid Term del 1962 i democratici nonostante il fallito sbarco a Cuba conquistarono 4 seggi al Senato, ne persero uno alla Camera, mantenendo ugualmente la maggioranza. Anche Ronald Reagan sopravvisse nel 1984 alla strage di solati in Libano avvenuta l’anno precedente. Nelle elezioni di Mid Term perse 2 seggi al Senato mantenendo ugualmente la maggioranza. Il giorno dopo l’addio molto spazio vien dedicato a Chris Donahue, il comandante della 82a divisione aviotrasportata, ultimo soldato americano a imbarcarsi sull’ultimo volo dall’Afghanistan. La sua foto è diventa l’immagine della fine di una guerra durata vent’anni.

Massimo Jaus, romano e tifoso giallorosso. Negli Stati Uniti dal 1972. Giornalista professionista dal 1974. Vicedirettore del quotidiano America Oggi dal 1989 al 2014. Direttore di Radio ICN dal 2008 al 2014. E’ stato corrispondente da New York del Mattino di Napoli e dell’agenzia Aga. Sposato, 4 figli. Studia antropologia della musica alla Adelphi University.

Andrea Nicastro per corriere.it l'1 settembre 2021. Non bastano le foto parallele degli elicotteri in fuga dai tetti delle ambasciate: Kabul 2021 non è Saigon 1975. Allora gli Stati Uniti persero un pezzo di mondo che avrebbero voluto tenere fuori dalla sfera d'influenza comunista. Oggi, con l'Afghanistan, perdono poco o nulla. Anzi, a lasciare la patata bollente talebana potrebbero persino guadagnarci. Washington non è stata sconfitta ma ha voluto perdere. Il piano, secondo questa tesi, non era, ovviamente, di ritirarsi con i terroristi alle calcagna e gli islamisti ad esultare. L'esecuzione è stata caotica e tragica, eppure il progetto di perdere ha una sua ratio. Impronunciabile, lontana dall'idea di potenza buona che gli americani hanno di sé, ma valida per logorare i veri avversari dell'egemonia Usa: non i talebani o l'Isis-K, ma la Cina, la Russia e, in misura minore, l'Iran. Ai negoziati di Doha del 2020, Washington aveva già messo in conto di lasciare l'Afghanistan ai talebani (seppure con trattative e non con una conquista). Erano chiare fin da allora due conseguenze di quel patto: 1) che con i mullah al governo le conquiste democratiche sarebbero state in pericolo e 2) che Pechino e Mosca fossero preoccupate di trovarsi come vicino il nuovo Emirato. Perché? Le mitiche risorse minerarie afghane, tutte da verificare dopo rilievi che risalgono a quasi mezzo secolo fa, sono sottoterra, costose da estrarre e da esportare. Non fa gola neppure il mercato del settimo Paese più povero al mondo, senza infrastrutture e pieno invece di analfabeti, droga e armi. L'unica concreta «ricchezza» afghana sono i terroristi. Combattenti addestrati dai talebani arrivano regolarmente in Xinjiang, la provincia musulmana cinese, e nelle ex repubbliche sovietiche ancora legate a Mosca. Per spegnere la rabbia islamista ci vorrebbe stabilità e crescita economica. Gli Usa hanno speso 100 miliardi l'anno per 20 anni senza riuscirci. Se ora saranno risorse cinesi e russe a finire nel buco nero afghano, per Washington questo ritiro si rivelerebbe una (sporca) vittoria.

Domenico Quirico per “La Stampa” l'1 settembre 2021. Siamo ormai diventati fratelli separati dal terribile intreccio afghano di circostanze guerrigliere, dolori, invocazioni di aiuto, e sangue fotografato. Abbiamo abbandonato il nostro solo capitale laggiù, ovvero i giusti superstiti che avevano creduto nelle nostre belle bugie. Gli analisti del disastro già si accomodano per inutili e comode autopsie. Diciamolo adesso che siamo andati via: l'Afghanistan non ci piace, ci salta addosso, vuole montarci in groppa con i rimorsi per quello che non abbiamo fatto e potevamo fare, e schiantarci con la vergogna di una inimmaginabile sconfitta. Abbiamo trattato i taleban come se fossero gramigna facile da estirpare con un mignolo e invece Noi, stagionati dell'Occidente, li abbiamo sempre guardati, gli afghani, con arroganza più che con propositi di fatica e di assistenza. Lo sventurato poi che si fa migrante diventa immediatamente meno simpatico. Per questo sono già in azione le tartuferie dello zoo ideologico di oltreoceano, quelli che amano rintronarsi delle stesse parole. Per esempio: i taleban litigheranno, sono divisi una guerra civile, mullah pantofolati contro sansepolcristi forsennati del jihad, e la irrazionalità pasticciona di leader totalitari ci regaleranno la «revanche». Oppure: imbocchiamo dopo le cannonate la via diplomatica, ovviamente in accordo con alleati europei e Onu, tornati di moda. In fondo cosa sono venti anni? Insomma la scatola con dentro le stesse cose rivoltate: rinvii, mezze ansie e soluzioni di segatura. Soprattutto, farfuglia un riverito studioso che già mise a verbale la fine della Storia, dal ritiro americano non risulteranno conseguenze geopolitiche di rilievo. State quieti: l'Afghanistan è un niente. Si rilasciano certificati di buona condotta passata, presente e futura. E gli afghani? Non li sentiamo, non li afferriamo, immobili, come pietrificati in una già sfocata fotografia. Ne abbiamo per qualche giorno esaltato i lineamenti prima di confinarli opportunamente nella penombra. Rischiamo ci sfugga il filo conduttore, l'onda d'urto della umiliazione afghana. È con questo che dovremo fare i conti via via che l'esplosione di quanto è accaduto a Kabul, la sconfitta dell'Occidente, allargherà i suoi cerchi geografici svelandoci le conseguenze. Perché quelli a cui gli sbagli restano appiccicati addosso, per cui non c'è né revisione né seconde stesure, hanno visto la umiliazione americana, la fuga di notte, le armi abbandonate. In quel mondo tutto ciò si chiama sconfitta, non ritirata. E vedere, in quelle realtà, conta e lievita più che le analisi del Nyt. L'onda d'urto: perché Kabul non è né un inizio né una fine ma un punto intermedio di un periodo che appare vicino al fulcro della Storia di oggi, quando ogni cosa, ogni possibile futuro è ancora in molti altri luoghi in bilico. La impossibile vittoria del jihadismo nazionalista basata sulla pazienza verrà osservata e giudicata da occhi diversi da quelli nostri, originari del potentissimo Occidente. Da chi ha in comune non qualcosa di semplicistico che un tempo chiamavamo visione unitaria da terzo mondo, ma una conoscenza diretta di ciò che vuol dire essere deboli, una certa consapevolezza di come ci si sente a stare lì, in basso, alzando gli occhi per vedere l'eterno tallone che cala su di te. In questo vasto mondo formato da popoli di lunga agonia la sconfitta americana determinerà deduzioni gonfie di promesse: Washington non è più quella dell'ordine americano, adesso si succede al timone della Casa Bianca una sfilata di capitolardi, espressione di un integralismo diventato vecchio, smussato, infrollito. La rassegnazione dei super-potenti a occuparsi solo degli affari propri non è la più redditizia delle occasioni storiche da sfruttare? Per gli integralisti che vanno in guerra contro l'attualità armandosi di sanguinosi e ciechi assoluti in fondo l'Afghanistan non cambia molto: porteranno avanti le loro guerre senza darsi troppi pensieri su cosa convenga fare o non fare, con una immoralità perfetta. La lezione afghana sarà decisiva soprattutto per coloro che finora tentennavano, il vasto mondo che detesta l'Occidente potente, tracotante nell'affermarsi il migliore, maleducato. Inizieranno a immaginare un mondo senza di noi, la Storia riparte quando gli imperi abbassano le serrande perché non hanno più i mezzi per monopolizzarla. E poi ci sono gli eversori che hanno poltrona in tutti i «G» dei grandi, che non esercitano una attività omicida artigianale ma con efficienza multimilionaria, sorretti dalla buona parola, la Russia e la Cina. Si chiedono, golosi: chi non ha lottato per Kabul o Aleppo perché dovrebbe sacrificarsi per l'Ucraina o Taiwan?

 Carlo Pizzati Chennai per “La Stampa”  l'1 settembre 2021. Il saggista olandese-britannico Ian Buruma è un'autorità di culture orientali e geopolitica. Tra i suoi libri, come «A Japanese Mirror» e «Occidentalismo», ha pubblicato ora «The Churchill Complex» indagine sullo spirito bellico della fratellanza anglo-americana. Lo intervistiamo per capire come la ritirata degli Stati Uniti dall'Afghanistan può mettere in crisi il modello occidentale nel mondo.

Perché il famoso «nation building», la costruzione di una nazione democratica, ha fallito così miseramente in Afghanistan dopo 20 anni?

«Non sono sicuro che gli americani siano mai stati davvero dediti al "nation building". George W. Bush fece invadere l'Afghanistan per punire i talebani e al-Qaeda e andarsene. Ma gli americani rimasero incastrati. E siccome non amano sentirsi imperialisti, si parlò subito di "costruire la democrazia". Non so quanto serio sia stato quello sforzo».

Quali sono le possibili alleanze geopolitiche dei taleban ora?

«La Cina vorrà più influenza per fermare gli uiguri, la Russia cercherà di aumentare il suo peso, ma dubito ci riuscirà. Il Pakistan resterà l'alleato principale, con il problema che senza gli americani sarà più vulnerabile all'estremismo violento interno».

L'ex capo dell'Isi, il servizio segreto pakistano, Hamid Gul, che poi si unì ai taleban, ha detto: «Abbiamo sconfitto l'Unione Sovietica con l'aiuto dell'America e un giorno il mondo dirà che abbiamo sconfitto l'America con l'aiuto dell'America». È così?

«Si può dire che l'iniziale sostegno americano ai taleban, tramite il Pakistan, alla fine ha sconfitto l'America. Ma è una sconfitta militare del governo afghano, non degli Usa, perché sono gli americani che hanno deciso d'andarsene, sfumatura che spesso non si coglie. L'America non ha perso la guerra del Vietnam: ha ritirato le truppe dal Sud del Vietnam, il cui governo ha perso la guerra contro i vietcong. Lo stesso in Afghanistan. L'esportazione della democrazia è fallita in entrambi i Paesi. Ciò che alcuni analisti sostengono è che la Germania, il Giappone e la Corea del Sud sono esempi del successo dell'America nel costruire istituzioni democratiche. Ma lì la democrazia esisteva da prima della guerra, con istituzioni ripristinabili e un'élite con esperienza di politica democratica. Non così in Iraq, Afghanistan e nemmeno in Vietnam». 

Quindi la democrazia non si può esportare?

 «Devono esserci condizioni locali, istituzioni locali ed élite locali. Le truppe Usa in Giappone hanno reso possibile ravvivare, lì, delle istituzioni che in Iraq e in Afghanistan non c'erano mai state». 

Non le dà la sensazione che la ritirata americana segnali che siamo al «declino dell'impero occidentale», come dicono?

 «Gli europei da tempo non hanno ambizioni imperiali, forniscono truppe. Ma gli americani e i britannici, specialmente negli anni di Bush, Blair e Clinton, credevano ancora in un intervento umanitario che promuovesse gli ideali democratici con la forza, idea che ha iniziato a morire con Obama, e con Trump ancor di più. Biden ha finito la missione. Quest' ambizione americana è finita, per ora. Ciò non significa che l'influenza occidentale e il potere americano siano esauriti».

Non siamo a una nuova caduta del Muro di Berlino, come dice qualcuno?

«No, questo è il culmine di un ritiro graduale dall'idea che gli americani siano tenuti a intervenire per ottenere un risultato politico». 

Ma non pensa che in Asia venga interpretato così?

«Forse i movimenti islamici rivoluzionari nel Medio Oriente pensano che con la ritirata americana sia arrivato il momento di conquistare il potere. Ciò può esser vero in Afghanistan, ma non è detto lo sia altrove. In altre occasioni, l'intervento americano li ha tenuti in vita, perché così potevano unirsi contro "il grande Satana". Ma senza l'America, governi come quello pakistano potrebbero essere più conflittuali con i movimenti». 

Non crede che in Asia ci sia una preoccupazione fondata sul propagarsi della rivoluzione islamica in Kashmir o in Bangladesh?

«O in Cina. Ma la rivoluzione islamica non è una minaccia per il governo cinese o indiano. Causerà violenza qui e là. E ora questi governi dovranno gestirla da soli. E ciò potrebbe renderli più brutali e autoritari. Ma non credo ci sarà una cascata di rivoluzioni islamiche nel Medio Oriente e nel Sudest asiatico. D'altronde, la Pax Americana non era più sostenibile. Dove l'America ha avuto il ruolo del poliziotto tanti, si sono arricchiti, sia in Europa che nel Sudest asiatico. Non è realistico credere che gli americani potessero continuare a pattugliare il globo. È ora che questi Paesi, compresa la Ue, investano nella propria sicurezza». 

Dopo la Guerra Fredda e la Guerra al Terrore siamo a una guerra tra democrazie e regimi autoritari?

 «Non ci sarà bisogno della "politica di contenimento" di George Kennan perché la Russia non è mai stata economicamente importante per l'Occidente, mentre la Cina lo è. Gli interessi sono così interconnessi con i cinesi che la natura stessa della relazione ne è influenzata. Il conflitto va gestito. E sono scettico sull'idea di Biden che sia una sorta di kulturkampf, uno scontro di civiltà del mondo libero contro la Cina autoritaria. La retorica di una nuova Guerra Fredda è poco saggia. Va attenuata. Bisogna cooperare. Un divorzio economico è poco realistico. È l'ora della collaborazione e della diplomazia».

La sconfitta di Biden stravolge il mondo. Ecco che cosa lo aspetta. Lorenzo Vita il 3 Settembre 2021 su Il Giornale. La guerra in Afghanistan non è davvero finita. Perché la sconfitta d'immagine di Joe Biden potrebbe avere effetti ben più lontani nel tempo. L'Ue inizia a farsi domande. E per gli Stati Uniti i problemi non sono finiti. Il portellone si chiude dopo che Chris Donhaue, l'ultimo soldato americano in Afghanistan, sale a bordo dell'aereo. È l'ultimo volo dall'Hamid Kharzai di Kabul: l'ultimo aereo Usa che partirà dall'aeroporto diventato il simbolo della fine della "guerra più lunga". Ma la parola "fine", specialmente dopo un conflitto durato vent'anni, non è così semplice da scrivere. E per Joe Biden adesso inizia forse una fase ancora più complicata: quella di far capire il perché di un ritiro così disastroso non solo agli elettori, ma anche ai suoi alleati. Impresa non semplice. Moltissimi elettori concordano sul ritiro, ma a nessun piace lasciare l'immagine di un Paese che fugge. Tanto più se un impero come quello statunitense. Nessuno si dispera per la fine della guerra afghana, ormai ritenuta distante e inutile dalla gran parte dei cittadini, ma quella fuga precipitosa da Kabul e l'abbandono dei collaboratori è un'arma troppo importante nelle mani dei rivali repubblicani. Cosa che faranno pesare soprattutto in attesa del prossimo anno, quando ci saranno le famigerate elezioni di medio termine. C'è ancora un anno: un tempo abbastanza sufficiente per evitare che il disastro afghano faccia ancora ombra sugli elettori democratici. Ma le premesse non sono buone: l'agosto di Biden è stato molto più nero di quanto ci si potesse credere, tra fuga da Kabul e coronavirus che torna a crescere. Il presidente democratico dovrà puntare sul piano di ripresa e varare altri miliardi. Ma anche sotto il profilo economico, i livelli dell'inflazione iniziano a essere un campanello d'allarme per la Fed e la Casa Bianca. Biden è preoccupato e lo è anche il suo entourage. Quella conferenza stampa dopo l'uccisione di una dozzina di marines a Kabul è sembrata un sussulto di rabbia paterna più che della volontà di un leader. E per adesso la vera forza del presidente Usa è data dalla totale assenza di spine nel fianco nel partito democratico, così come in quello repubblicano. Kamala Harris non ne indovina una negli ultimi mesi, la sinistra dem appare molto silenziosa, mentre tra i repubblicani, a parte le fiammate di Donald Trump, non sembrano esserci grossi nomi in grado di indebolire la leadership del presidente. Personalità che comunque continua a precipitare nei sondaggi. Al problema interno si aggiunge quello internazionale. L'Europa inizia a interrogarsi, e per gli Stati Uniti non è un bel segnale. Biden prometteva il ritorno dell'America, durante la campagna elettorale. Ma l'amministrazione dem, più che rappresentare lo slogan "America is back" sembra ricalcare le orme della frase amata da The Donald: "America first". E di sicuro l'Europa è stata tagliata fuori dalle decisioni più importanti sul fronte della Difesa. Lo dimostra il fatto che Italia e Regno Unito avevano provato a far desistere gli Usa dal ritiro ad agosto, ricevendo un sonoro "no" da parte di Washington. La Francia ha visto le porte chiuse al Consiglio di Sicurezza per il progetto (ideato con il Regno Unito) di una "safe zone" a Kabul. Anche l'organizzazione del G20 straordinario guidato dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, appare in salita. L'apertura a Mosca e Pechino per risolvere la crisi afghana, unita agli inviti rivolti a Pakistan e Iran, è più di un segnale sul senso di scoramento che anima l'Occidente. Nessun leader europeo, oggi, farebbe affidamento solo sugli Stati Uniti di Joe Biden. E il presidente degli Stati Uniti, che non ha mai citato la Nato e gli alleati europei quando ha parlato del ritiro dall'Afghanistan, deve convincere gli alleati europei a non essere la ruota di scorta. Difficile che questo possa avvenire. Il segretario della Nato, Jens Stoltenberg, ha sostanzialmente fatto comprendere che l'Ue paga poco e quindi conta poco. E non è un caso che da Bruxelles e dalle varie capitali europee giungano voci sempre più insistenti su una nuova "autonomia strategica" europea. Come ppoi possa tradursi questo auspicio, questo è un altro punto interrogativo che finora non può trovare risposta. Un continente unito nella Difesa ma non in politica appare un progetto destinato ad arenarsi in breve tempo. Ma è comunque un primo sussulto dopo il disastro d'immagine afghano. Disastro che però non significa sconfitta su tutta la linea: almeno dal punto di vista americano. La logica è molto semplice: Washington non voleva più spendere per una guerra che, a detta di molti analisti, impegnava solo gli Usa mentre questi facevano da tappo per tutto il caos in Asia centrale. La nuova amministrazione ritiene che il suo unico vero obiettivo strategico debba essere la Cina, anche più della Russia. E la dimostrazione di questo reale obiettivo è dato da due fattori che riguardano proprio l'Afghanistan, argomento non solo sottovalutato, ma che si voleva chiudere nella maniera più rapida possibile. Il primo è che il futuro del Paese era un punto del tutto secondario del dossier Nato 2030 di cui si è discusso anche questa estate. Il secondo elemento è rappresentato dalle conversazioni riportate da Reuters tra Biden e il presidente afghano Ashraf Ghani (23 luglio 2021), che indicano che il capo della Casa Bianca non fosse assolutamente consapevole dei rischi dell'avanzata talebana. Anzi, due settimane prima che l'intelligence lanciasse l'allarme sulla caduta di Kabul, Biden diceva al suo omologo asiatico che non vi era alcun pericolo e che il suo esercito non si sarebbe arreso. Un mese dopo quelle parole, l'Emirato islamico dell'Afghanistan è diventato ormai una realtà. L'Europa non è stata ascoltata e potrebbe trovarsi un'ondata di profughi per una guerra non voluta e nemmeno finita come voleva. E il presidente degli Stati Uniti ha osservato impotente a un ritiro che, nonostante l'accordo, è apparso come una resa senza condizioni. L'unica speranza del leader Usa è riuscire a ribaltare la situazione: o con la lotta al virus, o con un'iniezione di soldi oppure cambiando obiettivo nel mondo. La Cina sembra osservare le prossime mosse Usa con molta attenzione: il pericolo - secondo Pechino - è che Washington possa rifarsi proprio sul fronte del Pacifico. 

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"

(ANSA il 2 settembre 2021) Il Dipartimento delle Difesa americano punta il dito contro l'intelligence statunitense per quanto accaduto in Afghanistan. Ma gli 007 respingono le accuse: la Casa Bianca e il Pentagono stanno cercando un capro espiatorio. Lo riporta Cnn citando alcune fonti, secondo le quali all'interno dell'amministrazione Biden è partita la resa dei conti su quanto accaduto in Afghanistan.

DAGOREPORT il 2 settembre 2021. Biden nel fortino, Biden sotto attacco, Biden al minimo nei sondaggi. La vicenda Afghana ogni giorno assume connotati nuovi e indica responsabilità, dove "negligenze” fa rima con intelligence. Prima presi per il culo, poi legnati, infine sbattuti al muro, Biden e il suo sottosegretario di Stato Blinken, pur storditi stanno cercando di difendersi. E riavvolgendo il bandolo della matassa. Si sono insospettiti di molte stranezze e stanno indagando: c’è qualcosa che non torna nella catastrofe afghana. Ad esempio: perché il presidente Ashraf Ghani, considerato un fantoccio in mano americana, è stato il primo a scappare da Kabul per rifugiarsi ad Abu Dhabi, dove l’attendeva, reverentissimo ospite, lo sceicco degli Emirati Arabi, Mohammed Bin Zayed? Cronaca vuole che l’accordo tra Usa e talebani, condotto dal sottosegretario di Stato di Donald Trump, Mike Pompeo, sia avvenuto a Doha, capitale del Qatar, dove gli Usa hanno la più grande base navale del Medio Oriente (l’altra è nel Barheim). Ed notorio che tra l’emiratino Bin Zayed e lo sceicco qatarino, Tamim bin Hamad al-Thani non scorra buon sangue. Aggiungere infine che Pompeo non aveva informato della trattativa di Doha con i talebani il presidente Ashraf Ghani. Una volta tagliato fuori, il “fantoccio” afghano si era incazzato. Altro fatto strano: come mai all’indomani della fuga dell’ex presidente afghano Ashraf Ghani, il di lui fratello Hashamt Ghani Ahmadzai, ha giurato fedeltà ai talebani durante una cerimonia che si è tenuta nella capitale Kabul, davanti a Jalil al Rahman Haqqani, un esponente dei Talebani associato alla rete Haqqani? Ancora. Nel suo primo discorso, all’indomani della caduta di Kabul, Biden ha balbettato davanti alle telecamere di aver ricevuto dall’intelligence l’assicurazione che l’esercito afghano di Ghani sarebbe riuscito a mantenere l’ordine per almeno 8 mesi. E’ durato 8 minuti. Come mai? Il passaggio di consegne, tra le quali c’era l’accordo di Doha con i talebani, tra l’amministrazione di Trump e quella di Biden è avvenuto in maniera più che caotica con Donald che contestava la regolarità del voto. Insomma, non è avvenuto. Né si sa cosa abbia trattato nelle segrete stanze Pompeo. Insomma, a Biden e Blinken la catastrofe afghana puzza di bruciato…. 

DAGOREPORT il 2 settembre 2021. Crollato ai minimi della popolarità, accusato di presentarsi agli americani duro come un semolino, più Rimba che Rambo, Joe Biden ha accettato il consiglio del suo staff di comunicazione, e d’accordo con il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan ha calzato l’elmetto: "Siamo andati lì per al Qaeda... abbiamo ucciso bin Laden dieci anni fa e decimato al Qaeda. Era il momento di finire questa guerra. Non si poteva andare avanti in eterno, l'Afghanistan non è un Paese strategico per gli Usa. Questo è un mondo nuovo dove il rischio terroristico è “metastatizzato””. A un certo punto, Banana Joe si è camuffato anche da Donald Trump, in modalità “America First”: “A coloro che chiedono un terzo decennio di guerra in Afghanistan, chiedo: 'Qual è l'interesse nazionale vitale?'”. Ha aggiunto: "Semplicemente non credo che la sicurezza dell'America sia migliorata continuando a dispiegare migliaia di truppe americane e spendendo miliardi di dollari in Afghanistan". Con il coltello tra i denti, resistendo ai colpi di sonno, Biden ha ripetuto la sua tesi secondo cui porre fine alla guerra in Afghanistan è stato un passo cruciale per ricalibrare la politica estera americana verso le crescenti sfide poste da Cina e Russia che “non vogliono altro che vederci impantanati per un altro decennio in Afghanistan”. Traduzione: l’America ha due nemici, Russia e Cina, e deve cambiare la sua strategia, non siamo più i poliziotti del mondo, esportatori di democrazia, l’azione militare è finita, che l’Europa se la sbrighi da sola. E i soldi che risparmieremo nelle guerre saranno destinati a colmare il gap tecnologico con la Cina. Non solo: a Washington si vocifera addirittura che Biden voglia mettere il dito nel culo di Pechino: una base militare a Taiwan. La catastrofe afghana ha innescato la nuova bombastica politica americana destinato a rimodellare e/o ribaltare l’ordine mondiale. Crollo del Muro di Berlino, seconda parte, con gli Stati Uniti che puntano il fucile contro Russia ma soprattutto Cina. Il big bang di Biden ha spiazzato (eufemismo) Mario Draghi, impegnato da giorni a mettere su un G20 straordinario sull’Afghanistan. Finora senza successo: da 10 giorni Mariopio viene rimbalzato da Pechino, non riesce a strappare una cazzo di telefonata con Xi Jinping per ottenere la sua adesione al summit; ora lo squillo è stato messa in agenda per il 7 settembre: a che serve a un mese dal G20 ordinario di ottobre?. Un fallimento che ha in parte origine anche dal mancato feeling di Draghi con il suo consigliere diplomatico Luigi Mattiolo, tant’è che stasera Marione si scapicollerà a Marsiglia per incontrare faccia a faccia con l’altro leader forte europeo, Macron (la Merkel è pensionanda) e provare insieme a riannodare i fili dopo il discorso da “Europa addio” di Biden (ricordate? appena eletto, 7 mesi fa, cancellò subito l’”America First” di Trump esaltando l’alleanza con l’Unione Europea). Al pari di Mariopio, anche Macron è reduce dal flop in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu sull'ipotesi di una "safe zone" internazionale a Kabul. Ammaccati, in difficoltà, i due leader ritentano a Marsiglia a reimpostare, alla luce del “tradimento” di Biden, la geopolitica europea nell’area Mediorientale Oriente e dintorni. Col senno del poi, anche l’altro europeo “tradito”, Boris Johnson, ha cominciato a capire che a questo punto l’Unione Europea è importante. Illuminante, a tale proposito, è l’intervista di Federico Fubini sul ‘’Corriere della Sera’’ del 30 agosto a Josep Borrell, vicepresidente della Commissione e alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea: “Questa è in primo luogo una catastrofe per gli afghani, un fallimento per l’Occidente e un punto di svolta per le relazioni internazionali… è il momento di costituire una forza europea di pronto intervento, perché c’è un certo disimpegno dell’America dall’arena mondiale, gli americani non combatteranno più le guerre degli altri”. Poi Borrell mette il dito nella piaga: la costante subalternità europea agli Stati Uniti. “La rivalità fra gli Stati Uniti e la Cina definirà il ventunesimo secolo. Ma il mondo non è bipolare, è sempre più multipolare e la Ue deve essere uno dei poli. Saremo sempre più vicini all’America che alla Cina, ma questo non significa che dobbiamo essere sempre e sistematicamente allineati con gli Stati Uniti, perché abbiamo interessi differenti in alcune aree. Esattamente come loro’’. "Per questo, conclude Borrell, l’autonomia strategica non è affatto contro l’alleanza transatlantica, per serve per avere la nostra propria visione degli affari internazionali e la nostra capacità di agire: insieme con partner come gli Stati Uniti quando possibile e da soli quando necessario”. Intanto, la nuova geopolitica vede subito un nuovo protagonista: il Qatar, dove gli Usa hanno la più grande base navale del Medio Oriente (l’altra è nel Barheim). Grazie ai buoni rapporti con i talebani (non a caso l’accordo di ritiro con Trump fu firmato nel 2020 a Doha), i qatarini ospitano tutte le ambasciate che hanno lasciato Kabul. Rappresentanze diplomatiche che stanno mediando in queste ore come mettere in sicurezza la vita degli afghani (45mila accertati) che hanno collaborato con gli occidentali. Tanto per non farci mancare niente, l’ascesa dello sceicco qatarino, Tamim bin Hamad al-Thani, non fa assolutamente piacere allo sceicco degli Emirati Arabi, Mohammed Bin Zayed, colui che ha dato pronta ospitalità all’ex presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani. E’ noto che il buon rapporto diretto che aveva Trump con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi è stato cassato da Biden all’indomani della sua elezione, a causa della guerra scatenata dall’Arabia Saudita e altri otto stati, per lo più arabi sunniti, contro lo Yemen.

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” il 3 settembre 2021. Continuano le difficoltà di Joe Biden. Da una parte, la Reuters è riuscita a procurarsi una trascrizione dell'ultima telefonata tra il presidente e l'omologo afghano Ashraf Ghani, poi successivamente all'entrata dei talebani a Kabul scappato ad Abu Dhabi con 169 milioni sottratti alle casse dello Stato. Dall'altra, il presidente degli Stai Uniti ha dovuto scendere in campo in prima persona, dopo che la Corte Suprema si è rifiutata di intervenire su una nuova legge texana sull'aborto particolarmente restrittiva. Quattordici minuti è durato il colloquio del 23 luglio scorso tra Biden e Ghani rivelato dalla Reuters. Appena tre settimane prima del collasso della caduta della capitale, il presidente Usa ancora ricordava al capo di Stato che a sua disposizione c'erano «chiaramente i militari migliori». «Puoi contare su 300.000 ben armati contro i 70.000 dei talebani e i tuoi sono stati formati ed equipaggiati per combattere bene». Non persuaso, Ghani chiedeva soldi. Biden gli rispondeva che avrebbe potuto convincere il Congresso, a patto di spiegare quale fosse la strategia militare del governo afghano: «Hai un piano? Se ce l'hai, devi renderlo pubblico. E, se noi lo sapremo, continueremo a fornire supporto aereo ravvicinato». E Ghani, sempre meno convinto, replicava: «Posso ottenere la pace solo se riequilibro sul campo la situazione militare. Ma dobbiamo muoverci rapidamente, perché stiamo affrontando una invasione di grandi proporzioni, che mette insieme talebani, il supporto logistico e strategico dei pakistani e il supporto di almeno 10-15.000 terroristi internazionali, in gran parte anche questi provenienti dal Pakistan». Per Biden era tutto un problema di "percezione". «Non devo spiegarti che la percezione della situazione che ha tutto il mondo e in alcune parti dell'Afghanistan è che la guerra contro i talebani non stia andando bene. Che sia vero o no, c'è bisogno di proiettare all'esterno una immagine diversa. Se ad esempio figure di spicco dell'Afghanistan potessero tenere con te una conferenza stampa congiunta, questa cosa cambierebbe la percezione, e credo che la cambierebbe di molto». La Reuters riferisce che anche le telefonate a Ghani dei generali Frank McKenzie e Mark Milley insistevano sullo stesso punto. Sull'altro fronte, la nuova legge texana proibisce l'aborto dopo sei settimane di gravidanza, anche in caso di stupro o incesto. Nel definire la legge «estrema», Biden, che in privato però si professa cattolico, denuncia che «viola palesemente i diritti delle donne» e «danneggia in maniera significativa» l'accesso delle donne alle cure mediche. Anche la decisione della Corte è da lui definita «un attacco senza precedenti ai diritti costituzionali delle donne». Promette dunque che «proteggerà e difenderà quel diritto»: «Valuteremo quali passi potrà intraprendere il governo federale per assicurare che le donne in Texas abbiano accesso ad aborti sicuri e legali». Si vedrà se finirà come le promesse a Ghani 

Francesco Bechis per formiche.net l'8 settembre 2021. “Siamo in una Seconda Guerra Fredda. E l’Afghanistan c’entra poco”. Quando chiediamo a Niall Ferguson se la fuga da Kabul metterà fine all’egemonia americana, ci risponde fra il serio e il sarcastico, “Kabul è l’ultimo problema di Joe Biden“. Storico dell’Università di Stanford e senior fellow alla Hoover Institution, volto di punta del pensiero conservatore inglese reduce dal Forum Ambrosetti di Cernobbio, gira l’Europa per presentare il suo ultimo libro, “Doom: The politics of catastrophe” (Allen Lane). In questa intervista a Formiche.net riflette sull’impatto che il caos afgano avrà sugli equilibri internazionali.

Gli Stati Uniti si rialzeranno?

Sì, hanno ampie capacità militari. Li abbiamo visti abbandonare il Vietnam e rialzarsi in piedi nella Guerra Fredda con la Russia. 

È comunque un duro colpo.

Un colpo temporaneo. L’Afghanistan non è un campo di battaglia cruciale di quella che io chiamo Seconda Guerra Fredda fra Stati Uniti e Cina. Conta molto di più quel che sta succedendo a Taiwan. Chi crede che l’abbandono dell’Afghanistan dia il via libera alle mire cinesi su quell’isola si sbaglia di grosso.

Il progressivo ritiro dall’Asia centrale libera le mani per aumentare le forze nel Pacifico?

Non vedo una correlazione diretta. Nell’ultimo anno le dimensioni dell’impegno americano in Afghanistan erano molto limitate, Trump aveva già ridotto al minimo le forze sul campo. Né stavamo bruciando un numero di risorse paragonabile a dieci anni fa.

Quindi l’addio a Kabul non dice niente delle prossime mosse a Taiwan, in Giappone o Corea?

Si tratta di operazioni molto diverse. Taiwan ha bisogno di protezione aerea e navale, la missione in Afghanistan aveva ormai preso la forma di un addestramento e di supporto operativo dell’esercito afgano. 

L’Europa come ne esce?

Trovo ingiuste, ma tutto sommato non sorprendenti, le critiche che i politici europei stanno riversando contro gli errori degli Stati Uniti nella gestione del ritiro. Era una missione Nato. E loro sono responsabili almeno quanto gli americani del suo fallimento. 

Tutte le critiche sono ingiuste?

È giusto ritenere che Biden abbia trasformato in un disastro l’abbandono di Kabul. Ma questa guerra andava avanti da vent’anni. Alcuni alleati, come i francesi, avevano già ritirato le truppe. Né dall’Europa qualcuno si è fatto avanti con una valida alternativa, salvo puntare il dito contro Washington con una buona dose di ipocrisia.

Adesso si parla di nuovo di Difesa europea. Utopia?

A Cernobbio ho sentito perfino il ministro francese Bruno Le Maire parlare di “superpotenza militare” e “autonomia strategica” europea. Ho trattenuto a stento le risate. 

Perché?

Non c’è la più pallida possibilità che l’Ue trovi le risorse necessarie per una strategia autonoma dagli Stati Uniti. Questo presunto esercito europeo ha già molti tratti in comune con il formidabile esercito afgano: alla prima aggressione, magari da parte della Russia, collasserebbe. I governi europei parlano molto ma spendono poco in Difesa. L’idea di affrancarsi dalla Nato per fare un dispetto a Biden è semplicemente una barzelletta. 

Torniamo in Afghanistan. Chi riempirà il vuoto?

Non necessariamente una potenza straniera. Per un lungo periodo della sua storia l’Afghanistan è stato in mano agli afgani, con tutti i loro limiti. Saranno i talebani a riempire il vuoto. Da soli non riusciranno a controllare il Paese, chiederanno una mano.

Alla Cina?

Sono molto tentati dai soldi cinesi, e infatti promettono ottime relazioni. Pechino ha una sola cosa da offrire: la Via della Seta. Invierà una delegazione a dir loro: “Ecco i soldi, ora ci date le vostre risorse naturali?”. In Africa sta funzionando bene. 

Solo affari?

Se fossi Xi Jinping, l’ultima cosa che vorrei sarebbe impantanare la Cina in Afghanistan impegnando uomini sul campo. Daranno un supporto alle autorità a Kabul, con buona pace dei diritti umani. Dubito che la Cina si scandalizzi della sharia, delle scuole chiuse o delle donne agli arresti domiciliari. 

Veniamo a Biden. Il caos a Kabul compromette la sua presidenza?

Bisogna inquadrare questa fase con il grandangolo. Nonostante un certo giornalismo cheerleader che si ostina a paragonare Biden a Roosevelt o Johnson, questa presidenza ha una lunga serie di problemi interni, a cominciare da una risicata maggioranza democratica al Senato. Assomiglia semmai all’amministrazione Carter. 

Cos’hanno in comune?

Carter ha commesso errori in politica estera, dalla caduta di Saigon al supporto alla rivoluzione iraniana e all’invasione sovietica in Afghanistan, ma è finito in disgrazia per l’inflazione. Crescita anemica, prezzi alle stelle, variante Delta, la crisi migranti al confine Sud: i problemi di Biden non sono solo a Kabul.

Trump può tornare?

Non sono sicuro che Trump stia per tornare, né che abbia voglia di farlo. Ha soldi e grande popolarità nella base repubblicana, ma ha anche nuovi contendenti interni. Lo stesso vale per Biden e per l’impopolare Kamala Harris, che i democratici ca cercheranno di sostituire. 

Si avvicina il ventennale dell’11 settembre. Come ha cambiato quella mattina la politica estera americana?

Drasticamente. Se mi guardo indietro di vent’anni, realizzo di aver centrato due previsioni. La prima: gli Stati Uniti avrebbero commesso un fallo di reazione contro gli attacchi terroristici. A differenza di italiani e tedeschi, non erano pronti alla minaccia terroristica interna. Né a realizzare che il nuovo momento imperiale degli Stati Uniti post Guerra Fredda aveva basi molto fragili.

Si immaginava vent’anni a Kabul?

No, non ne avrei immaginati più di dieci. Ma credo sia un’esagerazione definire i vent’anni in Afghanistan come l’evento determinante di questo secolo. Vent’anni fa, nell’indifferenza generale, accadevano due cose ben più importanti. 

Quali?

L’ascesa della Cina, che si è dimostrato un guaio ben peggiore del terrorismo islamico. E la rivoluzione commerciale di internet, che ha dato agli Stati Uniti il dominio del mercato digitale. Questi due eventi hanno plasmato il mondo come lo conosciamo molto più di Al Qaeda.

Dagospia l'8 settembre 2021. Articolo del “New York Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione”. Il ritiro degli Stati Uniti dall'Afghanistan, dopo un fallimentare esercizio ventennale di costruzione della nazione, ha lasciato molti americani e analisti a dire: "Se solo avessimo saputo allora quello che sappiamo ora, non avremmo mai intrapreso questa strada". Non sono sicuro che sia vero, ma ciò nonostante solleva questa domanda: Cosa stiamo facendo oggi in politica estera che potremmo guardare indietro tra 20 anni e dire: "Se solo avessimo saputo allora quello che sappiamo ora, non avremmo mai preso quella strada"? La mia risposta può essere riassunta in una parola: Cina. - scrive Thomas L. Friedman sul NYT. E le mie paure possono essere riassunte in pochi paragrafi: I 40 anni dal 1979 al 2019 sono stati un'epoca nelle relazioni USA-Cina. Ci sono stati molti alti e bassi, ma tutto sommato è stata un'epoca di costante integrazione economica tra i nostri due paesi. La profondità di quell'integrazione USA-Cina ha contribuito ad alimentare una globalizzazione molto più profonda dell'economia mondiale e a sostenere quattro decenni di pace relativa tra le due grandi potenze del mondo. E ricordate sempre che sono i conflitti tra grandi potenze che ci danno guerre mondiali enormemente destabilizzanti. L'era della globalizzazione USA-Cina ha lasciato disoccupati alcuni lavoratori manifatturieri statunitensi mentre apriva nuovi enormi mercati di esportazione per altri. Ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone in Cina, India e Asia orientale, rendendo molti prodotti molto più accessibili ai consumatori americani. In breve, la relativa pace e prosperità che il mondo ha sperimentato in quei 40 anni non può essere spiegata senza un riferimento al legame USA-Cina. Negli ultimi cinque anni, però, gli Stati Uniti e la Cina stanno inciampando su un sentiero di de-integrazione e forse verso un vero e proprio scontro. A mio parere, è lo stile di leadership sempre più prepotente della Cina in patria e all'estero, le sue politiche commerciali "testa-noi-vinciamo-coda-perdi" e il cambiamento della composizione della sua economia che sono in gran parte responsabili di questa inversione. Detto questo, se continua, c'è una buona probabilità che entrambi i nostri paesi - per non parlare di molti altri - guarderanno indietro tra 20 anni e diranno che il mondo è diventato un posto più pericoloso e meno prospero a causa della rottura delle relazioni tra Stati Uniti e Cina nei primi anni 2020. Questi due giganti sono passati dal fare un sacco di affari sul tavolo e occasionalmente darsi calci sotto il tavolo a fare molti meno affari sul tavolo e a darsi calci molto più forti sotto il tavolo - così tanto da rischiare di rompere il tavolo e lasciarsi a vicenda zoppicando. Cioè, con un mondo molto meno capace di gestire il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, il cyberspazio e le crescenti zone di disordine. Ma prima di passare dalla "coopetizione" al confronto con la Cina, dovremmo porci alcune domande difficili. La Cina deve fare lo stesso. Perché entrambi potremmo sentire la mancanza di questa relazione quando non ci sarà più. Per cominciare dobbiamo chiederci: quali aspetti della nostra competizione/conflitto con la Cina sono inevitabili tra una potenza in ascesa e una potenza da status quo, e cosa può essere smorzato da una politica intelligente? Cominciamo con l'inevitabile. Per circa i primi 30 dei 40 anni di integrazione economica, la Cina ci ha venduto ciò che io chiamo "beni superficiali" - camicie, scarpe da tennis e pannelli solari che appendevamo ai nostri tetti. L'America, al contrario, ha venduto alla Cina "beni profondi" - software e computer che andavano in profondità nel suo sistema, di cui aveva bisogno e che poteva comprare solo da noi. Bene, oggi, la Cina può fare sempre più di quei "beni profondi" - come i sistemi di telecomunicazione Huawei 5G - ma non abbiamo più la fiducia condivisa tra noi per installare le sue tecnologie profonde nelle nostre case, camere da letto e aziende, o anche per vendere i nostri beni più profondi alla Cina, come i chip logici avanzati. Quando la Cina ci vendeva "beni superficiali", non ci importava che il suo governo fosse autoritario, libertario o vegetariano. Ma quando si tratta di comprare i "beni profondi" della Cina, i valori condivisi contano e non ci sono. Poi c'è la strategia di leadership del presidente Xi Jinping, che è stata quella di estendere il controllo del partito comunista in ogni poro della società, della cultura e del commercio cinese. Questo ha invertito una traiettoria di graduale apertura della Cina al mondo dal 1979. Se a questo si aggiunge la determinazione di Xi che la Cina non deve mai più dipendere dall'America per le tecnologie avanzate, e la volontà di Pechino di fare tutto il necessario - comprare, rubare, copiare, inventare o intimidire - per garantirlo, si ha una Cina molto più aggressiva. Ma Xi ha calcato troppo la mano. Il livello di furto di tecnologia e di penetrazione nelle istituzioni statunitensi è diventato intollerabile - per non parlare della decisione della Cina di soffocare la democrazia a Hong Kong, di spazzare via la cultura musulmana Uygur nella Cina occidentale e di usare il suo potere economico e i suoi diplomatici guerrieri per intimidire i vicini come l'Australia anche solo per chiedere un'indagine adeguata sulle origini del nuovo coronavirus a Wuhan. Xi sta mettendo tutto il mondo occidentale contro la Cina - vedremo quanto quando la Cina ospiterà le Olimpiadi invernali del 2022 - e ha spinto questo presidente degli Stati Uniti e il suo predecessore a identificare il contrasto alla Cina come l'obiettivo strategico numero 1 dell'America. Ma abbiamo davvero pensato al "come" di come farlo? Nader Mousavizadeh, fondatore e amministratore delegato di Macro Advisory Partners, una società di consulenza geopolitica, suggerisce che se stiamo per spostare la nostra attenzione dal Medio Oriente a una strategia irreversibile di confronto con la Cina, dovremmo iniziare a porre tre domande fondamentali:

Primo, Mousavizadeh dice: "Siamo sicuri di capire abbastanza bene le dinamiche di una società immensa e mutevole come la Cina per decidere che la sua missione inevitabile è la diffusione globale dell'autoritarismo? Soprattutto quando questo richiederà un impegno conflittuale generazionale da parte degli Stati Uniti, generando a sua volta una Cina ancora più nazionalista?

In secondo luogo, dice Mousavizadeh, che è stato a lungo consigliere senior del segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan: se crediamo che la nostra rete di alleanze sia "una risorsa unicamente americana, abbiamo ascoltato tanto quanto abbiamo parlato con i nostri alleati asiatici ed europei sulla realtà delle loro relazioni economiche e politiche con la Cina - assicurandoci che i loro interessi e valori siano incorporati in un approccio comune alla Cina? Perché senza questo, qualsiasi coalizione si sgretolerà".

Non c'è dubbio che il modo migliore per l'America di controbilanciare la Cina è fare l'unica cosa che la Cina odia di più - affrontarla con un'ampia coalizione transnazionale, basata su valori universali condivisi riguardanti lo stato di diritto, il libero scambio, i diritti umani e gli standard contabili di base. Quando rendiamo il confronto con la Cina il presidente degli Stati Uniti contro il presidente della Cina, Xi può facilmente far leva su tutti i nazionalisti cinesi dalla sua parte. Quando lo facciamo diventare il mondo contro la Cina su quelle che sono le migliori e più giuste norme internazionali, isoliamo gli integralisti di Pechino e facciamo leva su più riformisti cinesi dalla nostra parte. Ma la Cina non risponderà solo ai discorsi altisonanti sulle norme internazionali, anche se di fronte a una coalizione globale. Questi discorsi devono essere sostenuti da un peso economico e militare. Molte imprese statunitensi stanno spingendo ora per ottenere l'abrogazione della fase 1 delle tariffe Trump sulla Cina - senza chiedere alla Cina di abrogare i sussidi che hanno portato a queste tariffe in primo luogo. Pessima idea. Quando trattate con la Cina, parlate dolcemente ma portate sempre con voi una grande tariffa (e una portaerei). La terza domanda, sostiene Mousavizadeh, è se crediamo che la nostra priorità dopo una guerra ventennale al terrorismo debba ora essere "la riparazione a casa - affrontando gli enormi deficit nelle infrastrutture, nell'istruzione, nei redditi e nell'equità razziale" - è più utile o più pericoloso sottolineare la minaccia cinese? Potrebbe accendere un fuoco sotto gli americani per diventare seri sul rinnovamento nazionale. Ma potrebbe anche accendere un fuoco per l'intero rapporto USA-Cina, influenzando tutto, dalle catene di approvvigionamento agli scambi di studenti agli acquisti cinesi di titoli di stato americani. In ogni caso, questa sarebbe la mia lista di controllo iniziale prima di passare dalla guerra al terrorismo alla guerra alla Cina. Pensiamoci bene. I nostri nipoti ci ringrazieranno nel 2041.

L’Europa, la Nato e l’Afghanistan. Intervista ad Antonio Armellini: “Intervento in Afghanistan giusto ma andato avanti male e finito peggio”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 9 Settembre 2021. L’Europa, la Nato e l’Afghanistan. Fuga da una guerra che non doveva essere o fuga, ingloriosa, dalle proprie responsabilità? Il Riformista ne discute con una delle personalità che più conosce la diplomazia europea e lo scenario internazionale: l’Ambasciatore Antonio Armellini. Nella sua lunga carriera diplomatica, è stato collaboratore di Aldo Moro alla Farnesina e a Palazzo Chigi, portavoce di Altiero Spinelli alla Commissione di Bruxelles, ambasciatore in Algeria, in India, all’Ocse a Parigi, roving ambassador alla Csce a Vienna e Helsinki, capo della missione italiana in Iraq nel 2003-04.

Ora che l’ultimo marine ha lasciato Kabul, è tempo di un primo bilancio sulla ventennale “avventura” afghana. Qual è il suo?

Il bilancio è quello di un’operazione che era stata portata avanti con delle premesse che col passare del tempo sembrano essere mutate, se non altro nella mente americana e quella del presidente Biden. Un’operazione che forse si è conclusa anche tardivamente, quel che è certo è che si è conclusa male.

Perché?

Non si tratta di evocare un presunto “tradimento” dell’Occidente. Il problema è che si è entrati in una situazione di cui si era sottovalutata la complessità. Per sconfiggere al-Qaeda, si è detto e ripetuto. In realtà, era stato spiegato a tutti gli alleati, a noi in particolare, che sconfiggere al-Qaeda era la prima parte di una partita quanto meno a due facciate. Sconfiggere il terrorismo comportava comportava anche consolidare le basi del Paese in cui si operava e rafforzare la democrazia. Vede, la cosa che più mi ha colpito in questa vicenda ultima, è stata l’affermazione del presidente Biden, secondo cui in realtà non era questo l’obiettivo, ma l’obiettivo era quello di smascherare e colpire duramente l’organizzazione terroristica di Osama bin Laden. Beh, se così fosse stato, allora avrebbero ragione quelli che dicevano: perché non ce ne siamo andati dopo quattro anni. Al di là di questo, che non è fondamentale, c’è da chiedersi perché a noi alleati è stato presentato uno scenario diverso nel quale abbiamo creduto o, se vuole, si è finto di credere per molto tempo. Perché nessuno in Italia pensava, credo, che le missioni di pace che finanziavamo regolarmente fossero soltanto per sconfiggere al-Qaeda. Era per creare un Afghanistan libero, democratico nel quale noi portavamo scuole e caramelle. In ultima analisi, si è trattato di una vicenda che è cominciata per ragioni del tutto giustificate ma che è stata portata avanti male e conclusa peggio. Alcuni giorni fa ho letto un articolo del New York Times che dice un po’ l’ovvio e lo dice come fosse una scoperta che tutti noi stavamo facendo…

Vale a dire?

Che l’Afghanistan è una realtà complessa in cui c’è un Afghanistan urbano che piange la partenza degli americani e un Afghanistan rurale che dice fra due demoni, almeno quello dei Talebani non ci porta più la guerra. È un dato, questo, che credo sia stato molto sottovalutato. Ma a chi guardava l’Afghanistan era chiaro fin dall’inizio.

L’Afghanistan storicamente è stato descritto, a ragione, come “il cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero” della Nato?

Il discorso sulla Nato, a mio avviso, va al di là di questa vicenda. Lo dico con una battuta: è dal 1989 che la Nato deve capire cosa fare da grande. C’è stato un momento in cui, un po’ tutti, abbiamo creduto alla fine della Storia. La Nato era il “gendarme bonario” di questa fine. Tutto questo è poi durato molto poco, in realtà. Si sono ricreate una serie di contraddizioni che non sono ancora conflitti, rispetto alla quale la Nato sente come una nostalgia del passato e non riesce ad adattarsi al presente. La Nato come “gendarme” dell’ordine mondiale andava bene allora, ammesso che andasse bene, prima del crollo del muro di Berlino e del disfacimento dell’Urss e dell’impero sovietico, cioè prima della “fine della Storia”. Adesso, non è chiaro che cosa serve. Però si è detto, in Afghanistan e in tutti gli altri interventi umanitari, che la Nato era lo strumento attraverso il quale promuovevamo stabilità e soprattutto democrazia nel mondo. E allora torno al punto di prima, agli obiettivi cambiati nel corso dei vent’anni. La Nato ci è andata correttamente in base all’articolo V del suo trattato costitutivo, cioè per rispondere ad un’aggressione al territorio americano. E questo è giustissimo. Abbiamo fatto fuori al-Qaeda, l’articolo V è stato rispettato. La Nato deve capire sempre di più cosa deve fare da grande. Anche perché adesso ci troviamo dinanzi a un’America che attraversa uno dei suoi periodici cicli di isolazionismo. C’è dunque da ridefinire il parametro di questa alleanza e quale sia il ruolo dei suoi partner europei. Noi continuiamo a ritenere la Nato fondamentale per la sicurezza in Europa. Allora lo era in un contesto antagonista. Se dovesse ritornare ad esserlo, come ogni tanto qualcuno teme o vorrebbe, il problema diventa molto serio. Intanto, non si capisce noi perché dovremmo spingerlo e in secondo luogo non si capisce quale garanzia ci darebbero gli americani.

Molto si discute su trattare sì -trattare no con i Talebani. Ora gli Stati Uniti e la Nato sembrano scoprire che il vero pericolo è l’Isis. Come la mettiamo: si può applicare con i Talebani il vecchio adagio per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”?

Il “nemico del mio nemico…” è un discorso di realpolitik kissingeriano, che forse va bene per Kissinger ma non so quanto bene vada per il presente e il futuro. Personalmente lo ritengo un ragionamento che fa senso e mi chiedo quanto la Nato sia in grado di farlo. La tentazione semplificatoria occidentale ci frega sempre. Perché l’Afghanistan è una realtà complessa. L’Isis è il nemico ma la cosiddetta Rete Haqqani – che conta sul sostegno dei potenti servizi pakistani – funge da raccordo tra i Talebani e al-Qaeda, che certo non si è trasformata in una formazione pacifista, e al tempo stesso Haqqani fa parte della nuova coalizione che si prepara a governare l’Afghanistan, con un ruolo importante, come testimonia la nomina a ministro dell’Interno nel governo appena formato del capo della Rete, Sirajuddin Haqqani, attualmente ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari. Si tratta di avere un approccio forse un po’ diverso, un po’ meno ideologico, un po’ meno schematico, e guardare alla realtà per quel che è. Certo che con i Talebani bisognerà fare i conti, perché esistono. Ma da questo a considerare che siano una cosa totalmente diversa dal resto della galassia jihadista. E qui torniamo al discorso dell’Afghanistan urbano e di quello rurale. Ma questi Talebani che sono stati in giro per il mondo, che sono andati a Doha dove soggiornavano in alberghi a cinque stelle, hanno capito cos’è non solo la democrazia ma l’Occidente con le sue tentazioni, saranno poi in grado di imporre un modello univoco a tutto il Paese? Davvero saranno in grado di far cessare, soprattutto nelle regioni più remote, l’azione di formazioni di guerriglia, visto anche che i pachistani sembrerebbero intenzionati a continuare a foraggiarle? Discutere bisogna discutere ma considerare che “il nemico del mio nemico, sia un amico”, è decisamente andare avanti un po’ troppo. Mi lasci aggiungere un aneddoto curioso che riguarda il ruolo dell’Italia.

Di cosa si tratta, Ambasciatore Armellini?

Una cosa che non racconta più nessuno è che noi abbiamo avuto un peso e un ruolo in Afghanistan. Il primo re dell’Afghanistan, Amanullah, fu detronizzato negli anni Venti e ospitato da Mussolini in una villa all’inizio dell’Appia antica. Il re spodestato era di fatto sotto il nostro controllo e attraverso il quale esercitammo un’azione di politica estera. La stessa cosa successe con lo zio. Quando ci fu l’ultimo colpo di Stato anti monarchico, nel luglio 1973, re Zahir venne in esilio a Roma e ci rimase per moltissimo tempo. Tant’è che molti degli accordi sull’Afghanistan degli anni Settanta-Ottanta, passarono attraverso Roma. Ed è curioso che non se ne sia mai parlato e che in realtà non si sia mai conservata alcuna leva rispetto all’Afghanistan, forse perché un vecchio vizio della nostra politica estera è quello di essere molto eurocentrica e di guardare il resto del mondo da lontano.

In discontinuità con “America first” di Trump, Biden aveva coniato lo slogan “America is back”, in una chiave multilaterale. Alla luce dell’Afghanistan, come declinare questo slogan?

C’è stata anche la controbattuta: “America is back home”, che forse è più di una battuta. Biden aveva in mente di ripensare una politica estera se non opposta certamente molto diversa da quella del suo predecessore alla Casa Bianca. Detto questo, Ii suo concetto di multilateralismo è molto americano-centrico e forse non poteva essere altrimenti. Per gli Usa, tornare sulla scena internazionale comporta anche una qualche revisione delle sue priorità geopolitiche: l’ossessione cinese testimonia di una politica americana che si sposta sempre più nella direzione dell’Indo-Pacifico; una politica in cui l’Europa è sì importante ma in qualche modo accessoria. Ed è ciò che, a ben vedere, è avvenuto in Afghanistan: l’Europa è stata messa dinanzi al fatto di essere, per l’appunto, importante ma accessoria. Resta il fatto che noi non possiamo non definirci filo-americani. La polemica scatenatasi su questo la trovo priva di senso: alla fin della fiera, la nostra sicurezza sta lì, i nostri principi stanno lì. Di certo, però, il multilateralismo imperfetto, “slanted”, di Biden dovrebbe obbligarci come europei a pensare seriamente come all’interno di un’alleanza che cambia non di pelle ma di priorità, dobbiamo orientare la nostra sicurezza.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Il politologo Usa: «L’errore più grande? Siamo stati troppo a lungo a Kabul». Alberto Flores d'Arcais su L'espresso il 10 settembre 2021. Un anno dopo l’intervento americano i talebani erano distrutti. Se gli alleati si fossero ritirati allora, sarebbe stato possibile un governo moderato. L’analisi di Stephen Wertheim. L’ 11 settembre 2001 Stephen Wertheim, oggi uno dei più quotati analisti americani di politica estera (è senior fellow dell’American Statecraft Program al Carnegie Endowment for International Peace) era ancora uno studente della high school. «Ricordo un annuncio al citofono della scuola che ci istruiva ad accendere la tv e a guardare lo svolgersi degli eventi. Ricordo solo il dolore e la rabbia e il sollievo quando gli Stati Uniti hanno iniziato a bombardare l’Afghanistan. Molto di quello che è successo dopo penso sia stato contenuto in quei momenti iniziali, quando il presidente Bush e i commentatori americani hanno definito molto rapidamente il significato degli eventi».

Vent’anni dopo la guerra in Afghanistan e il ritiro Usa. Può essere definita un successo come ha detto Biden?

«Sì e no. Non è certo un successo, l’America ha perso una guerra di 20 anni con un risultato orribile, perché i talebani hanno ripreso il controllo. Ed è assolutamente comprensibile che la gente in Occidente e altrove sia inorridita da ciò che è successo in Afghanistan nell’ultimo mese. Allo stesso tempo penso che Biden abbia ragione quando dice che ha preso la decisione giusta per uscire dalla guerra, che non c’era un modo carino o pulito per farlo. Da mesi, da anni, non c’era un bel quadro che potesse accompagnare la fine delle operazioni militari, proprio perché la guerra era uno sforzo perdente e i talebani persone profondamente repressive. Era chiaro che non ci sarebbe stata una transizione morbida del potere. Inoltre penso che per quanto caotica sia diventata la ritirata, una volta che i talebani hanno inaspettatamente preso il controllo dell’intero Paese, la conclusione della guerra avrebbe potuto essere anche peggiore».

In che senso?

«Quello che la maggior parte della gente a Washington sperava era un “intervallo” decente come quello che seguì il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam, uno o due anni. Sarebbe stato davvero meglio per il popolo dell’Afghanistan che ci fossero state altre migliaia di civili e soldati afghani uccisi e feriti nel prossimo anno o due, combattendo solo per ottenere lo stesso risultato alla fine? Sarebbe potuto sembrare più bello per coloro che volevano ignorare l’Afghanistan una volta che le truppe occidentali se ne fossero andate. Ma non sarebbe stato un risultato migliore». 

C’è stato qualche grave errore dell’Intelligence? O è colpa di Biden e prima di lui di Trump e Obama?

«Penso che il fallimento più importante sia quello dei presidenti americani che si sono succeduti nel non accettare la sconfitta molti anni fa, quando la missione degli Stati Uniti e degli alleati in Afghanistan era finita. La guerra si è trasformata in quella che penso sia stata correttamente descritta come una “guerra eterna” perché gli obiettivi erano irraggiungibili. E la scelta è diventata davvero combattere per sempre o no. Se non hai intenzione di farlo, meglio andarsene ora».

Quando occorreva andarsene?

«Questo è il problema fondamentale. Dobbiamo tornare indietro al 2002 o al 2003. È possibile che se le forze alleate se ne fossero andate in quel momento, allora ci sarebbe potuto essere un futuro senza talebani per l’Afghanistan. A quel tempo erano stati sbaragliati, molti militanti stavano cercando di essere reintegrati nella società afghana. Al Qaeda era stata in gran parte cacciata dal Paese. Se si vuole pensare a un punto di svolta, è stato molto, molto presto in quella che poi è diventata una guerra di due decenni. Un punto di svolta in cui potenzialmente il risultato politico in Afghanistan avrebbe potuto rivelarsi decisamente migliore. Quello che è successo è che gli Stati Uniti hanno continuato a fare la guerra e l’insurrezione talebana è stata creata in gran parte in opposizione all’occupazione di truppe straniere sul suolo afghano. E da quel momento, per 15 anni, i talebani hanno solo guadagnato territorio e consensi. Penso che se davvero gli Stati Uniti, se Obama, ma anche Trump, Intelligence, militari, la comunità della sicurezza nazionale, si fossero allineati nel cercare di modellare l’uscita più propizia possibile molto prima, allora forse il governo afghano avrebbe avuto una migliore possibilità di difendersi».

Decisione presa infine da Trump con gli accordi di Doha.

«Credo che ci sia stata molta riluttanza fino alla fine sia in alcuni settori del Pentagono, sia nella comunità che guida la politica estera a Washington. Nonostante gli anni avuti a disposizione per pianificare la loro uscita, il possibile ritiro inizia in effetti solo con l’accordo di Doha del febbraio 2020 tra gli Stati Uniti e i talebani. Ma anche allora era estremamente incerto, non si sapeva se gli Stati Uniti si sarebbero effettivamente ritirati fino al momento in cui Joe Biden, solo mesi fa, ha annunciato ufficialmente la decisione e la data del ritiro».

Cosa non ha funzionato nella pianificazione?

«Andava usato meglio tutto il tempo che hanno avuto una volta deciso il ritiro. Una cosa che assolutamente si sarebbe potuta fare diversamente è che dal momento in cui l’amministrazione Trump è diventata seriamente intenzionata a ritirarsi, gli Stati Uniti avrebbero potuto fare uno sforzo totale per elaborare uno speciale visto d’immigrazione per gli afghani “vulnerabili” che volevano lasciare il Paese. Questo non è successo, non con sufficiente velocità ed è stato un chiaro fallimento. Quello che penso sia stato più difficile è stato proiettare come esattamente la guerra civile afghana sarebbe finita e quindi cosa doveva essere fatto per pianificare questa eventualità».

Vent’anni fa tutti gli americani (o quasi) erano per bombardare l’Afghanistan. Poi dopo meno di due anni è iniziata la guerra in Iraq, che ha diviso gli Usa. È stato l’Iraq l’errore principale?

«No, continuo a pensare che il grande errore sia iniziato con la guerra in Afghanistan. La guerra in Iraq è stata un errore imperdonabile. È stata una guerra illegale, una guerra di aggressione, che gli americani non avrebbero problemi a denunciare se fosse stata lanciata da qualsiasi altro Paese. Ma è la guerra in Afghanistan che è stata l’inizio dei problemi con le guerre americane dopo l’11 settembre. Anche se il presidente Biden ha suggerito che gli Stati Uniti avevano un chiaro obiettivo iniziale, decimare Al Qaeda e punire i talebani per aver ospitato Al Qaeda, penso che sia più vicino alla verità che l’obiettivo fosse quello di trasformare l’Afghanistan, c’era già l’idea del cosiddetto nation building, un concetto che era destinato a fallire. Per avere successo doveva essere fatto con molta più attenzione e sensibilità alle realtà dell’Afghanistan, cosa che una superpotenza lontana non era probabilmente in grado di fornire. Avrebbe dovuto essere fatto con la volontà di reintegrare gli ex membri dei talebani e la società afghana. Invece, gli Stati Uniti avevano una mentalità in bianco e nero: o sei con noi o sei contro di noi».

Massimo Gaggi per corriere.it/sette l'11 settembre 2021. «Gli Stati Uniti resteranno una grande potenza, ma il loro ruolo nel mondo continuerà a ridursi. È un processo che va avanti da anni: non credo che verrà accelerato dal brutto ritiro da Kabul. Né credo che le altre potenze dell’area, soprattutto la Cina, trarranno vantaggi importanti dal vuoto lasciato dagli americani nell’Asia Centrale. Biden ha commesso errori, certo, ma ha avuto il coraggio di fare la scelta giusta assumendosene i rischi. È il terzo presidente che vuole ritirarsi dall’Afghanistan: i suoi predecessori non l’hanno fatto proprio per il timore di un’uscita caotica. Ma il ritiro era inevitabile: restare non era più sostenibile a meno di non decidere una escalation della presenza militare. C’erano i patti siglati da Trump da rispettare, ma, soprattutto, lo spaventoso aumento delle perdite di vite nell’esercito afghano già prima degli accordi di Doha: insostenibile». Francis Fukuyama, il politologo e storico americano di origine giapponese che trent’anni fa fece discutere il mondo col suo La fine della storia pubblicato dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, quando gli Usa non sembravano più avere rivali, analizza con distacco, dalla sua università di Stanford, in California, i drammatici eventi dell’ultimo mese. Non ignora i drammi umani del presente, ma esplora soprattutto il passato remoto e il futuro per cercare di capire le cause di quanto accaduto e cosa possiamo aspettarci ora. 

Chi giustifica Biden sostiene che non esistono modi non drammatici e non cruenti di uscire da una guerra persa.

«Certamente il presidente paga il conto di guerre sbagliate o comunque protratte troppo nel tempo».

L’illusione neocon dell’esportazione della democrazia.

«Non solo: il problema principale fu la reazione eccessiva agli attentati dell’11 settembre 2001. La minaccia del terrorismo di Al Qaeda fu molto sopravvalutata, così come fu sopravvalutata la possibilità di ottenere risultati politici usando la forza militare». 

Sono passati vent’anni. Dov’era lei quel giorno? Come reagì?

«Allora insegnavo a Washington. L’università era abbastanza vicina al Pentagono e dalla finestra vidi la colonna di fumo dell’aereo fatto precipitare dai terroristi. Uscii e la gente era impazzita. Strade chiuse, tornare a casa fu un incubo durato ore. Eravamo tutti terrorizzati. Non era un attentato come altri. Come quelli degli estremisti palestinesi o dell’IRA nell’Irlanda del Nord: violenza, cattura di ostaggi, trattative. Qui era diverso: c’era l’evidente obiettivo di fare strage di americani e se un giorno ne avevano uccisi tremila, il giorno dopo ne potevano ammazzare 300 mila o tre milioni. Si cominciò a temere che i terroristi potessero avere accesso ad ordigni nucleari o a una bomba “sporca”, radioattiva, o ad armi batteriologiche. È di quegli stessi giorni anche la minaccia delle buste all’antrace: ci sentivamo assaliti da tutti i lati. Poi abbiamo scoperto che non era così, ma c’è voluto tempo per capirlo. Guardando ora le cose col distacco degli anni trascorsi, vediamo che fu commesso un grosso errore politico con le invasioni, soprattutto l’Iraq: quella del terrorismo era, in realtà, una minaccia limitata, anche se condotta con azioni spettacolari per la loro ferocia. Abbiamo scoperto che Al Qaeda e gli altri gruppi non solo non erano in grado di procurarsi armi sofisticate, ma non avevano nemmeno un reale peso politico nel mondo arabo». 

Gli attentati, comunque, sono stati numerosi, anche in Europa. Poi è arrivato l’Isis, ora diffuso anche in Afghanistan. Non rischiamo una nuova onda di terrore jihadista, magari capace di arrivare negli Usa e di pesare sulle prossime elezioni?

«Non credo. Oggi il terrorismo organizzato riesce a colpire solo in Paesi privi di una solida organizzazione statale, dalla Somalia al Mali. Non ci sono più stati grandi attacchi in Europa e nemmeno negli Stati arabi più strutturati. Talebani che abbandonano il terrorismo solo a parole? C’è chi cita come prova la liberazione dei reclusi delle prigioni afghane. Ma a me risulta che, quando hanno aperto i cancelli, i talebani hanno fatto uscire tutti ma non i capi dell’Isis-K, eliminati con esecuzioni sommarie».

Il ritiro americano lascia comunque un vuoto in Asia Centrale: non ne trarranno vantaggio i Paesi dell’area e le due potenze Cina e Russia?

«Il caotico ritiro americano può avere offerto qualche piccolo vantaggio diplomatico a Pechino e a Mosca, ma non vedremo nulla di simile all’influenza che Urss e Stati Uniti hanno avuto quando hanno occupato l’Afghanistan: nessuno si vuole più avvicinare troppo. Hanno imparato tutti che quel Paese è come un porcospino: c’è sempre più da perdere che da guadagnare. Poi, certo, la Cina cercherà di stabilire rapporti economici perché il Paese ha importanti risorse minerarie ed è geograficamente collocato in un’area importante per le rotte della Belt & Road Initiative di Pechino. Non mi pare un fattore sostanziale». 

Un altro timore: Pechino, imbaldanzita dalla sconfitta e dal ritiro degli Usa, che attacca Taiwan. Possibile?

«Possibilissimo e io lo temo da tempo, ma non credo che un eventuale detonatore possa essere l’Afghanistan. La Cina non ha mai fatto mistero di puntare alla piena sovranità sull’isola. Sperava di arrivarci in modi pacifici, ma ormai Taiwan è una potenza economica e la brutale repressione a Hong Kong rende uno sbocco concordato impraticabile. Non so come finirà. So che Biden ha giustificato il disimpegno da Kabul anche con la necessità di concentrare l’attenzione sul contenimento dei grandi avversari degli Stati Uniti. Mi auguro che sia così, ma non so se riuscirà».

Taiwan è strategica per l’Occidente, soprattutto per la fornitura di microchip. Davvero rischia l’invasione? E gli Usa, da sempre impegnati a difenderla, resterebbero a guardare?

«La Cina ha la forza militare per riprendersi l’isola. Non credo che in caso di attacco gli Stati Uniti si impegnerebbero in una vera guerra. Il punto, quindi, è capire se quello che l’America sta facendo, e farebbe ancora di più in caso di attacco, per armare l’isola sarà un deterrente sufficiente a fermare la Cina. Io sono piuttosto pessimista».

In un saggio scritto per l’Economist lei si dice convinto che crisi e ritirata dell’America dipendano dai suoi problemi interni – la polarizzazione, l’involuzione dei processi democratici – assai più che dalle turbolenze nei rapporti internazionali. Non considera di per sè un dramma la fine dell’egemonia Usa – i periodi di unipolarismo sono eccezioni nella storia del mondo – e si augura che il Paese, recuperata coesione, riesca a mantenere, in partnership con altri, il mondo su un binario pacifico e di valori democratici condivisi. Poi, però, parlando dei problemi degli Usa, utilizza un termine definito: metastasi.

«È vero, c’è un cancro che divora l’America: la sua polarizzazione interna. Il problema principale viene dai repubblicani: un partito impazzito. Era internazionalista, mentre ora i più considerano i vaccini parte di una cospirazione globale contro gli Stati Uniti: una follia. Gli americani non si sono mai fidati molto dei governi, ma ora siamo passati dallo scetticismo a teorie cospirative insensate, eppure condivise da molti. Poi si diffonde anche una pericolosa radicalizzazione a sinistra che, se prende piede, minerà l’identità nazionale. Guardi la disputa che contrappone il 1619 al 1776, l’anno dell’indipendenza, come origine della nazione: è lo scontro tra chi crede che l’America sia fondata sulla battaglia per la libertà e chi ritiene che sia stata costruita sulla schiavitù. Così il progetto di democrazia multirazziale nato dopo l’era dei diritti civili va in frantumi». 

È a rischio anche il soft power dell’America, quell’influenza, teorizzata da Joseph Nye, che affascinava il mondo, legata a un insieme di valori democratici e fattori culturali, alla musica, alla letteratura, alla tecnologia, alle suggestioni di Hollywood?

«L’erosione del soft power dell’America non è cominciata di certo a Kabul: è un processo che va avanti da almeno 7-8 anni. Aggravato da Trump che ha deliberatamente sabotato la reputazione degli Usa nel mondo. Ferite che Biden promette di curare. Non so se riuscirà, anche perché l’anno prossimo con ogni probabilità perderà, almeno alla Camera, la maggioranza della quale oggi gode in Congresso. Vedo più rischi di paralisi che opportunità di rinascita».

Falling man. La scelta immorale di Biden e la prevalenza del cretino occidentale. Editoriale di  Christian Rocca il 17 Agosto 2021 su L'Inkiesta. In Afghanistan siamo tornati al punto di partenza, con i talebani pronti a ingabbiare le donne nel burka, privandole di ogni diritto e rendendole oggetto carnale a disposizione degli uomini. La strategia americana è stata costellata da errori, ma non si può sorvolare sul fatto che per vent’anni due generazioni di bambine e di ragazze hanno provato la libertà di emanciparsi, hanno potuto studiare, hanno vissuto con dignità senza essere stuprate, mercificate e uccise dalla metà patriarcale della popolazione. Il falling man, l’uomo che cade, è una delle immagini simbolo dell’11 settembre 2001. Scattata da Richard Drew alle 9:45 della mattina in cui il mondo è cambiato, quella fotografia ha catturato la disperazione di un uomo libero che, intrappolato dal fuoco e dal fumo dell’attacco islamista alle Torri gemelle, ha scelto di lanciarsi a testa in giù dalla North tower del World Trade Center alla ricerca di un’impossibile via di fuga. Vent’anni dopo la stessa scena dell’uomo che cade dal cielo per sfuggire al soffocamento talebano è stata catturata da un video amatoriale che all’aeroporto di Kabul ha immortalato il volo di due giovani afghani aggrappatisi follemente all’ala dell’aereo militare americano e poi scivolati via nel vuoto. Con questo video si è chiuso il cerchio del ventennale scontro di civiltà tra società aperta e islamismo politico, con la vittoria dell’islamismo politico e la disfatta morale della società aperta. In Afghanistan siamo tornati al punto di partenza, con Al Qaeda certamente sconfitta ma con i fondamentalisti del Corano che sono tornati a guidare il paese, pronti a martoriarlo con la sharia e quindi a ingabbiare di nuovo le donne nel burka, privandole di ogni diritto civile e rendendole oggetto carnale a disposizione degli uomini. L’uscita di scena americana, immaginata ingenuamente da Obama, siglata stupidamente da Trump ed eseguita maldestramente da Biden è un’infamia che segnerà per sempre e con disonore la storia dell’occidente, al pari del genocidio in Ruanda e della carneficina di Srebenica. Ma quando qualcuno dice che l’intervento in Afghanistan è stato un errore strategico, pur avendo mille ragioni per sostenerlo, visto che gli sforzi umani e finanziari di vent’anni hanno ceduto strutturalmente in due mezzi pomeriggi agostani, sorvola sul fatto che in questo arco di tempo, grazie a quell’intervento militare, due generazioni di donne afghane hanno provato la gioia di emanciparsi, hanno potuto studiare, hanno assaporato la possibilità di una vita dignitosa senza essere stuprate, mercificate e uccise dalla metà patriarcale della popolazione. Ci sono state bambine che in questi vent’anni di presenza internazionale a Kabul, a Herat, a Kandahar sono diventate donne e fino al ritorno dei Talebani hanno vissuto da donne libere. Ci sono state ragazzine che grazie all’intervento militare hanno cominciato e poi completato gli studi, fino a laurearsi, e hanno vissuto vent’anni da esseri umani e non da oggetto senza valore, da forzare al matrimonio, da inchiavardare dentro un burka e da stuprare a piacimento. Gli americani hanno commesso molti errori in Afghanistan: Bush si è subito fatto distrarre dall’Iraq; Obama si è stancato di quella che lui stessi ha definito «guerra giusta» e ha fissato una data di disimpegno dall’Afghanistan, come se il diritto delle ragazze a non essere stuprate fosse a scadenza come uno yogurt; Trump ha delegittimato il governo afghano trattando direttamente con i Talebani, facendosi turlupinare come un fesso quale è; Biden ha ereditato l’accordo di Trump ma anziché ridiscuterlo, come ha fatto su altri dossier, ha provocato il patatrac umanitario di queste ore con l’ignominia, ieri notte, di un discorso all’America da leader nazionalista e non da guida del mondo libero. Biden non aveva alternative buone a disposizione sull’Afghanistan, ma ha fatto una scelta con ogni evidenza sbagliata, l’ha eseguita in modo nefasto e, dopo una disfatta senza precedenti, l’ha difesa con retorica forbita ma con sostanza trumpiana, ovvero con una versione presentabile di America First con cui ribadisce ai dissidenti democratici di tutto il mondo che il Settimo Cavalleggeri non è più interessato a proteggerli. America is not back, per niente. Quelli che criticarono l’intervento del 2001 contro i talebani però non hanno alcun argomento politico per lamentarsi adesso del ritorno degli attempati ex studenti coranici a Kabul. Se allora gli americani non avessero invaso il paese che ospitava calorosamente Osama Bin Laden, i Talebani non solo avrebbero continuato ad ospitare la centrale del terrorismo islamista ma non avrebbero smesso di brutalizzare le ragazzine e le giovani donne che in questi vent’anni invece sono scampate alla barbarie, al contrario delle loro madri e delle loro sorelle maggiori. Le donne afghane sono state salvate dalla schiavitù per vent’anni. Ora con i Talebani tornano a valere nulla. Yanis Varoufakis su Twitter rivendica di essersi opposto all’invasione del 2001 «da una prospettiva femminista» (malimorté) e, a quelle stesse giovani donne che grazie alla rimozione ventennale del regime talebano hanno vissuto da esseri umani e non da schiave, adesso dice di «tenere duro». Varoufakis sarà anche un gagà narciso e un politico irrilevante, ma è la controprova che una delle ragioni della disfatta civile e morale di questi giorni è la prevalenza del cretino occidentale.

Roberto Fabbri per “il Giornale” il 17 agosto 2021. Le voci critiche da parte degli alleati occidentali sono una delle dimostrazioni più evidenti che la gestione americana del ritiro dall'Afghanistan è stata un fallimento. Dall'Europa, in particolare, arrivano distinguo che rivelano non solo il disagio nel vedersi accomunati agli Stati Uniti in un disastro strategico, umanitario e d'immagine che l'Amministrazione Biden fa sempre più fatica a negare, ma anche le preoccupazioni per le sue prevedibili ricadute di natura migratoria. Nel corso del Consiglio di Sicurezza straordinario che si è tenuto ieri a Palazzo di Vetro per iniziativa di Norvegia ed Estonia, il rappresentante di Londra è stato il più esplicito nel marcare le distanze da Washington. Mentre l'ambasciatrice americana già parlava a nome di una potenza che non intende più avere un ruolo sul terreno in Afghanistan, quello britannico ha usato un linguaggio diretto e concreto: in Afghanistan è in corso una tragedia di cui siamo corresponsabili e non dobbiamo offrire ai talebani, che non mantengono mai le promesse che fanno, il riconoscimento ufficiale che non meritano. Sempre da Londra, peraltro, il ministro della Difesa Ben Wallace esprimeva la sua «tristezza per ciò che l'Occidente ha ormai fatto» tradendo gli afgani. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha chiesto un incontro virtuale dei leader del G7 «nei prossimi giorni» per discutere della situazione in Afghanistan. Downing Street ha affermato che Johnson «ha espresso la sua intenzione di ospitare un incontro virtuale nei prossimi giorni» durante una telefonata al presidente francese Emmanuel Macron, nella quale ha sottolineato la necessità di un «approccio unitario» sulla situazione. Da Berlino non arrivano considerazioni più generose. Angela Merkel, ha detto che «in Afghanistan abbiamo sbagliato tutto» e che la caotica fine del governo «è stata provocata almeno in parte da ragioni di politica interna americana». Ancor più duro il suo aspirante successore cristiano-democratico alla Cancelleria, Armin Laschet, «la peggiore disfatta per la Nato dalla sua fondazione». Alle otto della sera, nell'imminenza di un vertice europeo che evidenzierà le divisioni in tema di accoglienza dei profughi afgani, il presidente francese ha preso la parola. Il ritiro americano è stato deciso prima da Trump e poi da Biden, ha chiarito. Ma già dal 2014 Parigi aveva completato il proprio e deciso di limitare il suo contributo a una collaborazione in ambito civile e questa continuerà. E ha chiarito che d'accordo con la Germania sta organizzando criteri comuni per l'accoglienza di profughi, pur ricordando che «l'Europa non potrà prendere tutto sulle sue spalle».

Valeria Robecco per “il Giornale” il 17 agosto 2021. Non sono solo gli avversari politici, Donald Trump in testa, a puntare il dito contro Joe Biden per la ritirata dall'Afghanistan che ha consegnato il paese ai talebani. Nelle ultime ore il presidente americano è finito in un fuoco incrociato di critiche anche da parte di diversi democratici e dei grandi media, solitamente abbastanza indulgenti con gli inquilini democratici della Casa Bianca. E così, il presidente ha lasciato il bunker di Camp David per rientrare al 1600 di Pennsylvania Avenue e parlare agli americani dopo un silenzio troppo lungo. «La nostra missione non è mai stata pensata per costruire una nazione. La scelta che avevo era proseguire l'accordo negoziato da Donald Trump con i talebani o tornare a combattere. Non c'è mai stato un buon momento per ritirarsi dell'Afghanistan, ma gli americani non possono e non devono combattere una guerra che lo stesso esercito afghano non vuole combattere». «Semmai, gli sviluppi della scorsa settimana rafforzano il fatto che porre fine al coinvolgimento militare degli Stati Uniti ora è stata la decisione giusta», prosegue Biden ribadendo di essere convinto fermamente della sua decisione. «La verità - ammette però - è che tutto si è svolto più rapidamente di quanto ci aspettassimo». «È tempo che Biden si dimetta per il disonore di ciò che ha permesso che accadesse in Afghanistan», tuona Trump, mentre i membri dell'attuale amministrazione Usa tentano di difendere le mosse del presidente. «Biden non era pronto ad iniziare un terzo decennio di guerra e mettere le truppe Usa in pericolo, combattendo e morendo, per tentare di tenere insieme l'Afghanistan quando le sue stesse forze armate non combattono per tenerlo insieme», sottolinea con la Cbs il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan. Mentre il segretario di stato Anthony Blinken respinge ogni paragone con Saigon (Vietnam) e assicura che gli obiettivi della guerra in Afghanistan sono stati raggiunti. I media Usa, invece, parlano proprio di una nuova Saigon, quella che lo stesso comandante in capo aveva promesso di evitare ritenendo «altamente improbabile» che i talebani riconquistassero il paese. E solo l'8 luglio affermava che non sarebbero stati necessari gli elicotteri per mettere in salvo il personale dell'ambasciata. Parole smentite clamorosamente dalle immagini dei talebani armati che entrano nel palazzo presidenziale mentre Ghani scappa all'estero, dell'evacuazione in elicottero del personale dell'ambasciata Usa come ai tempi del Vietnam, del caos all'aeroporto di Kabul con afghani disperati che si attaccavano ai carrelli degli aerei per fuggire.

"Dalle Torri alla pandemia, Le minacce che ignoriamo". Eleonora Barbieri il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. A vent'anni dall'11 settembre, il giornalista indaga sugli errori che ripetiamo: "L'intelligence ha fallito". «Dovunque voi siate vi coglierà la morte, anche se foste su altissime torri». Osama Bin Laden aveva ripetuto tre volte questo passo del Corano ai suoi ascoltatori. Diciannove giovani, pronti a farsi martiri. Erano gli uomini degli attentati dell'11 settembre, quel giorno già lontano e ancora vicinissimo di venti anni fa, quando il mondo, il nostro mondo, è cambiato per sempre. Perché davvero, da allora, ognuno ha percepito che la morte - il terrore - avrebbe potuto coglierlo ovunque si trovasse, perfino su quelle altissime torri finite in cenere. Vent'anni dopo, Lawrence Wright, giornalista investigativo americano e autore di Le altissime torri (Adelphi), saggio eccezionale premiato col Pulitzer e diventato anche una bellissima serie tv, continua a occuparsi di ciò che sconvolge il mondo. Dopo Gli anni del terrore. Da al-Qaeda allo Stato Islamico (sempre Adelphi) ha scritto il thriller profetico Pandemia (Piemme) e il più recente The Plague Year: America in the Time of Covid, un'inchiesta su ciò che è accaduto, ciò che si poteva prevedere, quello che si sarebbe potuto evitare... Proprio come in Le altissime torri aveva indagato «Come al-Qaeda giunse all'11 settembre», e come la guerra latente tra Fbi e Cia avesse aiutato i terroristi nella loro impresa folle e letale.

Lawrence Wright, niente ha cambiato il nostro mondo quanto il crollo delle Torri gemelle, nemmeno questo anno e mezzo di pandemia.

«È così. L'11 settembre ha cambiato la nostra società, e quello che mi preoccupa di più è che i giovani non ricordino come fosse la vita prima, prima dello Stato di sicurezza creato in America dopo gli attentati, quando non avevamo bisogno di tutte queste precauzioni. C'era un senso di libertà, e anche di innocenza, che si è perso completamente. E ho paura che sarà dimenticato».

E per il resto del mondo che cosa è cambiato?

«Il terrorismo esisteva, ma non faceva ancora parte della moneta corrente del mondo globale, era qualcosa di episodico. Dopo l'11 settembre tutti sono stati coinvolti, ovunque. In un'epoca di terrore nessuno può stare tranquillo. Allora Al Qaeda era composta da 3-4mila uomini, oggi ne ha 30-40mila».

Dieci volte tanto?

«Dieci volte tanto, in vent'anni. E si sono diffusi altri gruppi terroristici simili, inclusi quelli di supremazia bianca, dei quali Al Qaeda è il modello, con l'aggiunta delle nuove tecnologie, come i droni».

Le immagini delle Torri colpite dagli aerei sono sconvolgenti oggi come vent'anni fa.

«Il terrorismo è stato spesso descritto come un teatro e Al Qaeda ha portato questo teatro a un nuovo livello. Prima dell'11 settembre avevo scritto un film, Attacco al potere: beh, se avessi fatto ricorso a un'idea del genere sarebbe stata considerata troppo hollywoodiana... Al Qaeda ha inventato una forma di terrore così duratura e sconvolgente che rimarrà tale per sempre: nella testa delle persone, che vi abbiano assistito o no, resterà uno dei momenti di choc per l'umanità. Quello che ha agito è stato un genio del male, capace di trasformare il mondo attraverso un evento così fortemente teatrale».

Come l'11 settembre, il Covid ha sconvolto il mondo, e sarebbe stato anch'esso prevedibile...

«È interessante che le persone tendano a cancellare le minacce che la natura ci pone: la Morte nera, l'epidemia di Spagnola. L'11 settembre ha ucciso 3mila persone, la pandemia oltre tre milioni, eppure non abbiamo riassestato la nostra società come dopo gli attentati».

Prima la sottovalutazione, poi le restrizioni: anche la reazione della politica è stata simile?

«Identico è il fallimento dell'intelligence. Gli Usa hanno sedici agenzie, Dio sa quante ne esistano nel mondo, e nessuno è stato in grado di capire, o di prevedere, quanto stava per accadere, e che sarebbe stato una catastrofe per tutti noi. Quando ho lavorato al libro sul Covid, ogni responsabile sanitario con cui ho parlato era convinto che la pandemia sarebbe finita presto. Esattamente come con l'11 settembre, poche persone hanno compreso che là fuori ci fosse una minaccia; e la maggioranza l'ha rimossa».

Anche in questo caso i conflitti burocratici, come quelli tra Fbi e Cia nel 2001, sono stati un ostacolo?

«Fra le agenzie c'era un tale livello di sfiducia e di odio, da consentire agli attentati di essere portati a termine. In questo caso il conflitto è stato fra la Food and Drug Administration e il Centers for Disease Control, che si sono accusati a vicenda, mentre dovrebbero lavorare per proteggere la nostra salute».

In queste grandi tragedie, il giornalismo mostra ancora di avere un ruolo importante?

«Il giornalismo ha dimostrato di avere un valore inestimabile. Dopo l'11 settembre sono stati i giornalisti a capire quello che era successo, andando sul campo e parlando con le persone, facendo ciò che l'intelligence non fa. È la nostra missione: andare e parlare con le persone coinvolte. Senza questo lavoro non ci sarebbe stata alcuna comprensione di Al Qaeda e dell'11 settembre. E così con il Covid: è stato Matthew Pottinger, un ex reporter, che all'inizio della pandemia era viceconsigliere per la Sicurezza nazionale, ad alzare il telefono dalla Casa Bianca e a chiamare le sue fonti in Cina, per capire che cosa stesse succedendo davvero».

L'America ha superato l'11 settembre?

«No. Pensi a quello che è successo dopo: siamo appena usciti dall'Afghanistan e non siamo riusciti a impedire questa trasformazione, nonostante i soldi impiegati e le vite perse in vent'anni. L'America ha intrapreso il sentiero sbagliato ed è diventata un Paese diverso a causa dell'11 settembre: abbiamo fallito in molti modi nel tenere fede ai nostri stessi ideali, con conseguenze tremende per il mondo intero».

L'Afghanistan di nuovo in mano ai talebani è una delusione cocente?

«È orribile, e pericoloso per l'Occidente. Le questioni sono due: una riguarda ciò che gli afghani faranno a loro stessi, con il timore che i talebani non abbiano imparato alcuna lezione; l'altra, che riguarda il resto del mondo, è che Al Qaeda è diventata così forte nel 2001 perché protetta da uno Stato, e se ora la situazione torna identica...»

L'11 settembre può succedere di nuovo?

«Oh, certamente. Al Qaeda è molto più forte di allora e le nuove tecnologie offrono molte possibilità in più».

E l'intelligence?

«Ha evitato azioni eclatanti, ma sono avvenuti innumerevoli attacchi da parte di affiliati; e l'intenzione di compiere atti estremi di terrore non è mutata».

Il problema è anche la tecnologia?

«Al Qaeda ha sfruttato la tecnologia dell'Occidente contro l'Occidente stesso. Se avesse avuto i missili li avrebbe usati, ma aveva a disposizione qualcosa di ancora più efficace: i nostri aerei. Al Qaeda ha immaginato come utilizzare gli strumenti del mondo moderno al fine di distruggere la modernità. E oggi ne ha ancora di più».

Perché dobbiamo ricordare l'11 settembre?

«Per quello che ha fatto a noi, come persone, e perché il mondo è quello che è per l'11 settembre».

E come dovremmo ricordarlo?

«Dobbiamo cercare di capire il nostro comportamento, che ci ha portato a ignorare la minaccia esistente e a non indagare su ciò che stava succedendo nel mondo. È stato un fallimento non solo dell'intelligence, ma anche del giornalismo. E, dopo, l'America ferita, colpita nel suo dolore, ha capito poco di un mondo che voleva rendere più democratico, più simile a sé stessa: è difficile cambiare le persone che non vogliono essere cambiate. Forse è una lezione che possiamo imparare».

Che cosa servirebbe?

«Non solo spie e soldati, ma scambi fra cittadini. Lo so che suona molto soft, ma quello di cui abbiamo bisogno è più comprensione a livello internazionale. Si pensi alla rivalità fra superpotenze, Stati Uniti, Cina e Russia, incredibilmente pericolosa».

Fra i tanti eroi dell'11 settembre, chi è il suo preferito?

«Ali Soufan. Questo agente dell'Fbi, che allora aveva 26 anni, era l'unica persona di sedici agenzie a parlare arabo ed è stato lui a risolvere il caso e a scoprire chi avesse compiuto gli attentati. E sarebbe anche riuscito a impedire gli attacchi, se la Cia avesse collaborato e gli avesse dato le informazioni sull'incontro di Kuala Lumpur, che poi portò all'11 settembre». Eleonora Barbieri

Francesco Semprini per “la Stampa” il 21 agosto 2021. «Sapevamo che i taleban sarebbero entrati velocemente a Kabul, da parte del Pakistan non vi sarà nessun ostruzionismo. Le masse saranno felici con i taleban alla guida dell'Afghanistan. A preoccuparsi sono per lo più i corrotti e le classi privilegiate che saranno private del loro bottino e della loro influenza per sfruttare i poveri». A parlare è il generale Asad Ahmed Durrani già direttore dell'Inter-Services Intelligence (Isi) i servizi segreti pachistani, ed ex direttore dell'intelligence militare dell'esercito di Islamabad. 

Cosa pensa della situazione in Afghanistan?

«Ci aspettavamo che accadesse e anche in tempi rapidi. Il progetto Afghanistan così come era stato concepito dagli americani e dalla Nato era fallito da molti anni. Quello che è accaduto può essere considerato una lezione che rimarrà scritta nei libri di storia. L'unica cosa che può sorprendere è il modo in cui i taleban sono riusciti a ottenere il controllo del Paese, ovvero minimizzando gli sforzi». 

Lo ritiene un successo?

«Bisogna apprezzare l'azione militare, anche contando che i taleban non hanno aviazione, così come l'azione diplomatica intesa come capacità di coinvolgimento della popolazione che ha permesso una penetrazione più agile in molte aree». 

È contento della nascita del nuovo Emirato islamico?

«Le masse saranno felici con i taleban alla guida dell'Afghanistan. A preoccuparsi sono per lo più i corrotti e le classi privilegiate che saranno private del loro bottino e della loro influenza per sfruttare i poveri».

Non teme che vi siano ricadute in Pakistan?

«I taleban non intendono influenzare la politica o l'ideologia in Pakistan. Ma dipende interamente da noi se vogliamo mutuare aspetti del loro modello vincente». 

Quindi da parte del Pakistan massima disponibilità?

«Non ci sarà nessun atteggiamento ostile, nessuna azione di ostruzionismo a meno che non diventino complici di azioni ostili commesse da qualcun altro. In questo senso è ovvio che il Pakistan prenderà le distanze come è successo dopo l'11 settembre. Motivo per il quale siamo diventati un bersaglio dei taleban stessi anche all'interno del Paese con quel movimento di protesta che è poi sfociati qualche anno dopo nel Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp). Detto questo da parte del Pakistan non può esserci contrasto per un movimento che ha l'appoggio della popolazione e che ha messo fine all'invasione di truppe straniere».

Molti riferiscono che sul terreno c'erano anche combattenti pachistani, c'è stato un appoggio nell'offensiva?

«Può essere accaduto anche se non ne sono a conoscenza ma il fatto che ci siano volontari da altri Paesi che combattono una guerra non è una novità. Volontari pachistani sono andati a combattere in diverse guerre, è accaduto in Cecenia, in Bosnia, e ultimo in ordine di tempo in Azerbaijan. Non ritengo che ci sia stato di più, se fossi un taleban non vorrei prendere comandi da un pachistano per combattere una guerra in un territorio che conoscono bene». 

Si parla di legami tra ambienti dell'Isi e i taleban, può confermarlo?

«Qualche volta gli interessi possono coincidere, ad esempio quando c'è stata l'invasione sovietica. Il lavoro dell'intelligence è tenere i contatti aperti con tutti, anche col diavolo. Ancora di più con un movimento che era chiaro avrebbe prevalso». 

Cosa pensa delle promesse di fermare il traffico della droga e di non ospitare formazioni terroristiche e di amnistiare gli avversari politici?

«Penso che sia il messaggio giusto, anche Nelson Mandela da presidente ha impedito ogni ritorsioni nei confronti dei suoi stessi nemici. Ed è la strada che i taleban devono percorrere per dimostrare di essere diversi rispetto a quelli di venti anni fa, e per dimostrare di essere una leadership capace di governare tutto il Paese e che è in grado fare business con il resto del mondo».

Il tramonto dell'Occidente. Augusto Minzolini il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Indietro di vent'anni: i talebani prendono il potere, parte la caccia casa per casa. Jihadisti già in libertà: adesso torna l'incubo del terrorismo. Il tramonto dell'Occidente: prendendo in prestito il titolo di un libro del filosofo Oswald Spengler, così si potrebbe definire questo tornante della Storia che vede i talebani risorgere venti anni dopo sulle ceneri dell'alleanza occidentale che era nata come reazione all'attentato alle Torri gemelle. Quei corpi che cadono da un aereo all'aeroporto di Kabul, che ricordano quelli che precipitarono da un elicottero da Saigon o dalle Twin Towers, rappresentano l'immagine non solo della fuga degli Stati Uniti dalle loro responsabilità ma dell'intero Occidente. Una disfatta di cui sono chiari i problemi che pone nel presente, meno nitide e per questo preoccupanti le conseguenze future. Sul presente è evidente che il controllo talebano dell'Afghanistan offrirà al terrorismo islamico un nuovo riferimento internazionale e un possibile Stato ospitante, cioè le ragioni della guerra di due decenni or sono. I segnali che si rischi di tornare alla situazione precedente ci sono tutti: il nuovo comandante generale dei talebani Haibatullah Akhundzada è stato già definito «emiro dei credenti» dal capo di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri, in riconoscimento della sua autorità; uno dei leader talebani che ha parlato ad un'emittente saudita è Gholam Rouhani, per otto anni detenuto a Guantanamo; sono stati liberati tutti i detenuti dai carceri afghani compreso un folto gruppo di jihadisti; è stata reintrodotta la shari'a e le donne hanno perso in dieci giorni tutte le conquiste degli ultimi 20 anni. Questo è il risultato immediato. Il bilancio della politica di questo ventennio è ancora più pesante: in dieci giorni è crollato lo Stato afghano forgiato dagli occidentali; il disimpegno si è trasformato in un'ingloriosa fuga; sul campo sono rimasti 87 miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti in due anni, in buona parte armamenti moderni di cui d'ora in avanti si avvarranno i talebani. Per non parlare del destino che attende quella parte della popolazione afghana che ha lavorato o supportato la scommessa sull'avvento della democrazia in questa parte dimenticata del mondo: che fine faranno, ma soprattutto, chi d'ora in avanti, nelle aree più a rischio del pianeta, si fiderà della parola dell'Occidente? È qui il segno distintivo di un ritiro che si è trasformato in disfatta, deciso sull'onda del politicamente corretto, con il peggior pressappochismo sia nell'analisi della realtà afghana, sia nell'organizzazione militare. Per l'immagine di Biden la gestione del disimpegno in Afghanistan può esser dannosa come la gestione della guerra in Vietnam per Nixon. La lezione per gli Usa è che quando ti tuffi in un intervento armato a livello internazionale, non puoi interromperlo quando ti fa più comodo, altrimenti è meglio desistere. Discorso che vale pure per l'Europa, che in più dovrebbe rivendicare un maggior coinvolgimento nelle decisioni di Washington: il Vietnam riguardò solo gli Usa, l'Afghanistan avrà ripercussioni sull'intero Occidente. Specie se sono scelte che incidono sullo scacchiere mondiale: dietro la disfatta di Kabul si staglia, infatti, l'ombra della Cina; il suo desiderio di mettere in discussione i vecchi equilibri in ossequio alle proprie mire egemoniche. In economia ma non solo. Augusto Minzolini

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2021. Dove abbiamo fallito? «Si è preteso di esportare la democrazia e i valori occidentali senza tenere conto della cultura e delle tradizioni afghane. In più, la coalizione militare alleata marciava a ritmi diversi. Gli eserciti anglosassoni applicavano le regole di guerra, mentre noi europei lavoravamo come fossimo forze di polizia con un compito di rigenerazione morale del Paese. Il risultato dopo vent’anni è questa tragica Caporetto dell’esercito afghano». Marco Bertolini non si tira indietro. E nel consueto stile franco con cui operava da generale della Brigata paracadutisti Folgore a Kabul nel 2008 (oltreché nel ruolo di Capo di Stato Maggiore Isaf dell’intero contingente internazionale) fornisce la sua spiegazione del disastro afghano. Lo aiuta la condizione di generale in pensione che a 68 anni, dopo un quarantennio di servizio spesso con le missioni militari italiane all’estero, gode dell’esperienza e ha la libertà per contribuire a capire.

Gli afghani di fronte ai talebani, una rotta drammatica e rapidissima. Come lo spiega?

«Certamente la Nato e i nostri eserciti europei dovranno fare i conti con questa realtà. Dovremo valutare i fallimenti e imparare per le prossime missioni tra Africa e Medio Oriente. Nella nuova operazione Takuba stiamo adottando gli stessi criteri di addestramento delle forze locali nel Sahel. In Libia sono stati i turchi ad agire militarmente al nostro posto. La lezione afghana va studiata. La spiegazione di questo disastro si articola su due livelli: uno politico e l’altro tattico-operativo. Noi miravamo a occidentalizzare l’Afghanistan cercando di imporre i nostri sistemi democratici. Ma loro hanno tradizioni del tutto differenti. Per esempio, non hanno partiti. I pashtun sono un’etnia legata a tradizioni locali, e così gli hazara o i tagiki. Ci siamo illusi che l’accoglienza calorosa riservataci dalle élite cittadine rappresentasse il Paese intero. Ma la maggioranza sta nelle campagne, sulle montagne, tra i villaggi e ci ha sempre guardato con sospetto, se non aperta ostilità. Tanti non capiscono l’insistenza sui diritti delle donne, la vedono come un’intrusione». 

In due decenni non ci avete mai pensato?

«Se ne è parlato molto ai comandi Isaf. I generali americani David McKiernan e Stanley McChrystal insistevano che occorreva conquistare la simpatia della popolazione, lavorare sul territorio con la gente. Ma ne uscì poco». 

E l’aspetto operativo?

«Purtroppo la nostra è sempre stata una coalizione militare a scartamento alternato. Gli americani, assieme agli inglesi, facevano la guerra nel senso completo della parola. Noi invece, assieme a tanti altri contingenti, insistevamo nel presentare le nostre operazioni come civili e di pace: portavamo libri ai bambini, costruivamo scuole, centri di assistenza per le donne.  In certi momenti fu come se noi fossimo in Afghanistan unicamente per fare abolire il burqa, si era persa del tutto la dimensione militare. Certo che ogni tanto eravamo costretti a sparare. Ma alla nostra opinione pubblica dovevamo dire che lo facevamo solo per difenderci. Le nostre regole d’ingaggio erano disomogenee e per noi limitanti». 

Per esempio?

«Nel caso una nostra pattuglia avesse incontrato sulla strada Osama bin Laden in persona non avrebbe mai potuto sparare per prima, ma limitarsi a rispondere al fuoco. Quando i nostri mezzi venivano danneggiati da tiri nemici il caso andava alla Procura di Roma per l’inchiesta e il mezzo veniva bloccato. Procedure normali in Italia, non in zone di conflitto. Nel 2014 la nostra missione si è trasformata da “combattimento” ad “addestramento” delle truppe locali. Ma i talebani hanno continuato a rafforzarsi».

Biden ha fatto male a ordinare il ritiro?

«Non è stato Biden, ma Trump a volere l’accordo con i talebani per il ritiro. E comunque era inevitabile, dopo due decenni la situazione era ormai bloccata. Certo è amaro constatare che dopo tanti sforzi e lavoro i talebani tornano al potere più forti e più estremisti di prima».

Afghanistan, quello scontro sul ritiro che spaccò la Nato: Italia e Gb contro gli Usa. Antonello Guerrera,  Claudio Tito su La Repubblica il 14 agosto 2021. Al vertice dei ministri della Difesa della Nato, Roma e Londra sostennero che lasciare ora Kabul era sbagliato. Washington: “Restate da soli”. "È un errore, dobbiamo rimanere. Almeno ancora un altro po'". Era la prima settimana di giugno. I ministri della Difesa della Nato si riunivano a Bruxelles. Sotto la presidenza del segretario generale del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg. L'incontro era fissato per mettere a punto gli ultimi aspetti del successivo summit del 14 giugno. Quello che ha visto incontrarsi tutti i capi di Stato e di governo dell'Alleanza.

(ANSA il 19 agosto 2021) - Anche i diplomatici americani in servizio a Kabul avvisarono un mese fa Washington della rapida avanzata dei talebani e fornirono consigli su come accelerare le evacuazioni. Lo scrive il Wall Street Journal, secondo cui circa una ventina di dirigenti del dipartimento di stato all'ambasciata Usa mandarono un memo interno al segretario di Stato Antony Blinken e ad un altro funzionario per metterli in guardia del potenziale collasso di Kabul poco dopo il termine del 31 agosto per il ritiro delle truppe americane. Il cable, mandato il 13 luglio attraverso il canale riservato su cui i diplomatici possono esprimere il loro dissenso, avvisava delle rapide conquiste territoriali dei talebani e del conseguente crollo delle forze di sicurezza afghane e offriva raccomandazioni su come mitigare la crisi e rendere più veloci le evacuazioni. Nei giorni scorsi altri media Usa avevano rivelato analoghi moniti da parte dell'intelligence americana.

Ian Bremmer per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. Il ritiro maldestro delle truppe americane dall'Afghanistan rappresenta la prima vera crisi dell'amministrazione Biden in politica estera. La colpa non va attribuita alla decisione di ritirarsi: si è trattato di un errore attuativo, non strategico. La presenza americana nel Paese si era fatta sempre più insostenibile. Gli Stati Uniti avevano già riportato in patria un numero consistente di truppe, mentre i talebani guadagnavano rapidamente territorio, e in patria ben pochi americani si interessavano ormai all'intera vicenda. Biden aveva ereditato un processo di pace andato in frantumi e avrebbe dovuto affrontare la prospettiva di un rinnovato conflitto contro le forze talebane, sempre più agguerrite, se avesse fatto marcia indietro sugli impegni sottoscritti da Trump. Riprendere i combattimenti avrebbe richiesto un ulteriore coinvolgimento militare che nessuno, nel governo Biden, a cominciare dallo stesso presidente, era disposto ad appoggiare. Il ritiro è stata la migliore tra le varie opzioni, tutte pessime. Il presidente Biden è profondamente convinto di questo, come ha ribadito nel suo appello alla nazione lunedì scorso. Ma la sorpresa maggiore - davvero scandalosa, se si pensa all'esperienza e alla professionalità della squadra di sicurezza nazionale e politica estera messa in piedi da Biden - è venuta dalla palese incompetenza dimostrata nell'esecuzione. 

Di seguito i principali errori in cui sono incappati gli americani:

1. Errori militari e di intelligence. Le agenzie di intelligence americane ritenevano che Kabul avrebbe resistito ai talebani addirittura due o tre anni. Ma non appena l'offensiva talebana ha innestato la marcia, la valutazione dell'intelligence è scesa a due-tre giorni. Due sono i dati che lasciano davvero di stucco: primo, gli Stati Uniti hanno speso 88 miliardi di dollari, in vent' anni, per addestrare un esercito afghano che si è rifiutato di combattere; secondo, dopo vent' anni di addestramento militare, gli Stati Uniti non hanno capito (o non hanno voluto capire) quali fossero le reali capacità di quell'esercito e la sua effettiva volontà di combattere. 

2. Errori di coordinamento. Gli Stati Uniti hanno combattuto accanto ai loro alleati per due decenni, ma quando è venuto il momento di staccare la spina, Biden lo ha fatto da solo, sia in termini di scelta politica che di decisione, comunicazione, attuazione e ripercussioni (l'evacuazione dei cittadini, l'accoglienza dei rifugiati, gli aiuti umanitari e via dicendo). Gli alleati si aspettavano dagli americani un atteggiamento diverso nei confronti degli amici, dopo quattro anni di slogan «America first» sbandierati da Trump. Gli Stati Uniti hanno inoltre scartato l'occasione di coinvolgere la Cina. Lo sfacelo dell'Afghanistan non è nell'interesse di nessuno dei due Paesi, né che ricominci a esportare il terrorismo internazionale. Esisteva la possibilità di ricercare soluzioni diplomatiche creative in una delle pochissime aree che accomuna cinesi e americani, ma l'occasione è andata sprecata.

3. Errori di pianificazione. Malgrado le sviste dell'intelligence e le falle nel coordinamento, si poteva ancora evitare il disastro se il governo Biden avesse attentamente pianificato scenari alternativi. In base a quanto sappiamo, ciò non è accaduto. Gli Stati Uniti sono stati costretti a inviare rinforzi per effettuare le operazioni di evacuazione, circa 3.500 effettivi che erano già stati rimpatriati dall'Afghanistan. L'aeroporto di Kabul è stato preso d'assalto da migliaia di civili afghani in preda al panico. Un aereo da trasporto americano ha preso il volo circondato da una folla impazzita e tre disperati sono precipitati al suolo dal velivolo dopo il decollo. Non è stato previsto alcun piano per mettere al sicuro migliaia di afghani che hanno collaborato con le forze americane e molti di loro saranno abbandonati al loro destino.

4. Errori di comunicazione. Nel preparare il ritiro delle truppe americane, Biden aveva rassicurato i suoi concittadini, sostenendo da diverse settimane come «molto improbabile» la possibilità che i talebani avrebbero «sopraffatto l'esercito afghano e riconquistato l'intero Paese». Aveva inoltre ribadito che «non si sarebbero viste scene di ponti aerei dal tetto» dell'ambasciata americana. Il segretario di Stato Antony Blinken aveva dichiarato: «Noi restiamo qui, l'ambasciata resta qui, i nostri programmi restano. Potrebbero esserci problemi di sicurezza, ma non si tratta di cose che succedono dalla sera alla mattina».

Previsioni puntualmente smentite dai fatti in tempo reale. A questo punto il governo Biden ha cambiato tattica, affermando che l'America «ha portato a termine» il suo impegno in Afghanistan. Quella che doveva essere una decisione difficile, ma necessaria, si è trasformata in una totale catastrofe, esponendo Biden alle accuse, da parte dell'opposizione, di essere personalmente responsabile di una guerra fallimentare - un'accusa ridicola per un fallimento da 2 trilioni di dollari nell'arco di vent' anni, ma che da oggi in poi gli verrà imputata. I prossimi giorni saranno cruciali. Il governo di Kabul è caduto e l'ex presidente Ashraf Ghani è fuggito in esilio. Molti americani e stranieri però sono ancora bloccati nella capitale, in attesa dell'arrivo di migliaia di militari per evacuarli. E i talebani? Tenteranno di sequestrare o di eliminare gli americani che battono in ritirata? Il caos inevitabile che si instaurerà nella capitale sfocerà in incidenti e omicidi di giornalisti americani, operatori umanitari, diplomatici e soldati? La Casa Bianca sta esaminando tutta una serie di scenari apocalittici che ricordano la crisi degli ostaggi di Teheran nel 1979 e il drammatico tentativo di salvataggio messo in atto nel 1980. Tra breve sapremo se Kabul 2021 andrà ad aggiungersi a quella lista. Ma anche se Biden riuscirà a scongiurare ulteriori disastri, le prospettive per le prossime settimane appaiono terrificanti. I talebani si godranno il colpaccio propagandistico di issare il loro vessillo su Kabul - compresa l'ex ambasciata americana - nel giorno del ventesimo anniversario dell'attacco terroristico alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Materiale militare del valore di svariati miliardi di dollari, abbandonato dagli americani, verrà esibito per le strade della capitale. Le forze talebane imporranno le loro regole con nuove atrocità, specie contro donne e bambine. I media americani non si lasceranno sfuggire questi dettagli, specie se alcuni giornalisti vi resteranno coinvolti. Il Congresso si affretterà a indire udienze per interrogare i vertici militari su quanto accaduto. L'Afghanistan diventerà nuovamente il porto sicuro del terrorismo internazionale, o perché i talebani spalancheranno le porte alle organizzazioni estremiste oppure, più probabilmente, perché non saranno in grado di controllare fino in fondo i loro territori. È ben risaputo che le zone di conflitto attirano i jihadisti da ogni parte del mondo, come ha dimostrato l'Afghanistan stesso negli anni Ottanta, la Bosnia negli anni Novanta, l'Iraq nel 2000 e la Siria nel 2010. L'ondata di attacchi terroristici sferrati dall'Isis in Europa fu resa possibile dall'abilità di tali organizzazioni nel reclutare fanatici da ogni angolo del pianeta, per poi addestrarli in Siria e in Iraq, e rispedirli nei loro Paesi d'origine a compiere stragi. La capacità degli americani di sorvegliare e colpire i gruppi terroristici in Afghanistan sarà limitata dall'assenza di intelligence sul territorio e dalle restrizioni imposte dal dispiegamento militare nella regione. Le «ben note incognite» riguardanti l'Afghanistan si moltiplicheranno negli anni a venire, e non potrebbe esserci prospettiva peggiore per l'America.  

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 15 agosto 2021. «Un epilogo così drammatico avrebbe potuto essere evitato». Il fondatore dell'Eurasia Group Ian Bremmer riflette con occhio critico sulle recenti decisioni che hanno portato l'amministrazione Biden ad abbandonare l'Afghanistan nelle mani dei gruppi talebani.

In cosa ha sbagliato l'amministrazione Usa?

«L'errore è stato ordinare una revisione unilaterale della strategia, e assumersi il peso delle decisioni che ne sono seguite senza dividerlo con gli alleati, in particolare il Canada. La rotta del ritiro era segnata dalla svolta dell'amministrazione Trump, e Biden non aveva un grande margine di manovra. Ma la missione militare era una missione congiunta, e sarebbe stato giusto condividere la strategia dell'esecuzione, perlomeno per evitare di offrirsi agli occhi del mondo come i responsabili dell'attuale tragedia che si sta consumando. Abbiamo mandato Kerry in Cina a parlare di clima. Perché non ha discusso anche di Afghanistan? Come minimo avremmo potuto chiedere loro che dislocassero dei loro osservatori nel Paese, per proteggersi dalla pressione dei profughi afghani che si stanno ammassando ai confini del Tajikistan con la Cina».

Questa crisi chiude un ciclo di vent' anni ed è giusto riflettere in chiave storica. A cosa sono serviti gli 87 miliardi di dollari e le 2.300 vite di soldati Usa?

«Lo sforzo della ricostruzione è stato genuino da parte della coalizione. Ha fornito al Paese infrastrutture che non aveva mai avuto prima e ha aperto gli occhi di molti cittadini a concetti di libertà e di democrazia che sono stati ben apprezzati. D'altra parte la corruzione è stata sempre altissima e molti degli sforzi sono vanificati. Per quanto riguarda gli Stati Uniti e l'Occidente questo epilogo è comunque la conferma che la pretesa di fare un'operazione di state building (ricostruzione pilotata, ndr.) con le armi in pugno non sarà più percorribile in futuro».

Le città cadono una dopo l'altra, si parla di decapitazioni e della fame che affligge i bambini. Che ripercussioni hanno queste immagini di una sconfitta per Joe Biden?

«Poche in campo domestico. La stragrande maggioranza degli statunitensi non ne poteva più di questa guerra, e l'attenzione alle notizie drammatiche che arrivano dall'Afghanistan è minima negli Usa. Sbaglia chi paragona la situazione attuale alla resa di Saigon perché l'investimento emotivo per noi è minimo. Il contraccolpo è maggiore nei paesi nemici, dove i governi dell'Iran, della Russia e della Cina hanno gioco facile nel rilanciare l'immagine degli Usa perdenti perché ormai deboli e decaduti». 

Lei ha menzionato la Cina. Sarà il prossimo protagonista in Afghanistan?

«Pechino ha solo remoti motivi per temere un governo talebano a Kabul. Ha piuttosto un interesse strategico a inserire il Paese nel suo disegno delle vie della seta. Un intervento cinese in Afghanistan avrà la forma del soft power, con l'offerta di fondi e della costruzione di opere infrastrutturali». 

Un governo talebano offre un nuovo spazio al terrorismo jihadista?

«Certamente, e non solo per via dell'affinità ideologica. Il vero problema è che i talebani non hanno oggi il controllo delle regioni settentrionali del paese, e probabilmente non lo avranno nemmeno in futuro, il che rende l'equilibrio politico instabile e vulnerabile. Questo non è però un problema pressante per l'amministrazione di Washington come lo è stato in passato. La vera minaccia terroristica per gli Stati Uniti oggi viene dal fronte interno: è seria e incalzante. Sarà invece l'Europa a doversi preoccupare delle conseguenze di una eventuale ricostruzione del polo del terrore, con base in Afghanistan».  

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 19 agosto 2021. Un fallimento costruito con meticolosa incompetenza, nell'arco di vent' anni, con la responsabilità di quattro amministrazioni repubblicane e democratiche. E con qualche colpa degli alleati Nato, che insistendo sui "caveat" per limitare l'operatività delle proprie forze, come ha fatto spesso pure l'Italia, hanno compromesso l'efficacia dell'intervento. È l'impietosa e devastante conclusione a cui è giunto John Sopko, Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, nell'undicesimo e presumibilmente ultimo rapporto sulle «Lezioni imparate» a Kabul. Assai poche, per la verità, perché da questa analisi commissionata dal governo americano a partire dal 2008, sembra di capire che il governo americano non abbia mai davvero saputo cosa stava facendo. La polemica partitica imperversa, per lo scaricabarile indispensabile a salvare la faccia. Trump ha detto alla Fox che la caduta di Kabul è «la più grande umiliazione mai subita dagli Usa», sorvolando sul fatto che lui l'aveva messa in moto accordandosi con i taleban per il ritiro entro il primo maggio. Il suo ex capo del Pentagono Esper ha invece puntato il dito su Donald, accusandolo di aver creato le condizioni per il collasso con l'insensata fretta di andarsene. Condoleezza Rice, difendendo l'intervento che aveva orchestrato, ha scritto sul «Washington Post» che bisognava restare all'infinito, come in Corea. Biden ripete che questa ipotesi era assurda, e ieri ha cercato una sponda europea parlando con la cancelliera Merkel, allo scopo di coordinare evacuazione, aiuti alla popolazione, e l'uso dei soldi come leva per frenare i taleban. Ma già perde popolarità, scesa di 7 punti, dal 53 al 46%. A fare chiarezza sulle responsabilità condivise è quindi arrivato il rapporto di Sopko. L'Inspector ha parlato con 760 protagonisti politici, militari e diplomatici della missione, costata 145 miliardi di dollari per la ricostruzione, 837 per i combattimenti, 2.443 vite americane, 1.144 delle truppe alleate, e almeno 66.000 afghane. Il peccato originale ovviamente lo ha commesso Bush figlio, quando sotto la spinta dei neocon ha trasformato l'intervento mirato contro al Qaeda nella crociata per portare la democrazia in Afghanistan, e poi Iraq e Medio Oriente. Il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale Hadley ha notato che sarebbe stato difficile eliminare la formazione di Bin Laden senza ricostruire, stabilizzare e riformare Kabul. Ma per quanto ciò possa apparire sensato, i risultati sono quelli che vediamo. E al disastro hanno contribuito tutte le quattro amministrazioni coinvolte, cioè Bush figlio, Obama, Trump e Biden. Sopko rimprovera sette errori capitali.

Primo: «Il governo degli Stati Uniti ha costantemente faticato a sviluppare e attuare una strategia coerente per ciò che sperava di ottenere». Invece di un intervento ventennale coordinato, si è trasformato nella somma di venti interventi annuali scombinati. Le frizioni fra diplomatici, militari e personale civile erano la costante, ma nessuno aveva la capacità di risolvere i problemi. 

Secondo: «Ha costantemente sottovalutato la quantità di tempo necessaria per ricostruire l'Afghanistan, e ha creato scadenze e aspettative irrealistiche che hanno dato priorità alla spesa rapida». L'importante era usare i soldi stanziati dal Congresso, anche se non portavano risultati. 

Terzo: «Molte delle istituzioni e dei progetti infrastrutturali costruiti dagli Usa non erano sostenibili». Anche negli aspetti più banali, tipo costruire le scuole con i criteri di accessibilità americani per i disabili, in luoghi inaccessibili anche ai normodotati.

Quarto: «Politiche e pratiche controproducenti per il personale civile e militare hanno ostacolato lo sforzo». 

Quinto: «L'insicurezza persistente ha gravemente minato gli sforzi di ricostruzione», che spesso avvenivano sotto il fuoco nemico. 

Sesto: «Il governo Usa non ha compreso il contesto afghano e quindi non ha adattato i suoi sforzi di conseguenza». Ha speso un miliardo di dollari per costruire un sistema giudiziario occidentale, in un paese dove tra l'80 e il 90% delle dispute si risolvono in altra maniera, spesso attraverso la sharia applicata dai taleban.

Settimo: «Le agenzie governative raramente hanno condotto un monitoraggio e una valutazione sufficienti per comprendere l'impatto dei loro sforzi», quindi non sapevano cosa funzionava e cosa falliva. Ora, come era accaduto dopo il Vietnam, si smantella il poco di buono costruito, ponendo così le basi per il fallimento del prossimo intervento di ricostruzione per difendere l'interesse nazionale. Che inevitabilmente arriverà, visto il caos alla guida mondo.

"Mio figlio caduto in guerra per niente. Lo Stato lo ha usato e poi dimenticato". Chiara Giannini il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. La madre del caporal maggiore Positano: "Non dovevano partire". «Sono amareggiata, delusa, arrabbiata, mio figlio è morto per niente»: Rosa Papagna risponde al telefono da Foggia, città in cui viveva anche Francesco Saverio Positano, caduto il 23 giugno del 2010 in quell'Afghanistan che ora soffre sotto la nuova dittatura dei talebani. Il caporal maggiore degli Alpini perse la vita, così dissero i commilitoni, cadendo da un mezzo blindato. Ma «Mamma coraggio» e il marito Gino sono riusciti a far riaprire il fascicolo della morte del figlio e a ottobre otto persone, ex colleghi di Francesco, saranno a processo. Ma questa storia non c'entra con i processi, semmai sulla perdita vana di una vita.

Perché il ritiro dei contingenti, Rosa, ha riportato l'Afghanistan indietro di vent'anni.

«Ma io mica ce l'ho con le Forze armate. Io ce l'ho con i governi dell'epoca e con tutti coloro che decisero di farli partire. Abbiamo perso 53 vite. Vi sembra una cosa normale? Vedete di fronte a cosa ci ritroviamo adesso? Per una mamma che da undici anni piange un figlio morto in guerra non è semplice da accettare. Quando mi hanno detto che ci stavamo ritirando dall'Afghanistan il mio cuore si è riempito di gioia. E poi».

E poi?

«E poi non c'era nessuno ad accoglierli. Ho visto la Folgore rientrare nel silenzio più assoluto. Bel ringraziamento per aver donato tante vite. Avrebbero potuto chiamare noi parenti dei caduti. Li avremmo abbracciati».

Con l'annuncio che i talebani avevano ripreso spazio, come si è sentita?

«Come volete mi sia sentita. Hanno buttato via vent'anni di lavoro, di sangue. Il sacrificio di mio figlio è stato gettato nel cestino. Solo a noi sono rimasti dolore e disperazione. A chi la vogliono raccontare? Quella è una guerra che inizia».

Come pensa finirà?

«Ho paura che i nostri militari presto debbano tornare laggiù. Ne cadrebbero altri e per me sarebbe come veder morire Francesco un'altra volta. Penso a quella povera gente, a quelle donne, a quei bambini. Anche se noi italiani non ci hanno mai voluti davvero, nonostante elogiassero cosa abbiamo fatto. Eravamo ospiti a casa d'altri».

Pensa ci sarà mai una pace?

«Io la guerra non la concepisco e non l'ho mai concepita. È partito tutto dall'11 settembre, è tutta una questione di interessi. I nostri non avrebbero dovuto andare lì. L'Italia ripudia la guerra, è previsto nella Costituzione».

Dopo 11 anni dalla morte di Francesco come si sente?

«Il mio dolore è peggiore del primo giorno. Soffro da morire e anche mio marito, tutta la famiglia soffre da morire. Mi chiedo ogni santo giorno come si può fermare questa cosa. Ma non trovo risposta. Io credo che lì sarà sempre così».

Lo Stato e le istituzioni vi stanno ancora vicini?

«Lo Stato? Le istituzioni? Chi li sente e chi li vede? Lo sapete che Francesco non è ancora vittima del dovere nonostante otto persone siano a processo? Mio figlio è morto in guerra. Non me lo ridarà più nessuno. Si devono solo vergognare». 

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Il fallimento dell’Occidente nella ritirata delle truppe afghane. Lorenzo Vita su Inside Over il 15 agosto 2021. I villaggi e le città più grandi dell’Afghanistan cadono uno a uno come tessere di un domino che arriva dritto fino a Kabul. I talebani hanno avviato il loro lungo e inesorabile assedio per circondare la capitale. Hanno tagliato vie di comunicazione e rifornimenti, hanno conquistato province contese, hanno assunto il controllo di città dove fino a qualche settimana fa campeggiavano le bandiere delle forze occidentali. Gli studenti coranici hanno adottato le migliori tattiche di guerriglia, tipiche di chi vive negli altopiani e sin da piccolo è addestrato a imbracciare il fucile. Ma quello che è risaltato agli occhi di tanti osservatori è che le forze di sicurezza afghane, quelle addestrate dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti e dalla Nato, hanno in larga parte deposto le armi. Molti combattono strenuamente. Ma tanti, troppi, hanno deciso di ritirarsi o di abbandonare immediatamente la lotta. Sono in molti a chiedersi cosa non abbia funzionato nell’addestramento di queste unità. Parliamo di circa 350mila uomini che di punto in bianco sembrano essersi dissolti di fronte all’avanzata di un esercito che al massimo può contare su un terzo delle forze rispetto alle truppe di Kabul. Certo, la guerriglia talebana conosce il territorio e tattiche che utilizzano da tempo immemore. Tuttavia non può negarsi una certa sorpresa di fronte non tante alle vittorie talebane, quanto all’inconsistenza di una parte importante delle forze di sicurezza.

Gli errori e le difficoltà occidentali. Difficile dire di chi sia la colpa. Probabilmente è un fattore congenito nella storia dell’Afghanistan, che non a caso è considerato come la famigerata “tomba degli imperi”. Più pragmaticamente, per capire questa grande ritirata sono fondamentali le parole del generale Marco Bertolini intervistato da Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera. L’ex capo di Stato Maggiore Isaf ha usato parole molto chiare: “Noi miravamo a occidentalizzare l’Afghanistan cercando di imporre i nostri sistemi democratici. Ma loro hanno tradizioni del tutto differenti. Per esempio, non hanno partiti. I pashtun sono un’etnia legata a tradizioni locali, e così gli hazara o i tagiki. Ci siamo illusi che l’accoglienza calorosa riservataci dalle élite cittadine rappresentasse il Paese intero. Ma la maggioranza sta nelle campagne, sulle montagne, tra i villaggi e ci ha sempre guardato con sospetto, se non aperta ostilità”. Questa difficoltà nel comprendere la vera realtà del Paese ha fatto sì che molto spesso il ritorno dei talebani fosse semplicemente una costante una volta terminate le operazioni delle forze occidentali insieme a quelle locali. Un fatto che hanno sottolineato molti analisti, per esempio, è che i talebani molto spesso non hanno conquistato territori: hanno semplicemente fatto l’ingresso in città dove di fatto non esisteva lo Stato e in cui i ribelli solo formalmente non erano al potere. A questo si aggiunge poi un errore, forse di natura ideologica, sulla costruzione di un esercito in grado di sconfiggere i talebani sul campo. Con l’aviazione praticamente azzerata e con i cieli in mano agli Stati Uniti, l’opzione era quella di addestrare le truppe di terra. Il problema è che costruire un esercito non è molto diverso – a livello culturale – di voler costruire un Paese su basi che non sono considerate naturali. Così come è impossibile occidentalizzare un Paese e imporne i metodi di governo, altrettanto complicato è pensare di realizzare delle forze armate su un modello alieno quando i guerriglieri locali sono invece il frutto di un sistema radicato. Tanto è vero che i cosiddetti signori della guerra hanno in realtà mostrato ben più vigore e capacità operative di tanti battaglioni delle forze di sicurezza. Questo ovviamente non significa che tutte le forze di sicurezza afghane non abbiano combattuto o non lo stiano facendo. Come raccontato da Fausto Biloslavo per il Giornale, la testimonianza di chi è stato addestrato in Italia e ha combattuto a Herat dimostra come migliaia di uomini delle forze speciali non si sono arresi. E combattono fino all’ultimo proiettile disponibile. E quindi esiste chi, addestrato dalle forze dell’Occidente, ha saputo resistere e non è indietreggiato.

Dove erano le forze Nato. La missione in Afghanistan parte con un vulnus che si è poi esteso nel tempo. Il Pentagono e Londra ritenevano che fossero loro a dover gestire la parte “combat”, mentre agli altri andava data una forma di “peacekeeping”. Ne è uscita una composizione ibrida che ha di fatto paralizzato molto spesso l’avanzata contro i talebani, facendo credere che tutto fosse finito con una “operazione di pace”. Il passaggio a Resolute Support non ha fatto poi che ampliare questa idea. Con Resolute Support, l’Afghanistan era stato diviso in diverse aree geografiche in base ai punti cardinali più l’area di Kabul. Queste aree erano state assegnate alla responsabilità di diversi Paesi che contribuivano all’addestramento e all’assistenza delle forze di sicurezza afghane per il sostentamento a lungo termine. La TAAC-South comprendeva le province di Kandahar, Uruzgan, Zabul e Daykundi oltre al territorio dell’Helmand. I Paesi coinvolti erano Bulgaria, Polonia, Romania, Ucraina e Stati Uniti d’America. TAAC-West, invece, come scrive il sito di Resolute Support aveva come obiettivo l’addestramento del 207° Corpo dell’Esercito Nazionale Afghano e del Comando Provinciale di Polizia nelle province di Badghis, Farah, Ghor e Herat. Qui aveva il comando l’Italia e vi erano i contributi di Albania, Ungheria, Lituania, Romania, Slovenia, Ucraina e Stati Uniti d’America. La TAAC-North, a guida tedesca, comprendeva le province di Badakhshan, Baghlan, Balkh, Faryab, Jowzjan, Kunduz, Samangan, Sar-e Pul e Takhar. Il comando era a Mazar-i-Sharif. A Est, invece c’erano forze americane e polacche. Per quanto riguarda la missione che comprendeva la provincia di Kabul, questa era sotto il comando turco e contribuivano Albania, Azerbaigian, Repubblica Ceca, Repubblica di Macedonia del Nord e Stati Uniti.

Un compito quasi impossibile. È difficile provare a mettere in parallelo le forze presenti, l’addestramento effettuato e i risultati dell’avanzata talebana. Difficile ma anche ingiusto, dal momento che per quanto riguarda l’Italia, per esempio, l’addestramento è stato fruttuoso. Ma partiva anche da pessime regole di ingaggio e da difficoltà molto elevata del territorio in cui operava. Lì combatteva anche il signore della guerra Ismail Khan. Lì combattevano, prima della caduta, molti soldati addestrati dall’Italia ma collaboravano anche molti afghani che rischiano di essere abbandonati a un tragico destino, come ricordato da il Giornale e da diversi esponenti politici, tra cui Lorenzo Guerini, Pierferdinando Casini, Matteo Perego di Cremnago. Tuttavia esistono aree in cui l’esercito afghano si è praticamente sciolto come se non fosse mai esistito. Alcune città del nord sono cadute senza sparare un colpo, tante altre hanno ceduto le armi. Molte aree del sud sono cadute nonostante si pensasse a una difesa decisamente più strenua. E anche nella parte orientale, i talebani hanno conquistato Sharana, Mehtarlam e Asadabad e Mihterlam. A resistere è a questo punto solo Kabul, dove i talebani vogliono entrare in sicurezza per un accordo di governo. E dove gli unici che resteranno sono probabilmente i turchi, i quali già si sono mossi per mantenere un presidio militar nell’aeroporto della capitale. Sembra che si sia realizzato quello che ha descritto con dovizia di particolari il generale Bertolini: si aveva solo l’impressione di avere il territorio. Ma a quanto pare si aveva anche l’impressione di aver costruito forze armate che in realtà non c’erano. In tanti luoghi la corruzione aveva già devastato il fragile collegamento col potere centrale. Ed è bastata la sola guerra psicologica talebana o l’aspirazione ad avere più soldi per cambiare casacca. Tanti soldati, di fatto, erano come molti poliziotti “personale ombra”, totalmente assenti e da non computare nel novero dei militari al servizio di Kabul. Molte forze hanno fallito nell’addestramento. Sicuramente l’Occidente non è riuscito a imporre una struttura adeguata. Ed è un errore che si rischia di replicare ora anche in Africa centrale, in Sahel, e in altre aree del Medio Oriente. Di fronte a forze radicate sul territorio, non basta la tecnologia.

Generali e alleati Nato: chi avvertì Biden del disastro afghano. Lorenzo Vita su Inside Over il 16 agosto 2021. Elicotteri che atterrano nei pressi dell’ambasciata per portare via il personale. L’aeroporto in preda al caos, con i militari Usa costretti a prendere il controllo della situazione. Documenti distrutti mentre la bandiera talebana viene issata sul palazzo presidenziale di Kabul. L’esercito addestrato per vent’anni completamente dissolto davanti ai guerriglieri. Il disastro afghano segna uno dei punti più neri degli ultimi anni di politica estera statunitense. E di certo il momento più critico della presidenza Biden. Il presidente democratico è andato avanti per la sua strada. Gli Stati Uniti “non faranno retromarcia sul ritiro” continuavano a ripetere dagli uffici della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Eppure quella certezza così granitica di fronte alle telecamere nascondeva dissidi sia a livello interno che a livello internazionale. Non tutti i vertici della Difesa erano favorevoli a un ritiro di questo genere. E alcuni alleati Nato avevano già mostrato molti dubbi sulla decisione di Washington di tirare dritto sull’abbandono dell’Afghanistan. Sul fronte interno, i militari non hanno mai accettato di buon grado l’uscita di scena degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Sia chiaro: chiunque aveva compreso che quella guerra non era andata come previsto e che i costi erano stati enormemente superiori ai benefici. Ma un generale difficilmente accetta di abbandonare il campo senza aver vinto. Ed è anche questa convinzione ad avere mosso per almeno un decennio tutti i vertici delle forze armate Usa che hanno fatto desistere o provato a far desistere i presidenti dalla fine repentina della missione. Con Joe Biden le cose sono andate diversamente.

Il collasso del potere afghano. Secondo Politico, molti alti ufficiali avevano provato fino all’ultimo a far cambiare idea alla Casa Bianca. Quantomeno per lasciare alcune migliaia di uomini come presidio fisso in attesa di tempi migliori. L’amministrazione democratica è andata avanti per la sua strada e non ha ascoltato i militari. In questo senso, raccontano tra i corridoi del Pentagono, un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto il segretario alla Difesa Lloyd Austin. Scelto, dicono, anche per la sua poca durezza nei confronti del potere politico. A nulla è valsa l’insofferenza dei generali che hanno tentato di portare dalla loro parte il segretario. Anche se dopo la pubblicazione dell’articolo, la Casa Bianca ha voluto smentire questa narrazione dicendo che tutto era concordato e il dibattito molto meno aspro. E a nulla sono valsi i richiami di ex alti ufficiali come David Petraeus e Jack Keane. Tutti erano convinti che sarebbe stato un disastro. Eppure non c’è stato verso. A tal punto che anche uno come Anthony Blinken è stato costretto a girare per le televisioni nazionali ribadendo uno slogan poi rivelatosi completamente rovesciato: “Non sarà come Saigon”. Lo diceva mentre un Chinook atterrava vicino l’ambasciata americana a Kabul ponendo fine a vent’anni di guerra nel modo più caotico e drammatico. Quell’immagine del caos e del possibile arrivo di altre potenze era stato anche paventato dagli alleati durante il vertice Nato. Repubblica ha riportato nei giorni scorsi le indiscrezioni sulle divisioni interne all’Alleanza Atlantica durante il vertice di Bruxelles di quest’anno. La decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dall’Afghanistan non convinceva in particolare Italia e Regno Unito, che avevano messo in guardia dalla certezza dell’arrivo dei talebani e dal problema di un’eventuale bomba migratoria dall’Asia centrale. Timori confermati anche dallo stesso governo britannico, che ha già confermato, per bocca del segretario alla Difesa Ben Wallace, che i talebani hanno ormai il pieno controllo del Paese. Londra, così come Roma, e in parte Berlino e Parigi, aveva provato fino all’ultimo a chiedere una proroga dei termini agli Stati Uniti. I britannici conoscono bene i pericoli dell’Afghanistan. L’Impero non riuscì a soggiogarlo e fu proprio da lì che i britannici della Royal Air Force organizzarono il primo pone aereo per evacuare i civili dell’ambasciata nel 1928. Un evento che a Londra ricordano benissimo. E che oggi si ripete con i soldati della 16esima Brigata aerea d’assalto inviata a Kabul per sorvegliare le procedure di fuga. Biden non ha ascoltato i rappresentanti di un impero che aveva già perso.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca".

"Il ritiro grave errore, vent'anni di sacrifici vanificati". Silvio Berlusconi interviene sul disastro in Afghanistan: "Disimpegno frettoloso. Non fare nulla sarebbe ancora più grave ". Francesco Boezi il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. L'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è intervenuto sul disastro afgano di queste ore. Il leader di Forza Italia, attraverso una nota inoltrata alla stampa, ha dichiarato che il "ritiro" delle truppe occidentali dall'Afghanistan è stato un "grave errore". Non solo, perché Silvio Berlusconi ha voluto anche porre un accento sulle tempistiche della ritirata degli eserciti, definendo "frettoloso" il "disimpegno" con cui le forze che erano intervenute in quella zona di mondo un ventennio fa hanno lasciato il campo libero. Nella nota, c'è spazio anche per le sensazioni di sgomento provate in queste ore, oltre che per una riflessione sul da farsi da parte delle forze occidentali, in primis della Nato: "Le drammatiche immagini che giungono da Kabul ci riempiono di angoscia e di amarezza - ha premesso Berlusconi - . L'Occidente - ha aggiunto sin da subito l'ex premier - non può limitarsi ad assistere rassegnato al trionfo dei suoi nemici, dell'integralismo islamico che sta riportando l'Afghanistan ai periodi più oscuri della sua storia". Insomma, non dovremmo rassegnarci a quanto sta avvenendo. L'Afghanistan sta ripiombando nel peggiore degli incubi, secondo il leader politico, così come ripercorso pure da Italpress. Berlusconi ha proseguito, soffermandosi sui "vent'anni di sacrifici e di sangue versato", che hanno accompagnato le missioni in quella parte del globo terrestre. Nella sua disamina, il vertice del centrodestra ha fatto presente come quel sangue e quegli anni siano stati versati ed impiegati "per garantire a quel grande Paese stabilità e sicurezza". Ma gli sforzi, dopo la capitolazione di Kabul e dopo le riconquiste di ogni provincia da parte dei talebani, sono appunto stati "vanificati da un disimpegno che si è rivelato frettoloso e non preparato". L'Italia, però, non ha colpe in questa vicenda. E anche su questo punto il presidente di Forza Italia ci ha tenuto a dire la sua. Dopo la prima parte della riflessione, Berlusconi ha continuato, affermando che "naturalmente, dopo la decisione americana di ritirarsi, decisa dall'amministrazione Trump e confermata da quella Biden, non c'era alcuna possibilità per gli altri paesi, come l'Italia, di rimanere". Il Belpaese aveva dunque le mani legate sul da farsi e nessuna possibilità di procedere per altre strade. Il presidente, sempre tramite la nota che sta iniziando a circolare in questi minuti, ci ha tenuto a porgere un ringraziamento verso i soldati italiani, ma anche verso il corpo diplomatico e verso tutti i membri del personale. Un gesto inoltrato, insomma, a tutti coloro che hanno svolto un ruolo centrale nella ventennale operazione in Afghanistan. Il ringraziamento è arrivato anche per la qualità della gestione della "presenza italiana in questo ventennio ed anche quest'ultima fase drammatica". Poi il discorso è stato spostato sull'Occidente, che per Berlusconi "avrebbe bisogno di una leadership esperta ed autorevole, in grado di dare una risposta non rassegnata a quello che sta accadendo". Stando al pensiero dell'europarlamentare, quindi, gli enti che rappresentano l'Occidente non dovrebbero disimpegnarsi anche ora, che la situazione volge verso la drammaticità. L'ultima parte del ragionamento di Berlusconi è dedicata ancora alle mosse che hanno fatto sì che la situazione tragica di queste ore si verificasse, peraltro in maniera così repentina: "Questo ritiro prematuro è stato un grave errore", ha continuato. Ma ora non si può restare fermi. Il fondatore del centrodestra ha infatti sostenuto che "non fare nulla ora sarebbe ancora più grave". E infine, è arrivata la chiosa sulle necessità impellenti dal punto di vista geopolitico: "La Nato non può permetter che l'Afghanistan torni a costituire un pericolo per la sicurezza della regione e dell'intero Occidente, nè può permettere che i diritti faticosamente acquisti dal popolo afgano in questi anni siano cancellati dall'integralismo e dalla violenza", ha concluso Berlusconi, che quindi ha invitato tutti a prendere coscienza della necessità di affrontare una crisi che sta sconvolgendo l'Occidente.  Dal profilo Facebook di Silvio Berlusconi il 16 agosto 2021. Le drammatiche immagini che giungono da Kabul ci riempiono di angoscia e di amarezza. L’Occidente non può limitarsi ad assistere rassegnato al trionfo dei suoi nemici, dell’integralismo islamico che sta riportando l’Afganistan ai periodi più oscuri della sua storia. Vent’anni di sacrifici e di sangue versato per garantire a quel grande Paese stabilità e sicurezza sono vanificati da un disimpegno che si è rivelato frettoloso e non preparato. Naturalmente dopo la decisione americana di ritirarsi, decisa dall’amministrazione Trump e confermata da quella Biden, non c’era alcuna possibilità per gli altri paesi, come l’Italia, di rimanere. Anzi dobbiamo dire ancora una volta grazie ai nostri soldati, ai nostri diplomatici, a tutti i connazionali impegnati nella vicenda Afgana, per come hanno gestito la presenza italiana in questo ventennio ed anche quest’ultima fase drammatica. Mai come ora l’Occidente avrebbe bisogno di una leadership esperta ed autorevole, in grado di dare una risposta non rassegnata a quello che sta accadendo. Questo ritiro prematuro è stato un grave errore, ma non fare nulla ora sarebbe ancora più grave. La Nato non può permetter che l’Afganistan torni a costituire un pericolo per la sicurezza della regione e dell’intero Occidente, né può permettere che i diritti faticosamente acquisti dal popolo afgano in questi anni siano cancellati dall’integralismo e dalla violenza.

Afghanistan, Joe Biden: "Il nostro obiettivo era fermare il terrorismo, non costruire una nazione". I talebani: "La guerra è finita". Civili in fuga, dramma all'aeroporto di Kabul. Atterrato a Fiumicino il volo italiano. Cade anche Kandahar dopo tre giorni di assedio. Appello di 60 Paesi: "Proteggete le vite umane". Merkel: "Missione è stata un fallimento". Poi il discorso duro del presidente Usa: "Non possiamo combattere al posto degli afghani in una guerra civile". Raffaella Scuderi su La Repubblica il 16 agosto 2021. Kabul è nelle mani dei talebani che ieri sera hanno annunciato la rinascita dell'Emirato Islamico. Gli estremisti sono entrati nel palazzo presidenziale abbandonato da Ashraf Ghani: la capitale è caduta dopo una giornata di Ferragosto convulsa e drammatica, segnando il ritorno dell'Afghanistan nelle mani dei jihadisti.  I portavoce talebani continuano a promettere moderazione, ma Kabul è nel caos con le strade completamente bloccate per la popolazione in fuga. Il punto più delicato è l'aeroporto internazionale dove migliaia di persone hanno preso d'assalto le piste nel tentativo di unirsi ai diplomatici e civili occidentali in fuga con i voli organizzati dalle loro ambasciate. L'aeroporto è stato teatro di scene drammatiche con disperati aggrappati alle ruote degli aerei in partenza e poi precipitati nel vuoto. Lo scalo preso d'assalto è stato poi chiuso per quasi tutta la giornata ed è tornato operativo solo in serata.

Biden si difende per il ritiro e accusa gli afghani. Il presidente americano Joe Biden ha parlato in serata in tv, replicando alle critiche anche interne sul ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan. Biden ha detto apertamente che l'obiettivo della missione Usa "non è mai stato quello di costruire una nazione, ma quello di combattere il terrorismo" e far finire gli attentati in terra americana. Biden ha aggiunto che l'accordo con i talebani è stato ereditato dall'amministrazione Trump e che la situazione al momento non lasciava spazio che a un'alternativa: "Dovevo scegliere - ha aggiunto Biden - tra rispettare un accordo ereditato dal presidente Trump o continuare a combattere i Talebani. Ma quante altre vite americane dovremmo sacrificare? Noi abbiamo dato agli afghani tutti gli strumenti per difendersi - ha aggiunto il presidente -, ma non gli possiamo dare la volontà di combattere". Il popolo afghano, ha detto, "si è arreso". Joe Biden ha detto poi di aver mantenuto l'impegno preso in campagna elettorale sul ritiro dopo vent'anni dei soldati e delle soldatesse americane dall'Afghanistan. Si è detto addolorato, ma non pentito della decisione di ritirare le truppe, spiegando che gli Usa continueranno a sostenere il popolo afghano, ma "non combatteranno al posto degli afghani" in una guerra civile senza fine. "Quello che abbiamo visto in Vietnam non si deve ripetere", ha poi detto Biden aggiungendo che "se necessario", gli Stati Uniti condurranno ancora "azioni antiterrorismo" in Afghanistan. 

Guterres al Consiglio di Sicurezza Onu: "Non possiamo abbandonare gli afghani". Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di "utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per sopprimere la minaccia terrorista globale in Afghanistan" e garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. "Stiamo ricevendo rapporti agghiaccianti di gravi restrizioni dei diritti umani nel Paese", ha detto Guterres, "sono particolarmente preoccupato dalle notizie di crescenti violazioni dei diritti umani contro donne e bambine afghane". Ha aggiunto che "la presenza dell'Onu in Afghanistan si adatterà allo stato della sicurezza, ma resterà e fornirà sostegno". Guterres ha spiegato che l'Onu ha ancora personale e uffici nelle aree sotto controllo degli insorti e che "in larga misura il nostro personale e i nostri uffici sono stati rispettati".

Merkel: "Sull'Afghanistan abbiamo sbagliato tutti". In una conferenza stampa a Berlino Angela Merkel ha detto che la missione Nato in Afghanistan, durata 20 anni, "non è stata un successo". "Abbiamo valutato male la situazione, tutta la comunità internazionale l'ha valutata in modo erroneo", ha ammesso la cancelliera tedesca di fronte ai giornalisti accorsi alla cancelleria federale. "Attacchi come quelli di Al Qaeda dell'11 settembre che erano partiti dell'Afghanistan oggi non sono possibili e gli sviluppi che ci eravamo preposti non si sono realizzati evidentemente come avevamo sperato", ha aggiunto. Secondo Merkel, il governo federale già "mesi fa" aveva identificato 2.500 collaboratori da far uscire dal Paese, anche se non si sa ancora bene se circa 600 di questi si trovino già in Stati terzi. "Devono essere evacuate altre 2mila persone, come attivisti per i diritti umani e personale legale. Complessivamente, considerando anche le loro famiglie, si tratta di circa 10mila persone", Si tratta di evacuazioni, ha ribadito Merkel, "possibili solo con l'aiuto degli americani, ha detto la cancelliera a una riunione del vertice della Cdu. 

Centinaia di soldati afghani atterrano in Uzbekistan. Un totale di 750 militari afghani sono arrivati in Uzbekistan nelle ultime 48 ore. Tra questi 600 erano a bordo di aerei militari, mentre altri 158 soldati sono entrati domenica nel Paese. Il ministero della Difesa uzbeko aveva in precedenza reso noto che un sistema di difesa aveva abbattuto un aereo da combattimento afghano.

Macron: "L'Afghanistan non deve ridiventare il santuario del terrorismo". La Francia vuole garantire che l'Afghanistan non diventi di nuovo un santuario jihadista e che l'arrivo al potere dei talebani non porti a un'ondata di migrazione illegale. Lo ha annunciato il presidente francese Emmanuel Macron, aggiungendo che “l'azione della Francia sarà mirata prima di tutto a continuare a combattere attivamente il terrorismo islamico in tutte le sue forme”. Macron ha poi esortato la comunità internazionale a un’azione politica e diplomatica per "anticipare" e "proteggere i grandi flussi migratori irregolari" che alimentano i traffici di ogni tipo: "Prenderemo, insieme alla Germania e ad altri Paesi europei, un'iniziativa per costruire senza indugio una risposta robusta, coordinata e unita", ha proseguito. Nell'intervento televisivo sulla crisi in Afghanistan, Macron ha annunciato che la Francia ha lanciato un'operazione di evacuazione militare e due aerei arriveranno a Kabul nelle prossime ore per estrarre francesi e afghani dal Paese. 

Afghani a terra se l'esercito Usa non riesce a controllare aeroporto. Lo riporta la Cbs News. Anche se la situazione è in miglioramento, l'esercito Usa sta prendendo in considerazione di lasciare gli afghani a terra per poter evacuare subito tutti gli americani bloccati dal caos. La decisione, riferisce Cbs, non è ancora stata presa, ma "è sul tavolo" nel caso in cui le truppe Usa non riescano a riprendere il controllo dell'aeroporto.

Le immagini satellitari della situazione all'aeroporto di Kabul. Scattate alle 1030, ora locale, da Maxar Technologies, società di tecnologia spaziale Usa, raccontano la scena caotica e disperata della folla di persone in fuga, che tenta di imbarcarsi in qualsiasi modo. 

Biden torna alla Casa Bianca e parla alla Nazione. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, parlerà oggi pomeriggio alle 15.45, le 21.45 in Italia, dell'Afghanistan. Lo ha annunciato lo stesso presidente in un tweet, mentre la Casa Bianca ha riferito che Biden lascerà la residenza di Camp David e arriverà a Washington alle 13 ora locale, le 19 in Italia. 

L’accordo tra il generale americano e i leader talebani. Secondo un funzionario della difesa statunitense, il capo del Comando Centrale Frank McKenzie avrebbe incontrato i leader talebani a Doha, in Qatar, per chiedergli di non interferire con le operazioni di evacuazione dell'esercito americano dall'aeroporto di Kabul. Il generale McKenzie avrebbe ottenuto un accordo per cui le operazioni sarebbero continuate senza interferenza da parte dei talebani. Fonti dell'amministrazione Usa hanno confermato alla Ap che sarebbe imminente la ripresa dei voli militari per l'evacuazione dall'aeroporto di Kabul.

Hamas si congratula con i talebani. Anche gli Shabaab somali. Hamas, il gruppo radicale palestinese che governa la striscia di Gaza opponendosi all'esistenza di Israele, si è complimentato con i talebani per aver conquistato rapidamente l’Afghanistan e portato a termine i 20 anni di presenza degli Stati Uniti nel Paese. Il gruppo ha dichiarato di aver accolto con entusiasmo "la sconfitta dell'occupazione americana su tutta la terra afghana" e ha elogiato "la coraggiosa leadership dei talebani in questa vittoria, culmine di una lunga lotto durata 20 anni".  Ha aggiunto che l'estromissione delle truppe americane dimostra "che la resistenza dei popoli, primo fra tutti il nostro popolo palestinese in lotta, ha diritto alla vittoria''.

Draghi: "Ora proteggere i cittadini afghani". Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ringrazia le forze armate per le operazioni che stanno permettendo di riportare in Italia i nostri concittadini. "L’impegno dell’Italia è proteggere i cittadini afghani che hanno collaborato con la nostra missione - si legge in una nota della Presidenza del Consiglio - L’Italia è al lavoro con i partner europei per una soluzione della crisi, che tuteli i diritti umani, e in particolare quelli delle donne".

Il primo giorno talebano a Kabul. Il reporter Bbc Malik Mudassir racconta all'emittente britannica la prima giornata dell'Emirato Islamico nella capitale. "I talebani sono ovunque. Non c'è panico in città. Controllano il traffico e requisiscono tutte le macchine della polizia e dell'esercito. Se le prendono loro". Mudassir racconta di una città deserta, senza traffico, con i negozi chiusi. Calma. Più calma di ieri, il giorno dell'entrata talebana. "Ho visto due donne. Indossavano la mascherina e l'hijab. Camminavamo in strada indisturbate". Il reporter sottolinea che la musica non c'è più. L'albergo in cui alloggia era sempre pieno di musica. Spenta. L'inferno è in aeroporto. "Non appena ti avvicini, ci sono i talebani pesantemente armati che iniziano a sparare in aria. Ho visto gente che si arrampicava sui muri. Anche sul filo spinato". Al Arabiya ha raccolto in un breve video le immagini in cui i talebani requisiscono le armi a tutti i civili: "Non servono più".

Nessuna Olimpiade paralimpica per gli atleti afghani di taekwondo. Impensabile che la prima donna afghana, Zakia Khudadadi, a rappresentare il suo Paese ai Giochi paralimpici di Tokyo, riesca a partecipare. Doveva arrivare in Giappone il 17 agosto. L'aeroporto nel panico e i prezzi dei voli alle stelle già dal primo passo dei talebani nel territorio afghano, la lasciano a casa. Con lei, anche Hossain Rasouli. "Erano davvero entusiasti. Si sono allenati ovunque potevano: nei parchi, nei giardini", ha detto Arian Sadiqi, il capodelegazione afghano.

Atterrato a Roma il volo degli italiani da Kabul. È atterrato all'aeroporto di Fiumicino il volo dell'Aeronautica militare con a bordo circa 70 persone di rientro dall'Afghanistan. Questo è solo il primo volo del ponte aereo annunciato dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio ieri sera. Si tratta di circa 50 membri del personale diplomatico italiano e di una ventina di ex collaboratori afghani. Per tutti ora scattano le procedure previste, a partire dal tampone molecolare. I cittadini afghani verranno trasferiti a Roccaraso per la quarantena. L'Italia ha evacuato l'ambasciata ed è partito il piano di evacuazione di diplomatici e cittadini. Nella notte è iniziato un ponte aereo per l'evacuazione di tutti i collaboratori afghani dei ministeri di Difesa ed Esteri. L'annuncio è arrivato ieri sera dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: "In questo momento il volo dell'aeronautica militare con a bordo i nostri connazionali è partito da Kabul". Di Maio ha aggiunto che altri voli continueranno a decollare dalla capitale nei prossimi giorni, che un presidio diplomatico resterà in aeroporto: "La situazione è tragica, non abbandoneremo gli afghani", ha concluso.

Kabul, sospese evacuazioni per sgomberare aeroporto. Gli Usa hanno sospeso temporaneamente le evacuazioni da Kabul per sgomberare le piste dell'aeroporto della capitale afghana. Tutte le evacuazioni in programma sono state bloccate. 

Il figlio dell'eroe della resistenza: "Unitevi a noi contro la tirannia talebana". Ahmad Massud, figlio del comandante Ahmed Shah Massud assassinato nel 2001 da Al Qaeda, ha invitato i suoi compatrioti ad unirsi a lui nella resistenza ai talebani che stanno prendendo il potere in Afghanistan. Lo ha fatto dalle pagine della rivista francese La Règle du jeu, fondata dallo scrittore Bernard-Henri Lévy. "Con i miei compagni d'armi daremo il sangue. Insieme a tutti gli afghani liberi che rifiutano la schiavitù e che invito a unirsi a me nella nostra roccaforte del Panjshir, l'ultima regione libera del nostro paese morente". Nella rubrica, Massud scrive che "non tutto è perduto".

Mosca: "Ghani fuggito con auto ed elicottero pieni di soldi". Secondo la rappresentanza diplomatica russa in Afghanistan, il presidente Ghani sarebbe fuggito con quattro auto e un elicottero pieno di soldi. Lo riferisce l'agenzia Ria Novosti. Erano talmente tanti che ne avrebbe lasciati un po' sulla pista dell'aeroporto. Ghani ieri è fuggito dalla capitale per un Paese ancora sconosciuto (si parla di Uzbekistan, Oman e Usa), lasciando il palazzo presidenziale e il Paese in mano ai talebani. In serata ha diffuso un messaggio su Facebook in cui spiega le ragione della fuga: "Non volevo creare ulteriori spargimenti di sangue". Nikita Ishchenko, portavoce dell'ambasciata russa a Kabul: " Quattro macchine presidenziali erano piene di soldi. Hanno provato a metterne un po' sull'elicottero. Tutto non entrava. Hanno dovuto abbandonare somme ingenti di denaro sulla pista dell'aeroporto". "Mi auguro che il governo non sia fuggito con soldi dello Stato. Quello che è rimasto verrà usato come budget dal nuovo governo", ha commentato alla radio russa, l'inviato speciale in Afghanista, Zamir Kabulov.

Domani riunione d'emergenza dei ministri Esteri Ue. Ci sarà domani una riunione dei ministri degli Esteri Ue sull'Afghanistan. "In seguito agli ultimi sviluppi in Afghanistan - scrive l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell - e dopo intensi colloqui con gli Stati membri nei giorni passati, ho deciso di convocare per domani una riunione di emergenza dei ministri degli Esteri dell'Ue".

Emergency a Kabul: "Presto contatti con i talebani". "Abbiamo buone aspettative sul futuro: i talebani stanno prendendo il posto dei leader governativi sia nella micro che nella macro gestione dei vari settori. Non ci sono stati episodi di resistenza al loro ingresso in città e ci aspettiamo un miglioramento della situazione nei prossimi giorni. Speriamo di avere presto contatti con i nuovi leader, questa mattina si è presentato all'ospedale un nuovo esponente del distretto di polizia locale. I talebani ci conoscono da 20 anni e ci aspettiamo che ci lascino continuare a lavorare". Così Alberto Zanin, coordinatore medico del Centro per vittime di guerra di Emergency a Kabul.

Kandahar in mano ai talebani: cade l'aeroporto. Era l'ultima roccaforte del governo afghano. I talebani hanno rilasciato un comunicato in cui annunciano la conquista dell'aeroporto di Kandahar, L'assedio dei ribelli durava da tre giorni e nelle ultime ore è arrivata la resa definitiva.

Migliaia in fuga. Panico all'aeroporto di Kabul: almeno 7 morti. Sono almeno 7 le vittime del caos all'aeroporto della capitale mentre centinaia di persone tentavano di entrare con la forza a bordo di un aereo in partenza da Kabul. Un testimone ha detto a Reuters di aver visto i corpi di cinque persone trasportate da un veicolo. Un altro ha detto che non è chiaro se le vittime siano state uccise da colpi di arma da fuoco o da una fuga precipitosa. Le truppe statunitensi, che sono a capo dell'aeroporto, ieri hanno sparato in aria per disperdere la folla. Migliaia di persone si sono messe in strada, a piedi o in auto, alla ricerca di una via di fuga. Centinaia di afghani hanno raggiunto la Porta dell'Amicizia nella città di Chaman, al confine tra Afghanistan e Pakistan.

Mosca vede i talebani. Le reazioni internazionali. I talebani hanno già messo in sicurezza il perimetro esterno dell'ambasciata russa a Kabul. Lo ha detto l'inviato presidenziale russo per l'Afghanistan Zamir Kabulov. "Il nostro ambasciatore è in contatto con i rappresentanti della leadership talebana. Domani, come mi ha detto proprio dieci minuti fa, incontrerà il coordinatore della leadership talebana per garantire la sicurezza, compresa la nostra ambasciata", ha sottolineato. Pechino "rispetta desideri e scelte del popolo afghano". La guerra, dice la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, "dura da oltre 40 anni: fermarla e raggiungere la pace non è solo la voce unanime degli oltre 30 milioni di afghani, ma anche l'aspettativa comune di comunità internazionale e Paesi regionali". La Cina ha voluto sottolineare le parole della leadership talebana: "Hanno affermato che la guerra è finita e che negozieranno un governo islamico aperto e inclusivo, oltre a intraprendere azioni responsabili per garantire la sicurezza di cittadini afghani e missioni straniere". Il Regno Unito sta comunicando con i talebani tramite una Paese terzo del Medio Oriente. Lo ha detto il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, durante un'intervista all'emittente televisiva "Sky News", spiegando che l'obiettivo è ottenere rassicurazioni sulla sicurezza dei cittadini britannici e afghani che l'Occidente sta aiutando a fuggire. "La sconfitta Usa è un'opportunità di pace". Lo ha detto il presidente dell'Iran, Ebrahim Raisi.  "La sconfitta dell'esercito degli Stati Uniti e il suo ritiro dall'Afghanistan devono essere utilizzati come un'opportunità per rilanciare la pace e la sicurezza nel Paese in modo definitivo". Teheran farà ogni sforzo per garantire la stabilità nel Paese, che oggi rappresenta la priorità. Come Paese vicino e fraterno, l'Iran invita tutti i gruppi afgani a fare il possibile per il raggiungimento di un compromesso nazionale".

I talebani: "La guerra è finita. Ora governo inclusivo". Il leader talebano portavoce dei negoziatori a Doha in Qatar, Mohammad Naeem, lo ha detto in un'intervista con Al Jazeera: i talebani non vogliono vivere in isolamento e a breve sarà pubblico il nuovo governo e le sue regole. Il gruppo, sostiene Naeem, rispetta i diritti delle donne e delle minoranze e la libertà di espressione all'interno della legge della sharia. Nessun pericolo per gli stranieri, sostengono. Ieri, in un tweet: "Assicuriamo a tutte le ambasciate, missioni diplomatiche, istituzioni e cittadini stranieri a Kabul, che non vi è alcun pericolo per loro". Un nuovo governo talebano includerà anche afghani non talebani, ha detto alla Cnn il portavoce dei talebani Sohail Shaheen. Secondo il portavoce degli studenti coranici sarebbe "prematuro" in questo momento dire chi saranno i nuovi membri dell'esecutivo, ma, ha aggiunto, ci saranno "figure note". "Quando diciamo un governo islamico inclusivo afghano significa che anche altri afghani partecipano al governo", ha affermato. Alla domanda se i talebani chiederanno all'attuale esercito e polizia afghani di unirsi alle forze di sicurezza talebane, Shaheen ha detto che a tutti coloro che consegneranno le armi e si uniranno alle forze talebane sarà concessa l'amnistia e che le loro vite e le loro proprietà saranno al sicuro. Ha aggiunto che i loro nomi sono in un registro e che sarebbero stati usati come forza di "riserva" e richiamati secondo necessità.

Deputato Regno Unito chiede inchiesta su "Saigon 2.0" "È così che abbiamo pensato di lasciare l'Afghanistan?" Si chiede il deputato britannico, presidente della commissione Difesa e capitano dell'esercito, Tobias Ellwood, che pubblica su Twitter un video in cui si vede il rullaggio di un aereo militare in mezzo alla folla di civili. "Esodo caotico dall'aeroporto di Kabul. Apache usati per liberare la pista. Se questa non è Saigon 2.0, non so cosa sia. Ribadisco la mia richiesta di un'inchiesta del Regno Unito".

L'appello di 60 Paesi: "Aiutate e favorite evacuazione del Paese". Tutti i cittadini afghani e internazionali attualmente in Afghanistan che lo desiderano devono essere aiutati a lasciare il Paese in sicurezza e gli aeroporti devono rimanere aperti. È l'appello sottoscritto da oltre 60 Paesi tra i quali, Usa, Australia, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Corea, Qatar, Gran Bretagna. In un comunicato congiunto i governi richiamano alla responsabilità "tutti coloro che sono in posizione di potere e autorità affinchè vengano protette le vite umane e le proprietà e per il ripristino immediate della sicurezza e dell'ordine civile".  Nel comunicato si aggiunge che "gli afghani hanno il diritto di vivere in sicurezza e dignità e la comunità interazionale deve essere pronta ad assisterli".

Afghanistan, panico all’aeroporto di Kabul tra i diplomatici e civili stranieri in fuga

Il messaggio del presidente Ghani dopo la fuga. Il presidente afgano ha spiegato su Facebook di aver abbandonato il Paese per evitare ai cittadini di Kabul un bagno di sangue. "Oggi, mi sono imbattuto in una scelta difficile: dover affrontare i talebani armati che volevano entrare nel palazzo o lasciare il caro Paese alla cui protezione ho dedicato la mia vita a proteggere negli ultimi vent'anni", ha scritto Ghani che si sarebbe rifugiato in Uzbekistan. Ghani ha quindi auspicato che i talebani superino la "nuova prova storica" proteggendo "il nome e l'onore dell'Afghanistan". È "necessario che i talebani garantiscano tutte le persone, le nazioni, i diversi settori, le sorelle e le donne dell'Afghanistan per conquistare la legittimità e il cuore del popolo - conclude Ghani - promettendo di continuare a servire sempre la nazione". 

L'evacuazione di cani e padroni marines. La sede di TOLOnews perquisita dai talebani. Il compound del sito di notizie più popolari del Paese, a Kabul, ieri è stato perquisito dai talebani. Gli insorti hanno requisito tutte le armi governative in mano alle guardie di sicurezza, e hanno lasciato la sede "in sicurezza". Il sito, che in questi giorni twitta e trasmette con una certa frequenza, ieri ha interrotto tutto per almeno 5 ore.

Proteste a Washington: " Salvate gli afghani". Centinaia di persone hanno manifestato di fronte alla Casa Bianca per chiedere al governo Usa di proteggere la popolazione afghana dall'avanzata talebana. I dimostranti sventolano bandiere dell'Afghanistan e inneggiano slogan: "Salvate le nostre donne e i nostri bambini". "Non lasciateci soli, salvate la nostra gente".

Di Maio a mare con Emiliano e Boccia mentre cade l’Afghanistan. Boschi: “Venga subito in Parlamento”. Newsmondo.it il 16 agosto 2021.  Luigi Di Maio nella bufera: il ministro degli Esteri è a mare durante la spinosa crisi che ha investito l’Afghanistan. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è finito nella bufera per gli scatti che lo ritraggono a mare in Salento mentre l’Afghanistan cade in mano ai talebani, che hanno ripreso il Paese dopo una rapida avanzata. Le immagini mostrano il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a mare a Porto Cesareo insieme con la compagna Virginia Saba, Francesco Boccia, la moglie, Michele Emiliano e la compagna Elena Laterza. Immagini che mostrano un Di Maio sereno durante la vacanza della politica. E non si esclude che si sia parlato di politica. Solo che negli ultimi giorni e nelle ultime ore a tenere banco non è la politica italiana ma l’emergenza Afghanistan, che richiede il massimo impegno della Farnesina. Facile immaginare come il popolo della rete e gli avversari politici abbiano criticato aspramente Di Maio, che guida il Ministero più importante in questo periodo caratterizzato dalla crisi afghana: il Ministero degli Esteri. Dure le parole di Maria Elena Boschi, che ha attaccato Di Maio con un post condiviso sul proprio profilo Twitter: “Quello che accade a Kabul non riguarda solo le nostre sorelle afghane. Riguarda tutti e tutte noi. Il ministro degli Esteri deve lasciare la spiaggia e venire in Parlamento per una informativa urgente. È in gioco la vita di milioni di persone ma anche la dignità dell’Occidente”. Ironico invece Carlo Calenda, che esulta per l’assenza di Di Maio: “Ma meno male che questo trust di cervelli è al mare nell’impossibilità di fare danni. Sono i benefici del Ferragosto. Lasciamo le cose come stanno”.

L'Afghanistan brucia e Di Maio fa i summit al mare. Francesca Galici per ilgiornale.it il 16 agosto 2021. La Puglia cuore politico dell'estate 2021? Così sembrerebbe stando a una foto condivisa sui social da Nicola Danti, europarlamentare di Italia viva, in cui si vede il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che chiacchiera amabilmente con il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Con loro anche Francesco Boccia, ex ministro per gli Affari regionali e le autonomie durante l'era di Giuseppe Conte. Come riporta il Quotidiano di Puglia, i tre parlano amabilmente nel giorno di ferragosto, come se in Afghanistan non fosse in atto la presa di Kabul da parte dei talebani. In tanti hanno immaginato che in quelle ore frenetiche, anche per i nostri connazionali che per lavoro si trovavano in Afghanistan, il ministro Luigi Di Maio stesse affrontando la crisi dal suo ufficio alla Farnesina. Invece no, sorrideva più abbronzato che mai con i piedi a mollo nelle splendide acque turchesi del Salento, più precisamente a Porto Cesareo, una delle mete maggiormente gettonate dagli amanti del mare e della Puglia. In politica, soprattutto nel mezzo di una gravissima crisi internazionale come quella afghana, il ferragosto dovrebbe essere un giorno come un altro di lavoro o, almeno, per una questione di buon senso e di immagine, si dovrebbero evitare certe situazioni. La foto è rapidamente diventata virale sui social e sono numerose le reazioni scatenate dall'immagine del ministro degli Esteri che si gode l'estate mentre gli italiani a Kabul erano in attesa di essere rimpatriati. "Devo essere sincero. Non è che mi sentissi proprio in una botte di ferro con Di Maio a gestire questo momento di crisi. Ora che so che è in spiaggia con Emiliano e Boccia mi sento meglio. Vuol dire che se ne sta occupando Draghi", ha scritto Nicola Danti a commento dello scatto. "Un brainstorm sull'Afghanistan in spiaggia, 3 cervelli che il mondo ci invidia...#DiMaio #Emiliano e #Boccia Santo Draghi!!", ha scritto un utente non senza polemica. Ma c'è anche chi è stato più duro nel commentare le vacanze del ministro: "Del Ministro degli Esteri italiano si sa nulla? Ancora con ciambella e paperetta mentre atterrano i Boeing carichi di chi è riuscito a salvarsi?". C'è anche chi si preoccupa della credibilità del nostro Paese all'estero: "E dunque il ministro degli Esteri Luigi Di Mario sta seguendo l’invasione dell’Afghanistan, la più importante crisi internazionale del decennio, dalla spiaggia di Porto Cesareo. Poi uno si chiede perché l’Italia non viene presa sul serio".

Lo scivolone di Di Maio beccato al mare in Salento mentre Kabul va a fuoco. Francesca Galici il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Il ministro degli Esteri fotografato a Porto Cesareo con la fidanzata, Emiliano e Boccia durante la crisi. Costume, sole, sorrisi (tanti), selfie e la sua fidanzata accanto. Così Luigi Di Maio ha gestito l'emergenza Afghanistan nelle ore cruciali, quando si organizzava il ponte aereo per riportare a casa gli italiani rimasti intrappolati a Kabul. Ma non è tutto. Mentre se ne stava in spiaggia a conversare con amici e politici, il titolare della Farnesina è stato «paparazzato» sul bagnasciuga. La foto in queste ore ha fatto il giro del web, facendo storcere il naso a più di un utente. Il grillino della prima ora appare rilassato, in compagnia dell'ex ministro Francesco Boccia e del governatore della Puglia, Michele Emiliano. Una chiacchierata spensierata mentre Kabul bruciava sotto i colpi dell'assedio talebano. Insomma, il ministro ha preferito trascorrere una tranquilla domenica ferragostana in riva al mare a Porto Cesareo. Non proprio l'immagine di un ministro degli Esteri all'opera nel corso di una drammatica crisi internazionale. Ma attenzione: poco prima che i talebani entrassero a Kabul, Di Maio si è fatto vivo e su Twitter scriveva: «Stiamo monitorando la situazione in Afghanistan 24 ore al giorno. Ci stiamo preparando ad ogni evenienza, la priorità è mettere in sicurezza i nostri connazionali». Ma chi pensava che Di Maio stesse monitorando l'emergenza dal suo ufficio romano, si è dovuto ricredere. «Gigino» insieme alla fidanzata si godeva il sole della Puglia trascorrendo il Ferragosto tra lettini e castelli di sabbia. Qualcuno dai social non ha tardato a farlo notare: «Sono convinta che, tra un tuffo e l'altro, il Ministro degli Affari Esteri Di Maio abbia ben monitorato la situazione di Kabul anche dall'ombrellone, tuttavia nelle istituzioni i gesti sono importanti e credo che rientrare a Roma sarebbe opportuno». Questo è solo uno dei tanti commenti che ha invaso la rete quando la foto di Di Maio&Co. ha iniziato a rimbalzare rapidamente sui profili social. Tra chi ha preferito utilizzare l'arma dell'ironia e chi, invece, ha preferito biasimare senza mezzi termini il ministro, c'è anche chi ha avanzato alcune proposte curiose. In molti si sono detti sollevati nel vedere che il ministro degli Esteri a 5 stelle non era direttamente impegnato in un costante coordinamento delle operazioni di evacuazione dei nostri connazionali. «Questo è il momento di prendere decisioni importanti a livello internazionale: chiediamo a Di Maio di prolungare le ferie fino a data da destinarsi», propone un utente. Un altro si affida alla satira per criticare l'atteggiamento del titolare della Farnesina: «Ultim'ora, #DiMaio a Porto Cesareo per un errore. Il ministro degli Esteri dichiara: Volevo recarmi a Kabul ma ho sbagliato incrocio». Qualcun altro si rifà al motto grillino (ormai andato perduto): «Di Maio segue gli sviluppi della situazione con spritz sulla spiaggia. Se uno vale uno, io non voglio essere quell'uno». Tra battute, ironia, e sfottò sui social c'è ampio spazio per le critiche a Di Maio e al suo "metodo di lavoro". Infatti, c'è chi non usa mezze misure per criticare il titolare della Farnesina, preoccupandosi anche della reputazione all'estero del nostro Paese: «È imbarazzante anche solo immaginare che il ministro degli esteri di un Paese del G7 se ne stia al mare con Boccia ed Emiliano durante la crisi geopolitica più rilevante degli ultimi anni. Durante il rientro dei nostri uomini dall'abbandono di un'ambasciata». Di certo Di Maio non dimenticherà questo caldo Ferragosto. Non tanto per le temperature caldissime in tutta Italia, quanto per i social roventi che hanno bocciato senza appello la sua scelta di restare in vacanza mentre Kabul andava a fuoco e la situazione precipitava. 

L’ipocrisia italiana: riempie di soldi Libia, Turchia e Arabia Saudita ma non vuole trattare con i talebani. Giulio Cavalli su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Era tragicamente prevedibile, eppure sono riusciti a durare poco meno di qualche ora: il dramma afghano è ancora su tutte le prime pagine di tutti i giornali ma la politica ha già dismesso il velo ipocrita della compassione e torna a frugare nei suoi istinti più bassi. Ieri Il Foglio scriveva un retroscena sul ministro alla difesa Lorenzo Guerini e sul ministro agli esteri Luigi Di Maio dicendo che i due considerano “impraticabile” l’idea di corridoi umanitari dall’Afghanistan (che vengono richiesti da più parti per salvare il salvabile) perché «ciò significherebbe trattare direttamente coi talebani e, di conseguenza, riconoscerli ufficialmente». Sì, avete letto bene, la sfrontata ipocrisia dei due ministri (che probabilmente maledicono una crisi umanitaria in pieno Ferragosto) riesce ad avvitarsi in un pensiero che non ha nessun senso: per una questione di buona educazione, in sostanza, dal governo ci dicono che si salvano quelli da salvare solo se i cattivi non sono troppo cattivi, altrimenti rischiano di sgualcirsi la camicia. Potrebbe anche fare sorridere se non fosse che stiamo parlando dello stesso governo (quello italiano) che non si fa troppi scrupoli mentre riempie di soldi quei criminali travestiti da Guardia costiera libica o che intrattiene rapporti con «il dittatore di cui si ha bisogno», come Mario Draghi ha definito Erdogan. È lo stesso governo, del resto, che si inginocchia all’Arabia Saudita e all’Egitto di al-Sisi pur di vendere armamenti. Ma per quelli non vale evidentemente nessuna regola di distanziamento sociale e di ecologia intellettuale: travestire la codardia da diplomazia è un trucco politico vecchio come il mondo e loro giustamente ci riprovano ancora. Il punto è che i disperati, se non sono occidentali, non sono da salvare. Il fallimento dell’Europa (e dell’Occidente) sta tutto in questo inconfessabile dogma che governa i flussi migratori. Con un po’ meno di ipocrisia, ad esempio, ci si potrebbe anche confessare che i profughi afghani non iniziano con gli episodi di questi giorni, anche questa è una bugia utile alla narrazione tossica. Come sottolinea Matteo Villa dell’Ispi negli ultimi 12 anni, l’Europa ha negato asilo a 290.000 profughi afghani. 46.000 avevano meno di 14 anni, tra cui 21.000 bambine. 30.000 erano donne adulte. Il 76% di loro è ancora in Europa. Li rimandiamo indietro? La mancata accoglienza è qualcosa di molto più serio e complesso delle sparate di Salvini e ora, c’è da scommetterci, sarà tutta una rincorsa a trovare un altro valido motivo per continuare a fottersene.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

«La guerra in Afghanistan non aveva nessuna possibilità di successo. E lo sapevamo dall’inizio». Eugenio Occorsio su L'Espresso il 18 agosto 2021. Kabul caduta ne è la dimostrazione, ma anche la situazione in Iraq è preoccupante. Parla il celebre economista James Kenneth Galbraith. Che spiega perché le crisi economiche hanno rilanciato l’intervento dello Stato. Nei miei sogni c’è un discorso solenne del presidente o del Capo di Stato Maggiore che comincia così: “La legittima e credibile funzione dell’esercito americano e degli altri Paesi da oggi in poi sarà limitata a tre punti:

a) sorveglianza anti-pirateria;

b) soccorsi umanitari;

c) Guardia costiera”.

E vorrei che questo discorso avvenisse l’11 settembre prossimo, alle celebrazioni per il ventennale dell’attacco all’America. Ma è, evidentemente, solo un sogno».

James Kenneth Galbraith, classe 1952, laurea ad Harvard e PhD a Yale, non è un pacifista dell’ultima ora né un radicale iconoclasta. È un solido economista, attualmente presidente della School of Public Affairs all’University of Texas di Austin, cresciuto a pane e politica: suo padre, John Kenneth Galbraith, considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo, era il più ascoltato consigliere di John Kennedy, prima ancora di Truman e dopo di Lyndon Johnson al quale non si stancava di implorare la conclusione accelerata dell’offensiva in Vietnam. Lui, Galbraith Jr., ha curato amorevolmente la riedizione dei libri più importanti del padre dopo la sua scomparsa nel 2006, e ha vissuto anch’egli a sua volta la vita fra le aule accademiche e i corridoi della politica di Washington.

«La prima volta entrai nello staff di un deputato democratico che ero poco più di un ragazzo, nel 1974», racconta. A quello seguirono molti altri incarichi temporanei, sempre nell’area del partito dell’“asinello”. E sempre con trasporto e genuina fede nei valori della democrazia, «che l’America sembra aver smarrito con le sue cervellotiche guerre in Medio Oriente». 

Lei ha un sogno, come Martin Luther King. Però l’amministrazione Biden fa sul serio: ha voluto che l’11 settembre del ventennale coincidesse con il ritiro dall’Afghanistan, ed entro fine anno - come hanno sancito il presidente Usa e il primo ministro iracheno Mustafa al Kadhimi il 27 luglio a Washington - sarà completato il ritiro dal Bagdad . Cosa resta di quest’esperienza?

«L’impressione e la rabbia per un colossale, straziante e inutile bagno di sangue, con un costo smisurato in vite umane e risorse economiche. In Iraq la guerra civile cova sotto la cenere (il 29 luglio due razzi Katyusha sparati da un quartiere sciita nella Bagdad orientale hanno sfiorato l’ambasciata americana cadendo in piena green zone, ndr) e tutti già tremano pensando alle elezioni del 10 ottobre. Quanto all’Afghanistan, gli americani non hanno fatto in tempo a fare le valigie e già i talebani hanno ripreso il controllo della capitale e ricominciato a far valere la loro legge sanguinaria e medievale. Tutto come prima, come vent’anni fa prima dell’11 settembre. Intanto l’Iran, che sarebbe teoricamente il vero potenziale nemico, soprattutto per Israele, è uscito più forte e compatto di prima, e il neoeletto superfalco Raisi ha già ricominciato con le sue provocazioni all’Occidente». 

Però in qualche modo si doveva reagire, almeno nel caso afghano. L’attentato era stato concepito lì, o no?

«Non voglio cedere alle derive cospirazioniste. Dico solo che la parte “poliziesca” dell’intervento, quella che ha portato alla cattura di Osama Bin Laden, sulla quale pure avrei qualche dubbio, andava bene. Una vera guerra durata vent’anni è stata una follia. Per non parlare dell’intervento in Iraq. Anche lì: se c’erano dei conti da regolare con Saddam Hussein, e si può capire che ci fossero dopo Desert Storm, si poteva agire diversamente. Così si è solo gettato nel caos un Paese. Cosa c’entrava l’Iraq con l’11 settembre? Ma io queste cose non me le sono mica tenute per me: gliele ho dette in faccia ai militari, e sa com’è finita? Che in privato mi hanno dato ragione». 

Com’è andata?

«Verso la fine del 2004, in piena invasione dell’Iraq, il generale Ricardo Sanchez, che era stato per i primi 14 mesi dell’occupazione (lanciata nel marzo 2003, ndr) il comandante delle operazioni a Bagdad ed era appena rientrato in patria, venne da noi in visita all’università. Mentre eravamo con tutto il senato accademico al pranzo organizzato dal nostro preside, che era stato a sua volta un ufficiale del Pentagono, fu chiesto a ognuno di noi professori di intervenire. Quando venne il mio turno feci senza troppa diplomazia alcune serrate domande sulle condizioni di civili e militari in Iraq. Vidi che il generale mi ascoltava con interesse, e gli diedi il mio biglietto da visita. Sei settimane dopo, con mia grande sorpresa, mi invitò in Germania, in una base del V Corpo d’armata, quello operativo a Bagdad, vicino Stoccarda, a tenere un discorso. E in questo discorso dimostrai in modo articolato perché la missione non aveva nessuna possibilità di successo. Alla fine il generale mi prese sottobraccio e mi confessò sottovoce che la pensava come me. Anche tutti gli altri ufficiali presenti mi salutarono con grande cordialità. Erano come sollevati nel sentire una realtà che in silenzio intuivano spiegata apertamente. In tutto questo la causa scatenante dell’11 settembre non se la ricordavano neanche». 

Ma perché non c’erano speranze di successo?

«Perché erano guerre che più anticonvenzionali non potevano essere, peggio ancora del Vietnam. Non è servito a niente un esercito super-armato e tecnologico, bisognava andare a combattere casa per casa nei labirinti delle città, dove lo svantaggio è palese. A meno che non si volesse raderle al suolo come altri hanno fatto a Mosul, a Grozny, a Raqqa, ma gli americani rispettano la convenzione di Ginevra, sanno che c’è stata Norimberga, sono consapevoli che l’opinione pubblica giustamente non l’avrebbe permesso e che nemmeno lontanamente dovevano accennare a una pulizia etnica come succedeva nei Balcani negli anni ’90. Certo, ci sono stati abusi e torture, ma sono stati smascherati, stigmatizzati e puniti. La verità ve l’ho detta all’inizio: queste due guerre, non solo sbagliate ma che non si potevano neanche vincere, dimostrano l’inutilità di mantenere un imponente e costosissimo apparato militare in tutto il mondo. A meno che non si vogliano affrontare frontalmente la Russia o la Cina ma direi che questo è fuori discussione». 

Una domanda all’economista bisogna farla: l’impressione dall’altra parte dell’oceano è che la crisi economica conseguente all’11 settembre, che per la prima volta nella storia tenne la Borsa di Wall Street chiusa per dieci giorni, sia stata superata in tempi in fondo brevi, sicuramente più brevi di crisi successive, quella finanziaria del 2008 e quella pandemica appena passata. Eppure l’orrore era al massimo grado. Quale fu l’intuizione giusta per permettere il rapido recupero?

«In parte, come sempre tragicamente avviene in situazioni del genere, l’economia beneficiò della corsa al riarmo in vista delle guerre, e perfino della ricostruzione degli edifici di Ground Zero. Ma sicuramente fu decisivo l’intervento della Federal Reserve: per la prima volta Alan Greenspan, che della Fed era presidente, sperimentò la strategia dei tassi d’interesse ridottissimi, fino a zero, per finanziare e sostenere l’economia. La quale, ripartendo a razzo, diede a sua volta una spinta emotiva perché il Paese si riprendesse dallo shock. Era fondamentale perché il danno morale era molto maggiore dei circoscritti danni materiali inferti dai terroristi. Certo, se si fossero ripetuti altri attentati la storia sarebbe stata ben diversa. Ancora un dettaglio, che però è importante: nella ripresa post 9/11 si cominciò a intravvedere un recupero del ruolo dello Stato in economia, che era stato del tutto obliterato nei decenni precedenti dall’abbaglio monetarista e liberista di Milton Friedman, secondo il quale le forze del mercato risolvono tutto. Niente di più sbagliato». 

Si profilava la rivincita postuma delle teorie di suo padre, che è visto come il fondatore del neo-keynesismo?

«Esatto, proprio così. Mio padre da giovanissimo aveva collaborato al New Deal rooseveltiano che aveva risolto la depressione del ’29, poi aveva portato questa disciplina nelle presidenze democratiche degli anni ’60. Ma Reagan aveva buttato tutto a mare, e né Clinton né Obama erano riusciti a recuperare il valore di un intervento pubblico. Intanto le diseguaglianze si facevano stridenti in questo Paese». 

Poi c’è stato l’abisso di Trump…

«Guardi che per certi versi Reagan è stato peggiore di Trump, con le sue politiche pro-business e pro-ricchi a tutti i costi. Almeno Trump ha avviato il disimpegno militare in Medio Oriente. Per l’economia, sono servite tre crisi: l’11 settembre 2001, il crack Lehman Brothers del 2008 e infine la pandemia perché si facesse strada un nuovo sano ancorché tardivo keynesismo. Ora, senza più pudori sull’intervento dello Stato, Biden sta risanando il Paese».

DAGOTRADUZIONE DA Ken Dilanian, Mike Memoli, Courtney Kube e Josh Lederman per nbcnews.com il 18 agosto 2021. Quando nelle ultime settimane i talebani avevano iniziato a conquistare le province di tutto l'Afghanistan, l'intelligence della CIA aveva messo in guardia il governo, con toni sempre più allarmati su un potenziale, rapido e totale collasso dell'esercito e del governo afghano, stando a quanto riferito a NBC News da attuali ed ex funzionari degli Stati Uniti. Alla fine, la descrizione della CIA di come sarebbe potuto essere lo scenario peggiore "era abbastanza vicina a quello che è successo", ha detto un ex funzionario informato sulla questione. La Casa Bianca non conferma se il presidente Joe Biden abbia mai ricevuto una previsione così disastrosa dalla sua squadra di sicurezza nazionale. Lo stesso presidente sembrava contestare un mese fa che l'intelligence suggerisse la crescente probabilità che l'esercito afghano si piegasse. Ma è proprio questo risultato che è emerso come uno dei principali argomenti dell'amministrazione per giustificare la sua decisione di porre fine all'operazione militare degli Stati Uniti in Afghanistan. "I leader politici dell'Afghanistan si sono arresi e sono fuggiti dal paese", ha detto Biden alla nazione lunedì. “L'esercito afghano è crollato, a volte senza cercare di combattere. Se non altro, gli sviluppi della scorsa settimana hanno rafforzato che porre fine al coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Afghanistan ora era la decisione giusta". In apparenza, è un netto contrasto con ciò che il presidente aveva detto solo un mese fa. Parlando nella stessa stanza l'8 luglio, al presidente è stato chiesto direttamente dei rapporti secondo cui i servizi di intelligence che prevedevano un rapido crollo del governo afghano senza una presenza continua degli Stati Uniti. In un primo momento, Biden ha contestato la premessa. "Quello non è vero. Non sono arrivati a quella conclusione", ha detto. Ma quando è stato pressato su ciò che l'intelligence ha detto, Biden ha cercato di evitare la questione. "Il governo e la leadership afghani devono unirsi", ha detto. “Hanno la capacità. Hanno le forze. Hanno l'attrezzatura. La domanda è: lo faranno?" La risposta è stata un sonoro no. Ora, le agenzie per la sicurezza nazionale nell'amministrazione Biden sono inondate di recriminazioni e accuse, mentre i funzionari cercano di spiegare perché la guerra più lunga d'America si è conclusa non solo con una sconfitta, ma con il caos. Un tema emerso da una serie di interviste: le colpe sono tante. Gli alti funzionari militari, ad esempio, sono furiosi con la squadra di sicurezza nazionale di Biden perché volevano iniziare a evacuare gli afgani vulnerabili già a maggio, ma non gli è stato permesso di farlo, hanno detto diversi funzionari a NBC News. Dopo che il loro consiglio di non ritirarsi è stato ignorato, i vertici del Pentagono hanno cercato di uscire il prima possibile nell'interesse della sicurezza delle truppe e hanno pianificato di evacuare tutte le truppe entro il 4 luglio, secondo un alto funzionario. Con l'avvicinarsi della data di luglio, la Casa Bianca si è preoccupata e ha ordinato ai militari di ritardare e mantenere le truppe fino al 31 agosto, ha detto il funzionario. Secondo l'ex funzionario, gli agenti della CIA sono rimasti sorpresi dal rapido ritmo del ritiro dei militari, incluso il ritiro notturno dalla base aerea di Bagram a luglio. E molti funzionari stanno esprimendo fastidio al Dipartimento di Stato, che secondo i funzionari è stato estremamente lento nell'elaborazione dei documenti necessari per trattare con i traduttori afgani e altri idonei per il reinsediamento. "Il coordinamento interagenzia, specialmente tra combattenti, diplomatici e ufficiali dell'intelligence, è fondamentale in momenti come questo", ha detto l'ex funzionario. "Ovviamente, era carente." Al Dipartimento di Stato, i funzionari puntano il dito contro il Congresso, che ha creato un oneroso processo in 14 fasi per il programma speciale di visti che i diplomatici per legge devono completare prima di poter rilasciare i visti. Nessun diplomatico vuole essere quello che finisce per ammettere negli Stati Uniti qualcuno che potrebbe rappresentare un rischio, ha detto un diplomatico. Il Congresso alla fine ha approvato una legge che snellisce ed espande il programma, ma non prima della fine di luglio. Il Dipartimento di Stato si è anche irritato al suggerimento di aver agito troppo lentamente nel rilascio dei visti, con un alto funzionario che ha affermato che la comunità dell'intelligence aveva qualche responsabilità per non aver previsto un crollo immediato. Anche nelle peggiori contingenze che l'ambasciata degli Stati Uniti a Kabul si era preparata in caso di una rapida avanzata dei talebani, il Dipartimento di Stato ha previsto che avrebbe avuto almeno diversi mesi per continuare a operare in sicurezza a Kabul prima che la capitale cadesse, ha detto un alto funzionario. Il funzionario ha affermato che il Dipartimento di Stato aveva previsto un potenziale bisogno di rinforzi di sicurezza, ma presumeva che sarebbero ancora operativi in un territorio almeno nominalmente controllato dal governo afghano, non dai talebani. Un altro funzionario del Dipartimento di Stato ha incolpato l'amministrazione Trump, sostenendo che all'amministrazione Biden in arrivo era stato lasciato un notevole arretrato di visti speciali per immigrati che avrebbero potuto essere elaborati durante la precedente amministrazione dopo che l'ex presidente Donald Trump ha firmato un accordo per il ritiro delle truppe statunitensi. Nel suo discorso di lunedì, Biden ha detto che la responsabilità si ferma a lui e che l'acquisizione dei talebani è avvenuta più velocemente di quanto avesse creduto possibile. Ma uno dei suoi alleati al Congresso, il senatore Mark Warner, ha osservato in una dichiarazione che "i funzionari dell'intelligence hanno previsto per anni che in assenza dell'esercito americano i talebani avrebbero continuato a guadagnare terreno sin Afghanistan. È esattamente quello che è successo”. La Warner si è impegnata "a porre domande difficili ma necessarie sul motivo per cui non eravamo meglio preparati per uno scenario peggiore che coinvolgesse un collasso così rapido e totale del governo afghano e delle forze di sicurezza. Dobbiamo queste risposte al popolo americano e a tutti coloro che hanno servito e sacrificato così tanto”. La Casa Bianca afferma di essere stata preparata per tutte le contingenze, compreso ciò che è accaduto questa settimana. "Quando una guerra civile finisce con una forza opposta che marcia sulla capitale, ci saranno scene di caos", ha detto ai giornalisti il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. “Ci saranno molte persone che lasceranno il Paese. Questo non è qualcosa che può essere fondamentalmente evitato". Ha anche riconosciuto il dibattito sul fatto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto ritirare la propria ambasciata e lavorare per evacuare prima gli alleati afgani. “Abbiamo accelerato drasticamente il processo SIV e spostato un numero considerevole di richiedenti SIV e famiglie. Ma il governo afghano e i suoi sostenitori, comprese molte delle persone che ora stanno cercando di andarsene, hanno sostenuto con fermezza che non dovremmo condurre un'evacuazione di massa, per non innescare una perdita di fiducia nel governo", ha detto Sullivan. "Ora, il nostro segnale di sostegno al governo ovviamente non ha salvato il governo, ma questo è stato un giudizio ponderato". Sullivan, come il presidente un mese fa, sembrava contestare l'idea che al presidente fosse stata presentata l'intelligence che i talebani avrebbero potuto prendere il controllo della capitale in poche settimane. «In realtà non ho familiarità con le valutazioni dell'intelligence che stai descrivendo. Ma non voglio nemmeno entrare in prodotti di intelligence specifici", ha detto. “E una cosa che non farò da questo podio o da nessun'altra parte è parlare di ciò che ha fatto o non ha fatto un diverso componente dell'agenzia interna perché dal mio punto di vista, siamo una squadra con una missione che cerca di eseguire e di farlo in il miglior interesse del nostro interesse e dei nostri valori”. Nel loro insieme, le dichiarazioni della Casa Bianca ora e quelle che ha offerto un mese fa presentano un delicato equilibrio, adottando misure per evitare di dichiarare pubblicamente ciò che ora offre liberamente: una mancanza di fiducia nel futuro del governo eletto. Quando Biden aveva contestato i terribili avvertimenti dell'intelligence il mese scorso, ha continuato dicendo che la sua conclusione - specificando che non era della comunità dell'intelligence - era che "l'unico modo in cui alla fine ci sarà pace e sicurezza in Afghanistan è che elaborino un modus vivendi con i talebani e giudicano come possono fare la pace”. Non è successo. Mentre i talebani avanzavano, l'amministrazione ha fatto pressione sui leader afghani affinché adottassero un piano militare realistico per consolidare le loro forze, raggruppando e rafforzando la difesa dei centri abitati chiave in modo che potessero rifornirsi, organizzare e riportare la lotta ai talebani. Il loro rifiuto di farlo è stato un fattore importante nel loro crollo, ha detto una fonte a conoscenza della questione NBC News. "Poiché hanno cercato di difendere tutto, alla fine non hanno difeso nulla", ha detto la fonte. Funzionari dell'intelligence attuali ed ex insistono sul fatto che non vi è stato alcun fallimento dell'intelligence. Il rappresentante Peter Meijer, un repubblicano del Michigan, ha dichiarato martedì al "Morning Joe" di MSNBC che la comunità dell'intelligence non è riuscita a rilevare gli sforzi dei talebani per corrompere, blandire e minacciare i funzionari del governo afghano locali nel tentativo di indurre la loro resa. Ma i funzionari statunitensi hanno contestato questo, affermando di essere ben consapevoli degli sforzi dei talebani. Hanno anche riferito che l'esercito afghano ha smesso di fare la guardia alle strade di Kabul, un segnale preoccupante di quanto sia facile per i talebani avanzare. "Ci vuole un po' di rabbia per essere arrabbiati dall'interno del Pentagono quando due settimane fa ci hanno detto che Kabul non sarebbe caduta per mesi, se non del tutto quest'anno", ha detto un alto funzionario del Congresso che è stato regolarmente informato sull'Afghanistan. I militari, ha detto, “non hanno previsto questo crollo completo. Allora perché Biden dovrebbe avere fretta se questi capi militari dicevano che non sarebbe caduto?" Biden ha affermato che gli Stati Uniti non hanno evacuato prima i civili afgani perché "alcuni degli afgani non volevano andarsene prima, ma erano ancora fiduciosi per il loro paese. E in parte è stato perché il governo afghano e i suoi sostenitori ci hanno scoraggiato dall'organizzare un esodo di massa per evitare di innescare, come hanno detto, "una crisi di fiducia". Ma ora, per molti afghani, la crisi è di un diverso ordine di grandezza. Molti sono a miglia di distanza dall'unica via d'uscita all'aeroporto di Kabul, cercando di decidere se conservare i documenti che dimostrano il loro servizio negli Stati Uniti, documenti che potrebbero far guadagnare loro un volo, ma potrebbero anche farli uccidere.

DAGONOTA il 18 agosto 2021.“Joe sta portando gli agnelli al macello”. È un fiume in piena Donald Trump, intervistato per la seconda volta in 12 ore da Fox News. L’ex presidente ha gioco facile nello scagliarsi contro il suo successore, che ritirandosi dall’Afghanistan ha lasciato il paese nelle mani dei talebani. “La caduta di Kabul è stata un colpo di stato di persone incompetenti. Il problema non è stato lasciare l’Afghanistan, ma le modalità in cui si è ritirato”. Poi Trump ne ha avute anche per l’ex presidente afghano Ghani: “non avevo fiducia in lui. Teneva i nostri senatori in tasca. Ha passato tutto questo tempo a mangiarseli…”.

Trump attacca Biden: "Umiliati in Afghanistan, la Cina ci ride dietro". AGI il 18 agosto 2021- Donald Trump attacca la gestione del ritiro delle truppe statunitensi dall'Afghanistan da parte del governo di Joe Biden con la rapida presa del potere da parte dei talebani.  "Il nostro Paese è stato umiliato, sta succedendo qualcosa di incredibile, la gente che cerca di salire sugli aerei, che precipita dopo essersi appena alle gomme", ha detto l'ex presidente degli Usa parlando a Fox News. Trump ricorda: "Avevo parlato numerose volte con i talebani, erano stati confronti duri, ero stato chiaro con loro, li avevo avvertiti che se fosse stato toccato anche un solo cittadino americano avremmo risposto". Condizioni che, a suo dire, il suo succesore non avebbe rispettato. Trump critica la linea adottata finora dalla Casa Bianca. "Eravamo rispettati in tutto il mondo. La Cina ci rispettava. La Russia anche. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un presidente che non venga dalla burocrazia, ma prenda in mano la situazione, che sia in grado di chiamare ed essere ascoltato. Mi dispiace dirlo, ma lui (il presidente Joe Biden, ndr) non viene neanche ricevuto". Poi l'affondo dell'ex presidente: "E' una situazione imbarazzante, la più imbarazzante nella storia di questo Paese. La Cina sta vedendo quello che succede e ci sta ridendo dietro". Il tycoon si è poi attribuito il merito del fatto che nessun soldato americano in Afghanistan è rimasto ucciso nell'ultimo anno e mezzo, dal 2020, nella parte finale della sua presidenza. "Non abbiamo perso un solo soldato in Afghanistan - sottolinea Trump - e questo grazie a me. Sono morte più persone in un weekend a New York o a Chicago". L'ex presidente ha messo in guardia dal rischio che nei "prossimi giorni" qualche cittadino americano possa essere preso in ostaggio dai talebani. Una mossa che metterebbe in grande difficoltà gli Stati Uniti. Sono più di 10 mila gli americani in Afghanistan che devono ancora raggiungere l'aeroporto internazionale di Kabul per poter lasciare il Paese, prima che gli ultimi soldati possano ripartire. Quindi Trump conclude: "Gli americani devono lasciare l'Afghanistan per primi, ci sono anche gli afghani ma tra loro esistono anche persone pericolose. Abbiamo miliardi di dollari lì in elicotteri, jet militari, carri armati, missili, li stiamo perdendo tutti".

Federico Rampini per “la Repubblica” il 18 agosto 2021. L'accusa più grave a Joe Biden viene da un giornale amico, il New York Times: il presidente ha mentito agli americani quando, ancora poche settimane fa, ha escluso un tracollo dell'esercito afghano durante il ritiro Usa. Già allora, secondo il quotidiano progressista, il presidente aveva ricevuto dall'intelligence un rapporto di segno opposto, dove la débacle delle forze governative era prevista. Come minimo, avrebbe dovuto tenerne conto nel pianificare le modalità della ritirata militare e dell'evacuazione dei civili, in modo da evitare le scene di panico e caos degli ultimi giorni. Non è un momento facile per Biden. Il suo discorso alla nazione di lunedì sera, pur esponendo con vigore e convinzione le ragioni per cui ha deciso di porre fine alla "guerra più lunga", non ha attenuato le critiche. Vengono da tutte le parti. I repubblicani insistono sulla catastrofica esecuzione del ritiro, parlano di una guerra perduta da Biden e solo da lui. Perfino Donald Trump - che aveva firmato gli accordi con i talebani dove l'unica condizione era l'incolumità per gli americani durante l'evacuazione - è tornato alla carica accusando Biden di una disfatta storica. La destra apre anche un nuovo fronte contro Biden, su un terreno che le è congeniale: alcuni politici repubblicani cominciano a paventare un'ondata di profughi. I democratici cercano di risparmiare il presidente ma anche fra loro cresce lo sgomento: nell'ala più terzomondista e umanitaria si denuncia l'abbandono delle donne afghane; nell'establishment internazionalista affiora il timore che tutti gli alleati traggano conseguenze perniciose da questa vicenda. I media progressisti sono severi quanto i conservatori. "La débacle in Afghanistan - intitola l'editoriale del Washington Post - è della specie peggiore: quella che si poteva evitare". Fa eco il titolo dell'editoriale del New York Tines : "La guerra doveva finire, ma non in questo caos". Molti sottolineano il crollo di credibilità dell'America, che può alimentare ogni sorta di scetticismo in Giappone, Corea del Sud, Europa; e di conseguenza rafforza nemici storici come la Cina, la Russia, l'Iran. Si segnala come una voce fuori dal coro, in quanto favorevole a Biden, quella dell'esperto di geopolitica Fareed Zakaria. Sul Washington Post, il suo è l'unico intervento che difende risolutamente la ritirata. Lo fa attingendo a un'opera che molti scoprono solo adesso: "The American War in Afghanistan" di Carter Malkasian, che fu per diversi anni in Afghanistan come funzionario civile nella provincia di Helmand, poi consigliere dello stato maggiore del Pentagono. Malkasian aveva appena concluso il suo studio sulla guerra ventennale, quando gli eventi sono precipitati. I dati che lui raccoglie smentiscono la teoria secondo cui gli Stati Uniti stavano mantenendo la pace in Afghanistan con poche migliaia di uomini, e che questa stabilità poteva protrarsi a tempo indefinito. L'apparente pacificazione era solo il risultato di una tregua offerta dai talebani in cambio della promessa del ritiro. Ma i talebani avevano sospeso solo gli attacchi contro le forze della Nato, mentre la guerra continuava a intensificarsi contro gli afghani. Il 2019 ha visto il record di vittime tra civili in un decennio. Nel 2018, quando le truppe americane erano ancora il quadruplo rispetto al 2021, ben 282.000 civili afgani erano stati costretti a fuggire dalle loro case. Nel contempo il livello di sostegno della popolazione verso gli americani continuava a scendere, nel 2018 era al 55% contro il 90% di dieci anni prima. Già nel 2016, peraltro, quando Barack Obama era stato convinto a rinviare per l'ennesima volta il ritiro delle truppe, e dunque la forza militare americana era all'apice, i talebani erano riusciti a riconquistare un quarto del territorio nazionale. Nell'assedio politico che subisce Biden un altro aiuto gli arriva dalla pubblicazione delle conclusioni ufficiali di un'indagine commissionata da molto tempo, quella dello Special Inspector General for the Afghanistan Reconstruction. L'inchiesta, in corso da 13 anni, dipinge un quadro fosco del conflitto. Accusa gli americani di avere sistematicamente sottovalutato le difficoltà sul terreno. Dà atto di progressi importanti, per esempio sulla scolarizzazione e i diritti civili, ma considera fallito il progetto di ricostruzione del paese, a cominciare dalle sue istituzioni. Il rapporto non è "figlio" dell'Amministrazione Biden ma finisce per confortarne la decisione, confermando che questa guerra era stata perduta molto tempo prima.

(ANSA il 18 agosto 2021) - Le valutazioni dell'intelligence Usa dell'ultimo mese mostravamo che i talebani stavano perseguendo la vittoria militare: lo riferisce la Cnn, citando una propria fonte. Una rivelazione che va ad aggiungersi a quelle del New York Times.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 18 agosto 2021. Siria, Libia, Egitto, Palestina, Iraq, Arabia Saudita e ora anche Afghanistan. Tutti questi Stati del Medio Oriente hanno in comune un'unica cosa, il disimpegno americano. Oramai da anni sia presidenti democratici che repubblicani hanno tentato di cavare le gambe da una regione percepita come un'immensa distesa di sabbie mobili nelle quali il potere forte delle armi si rivela fallimentare. L'uscita di Biden dall'Afghanistan è in realtà la conseguenza di una manovra cominciata dal suo predecessore repubblicano Donald Trump, anche se nei libri di storia l'ultimo caotico capitolo di una guerra «corrotta e insostenibile» - per usare le parole di un rapporto reso noto lunedì sera dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction - apparterrà per sempre a Biden. Per di più il presidente ha perso credibilità perché si scopre che all'inizio di luglio, mentre assicurava che l'esercito governativo afghano avrebbe saputo resistere ai talebani, nella realtà la stessa intelligence Usa lo aveva informato di aver perso fiducia sulle capacità delle forze armate afghane. Il buon nome di Biden adesso dipende da come si svolgeranno le operazioni di salvataggio, e se attraverso la diplomazia internazionale si potrà ottenere che i talebani non infliggano al paese un regime di terrore. Ma intanto il ritiro dall'Afghanistan, il disimpegno dal negoziato di pace israelo-palestinese, l'imminente smantellamento delle batterie di missili Patriot dall'Arabia Saudita, e la conclusione del ritiro dall'Iraq entro la fine dell'anno, hanno scatenato il mondo degli esperti, che cercano di capire dove si stia spostando la politica estera Usa e che cosa succederà nel Medio Oriente quando non ci saranno più i Marines. Think tank di fama si schierano su posizioni opposte. Il Wilson Center ad esempio nota che dove gli Usa si siano ritirati, ad esempio in Siria e in Libia, la Russia ha subito allargato la propria influenza, e guarda caso la sua ambasciata a Kabul rimane tranquillamente aperta, come quella cinese peraltro. L'Atlantic Council lamenta che gli alleati si sentiranno abbandonati, che apriranno le porte ai russi e alla Cina, e che gli Usa perderanno sia mercati sia l'opportunità di combattere per i diritti civili. Ma Defense Priorities ricorda che la storia ha insegnato che i diritti civili vengono meglio difesi e caldeggiati attraverso il «potere morbido» della diplomazia, anziché quello «forte» dei militari. Il politologo Geoff LaMear fa notare come gli Accordi di Abramo, uno dei successi dell'Amministrazione Trump, siano venuti non «sulla punta di un fucile», ma grazie all'abilità degli americani di far confluire «le affinità dei Paesi coinvolti». Diffusa è comunque la convinzione che Biden sia deciso a seguire il tracciato che Obama aveva cominciato, di spostarsi verso il palcoscenico dell'Estremo Oriente, per rafforzare le alleanze con Paesi come il Giappone, la Corea, il Vietnam, la Tailandia, l'Indonesia, nel tentativo di impedire la creazione di un'area orientale a totale dominio Cinese, come successe con l'Unione Sovietica nell'Europa dell'est durante la Guerra Fredda. Il pivot di Obama venne bruscamente interrotto dall'esplosione dell'Isis, e dalla necessità di riportare le truppe americane in Iraq. Ma lo stesso Trump aveva poi avvertito la necessità di sganciarsi dal Medio Oriente, tanto che ha abbandonato gli alleati curdi in Siria, e ha finalizzato l'accordo di ritiro delle truppe dall'Afghanistan e dall'Iraq. Adesso dovremo vedere quanto e se il pivot di Biden riuscirà e riceverà il plauso dei suoi elettori. Il ritiro dall'Afghanistan era un progetto gradito a quasi il 70 per cento degli americani, quando venne annunciato. Ma quell'approvazione è adesso precipitata di venti punti. Il 49% degli americani ha cambiato opinione e pensa che non si doveva gettare la spugna e il 51% disapprova l'operato del presidente.

(ANSA il 18 agosto 2021) - Joe Biden ora deve fare i conti anche con il suo partito per l'uscita umiliante e caotica dall'Afghanistan. Tre commissioni del Senato guidate dai dem (Intelligence, Affari esteri e Forze armate) sono intenzionate a indagare sull'esecuzione del ritiro. "Sono deluso che l'amministrazione Biden non abbia valutato accuratamente le implicazioni di un ritiro rapido degli Usa", ha osservato il presidente della commissione Esteri Bob Menendez. "Siamo testimoni di risultati orribili di molti anni di fallimenti politici e di intelligence", ha aggiunto.

Il disastro dell'America in fuga dalla Storia. Fiamma Nirenstein il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Kabul come Saigon: a pezzi la dimensione morale e strategica degli Usa. Che lasciano il campo ai rivali. Il disastro della defezione americana è insieme immenso, e ridicolo. Immenso nelle sue conseguenze umanitarie e geopolitiche. Quelle creature appese agli aerei siamo tutti noi, qui ci sono solo lacrime, solo il terrore di fronte al male assoluto. Ma è anche ridicolo, perché ciò che si ripete è una caricatura, una farsa: gli americani che, come un sorriso di Clint Eastwood, rappresentano il migliore dei mondi possibili per poi, invece, indietreggiare per mettersi a correre dietro l'angolo come Stanlio e Ollio, sono ormai diventati il replay di un vecchio film. Anzi, di diverse pellicole ingiallite: viene in mente il 75 a Saigon, naturalmente, con l'elicottero di disperati che si alza in volo portando in salvo i suoi mentre avanza il regime comunista vittorioso; e viene anche in mente il disastro dell'ambasciata iraniana del 79, con gli americani ostaggio degli ayatollah; e il rinculare di Obama dopo una terribile minaccia di guerra se fosse stata violata la «linea rossa» per cui Assad seguitava lieto a gasare i ribelli; e l'Iraq post Saddam; e la Libia, la Somalia, Haiti, Panama, l'antica Baia dei Porci, persino. L'America manda i suoi, sempre valorosi, decisi, armati con gli ultimi ritrovati, soldati e emissari carichi di sincero spirito democratico, e poi non gliene va veramente bene una. Le Forze Democratiche Siriane che hanno aiutato a liberare Raqqa dall'Isis hanno visto gli USA definirli un'alleanza «temporane a transitoria». In Iraq, nella regione dei Curdi, la paura che gli USA adesso li pianti in asso è molto concreta. Insomma questo ultimo abbandono nasce da una storia di protagonista assoluto che però non sa decidersi fra l'aspirazione morale e gli interessi politici immediati, zigzagante, sensibile oggetto di continue critiche, sempre meno sicura del proprio ruolo primario nel mondo. Così che adesso l'America risulta ammantata da un cumulo di vergogne, con questo rapidissimo e semi incomprensibile abbandono di Biden, la cui figura stessa adesso resta incatenata alle immagini dei poveri cittadini alla rincorsa degli aerei per volare via dalla persecuzione jihadista. Biden ha pensato che, come Trump, fosse il caso di parlare agli americani di «interessi» più che di compiti storici, dato che i miliardi spesi sono tanti, e che comunque, come gli inglesi nell'800 e i russi il secolo scorso, anche gli americani dopo vent'anni fra quelle montagne non sanno più che fare. Ma se la gente comune in America può voltarsi dall'altra parte, la sua élite, di destra e di sinistra, non sarà altrettanto indifferente allo spregio che qui vien fatto ai diritti umani, religione del nostro tempo. Inoltre come ignorare il favore che si fa a Mosca e a Pechino? I Talebani hanno visitato la Russia almeno tre volte in questi anni, e il commento dell'ambasciatore Dimitri Jirnov adesso è stato: «Occorre che i talebani consentano un passaggio ordinato dei poteri». Tutto qui. Anche i cinesi gioiscono, per non parlare degli iraniani, nonostante gli sciiti non siano i migliori amici dei talebani. Ma la loro bandiera è identica: jihad! Non a caso Hamas si è già congratulato, e ieri ha già tirato un paio di missili su Israele. La Jihad di tutto il mondo, a tutte le latitudini, si ringalluzzisce: per vent'anni, comunque, l'Afghanistan era stato quieto, Bin Laden era stato eliminato, al Qaeda non è tornata a colpire gli Usa. Intanto, la mortalità infantile si dimezzava e l'aspettativa di vita aumentava di 4 anni per le donne e di 3 per gli uomini, e i laureati passavano da 20mila a 31mila l'anno. Adesso, è finita. Adesso, la mossa di Biden ,mentre distrugge la dimensione morale e strategica americana, ne fa a pezzi la deterrenza. Il mondo è in preda a un trauma che sfascia insieme alla pace anche i nostri film, le canzoni, i sogni. Ormai salverà il mondo non lo zio Sam, ma il coraggio di un no collettivo al jihadismo. Fiamma Nirenstein

Domenico Quirico per “la Stampa” il 18 agosto 2021. La insinuazione offensiva ha atteso solo poche ore. E piove dall'alto del comandante supremo Biden, il Badoglio della fuga afghana, un presidente in cui quello che appare di più grande è la banalità. È tutta colpa dei soldati afghani, ha sentenziato, avevamo organizzato benissimo a Kabul, ma quelli hanno pervertito tutto arrendendosi senza combattere. Voilà. Le sconfitte si assomigliano tutte quanto meno nelle scuse dei vinti: è sempre colpa di qualcun altro, gli alleati inaffidabili, le quinte colonne, i traditori, i tiepidi, le fanterie... Colpisce, fragorosa, la assonanza: a scolpire la nostra Caporetto del 1917 fu il famigerato proclama di un altro comandante supremo, l'uomo dannunzianamente «scolpito nella roccia del Verbano», Luigi Cadorna. Spiegò tutto il disastro in due righe: «A causa di reparti della seconda armata vilmente ritiratisi...» e via diffamando lo sciopero militare. Allora siamo intesi: la parola d'ordine è che gli sconfitti sono gli afghani, questi infingardi a cui avevamo concesso il privilegio, dopo vent' anni, di farsi massacrare da indipendenti. Li si accusa, ormai scopertamente, della propria disgrazia e già si prenotano a loro colpe, anche quelle prossime venture, i profughi in fuga, i narco emirati conficcati nel cuore dell'Asia, le possibili nuove tortughe terroriste sui picchi dell'Hindu Kush. Si sgranano respiri di sollievo. Ci prepariamo ad attraversare, Alice occidentale, lo specchio di un malefico e vergognoso presente indenni, delegando la colpa alle vittime. Noi invadiamo ingombriamo ci disperdiamo e la colpa è degli altri. Pretendiamo non solo vittorie ma anche sconfitte a prezzo stracciato, a interessi irrisori o, ancor meglio, per cui paghino gli altri. Sfugge al comando supremo la domanda: ma per cosa i fantaccini afghani avrebbero dovuto combattere fino alla morte i diavoli scesi dalle montagne, quelli sì con buone ragioni nello zaino per essere implacabili, la vendetta, un dio degli eserciti, la fame? Forse per i palazzi dei ricchi, per politicanti corrotti e parolai, per una modernità di cui non hanno visto le remote delizie, per la borghesia occidentalizzata che li guardava con condiscendenza per la loro arretratezza? Avrebbero dovuto morire per gli illuminati editoriali del «New York Times» o per presidenti con la raffinata kurta di seta? Un quisling dei sovietici, Najibullah, almeno si fece ammazzare. Ma i nostri fantocci non si lasciano dietro certo ideologie o martìri, solo conti in banca. Andare in trincea per salvare il consenso degli amici americani che hanno sganciato bombe disinvolte su terroristi e matrimoni, baracche di pastori e nidi di guerriglieri: sono le necessità supreme della guerra al terrorismo, ecco qua... con il risarcimento compratevi due galline. Suvvia...Gli afghani sono combattenti, una razza guerriera avrebbe ammesso la vecchia antropologia degli imperi coloniali, da maneggiare con rispetto. Ma la guerra per cui hanno talento è fatta di agguati, notturna, veloce, tenace, impalpabile, da combattere in sandali. Le reclute invece le abbiamo travestite come noi, anche loro devono assomigliarci. Ma se gli metti gli scarponi, lo appesantisci di zaini, elmetti, se li fai dipendere da aerei e colonne blindate, allora la loro magia guerriera svanisce. Vivere come gli afghani nel Grande Gioco in un costante pericolo di morte, da decenni, insegna solo due cose: ad aver paura di morire e a morire. Ma non basta. Stiamo costruendo un nemico a misura delle nostre necessità. Lucifero, dimessa la forma diabolica o animale a cui più nessuno crede, ha preso l'aspetto dei taleban, è magnificamente condensato in un grappolo di barbuti. Il diavolo insomma, figlio della nostra notte, lo vogliamo identificabile, isolabile, maneggevole, oggettivo. Ci appare, ora che ci invade giorni i teleschermi, come una folla che si intende a misteriosi segni come le api e le formiche. Si annuncia: i taleban sono assetati di vendetta su coloro che hanno lavorato per noi, cercano gli elenchi dei nostri fedeli dipendenti e fornitori, dei giornalisti che hanno encomiato l'Afghanistan moderno e stramaledetto quello preistorico. Il popolo afghano nella nostra narrazione è formato solo da coloro che vogliono fuggire. Ma questa è stata una guerra civile: i datori di lavoro di questa crosta di Afghanistan moderno hanno cercato di annientare per venti anni l'Afghanistan dei taleban. Come pensare che questi non la vedano come un partito di traditori, di collaborazionisti, a cui pretendiamo chiedano scusa per essere sopravvissuti, per aver vinto? La maggioranza degli afghani ha resistito non facendo nulla, non ha mai votato a elezioni fasulle, non voleva né gli americani né il governo né i taleban, voleva solo esser lasciata in pace, coltivare la terra, eleggere i capi villaggio. Non abbiamo mai chiesto a questi afghani cosa volevano perché avevamo paura di farlo.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 20 agosto 2021. L'amnesia collettiva delle nazioni è qualcosa di diverso dal dimenticare dei singoli, è un tacito accordo a non ricordare errori e vergogna. Allora prepariamoci ad altre ritirate. Kabul un caso unico? Niente affatto. Un secondo Afghanistan è già imbandito, trascinato anche questo dall'imperativo categorico della lotta al terrorismo e dal misero fallimento delle sue soluzioni semplicistiche, ricorso alle armi e appello alle anime. Per evitare l'esportazione dell'estremismo dinamitardo nelle nostre tranquille democrazie, aggirando la necessaria fatica di rimettersi in questione, di dire la verità, torniamo al filtro magico: bugie e giochetti di prestigio fatti di droni, forze più o meno speciali, fondi per lo sviluppo ma dei complici locali, ignoranza, scarsa preparazione morale, rovina di una classe dirigente. Anche stavolta, come a Kabul, sono schierati gli italiani, a rimorchio di un'altra potenza in declino, la Francia. Poiché non si può resuscitare il passato, a Parigi si è condannati a ricostruirlo esibendo materiali eterogenei e in cui si cerca la propria eternità. Teatro della prossima ritirata il Sahel. La ambigua natura della presenza francese in quelle eterne colonie, sfruttamento economico e geopolitico e contrasto ai califfati islamisti, è causa di imbarazzo. Allora si riduce l'una all'altra, si forgia un bersaglio unico: la lotta ai fanatici del jihad e come rafforzativo la migrazione ovviamente clandestina. La mobilitazione morale così si riduce alla mobilitazione militare. Non vi ricorda Kabul, la caccia a Bin Laden diventata la liberazione degli afgani dall'oscurantismo? Ricapitoliamo: siamo appostati lungo linee di frattura, frontiere arbitrarie e fatali disegnate dai francesi secondo logiche del «divide et impera». Ficcate come in un sacco si aggiungano la corruzione tollerata di proconsoli obbedienti incaricati di amministrare fedelmente la ditta coloniale, convulse e sanguinose risse etniche e religiose, neri e arabi, tuareg agricoltori, nomadi. Il califfato africano così lussureggia, scende verso sud, graffia ormai il golfo di Guinea. La Francia ammonticchia operazioni su operazioni, la Legione marcia e contromarcia, bombarda, occupa, si ritira, rioccupa. Arruola mercenari locali, in nome della sicurezza collettiva ovviamente, che si dedicano al saccheggio delle popolazioni che dovrebbero difendere. Anche qui si fa il conto dei nemici abbattuti, come collezionisti maniaci. Inutilmente. Guerra persa. I taleban locali hanno sette vite, sono diventati parte del Sahel. Nessuno credeva sarebbe accaduto. Sembra accaduto per caso, per un errore di calcolo. Una guerra è andata avanti per anni a torbida, senza convinzione, con il sentimento della sua inutilità. Le popolazioni, la società civile, persino i governi si ribellano: invocano ormai apertamente il ritiro dei francesi. Per poter trattare, loro, direttamente con i jihadisti. Potrebbero scambiare le loro esperienze con gli afghani: di giorno bombardati dai francesi, e angariati dai loro trucidi alleati con l'accusa di collaborazionismo; di notte sottoposte alle vendette delle milizie di Al Qaida e dell'Isis che li accusano invece di essere renitenti alla guerra santa. La soluzione militare contro i taleban del Sahel è fallita come in Afghanistan. Bilanci che si assomigliano: due miliardi di euro gettati via ogni anno dal 2013, due milioni di rifugiati e profughi, migliaia di morti civili, Stati in frantumi, bassezze compiute come se fossero eroismi, milizie locali che si incaricano della autodifesa e saldano vecchi conti con comunità nemiche fornendo reclute ai terroristi. La Francia per condividere i guai e diminuire la spesa invoca che la lotta al terrorismo diventi europea. Ora gli alleati fanno comodo. La mediocrazia dell'Unione si accoda, aderisce anche l'Italia che, tra sbadigli e indifferenza, spedisce soldati in Niger dove le popolazioni considerano i soldati stranieri una disgrazia. Non siamo certo noi occidentali dei maniaci o dei mostri, ma i nostri droni bombardano e abbiamo armi letali per eliminare i terroristi. La gente nel Sahel, come gli afghani, soccombe per errore, talvolta perché deve, pena la vita, ospitare i jihadisti. Sente da anni la guerra e la strage vicina, ha dimenticato la pace. nelle accademie militari si suggeriva di conquistare, oltre ai territori, anche le menti e i cuori. Bene. Ma non si deve dimenticare che sono sempre racchiusi in un corpo. 

Come facciamo a perdere se siamo così sinceri? Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 17 Agosto 2021. L’Afghanistan è di nuovo sotto il giogo dei talebani e l’odissea ventennale dell’America termina con una fuga precipitosa. Racconta Samantha Power nel suo memoir, The Education of an Idealist, che quand’era un giovane funzionario del ministero degli esteri in Vietnam, Richard Holbrooke (uno dei più dotati diplomatici americani) aveva ritagliato una vignetta che mostrava un affranto Charlie Brown dopo che la sua squadra di baseball era stata sonoramente battuta per 184 a 0. «Non capisco», dice Charlie Brown. «Come facciamo a perdere se siamo così sinceri?». «Ho pensato spesso – prosegue l’ex ambasciatrice americana alle Nazioni Unite – al fatto che i consulenti politici americani che erano pagati milioni di dollari per predire il comportamento dell’elettorato americano ciononostante sbagliavano di frequente le loro previsioni; e parlavano inglese, dialogavano con gli elettori, e conoscevano la nostra storia. A prescindere dalla nostra sincerità, non potevamo aspettarci di avere una sfera di cristallo in grado di prevedere gli esiti in posti dove la cultura non era la nostra. Era oltremodo difficile rendersi conto delle tendenze latenti che giacevano sepolte in una società in cui, per decenni, il “fratello leader” aveva cercato di controllare perfino i pensieri dei propri cittadini». Ho tratto queste righe dal capitolo che Samantha Power dedica alla Libia. Ma potrebbero applicarsi all’Afghanistan, all’Iraq, o a uno dei tanti teatri di guerra di questi anni. La fuga del presidente afgano Ashraf Ghani e il volatilizzarsi, senza opporre resistenza, delle forze armate afgane (addestrate spendendo miliardi di dollari degli Stati Uniti e dei loro alleati) hanno svelato, alla fine, che buona parte dei «successi» strombazzati da Washington erano solo delle favole. E, in fondo, proprio questi fallimenti dimostrano il fondamento logico della decisione del presidente Biden di lasciare l’Afghanistan: non c’è tributo di sangue, non c’è somma di denaro che gli americani ed i loro alleati siano disposti a versare che possa trasformare l’Afghanistan in quella nazione unificata ed efficiente sognata dai pianificatori della politica estera degli Stati Uniti. Come l’Iraq e la Libia, l’Afghanistan ha chiarito che l’entusiasmo dell’America per le guerre è superato solo dalla fretta di uscirne, indipendentemente dal caos che ci si lascia poi alle spalle. Torneremo anche sul libro con il quale l’immigrata irlandese, che è stata corrispondente di guerra, ha vinto un Premio Pulitzer ed è poi diventata una figura chiave dell’amministrazione Obama, cerca di dimostrare che è rimasta fedele al suo idealismo, all’approccio etico intransigente per la quale era diventata famosa, alla convinzione che l’idealismo umanitario può davvero cambiare il mondo, che le persone possono fare la differenza in meglio, ecc. Anche perché la storia che Samantha Power racconta è molto più complicata; e l’idealista di un tempo ha ora aspettative molto più realistiche su quel che i governi e le persone impegnate in politica possono, e non possono, ottenere davvero.

Un esercito venduto.

Perché l’esercito afghano ha perso contro i talebani. George Allison su Inside Over il 19 dicembre 2021. Dopo avere infestato rapidamente i distretti rurali e anche centri urbani ben più importanti, le forze talebane si sono infiltrate nella capitale afghana, Kabul, prendendo il potere con un tentativo dalla notevole portata e velocità. Con una maggiore forza armata a disposizione, il governo afghano avrebbe dovuto avere la meglio, almeno teoricamente. Sulla carta le forze di sicurezza afghane sarebbero state forti di oltre 300mila unità. Le forze armate dei talebani sono ancora più difficili da contare, tuttavia alcune stime suggeriscono un nucleo di 60mila unità, a cui andrebbero aggiunte altre milizie e seguaci che porterebbero la cifra potenzialmente intorno ai 200mila.

La differenza significativa tra le due forze è stata, in maniera piuttosto evidente, che una aveva l’appoggio della Nato, mentre l’altra no. E “l’altra” ha vinto comunque.

Per tutta la durata del conflitto, il consolidamento dell’idea di una “via d’uscita” occidentale ha significato in termini strategici che i politici occidentali si sono sempre concentrati su quando fosse il momento migliore per andarsene. Per vent’anni l’Occidente ha infatti sempre dimostrato un fievole impegno strategico nei confronti del Paese.

Tutto ciò che restava da fare ai talebani era dunque attendere. Sapevano che le forze occidentali se ne sarebbero andate, ma non quando

Un impegno già in calo e che continuava a diminuire in maniera costante, lasciando spazio affinché le condizioni per il collasso dell’esercito afghano potessero iniziare a svilupparsi. Il presidente statunitense Joe Biden ha sostenuto pubblicamente che alle forze afghane sembrava mancare la volontà di combattere. Altri hanno invece dato la colpa a dei problemi legati al loro addestramento, all’abuso di terzi privati, o banalmente all’incompetenza. Personalmente non ritengo che la causa principale di quanto accaduto all’esercito afghano rientri specificamente tra quest’ultime, né che si tratti di una mancanza di carattere.

Ritengo piuttosto che i soldati afghani abbiano affrontato quello che è stato definito “un problema di impegno” dovuto a ciò che per loro deve essere stato riscontrare un significativo cambiamento nell’ambiente strategico. Un cambiamento che pare aver trasformato la loro convinzione da una possibile vittoria ad una sconfitta quasi inevitabile, e che si sarebbe rivelata pericolosa anche per le loro famiglie.

I talebani hanno iniziato ad avanzare nel momento in cui le forze occidentali hanno cominciato a ritirare il proprio personale ed i propri equipaggiamenti. Impossibile scindere questi due fattori l’uno dall’altro: tutto ciò è accaduto perché le truppe occidentali hanno iniziato ad andarsene, portandosi via in alcuni casi anche il loro supporto.

Va inoltre evidenziato come, mentre i talebani avanzavano, questi cercassero anche di negoziare con le forze afghane in avamposti e cittadine rurali, e di convincerle ad arrendersi e tornarsene a casa. Ed è nel momento in cui questo è accaduto, quando quelle truppe se ne tornarono effettivamente a casa spargendo la voce di essersi arresi, che la vittoria dei talebani è diventata allora inevitabile. Lo dimostra il fatto che, mentre i talebani proseguivano la loro avanzata, non hanno trovato più alcuna significativa resistenza, soltanto un numero sempre maggiore di truppe afghane che si arrendevano.

Verso la fine della marcia talebana, come ciascuno di noi farebbe, migliaia di cittadini afghani hanno cercato la via della salvezza di gruppo arrendendosi tutti insieme.

La rapida ascesa dei talebani ha colto di sorpresa il pubblico generale e anche i sistemi di difesa; persino il presidente Biden ha riconosciuto che il governo statunitense ed il poderoso esercito americano erano stati presi alla sprovvista dal repentino disfacimento dell’esercito afghano.

Nonostante gli incredibili vantaggi del supporto di una superpotenza di cui l’esercito afghano potesse disporre sulla carta, i talebani hanno preso il controllo l’Afghanistan nel giro di settimane. Così in fretta che il ritiro delle truppe e di cittadini dall’Afghanistan nemmeno era stato portato a termine. Molti di voi avranno visto immagini e video di cittadini afghani che cercavano di salire a bordo degli aerei occidentali lungo la pista dell’aeroporto di Kabul, nel disperato tentativo di prendere un volo verso la salvezza. 

Un altro esempio che dimostra come chiunque fosse stato preso alla sprovvista dalla velocità a cui le forze afghane sono capitolate.

Dunque, come mai l’esercito afghano si è dissolto così rapidamente di fronte all’avanzata dei talebani? Che cosa ha accelerato il loro “problema di impegno”? L’ex colonnello statunitense Rich Outzen, mentre parlava pubblicamente durante un’intervista con l’agenzia giornalistica turca Anadolu, ha attribuito la resa ad una mancanza di supporto da ogni punto di vista – dagli aerei da combattimento alla logistica, dai trasporti trasporti alla comunicazione – una volta che gli Stati Uniti, le forze occidentali e le parti terze si sono ritirate dal Paese nei mesi precedenti all’avanzata talebana.

È importante sottolineare che, in Paesi montuosi come l’Afghanistan, le forze di terra dipendono in gran parte dal supporto aereo; e purtroppo, all’esercito afghano, tale supporto da parte di Stati Uniti e terzi privati è stato effettivamente sottratto da un giorno all’altro.

Ciò ha comportato che la gente fosse più incline ad arrendersi e tornarsene a casa, non riuscendo a percepire il supporto del governo centrale dell’Afghanistan, degli Stati Uniti o delle forze occidentali.

Così come per i civili, anche per i soldati l’unione fa la forza. Quando combattono possono vincere soltanto collaborando come un’unica forza. D’altra parte, le decisioni individuali di combattere o fuggire dipendono solitamente dalle reciproche aspettative.

Se un soldato è convinto che la maggior parte dei suoi compagni combatterà al suo fianco, sarà sicuro della sicurezza e della forza della propria squadra. La vittoria diventa possibile. Ma se un soldato teme che i suoi compagni si arrenderanno, la resa diventa un’opzione e la sconfitta dunque inevitabile. Nel momento in cui un soldato scopre che centinaia o addirittura migliaia dei suoi compagni si sono già arresi e lo hanno abbandonato, allora non c’è più modo di tornare indietro. Il morale e la forza di volontà per combattere svaniscono: perché darsi da fare? Un soldato disertore genera un esercito di disertori, che in ultima istanza genera il collasso di un’intera forza armata. Questo è quello che è successo all’esercito afghano.

Afghanistan, il generale italiano Battisti: "Perché l'esercito regolare si è sciolto subito". La tragica verità sui talebani. Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. "Abbiamo applicato i nostri cliché occidentali. E il risultato è che abbiamo letteralmente fatto disimparare agli afghani a combattere". Questo il pensiero del generale Giorgio Battisti, primo comandante del contingente italiano nel 2001-2002, poi di nuovo nel 2003, è tornato come rappresentante italiano nel quartier generale Isaf nel 2007 e ancora come capo di stato maggiore dell'intera missione Nato nel 2013, su come la Nato si è mossa in Afghanistan. "Gli afghani sono da sempre considerati i combattenti più temibili dell'Asia centrale. Ma devono farlo a modo loro. Noi occidentali siamo abituati da due secoli allo scontro frontale con il nemico. Loro invece sono formati alla guerriglia. Colpisci e fuggi. Meglio se quando il nemico si trova in difficoltà. Abbiamo applicato i nostri manuali. E così l'esercito regolare si è dissolto in poche settimane. Gli unici che hanno combattuto bene sono stati i commandos, che di fatto sono formati alla guerriglia. Li usavano come i pompieri, spostandoli da una provincia all'altra, per fronteggiare ogni nuova crisi"", racconta Battisti. "Questo errore lo fecero gli inglesi a inizio Novecento, e poi di nuovo i sovietici negli Anni Ottanta, la Nato ha creduto di poter creare un esercito dal nulla in pochi anni, ma non si può andare contro una storia, una cultura, una mentalità millenaria. Sarebbero occorsi chissà quanti decenni. Anche i sovietici, si resero conto presto che non potevano fare affidamento solo sui Sarondoy, una sorta di gendarmi addestrati all'antiguerriglia. Gente che si muoveva e che combatteva come i propri nemici. Nei primi anni dell'intervento, non c'era stata l'ambizione di creare un esercito nazionale. Erano stati formati appena due battaglioni per fare la guardia al palazzo presidenziale", precisa il generale. "Solo dopo il 2007 si pensò a un esercito su larga scala. Lo stesso governo afghano ambiva ad avere un esercito moderno, perché è segno di potenza. E perciò li facevano sfilare alla festa nazionale. Ma per dirsi un esercito moderno mancavano molte cose: si pensi che l'80% delle reclute era analfabeta. Ma come si può dirigere un tiro di artiglieria se non sai fare di conto o non sai leggere un manuale? Nemmeno si può dire che non abbiano combattuto: è almeno dal 2013 che la Nato non era più in assetto offensivo, e che toccava a loro. Lo hanno fatto egregiamente, finché hanno avuto l'appoggio aereo, di intelligence, di forze speciali. Quando si sono sentiti abbandonati, dagli americani e dal loro governo, hanno mollato", conclude Battisti.  

La lezione da imparare dalla disfatta lampo dell’esercito afgano. Soldi, equipaggiamenti, finanziamenti miliardari, anni di addestramenti. Tutto evaporato in pochi giorni. Perché le guerre non le combattono i numeri e le armi. Gastone Breccia su L'Espresso il 24 agosto 2021. I giorni finali dell’offensiva talebana dell’agosto 2021 saranno studiati e citati a lungo come esempio perfetto di «guerriglia-lampo». Un esercito forte – almeno sulla carta – di circa 180.000 uomini, addestrato dall’Occidente per anni, ben equipaggiato per affrontare l’attacco degli insorti si è letteralmente dissolto, permettendo al nemico di occupare la capitale senza sparare un colpo. Ci sono due tipi di considerazioni che si possono fare osservando quanto accaduto in Afghanistan tra l’11 e il 15 agosto. L’incruenta e decisiva vittoria dei Talebani dimostra una volta di più quanto sia vero che in guerra «i dilettanti si preoccupano soprattutto di tattica, i professionisti di logistica»: lo stupore di fronte alla disfatta dell’Afghan national army è ingiustificato, perché il rapido venir meno dell’appoggio occidentale aveva già provocato il tracollo delle strutture logistiche delle forze armate di Kabul. Non c’erano più benzina, pezzi di ricambio, munizioni; gli specialisti addetti alla manutenzione dei mezzi terrestri, degli elicotteri e degli aerei da attacco al suolo, molto spesso contractors privati, erano già ripartiti senza che nessuno potesse sostituirli. L’esercito afghano era un guscio vuoto. È la prima lezione: inutile avere armi ed equipaggiamenti (relativamente) sofisticati, se non si possiedono anche le conoscenze e le risorse per mantenerli in efficienza. Per spostarsi è meglio una bicicletta che un humvee senza carburante. Ma questo non basta. Il secondo insegnamento, altrettanto importante, è che le guerre non le combattono i numeri e le armi, ma gli uomini. Anche nel terzo millennio. Uomini che devono essere disposti a rischiare di restare feriti o uccisi; disposti al sacrificio per senso del dovere, per fedeltà alla patria o al loro comandante, per ideologia, religione o almeno per denaro. Possono mancare alcune di queste motivazioni, ma non tutte: un esercito che non si riconosca in un governo autorevole, che non sia convinto di rappresentare il proprio popolo, che non sia unito da una forte spinta ideale – di qualsiasi tipo – e che non venga pagato da mesi, come stava accadendo all’Afghan national army, è sconfitto prima che voli una freccia, avrebbero detto gli antichi. Lo possiamo ripetere ancora oggi: nonostante l’invadenza della tecnologia, in guerra resta determinante il fattore umano. Perché il combattimento è forse la più terribile e crudele tra le esperienze che uomini e donne debbano affrontare, e per farlo hanno bisogno di una forza morale fuori dal comune. Altrimenti, se un nemico si avvicina con una bandiera di tregua e pone una scelta – deporre le armi e andare a casa, o prepararsi a combattere senza quartiere – l’esito è prevedibile. Inadeguatezza logistica e fragilità morale sono due buone ragioni per spiegare la disfatta dell’esercito afgano. Ma la questione di base resta irrisolta. Come è stato possibile, in tanti anni e con l’impiego di un fiume di denaro – si parla di quasi 90 miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti, più le somme spese dagli alleati Nato – non essere riusciti a creare una forza capace almeno di contenere l’avanzata di poche decine di migliaia di guerriglieri armati alla leggera, ovvero con pick-up civili, mitragliatrici, Ak-47, lanciagranate a razzo (Rpg)? Trovare una riposta non è semplice. Il fallimento, come sempre, è stato prima di tutto politico: appoggiando una classe dirigente screditata, corrotta, faziosa, o percepita dai più come estranea al paese – è il caso del presidente Ashraf Ghani – si è privato anche l’esercito di una guida affidabile. Il secondo fallimento è stato organizzativo: per semplicità si è lasciato che venissero mantenute all’interno dei reparti differenze e rivalità etniche, che hanno impedito la formazione di un vero esercito «nazionale», ad onta del suo nome. A questo si è aggiunta l’incapacità di controllare quello che accadeva realmente nelle caserme e nelle basi militari, dove la corruzione era endemica. Una quantità enorme di denaro è stata sprecata; peggio, ha creato un circolo vizioso di crimini, aspettative e tradimento. Gli ufficiali che falsificavano gli organigrammi delle unità per intascare la paga di soldati inesistenti avevano bisogno della complicità dei loro subordinati, e quindi chiudevano un occhio sui loro traffici illeciti; i soldati, a loro volta, consapevoli di quanto accadeva, si adattavano, preparandosi a sopravvivere al peggio abbandonando l’uniforme al momento opportuno. Gli istruttori della Nato, quando dovevano operare con un reparto, trovavano spesso solo la metà degli uomini presenti, i mezzi fermi o fuori uso, le armi inefficienti, il comandante «in licenza». Tutti lo sapevano da anni, ma nessuno ne faceva parola, se non in forma anonima, con scarso effetto su un’opinione pubblica occidentale molto distratta. Difficile stupirsi, dunque, della vittoria degli insorti, considerata inevitabile da almeno due anni. Per qualche motivo, invece, restava viva anche tra i più informati la convinzione che ci sarebbe stata una certa resistenza da parte dell’Afghan national army, e quindi più tempo per organizzare l’evacuazione finale: senza alcun imbarazzo Jens Stoltenberg ha ripetuto il 17 agosto «di essere stato colto di sorpresa» dalla rapidità dell’avanzata dei talebani. Un successo così completo da sfidare ogni paragone storico-militare: perché una guerra lunga vent’anni è stata conclusa in pochi giorni quasi senza spargimento di sangue, dimostrando come la cura di politica e strategia debba sempre avere la precedenza su quella di tattica ed equipaggiamento. I talebani hanno saputo aspettare per anni il momento della controffensiva, adottando una efficace strategia di attrito morale e materiale; hanno tessuto con pazienza una rete di contatti politici con i capi locali; hanno infiltrato «cellule dormienti» in molti reparti dell’esercito afghano e in tutte le maggiori città; sono riusciti a sfruttare al meglio i mezzi d’informazione più moderni e capillari, alternando promesse di amnistia a filmati, diffusi soprattutto via twitter, in cui lasciavano vedere (pur negandolo poi ufficialmente) come passavano per le armi chi tentava di resistere. Ora il paese è loro, tranne la roccaforte tagica della valle del Panjshir: hanno conquistato un prestigio enorme di fronte ai correligionari in tutto il mondo, ma per governare un paese stremato ci vorranno grande abilità e non pochi aiuti esterni.

Gastone Breccia è docente all’università di Pavia e autore di “Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan” (Il Mulino, 2020)

Afghanistan, Guido Crosetto mostra l'imbarazzante video di talebani in palestra: "Esercito invincibile". Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. Sono diventati virali, in queste ore, i video che mostrano i talebani all'autoscontro di Kabul o nella sala attrezzi del palazzo presidenziale mentre tentano, in maniera maldestra, di fare attività fisica. Gli stessi uomini che hanno appena conquistato l'Afghanistan e proclamato l'Emirato islamico appaiono sorridenti più che mai sulle macchine da scontro, tra manovre azzardate e tamponamenti, e sui cavallucci delle giostre, gli stessi dove erano soliti andare i bimbi afghani. E così mentre da una parte prevalgono il divertimento e la gioia dei talebani, dall'altra si assiste alla disperazione di un popolo che tenta solo di fuggire. Incredulo di fronte a queste immagini anche il numero due di Fratelli d'Italia Guido Crosetto, che su Twitter ha condiviso il video in cui gli studenti coranici si dilettano nella palestra dell'ex presidente Ashraf Ghani, ormai fuggito da ore, e ha scritto: "Un esercito invincibile". Un commento chiaramente ironico, se si guarda con attenzione il filmato: i talebani provano per la prima volta attrezzi mai visti prima, come quello per i dorsali o la cyclette ellittica. Alcuni pedalano addirittura al contrario. Il tutto mentre si riprendono con i cellulari. I commenti degli utenti di Twitter evidenziano un certo sconforto. Qualcuno scrive: "Pensare che la Nato sia scappata da questi evidenzia quanti soldi buttiamo ogni anno". Qualcun altro invece: "Sempre più umiliante e disonorevole". 

Antonio Padellaro per "il Fatto quotidiano” il 19 agosto 2021. Dopo una lunga assenza che aveva suscitato qualche apprensione tra noi fans, finalmente è ritornato Edward Luttwak. Si è appalesato non più con le consuete immagini di Washington D.C. alle spalle - all right all right, a Capitol Hill tutto sotto controllo -bensì con un video girato in qualche località segreta. Il volto piuttosto rubizzo, in merito al quale gli analisti hanno subito elaborato due ipotesi: esposizione mimetica troppo prolungata ai raggi del sole, oppure beh lasciamo perdere. Probabilmente con la tecnica del drone invisibile martedì sera lo abbiamo visto irrompere in tv a "In Onda", noto covo progressista dove ha generato scompiglio attribuendo la catastrofe afghana alla consueta visione strategica sinistrorsa, buonista, capitolarda, cacasotto. Ma, soprattutto, noncurante dell'abc del bravo marines: prima sparare e poi chiedere spiegazioni. Infatti, nel mentre i conduttori confusamente rinculavano sul terreno il nostro dottor Stranamore enunciava la teoria generale e definitiva sul destino di quella terra martoriata. Primo: "L'esercito afghano era una truffa. Nella zona geografica chiamata Afghanistan non ci sono afghani, io ci sono stato varie volte e non ne ho mai incontrato uno". Secondo: "Qualsiasi funzionario americano che era stato in Afghanistan e che quindi conosceva bene il territorio veniva escluso dalle decisioni perché c'era un consenso progressista, spinto dall'idea di liberare le donne e gli uomini dell'Afghanistan" (Puah, lo aggiungiamo noi). Il tutto esposto con lo slang da "FullMetalJacket", ma nello studio invece di un Signorsì signore! da quei renitenti alla leva solo sorrisetti. L'incursione di Luttvak apre la strada a plotoni di esperti geopolitici sicuramente prodighi di informazioni su tutti gli errori commessi in vent' anni d'inutile occupazione, purtroppo però a babbo morto. Si apriranno delle contese, come quelle tra virologi, ma forzatamente più cruente. Prima di evaporare in una nuvola di napalm, Luttwak ha rivelato di essere "attualmente consulente strategico del governo degli Stati Uniti". Il che spiega molte cose.

Edward Luttwak, dopo In Onda gli insulti di Padellaro: "Rosso per il troppo sole o...". Dove si spinge. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. Edward Luttwak interviene a In Onda sul caso Afghanistan e Antonio Padellaro pensa sia una buona occasione per sbeffeggiarlo sul Fatto Quotidiano. "Dopo una lunga assenza che aveva suscitato qualche apprensione tra noi fans, finalmente è ritornato Edward Luttwak. Si è appalesato non più con le consuete immagini di Washington D.C. alle spalle - all right all right, a Capitol Hill tutto sotto controllo -bensì con un video girato in qualche località segreta", ha scritto l'editorialista del giornale diretto da Marco Travaglio. Padellaro, però, non ha preso di mira solo le dichiarazioni rilasciate dall'economista. No, ha voluto anche prendersi gioco del suo colorito: "Il volto piuttosto rubizzo, in merito al quale gli analisti hanno subito elaborato due ipotesi: esposizione mimetica troppo prolungata ai raggi del sole, oppure beh lasciamo perdere". Nel corso della trasmissione, comunque, Luttwak è intervenuto dicendo che l'esercito afgano fosse "una truffa" e che ci sia stata una strategia di base, progressista, che non ha giovato al Paese: "Qualsiasi funzionario americano che era stato in Afghanistan e che quindi conosceva bene il territorio veniva escluso dalle decisioni, perché c'era un consenso progressista, spinto dall'idea di liberare le donne e gli uomini dell'Afghanistan". Commentando l'intervento del politologo a In Onda, Padellaro ha scritto: "Ha generato scompiglio attribuendo la catastrofe afghana alla consueta visione strategica sinistrorsa, buonista, capitolarda, cacasotto". E ancora: "Il tutto esposto con lo slang da 'FullMetalJacket', ma nello studio invece di un Signorsì signore!, da quei renitenti alla leva solo sorrisetti". Infine queste parole al veleno: "Prima di evaporare in una nuvola di napalm, Luttwak ha rivelato di essere "attualmente consulente strategico del governo degli Stati Uniti". Il che spiega molte cose". 

AFGHANISTAN, EDWARD LUTTWAK A IN ONDA: "L'ESERCITO? UNA TRUFFA. ERA TUTTO SCRITTO", COME SMONTA GLI USA. Da liberoquotidiano.it il 19 agosto 2021. "Il cosiddetto esercito afghano era una truffa": L'economista e politologo Edward Luttwak, ospite di David Parenzo e Concita De Gregorio a In Onda su La7, ha commentato la rapida presa dell'Afghanistan da parte dei talebani. Secondo lui, l'errore di fondo è stato proprio quello di mettere su un esercito "afghano". Non tenendo conto, così, di un aspetto fondamentale in quel Paese: "Nella zona geografica chiamata Afghanistan non ci sono afghani, io ci sono stato varie volte e non ne ho mai incontrato uno, ci sono altri tipi di etnie. Se avessero fatto un reggimento con tutte queste etnie, avrebbero ottenuto un bellissimo esercito, come successo in India". Ascoltando queste dichiarazioni, allora, la De Gregorio ha voluto fare un appunto: "Ma se davvero era tutto scritto, sotto agli occhi di tutti ma comunque la guerra è andata avanti per 20 anni, provocando la morte di 170mila persone, allora ha ragione Angela Merkel quando dice che abbiamo sbagliato tutto e che dobbiamo chiedere scusa". Luttwak, che è anche consulente strategico del governo degli Stati Uniti d'America, ha voluto precisare poi che secondo lui non c'è stato nessun tipo di complotto. Però poi ha aggiunto: "Qualsiasi funzionario americano che era stato in Afghanistan e che quindi conosceva bene il territorio veniva escluso dalle decisioni, perché c'era un consenso progressista, spinto dall'idea di liberare le donne e gli uomini dell'Afghanistan".

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2021. È vero, ha sbagliato tutto. Sbagliato nel scegliersi gli amici, nel circondarsi di ladri, nel tagliare le unghie ai «signori della guerra», nel sostituire i generali che avrebbero combattuto con altri ricattabili dai talebani, nello scappare senza neppure avvertire i ministri. Ma non è colpa di Ashraf Ghani se è andato tutto storto in Afghanistan. Non solo sua, almeno. Joe Biden nel suo discorso scaricabarile di lunedì l'ha fatta semplice: «In fin dei conti, cos' è successo? I leader politici afghani hanno rinunciato e hanno lasciato il Paese. L'esercito afghano è crollato, qualche volta senza combattere». Quindi: che responsabilità abbiamo noi? Primo la cronologia è inversa: l'esercito è crollato e solo poi i politici sono scappati. Ghani doveva forse fare la fine del presidente filosovietico Najibullah? Era settembre, non agosto, ma insomma. Najibullah venne evirato, trascinato da una camionetta e finito con un colpo di pistola. C'è da aver compassione per i brividi di Ghani la domenica mattina. I talebani erano in città. Biden sarebbe rimasto? Secondo, il presidente Usa dimentica che è stata l'America a guidare in questi venti anni. L'America a imporre (anche con elezioni truffaldine) presidenti della sola etnia pashtun. L'America a non combattere mai veramente i talebani perché protetti dall'alleato pachistano. L'America a riempire di consiglieri il governo afghano. L'America a chiedere al ristoratore Karzai prima e al professor Ghani dopo di rinunciare alla cittadinanza americana per diventare presidenti. L'America a redigere dettagliati rapporti sulla corruzione e poi finanziare i medesimi ladri. L'America a spendere miliardi in armi e appena qualche milione in sviluppo. Infine, ciliegina avvelenata su una torta marcia, l'America a trattare con i talebani escludendo il «democratico» alleato afghano. Il presidente Ashraf Ghani ha smesso di essere presidente ben prima del 15 agosto 2021. Ha smesso il 29 febbraio 2020 quando Washington ha firmato con «l'Emirato» la fine degli attacchi alle forze Usa in cambio del ritiro. Presidente di cosa? Quando ha fatto di testa sua, Washington l'ha stoppato. Ghani non avrebbe voluto liberare i 5 mila prigionieri che gli Usa avevano promesso ai mullah per proteggersi le spalle. Ma ha dovuto farlo, altrimenti gli tagliavano i viveri. Gli americani avevano deciso che Ghani dovesse condividere il governo con i talebani solo che questi rifiutavano di parlare col «burattino americano». Ghani avrebbe dovuto dimettersi? In quale democrazia funziona così? E se anche l'avesse fatto, i talebani avrebbero concesso i diritti alle donne? No, a loro bastava aspettare il ritiro Usa. Biden prevedeva una resistenza di almeno 36 mesi. Anche i talebani si immaginavano più difficoltà. Ma tutti sapevano che, senza gli aerei Usa, l'esercito non avrebbe retto. In questi 20 anni sono stati uccisi 66 mila tra poliziotti e militari afghani contro i 2.400 americani, quindi non è vero che gli afghani non volessero combattere. Semplicemente, non volevano morire questo fine settimana per rispettare il cronoprogramma di Washington. Avevano torto?

Fabrizio Cicchitto su huffingtonpost.it il 18 agosto 2021. Esistono pochi dubbi che la responsabilità di questo disastro vada equamente ripartita tra Trump e Biden. E’ Trump che con l’accordo di Dohan aveva smontato tutto. Biden ha portato avanti in realtà quella impresa. Però c’è’ da interrogarsi sul ruolo dei servizi. In primo luogo quelli americani, ma non solo. La Cia aveva dato la previsione a Biden e ai ministri americani che come minimo c’erano dai 30 ai 60 giorni di tempo prima di un possibile arrivo dei talebani a Kabul. A loro volta gli americani hanno dato questa comunicazione alle nazioni europee nel recente incontro della NATO. Noi però come Italia abbiamo passivamente preso per buono questa informazione sbagliata da parte della CIA. Però noi nel 2001-2005 avevamo in Afghanistan una intelligence così bene attrezzata che con la stupefazione di Berlusconi, Bush gliene parlò in termini ammirati. Che fine ha fatto la nostra presenza sul campo nel Medio Oriente? Dai tempi di Martini e Parisi i nostri servizi nelle varie nazioni del Medio Oriente era il migliore dopo il Mossad, tant’è che scambiavamo informazioni anche con la Cia e con gli inglesi perché la nostra era una presenza di nicchia in quest’area del mondo ed eravamo invece del tutto assenti nel resto dell’orbe terracqueo. Oggi rimaniamo assenti nel resto dell’orbe terracqueo e però sembra che ci siamo ritirati anche da dove eravamo molto presenti. La conseguenza è stata che il nostro ministro degli esteri Di Maio e il nostro ministro della Difesa Guerini - che per di più nelle riunioni Nato giustamente non avevano manifestato alcun entusiasmo per questa operazione Trump-Biden - si sono trovati sordi e ciechi di fronte alle cazzate della CIA. Ciò detto, non si può fare a meno di sviluppare alcune valutazioni di fondo. Giustamente ieri sera il direttore Sangiuliano sul tg2 ha ricordato che ai tempi della prima guerra mondiale in Usa la maggioranza era contraria all’ingresso in guerra. Che durante gli anni Trenta Churchill era in minoranza ma fortunatamente dopo Churchill in Inghilterra e poi Roosevelt negli Usa hanno prevalso. Sentendo il discorso di Biden e sapendo quello che prima a Dohan aveva combinato Trump è come se oggi negli Usa fossero al potere il padre dei Kennedy e Lindbergh notoriamente filonazisti in stretto contatto telefonico con Lord Halifax e con Chamberley, e in Francia con Valadier hanno organizzato questa brillante operazione che pagheremo a caro prezzo nei prossimi anni. Intanto giustamente la Cina e la Russia sghignazzano.

Kabul, cronaca di una disfatta annunciata…In 20 anni di occupazione gli stranieri non hanno costruito nulla di utile e l’Afghanistan si è sbriciolato. A Kabul l'esercito nazionale si è arreso subito. Lucrezia Martini su Il Dubbio il 17 agosto 2021. «Che orrore, che fallimento», «che imprevedibile stravolgimento!». Commenti sparsi sulla riconquista di Kabul da parte dei talebani e sebbene sia comprensibile lo stupore e lo smarrimento, non si può non sottolineare che il potere in Afghanistan era già di fatto nelle mani degli “studenti del Corano” e che la presa della capitale era più che prevedibile. In questi vent’anni le forze straniere non hanno costruito nessun sistema alternativo di sostentamento e di governo per la popolazione. C’è stato il controllo, c’è stato un tentativo di dare maggiore sicurezza alle varie etnie non maggioritarie, ma il castello ci carta poteva reggere finché sopravviveva una presenza straniera. Quando la presenza è diventata assenza cosa è restato agli afgani, che non hanno industrie, scambi commerciali, neanche giovani smanettoni dei videogame (che in Bielorussia e in Cina stanno tirando su un florido settore privato da casa loro). Agli afgani resta l’industria più proficua del mondo, che è tutta in mano ai talebani: l’economia della guerra. Coltivazione dell’oppio, traffico di droga, estorsione, rapimento di personale straniero, commercio di armi che provengono da tutto il mondo, finanziamenti di ricchi magnati che hanno interesse a mantenere la violenza fuori dal loro paese, magari in uno stato limitrofo dove vadano a combattere tutti quei guerriglieri che stano perdendo il lavoro in Siria o che rischiano di perderlo in Libia. Si stima che Talebani guadagnino da 300 milioni a un miliardo e mezzo dai loro traffici illegali all’anno. Un bel gruzzolo da quelle parti. E l’esercito nazionale? Quello formato dalla Nato, quello su cui abbiamo tutti investito dollari e euro? L’esercito nazionale poteva esistere solo a Kabul, non certo nelle varie province dove l’ultima parola non può che spettare al signore della guerra locale. Accerchiati, hanno preferito arrendersi che andare incontro a una morte sicura. Anche perché, forse, questa volta, i talebani potrebbero essere i meno peggio.

In giro in Afghanistan ci sono diverse migliaia di militanti di al Qaida – con cui i talebani hanno buoni rapporti, ma non di identificano – e qualche migliaio in più di militanti dello stato islamico, uomini che non hanno più rifugio né storia, persone che vivono solo per combattere e guadagnare potere. I talebani, nei confronti della loro popolazione e anche nei confronti del mondo, vogliono apparire come quelli “buoni”. Certo, non mancheranno le esecuzioni sommarie, le limitazioni alle donne, la sharia in senso stretto. Ma qualche concessione al buon senso, forse, si farà, per arginare chi vuole semplicemente distruzione e magari anche fanatica morigeratezza, che per i talebani 2.0 non è certo al primo punto dell’agenda. Devono far sopravvivere uno Stato e quindi commerciare, e anche per i traffici illegali bisogna mantenere buoni rapporti con i vicini, senza esagerare con le efferatezze. Il vero grande errore degli americani, che a pensar male potrebbe non essere un errore, ma una deliberata volontà di gettare la patata bollente su Cina e India, è stato quello di non proseguire con i negoziati con i talebani. Con la loro base in Qatar, gli studenti del Corano già da ani intrattenevano rapporti con il governo afgano ufficiale e si erano detti disposti a formare un esecutivo di coalizione. Non sarebbe stato certo il governo dei nostri sogni, ma meglio un pentapartito di un monocolore verde Corano. Invece da un paio di anni, complici campagna elettorali varie, complici le potenze regionali che non volevano l’accordo (come ad esempio il Pakistan) e complice la pandemia di Covid 19, il negoziato si arrestato. I talebani hanno preso le redini della situazione. E adesso la palla è in mano loro.

Francesco Bozzetti per “il Giornale” il 17 agosto 2021. L'Afghanistan torna il peggior covo di terroristi di tutti i tempi. Dopo vent' anni di speranze sulla vittoria del "bene sul male", dopo migliaia di morti, il Paese ritorna nelle mani dei talebani. Cronaca di una disfatta annunciata. Il ritiro degli alleati guidati dagli americani era stato infatti deciso da molto tempo. Ne parlò per primo Barak Obama, lo ribadì il suo successore Donald Trump e lo ha ora reso operativo l'attuale capo della Casa Bianca Joe Biden. La transizione ordinata e non traumatica, però, avrebbe dovuto avvenire nel giro di 3 mesi. E invece, improvvisamente, l'incubo peggiore: i ribelli si riappropriano dell'intero Paese in pochi giorni, anzi in poche ore, inseguendo e spesso giustiziando civili e militari sulle poche vie di fuga. Cosa è accaduto, quali errori sono stati commessi, e soprattutto quali colpe hanno anche i nostri politici? Lo chiediamo ad un uomo che è stato sul campo di battaglia, il generale di corpo d'Armata Vincenzo Santo, ex capo di Stato Maggiore di tutte le forze Nato in Afghanistan dal settembre 2014 al mese di febbraio 2015, il periodo forse più caldo della guerra ai talebani. «Ci sarebbe da domandarsi» afferma il generale, «quanta preparazione, quanto spirito di corpo aleggiasse, quale grado di addestramento e di affidamento siano stati garantiti in vent' anni all'esercito governativo afghano che si è dissolto come neve al sole ai primi fuochi dell'artiglieria talebana». «Citando von Clausewitz» prosegue Santo, «agli eserciti occorre saper infondere spirito di appartenenza, senso di comunità e di patria. L'Afghanistan non è mai stata una nazione unita ma un insieme frastagliato di tribù, un popolo di pastori e di villaggi con differenze e distanze abissali l'uno dall'altro». E questa è una prima spiegazione della disfatta. L'altra, secondo il generale, è più banale: «La maggior parte dei soldati governativi afgani si arruolava per soldi. Certo c'è la corruzione, ma non va sottostimato il mancato serio impegno internazionale per lo sviluppo economico del Paese. Rimasto povero, arretrato, ancorato a un'economia rurale».

Queste osservazioni spiegano la diserzione di massa fra le forze afgane. Ma non la defezione sul campo dell'esercito più potente al mondo, quello degli Stati Uniti d'America...

«Occorre domandarsi se gli americani volessero davvero costruire in Afghanistan una nazione democratica sul modello occidentale. Edificare cioè una specie di "Stato d'Israele". Non conosco quali accordi siano scaturiti negli incontri di Doha fra gli americani e la delegazione talebana, ma non credo che la nascita di un Afghanistan occidentalizzato fosse negli obiettivi di Washington. Forse all'inizio ma, vista l'impossibilità riscontrata di "conquistare cuori e menti", a quel punto, intorno al 2007-2009, il disegno strategico è divenuto quello di mantenere un'area di instabilità. Se resta l'instabilità, ogni futuro intervento militare diventa possibile, anzi necessario. Soprattutto in considerazione dell'importante influenza nel Paese da parte di un sempre più forte contendente: la Cina».

L'Italia ha pagato un tributo di sangue altissimo alla coalizione internazionale che il generale ha comandato tra il 2014 e il 2015. Cinquantatré soldati morti, centinaia di feriti e costi economici ingenti. È stato un sacrificio inutile?

«Parliamoci chiaro» risponde Santo, «gli americani usano la Nato come vogliono e quando vogliono. I nostri politici hanno sempre seguito a ruota senza il supporto di un'analisi indipendente. Bisognerebbe comprendere le ragioni del nostro intervento in Afghanistan, quelle per cui ne siamo usciti e capire se i nostri 53 morti siano stati un sacrificio inutile o meno. I nostri governanti cosa hanno rappresentato e come hanno reagito quando Biden e Stoltenberg, segretario della Nato, hanno parlato di ritiro? Hanno concordato o erano contrari a tale decisione pur divenendone per forza di cose esecutori forzati?».

La resa improvvisa e tumultuosa di Kabul è stata dunque un errore delle intelligence occidentali?

«La rappresentazione di cittadini impauriti, in fuga disordinata e spesso senza scampo di migliaia di afgani deve farci riflettere proprio su questo aspetto. C'è stato un indubbio fallimento della "copertura di intelligence" sulla caduta della capitale. Tutto si è svolto con una rapidità incomprensibile, considerando la sicurezza che gli americani confidavano sull'affidabilità operativa delle forze afghane. Non avevo alcun dubbio sul fatto che i talebani avrebbero riassunto il controllo del Paese» dice il generale Santo, «ma al di là delle mie personali opinioni sulla strategia americana, mi stupisce e rattrista l'assoluta assenza di un allarme da parte dell'intelligence. A meno che non esista un accordo fra talebani e (ex) governo nazionale. Vantarsi domani di un "ponte aereo" per l'evacuazione dei connazionali e degli altri collaboratori afgani, e mi auguro che sia così, non discolpa il ministro degli Esteri Di Maio, quello della Difesa Guerini, il direttore dell'Aise (servizi segreti militari) e del CoVi (Comando operativo di vertice Interforze) dalla completa debacle diplomatica e di intelligence. Qualcuno doveva pur fiutare come le cose stessero precipitando con un'accelerazione improvvisa e ingovernabile». Conclude Vincenzo Santo: «Draghi dovrebbe chiedere le immediate dimissioni di questi personaggi. Se siamo ancora in un Paese serio».

Afghanistan, l’irritazione Usa: “L'esercito di Kabul ha i mezzi per vincere”.  Anna Lombardi su La Repubblica il 13 agosto 2021. Gli studenti coranici controllano tutto il sud. Preparano la marcia sulla capitale, dalla quale distano 50 km. Isolare i talebani negandogli riconoscimento internazionale e aiuti economici se prenderanno il potere con la forza. Stati Uniti e alleati provano a frenare così l'avanzata degli integralisti, che ormai controllano tutto il Sud: sono giunti a Pul-i-Alam, 50 chilometri sotto Kabul, e già padroni di 18 città consegnatesi senza reagire: mentre ancora si combatte al Nord, dove resiste il signore della guerra (e vicepresidente) Abdul Rashid Dostum. A minacciare gli studenti islamici ci prova l'inviato speciale per gli Stati Uniti Zalmay Khalilzad, a Doha, Qatar, dove si tengono colloqui diretti. Spingendo per una soluzione politica, con tanto di amnistia generale, rafforzata dall'offerta, fatta ai talebani dal negoziatore del governo afgano Abdullah Abdullah, di condividere il potere in cambio dello stop all'offensiva. Un atto che eviterebbe agli insorti il rischio di trasformarsi in "paria internazionali", secondo la definizione del portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price. Con la richiesta di salvaguardare pure l'ambasciata Usa - che Price assicura: "Rimane aperta". Una posizione condivisa dagli alleati, come ha confermato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ieri, pure la diplomazia dell'Alleanza resta a Kabul: "Valutiamo gli sviluppi sul campo sostenendo il più possibile il governo afgano. I talebani non otterranno nessuna legittimazione internazionale se prenderanno il Paese con la violenza". E all'Onu già circola una dichiarazione di condanna durissima, redatta da Norvegia ed Estonia dove si assicura: nessun riconoscimento a chi prende il potere col sangue. Intanto Pentagono e Cremlino sono d'accordo nel sostenere che "i talebani non prenderanno Kabul a breve". Mentre a essere scettici sono gli inglesi: "La guerra civile è imminente" dice il ministro della Difesa Ben Wallace, osservando le divisioni pure interne ai ribelli, col fronte violento di Sirajuddin Haqqani, già membro di Al Qaeda, a guadagnare terreno. Anche per questo un tentativo di mediazione è stato chiesto al Pakistan, dove i fondamentalisti godono di simpatia ma allo stesso tempo si temono migliaia di rifugiati alle porte. Il premier Imran Khan ha detto: niente pace finché alla presidenza c'è Ashraf Ghani. E in effetti venerdì mattina a Kabul circolava la notizia di sue imminenti dimissioni, in vista di un governo ad interim per negoziare il cessate il fuoco. Smentita, però, da un tweet del vice Amrullah Saleh: "Restiamo fermi contro i terroristi talebani". Forti, pare, delle rassicurazioni arrivate dal segretario di Stato Usa Antony Blinken e quello alla Difesa Lloyd Austin: "Gli Stati Uniti restano impegnati a garantire la sicurezza e la stabilità del Paese". In realtà, secondo fonti del New York Times, Washington è furiosa: il piano di ritiro americano si basava sulla capacità di resistere di governo ed esercito afgani, foraggiati dagli americani con mezzi e denaro. Invece sono bastati 75mila talebani a travolgere 300mila soldati regolari. A esprimere l'irritazione del Pentagono è il portavoce John Kirby: "L'esercito afgano ha mezzi di combattimento migliori dei talebani a partire dalle forze aeree. Li usino a proprio vantaggio". Giovedì, dopo un serrato briefing alla Casa Bianca, Biden ha intanto dato l'ok all'invio di 8mila soldati: 3mila marines a Kabul per affiancare i mille già presenti e proteggere l'evacuazione degli americani, e 4mila da dispiegare nella regione del Golfo Persico. Uno schieramento "a tempo" che forse durerà oltre il 31 agosto, data fissata per il ritiro completo degli Usa. Biden, a Camp David per il week end, non sembra intenzionato a fare marcia indietro, forte - nota Axios - dell'appoggio popolare all'uscita dall'Afghanistan. Ad attaccarlo sono però i repubblicani: col leader della minoranza al Senato Mitch McConnell a paragonare la smobilitazione da Kabul a quella tragica di Saigon nel 1975. E Donald Trump, cui pure molti osservatori imputano parte della responsabilità, a esultare: "Caos tragico, con me non sarebbe successo. Vi manco?".

LANCIO DI SCARPE E SASSI CONTRO L ESERCITO. (ANSA il 16 agosto 2021) - La presa di Kabul da parte dei Talebani ha colto di sorpresa la Russia. Lo ha detto l'inviato presidenziale russo per l'Afghanistan, Zamir Kabulov, che ha anche escluso che l'ascesa dei Talebani possa spiegarsi con qualsiasi sorta di accordo con gli Stati Uniti. "Credevamo che l'esercito afgano - qualunque esso sia - avrebbe mostrato resistenza per qualche tempo. Tuttavia, sembra che siamo stati troppo ottimisti sulla qualità delle truppe addestrate dagli americani e dalle forze della Nato: sono fuggiti al primo sparo", ha sottolineato Kabulov.

Afghanistan, soldi in cambio della consegna delle armi: così l’esercito si è venduto ai Talebani. Roberto Frulli lunedì 16 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. La corruzione, non le armi, hanno piegato l’esercito afghano di fronte all’avanzata dei Talebani. Che hanno pagato denaro ai soldati dell’Afghanistan per farsi consegnare le armi. È questa l’amara verità che spiega, meglio di tante parole, l’origine di quello che sta succedendo in queste ore drammatiche in Afghanistan. La verità è che fin dall’inizio dell’anno scorso, i talebani hanno offerto ai funzionari governativi dei villaggi rurali accordi di ‘resa’, che in realtà erano pagamenti in denaro in cambio della consegna delle armi. Ecco il vero motivo dello spettacolare crollo dell’esercito afghano, malgrado 20 anni di addestramento e miliardi di dollari investiti dagli americani, scrive il Washington Post, raccontando di soldati e poliziotti demoralizzati dalla corruzione dei superiori e la partenza degli americani, spesso non pagati da mesi. I talebani, scrive il Post citando fonti americane e afghane, hanno capitalizzato l’incertezza provocata dagli accordi per il ritiro americano raggiunti con l’amministrazione Trump nel febbraio 2020 a Doha. Di fronte alla prospettiva di perdere l’appoggio militare Usa di fronte alle offerte talebane. “Qualcuno voleva soltanto il denaro”, spiega un ufficiale delle forze speciali afghane, altri ritenevano che, una volta partiti gli americani, sarebbero tornati al potere i talebani e volevano essere dalla parte dei vincitori. L’accordo di Doha ha demoralizzato chi lavorava con il governo. “Hanno visto l’accordo come il segno della fine. Il giorno in cui è stato firmato si è visto il cambiamento. Ciascuno pensava solo a sé stesso. E’ come se gli Stati Uniti ci avessero abbandonato“, ha aggiunto l’ufficiale. Da allora, per un anno e mezzo, gli accordi di ‘resa’ si sono estesi nei distretti e poi le province. E quando il presidente americano Joe Biden ha confermato in aprile che il ritiro sarebbe avvenuto entro l’estate, le capitolazioni si sono moltiplicate. Mano a mano che i talebani ampliavano il loro controllo, sempre più distretti cadevano senza combattere. Poi, la settimana scorsa, hanno cominciato ad arrendersi le città. “Ero così pieno di vergogna”, confessa un funzionario del ministero dell’Interno di Kabul, descrivendo il suo stato d’animo dopo la resa ad Herat di Abdul Rahman, un dirigente del suo dicastero. “Io sono una persona qualsiasi, non certo importante. Se lui ha fatto una cosa del genere, che devo fare io?”, si è chiesto. Un ufficiale di una unità di elite inviata al confine presso Kandahar ha raccontato che il suo comandante gli ha dato ordine di arrendersi. Lui voleva continuare a battersi, ma la polizia di confine aveva già capitolato e l’unità di elite era ormai stata lasciata sola. Così l’ufficiale e i suoi compagni hanno gettato le armi, indossato abiti civili e sono fuggiti. “Mi vergogno di quello che abbiamo fatto, ma se non fossi fuggito sarei stato venduto ai talebani dal mio governo“, ha spiegato. Quanto ai poliziotti di confine a Kandahar, molti non venivano pagati da sei o anche nove mesi a causa di capi corrotti. “Senza gli Stati Uniti, non c’era più paura di farsi beccare per la corruzione. I traditori nell’esercito sono usciti allo scoperto”, ha raccontato un ufficiale di polizia della città. Molti suoi colleghi hanno commentato che il collasso è stato dovuto alla corruzione più che all’incompetenza.

Afghanistan, la caduta di Kabul tra i sassi contro i blindati in fuga e l’assalto agli ultimi aerei. Doveva essere una transizione pacifica: si è trasformata in una resa militare e simbolica. Con la fuga dei vertici e la gente abbandonata in città (foto di Alessio Romenzi). Francesca Mannocchi su L’Espresso il 16 agosto 2021. Kabul, addio. Se c'è un'immagine simbolica della fine dei venti anni di presenza americana in Afghanistan e del trionfo dei talebani è quella del ponte aereo che dall'ambasciata americana è andato avanti per tutta la notte tra il 14 e il 15 agosto e per tutta la mattina successiva verso all'aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Centinaia di americani sono stati evacuati, mentre i talebani si avvicinavano alla città, liberando i detenuti della più grande prigione del Paese a quindici chilometri dalla capitale. Dal tetto dell'ambasciata italiana, al sesto piano, due immagini raccontano questo momento: gli elicotteri statunitensi e una coltre di fumo che ininterrotta dalle ambasciate e dagli uffici consolari. Prima di andare, tutti, hanno bruciato i documenti. La testimonianza di questi venti anni di libertà duratura che si dissolve, al caldo della metà di agosto, con la fuga del presidente della Repubblica, Ashraf Ghani , e la presa della capitale da parte dei talebani. Tutto è avvenuto con una velocità che nessuno si aspettava: le forze di polizia nelle prime ore di Ieri mattina smentivano in maniera categorica i combattimenti in città della notte precedente e la presa della prigione. Un'ora dopo i telefoni erano tutti spenti. I talebani erano in città e gli abitanti di Kabul si erano riversati in strada, e a migliaia in aeroporto, rimasta ormai l'unica via d'uscita dal Paese.

L'incertezza e la preoccupazione delle ultime settimane hanno velocemente lasciato il posto ad una rabbia incontrollata. Assalti alle banche, assalti ai negozi, assalti ai convogli delle ambasciate che stavano preparando l'evacuazione. L'ambasciata italiana dista una manciata di chilometri dallo scalo della capitale. Il piano, ieri mattina, era di raggiungere l'aeroporto via terra, caricando persone, attrezzature e documenti. Ma quando un convoglio blindato ha provato a uscire le condizioni non lo permettevano più. È mezzogiorno quando dalle comunicazioni via radio una voce dice: "si mette male". L'ambasciata decide per il ponte aereo verso l'aeroporto. Fuori, ai mezzi blindati si lanciano sassi, è la rabbia di chi si sente lasciato indietro, abbandonato, rimasto a guardare, impotente, il cielo di Kabul. La staffetta delle delegazioni diplomatiche a cui per tutto il giorno viene garantito un passaggio sicuro verso l'aeroporto mentre i voli civili sono bloccati. Gli afgani si accumulano a migliaia fuori e dentro lo scalo, mentre le ore passano e a poche centinaia di metri si comincia a sparare. La gente vuole fuggire, è piena di rabbia.  Il presidente Ashraf Ghani, che aveva chiesto una transizione dignitosa, senza dire una parola al Paese, scompare: a tarda serata la sua presenza sarà confermata in Tajikistan. È saltata la catena di comando a Kabul, e nessuno sa più chi garantisce la sicurezza in città. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid dice che gli uffici della polizia distrettuale sono evacuati, e i ministeri si sono svuotati, che il personale è fuggito. Non è una transizione quella che vive Kabul, è una resa.

Militare e simbolica insieme. La vittoria è sancita anche simbolicamente, con l'entrata dei talebani nell'università di Kabul. A poco servono le rassicurazioni quando una delle prime immagini dei talebani in città li ritrae nel spiazzale dell'università. È il simbolo dell'istruzione, delle ragazze tornate a studiare, dell'attivismo, della diffusione della conoscenza. L'università è evacuata, gli insegnanti salutano le studentesse senza sapere se e quando le rivedranno in aula. Parte anche l'ambasciatore americano, i talebani sono ormai al Palazzo Presidenziale e si vantano che neanche una goccia di sangue è stata versata. In diretta tv proclamano la nascita dell'Emirato islamico, uno dei loro leader invoca la pace: "Garantire la sicurezza sarà una grande responsabilità, questo Paese non è più quello di venti anni fa". Una frase che suona come un avvertimento a una generazione educata alla libertà. Intanto intorno all'aeroporto si spara ancora. Suonano due volte gli allarmi sicurezza. Tutti dentro, accucciati: fuori le raffiche di mitra. Le operazioni sono lentissime. Dal lato opposto dell'aeroporto centinaia di afgani premono e urlano: chiedono di essere portati via. Uomini, donne, bambini. Urlano "traditori" a quelli che partono e "traditore" a Ghani che è fuggito.

La tensione è alta anche quando il volo italiano finalmente si prepara sulla pista: con i 60 italiani anche famiglie afgane. Famiglie da tutelare dall'oscurità che è calata su Kabul. Sono le due di notte quando ci si imbarca velocemente: sulla pista ci sono ancora i segni dell'assalto di qualche ora prima, scarpe rimaste a terra, abbandonate da chi è fuggito. I militari italiani che restano salutano gli afgani che sono riusciti a imbarcare: buona vita nuova, in Italia. È stato il loro sforzo a salvare queste persone. Ora resta da capire se riusciranno a salvare chi è rimasto indietro.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. Novanta miliardi di armamenti, 330 mila soldati a libro paga, eppure 40 mila talebani si sono ripresi l'Afghanistan in due settimane. In motocicletta. Quasi senza combattere. L'intelligence Usa, coerente con la sua politica ventennale, non se ne capacita, eppure la grammatica di sopravvivenza di ogni afghano non dava scelta. Davanti al ritiro americano, si sono affidati all'intreccio di paura, egoismo, clan ed etnie che li ha fatti sopravvivere sino ad oggi. Le diffidenze etniche sono state un tabù nell'Afghanistan filoamericano. Gli addestratori sapevano, ma negavano, eppure era chiaro che i militari non erano fedeli allo Stato, ma prima alla famiglia, poi alla tribù e infine al gruppo etnico. «I miei soldati - raccontava un colonnello - ascoltano i miei ordini e poi chiedono l'autorizzazione via cellulare al capo famiglia. Se la risposta è no, disertano». In questi giorni di disfatta sono state spesso le famiglie ad imporre ai soldati (con gli sms) di non difendere lo Stato afghano, ma tornare a casa dove c'era più bisogno di loro. Gli «anziani» avevano capito che, senza la presenza americana, «quel» governo era finito. L'etnia pashtun è maggioritaria nel Paese, comanda (con una sola interruzione) dal 1727. Agli americani è sembrato logico affidare a loro il governo tanto da appoggiare due presidenti pashtun come Karzai e Ghani. Ma pashtun è anche l'etnia che ha espresso il movimento talebano. Due le conseguenze. Per far vincere i loro candidati nonostante l'astensione delle aree pashtun, gli americani hanno chiuso gli occhi su frodi elettorali clamorose, delegittimando quella democrazia che ufficialmente promuovevano. Secondo, i sospetti di doppiogiochismo sui soldati pashtun hanno reso impossibile la coesione dei ranghi. Perché tanta insistenza Usa? Perché i pashtun (e i talebani) sono alleati del Pakistan, Stato nucleare, a sua volta alleato di Washington. Ubi maior...Il generale Giorgio Battisti, primo ufficiale ad arrivare a Kabul nel 2001, la chiama così. È il tarlo che toglie il sonno, è la paura che fa mollare armi e divisa per scappare appena ti offrono un salvacondotto. «Il 15 agosto afghano è un po' come il nostro 8 settembre. La maggioranza degli alti comandi e dei governatori ha barattato la propria salvezza con la resa. Persino il presidente Ghani avrebbe ordinato di non resistere. I miei ex allievi dell'accademia mi scrivono vergognandosi: noi avremmo combattuto. Il coraggio non basta se dietro c'è un governo corrotto». «Non puoi comprare un afghano, solo affittarlo». I proverbi abbondano, significano «capacità di sopravvivenza». I talebani, prima che a Kabul, si sono presentati in città tradizionalmente loro ostili e non hanno incontrato resistenza. Neppure i vecchi signori etnici (come Ismahil Khan, Atta e Dostum) hanno combattuto. Un po' perché anziani. Un po' perché il presidente Ghani ne ha limato l'influenza, sino a quando, disperato, ne ha chiesto l'aiuto. Pochi giorni fa, quando era troppo tardi. L'unico Corpo d'Armata che sta (ancora) resistendo è il 215 di stanza ad Helmand. E l'unica area dove i talebani non hanno (ancora) preteso la resa è la valle del Panshir. Il generale che combatte e la valle sono entrambe tajike. Dal 2001 la colonna vertebrale dell'esercito afghano era fatta di tajiki del Panshir, eredi del comandante Massoud. Pochi mesi fa, il presidente Ghani, spaventato da voci di un golpe militare, ha sostituito i più alti gradi tajiki con gente della sua tribù (pashtun). Sono loro ad essersi arresi. I tajiki stanno tornando in valle. Se l'ennesima guerra afghana deve proprio cominciare sarà da lì.

Il costo della democrazia esportata.

Quei morti di Nassiriya non li dimentichiamo. Marco Gervasoni su Cultura Identità il 12 Novembre 2021. Sono passati diciotto anni da quel 12 novembre, ore locale 10,40, in cui a Nassiriya la base militare dell’esercito italiano, chiamata “Maestrale”, fu rasa al suolo da un attentato terroristico. Un tributo di 28 morti, 19 italiani (di cui due civili) e 9 iracheni. Non dimenticherò la tensione che circondava l’arrivo delle bare, un paio di giorni dopo, nell’obitorio di via De Lollis, dove mi trovavo a passare del tutto casualmente. E ancor più la Camera ardente nel Vittoriale e poi i funerali di Stato in Santa Maria degli Angeli. Il culto della Italia, e il senso di appartenere a una grande nazione, sembravano per qualche giorno essere entrati a far parte stabilmente nello spirito del paese. Illusione. Da lì a pochi mesi, nelle manifestazioni della sinistra radicale, come si chiamava allora e dei centri sociali, potemmo udire slogan orrendi come “Uno cento mille Nassiyria”, elogi alla “resistenza irachena” contro “l’imperialismo yankee”, mentre i Ds di D’Alema, Veltroni e Fassino continuarono ad opporsi al rifinanziamento della missione irachena e a chiedere il ritiro delle truppe Italiane. Oggi lo possiamo dire e ce ne duole: gli eroi di Nassiriya sono morti invano. Non perché la missione irachena sia stata un totale fallimento, come quella afghana, anzi il contrario. Ma perché, a quasi vent’anni dal loro sacrificio, la bandiera per cui essi sono caduti è finita assai più nella polvere di quanto non fosse già. Da allora abbiamo assistito a massicce cessioni di sovranità dell’Italia, all’intervento di forze e governi esteri che hanno fatto cadere leader legittimi scelti dal voto (qualsiasi riferimento a Berlusconi è puramente voluto), allo svilimento del sentimento nazionale. Sì, la loro morte e il lutto aveva intercettato quella voglia di patria e di nazione che poi anni dopo si sarebbe confermata nella crescita di movimenti e partiti cosiddetti “sovranisti”. La loro morte ci mostrò che il Paese aveva desiderio di cercare una propria identità. E da quel punto di vista, la loro memoria deve essere coltivata oggi, come anche in futuro. Ma a partire dell’establishment, del sistema, di larga parte della classe politica, i morti di Nassiriya non dicono più nulla. Certamente non dicono nulla ai movimenti populisti anti politici come quello dei grillini, che hanno venduto la loro carica “rivoluzionaria” a parole per pochi denari e oggi finiscono per essere l’Udeur di Mastella della sinistra. Né dicono nulla a quelli che continuamente rivendicano “più Europa”, e non ci stupiremmo se oggi qualcuno affermasse che sono caduti per la Ue e magari per l’esercito europeo. Sono morti invano. Il loro martirio non ha dato alcun seguito. La nazione è ancora negletta, anzi ancor più che nel 2003. Ragion di più per ricordarli e prenderli ad esempio, per chi su batte per la identità della nazione.

Vittorio Sabadin per La Stampa il 12 settembre 2021. Barbara Lee è un’esponente afroamericana democratica del Congresso statunitense. Nel 2001 fu l’unica parlamentare a votare contro la richiesta del presidente George W. Bush di approvare l’Authorization for Use of Military Force, che di fatto privava il Congresso del potere di approvare o meno l’entrata in guerra del Paese. Vent’anni dopo l’attacco all’America dell’11 settembre, la legge è ancora in vigore e ha consentito ai presidenti e al Pentagono di avviare operazioni militari in Afghanistan, Iraq, Filippine, Georgia, Yemen, Gibuti, Kenya, Etiopia, Eritrea e Somalia. In un coraggioso e lucido articolo, pubblicato a Londra dal “Guardian”, Barbara Lee sostiene che le guerre americane dichiarate senza l’approvazione del Congresso non hanno reso più stabile il Medio Oriente, né più sicura l’America. Il ritiro dall’Afghanistan è il suggello di un fallimento che è costato migliaia di vite umane e trilioni di dollari, con la politica estera del Paese gestita direttamente dal presidente e dai militari senza il controllo parlamentare previsto dalla Costituzione. Dopo il crollo delle Torri gemelle, scrive Lee «la decisione di far precipitare gli Stati Uniti in uno stato di guerra perpetua è stata presa avventatamente, senza il dibattito che una decisione così importante richiedeva». «Il costo umano - continua la parlamentare - è stato alto: un numero incalcolabile di vittime civili all'estero, due generazioni di soldati americani mandati a combattere senza alcun obiettivo chiaro e senza supervisione, e migliaia delle nostre truppe e altro personale ucciso, ferito e traumatizzato in combattimento». La sola guerra in Afghanistan, ricorda Lee, è costata più di 2,6 trilioni di dollari e ha ucciso più di 238.000 persone. La guerra contro l'Iraq, dichiarata sulla base di affermazioni inventate sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, è costata 1,7 trilioni di dollari e ha ucciso circa 288.000 persone. L’Authorization for Use of Military Force è stata poi usata dai presidenti successivi (Obama e Trump) per impegnarsi in guerra in almeno altri sette paesi – dallo Yemen alla Libia al Niger – contro avversari che il Congresso non ha mai esaminato o valutato. «Il risultato – scrive Lee – è oggi un perpetuo stato di guerra e un complesso militare-industriale in continua espansione che consuma una quantità sempre maggiore delle nostre risorse ogni anno. La spesa del Pentagono dall'11 settembre, corretta per l'inflazione, è aumentata di quasi il 50%. Dal 2001, i contribuenti pagano 32 milioni di dollari ogni ora per il costo totale di guerre che non hanno reso gli americani più sicuri». Lee è stata una delle protagoniste dell’iniziativa bipartisan per ritirare le truppe dall’Afghanistan e si sta impegnando per eliminare anche il potere speciale concesso al presidente sull’onda dell’emozione e del dolore causati nel 2001 dagli attentati sul suolo americano. Sono passati 20 anni, e questi poteri speciali devono essere rivisti: «Dobbiamo tenere a freno il potere esecutivo e impedire che venga abusato da altre amministrazioni, democratiche o repubblicane». Secondo Lee, bisogna però andare oltre la semplice modifica della legge: «Dobbiamo cambiare il nostro approccio al mondo, ed evitare di  inquadrare ogni sfida come un evento che richiede la forza militare come risposta. Quando usiamo la guerra per analizzare la minaccia del terrorismo, limitiamo artificialmente le soluzioni a nostra disposizione, allontanando gli approcci politici e diplomatici che offrono le uniche soluzioni vere e durature per la sicurezza degli Stati Uniti». Un nuovo approccio nella politica estera americana richiederà una significativa ricollocazione delle risorse per affrontare anche altre minacce: il Covid, la povertà, la crisi climatica che mette a rischio il progresso umano. Per Lee è inaccettabile continuare a versare miliardi di dollari al Pentagono, per guerre che il Pentagono stesso dichiara senza alcun controllo, «quando le vere sfide che dobbiamo affrontare richiedono soluzioni diplomatiche e di sviluppo». Non piacerà ai costruttori di armi e ai privati che forniscono materiali, personale e attrezzature per le guerre. Ma hanno già fatto abbastanza soldi, e bisogna fare qualcosa per fermarli.

PUTIN, "AFGHANISTAN È LEZIONE, NON SI ESPORTA DEMOCRAZIA"  (ANSA il 20 agosto 2021) - "Non si può imporre il proprio stile di vita su altri popoli, perché hanno le loro tradizioni. Questa è la lezione da trarre da quanto accaduto in Afghanistan. D'ora in poi lo standard sarà il rispetto delle differenze, perché non si può esportare la democrazia, che uno lo voglia o no". Lo ha detto Vladimir Putin nel corso della conferenza stampa con Angela Merkel. "I Talebani ora controllano la maggior parte del Paese, inclusa Kabul, questa è la realtà e dobbiamo evitare la distruzione dello Stato afghano. Noi conosciamo il Paese molto bene, sappiamo quanto controproducente sia imporre altri modelli stranieri verso l'Afghanistan, non ha mai successo". Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin in conferenza stampa con Angela Merkel. A Mosca, da Vladimir Putin, Angela Merkel ha ribadito che in parte la guerra in Afghanistan non ha raggiunto gli obiettivi sperati: sul fronte del terrorismo, "la situazione è migliorata" e "non c'è un pericolo acuto", ha detto in conferenza stampa, "ma nel progetto di costruire un atteggiamento comune del popolo afghano per il proprio Paese, non abbiamo raggiunto i risultati sperati".

L’American Enterprise Institute, dove nascono i neocons. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 agosto 2021. Si chiama American Enterprise Institute (AEI) ed è uno dei centri di ricerca e formazione più antichi degli Stati Uniti. Fondato nel 1938 dal magnate di fede conservatrice Lewis Herold Brown allo scopo di aiutare i decisori politici della Casa Bianca a comprendere il mondo, l’Aei, negli anni recenti, ovvero a partire dal dopo-guerra fredda, è divenuto un incubatore di talenti. La trasformazione dell’Aei in una fucina di geni avrebbe avuto inizio durante l’era Reagan – uno dei momenti più alti dell’egemonia politico-culturale della destra in America –, e sarebbe terminata tra la prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo, ovvero all’acme del cosiddetto momento unipolare. Inebriati dai successi militari degli anni Novanta, i cervelli dell’Aei avrebbero disseppellito l’antico mito fondativo dell’America come destino e cominciato a lavorare affinché l’albeggiante Duemila potesse diventare il Nuovo secolo americano. Avrebbero iniettato linfa vitale nelle vene di quella scuola di pensiero nota come neoconservatorismo. E non avrebbero più smesso.

Quando nasce e perché. L’American Enterprise Institute (AEI) nasce dall’American Enterprise Association (AEA), una realtà costituita da un gruppo di affaristi newyokersi nel 1938. Il gruppo, trainato dalla guida carismatica del ricco capitano d’industria Lewis Herold Brown, ambiva a difendere la libertà d’impresa e la proprietà privata negli Stati Uniti. Una missione, quella dell’Aea, che avrebbe attratto l’attenzione ed ottenuto il supporto di alcuni dei più grandi privati dell’epoca: da Chrysler a General Mills. Trasformatosi in un vero e proprio gruppo di pressione a difesa dello Stato limitato, l’Aea sarebbe entrato in una fase di declino negli anni immediatamente successivi alla fondazione a causa della decisione di sostenere una battaglia persa sin dal principio: il boicottaggio del New Deal della presidenza Roosevelt. Al declino avrebbe fatto seguito la stagnazione, che nel 1951, anno della morte di Brown, sarebbe divenuta dissoluzione. I membri uscenti dell’Aea, però, credevano fermamente nei valori e nella missione del defunto fondatore. Perciò, poco dopo la morte di entrambi, di Brown e dell’Aea, alcuni intellettuali, politologi ed economisti diedero vita all’American Enterprise Institute. Sarebbe stato il pensatore conservatore William Joseph Baroody Sr a guidare la resurrezione dell’Aea 2.0, ribattezzandolo Aei e plasmandolo fino alla morte, dapprima come vicepresidente (1954-62) e dipoi come presidente (1962-78). Baroody Sr, più di ogni altro, avrebbe guidato la trasformazione del nuovo Aea da un gruppo di pressione specializzato in tematiche economiche ad un istituto di ricerca multisettoriale, impegnato nella difesa dei valori conservatori nella società (e nella politica) e, non meno importante, nella formazione di talenti da mettere al servizio del Partito Repubblicano.

Durante la Guerra fredda. L’Aei sarebbe diventato tale soltanto nel 1962 – prima di allora avrebbe continuato a chiamarsi Aea –, anno dell’inizio della presidenza Baroody. E il 1962, fatti alla mano, è lo spartiacque che ha consacrato la conversione di questo ente indipendente in una fucina di talenti al servizio della causa repubblicana e della grandeur americana. Influente ed inserito nei circoli che contano, Baroody sarebbe riuscito ad attrarre fondi utili alla crescita dell’Aei e, non meno importante, ad attirare al suo interno alcuni dei più grandi cervelli liberal-conservatori dell’epoca: dagli economisti Milton Friedman e James M. Buchanan allo scienziato politico Edward Banfield – consigliere personale di Richard Nixon, Gerald Ford e Ronald Reagan. Le idee degli “uomini di Baroody” avrebbero contribuito in maniera determinante alla formulazione della politica a stelle e strisce durante la guerra, come mostrano e dimostrano i casi della terapia dello choc di Friedman, poi applicata nel Cile pinochetiano, e della diplomazia degli aiuti allo sviluppo di Peter Bauer, inizialmente concentrata in America Latina e poi esportata in tutto il mondo. Nel 1977, in segno di gratitudine per i servigi resi alla nazione, l’ex presidente Ford avrebbe accettato di entrare a far parte della squadra di Baroody in qualità di membro illustre (distinguished fellow). Baroody sarebbe morto l’anno successivo all’ingresso di Ford, ma la sua eredità sarebbe stata tramandata ai posteri, e da loro portata avanti e valorizzata con dedizione. All’alba degli anni Ottanta, complice l’effetto Ford, l’Aei era divenuto il salotto dei conservatori d’America. All’entrata di Ford, invero, avrebbe fatto seguito quella di Arthus Burns – consigliere dei presidenti sin dai tempi di Dwight Eisenhower e futuro ambasciatore in Germania Ovest –, di David Gergen – tuttofare che negli anni è stato consigliere di vari presidenti, analista politico, scrittore e giornalista – e degli influenti giudici Robert Bork e Antonin Scalia. Luogo di incontro dei più celebri economisti di scuola liberista dell’epoca, nonché di pensatori e politologi di credo conservatore, l’Aei sarebbe diventato uno dei think tank ufficiosi della Casa Bianca negli anni dell’era Reagan. Alcuni dei personaggi che più hanno contribuito al concepimento e al concretamento delle politiche reaganiane in casa e all’estero, invero, provenivano ed erano stati formati dall’Aei. Tra i cervelli dell’Aei presi in prestito da Reagan si ricordano, per via dell’importanza politica e culturale rivestita, Irving Kristol – altresì noto come il “padrino del neoconservatorismo” –, Jeane Kirkpatrick – l’autrice dell’omonima dottrina di politica estera e figurante nella squadra di consiglieri di Reagan – e il filosofo Michael Novak.

La trasformazione nella "fabbrica di neocons". Fra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima parte degli anni Novanta sarebbe avvenuta la transizione dal conservatorismo al neoconservatorismo. E determinante, a questo proposito, sarebbe stato l’ingresso di Kristol, il grande teorico della scuola neocon, la cui trascinante personalità avrebbe influenzato profondamente l’intero scheletro dell’Aei. La fine della Guerra fredda aveva comportato un cambio di paradigma, indi un’alterazione degli obiettivi di politica estera, e l’Aei doveva stare al passo dei tempi. Non l’Europa ed il mondo russo, ma il Medio Oriente e il mondo islamico sarebbero state le nuove priorità della Casa Bianca. E l’Aei, fiutata la nuova epoca, avrebbe cominciato a formare una nuova generazione di diplomatici e politici, allevati al culto del neconservatorismo e specializzati in relazioni internazionali nel mondo islamico. Tra coloro che negli unipolari Novanta frequentarono le aule dell’Aei, trovando spazio e prosperità durante l’era Bush, figurano e risaltano per significanza John Bolton – tra i sognatori del Nuovo secolo americano e negli anni scorsi al servizio dell’amministrazione Trump – e Dick Cheney – storico vice di Bush Jr. Nel complesso, più di venti ricercatori dell’Aei hanno lavorato direttamente per le due amministrazioni Bush Jr, mentre l’istituto è ringraziato pubblicamente dall’ex presidente in tre occasioni per il contributo dato all’elaborazione della politica estera di quegli anni. Caduto in un periodo di oblìo durante l’era Obama, l’Aei è tornato a nuova vita durante il breve ma intenso paragrafo Trump, mostrando, per l’ennesima volta, un incredibile senso di adattamento ai tempi. Perché, pur rimanendo fedele alla linea neocon, l’Aei ha progressivamente ridotto le attività dedicate al mondo islamico per concentrarsi su argomenti come Cina, Indo-Pacifico e regimi illiberali. Argomenti che, essendo dotati di una rilevanza bipartisan, potrebbero permettere all’influente think tank di galleggiare in quel mare in burrasca che sono gli Stati Uniti, la cui identità sta venendo riscritta dall’egemonia politico-culturale dei liberal e la cui nuova agenda estera è il riflesso di minacce più provenienti dall’Estremo Oriente che dal Medio.

Kabul e l’esportazione della democrazia: il dilemma tra idealismo e realismo. Stefano Ceccanti su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Lo stimolante festival della politica di Santa Margherita Ligure in corso in questi giorni affronta sotto varie angolature il tema della democrazia e capita in un contesto segnato dai dilemmi posti dalla crisi afghana. Mi sembra importante prendere spunto dai dibattiti che si stanno svolgendo in quella sede per riprendere alcuni temi di dibattito. Di fronte all’esito negativo è forte il rischio di scivolare verso un iper-realismo rassegnato, condito da angelismo storico: le democrazie non sarebbero esportabili, specie fuori dall’ambito giudaico-cristiano, l’uso della forza sarebbe sempre da condannare. Ora, che un bagno di realtà, come succede nelle sconfitte, si imponga, può essere un bene: descrivere il futuro della democrazia come un qualcosa di lineare, ineluttabile, irreversibile, come può essere sembrato a ridosso del 1989, e pensare che l’uso della forza sia sempre risolutivo, è stato semplicistico. Anche le vicende di Polonia e Ungheria e la teorizzazione esplicita di democrazie illiberali incompatibili con lo Stato di diritto, ci servono a capire tutta la complessità delle questioni. Tuttavia non dovremmo mai scordare che i passi avanti reali si sono concretizzati a partire dalla ricerca di un equilibrio tra idealismo e realismo. Del resto la democrazia nasce in un orizzonte segnato da una visione antropologica cristiana, secondo cui essa è possibile perché la persona è capace di bene, ma è anche a rischio perché la persona è anche segnata dal mistero del male. Vale allora forse la pena di rimeditare due testi che si sono posti in equilibrio tra realismo e idealismo: la Costituzione e il Concilio Vaticano II. Anche se si sono diffuse in questi ultimi anni letture semplificatorie dell’articolo 11, la sua struttura basata su un comma unico, che tiene insieme in modo indissolubile ripudio della guerra e limitazioni di sovranità, esprime con chiarezza l’intento dei costituenti di impostare l’uso legittimo, talora necessario o comunque opportuno, della forza in una chiave sovranazionale. Ciò che ha impedito la partecipazione italiana all’intervento in Iraq nel 2003, avvenuto senza mandato Onu, ma che ha invece consentito l’intervento in Afghanistan e quello in Serbia. Un articolo sulla base del quale l’Italia era stata anche tra i promotori della Comunità Europea di Difesa. Come dimostra peraltro l’affossamento della Ced, avvenuta nella confusa vita politica assemblearista e divisiva della Quarta Repubblica francese, le democrazie hanno problemi con la gestione dell’uso della forza non solo e non tanto in generale per il maggior peso dell’opinione pubblica rispetto agli altri regimi, ma quando le forti polarizzazioni interne e/o l’instabilità governativa ne minano l’azione di lungo periodo. Il secondo testo è il paragrafo 31 della Costituzione “Gaudium et Spes”, uno dei testi chiave del Concilio Vaticano II con cui la Chiesa cattolica, che in origine si era posta contro la democrazia politica, che si era poi assestata su un’impostazione di equidistanza rispetto alle forme di Stato, passava invece a una chiara opzione preferenziale per la democrazia. Chiara ma non ingenua: «È poi da lodarsi il modo di agire di quelle nazioni nelle quali la maggioranza dei cittadini è fatta partecipe degli affari pubblici, in un’autentica libertà. Si deve tuttavia tener conto delle condizioni concrete di ciascun popolo e della necessaria solidità dei pubblici poteri». L’obiettivo della scelta preferenziale non può essere negato, anzi va affermato con chiarezza: da quella svolta della Chiesa cattolica, che partiva dalle esperienze positive già realizzate negli Usa e dalle democrazie cristiane europee, come ha dimostrato Huntington, è dipesa gran parte dell’espansione della democrazia nella Terza Ondata post 1974, ma essa è avvenuta nella consapevolezza dei necessari accomodamenti a situazioni diverse. Solo se saremo capaci di mantenere questo equilibrio tra idealismo e realismo e se saremo capaci di curare i mali dell’eccesso di partigianeria e di debolezza delle istituzioni politiche, specie di Governo, potremo vincere la prima delle battaglie. Quella contro la rassegnazione, che nega la volontà emancipatoria, razionale e temperata, del pensiero liberal-democratico. Stefano Ceccanti

SULL'AFGHANISTAN SERVE LA TERZA VIA. LA DEMOCRAZIA SI ESPORTA. È LA STORIA CHE CE LO INSEGNA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 24 agosto 2021. Non si esporta la democrazia, si dice impunemente. I romani hanno esportato il loro sistema costituzionale – all’epoca il più avanzato – in tutti i Paesi che hanno conquistato, ma fa niente. Il nostro sistema costituzionale che deriva dalla rivoluzione francese è stato esportato dalle baionette napoleoniche in mezza Europa compresa l’Italia, ma fa niente. Anche il nostro costituzionalismo nasce dalla esportazione delle idee costituzionali della rivoluzione francese che Napoleone fa nel regno d’Italia, ma fa niente. È ovvio che tutto viene poi reimpostato e riforgiato all’interno dei singoli Paesi. Proprio quello che invece non è successo in Afghanistan. Perché gli americani non ne hanno azzeccata una. All’inizio, in mezzo, alla fine. Un disastro totale con code finali davvero imbarazzanti se Biden non è neppure in grado di dire dove sono gli americani a Kabul e, tanto meno, di dire come farà a salvarli. Tutto questo è avvenuto essenzialmente perché gli americani non hanno capito che bisognava cercare/trovare i democratici afghani, non quelli che per portare a casa un po’ di dollari si sarebbero inventati qualsiasi cosa. Non si è capito che si sarebbe dovuto dotare quella comunità degli strumenti utili per coinvolgere le forze locali non in un processo di occidentalizzazione superficiale, ma piuttosto per fare invece in modo che le donne acquisissero uno status nuovo compatibile nel sistema. Questa è diventata paradossalmente la sfida di oggi dei talebani. È molto probabile che prevalga lo spirito di fazione, ma è anche possibile che cerchino un modo per tenere conto in qualche misura di quello che è successo. Può accadere che non vogliano le classi miste, ma che le donne vadano a scuola perché vent’anni non possono passare invano. Esattamente come succedeva settanta anni fa in buona parte delle scuole pubbliche italiane. La evoluzione dei Paesi e delle loro democrazie è una cosa complicata e l’Occidente fa poco tesoro della lezione della storia. Non è vero che ciò che è razionale è reale, per diventare reale ha bisogno di alcuni passaggi intermedi. Il G20 ha ora il problema fondamentale di non cedere ai ricatti e, allo stesso tempo, di non creare le condizioni di una situazione da cui non si esce più. Siamo di fronte alla alternativa del diavolo, bisogna evitare i due estremi. Sono arretrati i talebani, ma non possono fare quello che vogliono perché anche loro devono tenere conto che le persone hanno cambiato idea e hanno visto tante cose. Vincere ora significa fare capire ai talebani che la storia non si ferma. D’altro canto anche loro non combattono più con i fucili e le spade, ma con i Kalashnikov. Altrimenti, se non lo capiranno, finiranno nelle mani di quelli più furbi che sbattendosene dei diritti li plageranno ai loro interessi di parte come intendono fare i russi, i turchi e, in parte, i cinesi. Faranno, insomma, i talebani una fine ancora peggiore. Perché russi, turchi, cinesi li butteranno a mare senza scrupoli quando non serviranno più. Gli americani devono capire che la democrazia non si esporta, ha dichiarato Putin. Detto da lui è tutto un programma. Parliamo dell’Afghanistan, ma stiamo parlando anche un po’ di noi.

 Manca l'illuminismo, non la democrazia. Pier Luigi del Viscovo il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. All'Afghanistan non manca la democrazia ma l'Illuminismo, ossia un'evoluzione culturale di almeno 400 anni. Già Dante nella Teoria dei Due Soli dava pari dignità alla religione e alla politica, tracciando un confine tra le due che sdoganava la laicità dello Stato. Poi Cartesio, affermando il pensiero come essenza dell'uomo, apriva la strada alla conoscenza e alla critica fondate sulla scienza, in opposizione alla superstizione e all'ignoranza. Per arrivare a Kant che definiva l'Illuminismo come il coraggio dell'uomo di servirsi della propria intelligenza: sapere aude! In sintesi, Galileo oggi a Kabul lo metterebbero a morte, non accontentandosi dell'abiura. Le democrazie liberali devono decidere come regolarsi coi Talebani e gli altri più o meno assimilabili culturalmente (per inciso, il corpo di Saman ancora manca) poiché non tutti i popoli hanno avuto il medesimo percorso storico-culturale. Avere o no relazioni politiche ed economiche con questi Stati? In genere propendiamo per il sì salvo poi alzare la testa quando una viene lapidata, ma a volte bastano pure un paio di statue distrutte, come i Buddha di Bamiyan nel 2001. Per evitare simili nefandezze non puoi «esportare la democrazia» ma devi governare politicamente un popolo, aiutandone l'evoluzione culturale. Noi siamo refrattari a farlo, sia per il ripudiato passato coloniale e soprattutto perché ci sarebbero di mezzo gli americani, che spesso incasinano le cose e provocano acidità a tanti quando arrivano e pure quando se ne vanno, però pagano il conto. Altre potenze non liberali, come Cina, Russia o Turchia, i cui cittadini hanno da pensare ai loro diritti civili prima che a quelli altrui, possono esercitare un controllo economico-finanziario e se una donna muore ammazzata amen. Sul fronte interno, è pericoloso essere teneri e comprensivi verso le dittature, invece di evidenziarne le criticità per raccontare ai nostri concittadini il valore della democrazia e della libertà, sebbene imperfette. È vero che producono inefficienze e mancano di efficacia nella soluzione dei problemi, laddove le grandi dittature emergenti o risorgenti mostrano un decisionismo che seduce e alimenta i populisti nostrani. Eppure, chi oggi si gode libertà e democrazia forse ignora quanto cari siano costati questi frutti dell'Illuminismo. D'accordo che senza l'albero non si possano esportare, ma dove già ci sono andrebbero almeno difesi. Pier Luigi del Viscovo

La democrazia può essere esportata con le armi. Vedi l’esempio del  Giappone Oggi il Paese è un perfetto stato democratico con libere elezioni. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 19 agosto 2021. È di gran moda fra tutti coloro che in un modo nell’altro non credono realmente nella democrazia rappresentativa o parlamentare tipica dell’occidente ripetere come un mantra che la democrazia non si esporta con le armi. Chi lo dice, un nome a caso quello di Enrico Letta, implicitamente pensa che non tutti gli esseri umani siano adatti alla democrazia o perché non la meritano o perché sono di un rango inferiore rispetto a quello dei popoli padroni che ci sono dati questa forma di governo e che tendono a diffidare di qualsiasi regime fondato sulla prepotenza e la forza. Un caso per tutti, quello del Giappone. Il Giappone prima della guerra cominciata nel 1941 e terminata con la resa senza condizioni dopo un duplice attacco atomico, si vide imporre a mano armata dagli americani la democrazia parlamentare così come si pratica in ogni paese dell’occidente. Fu il generale Mac Arthur con la pistola in pugno ad intimare allo stesso imperatore celeste di firmare uno strano libretto chiamato costituzione e che lui stesso, il generale, si premurò di dettare che di correggere. Poi Mac Arthur fece edificare un Parlamento e ne spiegò l’uso. Fece fare dei codici penali e civili in linea con quelli del nostro emisfero e la cosa più straordinaria e felice di questa imposizione fu che da allora il Giappone è un perfetto stato democratico con libere elezioni, primi ministri che raggiungono o perdono la maggioranza nel Parlamento, sicché sono trascorsi ormai due generazioni di giapponesi e si è perso completamente il ricordo del vecchio stato fondato su una dittatura militare autonoma da qualsiasi potere civile compreso quello dello stesso imperatore che poteva muovere guerra a chiunque senza dover rispondere mai al suo stesso popolo. In Giappone da allora è diventato una grande potenza occidentale tecnologica culturale e tutti siamo felici che giapponesi abbiano imparato talmente bene da avere ormai di che farci lezione. Qualcuno ha da ridire su questo processo l’interrogativo e poi: forse che non è stata imposta con le armi la democrazia i paesi come l’Italia e la Germania che avevano iniziato il più immane conflitto della storia dell’umanità? Certo, la parte tedesca occupata dall’Unione sovietica non ebbe subito questo privilegio perché ad essa fu imposto un finto regime democratico che stava tutto quanto solo nel suo nome: Repubblica democratica tedesca. Ma di fatto era una dittatura del partito comunista tedesco allo scrupoloso servizio dell’unione sovietica. L’unione sovietica era così attenta quello che succedeva in questa sua colonia tedesca da mantenere nella città di Dresda una centrale del KGB particolarmente addestrata e guidata nel momento in cui quello stato si risolse da tenente colonnello Vladimir Putin. Soltanto quando Mikhail Gorbaciov acconsentì a sganciare tutti i paesi dell’est europeo affinché tornassero all’autonomia e alla libertà, la democrazia tornò anche in Polonia Ungheria Cecoslovacchia Romania e persino nell’ultra-fedele Bulgaria. Tutti questi paesi hanno firmato i due anni fa un documento che è stato discusso e approvato con molta riluttanza dal Parlamento dell’unione europea in cui hanno ottenuto il riconoscimento di paesi che dopo le angherie nazista, avevano anche dovuto subire quelle comuniste. È stato allora che si aprirà una grottesca discussione perché tutti comunisti occidentali insorsero in nome del principio secondo cui non è possibile equiparare nazionalsocialismo tedesco e dittatura comunista sovietica. Di fatto la mozione passò e anche i deputati del partito democratico italiani la votarono salvo precisare che non erano poi totalmente convinti di quel che facevano. Che cosa significa questo interrogativo significa che la dove la forza delle armi occidentali principalmente quella americana e inglese non riuscirono ad imporre subito una costituzione democratica parlamentare fondata sulla molteplicità e pluralità dei partiti e delle idee e della rappresentanza attraverso libere elezioni, quei paesi non poterono ottenere subito ciò che noi avevamo già ottenuto nel 1946. Ma c’è di più: americani e inglesi litigarono aspramente fra loro sulla questione se l’Italia avesse dovuto mantenere un monarca come capo dello Stato o dovesse diventare una Repubblica. Tutti sappiamo che vinse la Repubblica con il referendum del 1946 contestatissimo e di cui è lecito sospettare un massiccio broglio per far vincere i repubblicani e cacciare i Savoia. Ma ciò che si nasconda dietro quel risultato e il fatto che nella lite violenta fra Truman presidente americano succeduto a Roosevelt e Winston Churchill e poi il suo successore laburista, gli americani vinsero perché odiavano i re e le monarchie, detestavano le colonie e imposero alla Gran Bretagna di rinunciare al suo impero perché questi erano i patti in forza dei quali gli Stati Uniti avevano aiutato Londra a resistere contro la Germania. Sono state le armi a vincere. La retorica sostiene che furono le armi della guerra di resistenza a portare alla democrazia. Non è così, perché la resistenza fu un grande evento etico e politico in ma certamente non fu in grado di vincere i tedeschi che furono invece battuti dalle armate inglesi, americane e resino francesi. Comunque, la retorica successiva ha insegnato e tuttora insegna che la Repubblica italiana è una democrazia figlia di una guerra: la guerra di Resistenza. Dunque, come è possibile fare affermazioni così assurde come quella secondo cui i regimi dittatoriali e i dispotismi di qualsiasi natura, religiosa o politica, sono semplicemente delle espressioni indi autonoma e genuina conseguenza della natura dei popoli cui si applicano? Secondo questa assoluta sciocchezza si darebbero dunque popoli di serie A e di serie B, aggiungiamo anche una serie C e se volete possiamo andare anche oltre in cui soltanto quelli della serie a sono degni di avere una democrazia perché se la sono costruita da soli. Gli unici popoli che si sono costruiti da soli la democrazia sono stati quelli di lingua inglese e tutti gli altri sono venuti dietro con grande ritardo se solo pensiamo gli esiti immediati della Rivoluzione francese che portarono prima al terrore e poi alla lunga dittatura militare del Bonaparte. È molto strano che pochi abbiano il coraggio di protestare contro questo slogan miserabile, quello secondo cui la democrazia non si esporta. La storia insegna che la democrazia si esporta. È preferibile che nasca come un frutto genuino locale, ma non è detto. Certamente se l’India e un paese estremamente complesso, culturalmente elevato, con grandissime sacche di sofferenza ma anche di eccellenza, dobbiamo ricordare che quel Paese fu amministrato introducendo le regole della democrazia parlamentare imposte dal colonizzatore in inglese nel quale le aveva già imposte in precedenza alle sue colonie americane da cui nacquero gli Stati Uniti, che disponevano già tutte delle loro elezioni locali e generali, che leggevano i congressi e disponevano persino di un grande esercito territoriale comandato da un certo generale George Washington che prima di insorgere contro la patria coloniale britannica indossava con orgoglio una uniforme blu solo nel colore diversa da quella delle giubbe rosse. È un fatto che tutte le democrazie di lingua inglese siano figlie di colonizzazioni più o meno violente perché sostenute anche dalle baionette. Non stiamo dicendo ovviamente che le baionette siano buone. Il fatto è che le baionette possono portare risultati fra loro opposti. Ma laddove la democrazia è stata portata con le baionette, ha attecchito e si è sviluppata. È vero che nei paesi musulmani tutto è più difficile perché esiste una resistenza profonda al riconoscimento dell’eguaglianza e della libertà specialmente delle donne. L’unico Paese in cui arabi musulmani possano contare sulla libertà di rappresentanza è Israele. Certamente in Afghanistan nessuno ha tentato di importare la democrazia ma soltanto di difendere un popolo contro un invasore esterno, i talebani che sono poi semplicemente gli imperatori dell’eroina in concorrenza con i loro avversari colombiani e in genere sudamericani. Quindi cerchiamo di rimettere le cose a posto: la democrazia si può introdurre anche con la forza e la guerra, ma certamente è necessario che attecchisca come è attecchita in Giappone. Quando si deve combattere contro i signori dell’eroina mascherati da talebani, è meno probabile. Tuttavia, la democrazia può essere esportata e quando mette le sue radici i popoli che la ricevono ringraziano e la includono nel loro stesso DNA.

Dagospia il 21 agosto 2021. La crisi afghana solleva il problema della democrazia e del ruolo dell’Occidente, ecco una sintesi da tre scritti di Sartori sul tema. Testo di Giovanni Sartori pubblicato dal “Corriere della sera”. La democrazia - e più esattamente la liberal-democrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» (per usare la formula di Amartya Sen) non c'è e non è mai esistita. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è cosi, è così. E allora torniamo al punto: la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberal-democrazia deve essere scomposto nei due elementi - liberale e democratico - che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante», nel senso che potenzia il demos. Quello che qui ci interessa è che la prima componente (quella liberante) è la condizione necessaria sine qua non della liberal-democrazia, e alla stessa stregua ne è logicamente l'elemento definiente (che la definisce), mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile, che ci può essere ma anche non essere. Ciò precisato, torniamo quindi alla esportabilità. Se la demoprotezione (cioè, la componente liberale) è l'elemento necessario-minimo della liberal-democrazia, ne consegue che ne dovrebbe essere anche l'elemento universale, o comunque più universalizzabile, più facile da esportare. Questa esportazione può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere un trapianto imposto con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido (che si inserisce in assemblaggi di 20-30 casi ancora più stupidi), nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo in forza della sua netta eterogeneità culturale. E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Ma il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale. Tuttavia, il caso di esportazione più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie. Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e più complesso che in Giappone, per la coesistenza di tre grandi religioni, nell'ordine: induismo, buddismo e islamismo. Qui importa sottolineare che per l'India, come per il Giappone, una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica. Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani. Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Un ostacolo che oggi riguarda soprattutto e prima di tutto l'Islam. Perché? Rispondo così: a differenza della risposta all'assalto culturale occidentale dell'India, del Giappone e ormai della Cina, l'Islam a livello di massa è rigido, sclerotizzato, e cioè manca di flessibilità, adattabilità e capacità di risposte creative. Ne consegue che, più l'Occidente laico si ritiene in dovere di «liberare» l'Islam costringendolo alla democrazia, più l'Islam teocratico si ritiene in dovere di liberare la propria fede dalle incrostazioni occidentali e di contrattaccare islamizzando l'Occidente.  A fronte di questa situazione, gli americani che si aspettavano di essere accolti in Iraq (o in Afghanistan) come liberatori, come erano stati accolti in Europa nel 1944-45, non avevano capito nulla dei problemi nei quali si stavano cacciando. In merito all'Iraq, probabilmente Bush credeva davvero che Saddam Hussein fabbricasse armi nucleari; ma in ogni caso credeva che la sua guerra avrebbe instaurato una democrazia a Bagdad. Poverino, l'intelligenza non è mai stata il suo forte. Lo stesso discorso vale per l'Afghanistan, dove il problema non era di trasformare un millenario sistema tribale in uno Stato democratico, ma di impedire che diventasse, o ridiventasse, uno «Stato canaglia» nel quale il terrorismo islamico possa liberamente produrre micidiali armi chimiche e batteriologiche. A conti fatti, a me pare che gli americani, e con loro gli occidentali, abbiano sbagliato i conti. (Con tagli e aggiustamenti, curati dal professor Marco Valbruzzi, dagli scritti: G. Sartori (2007), Democrazia. Cosa è , Milano, Rizzoli; G. Sartori (2015), La corsa verso il nulla. Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo , Milano, Mondadori; G. Sartori, Illusioni e delusioni , in «Corriere della sera», 31 gennaio 2011).  

Fawaz A. Gerges per "washingtonpost.com" il 20 agosto 2021. Mentre gli Stati Uniti terminano bruscamente la loro guerra in Afghanistan, i talebani sono tornati per vendicarsi. Molti afghani si sentono traditi. L'America ha promesso sicurezza e libertà, ma gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno abbandonato il popolo afghano, lasciandolo in balia di un movimento brutale e repressivo. Questo poteva essere evitato. Mentre ci avviciniamo al 20° anniversario degli attacchi dell'11 settembre, vale la pena chiedersi cosa sarebbe successo se gli Stati Uniti avessero agito in modo diverso. E se invece di lanciare una Guerra al Terrore, il più grande disastro strategico nella storia moderna degli Stati Uniti, i leader statunitensi avessero usato l'11 settembre come catalizzatore per creare un mondo più tollerante, pacifico e prospero, l'antitesi della visione del mondo di al-Qaeda? Questo non era né uno scenario inverosimile né un pio desiderio. Prima che la polvere si posasse sulle scena del disastro negli Stati Uniti, c'è stata un'ondata di simpatia e solidarietà con gli americani da parte di tutto il mondo, compreso il mondo arabo e musulmano. La comunità internazionale si è schierata con gli Stati Uniti. Il 13 settembre 2001, un editoriale in prima pagina del quotidiano francese “Le Monde” fece eco a un sentimento diffuso in Europa, e non solo, e quel giorno titolò: “Siamo tutti americani”. Anche in Iran, che aveva sofferto sotto un assedio economico guidato dagli americani per quasi due decenni, i leader hanno inviato le proprie condoglianze alle loro controparti americane, il primo contatto ufficiale diretto tra i due paesi dalla rivoluzione iraniana del 1979. Invece di costruire su questa basi di solidarietà, tuttavia, gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra totale di due decenni contro nemici sia reali che immaginari. In tal modo, ha sprecato un'opportunità storica di lavorare insieme ad altre nazioni per riparare ai danni delle sue politiche della Guerra Fredda, che hanno contribuito all'emergere di al-Qaeda. E se gli Stati Uniti avessero preso di mira solo al-Qaeda, invece di invadere l'Afghanistan e l'Iraq, costruendo una vera coalizione internazionale che includesse arabi e musulmani? Se gli Stati Uniti lo avessero fatto, avrebbero potuto negare ai militanti islamisti l'ossigeno sociale o il sostegno popolare che avevano dato loro una nuova prospettiva di vita dopo l'11 settembre. In un memorandum del 1999 ai suoi luogotenenti in Yemen, portato alla luce in seguito dall'esercito americano e citato nel mio libro "The Far Enemy: Why Jihad Went Global", Ayman al-Zawahiri, che ora è il capo di al-Qaeda, ha cercato di convincere il gruppo che attaccare gli Stati Uniti era l'unico modo per resuscitare un movimento militante islamista morente (alla fine degli anni '90, i militanti islamisti erano sull'orlo della sconfitta in Egitto, Algeria e altrove). Zawahiri ha scritto che se la patria americana fosse stata attaccata, gli Stati Uniti si sarebbero scagliati con rabbia non solo contro i militanti islamisti, ma anche contro le nazioni musulmane. Ciò avrebbe consentito ai militanti islamisti di dipingersi come difensori della comunità musulmana, e guadagnare più seguaci. La strategia di Zawahiri ha funzionato. Al culmine della sua abilità nel 2001, i membri di al-Qaeda non superavano i 1.000-2.000 combattenti. A vent'anni dall'inizio della Guerra al Terrore, ci sono approssimativamente tra 100.000 e 230.000 militanti islamisti attivi indozzine di paesi in tutto il mondo. La Guerra al Terrore ha alimentato proprio i gruppi che doveva distruggere. Sulla scia dell'atrocità di massa dell'11 settembre, è comprensibile che la priorità sarebbe stata la punizione, ma se fossero stati un po' più acuti e lungimiranti, i leader degli Stati Uniti avrebbero potuto non solo vendicare le vittime e assicurare alla giustizia al-Qaeda, ma anche cambiare radicalmente la natura dei rapporti del Paese con il mondo arabo e musulmano. I leader degli Stati Uniti avrebbero potuto riconoscere i costi di sostenere continuamente i dittatori e assumere un impegno strategico per la promozione della democrazia, non attraverso la canna di una pistola, ma collaborando con la società civile locale e la comunità internazionale. Gli Stati Uniti avrebbero potuto usare il loro potere per aiutare a risolvere i conflitti regionali e le guerre civili, ricostruire le istituzioni e investire nell'istruzione e nel lavoro, i mattoni della democrazia. La Guerra al Terrore è stata una guerra per scelta, non per necessità, ed è stata costosa in termini di sangue e denaro. Anche se non possiamo tornare indietro nel tempo, mentre ci avviciniamo al 20° anniversario dell'11 settembre, parte del dibattito negli Stati Uniti dovrebbe essere concentrato su cosa è andato storto. Essendo la nazione più potente del mondo, gli Stati Uniti devono resistere alla tentazione di sparare prima e fare domande dopo. Questa è stata una ricetta per il disastro in Vietnam, Iraq, Afghanistan e oltre. I leader degli Stati Uniti devono liberarsi di un impulso crociato e di un complesso di superiorità morale negli affari internazionali che ha fatto più male che bene alla nazione. Dovrebbero invece riconoscere i limiti del potere duro e mostrare umiltà, prudenza e rispetto per le altre culture. Tragicamente, l'idea dell'eccezionalismo americano è stata trasformata in un'arma, trasformando così gli Stati Uniti in un impero per impostazione predefinita. Iraq e Afghanistan sono solo gli ultimi esempi di questa arroganza. Invece di cercare di fare di altri paesi l'immagine degli Stati Uniti, gli Stati Uniti, insieme alla comunità internazionale, dovrebbero investire nella ricostruzione delle istituzioni fallite all'estero, nell'eliminazione della povertà assoluta e nella lotta all'estremismo. I leader degli Stati Uniti devono anche colmare il divario tra la loro rosea retorica sui diritti umani e la democrazia e le loro azioni, che sono viste come ciniche ed egoistiche in molte parti del mondo. Il presidente Biden e il suo team insistono sul fatto che la politica estera degli Stati Uniti dovrebbe riflettere gli interessi e le preoccupazioni della classe media. Ma c'è un compito più urgente, che è quello di democratizzare la politica estera degli Stati Uniti e renderla più inclusiva, anziché essere dominata da un'élite ristretta e omogenea, che, più e più volte, ha coinvolto la nazione in avventure militari in terre lontane. Lo dobbiamo ai quasi 3.000 americani uccisi l'11 settembre, e lo dobbiamo ai molti soldati statunitensi, civili iracheni e afgani, morti in guerre che non avrebbero dovuto essere combattute.

Esportare la democrazia ha fallito. Afghanistan, tutti i motivi della sconfitta: una disfatta iniziata 20 anni fa. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Non parlate di sconfitta militare. Perché quella dell’Occidente nel paese che è stato nella sua storia il “cimitero degli imperi”, si è rivelata una catastrofe politica. Così come lo è stata in Iraq, in Siria, in Libia. Perché una guerra la si può anche vincere militarmente, ma se poi non hai uno straccio di strategia politica che guida il tuo agire, quella “vittoria” si rivelerà, prima o poi, un fallimento totale. I venti anni di guerra afghana ne sono una tragica conferma. La guerra fu scatenata dall’America, ferita dall’11 Settembre, per assestare un colpo mortale ad al-Qaeda e al regime talebano che ne ospitava i campi di addestramento e il capo dei capi, Osama bin Laden. Vent’anni dopo, l’emiro del terrore è passato a miglior vita, e come lui il “califfo” dello Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. Ma chi sa di queste cose, e non i tuttologi da salotti mediatici, ha raccontato della trasformazione del jihadismo globale dopo la “disfatta” afghana di al-Qaeda. La piovra jihadista si è ramificata, ha allungato i suoi tentacoli su altri territori, insediandosi nei tanti Stati falliti di cui il Grande Medio Oriente è pieno. E lo stesso è avvenuto per l’Isis: sconfitti in Siria e in Iraq, i miliziani del “Califfato” si sono spostati in Africa, vedi Libia, Somalia, Nigeria, Mali, Ciad etc. – o hanno fatto rientro in Europa. Ma la narrazione dei vari inquilini succedutisi alla Casa Bianca – George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump e ora Joe Biden – è stata sempre la stessa: «abbiamo sradicato il terrore jihadista», esibendo, metaforicamente, la testa di bin Laden e di al-Baghdadi. Ma le fake-narrazioni non si fermano a questo capitolo. Altri ne sono stati scritti nel voluminoso Libro dei fallimenti. Il capitolo dell’umanitarismo in armi, ad esempio. Quello contro cui Gino Strada si è battuto per tutta la vita. Quello del “dobbiamo intervenire contro i carnefici per difendere i diritti umani”. Così fu raccontata la guerra in Libia: liberare i libici dagli artigli del Colonnello (Gheddafi), lo stesso che fino a pochi mesi prima della guerra, era omaggiato da tutto il mondo imprenditoriale, pubblico e privato, europeo, Italia in prima fila. La “guerra umanitaria”: una invenzione dell’Occidente supportata da una informazione mainstream. Quello militare si è trasformato da strumento a fine. Si è pensato, illudendosi, che la forza (delle armi) potesse surrogare la debolezza della politica, la sua inesistenza. La sconfitta dell’Occidente sta in questo e in una sorta di neocolonialismo culturale che portava a pensare all’altro da sé, all’avversario, al nemico come ad una moltitudine di sociopatici che avevano trovato nell’indottrinamento jihadista la legittimazione del loro “io” criminale. Un errore clamoroso, esiziale. Nato dall’ignoranza – nel senso latino del termine – e dalla presunzione. I talebani? Giovani barbuti invasati, indottrinati nelle madrasse wahabite, insediate nel compiacente Pakistan, e finanziate dalle petromonarchie (sunnite) del Golfo, Arabia Saudita in primis. Questa è l’idea che l’Occidente ha dei talebani. Possono trasformarsi in shahidi (martiri) ma assolutamente incapaci di pensare politica, di imbastire alleanze. La realtà ha dimostrato che questa fake narrazione è parte fondante del Fallimento. Così come lo è la convinzione, non detta ma praticata, che Islam e democrazia sono un ossimoro, due binari che non s’incontreranno mai. La stagione, dimenticata, delle “Primavere arabe”, ha dimostrato che c’era una generazione che si ribellava ai dettami jihadisti ma anche a una gerontocrazia da sempre al potere. L’Occidente ha lasciato soli questi giovani che stavano riscrivendo un nuovo vocabolario politico nel mondo arabo e musulmano, come se quei mondi contemplassero l’esistenza soltanto di rais, generali, sultani, emiri, califfi, tra i quali scegliere il “male minore”. Una logica che spiega perché oggi l’Europa è genuflessa ai piedi di due autocrati che hanno fatto spregio dei diritti umani e delle minoranze, etniche e di genere: Recep Tayyp Erdogan e Abdel Fattah al-Sisi, tanto per non fare nomi. Meglio loro che i Fratelli musulmani o, peggio ancora, al-Qaeda, il Daesh. Così, vedrete, accadrà in Afghanistan. Anzi sta già accadendo: i talebani verranno, vengono visti, come il “male minore” rispetto ai propugnatori del Jihad globale. Facciano quel che vogliono dentro il perimetro afghano, basta che facciano da argine alla penetrazione jihadista nelle ex repubbliche sovietiche del Caucaso, o in India, in Cina, in Iran. «Nei primi anni duemila quasi tutti i pachistani e gli afghani che stimo erano convinti che gli Stati Uniti avrebbero fallito. I diplomatici, i militari e i giornalisti occidentali tuttavia erano convinti che il sostegno militare ed economico dell’occidente avrebbe aiutato Washington a rendere l’Afghanistan una democrazia moderna. L’Unione Sovietica a Kabul aveva brutalmente cercato di modernizzare e centralizzare un paese con molte comunità linguistiche ed etniche povere che vivevano in aree remote. Perché gli Stati Uniti avrebbero dovuto avere successo dove i comunisti avevano fallito? Come avrebbero potuto i loro alleati, tra i quali ci sono sempre stati alcuni degli uomini più malvagi e corrotti dell’Afghanistan, contribuire a costruire la democrazia e proteggere i diritti delle donne?». Così lo scrittore Pankaj Mishra, in “profetico” articolo meritoriamente pubblicato da Internazionale (traduzione di Federico Ferrone). «Quando scrivevo per i periodici statunitensi – confessa Mishra – mi sentivo sollecitato a non discostarmi troppo dal consenso nazionale (a cui all’inizio aderirono anche riviste di sinistra come The Nation) a favore dell’invasione dell’Afghanistan. È per questo che quella guerra appare oggi, più di tutto, un enorme disastro culturale, un fallimento nel riconoscere una realtà complessa. Un fallimento che ha prodotto tutti gli altri fallimenti – diplomatici, militari e politici – tanto in Iraq quanto in Afghanistan. Probabilmente è troppo ottimista immaginare che questi disastri, il cui prezzo è stato spaventoso, avrebbero potuto essere evitati da opinioni meno conformiste e da un’apertura alle ragioni di chi era contrario, compresi gli afghani. Tuttavia si può trarre una lezione dalla sconfitta degli Stati Uniti: la diversità intellettuale, spesso presentata come un imperativo morale, è anche una necessità pratica. Specialmente se in futuro gli Stati Uniti vorranno evitare errori peggiori nella loro politica estera». Fallimento fa rima con tradimento. Altra caratteristica che marchia d’infamia l’Occidente e il cosiddetto mondo libero. «Noi non contiamo niente», ci ricorda la ragazza afghana. E prima di lei, lo avevano fatto le sue coetanee curde massacrate, stuprate, dai criminali jihadisti nel Rojava; criminali al servizio del Sultano di Ankara, Recep Tayyp Erdogan. L’Occidente ha avuto una perdita di memoria, dimenticando allora il contributo decisivo sul campo dato dalle milizie curde siriane e curde irachene nella lotta contro i nazi-islamisti dell’Isis. Quelle ragazze sono state tradite. Così come lo sono le loro coetanee afghane. «Noi non contiamo perché siamo nati in Afghanistan, scompariremo lentamente dalla storia. A nessuno importa di noi». Sono le parole pronunciate a fatica, tra le lacrime, da una ragazza afghana dopo il ritorno dei talebani nel Paese. Il video, diventato virale, è stato diffuso via Twitter dalla giornalista iraniana Masih Alinej. Un j’accuse possente. Una verità che ferisce. «Noi non contiamo niente», ci ricorda la ragazza afghana. E prima di lei, lo avevano fatto le sue coetanee curde , massacrate, stuprate, dai criminali jihadisti nel Rojava; criminali al servizio del Sultano di Ankara. L’Occidente, allora, ha avuto una “perdita di memoria”, dimenticando il contributo decisivo sul campo dato dalle milizie curde siriane e curde irachene nella lotta contro i nazi-islamisti dell’Isis. Quelle ragazze sono state tradite. Così come lo sono ora le loro coetanee afghane, ricacciate nell’inferno dell’Emirato islamico proclamato dai talebani a Kabul. Avremo tempo per concionare di geopolitica e disegnare scenari. Oggi, però, è il tempo di chiederci: cosa abbiamo lasciato dietro di noi? Che fine farà l’Afghanistan? E, soprattutto; a quale destino stiamo consegnando donne, ragazze e bambine, dai 12 anni in su, che i talebani considerano “bottino di guerra”, destinate a diventare schiave sessuali. Ora parlano di conferenze, la pillola salva coscienze, di corridoi umanitari – cosa buona e giusta, ma che richiede una volontà politica e risorse adeguate finora indimostrate – di un’azione concertata per contenere e “mitigare” l’Emirato Islamico di Afghanistan. Si può credere a un’Europa che non ha voluto creare corridoi umanitari nel Mediterraneo e che fino a ieri ha ricacciato indietro i rifugiati afghani? Ci sarebbe bisogno di una rivolta morale dal basso, di un dovere all’indignazione che si trasforma in movimento di pressione che si faccia ascoltare a Bruxelles e nelle capitali europee. Ci sarebbe bisogno di tanti Gino Strada. Proviamoci. Ma quelli che hanno prodotto il disastro afghano, dopo quello iracheno, siriano, libico, non a una conferenza dovrebbero presenziare. Ma a una Norimberga afghana. Presenziare, dal banco degli imputati. 

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Vittorio Feltri: "Afghanistan, vent'anni buttati. La democrazia non si può esportare". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 15 agosto 2021. Afghanistan. Solo a scrivere la denominazione di questo Paese mi saltano i nervi. Da decenni quella terra brilla - perdonate l'ossimoro - per tetraggine. Neanche i sovietici riuscirono a piegarla a un minimo di ragionevolezza. Ci provarono invano finché rassegnati rimpatriarono abbandonando quel popolo al suo destino. Poi accadde che Bin Laden organizzò l'attentato alle Torri gemelle di New York, migliaia di morti. E gli americani ovviamente si irritarono e cercarono di vendicarsi. Contro chi? Sulle prime se la presero con l'Iraq pensando che il terrorismo fosse organizzato da Saddam Hussein. Giù botte al suo popolo fino ad annientarlo. Il dittatore, già combattuto dagli Usa negli anni novanta, finalmente fu debellato e venne impiccato, così per divertimento. Nel frattempo gli statunitensi, erroneamente convinti che Bin Laden si fosse rifugiato in Afghanistan, credettero opportuno andarlo a scovare in quella sfigata nazione. Poi però si accorsero che era altrove e lo rintracciarono. Gli spararono e lo fecero secco. Teoricamente la partita poteva considerarsi chiusa. Invece no. Gli States non paghi di aver ucciso l'uomo della mattanza, seguitarono a combattere in Afghanistan per esportarvi la democrazia. Operazione velleitaria. Per vent' anni hanno sparacchiato ai talebani, esaltati islamici con il cervello di galline, nella convinzione assurda di trasformarli in cittadini rispettosi dei costumi politici occidentali. Ma due decenni di lotte non sono serviti allo scopo, nonostante pure le truppe italiane appoggiassero i colleghi militari d'Oltreoceano. Insomma, anche noi abbiamo dato un contributo al fallimento. Tant' è che a un certo punto, gli stessi americani si sono stufati di battersi per far trionfare la democrazia nella nazione asiatica, e hanno deciso di rimpatriare. Soluzione comprensibile, visti i risultati di due decenni sprecati in battaglie inutili. Ovviamente l'esercito nostrano ha fatto altrettanto, essendosi reso conto che i talebani sono imbattibili in quanto ideologicamente e religiosamente persuasi di essere invincibili. Non appena gli Usa e l'Italia hanno fatto le valigie smammando da Kabul, è successo un casino infernale. Nel senso che gli invasati maomettani hanno ripreso in mano le redini dell'Afghanistan riconquistando l'intero territorio. Ciò dimostra in modo plateale che la missione militare statunitense e tricolore non è servita a un tubo. Sono state sprecate varie vite umane e molti miliardi al fine di rimediare un clamoroso fallimento. Proprio un bel colpo da deficienti. Adesso che i bigotti tifosi del burqa imperversano e dettano legge, noi diciamo che non lasceremo sole le genti di nuovo schiave dei dogmi islamici. Perfino il nostro ministro degli Esteri Di Maio ha dichiarato che sarà vicino al popolo oppresso. In quale maniera? Forse manderà delle cartoline con i saluti e i baci da Napoli agli amici di Kabul. Abbiamo buttato via venti anni di vite umane e la situazione dell'Afghanistan non è mai mutata. Come prima, peggio di prima. Siamo governati da stupidi alleati di cretini.

Afghanistan, costi missione per l'Italia Spesi 8,7 miliardi in 20 anni di guerra. Affari Italiani il 17/8/2021. La missione di pace in Afghanistan è fallita. I talebani hanno vinto la loro guerra, durata vent'anni. Ma non solo gli Stati Uniti hanno investito risorse finanziarie e uomini per per riportare la pace nel Paese mediorientale. Anche l'Italia ha fatto il suo e il bilancio finale è allarmante. In vent'anni di interventi sul territorio - si legge sul Fatto Quotidiano - sono stati impiegati 50 mila soldati, di queste, 53 persone hanno perso la vita e 723 sono rimaste ferite. Due decenni in cui l’Italia ha speso in tutto 8,7 miliardi di euro, di cui 840 milioni investiti solo dal 2015 nell’addestramento dell’esercito afghano. Quelle stesse truppe che in dieci giorni si sono liquefatte dinanzi all’avanzata talebana. Terminato il 9 giugno con la cerimonia dell'ammaina-bandiera e le foto di rito del ministro della Difesa Lorenzo Guerini a Herat. L’impegno militare più corposo per l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale - prosegue il Fatto - è iniziato nel 2001, nell’ambito della missione Isaf (Internatio - nal Security Assistance Force), con l’invio dei primi 350 militari e i primi 82 milioni spesi, tra uno stanziamento previsto di 71,6 milioni e “costi extra” per altri 10, secondo i dati contenuti nei vecchi dl Missioni ed elaborati da Mi l e x - Osservatorio delle spese militari italiane. Un impegno proseguito negli anni successivi con un aumento costante ma regolare delle risorse, che dai 286,1 milioni del 2002 arrivano ai 389,8 del 2008. Da quel momento, la curva dei costi si impenna: la pressione dei talebani sale e crescono anche il numero di attacchi e delle vittime civili.

Il fallimento dell'Occidente e il ritorno dei talebani. Quanto ha speso l’Italia nella missione in Afghanistan: i costi della guerra di USA ed Europa. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Agosto 2021. Vent’anni di missione. Dieci giorni per buttare tutto all’aria e riconquistare un Paese. I talebani sono entrati stamane a Kabul, hanno fatto sapere che verrà ristabilito l’Emirato che venne cancellato dall’invasione americana che cominciò nell’ottobre 2001, dopo gli attentati dell’11 settembre. I cittadini sono indignati: “Vergognatevi”, hanno detto ai reporter occidentali. Delusione e frustrazione, rancore e rabbia nei confronti dei contingenti occidentali che hanno deciso di annunciare il ritiro e ritirarsi nello spazio di pochissimo tempo. Si preparano i voli per fuggire: l’unica via di fuga è l’aeroporto di Kabul, il resto della metropoli è circondata. Il Presidente Ghani si è dimesso ed è volato in Tagikistan. L’aeroporto è controllato dalle truppe della Turchia: Ankara ha stretto accordi con il governo per prendere il controllo dello scalo. La Russia ha annunciato che non chiuderà l’ambasciata. Il Sole24Ore ha pubblicato un articolo nel quale ha quantificato le spese della disfatta occidentale in venti anni di guerra e missione. Gli Stati Uniti hanno speso mille miliardi di dollari, un trillione di dollari. Il Presidente Joe Biden ha detto che la guerra in Afghanistan deve essere combattuta dagli afghani. Il costo della guerra, tra il 2010 e il 2012, è cresciuto fino a quasi 100 miliardi di dollari all’anno, secondo i dati di Washington. I costi sono via via calati: al 2018 erano scesi fino a 45 miliardi di dollari all’anno. Tra l’ottobre del 2001 e il settembre del 2019 il Pentagono aveva comunicato un totale di 778 miliardi di dollari. A quelli militari vanno aggiunti i cosi per la ricostruzione e per gli aiuti alla popolazione civile: 44 miliardi di dollari per l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (Usaid). Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni. Secondo uno studio del 2019 della Brown University, citato dalla Bbc, la spesa complessiva Usa in Afghanistan e Pakistan (tenendo anche conto di fondi inseriti nel bilancio 2020) è stata di 978 miliardi di dollari. I dati ufficiali indicano inoltre che a partire dal 2002, gli Usa hanno speso anche 143,27 miliardi di dollari in progetti per la ricostruzione. Gli Stati Uniti, nonostante il ritiro hanno promesso fino al 2024 quattro miliardi di dollari all’anno per finanziare le forze militari – non è stato chiarito dopo la disfatta di questi giorni se il finanziamento. Gli Stati Uniti hanno speso più di tutti i Paesi Nato impegnati nella missione. A seguire Regno Unito e Germania. Londra 30 miliardi e Berlino 19 miliardi. L’Italia, secondo uno studio dell’Osservatorio sulle spese militari Milex, in 20 anni ha raggiunto costi per 8,7 miliardi di euro di cui 840 milioni in contributi diretti alle Forze Armate afghane. Roma ha impegnato complessivamente e in avvicendamento circa 50mila soldati. Nonostante gli 88,32 miliardi di dollari spesi per le forze di sicurezze afghane da Washington e gli altri programmi e investimenti dei Paesi Nato le forze di sicurezza si sono sfaldate in dieci giorni. Nell’avanzata si sono arresi senza combattere ai combattenti del gruppo fondamentalista. Lorenzo Cremonesi in un articolo su Il Corriere della Sera ha messo insieme alcune delle ragioni della caduta delle truppe: l’invasione americana dell’Iraq del 2003 che ha spostato l’attenzione e permesso ai talebani di riorganizzarsi con il supporto anche del Pakistan; le missioni “combat” di americani e inglesi e quelle di “peacekeeping” di Germania e Italia; la corruzione imperante; le diserzioni; i programmi di addestramento nominalmente di 350mila effettivi che in realtà non arrivavano a 100mila; le critiche della società al “colonialismo culturale”.

Estratto dell’articolo di Giordano Stabile per “La Stampa” il 15 agosto 2021. (…) Stati Uniti e Nato, gli hanno fatto notare da Washington, hanno speso 3 mila miliardi di dollari in vent' anni, una parte consistente per addestrare ed equipaggiare al meglio 320 mila fra soldati e poliziotti. Sono evaporati, quando non sono passati in massa con il nemico. L'esito della guerra, a meno di non rispedire indietro decine di migliaia di militari occidentali, è segnato. (…)

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 15 agosto 2021.  

1) Perché abbiamo fallito?

La dimensione della disfatta in Afghanistan appare ancora più grave se si tiene conto che l’impegno della coalizione internazionale a guida Usa e il coinvolgimento di tutti i Paesi Nato è durato in modo continuativo per un ventennio: come quattro Seconde guerre mondiali. Ed è giunto dieci anni fa a contare oltre 130.000 soldati di ben 51 contingenti. Oltre a centinaia di ong che hanno operato per aiutare la società civile in ogni campo. Il fallimento dunque è dell’intera coalizione in tutti i suoi aspetti.

2) Quali gli errori militari?

Il primo grave fu la scelta di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein nel marzo 2003. Così, meno di due anni dopo la defenestrazione dei talebani, l’attenzione americana e del mondo si spostò sull’Iraq. L’Afghanistan, ancora debole e bisognoso di aiuti, venne dimenticato, dando ai talebani lo spazio per riorganizzarsi, anche grazie al contributo pachistano. 

3) Come funzionò la coalizione alleata?

Male, sin dall’inizio. Gli americani, assieme agli inglesi, insistettero sull’aspetto «combat», gli europei, con in testa Italia e Germania, su quello «peacekeeping». Ne risultò un meccanismo inceppato e poco coordinato. Ne ha scritto un articolo molto secco di recente anche il settimanale tedesco Der Spiegel: di fatto tutti i contingenti, tranne quello britannico, ricorrevano di continuo agli americani (specie all’aviazione) per difendersi dagli attacchi. L’ambiguità della copertura della «missione di pace», utilizzata dai governi europei per spiegare la scelta dell’invio di soldati in Afghanistan alle proprie opinioni pubbliche, ha impedito azioni efficaci e tempestive in un teatro che era spesso di guerra.

4) Ma come è stata possibile la débâcle delle truppe afghane?

Si replica oggi a Kabul lo scenario del fallimento iracheno di fronte a Isis vittorioso a Mosul nel 2014. Non si è posto un freno alla corruzione imperante. I programmi di addestramento sono proseguiti ben sapendo che le diserzioni erano in crescita e i comandanti spesso si intascavano le paghe dei soldati. Sulla carta si parlava di 350.000 effettivi, in realtà erano meno di 100.000. La loro aviazione dipende dai contractor occidentali per la manutenzione e l’armamento. Partiti loro, gli aerei non volano quasi più.

5) E che responsabilità hanno le ong?

Alcune hanno agito molto bene e sono utilissime. Ma tante sono arrivate nel Paese con programmi confusi, non coordinati tra loro e soprattutto con personale non specializzato che si è ritrovato a gestire somme ingenti per programmi ambiziosi. Al meglio fu lo spreco di miliardi, al peggio andò ad alimentare la corruzione. C’è stata una forma evidente di «colonialismo culturale», di valori imposti dall’alto. L’emancipazione delle donne ha sollevato vasta ostilità in questa società profondamente tradizionalista e conservatrice, specie per il fatto che non veniva da loro, ma era importata dai nuovi arrivati. Tanti afghani, anche a Kabul, hanno iniziato a criticare l’apertura di bar e ristoranti dove si consumava alcool. Il governo Karzai dovette intervenire per espellere le prostitute cinesi. Altro tema di critica fu l’aumento dei prezzi delle case nei quartieri del centro. Gli affitti pagati dagli stranieri fecero lievitare i prezzi, di fatto allontanando la vecchia classe media afghana. 

6) Un esempio di spreco italiano?

La riforma del sistema giudiziario afghano. All’Italia fu dato il ruolo di «Paese guida» in questo campo sin dal 2002. Per anni e anni i nostri esperti si avvicendarono per stilare i codici locali. «Non funziona nulla. Noi veniamo qui per brevi periodi, pochi mesi, solo il tempo di cominciare a capire e poi veniamo sostituiti da altri, che a loro volta devono studiare i dossier da capo. Inutile dire che le nostre proposte sono lettera morta. Tutti soldi e sforzi sprecati», ci disse già nel 2013 un giudice inviato da Roma. Ora, con i talebani al potere, del poco che era stato adottato rimarrà nulla.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 agosto 2021. Il rapido collasso delle forze armate afgane potrebbe aver sorpreso il presidente Biden, ma dozzine di rapporti hanno rivelato come gli Stati Uniti abbiano fallito gli sforzi per sostenere il paese. Dai milioni spesi per gli aerei militari lasciati a marcire all'aeroporto internazionale di Kabul ai miliardi di dollari sprecati cercando, senza riuscirci, di sradicare le coltivazioni di oppio del paese, i dispacci dell'Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell'Afghanistan hanno illustrato le frodi e gli abusi che hanno fatto fallire uno sforzo da 145 miliardi di dollari.   «Se l'obiettivo era quello di ricostruire e lasciare dietro di sé un paese in grado di sostenersi e rappresentare una piccola minaccia per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il quadro generale in Afghanistan è desolante», ha concluso John Sopko nel suo rapporto pubblicato questa settimana. Per nove anni ha dettagliato i difetti e le frodi negli sforzi di ricostruzione degli Stati Uniti. E in più di 50 apparizioni davanti al Congresso ha presentato alcuni esempi sconcertanti di progetti falliti. 

549 milioni di dollari spesi per aerei da trasporto inaffidabili. Quest'anno ha documentato come l'aeronautica statunitense abbia sprecato 549 milioni di dollari su aerei cargo difettosi. Il Pentagono ha acquistato 20 aerei G222 ricondizionati nel 2008 per il governo afghano, ma si sono rivelati inaffidabili. I pezzi di ricambio erano difficili da trovare e i loro equipaggi si sono lamentati della loro sicurezza. Sono stati messi in vendita ma alla fine venduti come rottame al prezzo di 40.257 dollari. «Sfortunatamente, nessuno coinvolto nel programma è stato ritenuto responsabile per il fallimento del programma G222», afferma seccamente il rapporto di Sopko, descrivendo come un generale dell'aeronautica statunitense coinvolto nell'acquisizione sia diventato il contatto principale per l'azienda che li ha forniti dopo essersi ritirato dal servizio attivo. 

500.000 dollari per edifici "fusi". Poi c'è stato il caso degli edifici "sciolti", un centro di formazione da mezzo milione di dollari che ha iniziato a crollare a causa di costruzioni scadenti. «Sebbene questo progetto possa essere stato fatto con buone intenzioni, il fatto che gli afghani abbiano dovuto demolire e ricostruire il poligono di fuoco a secco non è solo imbarazzante, ma, soprattutto, uno spreco di denaro dei contribuenti statunitensi», ha scritto Sopko in un rapporto del 2015. Il poligono di tiro a secco è stato costruito per assomigliare a un tipico villaggio afgano dove la polizia avrebbe potuto addestrarsi. Il rapporto di Sopko afferma che i funzionari americani che supervisionavano il progetto non hanno tenuto traccia del lavoro e l'appaltatore è scomparso. I tetti non erano inclinati per consentire il deflusso dell'acqua piovana e sono stati utilizzati materiali scadenti. L'intera struttura è stata demolita dopo quattro mesi, secondo un rapporto del 2015. 

28 milioni di dollari per il camuffamento sbagliato. Forse l'esempio più imbarazzante è arrivato sotto forma delle nuove tute mimetiche per l'esercito afghano. I contribuenti statunitensi hanno finito per pagare l'opzione più costosa e meno efficace. «Non vorrei essere un soldato afghano che indossa quell'uniforme», ha detto Sopko a USA Today all'epoca. «È come avere scritto "sparami" sul retro». Il Pentagono ha sprecato 28 milioni di dollari in uniformi con un motivo mimetico boschivo in un paese in cui la copertura arborea rappresenta circa il 2% del paesaggio. Il rapporto di Sopko afferma che i funzionari del Dipartimento della Difesa hanno dichiarato di essersi "imbattuto" nel sito Web di un fornitore e che l'allora ministro della Difesa afghano «aveva apprezzato ciò che aveva visto». Erano necessarie nuove uniformi perché quelle esistenti utilizzavano un design non proprietario. Ciò significava che gli insorti potevano facilmente acquistare vestiti con lo stesso modello. Ma Sopko ha detto che l'esercito degli Stati Uniti aveva progetti di riserva che avrebbero potuto essere più adatti al terreno afghano a un costo molto inferiore. 

36 milioni di dollari per un centro di comando inutilizzato. Ci sono dozzine di esempi di cattiva gestione tra i progetti di costruzione. Ad esempio, sono stati spesi circa 36 milioni di dollari per una vasta struttura di comando e controllo a Camp Leatherneck, nella provincia di Helmand. Comprendeva spazi per uffici per 1500 persone, una sala di guerra, un teatro per le riunioni. È stata commissionata per l'ondata di truppe statunitensi del 2010. «Sembra essere l'edificio meglio costruito che abbia mai visto nei miei viaggi in Afghanistan», ha scritto Sopko nel luglio 2013. «Purtroppo è inutilizzato, non occupato e presumibilmente non verrà mai utilizzato per lo scopo previsto». I suoi mobili erano ancora incartati quando ha visitato la struttura che è stata completata dopo la fine dell’arrivo delle truppe. La sua fornitura di elettricità è stata costruita secondo le specifiche degli Stati Uniti, rendendola inutile per il governo afghano. 

176 milioni di dollari per una strada che non è durata un mese. Oppure c'era la strada da 176 milioni di dollari verso il nulla. Finanziato dall'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, il percorso di 63 miglia collegava la città di Gardez e la provincia di Khost. Un audit del 2016 da parte degli ispettori SIGAR ha rilevato che cinque sezioni erano state distrutte e due erano state spazzate via dopo un mese dal completamento, secondo Bloomberg News. 

9 miliardi di dollari spesi per una futile guerra alla droga. E poi c'è stata la guerra infinita alla droga. Gli Stati Uniti hanno speso circa 9 miliardi di dollari durante il conflitto cercando di sradicare i campi di papaveri dell'Afghanistan che hanno finanziato i talebani e hanno reso il paese il primo produttore mondiale di oppio e di tutti i suoi prodotti illegali. «Nonostante l'investimento, la coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan ha registrato una tendenza al rialzo per due decenni e l'insicurezza ha reso difficile invertire la crescita», ha affermato Sopko nel suo rapporto più recente. Uno dei progetti finanziati dagli Stati Uniti è stata la costruzione di canali di irrigazione per centinaia di miglia quadrate di terreno coltivabile, nella speranza che avrebbe portato gli agricoltori a coltivare legalmente. Ha semplicemente portato a un aumento della produzione di papavero, più che raddoppiata in uno studio di area, secondo Sopko. Presi insieme, i rapporti dipingono un quadro schiacciante degli sforzi degli Stati Uniti per ricostruire una nazione devastata da decenni di conflitti. Come chiarisce il commento di Sopko, un lavoro del genere è difficile in una zona di guerra.  Spesso i programmi di monitoraggio creavano le condizioni per spuntare le caselle a ciò che lui chiamava «fare perfettamente la cosa sbagliata». «Cioè, i programmi sono stati considerati "di successo" anche se non hanno raggiunto o contribuito a obiettivi più ampi e importanti, come la creazione di un'efficace forza di sicurezza afghana e un Afghanistan stabile», ha affermato in un rapporto del luglio 2021. «Strettamente correlato a questa scoperta è uno dei temi centrali del rapporto: la pervasività dell'eccesso di ottimismo». 

La guerra perduta. Democrazia da esportazione in Afghanistan, un flop epocale: un trilione di dollari spesi male. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista l'8 Settembre 2021. La scienza politica e la scienza naturale sono discipline diverse ma hanno una caratteristica comune, la logica, che dovrebbe governarle entrambe. Per questa affinità, stavolta vorrei cimentarmi in alcune riflessioni riguardanti l’ingloriosa e dolorosissima esperienza dei venti anni trascorsi dall’inizio della missione “di pace e di stabilizzazione” in Afghanistan. Qualunque sia il giudizio personale sulla riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è un fatto oggettivo che si tratti del più grande fallimento della politica internazionale del 21° secolo. Gli Stati Uniti, dopo un impegno ventennale e uno sforzo economico superiore a quello per la Missione Apollo, non hanno trovato di meglio che affidare la difesa del paese a un esercito che sapevano sarebbe presto crollato. Il presidente Biden, incalzato dai giornalisti, ha infatti ammesso che sperava che le forze di sicurezza afghane avrebbero resistito più a lungo alla riconquista talebana, dando modo di ultimare le operazioni di evacuazione in sicurezza e senza essere assediati nell’aeroporto di Kabul. Ma la frammentazione storica dell’Afghanistan, parcellizzato in etnie che riconoscono l’autorità del capoclan locale molto più di quella di uno stato centrale, difficilmente avrebbe permesso di contenere l’assalto di bande di fanatici pronti anche all’estremo sacrificio. Questo è il primo elemento da valutare: quando si tratta di un’incursione da parte di un drone o del bombardamento con missili balistici, tenacia e determinazione contano poco. Quando però si tratta di dare l’assalto alle postazioni nemiche, di prendere e tenere il controllo del territorio, di slanciarsi in azioni audaci e potenzialmente fatali, l’indottrinamento e fede sono le armi più potenti. In questi casi di solito prevale non il più equipaggiato, ma il più tenace. Gli Stati Uniti la lezione l’avevano già appresa in Vietnam. Nonostante l’impressionante dispiego di mezzi e di armamenti, alla fine avevano dovuto cedere a un esercito irregolare di contadini, molto più che all’aiuto dato ai Vietnamiti dai paesi comunisti. Ho Chi Min diceva di potersi permettere la morte di un milione di individui senza che il morale della nazione ne risentisse. Contro l’irriducibile la guerra è sempre stata difficilissima. Alla cacciata dell’ultimo dei re Etruschi di Roma, Tarquinio il Superbo, il re di un’altra città-stato Etrusca si mosse con un potente esercito in suo soccorso. Era Porsenna, lucumone di Chiusi, che cinse di assedio Roma, minacciando di raderla al suolo. Un giovane aristocratico, Gaio Muzio Cordo, si offrì per una missione suicida. Uscire nottetempo dalle mura della città, eludere la sorveglianza degli assedianti, introdursi nell’accampamento nemico, penetrare nella tenda di Porsenna e ucciderlo. Il resto lo sappiamo, ma forse non ricordiamo un particolare. Gaio per errore pugnala il segretario di Porsenna, le cui grida richiamano la guardia del corpo del re. Porsenna comanda che sia portato al suo cospetto per interrogarlo e poi farlo giustiziare. Gaio chiede di essere lasciato perché ormai inoffensivo e quindi fa giustizia da solo a modo suo: infila la mano destra in un braciere fi no a consumarla e senza emettere un gemito, diventando ipso facto Muzio Scevola -il mancino-. Quindi, sventolando il moncherino sotto il viso del re gli dice (cito a memoria): “Guarda, o re, come io stesso ho punito la mano che ha fallito il colpo. Ora sappi che altri trecento Romani che, come me, non temono neanche di ardere vivi hanno giurato di ucciderti”. Manco a dirlo, Porsenna si affrettò a stipulare il trattato di pace con Roma. I Talebani non erano scomparsi, si erano ritirati, confusi tra la popolazione civile, o rifugiati in Pakistan. Hanno la pertinacia degli esaltati. Non ci potevano essere dubbi ragionevoli, con o senza gli accordi di Doha, che non appena fosse cessata la forza che li comprimeva, avrebbero dilagato. Dunque, cosa si sarebbe potuto fare? Alla fine del protettorato Britannico in India nel 1947, la situazione rischiò di degenerare in guerra civile. A mali estremi si ricorse a estremi rimedi. Nonostante la decisa opposizione del Mahatma, si stabilì che l’India sarebbe stata divisa: gli induisti, più numerosi al centro e al sud, i musulmani al nord, nel nuovo stato chiamato Pakistan. Fu un’impresa titanica. Scontri, ribellioni, contrasto da parte di molti gruppi etnici, difficoltà logistiche immense, comunità di milioni di individui strappate dalle proprie radici e costrette a emigrare. E negli anni seguenti? Scontri alla frontiera, rivendicazioni dei territori di confine come il Kashmir, corsa agli armamenti nucleari, secessione della parte orientale del Pakistan con la nascita del Bangladesh e mille altre grandi contese e piccole scaramucce. Si divise una popolazione di molte centinaia di milioni di individui che erano stati più o meno mescolati per secoli, se non culturalmente, almeno geograficamente. Quindi una follia? No, una soluzione draconiana, ma difficilmente evitabile se non si voleva correre il rischio di assistere ad una mattanza molto peggiore di quella che si sarebbe verificata nel Ruanda e nei Balcani. Perché non in Afghanistan? Diciamo pure che nei primi anni ci si potesse illudere di “normalizzare il paese” e di dotarlo di strutture e istituzioni abbastanza salde da reggere all’urto dei Talebani quando gli occidentali sarebbero ripartiti. Ma nell’ultimo decennio è apparso sempre più chiaro che il ritiro sarebbe coinciso col collasso delle istituzioni, rette a ogni livello da funzionari corrotti e da un presidente che ha fatto fagotto e se l’è svignata appena ha sentito i primi spari. Storicamente il Nord del paese è stato sotto il controllo dell’Alleanza antitalebana. Si poteva contrattare con loro l’instaurazione di un protettorato dell’Onu, o di un nuovo paese sovrano. O magari ritagliare una zona anche piccola e facilmente difendibile, in cui accogliere e proteggere i profughi e i perseguitati, le forze democratiche e liberali. Eh sì, perché si continua a ripetere che non si può esportare la democrazia o i valori occidentali. Tuttavia, imporre arbitrariamente un regime teocratico e la Sharia, opprimere le donne, i dissidenti, gli omosessuali, gli agnostici, è un atto che confligge -prima ancora che con i valori occidentali- con il Diritto Naturale. Il diritto di ogni vivente a non essere perseguitato e minacciato, quel diritto che non rispecchia una particolare civiltà ma che distingue l’umanità dalla matta bestialità (Inf. XI, 82). Con il trilione (mille miliardi) di dollari spesi in Afghanistan si sarebbe potuta attrezzare e difendere una porzione di territorio, per renderla accogliente e appetibile per quanti vi si fossero voluti rifugiare. E adesso un po’ di dubbi legittimi su questa soluzione, a cui vorrei provare a rispondere preventivamente.

1) Se ci fosse solo poco territorio disponibile, perché nessuna etnia sarebbe stata disposta a cederne? I piccoli stati più densamente popolati sono nell’ordine: Principato di Monaco, Singapore, Hong Kong, Svizzera. E certo lì non si vive peggio che nell’Afghanistan dei Talebani.

2) Gli Afghani sono abituati al loro stile di vita, non avrebbero accettato alternative. Chi avesse voluto adeguarsi al regime talebano sarebbe stato libero di farlo e di restare. Ma c’è una generazione di giovani che hanno studiato, conosciuto la libertà di essere ciò che desideravano e non si riconosce nel burka e nelle leggi tribali. La popolazione afghana ha un’età media molto bassa, 27 anni, per cui i giovani sono moltissimi. E oltre a loro c’è quel pezzo di società civile che ha permesso che studiassero. Un ragazzo non va a scuola, se non c’è la scuola, gli insegnanti o se i genitori non acconsentono che vada.

3) Se l’Onu avesse votato una tale risoluzione, Cina o Russia avrebbero posto il veto. Non è affatto così scontato. La Russia (o piuttosto l’Unione Sovietica) ha sperimentato quanto sia complicato avere a che fare con l’Afghanistan e la Cina ha il problema interno degli Uiguri musulmani. E poi si sarebbero potuti usare i canali diplomatici, proporre un contraccambio per farli desistere. E, comunque, si sarebbe obbligato anche gli stati renitenti a discutere il problema e proporre una soluzione.

4) Gli Afghani non si sarebbero mai trasferiti spontaneamente in una diversa regione del paese. Colonne di disperati si stanno dirigendo sulle montagne al confine col Pakistan, per cercare asilo in Occidente, senza neanche sapere l’accoglienza che sarà loro riservata. Non sarebbero andati più volentieri in un’altra regione del loro paese, soprattutto se con garanzie di sicurezza e certezza del futuro?

5) Un protettorato o un paese indipendente non avrebbe potuto resistere a lungo all’assalto talebano. I talebani non dispongono di arsenali nucleari. Le armi più sofisticate che hanno sono quelle abbandonate dagli americani. Israele ha resistito agli assalti dei grandi paesi arabi coalizzati. Senza considerare che una democrazia nel cuore degli stati teocratici, nel lungo periodo avrebbe potuto indurre un cambiamento anche in chi alla democrazia non ha mai pensato. Naturalmente ci possono essere altre perplessità e altre variabili non tenute nella giusta considerazione, ma secondo me bisognava provarci ad ogni costo. Qualcuno dice: “Forse non dovremmo agitarci tanto, perché in fondo poteva andare peggio”. No. In queste condizioni, non poteva andare peggio di così…

Valerio Rossi Albertini

La guerra infinita è costata agli Stati Uniti, dall’invasione dell’ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il'1 settembre 2021. La guerra in Afghanistan per gli Usa e gli occidentali ha anche il colore dei soldi perduti e buttati nel nulla. Una considerazione che veniva in mente mentre il presidente Biden ieri parlava in diretta agli americani. Se fossero stati usati soltanto in parte per fornire aiuti umanitari, senza tenere gli stivali dei militari sul terreno, oggi probabilmente il Paese offrirebbe un’immagine diversa, sicuramente meno povera e disperata, al di là delle considerazioni politiche.

NON SI POTEVA VINCERE. La guerra che non si poteva vincere, la guerra infinita, come viene definita, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre del 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari (un po’ meno del debito italiano): una cifra che si fa fatica anche solo a immaginare. Tra gli europei quelli che hanno speso di più ci sono la Gran Bretagna con 30 miliardi, la Germania con 19 miliardi di dollari e l’Italia con 8,7 miliardi di euro. Per fare un paragone con la guerra del Vietnam, è stato calcolato che tra il 1965 e il 1974 gli Stati Uniti spesero 138,9 miliardi di dollari nel conflitto (senza tenere conto degli aggiustamenti all’inflazione). Un altro paragone possibile è quello tracciato dal Center for Strategic and Budgetary Assessments, che in un suo studio ha stimato che il costo annuale per ogni soldato impiegato nella guerra in Afghanistan sia stato pari a 1,1 milioni di dollari contro i 67mila dollari all’anno della seconda guerra mondiale e i 132mila dollari all’anno della guerra in Vietnam.

RICOSTRUZIONE FASULLA. L’aspetto più sensazionale è come sono stati bruciati i soldi per la ricostruzione del Paese e per il “nation building”, espressione pomposamente richiamata in ogni discorso ufficiale e che in realtà, come hanno dimostrato i fatti, copriva il nulla assoluto. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione di strade, scuole e altre infrastrutture, questa “voce” ha richiesto 143 miliardi di dollari dal 2002 a oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar). Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di questi soldi e progetti siano andati in fumo _ scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina _ per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (fuggito negli Emirati con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta).

UCCISI PER SBAGLIO. Senza contare un altro aspetto finanziario spesso trascurato. In Afghanistan i soldati americani andavano con le valigie piene di dollari dai signori della guerra e casa per casa per risarcire le famiglie delle persone uccise per sbaglio. In 20 anni si calcola in 70mila le vittime civili, di cui moltissime uccise dagli americani nei raid o negli scontri, come si è visto drammaticamente in questi giorni all’aereoporto di Kabul. Gli americani quindi aprivano le borse ed elargivano biglietti verdi. A volte funzionava, a volte invece la gente si arrabbiava ancora di più: quei soldi erano la conferma delle colpe degli americani. In vent’anni di guerra la distribuzione di denaro alla popolazione in un paese sotto occupazione è diventata una strategia militare, definita con l’acronimo Maaws: Money As A Weapons System.

MA SI VIVE PIÙ A LUNGO. C’è qualche cosa da salvare? Secondo la Banca Mondiale l’aspettativa media di vita è cresciuta di otto anni, da 56 a 64 anni. La mortalità per parto si è più che dimezzata: l’indice di alfabetizzazione è schizzato dall’8 al 43 per cento; i matrimoni precoci sono diminuiti, dicono i dati dell’Onu, del 17 per cento. Almeno nelle città l’accesso all’acqua potabile è arrivato all’89 per cento rispetto al 16 di vent’anni fa. Sempre secondo la Banca mondiale la mortalità infantile si è dimezzata, così come il numero dei bambini sottopeso. E metà della popolazione ha accesso alle cure mediche, contro il 25 per cento dell’inizio degli anni Duemila. Il Financial Times, che qualche giorno fa ha messo insieme in una serie di grafici i dati su questi miglioramenti, riporta che si contano nelle scuole 8,2 milioni di bambini in più rispetto al 2001.

SCENARIO DRAMMATICO. Cosa accadrà adesso? Il problema è che gran parte dell’economia afghana, una delle meno sviluppate al mondo, si basava sugli aiuti internazionali, già diminuiti nell’ultimo decennio e al momento congelati.

Ecco perché l’Occidente si lascia dietro una situazione drammatica. E probabilmente lo diventerà ancora di più nei prossimi mesi perché il regime talebano è a corto si soldi e quelli della Banca centrale afghana sono congelati negli Stati Uniti. Vedremo anche se la comunità internazionale, oggi ancora commossa dalle immagini di Kabul, continuerà a interessarsi degli afghani oppure se li dimenticherà, come è già accaduto molte volte

La guerra in Afghanistan è costata 2.313 miliardi agli Usa: armi, morti, debiti, così è lievitato il costo dal 2001 a oggi. Marilisa Palumbo, inviata a New York, su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2021. Il costo della guerra, calcolato in base ai dati. Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, cifra che però copre solo le spese operative. La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre del 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche solo a immaginare. Non che il Congresso se ne sia preoccupato più di tanto: cinque sono le volte che il tema è stato sollevato dai membri della sottocommissione per gli stanziamenti alla Difesa.

Le spese non sono finite. Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante dei mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agli aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci — costi che continueranno a crescere negli anni a venire — i miliardi in aiuti umanitari e soprattutto la spesa per il «nation building». Dall’addestramento delle truppe alla costruzione di strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 a oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar). Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di questi soldi e progetti siano andati in fumo — scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina — per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta).

Il conto delle vittime. Dal 2001 a oggi sono morti oltre 47 mila civili afghani (domenica se ne sono aggiunti dieci, colpiti molto probabilmente dall’attacco «mirato» americano contro un membro dell’Isis-K). Tra i 66 e i 69mila invece i poliziotti o militari afghani e oltre 51 mila talebani e terroristi di varie sigle. Le cifre sono state raccolte mettendo insieme diverse fonti, dal Pentagono alle Nazioni Unite, dal progetto Costs of War della Brown University. Nel 2011, all’apice dello sforzo militare, durante la cosiddetta «surge» imposta a Obama dai generali, c’erano in Afghanistan 130mila truppe alleate, a febbraio scorso erano 14mila, prima che Joe Biden mandasse i rinforzi per le evacuazioni erano 2.400. In tutto 800mila americani hanno partecipato a questa guerra, di questi hanno perso la vita 2.442 uomini e donne in divisa e sei civili del dipartimento della Difesa, a cui si aggiungono i tredici giovanissimi uccisi nell’attentato kamikaze di giovedì a Kabul. Ventunomila almeno i feriti. La coalizione di 40 Paesi alleati ha registrato 1.144 perdite, tra cui 457 britannici (secondi per vittime dopo gli Usa) e 53 italiani. Poi c’è una cifra di cui si parla meno, perché il Pentagono non la comunica: quella dei contractor americani morti, che sarebbero circa 3.800. I giornalisti uccisi sono almeno 77, gli operatori umanitari 444. Secondo i dati delle Nazioni Unite, 2,7 milioni di afghani sono scappati tra Iran (780 mila), Pakistan (1,4 milioni) ed Europa. La cifra però non comprende i migranti irregolari. Né i centomila evacuati in questi giorni e i tanti che stanno provando a uscire dal Paese e continueranno a farlo nei mesi a venire. E poi ci sono i profughi interni: qui si parla di tre-quattro milioni di persone per un Paese di circa 38.

Le cose da salvare. Otto anni non sono pochi: di tanto — da 56 a 64 — è cresciuta l’aspettativa di vita dal 2001 a oggi in Afghanistan, secondo i dati della Banca mondiale. La mortalità per parto si è più che dimezzata: l’indice di alfabetizzazione è schizzato dall’8 al 43 per cento; i matrimoni precoci sono diminuiti, dicono i dati dell’Onu, del 17 per cento. Almeno nelle città l’accesso all’acqua potabile è arrivato all’89 per cento rispetto al 16 di vent’anni fa. Sempre secondo la Banca mondiale la mortalità infantile si è dimezzata, così come il numero dei bambini sottopeso. E metà della popolazione ha accesso alle cure mediche, contro il 25 per cento dell’inizio degli anni Duemila. Il Financial Times, che qualche giorno fa ha messo insieme in una serie di grafici i dati su questi miglioramenti, riporta che si contano nelle scuole 8,2 milioni di bambini in più rispetto al 2001. Il problema è che gran parte dell’economia afghana, una delle meno sviluppate al mondo, si basava sugli aiuti internazionali, già diminuiti nell’ultimo decennio e al momento congelati. Con i talebani al governo, quante di queste conquiste resisteranno e quante svaniranno con la velocità con la quale gli estremisti si sono ripresi il Paese? Se sono stati vent’anni «inutili» o no molto dipenderà da quanto continueremo ad occuparci della sorte di chi resta da domani in poi.

Quanto è costata la guerra in Afghanistan: oltre 2.300 miliardi, 115 volte il Pil del Paese. Fausta Chiesa su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2021.

Il costo della guerra in Afghanistan. Oltre 2.200 miliardi di dollari, per la precisione 2.261 miliardi. Tanto è costata agli Stati Uniti la missione in Afghanistan per battere il terrorismo lanciata dopo l’11 settembre e durata 20 anni: si sta infatti concludendo in questi giorni con il ritiro delle truppe. Circa mille miliardi sono stati spesi per le operazioni di combattimento, 530 per il pagamento degli interessi dei debiti contratti per finanziare l’intervento militare, 443 miliardi è l’incremento del bilancio del dipartimento americano per la difesa per le attività legate alla guerra e quasi 300 miliardi sono la spesa per la cura dei veterani rientrati negli Stati Uniti. Poi ci sono le spese sostenute dai Paesi della coalizione «Enduring freedom» (Pace duratura). Quindi si devono aggiungere 28,2 miliardi la Gran Bretagna, 12,7 il Canada, 11,1 la Germania, 8,9 l’Italia e 3,9 miliardi la Francia. Si arriva a 2.300 miliardi. Una cifra che 115 anni, visto che il suo prodotto interno lordo non arriva a 20 miliardi. A fornire i dati delle spese sostenute dagli Usa nella guerra in Afghanistan è il Watson Institute della Brown University che si occupa di studi internazionali.

L’Afghanistan e il Pil. L’Afghanistan, nonostante la crescita economica degli ultimi 20 anni collegata alla presenza delle truppe straniere e ad aiuti miliardari, è uno dei Paesi più poveri del mondo, con un Pil di meno di 20 miliardi di dollari, (dati della Banca mondiale) una disoccupazione di quasi il 25% e un 50% della popolazione sotto la soglia di povertà. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, che ha in campo un ampio programma di aiuti, quest’anno sarebbe dovuta tornare una crescita del 4 per cento, ma l’arrivo dei talebani al potere e dalla fine della presenza degli stranieri, attorno a cui ruotava un’economia locale. 

Gli aiuti internazionali. Con l’afflusso di aiuti dal 2002, l’Afghanistan ha avuto una rapida crescita economica: fra il 2003 e il 2012 la crescita media annua è stata del 9,4%, spinta dal settore dei servizi. Nell’ultimo decennio, però, secondo la Banca Mondiale «una serie di fattori ha rallentato il progresso economico e sociale, con l’economia in crescita solo del 2,5% annuo tra il 2015-2020». I flussi di aiuti sono diminuiti da circa il 100 per cento del Pil nel 2009 al 42,9 per cento del 2020, con un calo che «ha portato a una prolungata contrazione del settore dei servizi, con un conseguente deterioramento dell’occupazione e dei redditi». Su questo fronte la situazione non si presenta rosea per i prossimi anni: gli ultimi impegni presi dai donatori internazionali, alla conferenza di Ginevra del novembre scorso, riguardavano un solo anno del periodo 2021 - 2024, con i futuri impegni subordinati al raggiungimento da parte del governo di progressi negli sforzi per combattere la corruzione, ridurre la povertà e portare avanti i colloqui di pace in corso. Prima della riconquista del Paese da parte dei talebani la previsione era di un calo del sostegno agli aiuti di circa il 20% rispetto al precedente periodo d’impegno (15,2 miliardi di dollari nel periodo 2016-2020). 

Risorse naturali non sfruttate. L’Afghanistan è ricco di risorse naturali che non vengono sfruttate, a partire dal gas naturale, la cui industria aveva iniziato a svilupparsi fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, quando era arrivata a pesare per oltre metà dell’export, ma che è poi collassata dopo l’uscita delle truppe sovietiche del Paese. Nel 2020 per la prima volta sono ripartite le estrazioni, nella parte nord del territorio. Secondo i dati del Geological Survey degli Stati Uniti, le risorse minerarie dell’Afghanistan valgono 908 miliardi di dollari, ma il governo di Kabul stima un valore di oltre 3mila miliardi. «Gli investimenti nell’industria estrattiva, che hanno un grande potenziale, sono stati frenati dalla crescente insicurezza», ha scritto in un recente report il Fondo monetario internazionale. Nel Paese ci sono giacimenti di carbone, rame, petrolio e gas naturale, oltre a importanti giacimenti di terre rare, ancora non sfruttati: secondo un memo del Pentagono, potrebbe essere «l’Arabia Saudita del Litio».

Primo produttore di oppio. Al centro dell’economia dell’Afghanistan c’è ancora il settore agricolo che, pur pesando per poco più del 20% del prodotto interno lordo, occupa secondo i dati della Banca Mondiale il 44% degli occupati e contribuisce al reddito del 60% delle famiglie. Negli anni che non sono colpiti dalla siccità, dai campi afghani arrivano cereali, frutta e ortaggi, che vengono anche esportati, ma una delle principali coltivazioni del Paese rimane quella dell’oppio. Nonostante gli sforzi degli Stati Uniti per sradicare le piantagioni di papaveri e per stroncare un commercio che ha finanziato i talebani, l’Afghanistan rimane il principale produttore mondiale d’oppio. Secondo i dati dell’Unodc (l’ufficio su Droga e Crimine delle Nazioni Unite), nonostante la pandemia lo scorso anno le coltivazioni di papaveri sono cresciute del 37%, ma nonostante l’aumento sono state minori del record del 2017, quando le vendite hanno raggiunto circa gli 1,4 miliardi di dollari, pari al 7% del pil del Paese; secondo le stime dell’ufficio Onu, il valore dell’industria dell’oppio, considerato anche il resto della filiera, quell’anno è arrivato a 6,6 miliardi di dollari.

Cristiano Tinazzi per “il Messaggero” il 19 agosto 2021. Il rapido crollo dell'Esercito Nazionale Afghano (Ana), travolto dalle forze talebane, ha lasciato sul terreno una enorme quantità di mezzi, equipaggiamento hi-tech, armi e munizioni in buona parte di produzione statunitense. Le prime avvisaglie di questa debacle si erano già verificate a luglio, quando i distretti più lontani dalla capitale e i posti di confine erano caduti uno dietro l'altro nelle mani della guerriglia. Veicoli e armi di provenienza americana erano stati consegnati direttamente nelle mani dei talebani, quasi senza colpo ferire, dall'esercito afgano. Una investigazione fatta utilizzando fonti aperte in rete aveva permesso di fare una parziale stima del bottino di guerra talebano di luglio: circa settecento tra Humvee, camion, sistemi di artiglieria e mezzi corazzati.

L'AEROPORTO All'aeroporto di Kunduz, lo scorso otto agosto, gli jihadisti guidati dal mullah Habaitullah Akhundzada erano riusciti a saccheggiare centinaia di milioni di dollari tra droni, armi e veicoli corazzati, tra cui anche gli Mrap, gli enormi mezzi protetti contro gli ordigni improvvisati (Ied). Durante la presa di Kandahar i talebani hanno preso possesso di due elicotteri UH-60 Blackhawk (probabilmente disabilitati dai piloti prima della fuga). Un funzionario della difesa statunitense, sotto condizione di anonimato, lunedì scorso ha confermato all'agenzia di stampa Associated Press che «è enorme» l'accaparramento da parte dei talebani di equipaggiamento militare fornito da Washington all'Ana. Il presidente statunitense Joe Biden lo scorso quattordici di aprile aveva annunciato di voler posticipare, seppure di poco, il termine entro il quale gli Usa avrebbero dovuto ritirarsi dall'Afghanistan, spostando la data dal primo di maggio (già decisa dall'ex presidente Donald Trump) all'undici settembre, anniversario dell'attacco al World Trade Center. Questo nonostante i suoi analisti avessero dato quasi per certa la caduta di Kabul entro sei mesi. C'era però anche un altro problema da risolvere: garantire lo spostamento di circa settantamila ex collaboratori afghani, insieme alle loro famiglie, negli Usa. Non c'è stato il tempo. 

I COSTI Gli Usa hanno speso in tutti questi anni circa ottantatré miliardi di dollari per creare un esercito locale e una forza di polizia efficienti. La Nato solo nel 2021 ha fornito settantadue milioni di dollari di forniture e attrezzature. L'ultima consegna è avvenuta lo scorso due agosto. Dal 2007, l'Alleanza Atlantica ha fornito 440 milioni di dollari di equipaggiamenti. I motivi di questo collasso saranno materiale di studio per i manuali militari negli anni a venire. Secondo l'ex ambasciatore americano a Kabul Ronald Neumann, intervistato dalla radio pubblica americana Npr, il modo in cui si è attuato il ritiro statunitense, l'esecuzione di quella decisione, «è stato un disastro assoluto dall'inizio alla fine. Avrebbero potuto prendere più tempo. Non avevano alcun piano su come sostenere i militari afgani che stavano lasciando... E abbiamo profondamente scioccato l'esercito afgano e il suo morale ritirandoci e togliendo la nostra copertura aerea». Una stima del 2018 fatta sul parco mezzi dell'Ana, l'Esercito Nazionale Afgano, parlava di una dotazione di circa tredicimila Humvee su un totale di ventiseimila veicoli. Dall'inizio della guerra, nel 2001, sono stati circa venticinquemila i mezzi trasferiti su suolo afgano. Molti di questi, circa il sessanta per cento, sono oltre il loro stato di servizio e si è calcolato che mediamente si verificavano circa cento perdite a settimana nei periodi più intensi di combattimento. Per l'aviazione così come per i veicoli e le armi più sofisticate, serve una logistica in grado di mantenere tutto efficiente. E questo per i Talebani non è possibile. È improbabile inoltre che abbiano le conoscenze per far funzionare dispositivi tecnici sofisticati come le contromisure elettroniche. L'incognita rimane il Pakistan, che potrebbe fornire loro parte del supporto logistico e delle conoscenze tecniche.

Secondo il think tank “Rosa&Roubini” gli Usa pagavano per effettivi inesistenti: solo un terzo dei militari dichiarati era realmente in servizio. E le armi finivano ai talebani. La Repubblica il 17 agosto 2021. Joe Biden nel suo discorso di “giustificazione” ha omesso un dettaglio non secondario: cessare le operazioni in Afghanistan per gli Stati Uniti significa frenare un’emorragia di denaro. «Ancor più se si pensa a quanti di questi dollari sono stati inghiottiti nel gorgo della corruzione», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics e partner di Nouriel Roubini in un think-tank che sta per pubblicare un report finanziario sulla guerra afghana.

Blindati, suv ed elicotteri. Così il Pentagono rottama l’arsenale rimasto a Kabul. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 26 agosto 2021. Quei voli drammatici dal tetto dell’ambasciata statunitense, che hanno reso Kabul così simile a Saigon, sono stati l’ultima missione: i sette grandi elicotteri Skynight non decolleranno mai più, perché nelle prossime ore verranno distrutti. E come loro tutte le dotazioni belliche americane accumulate nell’aeroporto della capitale: centinaia di blindati, suv, mitragliere, radar saranno fatti saltare in aria. L’Afghanistan è la tomba degli imperi ed anche il cimitero degli arsenali. In ogni città ci sono discariche impressionanti di tank, autoblindo e Mig d’ogni modello coperti di ruggine, che testimoniano la disfatta dell’Armata Rossa. Ora si aggiungono i rottami del Pentagono, prodotti da un’incredibile operazione di smantellamento. Sin dallo scorso marzo, Washington ha ordinato di demolire una quantità colossale di mezzi: il bilancio provvisorio conta ben 17.074 “parti di equipaggiamento”. Una devastazione imposta dalla fretta e dalla geografia: per arrivare al porto più vicino, quello pakistano di Karachi, bisogna percorrere 1.836 chilometri di strade ad altissimo rischio. Ogni veicolo e ogni cassa devono quindi essere portati con gli aerei fino al Qatar e agli Emirati, dove poi trasbordarli sulle navi. Un viaggio difficile e talmente oneroso da far preferire l’auto-distruzione. Già nel 2014, quando si ritirarono i 100 mila soldati extra schierati dall’amministrazione Obama, ci fu un gigantesco sfascio di materiali meno moderni o troppo logori: vennero trasformati in 176 milioni di chili di rottami, ceduti a prezzo di saldo. Il copione paradossale si è ripetuto nelle scorse settimane. Le squadre di sabotatori hanno lavorato senza sosta, ma per annientare i loro stessi armamenti: hanno fatto esplodere migliaia di tonnellate di munizioni. Il caso più clamoroso riguarda i mezzi corazzati a prova di mina, chiamati Mrap: nel 2012 in Afghanistan ce n’erano 12.726. Per traslocarli sarebbero serviti 4.500 voli dei quadrimotori C-17: un impegno eccessivo anche per il Pentagono, che così li ha messi in vendita sul mercato dell’usato bellico. Gli acquirenti sono stati pochini e nella scorsa primavera centinaia di questi “Bufali d’acciaio” sono stati fatti a pezzi, nonostante fossero costati al contribuente americano mezzo milione ad esemplare. Identica sorte per i suv, i pick-up e i furgoni civili usati in tante operazioni: quando lo scorso 2 luglio i marines hanno sgomberato l’aeroporto di Bagram, tagliando pure la luce e l’acqua, i militari afghani ne hanno trovati un migliaio, lasciati però senza le chiavi. Il generale Kohistani ha detto che solo in quella base gli americani avevano buttato via 3 milioni e mezzo di oggetti, dai telefonini alle razioni di cibo, dalle mitragliatrici ai bulldozer. C’erano quasi cento veicoli blindati resi inservibili: uno spreco, che ha contribuito a deprimere i soldati dell’armata nazionale. La scena più raccapricciante è avvenuta nell’ambasciata di Kabul, evacuata in poche ore all’arrivo dei talebani in città. Marines e funzionari hanno spaccato tutto, dai computer alle vetture di rappresentanza. Nella fretta si è deciso persino di far saltare in aria un sistema di difesa contro razzi e missili - il Centurion C-Ram - che proteggeva la sede diplomatica: un’arma hi-tech che valeva 10 milioni di dollari. Il botto finale avverrà nelle prossime 72 ore, con la fuga dall’aeroporto di Kabul. Il portavoce del Pentagono ha già anticipato che la priorità sarà mettere in salvo le persone, a partire dai 4500 soldati che lo difendono. Il destino di veicoli da combattimento, armi, munizioni e apparati radar è segnata. «Ci sarà molto tempo per parlare dei rimpianti – ha detto il generale Milley, capo delle forze armate Usa – adesso dobbiamo pensare solo a concludere la missione».

Afghanistan Armi Americane. Da Open il 20 agosto 2021. Indossare le divise dell’esercito americano: un gesto simbolico ma soprattutto tattico. In diversi video diffusi sui social e su emittenti locali si vedono i soldati talebani indossare le mimetiche e l’attrezzatura lasciata dai plotoni americani in Afghanistan. Proprio come accaduto in Siria e Iraq, quando furono gli affiliati dell’Isis ad accaparrarsi le armi americane lasciate nelle basi, anche a Kabul le squadre speciali talebane si impadroniscono di fucili da assalto, lettori ottici ed elmetti. Già a ridosso della presa del potere i talebani avevano preso velivoli e armamenti nelle basi americane e dell’esercito regolare. In questo caso, sono gli agenti del battaglione Badri 313, un corpo d’élite rispetto ai gruppi di miliziani vestiti in abiti tradizionali ed equipaggiati con i Kalashnikov. Nelle immagini circolate sui media si vedono i soldati imbracciare gli M5 dei Marines e guidare mezzi corazzati. Saranno loro ad avere compiti di polizia sul territorio per imporre le regole della Sharia nella vita dei civili. 

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2021. Nei video di propaganda diffusi online la brigata «Badri 313» dei talebani», che presidia il palazzo presidenziale di Kabul e perlustra le strade della capitale, non indossa lunghe vesti e turbanti - l'immagine che molti hanno in mente dei talebani - ma divise mimetiche, giubbotti antiproiettile, elmetti, fucili M4, cioè l'equipaggiamento delle forze speciali Usa. È una illustrazione chiara di ciò che l'Emirato islamico afghano ha rubato agli americani. Il tesoro è assai più vasto in realtà e include, secondo un funzionario contattato dall'agenzia Reuters, duemila mezzi blindati (tra cui gli Humvee), una quarantina di elicotteri e aerei (tra cui gli UH-60 Black Hawk) visori notturni e droni militari ScanEagle. Nei video diffusi in rete si vedono i talebani mentre ispezionano i veicoli e aprono casse piene di tecnologia militare americana. L'amministrazione Biden è preoccupata che le armi vengano usate contro la popolazione civile, che possano finire nelle mani dell'Isis o di potenze rivali come la Cina e la Russia, e non esclude di compiere raid per cercare di distruggere almeno una parte dei mezzi più grossi, come gli elicotteri, che dovevano essere il principale vantaggio strategico dell'esercito afghano contro i talebani. Sono meno preoccupati per gli aerei che richiedono nel lungo periodo un mantenimento che comporta competenze particolari. Un attacco per distruggere queste armi pare tuttavia imprudente, almeno in questo preciso momento. Anche se sono in corso voli armati statunitensi di sorveglianza sull'aeroporto - come confermato dal Pentagono - l'evacuazione degli americani e di decine di migliaia di afghani dipende dalla cooperazione tra gli Stati Uniti e quegli stessi miliziani contro i quali hanno combattuto per gli ultimi vent' anni. Chi vuole partire deve recarsi all'aeroporto di Kabul. Nonostante i talebani abbiano autorizzato il passaggio ai civili americani, agli afghani è stato spesso negato con violenza di attraversare i checkpoint talebani intorno allo scalo. Il presidente Biden ha detto in un'intervista che potrebbe prolungare la presenza dei 7.000 militari Usa all'aeroporto della capitale oltre il 31 agosto, nel caso in cui restino ancora cittadini statunitensi in Afghanistan. Le autorità non sanno il numero preciso: il motivo è che, benché gli americani si dovessero registrare all'arrivo in Afghanistan, non dovevano farlo quando lasciavano il Paese. In un contesto simile è rischioso inimicarsi i miliziani al potere.

Ecco l’arsenale che gli Usa lasciano nelle mani dei talebani. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 20 agosto 2021. Pistole, munizioni, elicotteri e molto: con la confusa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan, i talebani sono entrati in possesso di un arsenale di armi milionario appartenente all’esercito Usa e abbandonato sul campo. In 20 anni di guerra, gli Stati Uniti hanno speso circa 82 miliardi di dollari per addestrare e armare le forze di sicurezza afghane: un equipaggiamento che, in larga parte, ora è diventato di “proprietà” proprio dei talebani. Come conferma l’Associated Press, gli eredi del Mullah Omar sono entrati in possesso di una serie di moderne attrezzature militari durante la loro recente avanzata. Sono riusciti addirittura a prendere possesso di alcuni aerei da combattimento quando hanno deciso di entrare nella capitale Kabul e nelle altre principali città.

E ora le armi Usa finiscono nelle mani dei talebani. Un funzionario della difesa degli Stati Uniti ha confermato che le armi di cui si sono impossessati i talebani sono di una quantità ragguardevole. Il funzionario non era autorizzato a discutere pubblicamente la questione e quindi ha parlato a condizione di anonimato con l’Associated Press. Doppia brutta figura, dunque, per Washington: sono immagini imbarazzanti per la Casa Bianca e per il Presidente Joe Biden, commenta l’agenzia di stampa francese, Agence France-Presse. Sui social sono apparsi, infatti, i video dei combattenti Talebani che sfilano sui veicoli corazzati fabbricati dagli Stati Uniti, brandiscono armi da fuoco fabbricate negli Usa e impiegano elicotteri Black Hawk. Non solo: nelle immagini circolati sui social si vedono i combattenti Talebani mentre imbracciano fucili d’assalto M4 e M18 e armi da cecchino M24, mentre guidano gli iconici Humvee statunitensi e, in un video, sembrano addirittura indossare uniformi tattiche delle forze speciali. Non bastava, dunque, l’umiliazione di aver lasciato l’Afghanistan in maniera così confusa e caotica dopo 20 anni e miliardi di dollari buttati al vento: abbandonando gli afghani al loro destino, in questa maniera e con queste modalità, l’amministrazione Biden ha fatto un enorme regalo ai talebani anche in termini di attrezzature e armamenti. “Non abbiamo un quadro completo, ovviamente, di dove sia finito ogni articolo e materiale della Difesa. Ma certamente, una buona parte di esso è caduto nelle mani dei talebani”, ha ammesso il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan. I repubblicani attaccano il Presidente Joe Biden: “Grazie al ritiro fallito di Biden, i talebani sono oggi meglio equipaggiati di quanto non lo siano mai stati”, ha affermato la presidente nazionale repubblicana, Ronna McDaniel. Secondo i dati ufficiali, negli ultimi anni l’esercito americano ha fornito all’esercito afghano più di 7.000 mitragliatrici, 4.700 Humvee e 20.000 granate. Gli afghani hanno ricevuto anche artiglieria e droni da ricognizione da Washington, oltre a più di 200 aerei. Buona parte di questo equipaggiamento ora è finita nelle mani del regime dei talebani.

Ai Talebani anche dispositivi di riconoscimento biometrico. Non solo armi: come riportato da The Intercept, i talebani hanno anche sequestrato dispositivi biometrici militari statunitensi che potrebbero aiutarli nel processo di identificazione degli afghani che hanno assistito le forze della coalizione internazionale. Secondo un funzionario del Joint Special Operations Command e tre ex militari statunitensi, i dispositivi, noti come Hiide, sono stati sequestrati la scorsa settimana durante l’offensiva. I dispositivi Hiide contengono dati biometrici identificativi come scansioni dell’iride e impronte digitali, nonché informazioni biografiche e vengono utilizzati per accedere a grandi database centralizzati. Non è noto, al momento, quanto sia stato compromesso il database biometrico dell’esercito americano inerente la popolazione afghana. L’unica speranza è che i talebani possano non avere – tutti – gli strumenti necessari per poter procedere con l’identificazione. Come sottolinea The Intercept, l’esercito americano ha utilizzato a lungo i dispositivi Hide nella guerra globale al terrorismo e ha utilizzato la biometria per identificare Osama bin Laden durante il raid del 2011 nel suo nascondiglio pakistano. Secondo la giornalista investigativa Annie Jacobsen, il Pentagono aveva l’obiettivo di raccogliere dati biometrici sull’80% della popolazione afghana per individuare potenziali terroristi e criminali. Una notizia che getta ulteriore imbarazzo sull’amministrazione Biden.

Marco Ventura per “Il Messaggero” il 31 agosto 2021. Si vestono ormai come i marines, con mimetiche da paura, fantascientifici visori notturni e futuristici fucili d'assalto, e si fanno un vanto di starsene accoccolati in cima ai veicoli blindati, agli Humvee corazzati americani da 140mila dollari l'uno, mostrando per le strade di Kabul e delle altre città afghane il meglio dell'arsenale a stelle e strisce appena razziato. Sono la versione moderna dei guerriglieri talebani, un tempo esercito arrangiato di contadini e commercianti in sandali e camici tradizionali, oggi strutturati e avviati a diventare una compagine professionale: le unità d'élite 313 Badri Battalion. Forse il tentativo di creare una rete di commandos perfettamente attrezzati, forgiati da molte guerre e finalmente disciplinati e inquadrati in una forza che rischia di far impallidire i pasdaran iraniani. Immagini che i miliziani postano sui social proprio come i marines, icone e cartoline del nuovo ordine dei Mullah. Gli studenti coranici trasfigurati dalla vittoria in incursori votati alla diffusione della sharia. L'implosione dell'esercito afghano foraggiato dall'Occidente e il conseguente precipitoso ritiro Usa da Kabul, costringono ora il Pentagono a fare l'inventario di tutte le armi che non sono state distrutte (nella speranza che fossero impiegate contro i Talebani) e sono quindi finite nelle mani dei vincitori o nei Paesi vicini (in particolare nelle ex Repubbliche sovietiche), oppure nel mercato nero. Ovvio che non tutto si può facilmente utilizzare. Tra il 2013 e il 2016 gli Stati Uniti hanno consegnato ai governativi afghani più di 600mila armi leggere: fucili d'assalto M16 e M4, circa 80mila veicoli, più tantissimi visori notturni, radio, addirittura dispositivi biometrici che oggi paiono in grado di identificare gli afghani collaborazionisti. E ancora, tra 2017 e 2019: 7mila mitragliatori, 4.700 Humvees e più di 20mila granate stando alle principali fonti Usa. E 18 milioni di munizioni, oltre 42mila pick-up Ford Rangers e 1.000 veicoli-scudo contro le trappole esplosive disposte a bordo strada al passaggio dei convogli alleati. E i gioielli dell'arsenale: 23 aerei leggeri d'attacco A-29 Embraer Super Tucano, 4 Hercules C-130 da trasporto, 38 Cessna e un intero parco elicotteri (33 Mi-17 di fabbricazione russa e design sovietico, 43 leggeri americani MD530 e ben 33 UH-60 Black Hawk da combattimento). Come fare a capire quanti velivoli siano realmente nella disponibilità dei Talebani? Semplice: tramite i satelliti che guardano i 9 aeroporti militari conquistati dagli studenti coranici, compresi Herat, Khost, Kunduz e Mazar-i-Sharif. Ecco allora a Kandahar, 6 giorni dopo la riconquista, risultare 5 velivoli tra cui 2 M-17 e 2 Black Hawks, ma il 16 luglio ce n'erano 16, tra cui 9 Black Hawks. Dove sono finiti gli altri? Secondo anonimi esperti indiani, attentissimi alle vicende afghane per paura di nuove minacce al Kashmir, alcuni sono parcheggiati sulla pista uzbeka di Termez, aerei ed elicotteri. Quelli rimasti in Afghanistan non sono sempre pronti all'uso. Gli americani presumibilmente li hanno smantellati almeno in parte, oppure li hanno distrutti con raid e droni. Ma il Pentagono ammette di non avere un inventario esatto della Santabarbara residua afghana di provenienza Usa. E poi c'è il capitale umano. Secondo alcuni analisti, i Talebani potrebbero costringere piloti formati dalle forze alleate su aerei e elicotteri da combattimento a pilotarli sotto minaccia, sotto le insegne dei Mullah. All'inverso, nel Regno Unito c'è chi propone di inquadrare centinaia di elementi delle forze speciali afghane addestrati in questi anni e fuggiti dall'Afghanistan col ponte aereo di questi giorni, creando un reggimento di Sua Maestà sulla falsariga della leggendaria Brigata Gurkha reclutata due secoli orsono, forte di 4mila soldati nepalesi.

Dagotraduzione dall’Independent il 31 agosto 2021. L’account (non verificato) Twitter Talib Times, che sostiene di rilasciare «notizie ufficiali» dall’Emirato islamico in Afghanistan, ha rilasciato una serie di video in cui si vedono i talebani sorvolare i cieli dell’Afghanistan a bordo degli elicotteri statunitensi Black Hawk. Ad uno degli elicotteri è appeso un uomo, impiccato. Secondo alcune stime, dopo che gli americani hanno abbandonato le loro armi in Afghanistan, gli estremisti possiedono più elicotteri Black Hawk dell’85% del mondo. «La nostra aeronautica! In questo momento, gli elicotteri dell'aeronautica dell'Emirato Islamico stanno sorvolando la città di Kandahar e pattugliano la città», si legge nel tweet. Solo qualche giorno fa era circolato un video in cui i talebani sembravano “testare” gli elicotteri. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha affermato che gli Stati Uniti non hanno un «quadro completo» dei materiali finiti nelle mani dei talebani. «Quei Black Hawk non sono stati dati ai talebani. Sono stati dati alle forze di sicurezza nazionali afgane per potersi difendere su specifica richiesta del presidente [Ashraf] Ghani, che è venuto allo Studio Ovale e ha chiesto, tra le altre cose, capacità aeree aggiuntive», ha detto Sullivan in una conferenza stampa. Mentre l'amministrazione Biden valuta la quantità di equipaggiamento rimasto in Afghanistan, i talebani hanno trollato gli Stati Uniti posando con uniformi americane e attrezzature high-tech. Secondo il rapporto trimestrale dell'ispettore generale per la ricostruzione dell'Afghanistan, l'aeronautica afghana operava con 167 velivoli "utilizzabili/nel paese" fino a giugno. In questa cifra sono compresi: 33 Black Hawk, tre aerei C-130 Hercules, 23 aerei da attacco leggero A-19, 33 aerei AC-208, 43 elicotteri MD-530 e 32 elicotteri Mi-17. L' "inventario totale" è ancora più cospicuo: 211 velivoli totali, tra cui 45 elicotteri Black Hawk. Il membro del Congresso Jim Banks, un ex ufficiale che si occupava di attrezzatura militare durante la guerra in Afghanistan, ha detto che la frettolosa ritirata degli Stati Uniti ha lasciato 85 miliardi di dollari di attrezzature ai talebani. «Ho acquistato equipaggiamento militare americano per armare gli afghani - puoi immaginare quanto trovo vergognoso che oggi tutto quell'equipaggiamento sia caduto nelle mani dei talebani», ha detto in una conferenza stampa. «I talebani ora hanno più elicotteri Black Hawk dell'85 per cento dei paesi del mondo».

La Fuga dai Talebani. I documenti distrutti: Usa via da Kabul. E Ghani fugge via. Lorenzo Vita il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Secondo le prime indiscrezioni, il personale diplomatico sarà completamente evacuato entro 72 ore, in accordo con i talebani. Sono ore drammatiche negli uffici dell'ambasciata degli Stati Uniti a Kabul. Da quando venerdì è arrivato il primo ordine di distruggere i documenti sensibili, il lavoro è diventato frenetico. E la paura dell'arrivo dei talebani ha iniziato a dilagare per i corridoi di un edificio che non è solo una rappresentanza diplomatica, ma un simbolo. Come lo era stato l'ambasciata a Teheran durante la rivoluzione di Khomeini o come lo fu a Saigon nel 1975. Gli elicotteri sono arrivati alle prime luci dell'alba, mentre una parte del personale ha già lasciato l'edificio nella notte a bordo di veicoli blindati in direzione dell'aeroporto.

I talebani premono mentre Ghani lascia il Paese. Il rappresentante speciale per l'Afghanistan, Zalmay Khalilzad, avrebbe chiesto ai talebani di evitare l'ingresso a Kabul almeno fino a che tutti i cittadini statunitensi non siano evacuati. Per adesso i guerriglieri sembrano aver accettato l'accordo. Agli "studenti coranici" non interessa entrare in massa nella capitale con il rischio di colpire un cittadino americano. Ora hanno la vittoria in pugno: commettere un errore del genere significherebbe scatenare i battaglioni di marines giunti a Kabul per proteggere i civili durante l'evacuazione. E adesso che il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha lasciato il Paese diretto in Tagikistan (e forse con destinazione finale in Russia), tutto sembra proiettato verso la vittoria delle forze dei taliban.

Le procedure per la chiusura dell'ambasciata. Per gli Stati Uniti non si tratta solo della chiusura di una rappresentanza diplomatica. L'ambasciata di Kabul è stata per venti anni il cuore della politica Usa in Afghanistan e un fondamentale centro di intelligence. Qui c'erano migliaia di persone, tra afghani e statunitensi, che lavoravano assiduamente con il governo locale, il Pentagono e l'amministrazione americana. I documenti contenuti nei server e negli scaffali di quel luogo sono di assoluta priorità per la sicurezza nazionale. Washington non vuole commettere l'errore che fece a Teheran nel 1979: per questo i funzionari hanno subito attivato la distruzione di tutti i documenti, fogli, file, di tutti i materiali sensibili, di qualsiasi cosa "possa essere utilizzata dalla propaganda". Secondo Axios, anche i desktop dei computer andranno ripuliti immediatamente. Insieme all'ambasciata, le stesse procedure saranno applicate anche alla residenza dell'ambasciatore e ai luoghi frequentati abitualmente dal personale, dai militari e dai giornalisti.

Già ammainata la bandiera Usa. Tutto il personale dell'ambasciata potrebbe lasciare l'Afghanistan nelle prossime ore. Si pensava di avere tempo fino a martedì, ma le cose sembra che abbiano avuto una forte accelerazione non appena Ghani ha lasciato il Paese, tanto che la Cnn racconta che la bandiera a stelle e strisce sarebbe già stata ammainata e consegnata al rappresentante diplomatico Usa. Il piano di evacuazione prevede che i primi a lasciare gli uffici siano i dipendenti dell'ambasciata, poi i cittadini americani invitati ad abbandonare il Paese e infine le persone con visto speciale (Siv). Gli ultimi a essere esfiltrati sono gli uomini del Diplomatic Security Service e l'ambasciatore. È suo compito proteggere la bandiera e portarla in un luogo sicuro, o farla rientrare direttamente negli Stati Uniti. Molti sono già presenti all'aeroporto, dove arrivano notizie di un incendio e di alcuni spari: l'ambasciata americana, secondo fonti Usa, avrebbe chiesto ai suoi concittadini di prestare particolare attenzione a causa della rapida evoluzione degli eventi. Il caos dilaga: la presenza statunitense rischia già di essere un ricordo.

Ex presidente afgano Ghani parlerà alla nazione. (ANSA-AFP il 18 agosto 2021) L'ex presidente afghano Ashraf Ghani ha annunciato che "parlerà alla nazione". 

Ex presidente afgano Ghani è negli Emirati Arabi Uniti. (ANSA il 18 agosto 2021) L'ex presidente afgano Ashraf Ghani e la sua famiglia sono negli Emirati Arabi Uniti. Lo ha riferito il ministero degli Esteri emiratino, citato da Sky News. "Il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale degli Emirati Arabi Uniti può confermare che gli Emirati Arabi Uniti hanno accolto il presidente Ashraf Ghani e la sua famiglia nel paese per motivi umanitari", si legge in una dichiarazione del ministero. (ANSA).

GHANI SI È PORTATO 169 MILIONI AD ABU DHABI. DA leggo.it il 18 agosto 2021. Ashraf Ghani, il presidente afgano sostenuto dagli Usa e riconosciuto dalla comunità internazionale, fuggito da Kabul nei giorni scorsi di fronte all'avanzata dei Talebani, ha lasciato il Paese portando con sé l'equivalente di 169 milioni di dollari sottratti alle casse dello Stato. Lo rivela l'ambasciatore dell'Afghanistan in Tagikistan, Mohammad Zahir Aghbar, citato da Dushanbe da vari media internazionali tra cui la Bbc. Il diplomatico ha accusato Ghani - che ha confermato oggi stesso di essere riparato con la famiglia ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti - d'aver compiuto un atto di «tradimento della patria».

Afghanistan, l'ex presidente Ghani si trova negli Emirati. L'ex presidente afgano Ashraf Ghani e la sua famiglia sono negli Emirati Arabi Uniti. Lo ha riferito il ministero degli Esteri emiratino, citato da Sky News. «Il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale degli Emirati Arabi Uniti può confermare che gli Emirati Arabi Uniti hanno accolto il presidente Ashraf Ghani e la sua famiglia nel paese per motivi umanitari», si legge in una dichiarazione del ministero.

Toni Capuozzo, un video sconcertante: "Giura fedeltà ai talebani", ecco che cos'è l'Afghanistan.  Libero Quotidiano il 21 agosto 2021. "Voltagabbana e no". Chi lo è tra gli afghani lo rivela con un post pubblicato sul suo profilo Twitter Toni Capuozzo. Di sicuro tra i "voltagabbana" c'è "il fratello dell'ex presidente afghano Ghani, esule dorato", il quale, scrive il giornalista di Mediaset, "ha giurato fedeltà ai talebani". Come dimostra il video che Capuozzo ha allegato. Tra quello che voltagabbana non sono, si contano i "tremiladuecento militari del vecchio esercito" afghano che "si sono uniti ai tagiki di Ahmad Massoud, in Panshir". Sono loro il primo avamposto della resistenza al regime talebano. L'ex presidente Ghani invece è fuggito negli Emirati Arabi Uniti. “Mi sto attualmente consultando per tornare in Afghanistan e combattere per la sovranità dell'Afghanistan. Tornerò presto", ha promesso. "Non volevo che da Kabul iniziasse un bagno di sangue come in Siria o nello Yemen, così ho deciso di andare via, di lasciare Kabul. Se fossi rimasto presidente dell'Afghanistan - ha cercato di giustificarsi - la gente sarebbe stata impiccata e questo sarebbe stato un disastro terribile nella nostra storia". E ancora: "Non ho paura di una morte onorevole e disonorare l'Afghanistan non era accettabile per me, ma ho dovuto farlo. Sono andato via dall'Afghanistan per evitare un bagno di sangue e la distruzione". Difficile credergli. 

Mariam Ghani, vita a Brooklyn fra loft e arte della figlia dell’ex presidente afghano. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 22 agosto 2021. La figlia dell’ex presidente afghano fuggito (con 169 milioni) è un’artista e regista hipster, il figlio Tarek insegna economia alla Washington University di St. Louis. Mentre i talebani prendevano Kabul e il presidente Ashraf Ghani lasciava l’Afghanistan, i suoi due figli Mariam e Tarek, che vivono negli Stati Uniti, hanno rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti americani sui 169 milioni di dollari che il padre avrebbe portato via «con quattro auto e un elicottero», secondo l’ambasciata russa di Kabul — un’accusa che lui ha già definito «una bugia». I giornalisti del New York Post sono andati a bussare a casa di Mariam, 43 anni, una artista e regista le cui opere sono andate in mostra al Guggenheim, al Moma e alla Tate Modern e i cui film sono stati proiettati anche alla Berlinale. La figlia dell’ex presidente vive in un lussuoso loft di Clinton Hill, a Brooklyn, e in una intervista del 2015 nel suo appartamento hipster, spiegava che il suo stile di vita rispecchiava «tutti i cliché di Brooklyn». In questi giorni Mariam Ghani si è espressa su Instagram, definendosi «arrabbiata e spaventata per la mia famiglia, i miei amici e colleghi lasciati indietro in Afghanistan» e incoraggiando i cittadini americani a fare pressione sui politici per accelerare i visti di coloro che cercano di fuggire dal Paese. Ha anche ringraziato tutti coloro che «hanno espresso solidarietà» e ha consigliato come e a chi fare donazioni se si vogliono aiutare i rifugiati, gli sfollati all’interno del Paese e i volontari. Mariam ha un fratello minore, Tarek, 39 anni, che insegna Economia all’Università di Washington a St. Louis e ha collaborato con importanti think tank americani come Brookings Institution e International Crisis Group. Secondo un suo profilo diffuso dal network americano C-Span sarebbe stato consigliere di politica estera dell’ex candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca e attuale ministro dei Trasporti Pete Buttigieg. Sua moglie Elizabeth Pearson, secondo i tabloid, lavora per Elizabeth Warren, un’altra ex candidata alla nomination democratica che poi fu vinta da Joe Biden nelle ultime elezioni del 2020. Sia Mariam che Tarek sono nati in America e cresciuti soprattutto nel Maryland , la madre è la ex first Lady Rula Ghani, libanese. Mentre il padre lavorava per il governo afghano dal 2002 in poi, i suoi figli studiavano in prestigiose università americane, lei alla New York University, lui a Stanford e Berkeley. Dopo la fuga da Kabul, Ashraf Ghani ha ricevuto asilo politico per motivi umanitari negli Emirati Arabi Uniti, ma in Afghanistan resta suo fratello Hashmat, uomo d’affari, che è stato intervistato da Al Jazeera nella capitale. Secondo la rete d’informazione del Qatar, Hashmat non solo ha dichiarato di aver accettato la conquista del Paese da parte dei talebani come «una necessità» dato il ritiro delle forze straniere, ma sta cercando anche di incoraggiare investitori ed ex funzionari a non abbandonare il Paese, «chiedendo la formazione di un governo inclusivo». Viviana Mazza

Afghanistan, chi è Ashraf Ghani, il presidente fuggito in Uzbekistan. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2021. Il presidente Ashraf Ghani rischiava di venire ucciso: accusato di corruzione, la sua partenza era la condizione per evitare il bagno di sangue a Kabul. Ben pochi afghani rimpiangeranno il loro presidente appena fuggito in Uzbekistan. Un aristocratico, più apprezzato nelle accademie americane che conosciuto in patria, lontano dalla sua gente, a tratti supponente, tanto da lasciare interdetti spesso anche i suoi interlocutori nella coalizione alleata che sino a poco fa sosteneva il suo governo. Ashraf Ghani non aveva scampo: doveva scappare e l’ha fatto anche molto tardi. Il rischio che finisse ucciso come Najibullah era molto reale. A Kabul i più anziani ricordano bene l’ex presidente amico dei sovietici, che nel settembre 1996 i talebani andarono a scovare nel quartier generale delle Nazioni Unite, quindi lo castrarono e impiccarono ad un palo della luce con banconote da un dollaro infilate in bocca e nelle tasche dei pantaloni insanguinati. No, non aveva alcuna alternativa, se non fuggire. Ormai la sua popolarità era ridotta al lumicino. Lo sfascio dell’esercito è anche colpa sua. L’accusa maggiore è di non essere riuscito a controllare la corruzione imperante in tutte le istituzioni statali. La sua stessa guardia del corpo era diventata inaffidabile. «Chi mai sarebbe pronto a morire per Ghani?», si chiedevano a Kabul. In verità nessuno. Intere province si sono arrese senza sparare un colpo. Ghani ha cercato di fare imprigionare gli ufficiali che si sono arresi ai talebani in cambio del salvacondotto per la salvezza. Tutto inutile, era un fiume in piena. I suoi appelli sono diventati patetici. «Non preoccupatevi, miei concittadini, mi occuperò io dell’ordine pubblico!», ripeteva sui media locali. Ma intanto negava la realtà. I talebani avanzavano, i social media mostravano le città cadute una per uno con video e foto. Ma lui ripeteva che andava tutto bene e le forze dell’ordine stavano riorganizzandosi. Ad un certo punto le sue parole sono diventate preoccupanti: non ci si poteva fidare, le sue menzogne erano lo specchio evidente del collasso. «Ghani rifiuta di ammettere la realtà. Sembra un autistico che non ascolta nessuno. Un problema per tutti», sosteneva pochi giorni fa Torek Farhadi, un ex consigliere presidenziale, che, come tanti, ha preso le distanze dal governo. Alla fine un isolato, prigioniero delle sue confusioni. I talebani hanno sempre sostenuto che precondizione di qualsiasi transizione ordinata sarebbe stata l’abdicazione di Ghani. Ora il gioco è su altri tavoli. La sua partenza pare evitare il bagno di sangue a Kabul.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. I palazzotti dipinti di rosso con le torri da castello medievale, le colonnine neoclassiche a circondare le piscine, le statue dorate a far da guardia assieme ai miliziani. Queste ville pacchiane stimolano l'invidia e l'umorismo nero degli afghani che hanno storpiato il nome del quartiere di Kabul da Sherpur a Sher-Chur, significa leoni da saccheggio. Signori della guerra che hanno tirato le loro zampate quando c'era da combattere i talebani e da combattersi tra di loro, diventati rappresentanti del potere ufficiale spalleggiato dagli americani: come Mohammed Qasim Fahim, ministro della Difesa e poi vice di Hamid Karzai, il primo inquilino della residenza presidenziale abbandonata da Ashraf Ghani. Prima di morire (morte naturale, a sorpresa per gli afghani) Fahim ha spartito a prezzi stracciati i terreni di proprietà del ministero della Difesa, a Sherpur sorgeva una vecchia base militare dei tempi della seconda guerra contro i britannici. Cattivo gusto architettonico in stile narco-mafie e pessimi comportamenti. Dal suo salone rivestito in marmo blu Rashid Dostum se ne è uscito ubriaco una notte di tredici anni fa per invadere con cinquanta uomini armati la villa di un vicino che ha raccontato di essere stato torturato dal signore della guerra di origini uzbeke, anche lui passato sulla poltrona di vicepresidente. All'inizio di agosto Dostum è volato di corsa dalla Turchia - dove risiedeva da mesi per curarsi - convinto da Ghani a organizzare la resistenza contro l'avanzata dei talebani, come una ventina di anni fa con l'Alleanza del Nord, quando era passato da comandante addestrato dai sovietici a risorsa della Cia e avanguardia dell'offensiva americana, fino a essere accusato del massacro di centinaia di prigionieri ammassati e asfissiati dentro ai container. Nel nord dell'Afghanistan che lo ha sempre sostenuto, i talebani ne hanno occupato la villa fortino, si sono stravaccati e filmati sui suoi divani di raso - massima umiliazione - e per ora il Maresciallo (onorificenza a vita) sembra fuori dai giochi del Grande Gioco. Che sono movimentati - oltre dai fondamentalisti vincitori - da Karzai, Gulbuddin Hekmatyar e Abdullah Abdullah, che è stato assistente di Ahmad Shah Massud. Un triumvirato per la transizione formato da vecchi nemici. L'ex presidente rappresenta un potente clan pashtun (l'etnia maggioritaria nel Paese) e ha protetto il fratellastro Ahmad Wali fino a quando non è stato ammazzato da una guardia del corpo. Più giovane di quattro anni, era il Padrino di Kandahar, capace di farsi pagare dalla Cia e da tutti gli altri spremibili in queste province del Sud: edilizia (aveva arraffato quattromila ettari di proprietà dello Stato), traffici verso il Pakistan, licenze per i contractors da affiancare ai soldati occidentali. Già nel 2017 Hekmatyar parlava di intesa pacifica con i talebani, dopo essere tornato - grazie al perdono elargito dal governo - nella città che aveva demolito a colpi di artiglieria durante la guerra civile, lo chiamano «il macellaio di Kabul», il suo gruppo avrebbe distrutto più case e ammazzato più civili di tutti gli altri. Alleato anche di Al Qaeda, le organizzazioni per i diritti umani accusano lui e i suoi di aver eliminato intellettuali e avversari politici, di aver tirato acido alle donne per strada, di aver gestito in Pakistan prigioni per le torture. Adesso si è preso un posto al tavolo che deciderà il futuro degli afghani e delle afghane.