Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’ACCOGLIENZA

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Muri.

Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Quei razzisti come…

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come gli svizzeri.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i polacchi.

Quei razzisti come i lussemburghesi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i bulgari.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i somali.

Quei razzisti come gli etiopi.

Quei razzisti come i liberiani.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i Burkinabè.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come i sudsudanesi.

Quei razzisti come i giordani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i siriani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli emiratini.

Quei razzisti come i dubaiani.

Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Quei razzisti come gli yemeniti.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come gli azeri.

Quei razzisti come i russi.

 

INDICE TERZA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

L’11 settembre 2001.

Il Complotto.

Le Vittime.

Il Ricordo.

La Cronaca di un’Infamia.

Il Ritiro della Vergogna.

La presa del Potere dei Talebani.

Media e regime.

Il fardello della vergogna.

Un esercito venduto.

Il costo della democrazia esportata.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

L’Economia afgana.

Il Governo Talebano.

Chi sono i talebani.

Chi comanda tra i Talebani.

La Legge Talebana.

La Religione Talebana.

La ricchezza talebana.

Gli amici dei Talebani.

Gli Anti Talebani.

La censura politicamente corretta.

I bambini Afgani.

Gli Lgbtq afghani.

Le donne afgane.

I Terroristi afgani.

I Profughi afgani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i giapponesi.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come gli australiani. 

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i brasiliani. 

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Gli olocausti comunisti.

E allora le foibe?

Il Genocidio degli armeni.

Il Genocidio degli Uiguri.

La Shoah dei Rom.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Chi comanda sul mare.

L’Esercito d’Invasione.

La Genesi di un'invasione.

Quelli che …lo Ius Soli.

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Due “Porti”, due Misure.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Tunisia?

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quei razzisti come i greci.

Le prigioni dei migranti nel cuore di Lesbo, diventata il limbo d’Europa. “Mai più”, giurò la Ue dopo il rogo della collina lager di Moira. E invece un anno dopo non è cambiato niente: profughi in attesa, rimpatri illegali. E carcere. Francesca Mannocchi La Repubblica l'8 dicembre 2021. Sul muro che circonda la collina di Moria campeggiano ancora due scritte: Welcome to Europe e Human rights graveyard (Benvenuti in Europa, Cimitero dei diritti umani). È la sintesi, spietata, di cosa è stato per migliaia di persone vivere nell’hotspot di Moria, Lesbo, fino all’otto settembre dello scorso anno quando un incendio ha distrutto tutto. Oggi il terreno intorno alla struttura è deserto, non ci sono più tende, né le baracche costruite con pezzi di alberi e plastica, sono vuoti i container, la guardiola, la torretta che sovrasta il cancello, così come l’area che era stata adibita a prigione per tutti i richiedenti asilo la cui richiesta era stata respinta e perciò destinati al rimpatrio.

Gianluca Perino per "il Messaggero" il 20 settembre 2021. «I greci ci hanno picchiato, tolto i telefonini e l'acqua. Poi hanno staccato il motore dal gommone, lo hanno buttato via e ci hanno spinto al largo, alla deriva». Mentre parla, Samir mima i calci e i pugni ricevuti. È seduto, assieme ad un'altra ventina di migranti, sulla parte posteriore di una vedetta della Guardia Costiera turca. Hanno pagato 400 dollari a testa a dei mercanti di uomini per arrivare da Smirne fino alle coste greche. Un viaggio non impossibile e decisivo, perché poi si prosegue via terra verso il nord Europa, verso il sogno della Germania, della Svezia o addirittura dell'Inghilterra. Sono siriani, somali, eritrei, con loro anche un ragazzo che viene da Gibuti. Ma il progetto di questi disperati, la scorsa notte, si è infranto contro il muro greco. «Ci riproveremo», dicono. E in realtà qualcuno confessa di essere già al secondo o al terzo tentativo. Li hanno soccorsi i militari di Ankara a quaranta chilometri al largo di Cesme, una cittadina nel sud ovest del paese che si affaccia sul mar Egeo. Qui ci sono tanti hotel di lusso, spiagge attrezzate con tutti i comfort. E, malgrado sia già settembre inoltrato, è pieno di turisti. Che non percepiscono nemmeno lontanamente quello che succede, ogni giorno, nel mare di questo splendido angolo di Turchia.

LA NOTTE Lontano, al largo, quasi sempre di notte, va in scena infatti quella che è diventata una vera e propria battaglia del mare. Il copione, drammatico, sempre lo stesso: i migranti provano ad arrivare in Grecia, ma la Guardia costiera di Atene li respinge, utilizzando i metodi che Samir, e tanti altri come lui, raccontano sempre più frequentemente. E il rischio che prima o poi ci scappi una strage è alto, soprattutto nei mesi in cui le condizioni meteo peggiorano sensibilmente. Lo sanno bene gli uomini della Guardia Costiera turca, che ogni giorno intervengono per salvare i profughi che Atene rispedisce nelle loro acque. Ankara ha messo in campo uomini e mezzi in un numero sempre crescente. Le vedette, tra quelle molto veloci e quelle più capienti, sono più di una ventina soltanto per quanto riguarda l'aera di Smirne. 

L'IRRITAZIONE DI ANKARA C'è forte irritazione, da parte turca, per come la Grecia sta gestendo il dramma dei migranti al largo delle coste. Grecia che, da parte sua, ha sempre smentito di utilizzare metodi così estremi, anche se le testimonianze degli immigrati e degli ufficiali turchi che intervengono in mare raccontano tutta un'altra storia. Non solo. I respingimenti in atto da qualche tempo a questa parte dell'Egeo sono stati documentati anche dalla Commissione per i diritti umani del Consiglio d'Europa e dall'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Si tratta di una pratica illegale ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati e del diritto internazionale, ma per il momento, di fatto, nessuno è ancora intervenuto a mettere un po' di ordine in questa vicenda drammatica dal punto di vista umanitario ma anche complessa dal punto di vista più politico. 

IL CASO DI LESBO Le storie che arrivano da questa striscia di mare, nemmeno troppo lontana dall'Italia, sono spesso drammatiche. E raramente a lieto fine. Il comandante dei gruppi di intervento della Guardia Costiera, che preferisce restare anonimo per motivi di sicurezza, racconta che una volta sono dovuti intervenire per salvare un gruppo di migranti che era sbarcato sulle coste dell'isola greca di Lesbo. «Erano riusciti ad entrare in un bosco - dice - ma qui sono stati catturati dalla polizia greca, che dopo averli picchiati ed averli privati di telefonini e giubbotti salvagente, li ha rimessi su dei gommoni e rispediti al largo nelle nostre acque». Con loro c'era anche una donna incinta di otto mesi. «Purtroppo due persone non ce l'hanno fatta - racconta ancora il comandante - perché, come tanti altri che si imbarcano dall'Africa, non sapevano nuotare. Per fortuna, però, siamo riusciti a portare velocemente in ospedale la ragazza: non era in buone condizioni, ma i medici l'hanno fatta partorire in anticipo e, alla fine, lei e il bambino sono stati bene».

I NUMERI Lo sforzo messo in campo dalla Guardia Costiera turca nell'ultimo periodo è importante. Soltanto nel 2021, i dati sono riferiti fino al 15 settembre, hanno portato in salvo 8.423 migranti che erano alla deriva. Non solo. Nella loro attività di search and rescue sono riusciti anche ad arrestare oltre quaranta mercanti di uomini. Ma l'impressione è che questa battaglia sarà ancora lunga. «Io e i miei uomini - spiega il comandante - siamo allerta 24 ore su 24. È un impegno duro da portare avanti ma siamo orgogliosi, perché riusciamo a salvare ogni giorno decine di vite».

(ANSA il 21 agosto 2021) - La Grecia ha eretto una barriera dotata di un sistema di sorveglianza lungo un tratto di 40 chilometri del suo confine con la Turchia per fermare un'eventuale ondata di migranti dall'Afghanistan. Lo riporta la Bbc. "Non possiamo aspettare passivamente il possibile impatto", ha detto ieri il ministro della Protezione dei cittadini, Michalis Chrisochoidis, durante una visita nella regione di Evros: "I nostri confini rimarranno inviolabili". Le dichiarazioni di Chrisochoidis seguono i commenti del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, secondo il quale un forte aumento della popolazione che lascia l'Afghanistan potrebbe rappresentare "una seria sfida per tutti". Secondo Erdogan "una nuova ondata di migrazione è inevitabile se le misure necessarie non vengono prese in Afghanistan e in Iran". Da parte sua, Chrisochoidis ha osservato che la crisi afgana ha creato nuove "possibilità per i flussi di migranti" in Europa.

Un muro d’acciaio e cannoni sonori: così la Grecia blinda la frontiera per tenere fuori i migranti. Una nuova barriera è in costruzione per respingere i flussi dalla Turchia. Dove l’anno scorso Erdogan fece ammassare migliaia di profughi per premere su Bruxelles. Elena Kaniadakis su L'Espresso il 22 luglio 2021. «Lì comincia l’Asia»: Giorgos Chalpakis indica una macchia grigia nella boscaglia verde di fronte a lui. Oltre gli alberi, nella cappa di calore estivo che pesa sulla Tracia, si intravedono gli edifici bianchi dei villaggi turchi. «Alle mie spalle invece ci sono solo campi, campi a perdita d’occhio fino alla Bulgaria: ma con una bandiera greca ben piantata in terra» puntualizza il signor Giorgos. Osservata più da vicino, la macchia grigia non è altro che una barriera in acciaio, alta cinque metri, piantata su fondamenta in calcestruzzo lungo il corso del fiume Evros, Maritsa per i bulgari, Meriç per i turchi, che segna il confine tra Grecia e Turchia, prima di tuffarsi nell’Egeo. Un nuovo muro, lungo 27 chilometri, è in costruzione nella regione per bloccare i flussi migratori e difendere i confini dopo gli episodi del marzo dell’anno scorso, quando Erdogan fece ammassare alla frontiera migliaia di profughi per fare pressione sull’Europa. In questo confine militarizzato, dove la polizia, l’esercito e gli agenti di Frontex pattugliano i campi e la boscaglia, le mucche al pascolo e le anatre che popolano il fiume sono le uniche a muoversi liberamente all’ombra del muro. L’anno scorso, ufficialmente, 46 migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la regione: la maggior parte è annegata nell’Evros. Lungo la strada sterrata che conduce all’abitato di Poros, dove è in costruzione un nuovo segmento della barriera, i veicoli di Frontex danno il cambio ai trattori degli abitanti. Nel paese accanto, Feres, un cartello sbiadito ricorda in altro modo che quel lembo di terra è ancora Europa: la chiesa bizantina, unico edificio a rompere la monotonia delle case a un piano con i tetti di tegole, è stata restaurata – si legge – grazie ai fondi dell’Unione europea. Chi, come Chalpakis, da Feres non se ne è andato, lavora nei campi di mais, cocomeri e meloni. L’inquietudine che ha afferrato la comunità nel marzo dell’anno scorso non c’è più, ma la diffidenza rimane. «I visitatori che fanno domande sono spie delle Ong», avverte un residente all’entrata del paese. Le ronde armate per catturare i migranti sembrano a loro volta acqua passata: «Oggi c’è più polizia e ci sentiamo protetti, ma se occorre i proprietari controllano che nessuno entri nei loro campi», commenta allusivo un altro residente. Il muro è una barriera fisica, ma anche digitale: la pandemia ha offerto l’occasione per testare nuove tecnologie di sorveglianza, come telecamere a lungo raggio e cannoni sonori, dispositivi acustici capaci di riprodurre suoni insopportabili per l’orecchio umano, il cui utilizzo è stato oggetto di dibattito in ambito europeo. «Ritengo sia uno strano modo di proteggere i confini», ha commentato la commissaria per gli Affari interni Ylva Johansson. «Ma la Grecia non rischia, per questo, la procedura di infrazione». Per Chrysovalantis Gialamas, presidente dell’Unione della polizia di frontiera dell’Evros, si tratta di polemiche inutili: «Siamo abituati a manifestare la nostra presenza ai trafficanti attraverso segnali luminosi o sonori», spiega il poliziotto. Sull’efficacia del muro, non ha dubbi: «Se a Kastanies non ci fosse stata la barriera, a quest’ora avremmo dovuto affrontare problemi ben più gravi». Il paese di Kastanies, valico ufficiale tra Grecia e Turchia, è stato l’epicentro degli scontri dell’anno scorso tra esercito e migranti accalcati lungo la frontiera. Dalla zona, nelle giornate più limpide, si distinguono chiaramente i minareti di Edirne, simbolo di questo territorio conteso nei secoli: un tempo capitale dell’Impero ottomano, la città venne ceduta ai bulgari nel primo Novecento, poi ai greci, con il nome di Adrianopoli, e infine alla Turchia. Da qui parte la maggior parte dei migranti diretti in Europa, con l’obiettivo di raggiungere presto Salonicco, la prima grande città lungo il cammino: più si rimane vicino alla frontiera, infatti, più il rischio di essere espulsi aumenta. Secondo Amnesty International almeno mille persone, l’anno scorso, sarebbero state respinte illegalmente dalla regione dell’Evros in Turchia. «Documentiamo i respingimenti in Grecia dal 2013», spiega Jennifer Foster, ricercatrice di Amnesty. «Ma oggi appare più chiaro il coordinamento con cui le autorità e persone in abiti civili, non identificate, respingono in maniera sistematica i migranti, alcuni dei quali hanno perfino i documenti che attestano il loro status di rifugiati». A mezz’ora di macchina a sud di Kastanies, lungo il confine con la Turchia, si incontra il paese di Didymoteicho. Accanto al sito di una moschea ottomana in rovina, tra le più antiche presenti in Europa, si trova la stazione degli autobus. È qui che nel 2016 Fady, un rifugiato siriano residente in Germania, era giunto alla ricerca del fratello di 11 anni, scomparso nell’Evros dopo avere attraversato il confine con l’obiettivo di raggiungerlo. Fady stava mostrando ai passanti la foto del fratello nella speranza che qualcuno lo riconoscesse, quando degli agenti di polizia lo hanno avvicinato nel piazzale: da quel momento, nel giro di poche ore, Fady è stato arrestato, detenuto, privato dei documenti di identità, a nulla sono servite le sue proteste in un tedesco stentato, e respinto a forza in Turchia assieme ad altri migranti. È l’inizio di un incubo durato tre anni, durante i quali Fady ha lottato contro la burocrazia del consolato tedesco a Istanbul per riottenere i suoi documenti, ha iniziato ad avere problemi di cuore e per 13 volte ha tentato di raggiungere clandestinamente l’Europa, finché, nel 2019, è riuscito a riprendere possesso dei documenti e a stabilirsi di nuovo in Germania. «Credevo che quel giorno non sarebbe mai arrivato», racconta Fady. «Ma anche quando ho avuto la carta di identità tra le mani, riuscivo a pensare a una sola cosa: trovare mio fratello». Il caso di Fady è il secondo, relativo ai respingimenti illegali, sottoposto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e il primo contro la Grecia. A occuparsene sono le Ong Glan e HumanRights360: «Fady è stato sia vittima di respingimento in base al diritto internazionale che espulso illegalmente in quanto residente dell’Unione europea» spiega Valentina Azarova, una degli avvocati di Glan che assiste Fady. «Il nostro obiettivo è ottenere un risarcimento per gli anni che gli sono stati sottratti, e allo stesso tempo far sì che il respingimento venga considerato l’esito di una prassi consolidata nella regione». Il ministro greco per l’Immigrazione, Notis Mitarachi, ha sempre sostenuto che la politica migratoria del Paese sia «severa ma giusta» e che la guardia costiera e la polizia operino nel rispetto delle leggi internazionali. «Le storie di respingimenti illegali sono menzogne diffuse dai trafficanti di esseri umani», sostiene Gialamas. «Molti dei poliziotti che lavorano nell’Evros discendono da famiglie greche espulse dalla Bulgaria o dalla Turchia: sappiamo bene cosa voglia dire sentirsi immigrati». Fady ricorda che gli agenti che lo hanno spinto a forza su una barca per riportarlo in Turchia avevano il volto coperto e intimavano di non guardarli. «I responsabili di queste violenze agiscono nell’impunità, ma l’Europa deve sapere cosa fanno», sostiene. Il suo caso non è unico: le Ong che monitorano la regione hanno documentato altre storie simili. «Sconsigliamo sempre di tornare nell’Evros perché è molto rischioso», spiega Natalie Gruber della Ong Josoor. «Ci siamo occupati di cinque rifugiati con la residenza in Austria o in Germania che sono stati respinti illegalmente in Turchia e abbiamo lavorato anni per permettergli di tornare in Europa. Chi viene in aiuto dei propri familiari, inoltre, corre il rischio di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Per le famiglie dei migranti dispersi, la regione dell’Evros è un buco nero nella mappa dell’Europa: «Non esistono indagini sulle sparizioni», spiega Azarova. «E i corpi trovati nel fiume dai pescatori spesso non vengono identificati perché le famiglie hanno scarso accesso a questo tipo di informazioni. Il Mediterraneo è stato definito un cimitero umano: l’Evros lo è altrettanto». Per gli abitanti di Feres, l’unico modo per avvicinarsi al fiume è ottenere un permesso per andare a caccia o lavorare nei campi. «Il nostro è solo un territorio di passaggio. Non è qui che si possono trovare le risposte a quello che sta accadendo», riflette Chalpakis studiando il confine. «Il muro fermerà queste persone? No, nessuno di noi si illude a tal punto». Da quando è stato respinto in Turchia, Fady non è più tornato nell’Evros. Il fratello, che oggi avrebbe 16 anni, risulta ancora disperso. Ogni tanto il dolore al cuore, per cui è in cura farmacologica, ritorna: «Quando il dottore in Germania mi ha visitato per la prima volta era sorpreso che un paziente della mia età avesse un problema del genere: “Cosa ti è successo?” Mi ha chiesto. Non importa con quanto impegno cerchi le parole per raccontare quello che ti hanno fatto», riflette Fady: «Certe parole, semplicemente, non esistono».

·        Quei razzisti come i maltesi.

Monica Ricci Sargentini per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2021. «Lo Stato dovrebbe assumersi la responsabilità dell'assassinio» di Daphne Caruana Galizia, la giornalista investigativa maltese uccisa con una bomba piazzata nella sua auto il 16 ottobre 2017 che invece di essere protetta è stata esposta ai suoi nemici da un governo corrotto i cui «tentacoli» sono arrivati fino ai vertici della polizia. È un giudizio pesantissimo quello contenuto nel rapporto finale dell'inchiesta pubblica condotta - dopo le pressioni del Consiglio d'Europa - da una commissione composta dagli ex presidenti del Tribunale Michael Mallia, Joseph Said Pullicino e Justice Abigail Lofaro. Nel corso degli ultimi due anni, l'indagine chiesta dalla famiglia della giornalista ha portato alla testimonianza di decine di persone, compresi investigatori, politici e giornalisti. Hanno testimoniato anche l'ex premier Joseph Muscat (dimessosi sull'onda delle proteste), l'ex capo di gabinetto Keith Schembri e l'ex ministro dell'Energia e poi del Turismo Konrad Mizzi (l'unico che ha rifiutato di rispondere in Aula). L'obiettivo era stabilire se lo Stato maltese avesse fatto tutto il possibile per proteggere la giornalista e poi perseguire i responsabili dell'omicidio. La risposta è stata un sonoro «no». Lo Stato, hanno scritto i giudici nel rapporto di 437 pagine, «ha creato un'atmosfera di impunità, generata dai più alti livelli dell'amministrazione all'interno dell'Auberge de Castille (la sede del governo maltese alla Valletta)». Caruana Galizia, uccisa a 53 anni, con i suoi articoli aveva denunciato la corruzione nel Paese e all'estero, mettendo in difficoltà sia i politici al governo che quelli all'opposizione.

·        Quei razzisti come i turchi.

La "sete" di Erdogan asciuga la Mesopotamia. Chiara Clausi il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. Per costruire 22 dighe e 19 impianti Ankara devia Tigri ed Eufrate. Con effetti catastrofici. Mentre a Baghdad le milizie sciite filo-Iran sfidano il premier Mustafa al-Kadhimi, e si rischia una nuova guerra civile, la minaccia più grande per la Mesopotamia arriva dal Nord. Il faraonico progetto della Turchia, il Great Anatolia Project, per regolare il flusso dell'Eufrate e del Tigri ha infatti effetti devastanti sul Paese. Ankara ha in programma 22 dighe e 19 centrali elettriche e ha cominciato a riempire i primi invasi. Storicamente, l'Anatolia sudorientale si trovava sulla rotta commerciale tra Oriente e Occidente. É stata una via di passaggio cruciale per molti secoli. Tuttavia i cambiamenti nelle rotte commerciali e nei metodi agricoli hanno posto fine alla sua antica importanza. Ora questa area è ritornata centrale. Ma con nuove tensioni dettate dal cambiamento climatico. Quest'anno si è registrata la peggiore siccità da un secolo nel Nord della Siria e in tutto l'Irak. Come racconta la storia di Kamel. Quattro anni fa, il torrente che attraversava il villaggio iracheno di al-Hamra si è prosciugato. Ora, «tutti gli alberi sono morti», ha spiegato l'agricoltore che coltiva agrumi nel villaggio. I contadini hanno provato anche a scavare pozzi ma hanno trovato le falde acquifere troppo salate e non adatte all'agricoltura. «Hanno ucciso gli alberi e tutti i nostri raccolti», ha denunciato. Le terre intorno ad al-Hamra, che un tempo erano campi e frutteti, sono diventate un deserto nel giro di pochi anni, e il letto del torrente è ridotto a un fossato arido. Un rapporto del governo iracheno ha avvertito che sette milioni di persone rischiano di rimanere senza acqua potabile. L'aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico, la riduzione delle piogge, il livello ridotto dei fiumi sono una combinazione micidiale che produce già i primi effetti. Quest'anno è stata colpita in particolare la provincia di Salahaddin, a Nord-Est di Baghdad. Il cambiamento climatico è uno dei fattori che ha portato alla desertificazione e alla siccità in Irak, ma pure i livelli ridotti dell'acqua nei fiumi Tigri ed Eufrate stanno esacerbando questo fenomeno. Tutto ciò avviene mentre i leader mondiali si sono riuniti a Glasgow per la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26). E la cooperazione internazionale è diventata indispensabile. Questa crisi idrica potrebbe accrescere anche il rischio di conflitti per l'acqua nella regione. Ma oltre alla riduzione dei livelli dell'acqua, molti iracheni devono lottare anche con l'inquinamento dell'acqua e con alti livelli di salinità. Secondo Human Rights Watch, più di 118 mila persone sono state ricoverate in ospedale nel 2018 con sintomi legati alla contaminazione dell'acqua nel governatorato di Bassora. Secondo l'agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione nel 2019 più di 21mila persone sono state sfollate a causa della mancanza di accesso all'acqua pulita. E per il rapporto il rischio di sfollamento a causa della carenza d'acqua rimane alto. Inoltre decenni di guerre in Iraq hanno devastato gran parte delle infrastrutture idriche del paese. Anche durante il conflitto con l'Isis. Infatti la raccolta dell'acqua durante l'assedio dello Stato Islamico era a volte un'attività fatale. Tante persone sono morte cercando di prendere l'acqua dal fiume e dai pozzi, durante i bombardamenti dei jihadisti e degli aerei della coalizione. Ma Kamel nutre ancora una forte speranza per l'Irak. E il suo urlo di disperazione gli fa dire: «Non vogliamo altri servizi, chiediamo solo acqua, tutta la mia vita dipende dall'acqua». Chiara Clausi

Gian Micalessin per “il Giornale” il 24 ottobre 2021. L'espulsione degli ambasciatori di dieci Paesi occidentali (Stati Uniti, Francia, Germania, Canada, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia) messi alla porta dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan per aver chiesto la liberazione di Osman Kavala, un dissidente e filantropo colpevole di battersi per i diritti umani e per le minoranze curde e armene, è vergognosa. Benché i giudici lo abbiano assolto dall'accusa di aver finanziato l'opposizione e il governo non sia riuscito a provare la sua presunta partecipazione al colpo di stato del 2016, Kavala è in galera da oltre quattro anni. Il tutto mentre la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ne pretende la scarcerazione dal 2019 e il Consiglio d'Europa prepara una procedura d'infrazione contro Ankara. In tutto questo, però, siamo noi italiani a doverci vergognare di più. Tra i nomi dei diplomatici battutisi per la liberazione di Kavala manca, infatti, quello del nostro ambasciatore ad Ankara. La nostra diplomazia, a differenza di un Mario Draghi che non esitò a definire Erdogan un dittatore, non ha mai preso posizione sullo stato dei diritti umani in un paese che negli ultimi anni non ha perso occasione di compromettere i nostri interessi nazionali. La Turchia, anche se la Farnesina, il Ministro Luigi Di Maio e il nostro ambasciatore ad Ankara sembrano averlo scordato, è lo stesso paese che nel novembre 2019 stipulò un accordo marittimo con il governo di Tripoli finalizzato, tra i vari obbiettivi, a tagliar fuori l'Italia da qualsiasi ricerca di idrocarburi nel Mediterraneo. Un accordo seguito, settimane dopo, da quello che trasformò parte del porto di Misurata, città dove abbiamo un ospedale militare, in una base della Turchia. Per non parlare dei tentativi di mettere le mani sulla Guardia Costiera di Tripoli da noi finanziata e, più in generale, di subentrare all'Italia come potenza di riferimento in Libia. Il tutto mentre i nostri confini orientali restano, dal 2015, una delle mete di quei migranti usati da Erdogan come arma di ricatto nei confronti dell'Europa. Certo, dietro le distrazioni della nostra ambasciata ad Ankara e della Farnesina c'è il tentativo di difendere gli oltre 9 miliardi di esportazioni (dati 2020) che - assieme a un interscambio da oltre 17 miliardi e all'attività di oltre 1500 nostre aziende - fanno dell'Italia il sesto partner commerciale della Turchia. Ma se alleati e partner europei del peso di Stati Uniti, Francia, Germania e Olanda hanno deciso di mettere a rischio le relazioni diplomatiche con un regime come quello turco, allora qualcuno dall'Ambasciata di Ankara fino alla Farnesina farebbe bene a chiedersi se quei 9 miliardi di esportazioni valgano la vergogna di cui ci copriamo ignorando la desolazione di una Turchia trasformata nel cimitero dei diritti umani. La cacciata di quei dieci ambasciatori ci trasforma nell'ultimo puntello d'un regime sempre più isolato internazionalmente e sempre più a corto d'ossigeno su un fronte interno dove inflazione galoppante e svalutazione erodono i consensi di Erdogan. E in un paese sull'orlo della bancarotta politica ed economica, il ruolo di partner privilegiato rischia di rivelarsi una maledizione anziché un vantaggio. 

Turchia, Erdogan rinuncia a espellere i 10 ambasciatori occidentali: "Ma siano più cauti". La Repubblica il 25 ottobre 2021. Il presidente turco non darà seguito alla minaccia di espulsione dei diplomatici definiti "persona non grata" a causa della loro richiesta di liberazione del filantropo Osman Kavala. Mentre la valuta ha toccato il minimo storico di 9,85 per un dollaro, dopo la dichiarazione. "Non è nostra intenzione creare una crisi diplomatica. Chi ci critica d'ora in poi sarà più attento”, ha detto il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in riferimento ai 10 ambasciatori a rischio espulsione per aver firmato un appello per la liberazione del filantropo Osman Kavala, in carcere dal 2017 con l'accusa di aver finanziato le proteste di Gezi Park nel 2013 e di aver partecipato al fallito golpe del 2016.

Le tensioni diplomatiche. Retromarcia di Erdogan: crolla la lira turca e non espelle più i 10 ambasciatori dell’appello Kavala. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Niente espulsione per i 10 ambasciatori in Turchia: Recep Tayyip Erdogan fa marcia indietro dopo che sabato scorso aveva definito “persona non grata” i diplomatici e minacciato l’allontanamento dal Paese. “È arrivata un’altra dichiarazione da parte dei diplomatici che cita il loro impegno rispetto all’articolo 41 della Convenzione di Vienna e credo che ora saranno più cauti”, ha detto il Presidente turco. I dieci ambasciatori – i Paesi interessati erano Canada, Francia, Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Usa – avevano firmato l’appello per la liberazione del dissidente Osman Kavala, imprenditore e filantropo, detenuto da oltre 1.400 giorni. Kavala è a capo della sezione turca dell’organizzazione filantropica di George Soros e fu arrestato nel 2017 con l’accusa di aver finanziato le proteste del 2013 del Gezi Park. L’imprenditore fu assolto nel 2020 da un tribunale di Istanbul che ne ordinò la scarcerazione. Kavala fu ri-arrestato per il fallito colpo di astato del 2016. “Impareranno a conoscere e capire la Turchia o dovranno andarsene“. Questo sabato scorso. L’agenzia Bloomberg ha scritto oggi che funzionari diplomatici e consiglieri del governo turco hanno consigliato al presidente Recep Tayyip Erdogan di non dare seguito alla minaccia di espellere i 10 ambasciatori occidentali. La lira turca nel frattempo è crollata, si è svalutata di oltre il 2% in un giorno arrivando a sfondare la barriera di 1 dollaro per 9,80 lire turche e di 1 euro per 11,40 lire. Il record negativo si è registrato mentre è atteso, secondo fonti citate dall’agenzia Reuters, un taglio al 16% degli interessi sui prestiti da parte delle banche statali turche in linea con la scelta della Banca centrale di abbassare di 200 punti base i suoi tassi di riferimento. L’ennesimo tonfo della valuta nazionale turca arriva a pochi giorni dal declassamento della Turchia da parte della Financial Action Task Force, organizzazione intergovernativa che si occupa di combattere il riciclaggio di denaro sporco e il finanziamento al terrorismo. “Non volevamo provocare una crisi ma la magistratura turca non prende ordini da nessuno” e la loro “mancanza di rispetto doveva ricevere una risposta”, ha affermato Erdogan, scagliandosi ancora duramente contro gli ambasciatori e parlando di “dichiarazioni infondate e irrispettose”. Lo scontro è rientrato dopo che i diplomatici hanno diffuso un comunicato identico nel quale ribadiscono l’impegno a non interferire negli affari interni di un Paese che ospita le loro sedi. L’appello sollecitava alla scarcerazione di Kavala, come già stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2019. Il filantropo ha già annunciato che non si presenterà alla prossima udienza del processo del prossimo 26 novembre. Il Consiglio d’Europa potrebbe avviare un provvedimento disciplinare nei confronti della Turchia se Ankara non adempirà alla sentenza di Strasburgo. La crisi dei diplomatici, nonostante la marcia indietro, è probabilmente destinata a lasciare strascichi. Questo fine settimana a Roma per il G20 Erdogan incontrerà anche le massime autorità di alcuni Paesi i cui diplomatici aveva definito come “persona non grata”. Tra questi anche il Presidente statunitense Joe Biden. Con gli USA scotta anche la questione del sistema missilistico russo S-400 comprato da Ankara, seconda potenza della NATO, dalla Russia. La Turchia di Erdogan nel suo ruolo di battitore libero in politica estera è protagonista sul piano internazionale anche nella guerra civile in Siria e nel conflitto in Libia. Con Washington resta aperto il caso di Fethullah Gulen, che Erdogan considera il leader del tentato golpe del 2016, al momento residente in Pennsylvania.

Futura D'Aprile per editorialedomani.it il 26 ottobre 2021. La Turchia ha dichiarato persona non grata dieci ambasciatori occidentali che avevano firmato un appello per la liberazione del filantropo Osman Kavala, detenuto da quattro anni senza una sentenza di condanna. Kavala è accusato di aver preso parte al tentato golpe del 2016, di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative del 2013 di Gezi Park e di essere vicino al magnate George Soros, figura particolarmente invisa al presidente Recep Tayyip Erdogan. Nel 2020 la Corte europea dei diritti dell’Uomo era intervenuta sulla vicenda chiedendo la scarcerazione di Kavala, ma ad oggi gli appelli per la sua liberazione sono sempre caduti nel vuoto. A dover lasciare il paese anatolico dopo l’annuncio del ministero degli Esteri sono i rappresentanti diplomatici di Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti. Nell’elenco degli espulsi manca però l’Italia. Un’assenza che fa riflettere sullo stato delle relazioni tra Roma e Ankara e sulle priorità del nostro paese in politica estera. L’Italia continua a chiudere gli occhi sulle continue violazioni dei diritti umani in Turchia e sul crescente numero di oppositori rinchiusi in carcere senza una sentenza di condanna, come nel caso di Kavala. Fin dal fallito golpe del 2016, Erdogan ha usato i poteri conferitigli dallo stato di emergenza per incarcerare o licenziare attivisti per diritti umani, insegnanti, accademici, scrittori, avvocati, giudici, funzionari pubblici, sindacalisti, ex militari e parlamentari curdi. Il tutto con l’obiettivo ultimo di mettere a tacere ogni forma di opposizione e di dissuadere la popolazione civile dal ribellarsi al suo presidente. Eppure neanche la politica neo-ottomana messa in campo da Erdogan nel Mediterraneo è riuscita a far cambiare posizione all’Italia, che vede i suoi stessi interessi costantemente lesi dall’espansione turca in quello che continua ad essere descritto come il mare nostrum. Nel 2019, solo per fare un esempio, la Turchia ha stipulato un accordo con il governo di Tripoli per la definizione dei confini marittimi e per la gestione delle risorse minerarie presenti al largo delle coste libiche, a discapito degli interessi energetici e geopolitici italiani. Ma Ankara ha anche cercato di mettere le mani sulla controversa Guardia costiera libica, addestrata ed equipaggiata da un’Italia ben poco attenta all’uso che veniva fatto delle sue motovedette. La Turchia è stata abile nello sfruttare a suo vantaggio l’ambiguità di Roma nei confronti del dossier libico, arginando l’influenza italiana nel paese africano e giocando sulla debolezza dell’allora premier Fayez al-Serraj per mettere definitivamente piede in Libia. Ankara inoltre continua a sfruttare la presenza di 5 milioni di profughi sul suo territorio per ricattare l’Italia e l’Unione europea, dicendosi costantemente pronta ad aprire i propri confini e a scatenare una nuova crisi umanitaria. A partire da questa posizione di forza, Ankara ha anche potuto minacciare gli interessi greci ed europei nel Mediterraneo senza incorrere in alcuna sanzione, grazie anche alla posizione conciliante assunta dall’Italia in sede comunitaria. Per Roma, quindi, la tutela dei rapporti economici con la Turchia continua ad essere la vera priorità. D’altronde secondo i dati Istat l'interscambio commerciale con il paese anatolico nel 2020 ha fruttato 15 milioni all’Italia, nonostante i danni causati dalla pandemia. Il nostro paese è il quinto partner commerciale della Turchia a livello mondiale e il secondo tra gli Stati Ue dopo la Germania. Nel mercato turco inoltre sono attive oltre 1.500 imprese italiane e gli investimenti diretti nel 2018 hanno raggiunto i 523 milioni di euro. Non vanno poi dimenticati gli interessi del settore militare e della difesa: nel 2020 le autorizzazioni per le esportazioni di materiale di armamento hanno raggiunto un valore di 34.6 milioni, dopo i 63.7 del 2019 e i 362.3 del 2018. Alla luce di questi dati è facile farsi un’idea di quanto profondi siano i legami economici tra Italia e Turchia, ma tutto ciò è abbastanza perché il governo italiano continui ad avere un atteggiamento così tanto accondiscendente nei confronti di Ankara? La Turchia non ha riguardi verso gli interessi geopolitici di Roma o dell’Unione europea, né tantomeno per quei diritti umani che la stessa Italia si è impegnata a promuovere anche al di fuori dei propri confini. Eppure neanche il governo guidato da Mario Draghi sembra intenzionato a modificare la posizione dell’Italia nei confronti della Turchia. Ad aprile il premier ha definito il presidente Erdogan un “dittatore”, ma non ha mai messo in discussione i rapporti con la Turchia, specificando che con il leader turco bisogna continuare “a cooperare per gli interessi del paese”. Anche se questi non vengono in realtà rispettati.

Migranti, gas e petrolio: come la Turchia di Erdogan ricatta l’Europa. Francesco Battistini e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 10 ottobre 2021. Si dice spesso che i migranti possono diventare una straordinaria risorsa economica e politica. Vero. Se c’è un posto dove il concetto viene applicato alla lettera, questo è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ma in tutt’altro senso. Per lui le grandi crisi umanitarie dall’Afghanistan alla Siria, fino alla Libia, sono diventate l’occasione per incassare soldi, e lo strumento di ritorsione con il quale giocare una complessa partita strategica ed energetica. La sua linea è chiara: dall’uso dei migranti all’influenza politico-militare, ogni mezzo è buono per diventare l’anello forte tra il mondo islamico e l’Europa.

L’ascesa di Erdogan

Come s’è arrivati a un Erdogan così determinante? Bisogna risalire al primo decennio del Duemila. Quando le tre guerre che via via scoppiano in Afghanistan (2001), in Iraq (2003) e in Siria (2011) fanno della Turchia il passaggio obbligato di milioni di rifugiati. Erdogan, l’ex sindaco d’Istanbul e leader del nuovo partito islamista che si batte per l’ingresso della Turchia nell’Ue, viene eletto premier. Fino alle Primavere arabe del 2011, garantisce un contenimento della cosiddetta Rotta Balcanica, la via dei disperati che attraversa Bulgaria, Grecia, Macedonia, Serbia e raggiunge il cuore continentale in Ungheria e in Croazia. Per lungo tempo, sulle isole greche, non si superano mai i 10 mila sbarchi l’anno. E gli immigrati entrano in Europa soprattutto dall’Africa, attraversando il Mediterraneo centrale. Le cose però cambiano in poco tempo per tre ragioni. La prima: la scoperta di gas davanti alle coste mediorientali. La seconda: dopo un lungo dibattito si chiudono definitivamente le porte all’ingresso della Turchia nell’Ue, a causa dell’ostilità della Germania che teme un’enorme onda di «asylanten» turchi. La terza: la guerra in Siria ha mosso quattro milioni di rifugiati verso la Turchia, con mezzo milione di bambini nati solo negli ultimi cinque anni. Isolato dagli europei, assediato dai profughi ed escluso dalla partita energetica, Erdogan cambia obbiettivi e strategie. Vediamo quali. 

Chiamiamolo «pizzo»

La Turchia oggi è uno dei Paesi al mondo col più alto numero di rifugiati, oltre 5 milioni, su una popolazione di 80. Stanco di fare da portinaio al passaggio via terra di siriani e iracheni, pakistani e afghani, dal 2016 decide di monetizzare l’emergenza – 6 miliardi e 700 milioni di euro incassati dall’Ue, più un altro mezzo miliardo in arrivo, purché i gommoni non sbarchino sulle isole greche – e di farne uno strumento di ricatto per acquisire peso internazionale. All’assemblea generale dell’Onu, il 24 settembre 2021, mentre Kabul precipitava nel caos, il leader turco ha dichiarato: «Se gli americani mandano da noi i profughi afghani, ci diano il sostegno logistico, diplomatico e finanziario che ci serve. E coi talebani tratteremo noi». Il governo di Ankara, senza fornire dettagli, ha stimato in 40 miliardi di dollari gli aiuti necessari a gestire i dieci anni di crisi siriana. E ora che le emergenze si sono moltiplicate, la sua politica è diventata quella di «esternalizzare» il controllo delle frontiere europee: io mi tengo i migranti che verrebbero da voi, ma in cambio voi mi pagate in denaro sonante e in aperture politiche. 

L’oro sottomarino

La ritorsione sui migranti però non funziona sul tavolo della guerra per le risorse di gas in quel pezzo di mare davanti a casa. Nei fondali del Mediterraneo orientale, dal 2010, sono stati scoperti enormi giacimenti di gas naturale. Alla corsa all’oro sottomarino partecipano l’Egitto, la Grecia, Cipro, Israele, tutti Paesi che hanno rapporti poco amichevoli con Ankara e che, d’accordo con l’Europa, stanno progettando un gasdotto per tagliare fuori gli inaffidabili turchi. Chiuso nella doppia morsa, Erdogan s’è dovuto chiedere come uscirne. La soluzione l’ha trovata guardando all’altra sponda del Mediterraneo: la Libia. Proprio là, dove dovrebbe passare il nuovo gasdotto, e dove è possibile riproporre lo stesso schema di taglieggiamento sperimentato con la crisi siriana. Nel 2015, quando un milione e 300 mila profughi siriani si muovono dalle coste turche per entrare in Europa, Erdogan li contiene ottenendo in cambio diverse concessioni, compresa una quota di visti più facili per i suoi cittadini. 

Gas, armi, e migranti

L’occasione per Erdogan si presenta nel gennaio 2020. La debolezza della nostra politica estera in Libia durante i due governi Conte, ha lasciato spazio libero, e consentito a Erdogan di sbarcare in meno di due anni, centinaia di «consiglieri militari». Facendo sì che Ankara e Tripoli firmassero un accordo esclusivo per il controllo delle coste della Tripolitania, per la difesa reciproca e per lo sfruttamento di gas e petrolio nel Mediterraneo centrale. Approfittando della guerra civile tra il generale Khalifa Haftar (appoggiato da russi ed egiziani) e il governo di Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, la Turchia invia truppe, armi, e sposta dalla Siria in Libia i suoi miliziani mercenari, in appoggio al governo di Tripoli. Una mossa abile: da quel momento, Erdogan può sedersi al tavolo dell’undicesimo maggior produttore di petrolio al mondo, chiedendo a Tripoli pure la gestione dell’aeroporto e del porto di Misurata per i prossimi 99 anni. Solo un mese prima dell’intervento militare contro Haftar, Erdogan ha firmato proprio coi tripolini un accordo per lo sfruttamento delle loro risorse naturali sottomarine, 10 miliardi per la ricostruzione di strutture e infrastrutture, e nel frattempo ha iniziato a controllare i flussi in arrivo dal Sahel e dall’Africa subsahariana. Un esempio di questo nuovo ruolo nel Mediterraneo centrale si vede subito: nel gennaio 2020 la fregata turca Gaziantep, impegnata a scortare un carico d’armi diretto a Tripoli, recupera di sua iniziativa un barcone di migranti diretto in Italia e lo riporta in Libia. È un respingimento illegale, ma sufficiente a legittimare la presenza turca nel mare «nostro». 

Le minacce all’Europa

Dopo l’accordo con l’Ue sui migranti siriani, il gioco turco è evidente: le frontiere prima si chiudono, passando dal milione 300 mila profughi sulle rotte balcaniche del 2015 a una media di 20 mila nel 2018, per poi riaprirsi nel 2019 con 159 mila profughi sulle coste greche. E quando l’Europa decide di imporre sanzioni economiche per le operazioni militari di Erdogan in Siria, o peggio ancora sui curdi, ecco la minaccia: «Se provate a chiamare invasione le nostre operazioni – dice il leader turco nel 2019 –, spalancheremo i nostri confini e vi manderemo tre milioni e mezzo di rifugiati». E le sanzioni si attenuano. La promessa è mantenuta l’anno dopo: nel 2020 Ankara batte cassa, ma Bruxelles è lenta a rispondere, e allora la Turchia sposta 130 mila disperati sui 120 km di frontiera terrestre con la Grecia. Tempo pochi mesi e l’accordo economico con l’Ue viene rinnovato. È un gioco facile, se sei tu a regolare i rubinetti delle migrazioni sia da Est sia da Sud e, intanto, ti prepari a controllare anche quelli di gas e petrolio. E in spregio a ogni regola: la Turchia non ha mai rispettato la clausola, contenuta nell’accordo con l’Ue, che le impone di riaccogliere un migrante sbarcato nelle isole greche per ogni migrante che viene ricollocato in Europa. In cinque anni se n’è ripresi 2.140, contro i 15 mila sbarcati in Grecia solo nel 2020. Lo stesso vale per i soldi che l’Europa ha versato per bloccare il traffico: sono destinati al riammodernamento di dogana e frontiere, in realtà vengono usati per comprare armi e combattere la minoranza curda. Questa situazione sta esasperando i Paesi europei più esposti sull’ultimo confine Ue con la Turchia, Grecia e Bulgaria, che sono fra i 12 governi che hanno chiesto a Bruxelles di alzare muri, da aggiungere a quelli che già ci sono. E ora sulla rotta mediterranea si potrebbe prospettare lo stesso scenario: se l’Europa o l’Italia oseranno sollevare obiezioni sui gasdotti, o su tutte le altre partite libiche sulle quali Erdogan sta negoziando, è pronta la leva dei migranti. Sappiamo bene che il fenomeno dei flussi migratori non lo risolvi costruendo muri, ma anche aver pensato di uscirne indenni nascondendoli sotto al tappeto del dittatore turco la dice lunga sulla incapacità strategica dell’Unione. 

Il Mit, il servizio segreto della Turchia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 settembre 2021. Ogni grande potenza meritevole di tale titolo possiede degli eserciti paralleli, rispondenti unicamente al comando dello stato profondo, attivabili in caso di necessità. Necessità che possono essere il soffocamento di una pericolosa sedizione, l’annichilimento di una o più quinte colonne e/o la prevenzione di un colpo di Stato in divenire. Questi eserciti ombra possono essere delle realtà del mercenariato, come il Gruppo Wagner o l’Academi (ex BlackWater), oppure delle organizzazioni guerrigliere e/o terroristiche che, con la scusante del denaro – come nel primo caso – o della battaglia ideologica – come nel secondo caso –, combattono per conto di una capitale e sono fedeli ad una sola bandiera. E questi eserciti alternativi, talvolta, possono assumere le fattezze di veri e propri stati paralleli la cui esistenza è nota ad una cerchia ristrettissima di persone – in Italia è celebre il caso di Gladio. Nel caso della Turchia, una delle potenze più lungimiranti e fraintese dell’età attuale, le armate che difendono fondamenta e mura del sistema erdoganiano sono diverse, variegate e risultano accomunate da un elemento: la micidialità. Perché queste armate sono i Lupi Grigi del Partito d’azione nazionalista di Devlet Bahceli, i narcotrafficanti stanziati tra America Latina e Asia centrale, i padrini del crimine organizzato come Alaattin Cakici, una galassia di sigle e movimenti appartenenti all’islam politico e al jihadismo – dalla Fratellanza Musulmana all’Esercito Siriano Libero –, la compagnia Sadat e l’Organizzazione di Intelligence Nazionale (Mit).

Mit: che cos'è, cosa fa, quando nasce. L’Organizzazione di Intelligence Nazionale (MIT, Millî İstihbarat Teşkilatı) è l’agenzia di intelligence della Turchia. Il quartier generale si trova a Etimesgut, provincia di Ankara, in un edificio che il volgo ha ribattezzato evocativamente kale, ovvero il castello. Fondato nel 1965, in sostituzione al Servizio di Sicurezza Nazionale (MEH, Milli Emniyet Hizmeti) risalente all’epoca di Mustafa Kemal, il Mit è stato ed è un insieme di cose (simultaneamente) sin dal giorno uno: un ente dall’impronta fortemente militare, uno strumento nelle mani del governo di turno ed un Grande Fratello in grado di sorvegliare e punire i nemici dello Stato ovunque si trovino, sia in patria sia all’estero. Legato ad alcuni dei principali servizi segreti dell’Occidente e dell’Oriente da accordi di collaborazione in materia di antiterrorismo, come la Cia e il Fsb, il Mit agisce nel e gode del massimo riserbo – missioni e operazioni sono oggetto di una classificazione quasi-imperitura, similmente al Mossad – ed è dotato di una struttura verticistica a livelli contingentati, ovvero che precludono la possibilità di carriera negli alti ranghi agli agenti appartenenti a gruppi religiosi minoritari. Deputato alla raccolta di intelligence su fascicoli critici per la sicurezza nazionale, ad attività di controintelligence e guerra cibernetica, nonché al contrasto diretto e fattivo di minacce effettive e potenziali alla Turchia e ai suoi abitanti, il Mit è teoricamente obbligato a fare rapporto delle sue attività al presidente, al comandante in capo delle forze armate e al segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale, sebbene negli anni recenti sia divenuto ostaggio di una persona sola: Recep Tayyip Erdoğan.

Colonna portante del sistema erdoganiano. A partire dal giorno dopo il tentato colpo di Stato del luglio 2016, l’evento che sembra aver determinato il collasso dell’antico ordine kemalista e consacrato l’ascesa definitiva del sistema erdoganiano, il Mit è stato assoggettato completamente al nuovo potere, per conto del quale è divenuto il cacciatore di gulenisti. Nell’aprile 2018, cioè a poco meno di due anni dal fallito golpe, il Mit aveva esperito consegne straordinarie (extraordinary rendition) in 18 nazioni, portando dinanzi ai tribunali anatolici ottanta cittadini turchi ricercati per la presunta adesione alla rete gulenista. Una caccia all’uomo globale, senza limiti di giurisdizione, che con il tempo si è estesa ulteriormente e le cui dimensioni possono essere rappresentate soltanto per mezzo dei numeri:

Più di 130 i cittadini turchi che il Mit ha arrestato illegalmente all’estero, e successivamente riportato in patria, da luglio 2016 a luglio 2021.

Più di 31 i Paesi che, in accordo o meno con Ankara, sono stati interessati dalle suddette extraordinary rendition.

622mila i cittadini turchi che, nello stesso periodo di riferimento, sono stati indagati per terrorismo a causa dei loro presunti rapporti con la rete gulenista.

Più di 125mila i dipendenti pubblici che hanno perduto il lavoro a causa della loro presunta adesione al circolo gulenista.

Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui il Mit ha proceduto a catturare e rimpatriare presunti membri della rete gulenista, quando agendo legalmente (a mezzo di regolare estradizione) e quando illegalmente (consegna straordinaria): Albania, Bulgaria, Kosovo, Moldavia, Romania, Ucraina.

Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui le indagini del Mit hanno portato la giustizia turca ad inoltrare richieste di estradizione nei confronti di presunti gulenisti, il cui processo di rimpatrio è attualmente in corso e/o in fase di esame: Bosnia ed Erzegovina, Germania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia e Repubblica Ceca.

I numeri della caccia al gulenista sembrano, e in effetti sono, stratosferici. Numeri che parlano delle capacità del Mit, i cui agenti sono in grado di operare nei teatri più impensabili e remoti – come il Gabon, il Sudan, la Malesia e la Mongolia –, anche in assenza di contatti in loco, e che sono il risultato di una lunga tradizione in materia di spionaggio internazionale e arresti illegali. Non è dal 2016, in effetti, che il Mit è coinvolto in questo tipo di attività – le extraordinary rendition –, essendo stato fondato all’acme della guerra asimmetrica tra Ankara e il PKK. Guerra che aveva portato il Mit nel mondo dapprima della comparsa di Fethullah Gulen. Guerra che, il 15 febbraio 1999, aveva portato il Mit a Nairobi (Kenya) per compiere l’extraordinary rendition più importante della storia recente della Turchia, quella ai danni di Abdullah Öcalan, il fondatore del PKK.

I tentacoli del Mit in Europa. Non è soltanto a causa della rete gulenista che la Turchia ha inviato i propri agenti segreti in tutto il mondo. Perché prima che emergesse questa minaccia, come è arcinoto, Ankara ha dovuto affrontare l’insurgenza curda – che ancora oggi pone un serio pericolo per l’integrità territoriale e per la sicurezza fisica dei cittadini turchi. Non sorprende, dunque, che uno dei due obiettivi principali del Mit in Europa (e nel mondo) sia il rintracciamento di tutti quei militanti del PKK ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale. Come il Mit agisca in Europa, che è l’area dell’estero vicino turco ospitante il maggior numero di espatriati curdi, è stato svelato nel corso del tempo, grazie alle indagini delle forze di polizia, dei servizi di sicurezza e dei giornalisti investigativi del Vecchio Continente. In una sola parola: diaspora. Diaspora turca, per l’esattezza. Gli agenti del Mit, in breve, hanno infiltrato da tempo immemorabile le diaspore turche spalmate a macchia d’olio in Europa, in particolare quelle datate e numerose di Austria, Francia, Germania e Paesi Bassi. Un’infiltrazione che, con molta probabilità, risale all’epoca della Guerra fredda e che negli anni è stata approfondita, consolidata e sofisticata, come mostrano e dimostrano i numeri e i fatti:

13 gli imam turchi attualmente indagati in Germania perché presumibilmente legati al Mit e coinvolti in attività di spionaggio.

Circa 6mila i turchi di Germania che il Mit avrebbe reclutato per portare avanti operazioni spionistiche e/o di raccolta di intelligence ai danni di gulenisti, militanti curdi e politici “di interesse” per la Turchia.

Circa 200 i turchi di Austria che il Mit avrebbe arruolato per le medesime ragioni di cui sopra.

Tre i militanti curdi che il Mit, grazie all’intelligence raccolta dai propri informatori in loco, avrebbe assassinato a Parigi nel 2013.

Più di 300 le persone e più di 200 le associazioni che l’esercito invisibile del Mit avrebbe spiato in Germania nell’anno 2017.

568 i turchi in Grecia che, secondo documenti diffusi da Nordic Monitor, il Mit avrebbe spiato nel corso del 2019 per via dei loro presunti legami con la rete gulenista.

Gli strumenti con i quali il Mit avvicinerebbe i compatrioti, che si trovino ad Amsterdam o che vivano a Stoccolma, sono sempre gli stessi. I primari, per frequenza d’utilizzo, sono i gruppi criminali – come l’oggi estinto Osmanen Germania –, le associazioni patriottiche – come Millî Görüş –, le moschee – che Ankara gestisce attraverso Diyanet, operante in tutta Europa – e le sedi diplomatiche – cioè ambasciate e consolati. Le capacità nell’arte del sorvegliare-e-punire hanno reso il Mit uno dei servizi segreti più efficienti del pianeta, ma sono i numeri della demografia turca in Europa – perché la demografia è potere; potere (geo)politico – che gli hanno permesso di espandersi capillarmente nell’intero continente, neutralizzando obiettivi sensibili da Londra a Parigi e compiendo arresti illegali in lungo e in largo nei Balcani. Numeri che con il tempo dovrebbero aumentare e che, incidendo pesantemente sulla composizione etnica di diversi Paesi – dalla Svezia alla Germania –, potrebbero facilitare un incremento della presa del Mit sul continente. La poststorica e anziana Europa è dunque avvisata: gli 007 del Mit sono qui tra noi, già oggi, e domani saranno sempre di più. Essi sono e simboleggiano questo mondo che cambia; questo mondo sempre meno eurocentrico e sempre più turco.

La guerra santa di Erdogan contro l’Europa. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 21 luglio 2021. I giornalisti hanno il costume di dare appellativi accattivanti ai personaggi famosi, che siano degli atleti o che siano degli statisti, che siano degli onesti imprenditori o che siano dei temibili criminali. L’appellativo è un marchio rispondente al dogma attronomico del nomen omen, cioè è esplicativo delle caratteristiche della persona che lo ha ricevuto, ed è suscettibile di esercitare dei potenti effetti mitopoietici presso le masse, che da sempre abbisognano di qualcosa o di qualcuno in cui credere e immedesimarsi. Nel caso della Turchia contemporanea, una potenza alla ricerca di rivalsa su antichi rivali e di spazi vitali nei quali prosperare, si può affermare come i giornalisti occidentali dei primi anni Duemila abbiano avuto un’incredibile lungimiranza nel ribattezzare Recep Tayyip Erdoğan osmanicamente, attribuendogli il titolo di Sultano. Perché oggi, 2021, a vent’anni esatti dalla fondazione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp, Adalet ve Kalkınma Partisi), Erdoğan è molto di più di un presidente: è il califfo di una Sublime Porta ricostruita, sulla quale riecheggiano nuovamente gli adhān del muezzino dell’Ayasofya – che aveva promesso di rimoscheizzare nel lontano 1994 –, che ha saputo trasformarsi dal malato d’Europa all’incubo d’Europa e che sogna con ardore e in armi di sventolare la mezzaluna e stella turca dall’Adriatico alla Grande muraglia.

Il Sultano incompreso. Oggi è Erdoğan contro la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (rea di una sentenza sgradita circa l’utilizzo del velo islamico negli ambienti di lavoro), ieri era Erdoğan contro Charlie Hebdo e la campagna anti-islamista di Emmanuel Macron (che aveva svegliato terroristi dormienti in Francia e innescato proteste antifrancesi dal Marocco all’Indonesia), domani – e sempre – sarà Erdoğan contro chiunque si metta fra lui e il sogno di una Turchia a capo di quella realtà transcontinentale che è il Türk dünyası, ovverosia il mondo turcico.

Capire Erdoğan non è difficile né impossibile, ma il punto è che agli analisti e ai politologi occidentali, abituati a leggere la Turchia utilizzando occhiali rosa Made in the West, mancano sia la volontà sia l’umiltà. La volontà di guardare la Turchia per ciò che è, e non per ciò che essi vorrebbero che fosse. E l’umiltà di superare quell’elefantiaco limite interpretativo che è l’occidentalo-centrismo. Erdoğan, come abbiamo ripetuto innumerevoli volte sulle nostre colonne – pronosticando con successo eventi e corsi d’azione, tra i quali lo sveltimento dei lavori lungo il cosiddetto “corridoio panturco” e il potenziamento del Consiglio Turco –, non è né un incidente della storia né una mosca bianca circondata da forze politiche e cittadini frementi dalla voglia di tornare sul cammino dell’Occidente. Erdoğan è la storia, nonché la più potente espressione di quella Turchia profonda che più volte, dal secondo dopoguerra ai Novanta, ha tentato di porre fine al dominio armato del kemalismo nella politica e nella società – vedasi, a questo proposito, il paragrafo Menderes e l’ascesa di Necmettin Erbakan. Erdoğan è il figlio legittimo di una nazione fondata sui miti sempiterni della valle di Turan, dei lupi di Ergenekon, di padre Osman e del conquistatore Maometto II. Una nazione che ha vissuto e voluto l’Occidente il tempo di una forzatura storica chiamata Atatürk. Una nazione che in Occidente viene identificata con l’ingannevole cosmopolitismo libertineggiante di Istanbul, ma la cui complessità sfugge alle letture con gli occhiali rosa dei turisti della politologia. Complessità che spiega perché, ad esempio, la politica estera erdoganiana goda del supporto unanime di ogni partito – dall’estrema destra all’estrema sinistra e dagli islamisti ai laicisti – o perché la rimoscheizzazione di Ayasofya (ex Santa Sofia), quivi ritenuta una mera mossa distrattiva – ignorando la promessa di un giovane Erdoğan datata 1994 –, fosse sognata da sette turchi su dieci.

La complessità della Turchia. La complessità di quella nazione che è la Turchia, derisa nel peggiore dei casi e semplicemente ignorata nel migliore, andrebbe colta, valorizzata ed integrata nelle analisi relative alle questioni interne ed esterne che la riguardano. Perché l’alternativa all’equanimità è l’occidentalo-centrismo: un limite interpretativo che vizia e inquina i tentativi di comprendere il mondo. Nel caso della Turchia, la grande incompresa della contemporaneità, l’applicazione dell’occidentalo-centrismo alle letture analitiche è l’equivalente di un’autocondanna all’inefficacia nella formulazione di pronostici e scenari. Perché le letture occidentalo-centriche, ad esempio, dipingono Erdoğan come perennemente prossimo alla ghigliottina, nonostante la realtà sia ben diversa: è ancora sul trono, è stato difeso dalla popolazione nel corso del golpe del luglio 2016 e l’Akp sta registrando un boom di iscrizioni. E le letture occidentalo-centriche, inoltre, descrivono l’economia turca come sull’orlo di un’implosione a causa delle periodiche svalutazioni della lira e delle ondate inflattive, ignorando la rilevanza del fattore storico e le peculiarità del sistema Turchia: l’economia anatolica non è mai stata connotata dalla stabilità, ragion per cui i suoi scienziati della moneta sono abituati a galleggiare tra stati di crisi semi-permanenti e ragion per cui, nonostante le previsioni distopiche, il pil quest’anno crescerà del 5,5% e il pil calcolato a parità dei poteri d’acquisto lo scorso anno ha superato quello dell’Italia.

Riequilibrare i rapporti con l’Europa. Le letture occidentalo-centriche, infine, tendono a ritrarre erroneamente Erdoğan come un uomo solo, costretto a reggersi sul supporto del Partito Nazionalista e dei Lupi Grigi di Devlet Bahceli e a fare leva su una continua opera di distrazione delle masse, pena un probabile rovesciamento dal basso. Pensieri illusori, che non riescono ad andare oltre la superficie, che non sono in grado di spiegare perché il popolo sarebbe insorto a difesa di Erdoğan la notte del 15 luglio 2016 e perché le diaspore stanziate in lungo e in largo per l’Europa siano tendenzialmente a favore dell’Akp. La dirigenza comunitaria non riuscirà a venire a capo dell’annoso dossier anatolico fino a quando non capirà la dogmatica verità alla base di tutto: la Turchia non è solo Erdoğan, ma Erdoğan è la Turchia. E questa potenza, tanto incompresa quanto sottovalutata, ha cessato di essere il malato d’Europa da molto tempo – l’invasione di Cipro fu il primo segno di convalescenza –, trasformandosi in qualcos’altro: nel Terror Europae. L’Europa, secondo la diagnosi infausta e irreversibile effettuata da Erdoğan, può essere assoggettata nel nome del riscatto – la revisione del trattato di Losanna – e dell’emancipazione – una maggiore autonomia geopolitica dall’Occidente – perché nolente a mostrare muscoli a causa del sonno poststorico e destinata al tramonto per via di ragioni etno-demografiche. Queste ultime, di cui la dirigenza turca ha colto la significanza strategica nel lungo e lunghissimo termine – si pensi a quando Erdoğan invitò i turchi europei “a fare cinque figli” per sveltire il ritmo della sostituzione etnica in Europa –, potrebbero condurre la progenie di Osman a convertirsi da minoranza irrilevante a quasi-maggioranza nelle prossime decadi in Bulgaria e Germania, sullo sfondo di simultanei processi di islamizzazione traversanti un nugolo di nazioni, tra le quali Belgio, Francia, Paesi Bassi e Svezia. L’Europa, in breve, oltre che avvolta dal manto soporifero del coma poststorico, va lentamente de-europeizzandosi, perdendo progressivamente i propri caratteri etno-religiosi originari; una combinazione tanto irripetibile quanto cataclismica dalla quale gli strateghi dell’aquilina presidenza Erdoğan stanno tentando di capitalizzare in ogni ambito: diplomatico, economico, politico e religioso. Questo è il motivo per cui la Turchia sta seguendo con interesse il diffondersi nel Vecchio Continente di partiti confessionali di ispirazione islamica – oramai presenti in Belgio, Finlandia, Francia, Paesi Bassi e Svezia –, investendo nelle attività di proselitismo portate avanti dal quartetto Diyanet–Fratellanza Musulmana-Lupi Grigi-Milli Gorus e, non meno importante, interferendo in ogni questione interna all’Europa in grado di mobilitare la umma attorno al nuovo sultanato – dalla controversia sul discorso di Ratisbona alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue. Erdoğan, in estrema sintesi, non è un incidente della storia e i problemi della vecchia e sterile Europa con la Turchia non si estingueranno con la sua dipartita. Perché Erdoğan è l’uomo della Turchia profonda, una realtà che, silenziata per decenni dalla difesa armata della costituzione, è riuscita, dopo il trauma della detronizzazione di Erbakan, a rimettere al centro della politica e della società quelli che sono stati i valori fondanti della nazione sin dall’antichità: l’islam, il culto dell’impero e il panturchismo. E l’Europa, per questa Turchia tornata alle origini, non può che rappresentare ciò che è stata sin dai tempi della cattura di Costantinopoli: un rivale con cui competere sempre, da combattere quando necessario e da vassalizzare se possibile.

Il reality show del super boss che svela il patto Stato-mafia del governo Erdogan. Corruzione, traffico di droga, omicidi e armi ai jihadisti: Sedat Peker, dall’esilio forzato di Dubai, dichiara guerra al ministro dell’Interno Soylu. A colpi di video-scoop postati su YouTube. E il presidente tace. Mariano Giustino su L'Espresso il 24 giugno 2021. Con una piccola telecamera e un treppiede, un mafioso turco, che fino a poco tempo fa organizzava manifestazioni a sostegno del presidente Recep Tayyip Erdogan e che ha goduto del favore dei circoli filo-governativi, sta scuotendo la Turchia dall’inizio di maggio. È Sedat Peker, ultranazionalista e boss della criminalità organizzata, rifugiatosi dal 2019 a Dubai, che come in un reality show, davanti a milioni di telespettatori, fa la guerra ad alti funzionari turchi e ministri pubblicando una serie di video-scoop dal suo account YouTube, accusando di corruzione, di omicidio, di stupro, racket e di traffico di stupefacenti alcune delle figure politiche più potenti del paese, compresi parlamentari, alti funzionari della sicurezza e in particolare il ministro degli Interni turco, Süleyman Soylu. Con i libri dello scrittore americano Mario Puzo, “La Famiglia” e “Il Padrino”, poggiati in bella vista sulla scrivania, Peker ha rivelato, nei suoi video, che gli sono stati commissionati da funzionari ed ex ministri dell’Akp l’uccisione di un giornalista turco-cipriota, il pestaggio di un parlamentare che aveva insultato la famiglia di Erdogan e le spedizioni illegali di armi ai jihadisti siriani. In uno dei suoi ultimi video ha rovesciato una valanga di accuse contro il ministro Soylu accusandolo di collusione con il losco uomo d’affari Sezgin Baran Korkmaz, attualmente ricercato dalle autorità turche per riciclaggio di denaro sporco. Soylu lo avrebbe aiutato a fuggire dalla Turchia per evitargli l’arresto. Peker ha anche raccontato di aver spedito in Siria, nel novembre 2015, giubbotti, binocoli e altri dispositivi militari per l’equipaggiamento dei combattenti turkmeni siriani, ma ha aggiunto che il Sadat, una forza paramilitare fondata dal generale di brigata in pensione Adnan Tanrıverdi, allora consigliere di Erdogan, gli aveva chiesto di aggiungere al carico della spedizione camion pieni di armi ufficialmente destinate ai ribelli turkemi alleati di Ankara, ma che invece erano andate a Jabhat al-Nusra, la propaggine siriana di al-Qaeda in Siria. E così il Sadat, considerata da alcuni media come «esercito parallelo» del presidente, già impiegato in Libia e Siria, torna di nuovo all’ordine del giorno. Peker ha goduto per anni, ufficialmente, della protezione della polizia e, come altri esponenti della mafia turca, ha un background ultranazionalista e ha fatto parte del backstage dell’alta politica del suo paese. È presente in foto e video con celebrità anche politiche, compreso il presidente Erdogan. Ha ripetutamente minacciato di morte gli oppositori del governo, in particolare curdi ed esponenti di sinistra, inclusi i 1.300 accademici per la pace che nel 2016 lanciarono un appello per un ritorno al processo di pace nel sudest anatolico: «Faremo scorrere il vostro sangue e ci faremo una doccia col vostro sangue», disse in un suo comizio. Peker dice che le sue rivelazioni sono un vero e proprio regolamento di conti, una risposta a tutto quello che ha subito dagli agenti di polizia che su mandato del ministro degli Interni Soylu avevano fatto irruzione nella sua casa e avevano puntato le pistole contro sua moglie e le sue figlie. Non è un caso che nei suoi video abbia preso di mira particolarmente l’ambizioso ministro che gli aveva promesso protezione, ma che non aveva mantenuto la sua parola; da qui, la decisione del boss di regolare i conti accusandolo di essere colluso con uomini di affari senza scrupoli e con esponenti della criminalità organizzata. Il quadro che Peker dipinge nei suoi video va oltre la corruzione e potrebbe essere descritto come criminalizzazione dell’intero apparato statale. Le sue dettagliate accuse suggeriscono che la criminalità organizzata sarebbe stata utilizzata nelle lotte di potere all’interno dell’amministrazione dello Stato e del partito di governo, nonché per diffondere propaganda politica, gestire economie clandestine, manipolare i media, intimidire l’opposizione e la società civile. Le rivelazioni di Peker accendono i riflettori anche sulla nuova rotta della cocaina che dalla Colombia attraversa la Turchia, traffico che, secondo il leader mafioso, vedrebbe coinvolte figure di alto profilo. Lungo una delle principali rotte del contrabbando di eroina, che dall’Afghanistan giunge in Europa, la Turchia negli ultimi anni ha visto un aumento anche del traffico di droga; ciò ha indotto alcuni osservatori a ipotizzare che il paese sia diventato per l’Europa un centro di distribuzione di stupefacenti che provengono dall’America Latina e dall’Oriente. Peker ha affermato in un suo video che il porto di Izmir, terza città più grande del paese, era la destinazione di 4,9 tonnellate di cocaina sequestrate in Colombia lo scorso anno e che l’ex ministro degli Interni Mehmet Agar era coinvolto in quel traffico e ha accusato il ministro dell’Interno in carica di aver insabbiato le indagini. Il leader turco era rimasto a lungo muto dinanzi alle accuse contro Soylu e non sembrava volere o potere impedire che il fango continuasse ad abbattersi contro il suo partito, forse per timore di essere coinvolto direttamente nelle rivelazioni del boss. Ma qualche giorno prima del Vertice Nato di Bruxelles, il Presidente ha rotto il silenzio dicendo che dietro le “calunnie” che hanno colpito il suo partito vi è la longa manus di organizzazioni criminali, quali il gruppo curdo armato PKK, la rete dei seguaci del predicatore islamico Fethullah Gülen, FETÖ, ritenuto responsabile del fallito golpe del 2016, e residui di organizzazioni armene. Subito dopo il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha presentato una richiesta di estradizione alle autorità degli Emirati Arabi Uniti. È noto che tra Ankara e Dubai non intercorrono buoni rapporti, sono rivali regionali e inoltre non esiste un trattato di estradizione tra i due paesi. Peker, ha dunque sospeso le pubblicazioni dei suoi esplosivi video e ha affermato che la polizia degli Emirati lo avevano fermato per interrogarlo, ma che contro di lui non vi è al momento alcuna decisione di arresto. Da tempo, all’interno dell’Akp e del cerchio magico che ruota attorno a Erdogan, è in corso una faida, una guerra senza quartiere. Un feroce scontro per il potere tra le correnti tayyipciler (erdoganiani) dei Pelikancilar (la corrente Pelikan dell’ex ministro delle Finanze Albayrak, genero del presidente, che prende il nome dal film con Julia Roberts, “Il Rapporto Pelican”) e quella dei Soylucular (che fa capo al ministro Soylu) forte dei güvenlikçiler, i securitari, funzionari della polizia che spingono per una ferrea politica securitaria. Le rivelazioni di Peker segnalano anche una spaccatura esistente all’interno del campo nazionalista turco: tra filoccidentali da una parte ed eurasisti anti Nato (filorussi e filocinesi), dall’altra. E mettono in luce anche una prassi statale inquietante che si basa sull’impiego di mezzi illegittimi per combattere i cosiddetti «nemici dello Stato». Infatti, in diversi momenti della storia della Turchia moderna, i tentacoli dello Stato hanno preso di mira comunisti, socialisti, minoranze, islamisti, oppositori liberal e politici curdi, a seconda di chi in quel momento veniva percepito come una minaccia dal potente di turno. Gli ex presidenti turchi Süleyman Demirel e Kenan Evren (il generale del golpe del 12 settembre 1980) hanno entrambi ammesso pubblicamente l’esistenza dello «Stato profondo». Per questo è illuminante la nota frase di Demirel: «Quando è necessario, lo Stato esce dalla routine della legalità». Negli anni ’90 ciò significava uccisioni extragiudiziali di politici curdi, omicidi di giornalisti di alto profilo e l’intervento mafioso nelle gare d’appalto statali. E, per rendere accettabile tutto questo, si invocava la necessità della «difesa della nazione» per la sua «sopravvivenza», definita col termine nazionalista-islamico di Beka. Lo Stato profondo è quella rete oscura di funzionari della sicurezza e criminalità organizzata che opera al di fuori dei canali legali e che si erge a difensore dell’interesse supremo della nazione, ma che in realtà protegge gli interessi del regime di turno sostenendo politiche di sicurezza antidemocratiche. E insieme all’interventismo dei militari ha spesso contrastato i governi democraticamente eletti. L’ironia della sorte è che il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdogan salì al potere quasi due decenni fa con la parola d’ordine di liberare lo Stato da questa mentalità autoritaria e di ripulirlo dalla presenza di «bande criminali». Il presidente turco era riuscito nella prima parte del suo mandato ad arginare l’influenza della criminalità organizzata e delle sue reti, forte dell’agenda europeista, del processo di adesione della Turchia all’Ue. Ma dopo il fallito colpo di stato del 2016, ha epurato tutta l’amministrazione dello Stato per estirpare dal suo corpo ogni possibile nemico e, per rimpiazzare i funzionari licenziati, ha fatto ricorso agli ex apparati dello Stato profondo, stringendo alleanze con gli ultranazionalisti, legittimando personaggi come Peker e richiamando in servizio ex funzionari della sicurezza. L’ancoraggio della Turchia all’Occidente è stato sempre uno dei fattori che ha mantenuto viva la speranza di un percorso democratico del paese e il suo Stato profondo sembrava essersi dissolto. Ora che l’ancoraggio sta venendo meno, quegli oscuri demoni sono di nuovo alla ribalta.

Il duello che avrebbe cambiato il mondo di oggi. Andrea Muratore il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel 1916 Ataturk rifiutò il comando delle truppe turche intente a domare la rivolta in Arabia. Dove la storia avrebbe potuto riservare un confronto diretto con Lawrence d'Arabia. Mustafa Kemal Ataturk è ricordato e, spesso inopportunamente, presentato in antitesi all’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan come padre della Turchia contemporanea succeduta all’Impero ottomano. Uno dei padri non solo della Turchia ma anche del Medio Oriente contemporaneo, visto in prospettiva. Un'altra figura fondamentale che operò sul campo opposto rispetto a Mustafa "Pascià" ai tempi della Grande Guerra fu Thomas Edward Lawrence, passato alla storia come "Lawrence d'Arabia", l'organizzatore e il condottiero della Grande rivolta araba che contribuì a destabilizzare l'Impero Ottomano dall'interno e a aprire alla Gran Bretagna la porta della regione, sempre più strategica per il suo ruolo nelle dinamiche energetiche globali e nei collegamenti intercontinentali. Ebbene, inconsapevolmente, ben prima che la storia incidesse a caratteri cubitali i loro nomi tra i grandi del Novecento, Ataturk e Lawrence avrebbero potuto trovarsi a combattere direttamente. In uno scontro che avrebbe potuto riscrivere i destini personali di uno dei due, forse di entrambi, in prospettiva della regione intera. Accadde sul finire del 1916, quando il governo imperiale di Costantinopoli propose a Ataturk la possibilità di comandare l’armata turca impegnata nell’Hegiaz a domare la rivolta araba. Il rifiuto di Ataturk a darsi disponibile per un’azione di controguerriglia impedì un incontro storico con Thomas Edward Lawrence che avrebbe rappresentato un duello di portata storica. L’autorevolezza del “Pasha” Ataturk non sarebbe stata, dopo la fine della Grande Guerra, la stessa se il comandante della rivoluzione repubblicana turca non avesse potuto uscire con onore della disfatta nel conflitto da combattente invitto nelle varie battaglie e consolidare ulteriormente la sua fama negli anni successivi al 1918, segnato dall’armistizio di Mudros e dall’occupazione alleata di Costantinopoli. Da Gallipoli fino agli ultimi giorni di conflitto, passati affrontando nella zona di Aleppo le truppe dell'Intesa, Ataturk non ottenne un singolo insuccesso in battaglia, includendo nel computo anche le sfide con le truppe russe nel Caucaso. Parimenti, Lawrence fu audace e geniale condottiero che innovò al deserto l'arte della guerriglia. La prese di Aqaba, fortezza ottomana sul Mar Rosso espugnata con un raid dalla terraferma compiuta dalle truppe cammellate sbucate nel deserto bruciato dalla calura estiva nel 1917, fu indubbiamente facilitata dall'incapacità dei comandanti ottomani di contrapporre alla rivolta una strategia efficace. Come avrebbe potuto cambiare il destino della rivolta se ad affrontare Lawrence fosse stato proprio il futuro presidente della Turchia postbellica? La storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, porsi una domanda del genere è lecito alla luce del fatto che Ataturk ben conosceva le dinamiche della guerriglia avendole applicate lui stesso pochi anni prima, nella difesa della Tripolitania e della Cirenaica ottomane: Ataturk si distinse con onore nella guerra combattuta dagli Ottomani contro l’Italia in Libia tra il 1911 e il 1912, comandando le unità nella zona di Derna, organizzando la guerriglia e la resistenza delle tribù locali, dopo aver anticipato Lawrence d’Arabia attraversando l’Egitto britannico vestito con gli abiti tribali tradizionali per poter far la spola con la madrepatria. Il 18 ottobre 1912, alla firma dell’armistizio con l’Italia, Derna fu consegnata senza esser stata espugnata sul campo. Come Lawrence, Ataturk capì che l'errore principale degli ottomani nei confronti delle tribù arabe era la loro volontà di porre esplicitamente il ceppo turco come dominante a scapito degli abitanti delle province dominate dalla Sublime Porta. Nazionalista panturco, Ataturk capì che per comandare con efficacia la difesa delle roccaforti libiche avrebbe dovuto inevitabilmente conquistare la fiducia dei leader locali. Il Gazi non esitò a stringere patti di ferro con la tribù dei Senussi, a promuoverne le pratiche sufi nelle bande di irregolari poste al suo comando, a vestire con gli abiti tradizionali per conquistare il loro consenso: tutte dinamiche che Lawrence avrebbe applicato nei deserti arabi. Prima di Lawrence, il comandante turco portò all'innovazione l'arte della guerra nel deserto, fatta di movimenti sotto traccia, di spostamenti notturni, di dinamiche simili a quella della guerra navale, in cui avanzate e ritirate hanno senso nel quadro di una strategia complessiva che non mira esclusivamente al controllo del territorio. E, ancora, prima di Lawrence, Ataturk seppe capire il peso politico del riconoscimento di una causa nazionale per sostenere la coesione con truppe "straniere" da parte delle tribù arabe. Il Feisal, sceriffo della Mecca, di Ataturk fu Seyid Ahmed Senussi, zio del futuro re di Libia Idris I. Vi è dunque da pensare che lo scontro avrebbe, in un certo senso, segnato i destini della regione. Ataturk era statista e uomo d'armi e non avrebbe esitato a cercare di isolare il guerrigliero Lawrence politicamente, mirando a creare un nuovo consenso con gli Arabi soggetti a Costantinopoli. Campo in cui il fallimento ottomano fu, alla prova dei fatti, totale, spianando la strada alla dissoluzione del dominio turco nella regione. Se in una contesa del genere a prevalere fosse stato Mustafa Kemal, difficilmente la causa araba avrebbe potuto svilupparsi con la stessa dinamicità e si sarebbe potuto arrivare con eguale velocità alla spartizione del Medio Oriente imposta dopo la fine dell'Impero ottomano da francesi e britannici. Vincendo contro Ataturk, invece, Lawrence avrebbe potuto togliere al futuro "Padre dei Turchi" ed eroe nazionale l'aura di invincibilità in battaglia su cui Mustafa Kemal fece presa quando guidò la rivoluzione contro le condizioni punitive imposte dal Trattato di Sevres e la riconquista completa dell'Anatolia, sede della Repubblica di Turchia postbellica. In entrambi i casi, questa ucronia avrebbe cambiato decisamente gli assetti mediorientali per come li conosciamo. Visto dall'ottica dell'Ataturk politico, l'aver rifiutato di domare la ribellione nell'Hegiaz e di sfidare Lawrence fu la decisione, col senno di poi, migliore in quando accelerò il progetto di "turchizzazione" dell'Anatolia, catalizzato dalla disfatta bellica a cui Lawrence diede un contributo fondamentale. Ma vista con l'occhio del soldato la scelta fu, dal punto di vista del futuro leader della Repubblica turca, un errore. Kemal uscì invitto da una guerra persa. E questo nessun comandante può definirlo un trionfo, se non dal punto di vista dell'onore personale. Le sabbie del Medio Oriente avrebbero potuto, in tal caso, decidere di consegnare solo uno dei due nomi all'epoca della storia del Novecento. Su cui militarmente le figure di Ataturk e Lawrence ancora oggi troneggiano.

Da repubblica.it il 12 aprile 2021. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha discusso oggi pomeriggio con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel della visita ad Ankara, esattamente una settimana dopo l'incidente del Sofagate. Lo ha reso noto una fonte della Commissione europea precisando che la presidente ha chiarito che non permetterà mai più che una situazione del genere si ripresenti un'altra volta. Nel corso del loro faccia a faccia i due leader hanno discusso una serie di argomenti di attualità. Domani parteciperanno entrambi alla Conferenza dei presidenti al Parlamento europeo.

Dagoreport il 7 aprile 2021. La notizia del giorno nel mondo occidentale è il trattamento da sguattera riservato alla presidente della Commissione Europea, Von der Leyen, da parte di Erdogan. Il sultano di Ankara lascia Ursula senza poltrona durante la visita dei leader Ue: lui e il presidente del consiglio europeo Charles Michel prendono posto con le rispettive bandiere alle spalle, mentre la presidente viene lasciata prima in piedi, poi in un divano. Mancava poco che Erdogan le chiedesse di passare lo straccio e di portare il caffè. Come è stata possibile una pubblica umiliazione cosi' clamorosa dell'Europa tutta, attraverso la persona che la rappresenta? Un passo indietro, di natura tecnica. L'Unione Europea non è uno Stato sovrano, e come tale manca di quelle strutture che possono sembrare inutili orpelli ma sono parte integrante della struttura di un Paese. Il cerimoniale della Repubblica, ad esempio, da noi saldamente piazzato tra il primo piano della Farnesina e il palazzo del Quirinale. Presieduto da un ambasciatore di grado, è quello che si occupa di "incarrozzare" le macchine nelle visite ufficiali, che stabilisce chi debba sedersi e dove, seguendo gerarchie e protocolli rigidissimi e molto antichi. In una visita di Stato ogni dettaglio è studiato, stabilito, negoziato nei minimi dettagli da mani esperte e capaci. Perché la forma è sostanza. In un mese la Commissione ha collezionato due sconfitte clamorose in politica estera. Prima della mortificazione di Ursula senza seggiola, c’era stata la visita a Mosca dell'Alto rappresentate per la politica estera, Josep Borrell, con l’obiettivo di ottenere la liberazione del dissidente politico Alexei Navalny: non solo Borrell non ha ottenuto il risultato - e lo si sapeva in anticipo - ma ha anche subito l'espulsione di tre diplomatici europei accusati di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative (Ha subìto anche l’affronto, durante la conferenza stampa con il ministro degli esteri russo Lavrov, di vedere l’Europa accusata di violazione dei diritti umani. Sul piano diplomatico, un disastro clamoroso). La Commissione Europea dispone solo di un servizio per le relazioni esterne, a cui a capo siede Josep Borrell, lo spagnolo che è alto rappresentante dell'Unione. Come direttore generale ha scelto Stefano Sannino, diplomatico di lungo corso e indubbia esperienza. Ma forse non è abbastanza. La mancanza di un corpo diplomatico e di un servizio di cerimoniale capace di fare il proprio dovere sta emergendo in modo prepotente. Il dito è puntato contro Erdogan, ci mancherebbe. Ma chi avrebbe dovuto proteggere Ursula Von der Leyen e, con lei, l'Europa tutta, non è stato in grado di farlo. Non ci si può aspettare condiscendenza da parte di un ceffo come Erdogan, bisogna pretendere il rispetto delle regole e bisogna farlo attraverso i canali che da secoli sono preposti a questo. Inutile ogni commento su quel merluzzo lesso di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, che si è seduto assecondando lo sgarbo di Erdogan e lasciando in piedi la Von der Leyen.

(ANSA il 7 aprile 2021) - ROMA, 07 APR - La visita dei leader Ue in Turchia lascia in eredità un incidente di protocollo che sui social, fra numerose critiche, è stato già ribattezzato "sofagate". Di mezzo c'è infatti un divano, quello su cui il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ieri ha fatto accomodare la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, mentre lui e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, prendevano posto su due poltrone con le rispettive bandiere alle spalle. La scena è ripresa in un video diventato virale in cui si sente un mugugno di disappunto da parte di von der Leyen mentre gli altri due si accomodano sulle poltrone. Nella scena successiva si vede la presidente della Commissione Ue seduta su un divano posto alla destra degli interlocutori. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen "chiaramente è rimasta sorpresa, lo si vede nel video, ma ha preferito dare priorità alle questioni di sostanza rispetto al protocollo". Lo ha detto il portavoce della commissione europea Eric Mamer rispondendo ai giornalisti sul 'sofagate' durante la visita ieri ad Ankara precisando comunque che la Commissione "si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato" e che "saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro". (ANSA).

Monica Ricci Sargentini per corriere.it il 7 aprile 2021. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen trattata come una presenza marginale per la quale non è nemmeno prevista una sedia. È successo ieri ad Ankara durante l’incontro con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. «Le donne sono le nostre madri» ama ripetere il presidente turco per sottolineare quanto le rispetti e le consideri. Ma evidentemente devono saper stare al loro posto. Tutte. Persino Ursula von der Leyen che occupa la carica più alta nell’Unione Europea. Nessuno, però, sembra aver protestato nella giornata di ieri. La presidente della Commissione Ue era giunta in Turchia insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel ma quando i tre sono entrati in una sala riccamente decorata nel palazzo presidenziale di Ankara c’erano solo due sedie predisposte. Gli uomini si sono seduti mentre von der Leyen, in chiaro imbarazzo, li fissava incerta. Alla fine la leader europea ha fatto un cenno con la mano destra come a dire «non vi preoccupate» e si è andata a sedere su un divano beige a circa tre metri di distanza, di fronte al ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, che però è ben al di sotto di lei nel protocollo diplomatico. L’increscioso episodio, immortalato dai fotografi e dal video ufficiale dell’incontro è immediatamente rimbalzato sui social con l’hashtag #sofagate. Come mai Michel non ha mosso un dito? Perché non ha offerto il suo posto a von der Leyen? Perché lei ha accettato la situazione senza reagire? Sono le domande che si pongono gli internauti sui social. L’eurodeputata olandese Sophie in’t Veld ha fatto notare su Twitter che nei precedenti incontri tra il leader turco e i due presidenti europei i tre occupavano sedute equivalenti. Foto di precedenti incontri tra Erdogan e gli allora presidente del Consiglio Ue Tusk e capo della Commissione Jean-Claude JunckerFoto di precedenti incontri tra Erdogan e gli allora presidente del Consiglio Ue Tusk e capo della Commissione Jean-Claude Juncker. La gaffe diplomatica avviene a ridosso dell’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Una decisione criticata dall’Unione Europea e dal mondo intero.

Dimenticanza o gesto politico? Erdogan e lo sgarbo all’Europa, il "Sultano" turco lascia von der Leyen senza sedia: scoppia il "sofagate". Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Aprile 2021. La recente visita di una delegazione europea in Turchia, alla "corte" del presidente Recep Tayyip Erdogan, ha lasciato dietro di sé strascichi e polemiche dall’eco vastissimo. Soltanto oggi è emerso infatti il video, già ribattezzato del "sofagate" (sofa in inglese significa divano, ndr), in cui infrangendo o dimenticando volutamente qualsiasi cerimoniale, il ‘Sultano’ turco fa accomodare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo, l’ex premier belga Charles Michel, rispettivamente su un divano e una sedia. Entrati nel sontuoso palazzo presidenziale di Ankara, ad attendere i tre e il ministro degli Esteri turco Melvut Cavusoglu ci sono però solo due sedie: Erdogan senza pensarci fa sedere Michel, con la von der Leyen che resta attonita in piedi. Dopo qualche secondo di imbarazzo, in cui lo stesso Michel resta fermo senza reagire, la numero della Commissione Ue emette un verso quasi gutturale fino a quando viene fatta accomodare su un divano, ben distanziata da Erdogan e dallo stesso Michel. Una scena che Ursula von der Leyen non ha commentato direttamente. Il portavoce della Commissione europea Eric Mamer rispondendo ai giornalisti sul "sofagate" ha spiegato che la presidente “chiaramente è rimasta sorpresa, lo si vede nel video, ma ha preferito dare priorità alle questioni di sostanza rispetto al protocollo”. Mamer ha comunque sottolineato che la Commissione “si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato” e che “saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro”. L’incontro era servito a Turchia ed Unione Europea per discutere di alcuni dossier chiave: dalla questione migranti alla lotta al cambiamento climatico, fino al rispetto dei diritti umani. Su quest’ultimo punto la von der Leyen si era detta “molto preoccupata” per la scelta turca risalente ad alcune settimane fa di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Che la mossa di Erdogan di far sedere Michel sia un gesto sessista e politico? Ad evocarlo è stata l’eurodeputata olandese Sophie in ‘t Veld, che su Twitter ha ricordato come in passato negli incontri tra Erdogan e i precedenti presidenti europei, Jean-Claude Junker e Donald Tusk, occupavano tutti sedute "equivalenti". Il non detto è che la mossa di Erdogan potrebbe essere un incidente voluto, l’ennesimo gesto di disprezzo verso le donne da parte di un presidente che sta portando il suo Paese sempre più verso l’islamismo radicale, unito ad un nazionalismo sempre più sfrontato ed evidente anche dall’interventismo negli scenari di guerra esteri.

Erdogan lascia Von der Leyen senza sedia: è “sofagate”. Il Dubbio il 7 aprile 2021. Il presidente turco riceve il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea ad Ankara. Ma per lei non c'è la sedia. Un incidente o uno sgarbo ben studiato? L’episodio è già diventato un caso diplomatico. E a Bruxelles lo hanno soprannominato il «sofagate» con tanto di hashtag per i social. Parliamo del torto commesso dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ma anche dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nei confronti della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, lasciata senza sedia al ricevimento nel Palazzo di Ankara. La presidente della Commissione europea era giunta in Turchia insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e i tre sono entrati in una sala riccamente decorata. Ma c’erano solo due sedie predisposte: si sono seduti i due uomini e Von der Leyen è rimasta in piedi. Il filmato che ritrae la scena è già la parte più vista e discussa del vertice. «Ehm», è stata la reazione muta ma indignata di von der Leyen che con un cenno ha voluto chiedere spiegazioni e ricevere indicazioni su dove accomodarsi. Le è quindi stato assegnato un divanetto a tre metri di distanza, di fronte al ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, declassandola secondo il protocollo diplomatico e, soprattutto, come donna. La presidente è stata «chiaramente sorpresa, come si vede nel video», dal trattamento ricevuto, ma «ha scelto di concentrarsi sulla sostanza dei problemi e non sulla forma»,  ha chiarito il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer. «La visita è stata preparata usando i canali con la nostra delegazione ad Ankara. L’ufficio di protocollo della Commissione non ha partecipato per limitare i contatti a causa del Covid», spiega Mamer. «L’episodio – sottolinea – non dovrebbe far passare in secondo pianole ragioni del viaggio». «Mettiamo le cose in chiaro. Qualcuno dovrebbe vergognarsi a causa della mancanza di un posto adeguato per Ursula von der Leyen nel palazzo di Erdogan. L’Ue ha segnalato l’apertura al dialogo, ma siamo fermi sui nostri valori. Le donne meritano lo stesso riconoscimento dei loro colleghi maschi», ha scritto il Ppe, principale formazione politica all’Europarlamento, in un tweet. «La presidente von der Leyen lasciata senza sedia da Erdogan se ne sarebbe dovuta andare, vendicando così anche le donne turche, i cui diritti sono oggi sotto attacco. Vergognoso l’atteggiamento di Charles Michel che non sembra aver mosso un dito», ha rincarato il capo delegazione del Pd al Parlamento europeo, Brando Benifei. Certo è che il simbolismo dell’ex ministra tedesca confinata in un divanetto laterale è potente: visi può leggere la scarsa coesione tra istituzioni Ue, il declino della Germania post Merkel, un residuo di maschilismo nelle relazioni internazionali o un semplice disastro dei responsabili del cerimoniale. La sedia, del resto, è sempre stata un’immagine evocativa: nell’arte può indicare una presenza ma anche un’assenza, una perdita o la speranza di un ritorno. Nella costruzione europea è passata alla storia la politica della «sedia vuota» adottata nel 1965 da Charles de Gaulle: la Francia boicottò tutte le riunioni della Cee per contestare la svolta federalista proposta dalla Commissione di istituire un bilancio comunitario autonomo e di rafforzare i poteri del Parlamento europeo. La crisi si concluse solo l’anno dopo con il «compromesso di Lussemburgo» che introdusse il diritto di veto: da allora basta una sedia per bloccare le decisioni in materia di sicurezza, affari esteri e imposizione fiscale.

"Arrogante", "Ursula signorile". E ora è rivolta contro Erdogan. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo interpellato la forzista Gabriella Giammanco e l'ex ministro Livia Turco sullo sgarbo istituzionale compiuto dal premier turco Erdogan nei confronti del presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen. Francesco Curridori - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo interpellato la forzista Gabriella Giammanco e l'ex ministro Livia Turco sullo sgarbo istituzionale compiuto dal premier turco Erdogan nei confronti del presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen.

Secondo lei, la Von der Leyen ha fatto bene a comportarsi così? E lei che avrebbe fatto al suo posto?

Turco: “Credo che Ursula Von Der Leyen si sia comportata bene. Il suo atteggiamento così elegante rende ancora più evidente l'ineleganza e l'arroganza di Erdogan”.

Gianmanco: “Allo stesso modo. Ursula von der Leyen si è comportata in modo signorile, ha evitato di discutere sulla forma concentrandosi sulla sostanza dell’incontro, dando una vera e propria stoccata a Erdogan nel momento in cui gli ha posto la questione dei diritti femminili. Discutibile, invece, il comportamento di Michel. Nel 2015, ad Antalya, entrambi i leader dell’Ue dell’epoca, Juncker e Tusk, furono fatti accomodare in due poltrone equidistanti da quella di Erdogan. Come ha osservato il portavoce della Commissione Ue, durante gli incontri coi capi di Stato o di governo esteri, il Presidente della Commissione e del Consiglio europeo siedono allo stesso modo. Evidentemente ad Ankara qualcosa è andato storto nonostante le delegazioni, quella ospitante e quella in visita, si confrontino sempre prima dell’inizio di una missione”.

Charles Michel avrebbe dovuto alzarsi e lasciare il posto alla Ursula?

Turco: “Sì, assolutamente. O comunque non sarebbe dovuto essere tacito e complice di questa situazione”.

Gianmanco: “Sicuramente non avrebbe dovuto sedersi facendo finta di nulla”.

L'Unione Europea esce indebolita da questa vicenda?

Turco: “Non credo che ne esca indebolita. Più che altro emerge una grande differenza tra le istituzioni europee e quelle turche. Vedo solo l'arroganza altrui, non la nostra debolezza”.

Gianmanco: “Questo episodio non ha restituito l’immagine di un’ Europa pronta a lottare per i propri principi liberali e democratici, per i diritti e i valori su cui si fonda. Non parlerei, però, di ‘indebolimento’, non è un singolo episodio a determinare la forza o la debolezza dell’Unione europea semmai l’assenza di una politica estera e di difesa comune. Tutte questioni che si potranno risolvere solo se il processo di integrazione sarà portato avanti, anche superando il diritto di veto dei singoli Paesi membri su certe tematiche”.

Questa vicenda segna la fine di ogni ipotetico ingresso della Turchia in Europa?

Turco: “L'ingresso della Turchia in Europa diventa sempre più complicato sicuramente a causa di gesti così poco rispettosi che rivelano una cultura un po' patriarcale e arrogante, ma non solo. L'accantonamento della Convenzione di Istanbul sulla lotta contro la violenza sulle donne è un fatto gravissimo. È il regime illiberale di Erdogan che rende difficile l'ingresso della Turchia in Europa”.

Gianmanco: “L’Europa non è solo un’unione economica, occorre aderire a principi liberali, democratici, di laicità e rispettare i diritti umani per poter pensare a un percorso comune. Di certo, al momento, con Erdogan, tutto ciò appare impraticabile”.

L'Unione Europea dovrebbe continuare a finanziare la Turchia sui migranti?

Turco: “Credo che l'Europa debba cambiare la sua politica migratoria perché appaltare alla Turchia il controllo delle frontiere mi pare una scelta di debolezza dell'Europa. Credo che doversi affidare ai controllori delle frontiere esterne sia un elemento ulteriore di revisione della politica europea dell'immigrazione”.

Gianmanco: “Ritengo che il fenomeno migratorio non possa prescindere da accordi con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e quindi dalla necessità di dialogare, per quanto possibile, con Ankara. È, però, anche vero che la Turchia non può continuare ad utilizzare i migranti come strumento di pressione senza poi rispettare alla lettera i patti. Quello che sta accadendo al confine con la Grecia è intollerabile".

Draghi a Erdogan: "Dittatore". La Turchia convoca l'ambasciatore. Il premier attacca il "Sultano" sul caso Von der Leyen. La Turchia reagisce sul piano diplomatico. Tensione con Roma. Lorenzo Vita - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Il caso diplomatico tra Unione europea e Turchia riecheggia anche a Roma, nelle stanze di Palazzo Chigi. Dopo le accuse dei parlamentari, ora è il turno del premier Mario Draghi, che risponde così a una domanda in conferenza stampa su quanto accaduto in Turchia con protagonisti Ursula von der Leyen, Charles Michel e Recep Tayyip Erdogan: "Non condivido assolutamente il comportamento di Erdogan nei confronti della presidente Von der Leyen, credo non sia stato appropriato. Mi è dispiaciuto tantissimo per l'umiliazione che Von der Leyen ha dovuto subire. La considerazione da fare è che con questi dittatori di cui però si ha bisogno di collaborare, o meglio di cooperare, uno deve essere franco nell'esprimere la differenza di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronto a cooperare per gli interessi del proprio paese". Draghi entra a gamba tesa nel dibattito sul "sofa-gate" di Ankara e lo fa con parole molto dure nei confronti del presidente turco. "Dittatore" non è un termine che si usa in modo casuale. E di certo Draghi non è un presidente del Consiglio che solitamente si inerpica in frasi roboanti o in pura propaganda. Le parole hanno un peso e definire in quel modo il presidente della Turchia significava lanciare un segnale chiarissimo non solo nei confronti della Turchia, ma anche per far comprendere la direzione intrapresa dal blocco euro-atlantico di cui Draghi è uno dei principali interpreti. Parole che ovviamente hanno acceso lo scontro diplomatico. E non poteva essere altrimenti. Subito dopo la conferenza stampa in cui il premier ha definito Erdogan un "dittatore" sostanzialmente necessario, il ministero degli Esteri turco ha convocato l'ambasciatore italiano, Massimo Gaiani. A renderlo noto è stata l'agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu. A stretto giro arriva anche la condanna del ministro degli Esteri, Mevut Cavusoglu. "Il premier italiano, nominato, Mario Draghi, ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile nei confronti del nostro presidente della Repubblica, che è stato scelto attraverso elezioni", ha detto il capo della diplomazia turca. E ha poi aggiunto: "Condanniamo con forza le parole riprovevoli e fuori dai limiti e le rispediamo al mittente". Cavusoglu ha poi chiesto che "vengano immediatamente ritirate le dichiarazioni sgradevoli e fuori dai limiti" dette da Draghi nei confronti di Erdogan. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è intervenuto durante la trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4 e ha commentato così la tensione tra Italia e Turchia dopo le parole del premier: "In queste ore sentirò Mario Draghi e coordineremo le iniziative che si devono intraprendere, non anticipo niente". E sulla questione "sofa-gate" ha sentenziato: "Ritengo che si tratti prima ancora di protocollo di un minimo di galanteria".

Turchia, Draghi ritiri subito le frasi su Erdogan. (ANSA l'8 aprile 2021) All'ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani, convocato stasera al ministero degli Esteri turco, "è stato sottolineato che ci aspettiamo che queste brutte e sfacciate affermazioni" del premier italiano Mario Draghi sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan, "che non sono conformi allo spirito di amicizia e di alleanza tra Italia e Turchia, vengano immediatamente ritirate". Così una nota del ministero degli Esteri di Ankara.

(ANSA il 9 aprile 2021) "A seguito delle inaccettabili dichiarazioni fatte oggi dal primo ministro italiano" Mario Draghi "sul nostro presidente" Recep Tayyip Erdogan, "l'ambasciatore italiano ad Ankara è stato immediatamente convocato questa sera presso il nostro ministero", riferisce il comunicato turco. A conferire con il nostro ambasciatore è stato Il viceministro degli Esteri con delega agli Affari Ue, Faruk Kaymakci, che nell'esprimere la "forte condanna" della Turchia per le parole di Draghi, ha sottolineato che Erdogan "è il leader eletto con il più forte sostegno del voto popolare in Europa". La nota di Ankara entra poi nel merito della vicenda del caso 'Sofagate', da cui sono partite le dichiarazioni di Draghi. "Nessuno può mettere in dubbio l'ospitalità della Turchia. Il nostro Paese - si legge - non prenderà parte a una insensata e maliziosa discussione all'interno dell'Ue" e giudica "vani i tentativi di danneggiare l'agenda positiva tra Turchia e Ue". "Da noi non ci sono dittatori. Se volete vedere un dittatore, guardate alla vostra storia. Guardate Mussolini". Così il vice-leader dell'Akp del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, Numan Kurtulmus, rivolgendosi all'Italia, dopo che il premier Mario Draghi ha definito Erdogan un "dittatore". (ANSA). "Il primo ministro nominato d'Italia ha superato i limiti definendo come "dittatore" Recep Tayyip Erdogan, che è stato eletto Presidente dal popolo turco con il 52%. Condanniamo fermamente questo stile, che non ha posto nella diplomazia. Chi cerca il dittatore guardi alla storia d'Italia". Lo scrive su Twitter il capo della comunicazione della Presidenza di Ankara, Fahrettin Altun, in un messaggio in italiano. Una condanna analoga giunge anche dal portavoce del capo dello stato turco, Ibrahim Kalin, che sempre via Twitter chiede che "questa affermazione venga corretta immediatamente". (ANSA).

Draghi contro Erdogan. Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 9 aprile 2021. A un certo punto, durante la conferenza stampa, hanno chiesto a Draghi: cosa ne pensa dello sgarbo di Erdogan alla presidente Ursula von der Leyen? Risposta: «Non condivido assolutamente le posizioni di Erdogan e penso non sia stato un comportamento appropriato. Mi è dispiaciuto moltissimo per l'umiliazione che la presidente della Commissione von der Leyen ha dovuto subire. La considerazione da fare è che con questi dittatori, chiamiamoli per quel che sono, uno deve essere franco nell'esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni e di visione della società».

Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha definito «offensive e imprudenti» le dichiarazioni di Draghi. «Condanniamo con forza le inaccettabili parole del premier nominato italiano sul nostro presidente eletto». In serata, poi, ha convocato l'ambasciatore italiano in Turchia Massimo Gaiani per protestare.

Riguardo alla faccenda della sedia per Ursula, il ministro ha detto: «Nel protocollo implementato nella riunione su scala ristretta tenutasi presso l'ufficio del nostro Presidente, le richieste della parte dell'UE sono state soddisfatte».

«Stando a una nota del Consiglio europeo ai diplomatici non è stato permesso di visitare in anticipo la sala dell'incontro poiché troppo vicina agli uffici di Erddgan. Lo stesso è avvenuto per la sala da pranzo, che però è stata vista qualche minuto prima, e si è provveduto ad aggiungere una sedia, anche lì, mancante. Come non farsi venire il sospetto - vista la sala da pranzo - che lo stesso sarebbe accaduto per la sala dell'incontro? La sedia per von der Leyen, è chiaro, non era stata prevista dai turchi, ma senz'altro non è stata richiesta dagli europei. Se così fosse stato, "la richiesta sarebbe stata soddisfatta"» [Sta].

«Il colpo da ko: un (anonimo) alto funzionario turco insinua che il "sofagate" sia nato dalle "gelosie" tra Michel e von der Leyen. Bersaglio centrato, visto che il dubbio serpeggia anche a Bruxelles, dove viene attribuita al belga una certa gelosia verso la tedesca» [D'Argenio, Rep)].

La Turchia, per l'Italia, è il quinto partner commerciale più importante, il secondo a livello europeo dopo la Germania.

A Roma, intanto, i deputati del Partito democratico hanno sistemato una sedia vuota al centro dell'emiciclo di Montecitorio per protestare contro quella che definiscono «un'offesa a tutte le donne».

Emanuele Bonini per La Stampa l'8 aprile 2021. Bruxelles – Adesso il sofagate finisce in Parlamento. Gli eurodeputati, ancora in pausa a Bruxelles sulla scia delle festività pasquali, non restano a guardare e dai loro collegi elettorali organizzano il lavoro delle prossime settimane. Per la sessione plenaria di fine mese (26-29 aprile) i due gruppi più numerosi, popolari (Ppe) e socialdemocratici (S&D) chiedono che si discuta in Aula della missione ad Ankara dei presidenti di Commissione e Consiglio europeo, per fare luce sulla vicenda e chiedere la testa di Charles Michel, reo di essersi prestato al gioco del presidente turco. La missione di Ursula von der Leyen e Charles Michel in Turchia «avrebbe dovuto essere un messaggio di fermezza e unità del nostro approccio al presidente Erdogan». Invece, lamenta il capogruppo del Ppe, Mafred Weber, «purtroppo ha portato a divisioni, poiché l'Ue non è riuscita a stare insieme quando era necessario». Da qui la richiesta di calendarizzare il dibattito, che trova d’accordo anche il centro-sinistra. «Le relazioni UE-Turchia sono fondamentali, ma lo sono pure l'unità dell’Ue e il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle donne», incalza la capogruppo S&D, Iratxe Garcia Perez, che vuole «chiarire» cosa è successo e cosa non ha funzionato in Turchia. Proprio dai banchi dei socialdemocratici parte l’attacco frontale a Michel, liberale, accasato nel stesso gruppo (Renew) del partito del presidente francese Emmanuel Macron. Alla loro capogruppo Perez le europarlamentari del PD Alessandra Moretti e Patrizia Toia chiedono di farsi promotrice di una «iniziativa di censura nei confronti  del Presidente del Consiglio Michel» per la sua «palese  inadeguatezza». Parlamento contro Consiglio, popolari contro liberali, macroniani contro non-macroniani. Comunque andrà a finire il presidente turco ha già vinto. L’Unione europea è caduta nella trappola orchestrata ad arte, e dopo il sofagate litiga e si divide. E sul caso “Sofà-gate”, questa sera, nel corso della conferenza stampa sul punto pandemia-vaccini e futuro economico dell’Italia, è intervenuto anche il premier Mario Draghi che ha toccato anche temi di carattere nazionale. «Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno. Non condivido affatto il comportamento di Erdogan. E' stato un comportamento di cui mi dispiace moltissimo per l'umiliazione che la presidente della Commissione Ue, Von der Leyen, ha dovuto subire». E poi: «Con questi..chiamiamoli dittatori, bisogna essere franchi nell'espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l'equilibrio giusto».

Draghi all’assalto di Erdogan: cosa c’è dietro l’affondo del premier. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 aprile 2021. Mario Draghi irrompe nella crisi tra Europa e Turchia e lo fa con una presa di posizione durissima nei confronti del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. In conferenza stampa il presidente del Consiglio ha apostrofato il leader di Ankara come un “dittatore“, definendolo tutt’al più necessario, come interlocutore, per tutelare gli interessi nazionali. Una mossa che ha scatenato l’ira della Turchia che non solo ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara ma ha anche chiesto ufficialmente che Draghi faccia marcia indietro per le parole rivolte nei confronti del presidente. La tensione tra i due Paesi è palese. Il premier italiano, non certo noto per la durezza del suo linguaggio in conferenza stampa, ha espresso parole chiare e gravi. Impossibile pensare che il governo turco non reagisse di fronte a quelle frasi. E quindi è del tutto evidente che se non vogliamo parlare di gaffe, possiamo allora parlare di una scelta di comunicazione precisa da parte del presidente del Consiglio. Una mossa che svela non soltanto una rinnovata assertività diplomatica italiana nel Mediterraneo, ma anche la scelta da parte di Draghi di muoversi sui due binari che hanno da subito contraddistinto il suo incarico: europeismo e atlantismo. Sul fronte europeo, è chiaro che Draghi abbia voluto inviare un segnale. Mentre l’Ue si è dimostrata impacciata e rigida nei confronti del presidente turco, e mentre Angela Merkel ed Emmanuel Macron non hanno manifestato in modo netto la loro distanza da quanto avvenuto ad Ankara, Draghi ha fatto capire di poter essere un elemento molto più importante nelle gerarchie europee. La sua è una presa di posizione netta, dura e particolarmente incisiva. E la decisione di entrare così a gamba tesa a difesa di Ursula von der Leyen ma soprattutto contro Erdogan sembra voler dire qualcosa a tutta l’Europa: la sua leadership in Italia può tramutarsi in una leadership europea. E lo può fare sfruttando non solo le occasioni che gli si presentano nel corso del tempo ma anche l’indubbia fragilità mostrata sia da Macron che da Merkel. Con l’asse franco-tedesco indebolito, Draghi può puntare a entrare come “terzo incomodo” tra i due poli d’Europa. E può farlo per il credito ottenuto in questi anni a Francoforte ma anche per convergenze internazionali particolarmente importanti. In questo allineamento planetario in favore di Draghi rientra anche l’arrivo di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. Il presidente democratico non è per niente soddisfatto di quanto avvenuto in questi anni in Turchia. Considera Erdogan un problema, non ha nemmeno provato a telefonargli dopo settimane dal suo insediamento, e l’impressione è che da parte della Casa Bianca si voglia rendere chiaro un concetto: la Turchia è un importante alleato Nato ma deve sottostare a quanto deciso dal quartier generale atlantico. Una questione che è diventata molto rilevante per Biden soprattutto nell’ottica di contrapposizione a Cina e Russia, che in questi anni hanno invece stretto con la Turchia dei legami molto forti. Il divario tra Biden e Erdogan può sicuramente fare il gioco di Draghi, dal momento che invece il premier italiano gode eccome dei favori di Washington. Il presidente del Consiglio ha già fatto capire di avere molto a cuore le relazioni con gli Stati Uniti. Ed è chiaro che l’avversione della Casa Bianca per l’attuale amministrazione turca trova in Italia una sponda importante. Soprattutto perché la possibilità di avere il placet americano aiuterebbe Roma a riprendere settori vitali della Libia finiti in questi anni nelle mani proprio di Ankara. E il viaggio a Tripoli è stato particolarmente importante proprio per far capire il ruolo italiano nel Paese. Tutto così semplice? Non proprio. Vero che Draghi ha il sostegno di Europa e Stati Uniti anche sul fronte turco, ma il premier ha detto una frase un po’ più complessa quando si riferiva Erdogan come a un “dittatore”. Il presidente del Consiglio ha infatti detto: “Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto”. Ecco, su questa frase occorre riflettere. Perché è proprio qui che l’Italia si gioca tutto. La Turchia è un partner molto importante dell’Italia nel Mediterraneo. L’interscambio commerciale è ottimo, gli accordi in diversi settori economici sono fondamentali, esistono progetti bilaterali sul fronte della logistica, ma è soprattutto una relazione che vede in Libia il suo principale teatro di incontro. E di scontro. Ankara e Roma hanno condiviso, pur con posizioni diverse, l’asse con Tripoli quando Fayez al Sarraj rischiava di capitolare. La Turchia addestra la Guardia costiera libica, che a sua volta dovrebbe interrompere il traffico di esseri umani dalle coste nordafricane. E non va dimenticato che i militari italiani, insieme a quelli turchi, sono presenti sia a Tripoli che Misurata, e sono loro ad aver reso possibile la permanenza di un governo a Tripoli. È chiaro che il gioco turco sia quello (anche) di strappare spazio di manovra all’Italia in Tripolitania. Inviare droni, mercenari e navi non è certo per beneficienza: e l’Italia è la prima a essere stata lesa ne suoi interessi nel Paese nordafricano. Ma la cooperazione esiste ed è innegabile. Se non altro perché non va dimenticato che mentre Italia e Turchia supportavano l’ex premier Sarraj, altri sostenevano più o meno velatamente l’assedio di Khalifa Haftar, tra cui Russia, petromonarchie arabe e, in parte, la Francia. La stessa Grecia, rappresentata in questi giorni a Tripoli da Kyriakos Mitsotakis, non ha nascosto in certe fasi un’infatuazione per il maresciallo della Cirenaica. E anzi, il vertice di ieri in Libia tra Draghi e l’omologo greco potrebbe essere stato il preludio di questo scontro con Erdogan e di un rinnovato allineamento con Ue e Nato. Insomma, se la questione del sofa-gate può essere semplice da analizzare e commentare, diverso è il caso dei rapporti tra due Stati quando si è sul campo di battaglia. E quelli tra Italia e Turchia sono rapporti non solo complessi, ma anche molto delicati. Dalla Libia al Mediterraneo orientale fino al Corno d’Africa, lì dove l’Italia ha perso il suo ascendente facendo spazio proprio alle manovre di Ankara, c’è una Turchia con cui bisogna trattare. La durezza nei confronti di Erdogan è legittima; ma se poi lo si considera un interlocutore necessario per gli interessi nazionali, allora le cose cambiano. Specialmente perché le armi contrattuali, al Sultano, non mancano affatto.

L’Italia, l’ira del Sultano e lo spettro dell’effetto farfalla. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 aprile 2021. Si dice che il battito d’ali di una farfalla a New York possa provocare un urugano dall’altra parte del mondo o, parafrasando Alan Turing, che un evento apparentemente insignificante come lo spostamento femtometrico di un elettrone al tempo uno potrebbe innescare una catena di eventi culminante in una valanga omicida al tempo due. Si chiama effetto farfalla ed è una teoria che pertiene alla matematica e alla fisica, sebbene possa trovare valida applicazione anche nella geopolitica e nelle relazioni internazionali. Perché historia homines docet che gli eventi più impensabili, spesso e inconsapevolmente, hanno dato vita agli esiti più inattesi, improbabili e travolgenti, senza che l’Uomo, guidato com’è da un orizzonte temporale terreno, transitorio e labile, potesse prevenirli o cavalcarli. È il caso di una rivoluzione partita in Francia nel 1789, che vent’anni dopo avrebbe dato avvio all’emancipazione dell’Iberoamerica dall’impero spagnolo, o di uno sciopero operaio nel porto di Danzica nel 1970, che ventuno anni più tardi avrebbe condotto all’estinzione dell’Unione Sovietica. La cognizione del ruolo giocato dall’effetto farfalla nella storia apre gli occhi allo statista, che soltanto allora comprenderà la nodalità del fissare gli occhi sull’orizzonte e del tenere il ritmo spasmodico degli eventi del mondo. Non v’è altra maniera, infatti, per determinare se e quando la farfalla ha battuto le ali. E, peraltro, già lo scriveva Niccolò Machiavelli in quell’opera intramontabile intitolata “Il principe” che “bisogna sempre presagire non solo i pericoli presenti, ma soprattutto quelli futuri, per contrastarli in ogni modo”. Quelle insedie attuali di cui ci ha messo in guardia lo stratega fiorentino sono rappresentate dalle due ali di lepidottero che battono. È vero: non sappiamo né quando né dove la valanga colpirà, perché potrebbe essere oggi come fra dieci anni, ma siamo tenuti a rammentare anche la parte salvifica della tesi di Turing, cioè che dalle slavine ci si può salvare. Nel caso italiano, sapendo quando la farfalla ha battuto le ali – il 6 aprile, giorno dello sbarco a Tripoli di Mario Draghi – e sapendo quali teatri potrebbero essere travolti dalla cascata mortifera di neve – perché tornati in Libia su mandato dell’amministrazione Biden per fronteggiare Russia e Turchia –, è imperativo che il recupero del nostro posto al Sole venga inquadrato all’interno di una strategia lungimirante, onnicomprensiva, focalizzata sulla prevenzione ed estesa dal Mediterraneo al Caucaso meridionale.

Il peso delle parole. L’8 aprile, all’indomani dell’incidente che ha coinvolto Ursula von der Leyen ad Ankara, Mario Draghi ha definito Recep Tayyip Erdogan “un dittatore di cui si ha bisogno”; parole che hanno determinato la convocazione dell’ambasciatore italiano in Turchia. Scettico riguardo la teoria secondo cui la sedia non pervenuta sarebbe il frutto di un errore di protocollo, il primo ministro italiano ha voluto apporre un’etichetta magniloquente al capo di Stato turco, consapevole dell’importanza della semantica nella politica e, dunque, dei rischi ai quali andava incontro. Perché etichettare qualcuno equivale a categorizzarlo, dotarlo di un’identità e di un’appartenenza specifiche, che, in questo caso, risultano antagonistiche e antipodiche alla liberal-democratica Italia, rispondendo alla logica schmittiana e manichea dell’amico–nemico. Definendo Erdogan un dittatore, Draghi lo ha catalogato come un membro di quella comunità di stati illiberali che l’amministrazione Biden ha promesso di combattere, operando una netta distinzione tra “noi” (democratici) e “loro” (dittatoriali), segnando una profonda discontinuità con il passato recente, ovverosia con la politica dell’accomodamento di necessità di Luigi di Maio, e confermando implicitamente di aver ricevuto un mandato antiturco da oltreoceano. Il punto dell’intera questione, però, è un altro: il governo Draghi è sicuro di volersi imbarcare nella missione ad alto rischio affidatagli dagli Stati Uniti (e a latere da Francia e Germania)? In palio c’è il recupero dell’influenza sulla Libia, per quanto parziale e risibile rispetto all’epoca Berlusconi, ma dietro l’angolo si celano innumerevoli insidie, che, urge il coraggio di ammetterlo, potrebbero dare vita ad una slavina. Perché l’Italia non si ritroverà ad affrontare una potenza in declino, ma una in ascesa, e l’eventuale decisione di trattare simultaneamente la Russia con aperta ostilità non farà che elevare l’aleatorietà della partita, anche perché, occorre tenerlo in considerazione, non abbiamo una forma mentis imperiale e impostata sull’offensiva.

Dove potrebbe colpire la Turchia. La farfalla ha battuto le ali, perciò è giunto il momento di capire quando, come e dove avrà luogo il cataclisma. Non è dato sapere il quando, ma il come e il dove possono essere pronosticati con una certa disinvoltura dato che la provvidenza sembra aver unito in maniera (quasi) indissolubile Italia e Turchia: dove c’è l’una, lì c’è anche l’altra. Nel decennio del profondo sonno, cominciato nel lontano 2011 con il semaforo verde al cambio di regime in Libia, l’Italia si è progressivamente e silenziosamente ritirata da Balcani occidentali e Mediterraneo allargato, regalando o appaltando a terzi la gestione del proprio estero vicino, divenuto sempre più estero e sempre meno vicino. Approfittando dell’uscita dall’Orbe dell’Urbe, i giannizzeri della Sublime Porta rinata hanno creato avamposti fortificati lungo e dentro lo spazio di prosperità nostrano – disegnato malignamente dal fato come una terra eternamente condivisa e contesa tra popoli italici e turchi sin dai tempi della Serenissima e dello Stato Pontificio –, che, presto o tardi, potrebbero essere volti contro di noi. Urgono, a quest’ultimo proposito, delle precisazioni a scopo di disambiguazione: non si sta facendo riferimento a scenari fantapolitici di guerre aperte o per procura, ma a realistiche operazioni asimmetriche, manovre destabilizzanti e campagne di bellicismo economico che potrebbero assumere le seguenti forme: La riaffermazione della primazia italica in Libia, specialmente nei settori energetico e infrastrutturale, potrebbe venire sfidata da atti di sabotaggio, insurgenze estemporanee in prossimità degli obiettivi nostrani e concorrenza aggressiva da parte dei grandi privati turchi (e russi). Da non trascurare, infine, le seguenti realtà: intere sezioni del Paese sono divenute dei protettorati informali di Ankara e Mosca, l’era dell’italocentrismo è terminata da un decennio, la carta migratoria. Complicazioni potrebbero sorgere nei Balcani occidentali, dove l’impronta italiana è andata sbiadendo e arretrando, soprattutto tra Albania, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina. Tre nazioni, le suddette, dove la Turchia può vantare un’influenza culturale (e politica) crescente e raccoglierà sicuramente i frutti prelibati dell’impareggiabile macchina umanitaria messa in moto durante la pandemia. Anche in questo caso, progetti di cooperazione, agende congiunte e piani di investimento potrebbero subire dei bruschi e improvvisi arresti. La situazione non è più splendente nell’Africa orientale, dove la Sublime Porta ha dato prova dell’avvenuto sorpasso sull’Italia in occasione del caso Silvia Romano, liberata grazie all’opera di mediazione dei servizi segreti turchi, e sta siglando accordi riguardevoli in materia di sicurezza e cooperazione militare. Delle molteplici lezioni che l’Italia dovrebbe aver tratto dal caso Romano, una risalta tra tutte: la nostra rete spionistica nello spazio ex coloniale è prisca, anacronistica, da riciclare, cioè non è all’altezza di vivere la competizione tra grandi potenze. Ultimo ma assolutamente non meno importante è il mondo turcico, compreso fra Caucaso meridionale e Asia centrale, dove la diplomazia nostrana ha gettato con successo le basi per una trasmigrazione geopolitica. Scontro frontale con la Turchia e antagonizzazione della Russia, sino ad oggi silente sulla nostra espansione nello spazio postsovietico, significherebbero avvio delle ostilità su teatri per noi pivotali (l’Azerbaigian è il nostro primo rifornitore di petrolio dal 2013) e difficilmente difendibili a causa dell’assenza di alleati utili e validi in loco.

Cosa fare e cosa non fare. L’Italia ha le carte in regola per competere con la Turchia, ponendo fine all’epoca dell’accomodamento varata da Luigi di Maio ed emancipandosi dallo status di socio di minoranza? Sì. Abbiamo il capitale necessario, il sicuro appoggio dei grandi privati nostrani e, sembrerebbe, il supporto tacito degli Stati Uniti, quindi di Francia e Germania. Se vogliamo cogliere l’opportunità di rendere il Mediterraneo allargato meno caotico e più italiano, però, è tassativa la formulazione di una strategia studiata nei minimi dettagli e basata sulla considerazione di ogni possibile scenario. È nell’interesse italiano coltivare l’inimicizia della Russia? No. Un filo invisibile lega il caso Biot e le prese di posizione anti-erdoganiane dell’esecutivo: la volizione di segnalare alla Casa Bianca che l’Italia vuole giocare la partita, preferibilmente in posizione d’attacco. La linea dello scontro su due fronti sarebbe controproducente per una ragione molto semplice: le due potenze unirebbero le forze per contrastarci e indebolirci sia in Libia sia nell’Asia postsovietica. A quel punto il vantaggio detenuto nei confronti di entrambe, se affrontate singolarmente, sarebbe annullato. Fedeltà all’atlantismo e linea morbida con il Cremlino non si escludono vicendevolmente, anzi sono una peculiarità storica e consolidata della tradizione diplomatica italiana. Scontro frontale o aggiustamento dei ruoli? L’Italia ha i mezzi, gli alleati e l’economia, ma è priva dell’elemento (possibilmente) più importante: la forma mentis imperiale. La Turchia ha potuto ricostruire un’influenza rilevante sugli ex territori ottomani perché, pur essendo carente del fattore economico, è in possesso di volontà di potenza e lungimiranza. L’attuale modus convivendi non è sostenibile nel lungo termine, perché favorirà Ankara a nostro detrimento, ma la soluzione non proverrà dallo scoppio di venefiche rivalità con una potenza avvezza alla diplomazia delle cannoniere – che potrebbero avvantaggiare il terzo spettatore: la Francia –, bensì dal riaggiustamento paritario dei ruoli attraverso una semplice quanto efficace solerzia geopolitica da parte italiana. Quale strategia per l’Italia di Draghi? Sappiamo che la farfalla ha battuto le ali, possediamo un elenco delle baite esposte al rischio valanga e abbiamo cognizione dell’alta rischiosità di combattere su due fronti simultaneamente, dunque abbiamo tutto ciò di cui necessitiamo per evitare di cadere nell’errore fatale della discalculia. Proattività in luogo dell’abulia, prudenza anziché azzardo e occhi puntati sulla cima della montagna: la partita può avere inizio.

Ankara replica a Draghi: «Chi cerca un dittatore guardi alla storia d’Italia». Durante la conferenza stampa di ieri Draghi aveva commentato l'incidente diplomatico con Ursula von der Leyen definendo il presidente turco «un dittatore di cui si ha bisogno». Dura la reazione: «Parole gravissime». Il Dubbio il 9 aprile 2021. Il capo della comunicazione della presidenza turca, Fahrettin Altun, ha attaccato il premier Mario Draghi, definito «nominato», al contrario del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, eletto con il 52% dei voti. «Il premier nominato d’Italia ha superato i limiti e definito dittatore il nostro presidente, eletto con il 52% dei voti dal popolo turco. Parole che non trovano posto nella democrazia, pronunciate con uno stile da condannare. Se qualcuno cerca un dittatore allora guardi alla storia d’Italia», ha twittato Altun. Il PM nominato d’Italia ha superato i limiti definendo come “dittatore” Recep Tayyip Erdoğan che è eletto Presidente dal popolo turco con il 52%. Condanniamo fermamente questo stile che non ha posto nella diplomazia. Chi cerca il dittatore guardi alla storia d’Italia. Nella conferenza stampa organizzata ieri a Palazzo Chigi il premier Draghi aveva commentato il recente incidente di protocollo avvenuto lo scorso 6 aprile che ha coinvolto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen durante visita ad Ankara da Erdogan, condotta con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. «Non condivido il comportamento del presidente turco nei confronti della presidente della Commissione europea e credo non sia stato appropriato», ha risposto Draghi alle domande dei giornalisti. «Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione subita dalla presidente von der Leyen», ha aggiunto il premier italiano in merito all’incidente di protocollo che ha relegato su di un divano la presidente della Commissione Ue mentre il presidente turco Erdogan e Michel erano seduti l’uno a fianco all’altro su di una sedia. «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto», ha detto Draghi. Dura la replica di Ankara: «Condanniamo fortemente il discorso inaccettabile e populista, e le affermazioni brutte senza alcun limite del Presidente del Consiglio nominato sul nostro Presidente della Repubblica eletto e le rimandiamo al mittente», ha scritto in un tweet del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu.  Mentre il vicepresidente turco Fuat Oktay, ha dichiarato: «Condanno le dichiarazioni indecenti del primo ministro Draghi sul nostro presidente e lo invito a scusarsi».

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021. Che Erdogan fosse Erdogan, lo si sapeva. Adesso sappiamo che anche Michel è Michel. Il despota turco riceve a palazzo i due presidenti d' Europa, Ursula von der Leyen (Commissione) e Charles Michel (Consiglio), ma di sedie per gli ospiti ce n' è una sola. A rigor di cerimoniale spetterebbe a von der Leyen, e non in quanto donna, ma per la maggiore rilevanza politica del suo ruolo. Mentre Erdogan è proprio in quanto donna che intende umiliarla e così invita Michel a occupare la seggiola dorata con i braccioli. Ci sono momenti che definiscono un carattere e un continente. Se Michel cedesse il posto alla collega, Erdogan verrebbe retrocesso di colpo a quello che è: un autocrate misogino, convinto che il potere di ricatto che esercita sull' Europa riguardo ai migranti lo autorizzi a infliggerci qualsiasi insolenza. Come europei ne usciremmo ingigantiti nell' autostima. Invece Michel si siede senza fare una piega, con un mix deprimente di inconsapevolezza e paura di sbagliare, lo stesso che ha guidato le istituzioni di Bruxelles nella fallimentare partita dei vaccini. Per un attimo spero che von der Leyen schiaffeggi quei due maschi inutilmente alfa, ma è una signora di buone maniere e contiene il suo imbarazzo nei limiti di un suono onomatopeico: «Ehm». Poi, per non peggiorare le cose, accetta di accomodarsi su un sofà laterale. Che rabbia. Ecco, se proprio devo trovare un aspetto positivo in questa vicenda, è la prima volta che mi arrabbio non come italiano, ma come europeo.

Turchia, Michel: “Mi dispiace di essere sembrato indifferente”. Ilaria Minucci su Notizie.it l'08/04/2021. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha pubblicato un lungo post su Facebook per spiegare quanto avvenuto durante la visita in Turchia. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha pubblicato un lungo post su Facebook relativo all’incontro avvenuto ad Ankara con il presidente turco Recepe Tayyip Erdogan, al quale si era recato in compagnia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. In particolare, oltre a ribadire l’importanza e la risonanza internazionale dell’evento, il presidente del Consiglio europeo ha scelto di commentare lo spiacevole episodio che ha coinvolto la collega von del Leyen, noto con l’espressione “sofa-gate”. Continuano le polemiche sorte in seguito alla visita di Charles Michel e Ursula von der Leyen a Erdogan, durante la quale non è stata riservata nessuna sedia d’onore alla presidente della Commissione europea. Mentre Michel ed Erdogan occupavano le rispettive sedie, infatti, la donna si è vista costretta ad accomodarsi sul divano, posizionandosi di fronte a Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco. In merito alla spiacevole vicenda verificatasi Ankara, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel è stato accusato di aver mostrato distacco e indifferenza nei confronti del trattamento riservato alla collega. Nella giornata di mercoledì 7 aprile, quindi, Charles Michel ha deciso di fare chiarezza in merito all’accaduto, pubblicando un lungo post sul suo profilo Facebook ufficiale nel quale dichiara: “Le poche immagini che sono state mostrate hanno dato l’impressione che sia stato insensibile alla situazione. Niente è più lontano dalla realtà né dai miei sentimenti profondi né, infine, dai principi di rispetto che mi sembrano essenziali. In quel momento, pur percependo la natura deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico e di privilegiare in questo inizio di riunione la sostanza della discussione politica che stavamo per iniziare, Ursula e io, con i nostri ospiti”.

Il presidente del Consiglio europeo, poi, si è mostrato dispiaciuto principalmente per due motivi: “In primo luogo, mi dispiace di aver dato l’impressione di essere stato indifferente alla goffaggine del protocollo nei confronti di Ursula. Tanto più che sono onorato di partecipare a questo progetto europeo, di cui due grandi Istituzioni su quattro sono guidate da donne, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. E sono anche orgoglioso che una donna, la prima nella storia, mi sia successa come Primo Ministro del Belgio. Infine, sono rattristato, perché questa situazione ha messo in ombra l’importante e benefico lavoro geopolitico che abbiamo svolto insieme ad Ankara e di cui spero che l’Europa raccolga i frutti”.

(AGI il 28 aprile 2021) - Istanbul, 28 apr. - La Turchia risponde alla presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, che ieri aveva parlato del sofagate, accusando Ankara di averla lasciata senza poltrona in quanto donna. "L'essere donna e l'abbandono della convenzione di Istanbul con l'episodio del divano della Von der Leyen non hanno alcuna relazione. Quanto accaduto e' il risultato della mancanza di coordinamento dell'Ue nello stabilire il protocollo. Un errore nel protocollo non puo' diventare un problema sulla parita' di genere. Abbiamo massimo rispetto e siamo fieri dell'amicizia con la Presidente Von der Leyen", si legge nel comunicato del ministero degli Esteri. 

EMANUELE BONINI per lastampa.it il 26 aprile 2021. Quanto accaduto ad Ankara ha il sapore dell’umiliazione e del tradimento. Ursula von der Leyen torna sull’incidente della sedia mancante all’incontro con il presidente turco Recep Tayip Erdogan, e il massimo vertice della Commissione europea rimprovera e accusa il presidente del Consiglio europeo di averla condannata alla figura che ha fatto il giro del mondo. «Sono una donna, sono la prima donna a capo della Commissione europea, sono la presidente della Commissione europea e mi aspettavo di essere trattata come tale. Ma così non è stato», lamenta von der Leyen prendendo la parola nell’Aula del Parlamento europeo, che apre i lavori con quanto accaduto durante la visita in Turchia due settimane fa. «Ho cercato una giustificazione per quanto accaduto nei trattati, ma non le ho trovate». Vuol dire che «sono stata trattata in questo modo perché donna». Quindi l’affondo nei confronti di Michel. «Mi sono sentita ferita e sola, come donna e come europea». L’intervento di von der Leyen segue quello di Michel, sotto il fuoco dei parlamentari che hanno raccolto firme per chiedere le dimissioni del leader dei liberali europei. Il presidente del Consiglio europeo conferma la sua versione dei fatti. Ripete che i servizi protocollari non hanno avuto accesso alla sala della riunione, che non potevano sapere quale fosse la disposizione dei posti a sedere. Ripete che al momento dell’incontro ha preferito non fare nulla per evitare di creare un incidente ancora maggiore. Chiede scusa e assicura di essersi chiarito con von der Leyen, ma quando la presidente della Commissione prende la parola emerge lo strappo tra i due. «Dobbiamo garantire che ragazze e donne siano protette sempre e ovunque in Europa, perché il rispetto della donna misura lo spettro della democrazia» di un Paese e di un sistema di Paesi. In questo l’Ue ha fallito, con Michel che ha contribuito. Le parole di von der Leyen scatenano inevitabilmente le critiche in Aula. Particolarmente critica la capogruppo dei socialdemocratici europei, Iratxe Garcia Perez. «So che non si è reso conto del problema, ci credo. Ed è proprio questo il problema. Come donna mi sono sentita offesa».

Marco Gervasoni per "il Giornale" l'8 aprile 2021. Miracolo! Ursula von der Leyen si è accorta che Erdogan è islamico. Ma che non è solo tale, è anche a capo di un progetto di espansione della religione maomettana in tutti i Paesi della Ue. E che usa il suo potere ogni momento per raggiungere questo obiettivo. Potere anche simbolico, anzi soprattutto simbolico - secondo alcuni la forma più alta di potere. La fotografia della presidente della Commissione Ue assisa su un canapé in basso e a distanza dagli uomini resterà negli annali come memento. Essa non ci dice tanto su Erdogan: tutti ormai sappiamo chi sia e quale siano i suoi intenti. Condannare il suo gesto come sgarbo diplomatico, politico, culturale, è ovvio. Talmente ovvio che verrebbe da chiedere a Ursula: ma lei era rimasta l' unica nel mondo a non conoscere il Sultano? Che potesse agire così era prevedibile. No, la foto rimarrà negli annali come testimonianza dell' infingardaggine della Ue e dell' ipocrisia del suo «Stato guida», la Germania, principale sponsor del Sultano. Von der Leyen era presente infatti alla riunione non per sorseggiare un tè ma per discutere dell' ennesimo cedimento al capo di Stato turco. Da anni infatti la Ue elargisce una gran quantità di fondi (che poi sono soldi nostri, dalle nostre tasse) a Erdogan perché, con metodi non molto ortodossi, freni l' invasione degli immigrati. Invece di adottare una propria politica di difesa dei confini Ue, che dovrebbe prevedere in primo luogo il blocco navale, Bruxelles affida il compito sporco al capo di Stato turco, in cambio di generose elargizioni di denaro. Regalando così al Sultano un potere immenso di ricatto: regolarmente infatti Erdogan minaccia di far saltare il patto, sapendo di impugnare la scimitarra dalla parte del manico. Senza il muro turco, infatti, l' afflusso sarebbe talmente devastante da far sembrare il 2015 un anno di bonaccia. E in cambio di questo la Ue chiude gli occhi su tutto, a cominciare dalle violazione dei diritti umani, tema su cui è occhiutamente severa verso Paesi della stessa Ue come Ungheria e Polonia, neppure lontanamente comparabili alla Turchia. La Ue gira poi il capo di fronte ai metodi utilizzati da Erdogan per frenare l' invasione, mentre sostiene politicamente le Ong che fanno sbarcare clandestini sulle nostre coste. E finge di non accorgersi del progetto espansionistico del Sultano. Che non vuole solo soldi: non accetta che alcuno si opponga alla costruzione di moschee nelle città europee, vedi da ultimo quella gigantesca di Strasburgo. Molto ipocrita e molto falsa l' indignazione attuale. Dopo le proteste di maniera, gli affari con Erdogan infatti ricominceranno. E il Sultano avrà vinta l' ennesima partita, quella simbolica.

Pietro Senaldi sul sofa-gate di Ankara: "L'Europa ha steso i tappeti rossi a Erdogan: ora impari". Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Il direttore di Libero Pietro Senaldi sul caso diplomatico della sedia negata a Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, nel palazzo presidenziale di Ankara: “Sedersi sul sofà di un sultano è molto più comodo che sedersi su una seggiola. Detto questo, per quello che non ha fatto la von der Leyen in Europa avrebbero potuto fare ben di peggio, soprattutto dopo aver steso i tappetti rossi a Erdogan. Perché Laura Boldrini che indossava il velo venne osannata per aver rispettato la cultura musulmana e in questo caso invece si accusa Erdogan di essere maschilista? Il politicamente corretto distorce la realtà: a tal punto che la von der Leyen sta dove sta solo perché è madamigella della cancelliera Angela Merkel”.

L’umiliazione del sofa gate di Erdogan è il simbolo della debolezza dell’Europa con la Turchia. di Federica Bianchi su L'Espresso l'8 aprile 2021. La poltrona negata alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen dimostra quanto il presidente turco si senta potente. Mentre la Ue promette altri tre miliardi al “sultano” nel giorno in cui lui fa arrestare i suoi oppositori. Ottenere la propria autonomia strategica è sicuramente un obiettivo nobile e, soprattutto, possibile per l'Unione europea. Peccato però che nei fatti sia la Commissione sia il Consiglio si stiano dimostrando incapaci di farcela. Dopo la disastrosa visita a Mosca, in cui Borrel quest'inverno si è fatto letteralmente bullizzare dalla stampa di regime, ad avere fatto fare una pessima figura alle istituzioni europee e ai cittadini europei questa settimana sono stati la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Che poi, nell'ordine di gravità, è il secondo a meritare il podio. Durante la visita ad Ankara del 6 aprile, dopo i saluti in piedi, Recep Tayiip Erdogan ha fatto accomodare Charles Michel sulla sedia accanto alla sua nella grande sala delle udienze mentre ha lasciato in piedi Von der Leyen, la quale è stata ripresa in un video diventato virale a tossire nella mascherina, come per dire «Ed io?». Lei, che non ha protestato, si è dovuta accontentare di un divanetto posto a tre metri di distanza dalle sedie dei due leader uomini, davanti al divanetto su cui era accomodato il ministro degli Esteri, di grado più basso di quello di Von der Leyen. Con un gesto da bullo machista, non certo da statista, Erdogan ha voluto ribadire che non cederà sul mancato rispetto dei diritti umani e sul trattamento delle donne come cittadine di serie B perché tanto è certo che alla fine l'Europa non insisterà davvero. Non solo. Lasciando in piedi la presidente della Commissione, a differenza di quanto aveva fatto nel 2015 con Jean-Claude Juncker, ha inviato anche un chiaro segnale di cosa pensa dell'Europa federale e delle sue istituzioni mentre ha dato valore al ruolo di rappresentante dei singoli 27 stati di Michel. Quest'ultimo sarebbe da rimandare all'asilo ad imparare le regole del vivere comune europeo: non solo non ha avuto la normale reazione di alzarsi per cedere la sedia alla presidente ma non ha nemmeno chiesto al cerimoniale una seconda sedia per Von der Leyen. È rimasto lì, seduto accanto al sultano in fieri, emblema diventato virale di come in Europa non ci si comporta. Erdogan in un colpo solo è riuscito a dividere le istituzioni europee e a umiliare le donne. Michel, sarà per ambizione, ripicca o narcisismo, si è prestato al gioco del dittatore. Si è difeso su Facebook dicendo che le autorità turche hanno rispettato strettamente il protocollo e che né lui né Von der Leyen hanno voluto fare scene ma concentrarsi sugli interessi dei cittadini. Eppure con questa toppa mal riuscita ha dimostrato di non avere nessuna idea che il protocollo è politica in sé, come ha sottolineato Wolfang Ischinger, capo della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco (luogo principe della geopolitica globale) ed esperto di linguaggi diplomatici, e di non avere capito la gravità del suo gesto davanti a uno dei personaggi politici più detestati dagli europei. Tutto quello che è venuto dopo ha perso d'importanza. A partire dalla richiesta a Erdogan del rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne da parte di Ankara. D'altronde, come possono la Turchia e il resto del mondo ritenere l'Europa capace di far rispettare i propri valori se i suoi stessi leader non sanno farsi rispettare? Se è finita male non è che la missione europea in Turchia sia cominciata meglio. Forse non avrebbe dovuto cominciare affatto. Due capi di stato europei che si recano ad Ankara per offrirle soldi e aiuto in cambio di assistenza sul controllo delle loro frontiere esterne proprio nei giorni in cui Erdogan arresta generali e ammiragli pensionati, rei di avere criticato pubblicamente il progetto di costruzione del canale di Istanbul accanto al Bosforo perché viola la convenzione di Marsiglia sulla demilitarizzazione del Mar Nero. Una repressione che s'innesta su anni di repressioni indiscriminate contro qualsiasi forma di dissenso contro la politica islamista. Solo pochi giorni prima Erdogan aveva ritirato la Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla protezione delle donne come richiesto dal clero fondamentalista. «Erdogan sta giocando con l'Europa», dice Wolfang Munchau del think tank Eurointelligence: «La cosa è sorprendente visto che è lui a trovarsi in una situazione di bisogno economico. Ma sa che l'Europa non imporrà sanzioni perché né l'Italia né la Germania le accetteranno mai, e che l'Unione dipende dalla volontà turca di agire da cuscinetto per i rifugiati, alla quale è disposta a pagare qualsiasi prezzo». Che poi aggiunge: «Lo stesso gioco lo sta facendo Putin in Russia. Il successo diplomatico dei due (Putin e Erdogan) si basa sulla mancanza di una strategia di politica estera da parte dell'Unione che vada oltre la ricerca del proprio interesse commerciale, per il quale non occorre strategia». Così Von der Leyen ha lasciato Ankara promettendo a Erdogan «come gesto di buona volontà» oltre tre miliardi di euro che dovranno essere varati dal Consiglio europeo (sono soldi degli stati membri e non dell'Unione) a giugno e un'eventuale ammodernamento dell'unione doganale, che però dovrà passare dalle forche caudine del Parlamento europeo, molto meno tenero con i dittatori. La linea rossa dei diritti umani e dei diritti delle donne appare ormai sbiadita, più vecchio ritornello che minaccia concreta. Come perfino il #sofagate ha dimostrato.

Estratto dell'articolo di Giordano Stabile per "la Stampa" l'8 aprile 2021. […] Il portavoce della Commissione, Eric Mamer, ha puntualizzato che Ursula von der Leyen «è stata chiaramente sorpresa come si può vedere nel filmato, ma ha scelto di dare la priorità alla sostanza sulle questioni di protocollo o di forma, è quello che i cittadini europei si sarebbero attesi da lei». Non tutti. Sulla Rete in molti sottolineano come «da un dittatore abituato a non rispettare i diritti umani basilari te lo aspetti, da un collega democratico no». Tanto più che al centro dei colloqui c' erano proprio diritti fondamentali e la parità fra donne e uomini. Per il Nouvel Observateur la scena dimostra che su questo fronte «c' è ancora molto da fare, persino in Europa, visto che Charles Michel avrebbe potuto quanto meno lasciarle il suo posto». La presidente si è presa una piccola rivincita nella dichiarazione finale. «I diritti umani non sono negoziabili», ha ribadito. E questa volta intendeva anche i propri.

DAGONOTA il 9 dicembre 2021. Molti ricorderanno il "Sofa-gate", durante la visita della presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ad Ankara. Fu lasciata in piedi, la Signora, con un gesto che provocò l'indignazione del mondo intero. A sedere, invece, il presidente turco Erdogan e il presidente del Consiglio dell'Unione europea, il belga Charles Michel. La foto della Presidente senza seggiola fece il giro del mondo, tutti puntarono il dito contro il dittatore misogino e maschilista. Su questo disgraziato sito, scrivemmo che le visite ufficiali vengono preparate dalle rispettive delegazioni. In modo condiviso e congiunto, nei più minimi dettagli. E che i posti attribuiti ai rappresentanti delle istituzioni europee vengono decisi e concordati dai rispettivi servizi di protocollo. Non sono decisioni che vengono prese in modo unilaterale, non è nonna Peppina che fa i posti per la cena di Natale. Che, forse, la colpa dell'offesa alla Von der Leyen e, con lei, a tutte le donne del mondo, non era da cercare solo ad Ankara. A qualche mese dallo scandalo, scopriamo che il pomposo capo del protocollo della Commissione Europea, il diplomatico francese Nicolas de la Grandville, è stato spedito a schiarirsi le idee in Norvegia. Era a capo del servizio dal 2010, dai tempi della Commissione Barroso. Lo troviamo ora negli uffici della Commissione europea...in Norvegia. Nel frattempo è stato pubblicato un bando anche per il posto del capo del cerimoniale del Consiglio dell'Unione europea, ora vacante. Siamo davvero sicuri che il delitto (e il castigo) siano da cercare solo ad Ankara? Ah, non saperlo

(ANSA l'8 aprile 2021) - "Durante la visita" di martedì ad Ankara dei presidenti della Commissione e del Consiglio Ue, Ursula von der Leyen e Charles Michel, "è stato seguito il protocollo standard. La presidente della Commissione europea non è stata trattata in modo diverso. Né la delegazione Ue ha chiesto una diversa disposizione. In questa situazione, ci saremmo aspettati che i due ospiti si fossero accordati tra loro". Lo dichiarano all'ANSA fonti governative turche.

Dagoreport  l'8 aprile 2021. L'Europa, che dall'esterno viene percepita come entita' unica e compatta, è in realtà formata da organi diversi guidati e gestiti in modo diverso. Con un po' di esegesi della visita ad Ankara dei vertici europei, cerchiamo di capire chi abbia la responsabilità di fare in modo che vada tutto secondo creanza. I viaggi e gli incontri all'estero della presidente Von der Leyen sono gestiti dall'ufficio del protocollo della Commissione e dalle ambasciate all'estero, che dipendono dal servizio estero e dunque da Borrell e Sannino. A capo del protocollo della Commissione c'è un ambasciatore francese. A capo dell'ambasciata di Ankara c'è invece un ambasciatore tedesco. Non sono funzionari europei, euroburocrati che possono inciampare su come sistemare le seggiolinine, ma ambasciatori di grado che ben padroneggiano le regole del gioco. L'inchiesta interna che sta partendo tra gli ovattati corridoi europei punta il dito contro l'ambasciatore europeo ad Ankara, Nikolaus Meyer-Landrut. Non e' un funzionario europeo, ma un diplomatico tedesco, che e' stato consigliere della Merkel dal 2011 al 2015 e ambasciatore tedesco in Francia dal 2015 al 2020. L'ambasciata europea in Turchia ha senza dubbio organizzato la visita. L'umiliazione di Von der Leyen potrebbe dunque essere frutto di un "errore" proprio di un ambasciatore tedesco. Mani troppo esperte però per poter pensare ad un errore…Altro responsabile della visita è il servizio di protocollo della Commissione. A capo c'e' un francese, Nicolas de La Grandville. Siede lì dal 2010. Anche lui, come Meyer-Landrut, è un diplomatico di carriera e non un funzionario europeo. Ha passato la vita al Ministero degli esteri francesi, è stato consigliere diplomatico del presidente Sarkozy e addirittura capo del protocollo del ministero degli Esteri francese. Anche lui, dunque, conosce e maneggia le regole del protocollo. La tesi della mancanza di attenzione da parte degli uffici della Commissione o della loro sciatteria nell'organizzare la visita ad Ankara per il G20 diventa assai poco verosimile. Chi avrebbe dovuto occuparsene, sia dal lato del servizio protocollo sia da quello dell'ambasciata di Ankara, ha mani troppo capaci per commettere errori così grossolani. Con queste premesse, qualche "addetto ai livori" di Bruxelles evoca l'idea di un tremendo trappolone fatto alla Von der Leyen, in un momento in cui lei si ritrova debole a causa di una campagna vaccinale che non va come dovrebbe…

Fr.Bas. per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021.

1 Come funziona il protocollo nelle visite ufficiali dei capi di Stato? In occasione di cerimonie o visite ufficiali da parte di capi di Stato e di governo niente è lasciato al caso. Ma anche l'organizzazione di summit internazionali prevede un cerimoniale preciso. I protocolli in genere sono il risultato di un confronto tra la delegazione ospitante e quella in visita ancora prima dell'inizio della missione. È chiaro che durante la visita ad Ankara della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo Charles Michel qualcosa è andato storto, perché c'era solo una sedia accanto a quella del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

2 Qual è l'ordine delle precedenze tra le istituzioni europee? In base al cerimoniale di Stato, pubblicato sul sito di Palazzo Chigi, e non diversamente da quanto prevede Bruxelles, tra le istituzioni europee prima viene il presidente del Parlamento Ue, poi quello del Consiglio europeo e infine quello della Commissione. In base al Trattato di Lisbona il presidente del Consiglio europeo assicura la rappresentanza esterna dell'Ue per le questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le competenze dell'Alto rappresentante dell' Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Però come ha osservato il portavoce della Commissione Ue, durante gli incontri con i capi di Stato o di governo esteri (ad esempio durante i vertici tra l'Ue e un Paese terzo), il presidente della Commissione e del Consiglio europeo siedono allo stesso modo.

3 Quali sono i precedenti? Il 16 novembre 2015 ad Antalya entrambi i leader Ue dell'epoca, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, furono fatti accomodare in due poltrone equidistanti ai lati di Erdogan. Il 23 gennaio 2020 a Gerusalemme, alla cerimonia del 75mo anniversario della liberazione di Auschwitz, l'ordine di intervento dei presidenti fu: Parlamento Ue, Commissione e Consiglio europeo.

Von der Leyen sul divano, l’ex-capo cerimoniale di Palazzo Chigi “assolve” Michel: «Se si alzava, era peggio». Valerio Falerni venerdì 9 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. D’accordo, Erdogan non è si rivelato quel gentleman che tutti pensavamo che fosse. Ma è solo sua la colpa dell’imperdonabile sgarbo a Ursula von der Leyen? Si fosse trattato di una visita priva, sia lui sia Charles Michel avrebbero meritato un corso intensivo di bon ton, quantunque di questi tempi non faccia esattamente tendenza. Ma si tratta di rapporti tra Stati, tra istituzioni e in questo caso non esistono delikatessen, ma solo regole, protocolli e cerimoniali. E a sentire uno che se ne intende come Massimo Sgrelli, che per tre lustri proprio queste orchestre ha diretto a Palazzo Chigi, siamo di fronte ad un «incidente diplomatico-protocollare». Si poteva evitare? «Sì», risponde lui. Bastava che il «protocollo turco e quello di Bruxelles» assicurassero alle«tre autorità partecipanti all’incontro le stesse sedie». Più facile di così. Sgrelli è una vera autorità in materia. È l’autore de Il galateo istituzionale, una sorta di bibbia per addetti ai lavori. C’è dunque da credergli quando dice che nella mancata poltrona alla Von der Leyen l’errore è triplo. Il primo è del protocollo turco che «non ha allestito lo scenario adatto». Significa «dare delle sedute omogenee a tutti, visto che le autorità partecipanti all’incontro avevano un rango omogeneo». Non assegnare una sedia d’onore anche alla presidente della Commissione Ue è da matita blu. Relegandola infatti su un sofà, i protagonisti dell’incontro sembravano solo Erdogan e Michel. Dal canto suo, Bruxelles ha sbagliato a non verificare preventivamente che «lo scenario fosse corretto e idoneo». Infine, Michel: che però Sgrelli “assolve”. «Se si fosse alzato – spiega – l’incidente sarebbe diventato di carattere istituzionale e non più solo tra persone». La sua passività, invece, ha evitato che lo sgarbo di Erdogan alla Von der Leyen si trasformasse in uno scontro tra Ue e Turchia. Ora c’è un solo modo per capire se l’incidente sia stato voluto o meno dal Sultano. «Dipenderà molto – dice Sgrelli – dal destino del capo del cerimoniale della presidenza turca». Scommettiamo?

Dagospia l'8 aprile 2021. Jean Quatremer per liberation.fr. L’ufficio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è rimasto sbalordito quando ha ricevuto, mercoledì mattina, un'e-mail poco diplomatica firmata dal capo di gabinetto di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Secondo le nostre informazioni, la tedesca Bjoern Seibert si è indignata per l'"umiliazione" inflitta alla von der Leyen dalla Turchia durante la visita ufficiale che ha fatto ad Ankara il giorno prima, e non esita ad affermare che ciò renderà più difficile la trattativa sulla modernizzazione dell'accordo dell’unione doganale che lo lega ai Ventisette...Ankara ha subito chiamato Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, anch'egli presente al viaggio, per informarsi sui motivi di questa minacciosa e-mail,  visto che la presidenza turca non ha capito assolutamente come avrebbe maltrattato Von der Leyen. L'ex primo ministro belga ha dovuto rassicurare i suoi interlocutori spiegando che si è trattato di uno sfortunato malinteso...Perché Seibert ha avuto una tale esplosione di rabbia, che avrebbe potuto portare a un incidente diplomatico mentre gli europei stanno cercando di riallacciare i rapporti con questo partner difficile? La scena, che ha fatto il giro dei social network, si è svolta martedì nel palazzo presidenziale del presidente turco, all'inizio dell'incontro tra Recep Tayyip Erdogan, Mevlüt Cavusoglu, il suo ministro degli Esteri, Charles Michel e Ursula von der Leyen. I quattro entrano nell'enorme sala riunioni per accomodarsi, non attorno a un tavolo, ma in modo più informale su poltrone e divani. Ma la scena appare, a prima vista, scioccante: se Erdogan e Michel siedono su poltrone affiancate (a distanza per via del Covid), Von der Leyen e Cavusoglu devono sedersi su divani posti perpendicolarmente. Von der Leyen rimane in piedi, sbalordita, e non esita a mostrare la sua sorpresa. Alla fine, va a sedersi con disappunto al centro dell'enorme divano, lontano da Michel ed Erdogan. Insomma, la regia dà l'impressione che Erdogan l'abbia consapevolmente maltrattata relegandola su un divano come semplice segretaria. Da lì a fare il collegamento con il suo disprezzo verso le donne (ha ritirato il suo Paese il 19 marzo dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne), è stato un attimo: un passaggio che hanno fatto in tanti, sia sui social che al Parlamento europeo. E nemmeno Charles Michel è risparmiato: perché non ha reagito? Come sempre, attenzione alle immagini. In realtà, i turchi non hanno assolutamente nulla a che fare con questa “coreografia” che è frutto del protocollo dell'Unione Europea. Infatti si tratta di un "accordo interistituzionale" del 1 marzo 2011 che prevede che il presidente del Parlamento europeo venga prima, seguito dal presidente del Consiglio europeo, dal presidente di turno del Consiglio dei ministri e, infine, il presidente della Commissione. In altre parole, quando i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione sono in missione in paesi terzi, il primo è ufficialmente il capo della delegazione, non il secondo. Insomma, non esiste "una poltrona per due", contrariamente a quanto ha detto Eric Mamer, portavoce della Commissione: «I presidenti delle due istituzioni hanno lo stesso grado nel  protocollo e spetta alle autorità turche, responsabile dell'incontro, spiegare perché è stato offerto quel posto alla signora Von der Leyen». In realtà spiega un diplomatico: «I turchi, che hanno una mente molto gerarchica, hanno semplicemente applicato alla lettera l'ordine del protocollo europeo». Soprattutto «non è chiaro quale sarebbe stato l'interesse di Erdogan di umiliare il presidente della Commissione quando, come tedesca vicina ad Angela Merkel, è la sua migliore alleata. Se avesse voluto trasmettere un messaggio, Michel, considerato l’uomo di paglia della Francia, sarebbe stato più appropriato». «Pensare che voleva umiliare una donna vuol dire conoscerlo male: ha dimostrato di non avere problemi a trattare con le donne occidentali», ha aggiunto un suo collega. Soprattutto «Erdogan è stato molto premuroso durante la visita - ha detto un testimone - È nel suo interesse stringere la mano tesa dagli europei in un momento in cui gli Stati Uniti non sono più pronti ad accettare il loro espansionismo aggressivo, con la loro economia in declino e le difficoltà sulla scena politica interna». Tuttavia, quando è entrato nella stanza, Charles Michel, vecchio politico, ha visto che c'era un problema, soprattutto quando ha notato la furia di che Ursula von der Leyen. Ma cosa poteva fare? Alzarsi e dare la precedenza a Ursula von der Leyen? Chiedere una sedia aggiuntiva? Sarebbe stato umiliante far capire ai turchi di aver commesso un errore quando tutto era stato attentamente negoziato a monte...Da qui la reazione particolarmente inopportuna di Seibert, il suo capo di gabinetto, che, senza alcun mandato, si è permesso di minacciare un governo straniero per fargli piacere... Insomma, se ci fosse stato uno scandalo, non avrebbe dovuto rivolgersi ad Ankara, ma a Bruxelles. Sui giornali e sui social network di mezza Europa si sta parlando molto dell’incidente diplomatico avvenuto lunedì ad Ankara, in Turchia, durante un incontro ufficiale fra Unione Europea e governo turco. All’inizio dell’incontro, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è rimasta senza un posto dove sedersi, dato che le uniche due sedie disponibili erano state occupate dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Dell’incidente se ne sta parlando così tanto per questioni oggetto di un ampio dibattito da tempo: per esempio lo scarso riguardo nei confronti dei capi delle istituzioni europee da parte di leader stranieri, il sessismo nei confronti delle leader donne, i rischi e le difficoltà di avere a che fare con presidenti autoritari come Erdogan, e il conflitto latente fra istituzioni dell’Unione Europea. Sul fatto che l’incidente sia avvenuto davvero, e che non si sia trattato di uno spiacevole equivoco, non ci sono dubbi. Nella stanza dove si è tenuto l’incontro non era stata predisposta una sedia per von der Leyen, che si è dovuta sedere sul divano lontano da Michel e Erdogan. «La presidente della Commissione è rimasta chiaramente sorpresa, e lo si può vedere anche dal video», ha detto il portavoce di von der Leyen, Eric Mamer, in una conferenza stampa tenuta martedì. Una fonte europea del Wall Street Journal ha raccontato che Von der Leyen non era entrata nella stanza prima dell’incontro con Erdogan, lasciando intendere che se se ne fosse accorta avrebbe chiesto una sedia per sé. Von der Leyen si è invece seduta di fronte a un altro divano su cui c’era il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavusoglu, che per protocollo diplomatico non siede sulla sedia dato il suo ruolo meno importante rispetto a Erdogan. La versione più aggiornata del trattato fondativo dell’Unione Europea prevede  all’articolo 15 comma 6 che il presidente del Consiglio Europeo, cioè Michel, «assicura la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune»: cioè i due temi di cui Michel e Von der Leyen hanno discusso con Erdogan. Anche una delle ultime versioni del protocollo ufficiale del Consiglio dell’Unione Europea spiega che «fra le più alte cariche dell’Unione Europea, nell’ambito della rappresentanza esterna», il presidente del Consiglio Europeo precede il presidente della Commissione. Secondo la prassi in vigore, però, nessuno dei leader nazionali tratta Von der Leyen come se la sua carica fosse di grado inferiore rispetto a quella di Michel, a prescindere dal protocollo ufficiale. Anche perché in termini di potere, se proprio bisogna fare un confronto, Von der Leyen ne ha assai più di Michel: la prima dirige infatti l’organo esecutivo dell’Unione Europea, che conta quasi 33mila dipendenti e gode di notevoli autonomie in vari ambiti; il secondo svolge quasi solo la funzione, molto rilevante ma anche assai delimitata, di mediatore delle riunioni del Consiglio Europeo, l’organo in cui siedono i 27 capi di stato e di governo dell’Unione e che ne decide l’agenda politica. In tutti i più recenti incontri con leader nazionali a cui Michel e Von der Leyen hanno partecipato insieme, alla presidente della Commissione è stato riservato lo stesso trattamento di Michel. In un caso, come durante la visita fatta nel marzo del 2020 al confine fra Grecia e Turchia, a Von der Leyen è stato persino riservato un posto di maggiore rilevanza rispetto a Michel, a fianco del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. Nelle ultime ore stanno emergendo delle foto scattate nel 2015 durante una riunione del G20 ad Adalia, in Turchia, in cui l’allora presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, erano seduti ai lati di Erdogan, su poltrone identiche. Per molti osservatori l’incidente diplomatico è stato un sintomo del sessismo che le leader donne subiscono da sempre a tutti i livelli della politica, anche ai più alti. Del resto Erdogan aveva spesso fatto già in passato commenti discriminatori e offensivi nei confronti delle donne, come quando nel 2016 disse che le considerava «prima di tutto delle madri». Di recente il suo governo ha annunciato il ritiro dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, mentre diverse inchieste hanno mostrato come negli ultimi anni la libertà delle donne turche sia progressivamente peggiorata. Alcuni politici e commentatori europei hanno sostenuto però che anche Michel avrebbe potuto prendere una posizione più netta, e rifiutarsi di partecipare all’incontro oppure cedere la sua sedia a Von der Leyen. «Perché è rimasto zitto?», si è chiesta su Twitter la parlamentare europea Sophie in ‘t Veld, olandese e appartenente al gruppo dei Liberali. «Da Erdogan non ci aspetta niente di diverso, ma fa amarezza il fatto che il presidente del Consiglio Europeo sia sceso al suo livello», ha commentato l’ex cancelliere austriaco Christian Kern. A Bruxelles esiste da tempo un movimento piuttosto sotterraneo che segnala episodi di sessismo all’interno delle istituzioni: uno dei più attivi è MeTOOEP, che lavora al Parlamento Europeo e oltre a fare pressione per ottenere una piena parità di genere nelle istituzioni raccoglie testimonianze di molestie e violenze subite dalle donne. Altri hanno segnalato che non è la prima volta che rappresentanti delle istituzioni europee fanno figure del genere durante delicate visite diplomatiche. «È la seconda volta in due mesi che avvengono imbarazzanti incidenti diplomatici con vicini problematici», ha fatto notare la giornalista di affari europei Beatriz Ríos, citando la recente e fallimentare visita dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, in Russia. Secondo alcuni, quello che è successo è la dimostrazione che l’Unione Europea non abbia l’autorevolezza e la credibilità necessarie per condurre una politica estera indipendente. «Il passo falso del divano è una perfetta allegoria della politica estera europea», ha scritto Roman Pable, esperto di relazioni internazionali e consulente politico del gruppo dei Liberali al Parlamento Europeo: «sul piano internazionale veniamo trattati senza alcun rispetto, ma invece che discutere del perché succede ci mostriamo indignati senza cambiare niente di sostanziale, ma restando in pace con noi stessi». Altri invece ne parlano come di un errore strategico. «Se l’Unione Europea deve impegnarsi in rischiosi passaggi diplomatici, non dovrebbe mandare Von der Leyen e Michel insieme», ha commentato su Twitter Alexander Clarkson, ricercatore di studi europei per il King’s College di Londra: «mandare due importanti istituzioni europee offre più margine a una figura autoritaria per giocare col protocollo, e dare una simbolica dimostrazione di forza. Questi sono i punti su cui il Servizio europeo per l’azione esterna [il servizio dell’Unione Europea per gli affari esteri] dovrebbe alzare il proprio livello». Clarkson ha lasciato intendere, insomma, che la responsabilità dell’incidente non sia stata di Michel, quanto dei funzionari che avevano preparato l’incontro. Infine, la gestione dell’incidente ha anche dimostrato un certo disallineamento fra due importanti istituzioni europee come il Consiglio e la Commissione. Gli uffici della comunicazione delle due istituzioni non hanno concordato una risposta condivisa, e anzi si sono dati reciprocamente la colpa per l’incidente diplomatico. La Commissione ha fatto commentare l’incidente a Mamer, che fra le altre cose ha sottolineato come i sopralluoghi degli incontri siano stati eseguiti dallo staff del Consiglio Europeo; il Consiglio Europeo invece non ha commentato pubblicamente l’incidente, ma parlando informalmente con Politico ha fatto sapere che dal proprio punto di vista il protocollo è stato rispettato, dato che Michel era la carica europea più alta presente durante l’incontro.

(ANSA il 9 aprile 2021) - I presidenti del Consiglio e della Commissione europea, Charles Michel e Ursula Von der Leyen, non si sono ancora parlati, a tre giorni dal sofagate di Ankara. Per il momento non sono previste telefonate, secondo quanto si apprende a Bruxelles. Ieri in un'intervista alla tv belga LN, Michel aveva detto di aver provato a raggiungere von der Leyen al telefono, e pensava di riuscire a parlarci in serata.

Francesca Sforza per “La Stampa” il 9 aprile 2021. Non c' era diplomatico europeo, nella giornata di ieri, che non avesse al suo attivo, nella memoria, almeno un aneddoto relativo all' arte antica, complicata e sottile del cerimoniale: bicchieri rimossi all' ultimo momento, placement corretti pochi minuti prima dell' impiattamento, macchine da incarrozzare in un modo o nell' altro durante i cortei di accoglienza, istruzioni dettagliate negli allineamenti delle receiving line. Per questo, mai come in questa occasione il «Non è come pensi» dichiarato dal presidente del Consiglio Ue Charles Michel a giustificazione di quanto accaduto mercoledì ad Ankara - con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen costretta a sedersi su un sofà in mancanza di una sedia accanto al presidente turco Erdogan e a Michel medesimo - ha ricordato il genere più patetico delle giustificazioni possibili. «Alcune delle immagini che sono state trasmesse - ha scritto Michel in un post su Fb nella sera di mercoledì - hanno dato l' impressione che potessi essere insensibile alla situazione che si era prodotta: niente di più lontano dalla realtà o dai miei sentimenti profondi». Non una scusa, dunque, né un' ammissione di leggerezza - volendo essere particolarmente benevolenti con se stessi - ma l' ultimo degli errori di una gran brutta giornata del suo mandato: il rinvio di responsabilità al protocollo turco, alle sue regole, e «all' interpretazione rigorosa che ne è stata data». La considerazione per cui «Non mi sono alzato in piedi per non creare un incidente ancor più grave», diciamolo, non fa che peggiorare le cose. A quel punto i turchi, che fino ad allora avevano preferito tacere, sono stati costretti a replicare, e lo hanno fatto con le parole del ministro degli Esteri Cavusoglu, numero due del governo, e seduto durante l' incontro con Erdogan nel sofà di fronte a Von der Leyen. «Arrivano accuse estremamente ingiuste contro la Turchia ha detto da una conferenza stampa in Kuwait. La Turchia è uno Stato dalle radici profonde che non accoglie un ospite per la prima volta, così come non è la prima volta che viene effettuata una visita in Turchia». Senza risparmiare dettagli, Cavusoglu ha ricordato che non esiste un protocollo turco a sé stante per le visite di leader stranieri, ma c' è sempre un coordinamento tra le regole internazionali e l' ospitalità nazionale. «E anche stavolta si è agito così». Come funziona in pratica? Prima di ogni visita, le diverse delegazioni del cerimoniale, composte da funzionari diplomatici, si incontrano per definire i dettagli della visita. Discussioni apparentemente di lana caprina su posti a sedere, menu, vini o non vini da servire, cose o non cose da indossare sono in realtà fili sottilissimi a cui sono appese intere carriere. «Nel protocollo implementato nella riunione su scala ristretta tenutasi presso l' ufficio del nostro Presidente - ha rivelato il ministro turco Cavusoglu - le richieste della parte dell' UE sono state soddisfatte». Stando a una nota del Consiglio Europeo ai diplomatici non è stato permesso di visitare in anticipo la sala dell' incontro poiché troppo vicina agli uffici di Erdogan. Lo stesso è avvenuto per la sala da pranzo, che però è stata vista qualche minuto prima, e si è provveduto ad aggiungere una sedia, anche lì, mancante. Come non farsi venire il sospetto - vista la sala da pranzo - che lo stesso sarebbe accaduto per la sala dell' incontro? La sedia per Von der Leyen, è chiaro, non era stata prevista dai turchi, ma senz' altro non è stata richiesta dagli europei. Se così fosse stato, «la richiesta sarebbe stata soddisfatta». Si può forse rimproverare ai turchi di non aver informato il cerimoniale Ue dell' assenza di una terza sedia per la presidente? «Protocol is politics», ha twittato ieri al proposito Wolfgang Ischinger, capo della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ricordando un vecchio adagio al suo collega, l' ex ambasciatore tedesco Nikolaus Meyer-Landrut, che ha guidato la delegazione Ue ad Ankara e che appare come il maggiore indiziato del pasticcio «Sofà-Gate». Il protocollo è politica, non tè e pasticcini.

Emma Bonino per “la Stampa” il 9 aprile 2021. Appurato che l'incidente diplomatico di Ankara non ha nulla a che vedere con la mancanza di sedie e tantomeno con il galateo, proviamo a rimettere in fila i fatti a partire dall' ultimo in ordine di tempo: la versione della Turchia, che si è chiamata fuori e ha attribuito l'errore ai responsabili del cerimoniale europeo, non è stata smentita. Tanto per cominciare ci sono le ambizioni incrociate delle tre principali istituzioni europee. Per quanto si lavori insieme, la rivalità tra il Consiglio Europeo, la Commissione e il Parlamento è vecchia quanto l' UE. Altrettando nota è la competizione personale tra Charles Michel e Ursula von der Leyen, una corsa a primeggiare che era meno evidente in altri tempi, come quando nel 2015 Donald Tusk e Jean-Claude Junker trovarono ad Ankara una sedia per ciascuno. La seconda questione riguarda la Von der Leyen, che stavolta viaggiava senza consiglieri diplomatici e aveva affidato il protocollo all' ufficio di Michel e ai turchi. Mi sembra evidente che ci sia un vulnus e che certe missioni andrebbero preparate con maggiore attenzione anche ai dettagli per prevenire potenziali insidie, soprattutto nelle capitali con le quali i rapporti non sono esattamente amichevoli. Ma l' aspetto più importante riguarda i dossier di cui i rappresentanti europei avrebbero dovuto discutere con la controparte, il presidente Recep Tayyip Erdogan, "il dittatore" di cui si ha bisogno, come ha scandito il premier Mario Draghi con la sua capacità di parlare chiaro. Nessuno lo aveva espresso così chiaramente prima di lui, a parte me, ovviamente, che a differenza di Draghi non faccio testo. Attenzione, perché il problema alla fine è tutto lì, il dilemma quotidiano tra diritti umani e interdipendenze, connessioni economico-strategiche, posti di lavoro. Dicevamo però dei dossier. Basta rileggersi le ultime pagine sulla Turchia del documento finale dell' ultimo vertice dei capi di stato e di governo per aver un' idea della posta in gioco: si cita il contenimento dei migranti finanziato da un fondo ad hoc annuale, che deve essere rinnovato anche dal parlamento europeo, c'è poi la partita dell' update dell' unione doganale vecchia e da sempre imperfetta e c'è infine una parte sulle trivellazioni a Cipro. Non a caso neppure una parola sul ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Ne hanno parlato durante l'incontro di mercoledì? Immagino di sì. Sarebbe interessante sapere allora con quale esito dal momento che i due dossier più importanti di cui avevano mandato devono passare dal Parlamento di Strasburgo. La Turchia fa la Turchia. E siamo comunque davanti ad uno sgarbo politico evidente, di mancato riconoscimento dell' Europa. Charles Michel dal canto suo avrebbe potuto muoversi diversamente, per esempio lasciare la sua poltrona alla presidente Ursula von der Leyen, gesto inequivoco di coesione istituzionale europea. Invocarne oggi le dimissioni mi sembra una richiesta esagerata ma in questo caso, a conti fatti, chi ne esce con le ossa rotte sono le istituzioni europee. E non è la prima volta. Ricordate alcune settimane fa la visita dell' Alto rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell a Mosca, quando sotto i suoi occhi furono espulsi dei funzionari europei? Appunto.

Caso Von der Leyen, le magistrate italiane accanto ad Ursula: "Atto discriminatorio". Liana Milella su La Repubblica l'8 aprile 2021. Le giuriste del nostro Paese protestano per il sofa-gate: "Calpestata nuovamente la dignità delle donne". Anche le donne magistrate italiane - oltre la metà di tutti i giudici del nostro Paese - protestano per il sofa-gate. Per Ursula von der Leyen marginalizzata sul divano turco anziché nel posto che le spetta. Nell'indifferenza e nel complice silenzio del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. "Calpestata nuovamente la dignità delle donne". "Scorrettezza istituzionale". "Atto palesemente discriminatorio". "Segnale di allontanamento dai valori della Carta dell'Unione europea dei diritti dell'uomo". E quindi "ferma condanna" di un episodio che - secondo le  toghe rosa italiane - dimostra come sia in atto "un arretramento nel percorso di uguaglianza di cui proprio Ursula può ritenersi un simbolo". È una nota durissima quella che l'Admi, l'Associazione donne magistrato italiane, con la sua presidente Isabella Ginefra, aggiunge alle migliaia di proteste di queste ore. Un episodio di cui le giuriste del nostro Paese mettono in luce il chiaro intento "discriminatorio", il pessimo segnale contro il cammino di parità delle donne nel mondo.  

Il rammarico dopo il caso di Ankara. Von der Leyen sul Sofagate: “Mi sono sentita sola come Presidente, donna ed europea”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Ursula von der Leyen ad Ankara ha provato imbarazzo. Anzi di più: si è sentita sola, come “presidente”, come “donna”, come “europea”. Queste le parole della Presidente della Commissione oggi alla Conferenza dei presidente del Parlamento Europeo. Il riferimento all’incidente, al caso cosiddetto del “sofagate“, ovvero di quello che è successo martedì scorso nella capitale turca, quando il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel si sono accomodati sulle sedie lasciando la Presidente sul divano. Le parole di von der Leyen apprese dall’AdnKronos. Michel si sarebbe invece cosparso il capo di cenere: si è difeso e si è scusato ripetutamente. Ha espresso rammarico, ha definito il caso un’offesa a tutte le donne, riporta l’Ansa. Un errore, secondo l’ex premier belga, che il servizio di protocollo del Consiglio non abbia avuto accesso alla sala riunioni con Erdogan. Da questo momento le missioni dovranno essere preparate congiuntamente da Commissione e Consiglio, ha aggiunto. Per von der Leyen il caso resta legato alla questione di genere, da legare a doppio filo al ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. La Presidente ha fatto riferimento agli articoli 15 e 17 del Trattato dell’Unione Europea (Tue), che attribuiscono pari dignità a Commissione e Consiglio. In una frazione di secondo ha deciso di restare, ha raccontato. Il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha sottolineato che la vicenda deve insegnare alle istituzioni Europee a “procedere insieme”. Critici gli interventi dei presidenti dei gruppi. Impegno solenne a procedere insieme da parte di Michel e von der Leyen. Il Sofagate non si chiude quindi. In Italia ha avuto un lungo strascico dopo che il Presidente del Consiglio Mario Draghi, interpellato sulla vicenda in conferenza stampa, ha definito Erdogan un “dittatore”.

Da tg24.sky.it il 2 maggio 2021. A quasi venti giorni di distanza non si placano  le polemiche per il Sofagate che ha coinvolto la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen durante la visita ad Ankara al presidente turco Recep Tayip Erdogan. A tornare sull'argomento, il 26 aprile, è stato Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, anche lui presente al summit. "Ho espresso diverse volte il mio rammarico per la situazione che si è venuta a creare nel viaggio ad Ankara. Le nostre squadre non hanno potuto avere accesso alla sala. Insieme alla Commissione ci siamo impegnati perché non accada più in futuro - ha detto Michel intervenendo al parlamento europeo al dibattito sulla Turchia (VIDEO) - in quell'istante avevo deciso di non reagire ulteriormente per non creare un incidente politico che avrebbe rovinato mesi di preparativi e sforzi politici e diplomatici", ha aggiunto Michel. "Sono la prima donna a esser presidente della Commissione europea ed è così che mi aspettavo di essere trattata nel viaggio in Turchia, come una presidente della commissione - ha detto poco dopo invece Von der Leyen (VIDEO) -. Non riesco a trovare una giustificazione e devo concludere che quello che è successo è accaduto perché sono una donna". E ancora: "Mi sono sentita ferita come donna e come europea - ha aggiunto - questo riguarda i valori che sono alla base della nostra Unione e dimostra quanto dobbiamo ancora fare perché le donne siano trattate con parità".

Perché Erdogan umilia l’Europa. Draghi lo infilza: è un dittatore. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su almeno quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Il tutto è funzionale a uno scopo: mostrare che l’Unione europea è ostile agli interessi del Paese e causa della crisi economica devastante. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 9 aprile 2021. «Sono dispiaciutissimo per l’umiliazione inflitta alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Erdogan è un dittatore, di cui però si ha bisogno» Il presidente del consiglio Mario Draghi è molto netto nel condannare il “sofà-gate” di Ankara. ma la pantomima di poltrone e sofà sta oscurando il vero problema. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su almeno quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Il tutto è funzionale a uno scopo: mostrare che l’Unione europea è ostile agli interessi della Turchia e che è una delle cause della crisi economica spaventosa che sta attraversando il Paese. Un crisi dovuta alla politica economica spericolata di Erdogan che coinvolge l’Europa in pieno visto che il 50% del commercio estero di Ankara è con l’Unione, così come sono europei una buona parte dei prestiti in sofferenza alle imprese e ai soggetti turchi. La storia della sedia della presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen e del belga Charles Michel, capo assai inadeguato del Consiglio europeo, è uno degli scherzetti che ama giocare Erdogan ai suoi ospiti più sprovveduti, che ovviamente ci sono cascati in pieno. Erdogan, che tiene in galera migliaia di persone, gli oppositori politici e nega i diritti umani e quelli delle donne, vuol far capire che a casa sua fa quello che vuole. Ma ha una nozione di casa parecchio “allargata”, che si estende a buona parte del Mediterraneo. L’Unione europea come è noto paga profumatamente Erdogan (sei miliardi di euro) per tenersi in casa oltre tre milioni di profughi siriani e di altre nazionalità ma non ha nessuna intenzione di rinunciare all’arma dei rifugiati per tenere sotto pressione Bruxelles sulla rotta dell’Egeo e dei Balcani, valvola di sfogo tanto temuta dalla Germania della cancelliera Merkel ormai sul viale di un rapido tramonto visto che si ritirerà con le elezioni politiche di settembre. Quindi il “reis” turco continuerà a dare rassicurazioni a parole, a incassare i quattrini europei ma anche a fare quello che vuole nel momento in cui i suoi interessi e quelli di Ankara venissero minacciati. Le frontiere marittime sono un altro contenzioso bollente. La Turchia non accetta le frontiere marittime internazionali e più volte ha inviato in maniera provocatoria le sue navi da esplorazione nelle acque ritenute da Grecia e Cipro “zone esclusive di sfruttamento”. In queste zone offshore operano i francesi con la Total, l’Eni italiana e anche le società americane. Per difendere lo stato attuale delle cose si è formata una coalizione capeggiata dalla Francia con Grecia, Cipro, Israele ed Egitto che intende contrastare le ambizioni della Turchia. In queste acque dovrebbe passare il gasdotto verso l’Europa con le risorse energetiche del Mediterraneo orientale che renderebbe meno decisive le pipeline che trasportano il gas russo in Turchia e nei Balcani. L’Europa ha sanzionato la Turchia ma si tratta di misure cosmetiche perché la Germania intende trattare con Ankara in quanto teme il ricatto sui profughi. Anche l’Italia è possibilista ma per un’altra ragione: in Tripolitania la Turchia è la potenza militare dominante, sono stati i turchi a salvare la capitale dall’assedio di Haftar e gli italiani dipendono per la loro sicurezza dalle milizie turche e filo-turche. Anche l’ambasciata italiana visitata l’altro giorno dal premier Draghi. Erdogan ci ricatta su quasi tutto perché siamo fessi e codardi. Nel novembre del 2019, con il generale Khalifa Haftar alle porte di Tripoli, il governo libico chiese aiuto militare a Italia, Usa e Gran Bretagna per fermarlo: era una questione di vita o di morte. Noi questo aiuto lo abbiamo rifiutato e i libici si sono rivolti a Erdogan per contrastare il generale Khalifa Haftar sostenuto dai mercenari russi, dagli Emirati e dall’Egitto. Quindi la Turchia ha mandato uomini, droni e persino le milizie jihadiste reclutate in Siria riportando una netta vittoria militare. Che ci piacciano o meno le cose stanno così e le chiacchiere della nostra diplomazia e dei nostri governi stanno a zero. Questo è il secondo grave errore che abbiamo commesso in Libia in un decennio, il primo fu quello di bombardare Gheddafi nel 2011: allora sì avremmo dovuto restare neutrali visto che lo avevamo ricevuto in pompa magna soltanto sei mesi prima a Roma firmando oltre ad accordi economici intese sulla reciproca sicurezza. Insomma un’alleanza in piena regola e votata dal 90% del Parlamento. Che cosa succede adesso? Gli Stati Uniti hanno aperto un nuovo fronte di guerra fredda con la Russia anche in Libia dove Mosca potrebbe insediare una base militare in Cirenaica. Quindi gli Usa hanno chiesto ai leader europei di darsi da fare per sostenere il governo di Tripoli: è questo il vero motivo geopolitico per cui l’atlantista Draghi, su richiesta e con il pieno appoggio di Washington, è andato in Libia dove ha incontrato tra l’altro il premier greco Mitsotakis. In un solo giorno a Tripoli c’erano due primi ministri europei: un messaggio chiaro rivolto a Mosca ma anche a Erdogan che è l’uomo forte della situazione. Anche la Turchia è nella Nato, anche la Turchia si confronta con la Russia in Siria e in Azerbaijan oltre che in Libia, ma Erdogan e Putin si mettono d’accordo quando vogliono come hanno già dimostrato, una cosa che fa saltare la mosca al naso a Biden e al suo segretario di stato Blinken che ai tempi dell’amministrazione Obama sostenne la caduta di Gheddafi e ora vorrebbe cacciare la Russia dalla Cirenaica. Ecco perché Erdogan tratta a pedate i rappresentanti europei e li umilia, visto tra l’altro che Francia e Germania non hanno mai voluto la Turchia dentro l’Unione. Il suo punto di vista è questo: lui rischia i suoi soldati in Siria e in Libia e adesso gli europei e gli americani vorrebbero che se ne andasse da Tripoli lasciando che fossero gli altri a godere i frutti politici ed economici della situazione? Non se ne parla proprio: e infatti nessuno ritirerà le truppe, né i turchi né i russi, tutti attestati su una linea del cessate il fuoco che l’Unione europea vorrebbe monitorare con un suo contingente allargando così i compiti della missione Irini per l’embargo navale sulle armi. Si capisce bene allora che una sedia non è solo una questione di arredamento diplomatico ma rappresenta cosa si muove davvero dietro la pace e la guerra nel Mediterraneo: una spasmodica lotta di potenze.

Da repubblica.it il 14 aprile 2021. La dichiarazione del presidente del Consiglio italiano è stata una totale maleducazione, una totale mancanza di tatto". Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, citato da Anadolu, replicando al premier Mario Draghi, che una settimana fa lo aveva definito "dittatore". Finora Erdogan non aveva risposto direttamente al premier italiano. A intervenire erano stati vari esponenti del governo turco più i media ufficiali. Erdogan lo ha detto parlando in occasione di un evento alla Biblioteca nazionale presidenziale turca. Le dichiarazioni di Draghi hanno suscitato reazioni di indignazione da parte di diversi esponenti della classe politica e delle autorità turche. Il leader ultraconservatore Devlet Bahceli, del partito del Movimento nazionalista (Mhp), principale partner di coalizione di Erdogan, ha detto ieri ai membri del suo gruppo parlamentare che le dichiarazioni di Draghi rivelano "un'ammirazione segreta per Mussolini".

Draghi. Sui giornali governativi: "Mussolini dittatore". Ma la gente sui social: "Finalmente qualcuno dice la verità". Marco Ansaldo su La Repubblica il 9 aprile 2021. La stampa riporta le parole "scioccanti" del primo ministro italiano contro il presidente turco dopo lo sgarbo del sofa-gate a Ursula von der Leyen. Gli anti-Erdogan: "Una voce libera: l'Italia". I Lupi grigi soffiano sul fuoco contro Roma. I curdi con Palazzo Chigi. “Italia mafia”. “Mussolini dittatore”. “Dura reazione di Ankara a Draghi”. Però anche: “Il premier italiano ha detto quello che tutti, anche qui, pensano e non possono dire”. La Turchia si è svegliata oggi con una nuova crisi, e c’è purtroppo abituata. Da quasi vent’anni il Paese è stressato dai contenziosi causati dal suo leader, e non passa giorno senza un nuovo fronte aperto.

Questa mattina è il momento dell’Italia. E i giornali e i siti online, al 95 per cento filo governativi, riportano le parole “scioccanti”, come si legge, del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, “un premier di ripiego”, commenta l’osservante quotidiano Yeni Safak. Le reazioni istituzionali e governative non si sono fatte attendere. I collaboratori principali del capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, hanno fatto scudo attorno al loro presidente puntando su un approccio difficilmente smontabile: in Turchia si svolgono regolari elezioni e i nostri rappresentanti vengono eletti democraticamente. Ma un conto è quanto dice la casta al potere, fra istituzioni e media. Un alto discorso è la pancia del Paese. E allora, se si vanno a vedere i social, quelli almeno non ancora silenziati finora (molti lo sono già, ma i turchi sono un popolo molto creativo e hanno trovati sistemi alternativi per comunicare in rete), danno il polso di quello che emerge oltre i comunicati ufficiali. Gli utenti si sbizzarriscono allora nell’applaudire “il premier italiano che finalmente ha detto la verità”. E quindi: “Bravo Draghi”. “Qualcuno in Europa si accorge della realtà di quel che avviene in Turchia”. “Una voce libera: l’Italia”. “Draghi coraggioso”. E, anche, qualche preoccupato “Adesso Turchia e Italia sono in guerra”. C’è così chi si spinge a ricordare i tempi, poco più di vent’anni fa, del confronto aspro sul caso Ocalan. Quando tra il 1998 e il 1999 il leader e fondatore curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), estromesso dalla Siria dove si era rifugiato nella guerra combattuta contro l’esercito turco in Anatolia, scelse di andare a Roma dove si era appena formato il governo rosso-verde di Massimo D’Alema. “Apo” allora era descritto nei giornali di Istanbul come “il killer dei bambini”, così dovevano scrivere i giornalisti ogni volta che lo nominavano. E in ogni caso era il “nemico numero uno” di Ankara. Ne nacque una crisi con Roma che portò alla quasi rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi, a una difficilissima ricucitura, a una partita di Champions League fra Galatasaray e Juventus blindata da decine di migliaia di forze di polizia a Istanbul con Giovanna Melandri e Piero Fassino come ambasciatori, e le aziende italiane che non vendevano più una sola ruota di gomme (la Pirelli, ad esempio, per bocca del suo rappresentante). Oggi si rischia uno scenario simile, se le scuse italiane non arriveranno prontamente per bocca di Draghi o dell’ambasciatore ufficiale ad Ankara, Massimo Gaiani, subito convocato nella stessa serata al ministero degli Esteri turco. Difficile però che l’Italia, adesso apprezzata anche in Europa per le parole “franche” espresse dal suo presidente del Consiglio, le ritiri. Le istituzioni comunitarie devono trovare unità, dopo il sofa-gate di Ankara che ha indignato tutto il mondo, e il litigio formidabile tra Ursula von der Leyen e Charles Michel appena usciti dalla stanza di Erdogan, facendo ritardare vistosamente la conferenza stampa successiva prevista. Occorrerà però trovare una soluzione anche interna, a Roma, visto che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è rimasto sorpreso dalle parole del premier, mai concordate con la Farnesina. Un altro fronte turco è quello dell’opposizione, composta dunque dai repubblicani del Chp e dai filo curdi dell’Hdp, mentre il Partito di azione nazionalista Mhp (composto dalle frange di Lupi grigi pronti a ricordare tra poche settimane il 40° anniversario dell’attentato al Papa) è allineato sulle posizioni di Erdogan, e lo spinge anzi a dichiarazioni più aspre. I repubblicani non hanno al momento espresso posizioni: osservatori turchi rilevano che lo shock dovuto alla recente fine del processo ai golpisti con decine di ergastoli comminati, e al fermo di dieci ammiragli dichiaratisi contrari al progetto faraonico di Kanal Istanbul (un secondo Bosforo), è forte, e il partito non reagisce avendo altri pensieri, pandemia inclusa e la Turchia è molto preoccupata in proposito. Plausi invece si raccolgono fra i curdi. I due co-leader, un uomo e una donna, come da tradizione curda, del Partito democratico dei popoli, Pervin Buldan e Mithat Sancar, guardano con attenzione e interesse agli sviluppi internazionali. La loro formazione rischia la chiusura, così sta progettando Erdogan che ne teme la forza propulsiva alle elezioni, e un forte impegno anche all’estero può aiutare un movimento che rigetta con forza le accuse di terrorismo e si dichiara pienamente coinvolto nelle istituzioni democratiche. Anche tra i curdi, ora, Draghi è il benvenuto.

Erdogan risponde a Draghi: "Totale maleducazione, colpite le relazioni tra Italia e Turchia". Marco Ansaldo su La Repubblica il 14 aprile 2021. Il presidente turco ha atteso giorni prima di replicare al premier italiano, che lo aveva definito "dittatore". ERDOGAN “dittatore”? Le scuse dall’Italia alla Turchia non sono ancora arrivate. Sono passati giorni, ma Roma non ha risposto all’invito di “ritrattazione” fatto da Ankara all’ambasciatore italiano Massimo Gaiani che se ne è fatto latore con il governo. E allora ecco che la rabbia del presidente turco si abbatte direttamente su chi ha espresso quelle parole: Mario Draghi.

Draghi: "Dispiace moltissimo per l'umiliazione subita da Ursula Von der Leyen. Erdogan è un dittatore". “Le dichiarazioni del primo ministro italiano sono di una totale indecenza e maleducazione”. Erdogan non usa mezzi termini. E’ assertivo e determinato tanto nelle azioni, quanto nelle affermazioni: “Le sue parole hanno colpito come un’ascia le relazioni fra Italia e Turchia, che erano arrivate a un livello molto buono fino a quando il signor Draghi non ha parlato in questo modo”, dice. I suoi sottoposti, che spesso ne misurano la durezza e lo guardano con grande timore reverenziale, lo sanno benissimo. Erdogan è esplosivo nei sui scoppi di ira. Così il capo dello Stato turco, dopo alcuni giorni di attesa, è infine intervenuto sulla “questione italiana”, come ormai la definiscono in Turchia. Parlando a un evento tenuto in una biblioteca di Ankara, si è riferito direttamente al caso delle parole pronunciate giovedì scorso da Draghi durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi. "Vi dico di non dare alcuna importanza a quali parole utilizza o non utilizza il presidente del Consiglio italiano. Questo signore di nome Draghi, rilasciando questa dichiarazione, ha purtroppo colpito i nostri rapporti. Noi, grazie alla forza che ci ha conferito il popolo, avendo preso in consegna questa volontà popolare, continueremo il nostro percorso al servizio della Nazione". L’uomo definito da tutti il Sultano per le mire espansionistiche che rimandano all’Impero ottomano ha poi argomentato sulla vicenda, usando per sé la terza persona singolare e per Draghi è passato direttamente al tu: “Prima di dire una cosa del genere a Tayyip Erdogan devi conoscere la tua storia. Ma abbiamo visto che non la conosci. Sei una persona che è stata nominata, non eletta”. Chiaro il riferimento a Benito Mussolini, evocato nei giorni scorsi dalla stampa filogovernativa di Ankara che ha ricordato all’Italia il proprio passato, rivendicando le molte elezioni in cui, dal 2002 a oggi, il leader turco è stato eletto, vincendo spesso con largo margine, forte di un consenso ampio ottenuto soprattutto in Anatolia, più che sulla costa, saldamente repubblicana. Erdogan ha anche parlato di “totale impertinenza” delle affermazioni del presidente del Consiglio italiano. I media turchi hanno subito riportato come “Draghi abbia purtroppo danneggiato” lo sviluppo delle “relazioni Italia-Turchia”. E ora, dunque, aspettiamo che cosa accadrà sul fronte diplomatico e economico fra Ankara e Roma. 

Ilario Lombardo per "la Stampa" il 15 aprile 2021. Chi frequenta il mondo della diplomazia e conosce i turchi diceva: non lasceranno cadere l' offesa. E così è stato. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha aspettato una settimana, per dare modo a Mario Draghi se non di scusarsi, almeno di correggere il tiro dopo averlo definito «un dittatore con cui dobbiamo avere a che fare». Una frase pronunciata a commento dell' umiliazione subita dalla presidente della commissione Ue Ursula Von der Leyen, costretta a sedere su un divano mentre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si accomodava su una sedia accanto al presidente turco. A nulla è servito il gesto di convocare l' ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani e l' esplicita richiesta di una marcia indietro. Draghi è rimasto in silenzio, con grande imbarazzo della diplomazia italiana poco abituata a questi affondi ruvidi e attentissima a calibrare le parole, soppesandole sulla bilancia dei rapporti economici e politici. Passata una settimana senza nemmeno un segnale di riavvicinamento Erdogan ha risposto. E lo ha fatto a suo modo, lasciando trapelare attraverso le agenzie ufficiali un incontro con i giovani in una biblioteca di Ankara: «Quello che ha fatto - ha detto a commento delle parole del capo del governo italiano - è una totale mancanza di tatto, una totale scortesia e maleducazione. Con queste osservazioni ha minato come un' ascia lo sviluppo delle relazioni Turchia-Italia. Lui è stato nominato, non è stato neanche eletto, prima di parlare in questi termini tenga a mente la propria storia». Un affondo che rilancia la difesa indignata che ha animato l' opinione pubblica turca in questi giorni, secondo la quale il Paese di Benito Mussolini non potrebbe dare lezioni a un presidente eletto democraticamente e che per questo motivo non può essere definito «dittatore». Non è però solo una sottile questione di lessico se pure nei più alti ambienti diplomatici l' argomento fa breccia. Il primo a spiegarlo a Draghi è stato il suo consigliere diplomatico Luigi Mattiolo, a caldo, subito dopo la dichiarazione del presidente del Consiglio. Fonti di governo raccontano alla Stampa che subito dopo la conferenza stampa di Draghi, alla presenza di altri membri dello staff, Mattiolo ha spiegato al capo del governo che la sua uscita avrebbe potuto generare «gravi conseguenze»: «Non può essere definito un dittatore, dobbiamo rettificare in qualche modo». Ex ambasciatore italiano ad Ankara, Mattiolo conosce gli spiriti turchi ma il suo consiglio è stato subito respinto da Draghi: «Io non rettifico nulla». Questa la posizione e questa resta. Anche una settimana dopo. È il suo modo di parlare, dicono a Palazzo Chigi, «franco e diretto». Nessun retroscena, aggiungono: non ha voluto lanciare un avvertimento al presidente turco sulla Libia, dove si scontrano gli interessi di Roma e di Ankara. E confermano: «Non replicherà alle parole di Erdogan». Lo fanno le forze di maggioranza e di opposizione che da destra a sinistra si scagliano contro il Sultano, mentre gli ambasciatori Gaiani e Mattiolo sono a lavoro per ricucire la lacerazione che è già costata all' Italia l' importante commessa di quattro elicotteri destinati dalla Leonardo ad Ankara. Secondo quanto si apprende da fonti diplomatiche, si starebbe puntando a organizzare un faccia a faccia pacificatore, anche se il clima rovente di queste ore rende impossibile prevederlo a breve. Ma la Turchia è un tassello troppo importante per gli interessi italiani (quasi 20 miliardi di scambi commerciali). Alla Farnesina, lontano da ogni tipo di riflettore, si fatica a trovare una parola diversa da «gaffe» per definire la dichiarazione di Draghi e una fonte spiega che ormai tutto si gioca sull'«autorevolezza del presidente del Consiglio, che può spingere l' Europa a seguire questa linea di franchezza nei rapporti», facendo dimenticare a poco a poco quanto successo.

Erdogan e il sofa-gate: diplomazia al lavoro con la Turchia. Ma la linea di Draghi non cambia. Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 9 aprile 2021. Il premier deciso a giocare un ruolo di testa in Europa. Il peso del nuovo corso negli Usa e dello scenario libico. Nessuno, ventiquattr'ore dopo, è in grado di affermare con certezza se quella definizione così dura dedicata al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, "dittatore", sia stata preparata, studiata e quindi scagliata in conferenza stampa seguendo un copione già scritto. Probabilmente no, o comunque: non tutto era stato pianificato. E nessuno può prevedere fino in fondo gli effetti di questa sortita. La sostanza, però - quella sì - ricalca una linea che Mario Draghi intende seguire nei prossimi mesi. Frutto di convinzioni consolidate e della nuova fase internazionale. Di certo, il premier è descritto in queste ore come sereno e non troppo turbato da quanto accaduto. Sia chiaro: i canali diplomatici sono già in movimento, com'è ovvio che sia in casi del genere. Ma il presidente del Consiglio non dà segnali di bruschi cambi di direzione, né di clamorose marce indietro. Esistono due piani, in questa partita. E vanno tenuti ben distinti. Il primo attiene all'incidente diplomatico della "sedia" negata alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha generato la reazione di Draghi. Netta, pubblica, in diretta televisiva, con il logo della Presidenza del Consiglio alle spalle. La più dura registrata in Europa. Ed è culminata con due parole che non si prestano a fraintendimenti: la presidente della Commissione è stata  "umiliata" e, soprattutto, Erdogan è un "dittatore" con cui comunque "si ha bisogno di collaborare". La reazione di Ankara, immediata, ha portato alla convocazione dell'ambasciatore italiano in Turchia. E anche il ministro degli Esteri si è subito scagliato contro l'ex banchiere centrale. A fronte di questi eventi, molto si è messo in moto. "Se ne stanno occupando le diplomazie", fanno sapere da Palazzo Chigi a metà giornata. Significa che i contatti tra le due rappresentanze sono in corso. Significa che il premier italiano ha già avuto modo di discutere della questione con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al telefono. E che nelle prossime ore incontrerà il responsabile della Farnesina, appena farà rientro in Italia reduce da due giorni di missione in Malì. Ridurre il danno significa anche gradire la scelta di Matteo Salvini di rinviare a data da destinarsi il sit-in - previsto per stamane - di fronte alla rappresentanza diplomatica turca nella Capitale. Questa, dunque, è la tela diplomatica. Che sarà condizionata, evidentemente, anche dall'eventuale reazione pubblica di Erdogan, attesa per oggi ma che ancora, a sera, non è stata registrata dai media turchi. Ma le parole di Draghi vanno inquadrate anche allargando lo sguardo al contesto geopolitico internazionale. E' questo il punto che segnalano tutti gli interlocutori di Palazzo Chigi, in queste ore. Un filo che partendo da Bruxelles, arriva fino a Tripoli e Washington. È cronaca che Draghi abbia di recente visitato la Libia, nel corso del suo primo viaggio internazionale. In quello scacchiere Ankara gioca da oltre un anno una partita assai aggressiva, proprio in un teatro tradizionalmente caro a Roma. Gli interessi, è evidente, non collimano, anche se questa "concorrenza" non basta da sola a spiegare l'affondo verbale del premier italiano. E infatti c'è di più. L'attivismo di Draghi va letto alla luce della nuova fase che potrebbe presto aprirsi in Europa e che, di certo, si è già aperta negli Stati Uniti. L'imbarazzo con cui Bruxelles ha reagito al caso della "sedia" è emblematica, e sotto gli occhi di tutti. In questo senso, il premier ha scelto scientificamente di intestarsi la reazione più dura contro Erdogan. L'ambizione pare quella di conquistare un ruolo centrale nel Continente. In questo, interpretando anche alcuni indizi che arrivano dagli Stati Uniti. Non sono solo le mosse di Joe Biden rispetto alla Russia, o quell'esplosivo "killer" scelto per definire Putin. Nel corso dell'ultimo Consiglio europeo, il presidente degli Stati Uniti ha selezionato concetti durissimi verso le autocrazie e indicato la rotta ai partner Ue: "Stando insieme, fianco a fianco, Usa e Unione europea possono dimostrare che le democrazie sono più adatte a proteggere i cittadini". Chi conosce la filosofia di Draghi non nasconde la sintonia con questo approccio. E d'altra parte, anche il linguaggio sembra adattarsi alla nuova era, con quali conseguenze "sul campo" si vedrà. Nel frattempo, vanno registrate alcune reazioni gelide con cui a Bruxelles è stata accolta la sortita del premier italiano. "La Turchia è un Paese che ha un Parlamento eletto e un presidente eletto - ha detto oggi un portavoce della Commissione, interpellato sulle parole di Draghi - verso il quale nutriamo una serie di preoccupazioni e con il quale cooperiamo in molti settori. Si tratta di un quadro complesso, ma non spetta all'Ue qualificare un sistema o una persona". Una freddezza che non sembra però scalfire le convinzioni dell'ex banchiere. Che, spiegano da più fronti, ha sempre usato e continuerà a usare un linguaggio diretto, in un certo senso non mediato e quindi anche a suo modo rischioso, soprattutto rispetto alle potenze esterne all'alleanza democratica occidentale. Ma che nello stesso tempo promette comunque, in nome della real politik, di continuare a promuovere il dialogo con questi leader, in nome di un pragmatismo necessario.

Francesca Sforza per “la Stampa” il 10 aprile 2021. Impertinenti, inopportune, inaccettabili»: è questa l' aggettivazione che la diplomazia turca ha usato per definire le dichiarazioni del premier italiano Mario Draghi a proposito del presidente turco Erdogan («un dittatore di cui si ha bisogno»). Ankara chiede senza mezzi termini che quelle dichiarazioni vengano «immediatamente ritirate», ma forse si accontenterebbe di una telefonata di scuse. Le scuse tuttavia non arriveranno, se si guarda alla linea assunta dal governo italiano nei confronti della Turchia non da ieri, ma almeno dall' ultimo Eurosummit del 25 marzo scorso, quando Draghi ha duramente criticato lo stato di diritto turco e l' uscita dalla Convenzione di Istanbul. Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell' opinione pubblica e dell' intero arco parlamentare italiano - ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra - e ieri ha anche incassato il sostegno del Ppe, che con Manfed Weber ha dichiarato: «Con la Turchia meglio parlare chiaro e togliere dal tavolo la procedura di allargamento dell' Unione». Tutto bene dunque? Insomma, perché i nostri interessi con la Turchia ammontano al momento a circa 20 miliardi di interscambio l' anno - ambienti vicini a Leonardo vedevano in bilico, ieri, la commessa per l' acquisto di 15 elicotteri, tanto per cominciare - e poi ci sono i nostri interessi geopolitici nel Mediterraneo. Negli ultimi anni, a fatica, con la tecnica di due passi avanti e uno indietro, l' Italia era comunque riuscita a ritagliarsi uno spazietto strategico nell' area, che con la Libia da ricostruire aveva i margini per diventare più largo. L' imperfetto però a questo punto è d' obbligo, perché in quella zona sono due i Paesi con cui bisogna dialogare: uno è l' Egitto - con cui i rapporti sono congelati per via del caso Regeni - e l' altro è la Turchia. I sostenitori della linea moderata, che tradizionalmente sul dossier turco dimorano al Ministero degli Esteri, hanno già cominciato a mettere sul tavolo possibili soluzioni. Ma anche lì, si fatica a trovare una traiettoria, almeno stando a una delle poche dichiarazioni rilasciate: «Coordineremo tutte quelle iniziative che si devono coordinare», ha detto il ministro Di Maio nel corso di una trasmissione tv. Da una parte c' è la gestione del breve e medio termine - chi conosce la diplomazia turca sa che la tecnica dell' attendismo, del rinvio, del lasciar decantare nell' attesa che passi la bufera, è destinata a fallire - dall' altra quella del lungo termine, che riguarda la collocazione strategica italiana futura. Ci si chiede se non siamo all' alba di un cambio strutturale della politica estera nazionale, un turning point che potrebbe vederci sostanzialmente fuori dal Mediterraneo che conta, più vicini a Stati Uniti e Francia, più lontani da Berlino. I più preoccupati sembrano essere proprio i tedeschi, che ieri si sono mossi alla ricerca di spiegazioni per capire come regolarsi: se anche l' Italia si sposta su posizioni decisamente antiturche come già la Francia, Grecia e Cipro, come sarà possibile condurre una mediazione nell' area del Mediterraneo orientale? Che i tedeschi ci vengano dietro è da escludere, non fosse altro per la composizione etnica delle loro città: un problema con la Turchia diventerebbe un problema di politica interna nell' arco di ventiquattr' ore. Mai come questo momento l' ancoraggio a Bruxelles sembra quello da cui gli interessi italiani possono venire difesi al meglio. Anche se mai come dopo il Sofà-Gate le fragilità dell' Unione sono sembrate tanto grandi.

Mario Draghi contro Erdogan e il silenzio di Angela Merkel: il premier italiano lancia la sua scalata in Europa? Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. Chiamandolo “dittatore” in una conferenza stampa con tanto di logo di Palazzo Chigi alle sue spalle, Mario Draghi ha fatto letteralmente perdere le staffe a Recep Erdogan, che evidentemente si è sentito toccato nel profondo. D’altronde quella espressa dal presidente del Consiglio è una verità incontrovertibile, oltre che una mossa politica dai risvolti molto chiari: “Dopo aver strizzato l’occhio alla Cina e alla Russia con i due governi guidati da Giuseppe Conte - è l’analisi di Adalberto Signore su Il Giornale - Draghi torna su quelli che sono storicamente i due capisaldi della nostra politica estera, fin dai tempi della Dc: europeismo e atlantismo. Con la realpolitik come faro”. Nelle ore successive alla sua uscita pubblica contro Erdogan, definito “dittatore” con cui bisogna però “cooperare” (e non collaborare, scelta di parole non casuale), Draghi è stato descritto dal suo staff come “tranquillo” e “per nulla turbato” dalla reazione dura della Turchia, che ha subito convocato l’ambasciatore italiano. Ma al di là di questo, già ieri Erdogan ha evitato di tornare sull’argomento e di esprimere pubblicamente una posizione contro l’Italia. Evidentemente il presidente del Consiglio ha colpito nel segno… Ma la sua uscita è importante non solo per marcare le distanze dalla Turchia di Erdogan. Sempre Signore su Il Giornale fa notare che in Europa si è registrato un certo silenzio delle cancellerie più importanti, a partire da quella tedesca di Angela Merkel. Sia lei che la Commissione Ue hanno scelto di lavarsene le mani: “Certamente un eccesso di prudenza. Ed è in questo eccesso di cautela dell’Europa che Draghi inizia a muoversi con un piglio che inizia a far breccia, non tanto in casa nostra quanto all’estero. E a far pensare - per la prima volta dopo molti anni - che un premier italiano possa ambire ad un ruolo di leadership a livello europeo”. 

Che pena l’Europa che si inginocchia ai piedi del sultano sessista e liberticida. Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Coloro che avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa. Barbara Spinelli su Il Dubbio il 9 aprile 2021. Leggendo i giornali degli ultimi due giorni, viene da pensare che davvero i diritti umani siano un’ideologia occidentale in declino. E che a favorire tale lento ma inesorabile declino siano proprio quei governanti europei che invece avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa, sorte dalle ceneri dei campi di concentramento nazisti nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Draghi, pur di recuperare gli interessi economici in Libia, si è spinto ad affermare che “Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia”, anche dopo che, al contrario, Fatou Bensouda, la procuratrice della Corte penale internazionale dell’Aia, ha messo nero su bianco nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU la responsabilità del generale Haftar e delle milizie dal medesimo controllate nei crimini di guerra e nelle “sistematiche atrocità” commesse contro migranti e profughi. Von der Leyen e Michel, dopo i già sonori schiaffi assestati da Erdogan al sistema europeo di tutela dei diritti umani, il primo attraverso il menefreghismo dimostrato davanti alla sentenza della Corte Europea dei diritti umani con la quale si chiedeva l’immediata liberazione del leader HDP Selahattin Demirtas, dichiarando urbi et orbi che “la sentenza non è vincolante per Ankara”, il secondo, con la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul, si sono dimostrati propensi ad accettare sottomessi anche il terzo, inflitto a favore di telecamere in occasione della visita ad Ankara. Che si sia trattato di un pasticcio diplomatico è fuor di dubbio: strano però che i funzionari della Commissione non si siano coordinati con quelli del Consiglio d’Europa per la preparazione della visita, e ancor più strano che i funzionari di Ankara ignorassero la pari dignità di entrambe le istituzioni. Perché è pur vero che il capodelegazione era Michel, ma quando si ricevono due istituzioni di pari importanza, le si assegnano posti di pari rilievo. Invece Ursula, a sedia mancante, si è accontentata del divanetto, declassata alla compagnia del Ministro degli Esteri Cavasoglu, lasciando la scena ai due uomini di potere. Ammesso che l’assenza della sedia sia stato frutto dell’imperizia dei funzionari europei, tuttavia a sedia mancante era chiaro che la scelta sul che fare avrebbe avuto una portata simbolica pregnante. Accettare il terzo schiaffo o ribadire il necessario rispetto della pari dignità istituzionale, a maggior ragione in quanto l’istituzione messa in disparte era rappresentata da una donna, attendendo in piedi l’arrivo della terza sedia? Purtroppo, Ue e Consiglio d’Europa hanno incassato il terzo schiaffo senza colpo ferire, ed anzi nella conferenza stampa congiunta hanno pure spiegato il motivo di tanto aplomb: intensificare gli scambi economici e rafforzare i finanziamenti per la gestione dei flussi migratori. Erdogan è stato scaltro: come nel gioco delle tre carte, rimbalzando tra i protocolli, ha mostrato al mondo intero la debolezza della diplomazia europea e la relatività dell’ideologia occidentale dei diritti umani, predicata ma non praticata. L’immagine che Michel e Von der Leyen ci hanno consegnato, come d’altronde Draghi con le sue dichiarazioni, è quella di un esecutivo fragile, vulnerabile, per il quale il prevalere degli interessi politici ed economico- finanziari impone la relativizzazione nella tutela dei diritti umani, la sudditanza a criminali di guerra, dittatori e despoti, che se ne compiacciono ingrassando le loro tasche, per fare il lavoro sporco. E così, mentre Al- Sisi, Haftar ed Erdogan se la ridono compiaciuti della fragilità italiana ed europea – fragilità ideologica e politica- e si godono i vantaggi economici che ne derivano, noi guardiamo la democrazia morire lentamente, affossata dalle logiche speculative dei governi, che non esitano a barattare sicurezza, commesse milionarie e rifornimenti energetici con il silenzio assenso ai regimi dittatoriali del Mediterraneo all’eliminazione interna della resistenza democratica, e all’erosione dello stato di diritto mediante la cancellazione della separazione dei poteri, dell’indipendenza della magistratura, dei principi di uguaglianza e non discriminazione.

I migranti dietro al "sofa-gate". Il retroscena sulla sedia proibita. Il vertice di Ankara serviva ad Unione Europea e Turchia per riprendere il dialogo su alcuni dossier vitali per l'agenda politica internazionale, tra cui la gestione dei rifugiati siriani. Daniele Dell'Orco - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Per "sofà-gate" si intende la dimostrazione plastica della capacità dell'Europa di spostare l'attenzione dalle tematiche rilevanti per concentrarsi sul colore. Perché sì, l'atteggiamento di Erdogan nei confronti del Presidente della Commissione Ue Ursula von Der Leyen è stato brutale, ma forse meno rispetto al nocciolo centrale del vertice: i migranti. Attorno alla gestione dei flussi migratori ruotano tutti gli altri dossier che animano i rapporti tra Turchia e Unione Europea: diritti umani (la Turchia ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione europea contro la violenza sulle donne), ingerenze geopolitiche, scontri diplomatici. La von Der Leyen, insieme al Presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, si sono resi conto che l'escalation degli scontri con Ankara non conviene a nessuno. E anzi, il meeting rappresentava una tappa importante verso una ripresa della dialettica che la stessa Turchia, in piena crisi finanziaria, auspica con l'Ue, dopo un 2020 di massima tensione e la minaccia di sanzioni contro Erdogan per le azioni "illegali e aggressive" su vari fronti. I diplomatici francesi l'hanno definita “offensiva di charme”, e si tratta di una strategia, quella del Sultano, di provare a tendere la mano all'Europa dopo mesi a dir poco turbolenti: dagli insulti con Macron, alla disputa sulle trivellazioni nel Mar Egeo, fino ovviamente alla riapertura dei confini con la Tracia che aveva proiettato centinaia di migliaia degli oltre 4 milioni di profughi siriani stipati in Anatolia lungo la cosiddetta Rotta Balcanica. Proprio in questo senso, dopo i 6 miliardi di euro già elargiti con l'accordo del 2016 da Bruxelles per "proteggere" i confini tra Grecia e Turchia, entrambe le parti in causa caldeggiano un rinnovo dei finanziamenti. Questi nodi dell'agenda diplomatica rappresentano punti di interesse comune tra tutti gli Stati dell'Ue, dalla Francia che appunto con la Turchia non nutre buoni rapporti (addirittura dall'Eliseo accusano Erdogan di aver tentato di interferire nelle scorse elezioni presidenziali), alla Germania che con la Turchia cerca di tenere saldo un rapporto secolare, fino alla stessa Italia, che ha ancora il suo bel daffare nella gestione dei flussi migratori dalla Libia (quasi 10mila sbarchi da inizio del 2021), che con Ankara condivide diversi dossier di politica internazionale (Nord-Africa, Maghreb, Balcani, Mediterraneo orientale, Africa orientale) e che in quella "cooperazione" auspicata da Draghi nelle sue dichiarazioni su Erdogan che hanno creato un incidente diplomatico non da poco si riferisce proprio alla gestione degli accordi commerciali e politici, della convergenza sul riconoscimento di un governo in Libia, del blocco dei migranti. Il sofà-gate, insomma, ha mostrato chiaramente come tematiche "simboliche" in seno all'Europa finiscano per sovvertire l'ordine gerarchico degli argomenti davvero importanti. È anche così che, il Vecchio Continente, mostra il suo ventre molle.

Il Canale, la Libia e Washington: la vera sfida tra Draghi ed Erdogan. Lorenzo Vita su Inside Over l'11 aprile 2021. Quella che si sta per concludere non è stata una settimana come le altre per la Turchia. È iniziata con una retata che ha coinvolto i più importanti ammiragli in pensione del Paese accusati di golpe ed è finita con il “sofa-gate” di Ankara fino ad arrivare alle parole di Mario Draghi nei confronti di Recep Tayyip Erdogan, definito come un “dittatore” dal presidente del Consiglio. I tre episodi sembrano completamente slegati tra loro, almeno in apparenza. Cosa può unire dieci ammiragli accusati di aver firmato un documento che paventava un golpe a una conferenza stampa del premier italiano a Palazzo Chigi? Tutto farebbe propendere per due questioni completamente sperate, eppure esiste un filo conduttore: una sottile linea rossa che lega Ankara a Roma e che fa tappa a Istanbul e Tripoli e che svela uno dei più complessi equilibri di potere del Mediterraneo. Partiamo dagli arresti che hanno coinvolto gli ex ammiragli turchi, tra i quali l’ideatore di Mavi Vatan, Cem Gurdeniz. Tutto nasce da una dichiarazione con cui 104 personalità legate alla Marina e al mondo nazionalista hanno criticato aspramente l’idea del Canale di Istanbul (il progetto faraonico per creare una via d’acqua parallela al Bosforo) e l’ipotesi di uscire dall’accordo di Montreux del 1936. I mandati di arresto per gli alti ufficiali in pensione della Marina sono il frutto di un sospetto: secondo Erdogan e la magistratura turca quella lettera firmata dai militari ormai non più servizio sarebbe molto simile a certi documenti firmati in concomitanza dei colpi di Stato che hanno coinvolto la Turchia. Ma l’accusa nasconde anche un altro segnale: non solo si ferma un blocco, quello nazionalista e laico, che contesta Kanal Istanbul e l’uscita da Montreux, ma si fa vedere a Russia e Stati Uniti – cioè le due potenze coinvolte nel Bosforo – che la possibilità di escludere il canale dalla Convenzione del 1936 è un’ipotesi reale. Tanto reale che si considera pericoloso chi ne condanna aspramente l’ipotesi, pure se questo significa arrestare un uomo che ha plasmata l’attuale dottrina navale turca. Alla Russia, l’idea che la Turchia esca da Montreux non piace per nulla. Vladimir Putin ha chiamato Erdogan proprio per esprimergli il punto di vista russo sulla necessità di mantenere vivo l’accordo evitando di manomettere il regime del transito negli Stretti Turchi. Il presidente turco ha voluto evitare di tornare sull’argomento dicendo che per adesso l’uscita non è in discussione, ma è chiaro che l’attenzione del Cremlino è la spia di cosa può succedere dal punto di vista internazionale. Perché se Mosca ha tutto l’interesse a evitare che si infranga l’equilibrio del Mar Nero, a Washington c’è molta curiosità sul punto: specialmente perché avviene in una fase di escalation che riguarda l’Ucraina e le coste meridionali della Russia. Gli Stati Uniti sarebbero molto interessati a un canale escluso da quella convenzione firmata ai tempi di Atatürk e della prima Unione Sovietica. La Convenzione limita non solo il passaggio delle navi militari dei paesi che non si affacciano sul Mar Nero, ma anche il loro stazionamento, limitato a un massimo di 21 giorni. Se la Turchia decidesse di rinegoziare i termini del trattato o escludere il Canale da questa Convenzione, per Washington si concretizzerebbe la possibilità di liberare un choke point fondamentale dando libero sfogo alla libertà di navigazione e all’idea di armare il Mar Nero. E questo Erdogan lo sa benissimo, perché usando quest’offerta e fermando i più alti ufficiali e strateghi anti Usa, il messaggio arrivato in America è chiarissimo. Il riavvicinamento agognato da Erdogan con gli Stati Uniti chiaramente passa anche per la Libia. E qui viene in gioco l’Italia. È chiaro che la Turchia dalla Tripolitania non se ne andrà così facilmente. Ha inviato droni, armi, navi, mercenari dalla Siria e consiglieri militari: difficilmente abbandonerà il campo senza ottenere garanzie di mantenere il controllo su Tripoli e Misurata e sulle sue maggiori basi in Libia. Ma questo significa che avrà per forza bisogno di un minimo placet americano. Anche perché la Turchia ha già dimostrato di essere molto brava a trattare con la Russia, presente in Cirenaica, pur rimanendo formalmente nella Nato. L’offerta di Kanal Istanbul può sembrare avventata e quasi utopistica: ma è chiaro che a Erdogan in questo momento serve far capire agli Stati Uniti di poter di nuovo fare affidamento sulla Turchia. Una necessità tale da far rispolverare al governo turco anche il tema degli uiguri in Cina, tanto caro all’America ma con il rischio di infastidire il potente partner cinese. Questo gioco turco ovviamente complica molto le mosse di chi si considera il miglior alleato degli Stati Uniti nel Mediterraneo, e cioè l’Italia. Draghi ha confermato più volte che la sua linea politica è quella europeista e atlantista. Il caso Biot in questo senso è esemplare. Ma è evidente che nella partita libica e in quella del Levante la Turchia ha molte più armi da mostrare a Joe Biden. Il presidente Usa di certo non apprezza Erdogan, ma l’ipotesi di Ankara che torna nell’alveo Nato e che spezza l’asse con Mosca non può essere presa sottogamba. Specialmente perché abbiamo visto come Biden veda come fumo negli occhi sia la Russia che la Cina. Ecco quindi che le parole di Draghi su Erdogan assumono un ben altro significato: la “gaffe” del premier non è evidentemente collegata alla sedie negata a Ursula von der Leyen, ma molto più pragmaticamente serve a tirare una linea rossa tra il modus operandi italiano e quello turco. Per Draghi non c’è possibilità di paragonare i due paesi, a tal punto che considera Erdogan un dittatore con cui collaborare. Concetto decisamente in contrasto con il fatto che la Turchia non è solo un importante partner italiano ma anche un alleato in seno alla Nato. Quell’uscita dopo il viaggio a Tripoli e dopo l’incontro con il nuovo premier libico e con il premier greco Mitsotakis indica un segnale anche da parte dell’Italia: per Palazzo Chigi è Roma il vero referente di Washington nel Mediterraneo.

Massimo Giannini per “la Stampa” l'11 aprile 2021. Mario Draghi che dà del “dittatore” a Erdogan. È la classica buccia di banana sulla quale scivola un leader arrivato al potere con le apparenti credenziali di un “impolitico”, o è invece la ruvida frustata di un primo ministro che insegue un più raffinato disegno diplomatico? Le sacre fonti di Palazzo Chigi invitano a non caricare di significati eccessivi l’accusa che il presidente italiano ha rivolto al suo omologo turco: era indignato per il trattamento scandalosamente sessista riservato alla presidente della Commissione europea in visita ufficiale ad Ankara, e questo è tutto. Può darsi che sia così. Ma quello che è accaduto, depurato dalla possibile motivazione psicologica, sollecita comunque qualche riflessione politica. Intanto perché l’affondo del premier rappresenta in ogni caso uno strappo lessicale e istituzionale: nel galateo delle diplomazie nessun capo di Stato e di governo usa dire ciò che pensa in modo così netto e quasi brutale. E poi perché, a distanza di quattro giorni e nonostante le proteste ufficiali della Turchia, il premier non ha fatto nulla per troncare e sopire. Dunque, cosa c’è dietro la sortita di Draghi? Suggerisco due chiavi di lettura. La prima chiave di lettura è fattuale: Erdogan è un dittatore perché viola sistematicamente i diritti del suo popolo e del popolo curdo e reprime le libertà fondamentali, di espressione e di genere. Comprensibile nella sostanza, irricevibile nella forma: come ha scritto giustamente Nathalie Tocci, Erdogan è un pessimo autocrate, maschilista e nazionalista, ma in Turchia non c’è una dittatura, il presidente è stato eletto dai cittadini, le tre maggiori città sono in mano a sindaci dell’opposizione e tra due anni si svolgeranno nuove elezioni. Draghi non può non saperlo. Se nonostante questo ha evocato la “dittatura”, e poi non ha fatto nessuna marcia indietro, è verosimile che abbia voluto lanciare qualche messaggio. Agli amici e ai nemici. E qui siamo alla seconda chiave di lettura, che è invece geo-strategica. Con la sua intemerata, per quanto “tecnicamente” imprecisa, il premier riempie a modo suo l’inquietante vuoto di leadership dell’Unione in Europa, in Medioriente, nel mondo. Un vuoto che deriva dal declino dell’asse franco-tedesco, con una Merkel in uscita e un Macron in attesa. Che precipita nella ritirata comunitaria dai grandi teatri globali del conflitto militare-industriale, dal Corno d’Africa alla Siria all’Iraq. Che si manifesta nel clamoroso fallimento della campagna vaccinale, con una copertura finora limitata al 14% dei cittadini europei, contro il 38% degli americani e il 58% dei britannici. Che deflagra simbolicamente proprio con il “Sofà-gate” in terra turca, con un patetico Charles Michel che invece di cedere la poltrona alla collega Von der Leyen usa a vanvera il “protocollo” per giustificare la sua figuraccia, quasi più oscena di quella di Erdogan. Prendendo di petto il Sultano, Draghi sembra voler ridare voce all’Unione e tono all’Italia. A partire proprio dal Mediterraneo, che un tempo era Mare Nostrum e adesso è risucchiato nel gorgo dei nuovi imperialismi asiatici. Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti). Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita. Un avviso ai naviganti che vale anche per gli alleati europei: deboli, divisi e indecisi a tutto. E in questo caso, forse, c’è una saldatura più marcata con l’America post-trumpiana. L’Erdogan “dittatore” di Draghi fa il paio con il Putin “killer” di Biden. Un linguaggio comune, improprio ma inequivoco, per riallacciare le relazioni transatlantiche all’insegna della difesa delle democrazie occidentali e della denuncia esplicita dei regimi illiberali. Che se non sono dittature (come nel caso della Cina) sono per lo meno “democrature” (come nel caso della Turchia e della Russia). E che al di là della “volontà di potenza” di chi le comanda, non sono né insensibili né impermeabili al “soft power” esercitato dal mondo libero. Erdogan è in palese difficoltà. Si avvicina alle elezioni del 2023 col fiato sempre più corto. È in crisi nera sull’economia: il Pil non cresce, l’inflazione vola al 15% e la cacciata del governatore della Banca centrale Naci Abgal ha prodotto una svalutazione della lira turca pari al 15% sul dollaro. È in conflitto con interi pezzi della società: milioni di giovani non dimenticano le proteste di Piazza Taksim e centinaia di migliaia di donne scendono in piazza ogni fine settimana dopo la clamorosa decisione del governo di uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. È in caduta verticale nei sondaggi: ad oggi il suo partito, l’Akp, non raggiungerebbe il 51% neanche con gli alleati del Movimento Nazionalista. Putin non se la passa tanto meglio. In patria cresce il disagio alimentato dal martirio a bassa intensità di Navalny nella colonia penale di Pokrov, dove il leader dei dissidenti si consuma in uno sciopero della fame che nutre le speranze malcelate del Cremlino su una sua fine rapida e magari non troppo dolorosa. Fuori dai confini crescono le tensioni nel Donbass, dove lo Zar non ha ancora deciso quale strategia intraprendere, mentre il ministro degli esteri ucraino Dmitro Kuleba denuncia ufficialmente “l’aggressione armata della Federazione Russa” e il New York Times scrive “le intenzioni di Putin non sono chiare ma la manovra, decisa per mettere alla prova il nuovo presidente statunitense, potrebbe rapidamente degenerare”. Queste autocrazie non sono superpotenze inespugnabili. E con queste autocrazie dobbiamo comunque “fare i conti”, come ha detto lo stesso Draghi. In senso diplomatico, ed anche in senso economico: perché dove passano le merci non passano gli eserciti, perché in Turchia lavorano 1.500 aziende italiane e perché con Ankara abbiamo un interscambio che vale 19 miliardi. Ma queste autocrazie vanno affrontate a viso aperto. Perché, come scrive Anne Applebaum nel suo “Tramonto della democrazia”, è anche possibile che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, che il XXI secolo vedrà arrivare al potere una nuova generazione di “chierici”, fautori di idee autoritarie, e che la paura del Covid genererà anche la paura della libertà. Ma dipende solo da noi far sì che la pandemia ispiri invece un nuovo senso di solidarietà, e che la realtà del dolore e della morte insegni alle opinioni pubbliche a diffidare di bugiardi, populisti, imbonitori. E persino dittatori, veri o falsi che siano.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” l'11 aprile 2021. La crisi non è affatto chiusa. Ad Ankara le parole di Mario Draghi, che ha definito «un dittatore» il presidente Erdogan, continuano a provocare dichiarazioni infuocate di ministri e leader politici. Il governo turco pretende scuse ufficiali e non sembra disposto ad accontentarsi di un chiarimento attraverso i canali diplomatici. E poiché da Roma non arrivano risposte, le autorità turche hanno cominciato a lanciare segnali minacciosi, marchiando la disponibilità di alzare il livello del confronto. Una pressione nell' ombra, destinata a pesare senza però ricorrere ad atti formali. Con un obiettivo chiaro: far capire che il prezzo del braccio di ferro potrebbe pagarlo l' economia italiana. La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l'acquisto di dieci elicotteri d' addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l'importo complessivo per l' azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. A fine marzo Ismail Demir, il presidente delle Industrie della Difesa ossia l' ente governativo che gestisce le commesse, aveva annunciato l' accordo con Leonardo. Ma dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che "al momento" l' operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l'interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l'anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l' anno. Fonti di Palazzo Chigi minimizzano la situazione, sostenendo che la nostra diplomazia è all' opera per rasserenare le relazioni. E finora il presidente Erdogan ha scelto di non affrontare il tema. Ma uno dietro l'altro i suoi ministri hanno preso posizione, condannando Draghi. Quello dell' industria Mustafa Varank ha dichiarato: «Non esistono lezioni di democrazia che la Turchia può ricevere dal primo ministro "incaricato" dell' Italia, che ha inventato il fascismo». Poi ha detto che i governanti italiani lasciano morire i richiedenti asilo e devono prendere lezioni di umanità dalla Turchia, invitandoli ad ammirare il presidente. Non a caso, quasi tutti gli interventi fanno leva sul tema dell' immigrazione. Il portavoce dell' Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: «Hanno chiamato il nostro presidente "dittatore" e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull' immigrazione - ha scandito Omer Celik - . È il massimo dell' ipocrisia. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale, pensano di doverci dare lezione di democrazia. Per prima cosa portate la vostra democrazia fuori dalle acque del Mediterraneo, poi parlate».

L’attacco di Erdogan ai diritti umani è l’ultima mossa di un leader allo sbando. Contestato nelle piazze, in calo di popolarità, con un partito diviso. Il presidente turco sceglie il pugno di ferro. Ma questa volta rischia. Mariano Giustino su L'Espresso il 6 aprile 2021. I primi mesi di quest’anno in Turchia sono stati particolarmente foschi: con la nomina di fiduciari del presidente turco ai vertici delle accademie, come è avvenuto alla Bogaziçi, l’Università del Bosforo, a seguito di un decreto presidenziale varato nella notte del 2 gennaio e poi, sempre di notte, dal 17 marzo, in 72 ore, con una scarica di colpi allo stato di diritto e ai diritti umani fondamentali senza precedenti da quando il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan è al potere.  Dapprima, vi è stata la richiesta della messa al bando del terzo maggior partito del paese, il Partito democratico dei popoli (Hdp), accompagnata da quella dell’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Poi, il 19 marzo, l’uscita, per decreto presidenziale, dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dalla Turchia il 12 marzo del 2012 dopo averla sottoscritta l’11 maggio del 2011. Erano altri tempi per l’Akp. La cancellazione dall’ordinamento turco della Convenzione del Consiglio d’Europa era da più di un anno al centro delle richieste dei circoli islamisti e dell’estrema destra che costituiscono lo zoccolo duro della base militante ed elettorale dell’Akp e del suo prezioso alleato, Devlet Bahçeli, presidente del Partito del movimento nazionalista (Mhp), formazione politica dei Lupi Grigi, con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Ma, come si sa, il movimento femminista e quello Lgbtiq in Turchia sono molto agguerriti e subito si è levata la loro protesta in diverse città del paese. Per giorni nei quartieri centrali della megalopoli turca, alle ore 21, si è udito il fragore della “tencere ve tava çalmak”, la battitura di pentole e padelle, fatte risuonare dalle donne affacciate alle finestre e ai balconi. Le femministe della piattaforma “We Will Stop Femicide” assieme a gruppi Lgbtiq, manifestano ogni giorno e nel fine settimana si danno appuntamento al molo di Kadıköy, uno dei quartieri più iconici della sinistra turca. «Non puoi cancellare la nostra lotta di decenni. Non rinunceremo mai ai nostri diritti, li abbiamo conquistati lottando con i denti e con le unghie», gridano al ritmo della musica pop. In un momento in cui alcuni circoli islamisti in Turchia stanno discutendo di riportare le leggi anti-adulterio (che presumibilmente includerebbero la condanna e la repressione del sesso prematrimoniale), le donne con le loro canzoni, anche sulla passione erotica, esprimono un’aperta ribellione e costituiscono il motore della lotta contro l’oppressione. Il richiamo all’uguaglianza di genere e la promozione dei diritti Lgbtiq presenti nella Convenzione di Istanbul erano da sempre indigesti per i conservatori turchi. Ma i numeri della violenza sulle donne e della violenza di genere sono agghiaccianti: dall’inizio dell’anno sono già 71 le donne uccise e nel 2020 sono state 284. Negli ultimi 18 anni, da quando l’Akp è al potere, sono state 6.732. Ma perché il presidente turco ha deciso di rinnegare un trattato internazionale che nel 2011 era un fiore all’occhiello della sua politica riformatrice di avvicinamento all’ordinamento dell’Unione europea? Il direttorato delle Comunicazioni presso la presidenza della Repubblica turca in un suo comunicato, di lunedì 22 marzo, esprime molto bene le motivazioni che sono alla base di questa decisione: «la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul perché il trattato internazionale considera l’omosessualità una condizione umana del tutto normale e ciò è incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia». In sintesi, il governo turco ritiene che la Convenzione incoraggi gli orientamenti non eterosessuali e che dunque minacci l’istituzione fondamentale della famiglia. Anche l’associazione Kadem, co-fondata dalla figlia del Presidente (Sumeyye Erdogan Bayraktar), ha ora cambiato idea sostenendo che «a tutelare le donne ci sono già le leggi nazionali, a partire dalla Costituzione». La visione della nuova Turchia di cui parla tanto il Capo dello Stato consiste nel recupero dei valori locali e nazionali che rappresenterebbero le radici dell’identità turco-islamica che la rivoluzione kemalista aveva represso, cancellato, introducendo appunto valori estranei. E dunque quelli di genere non sono considerati valori della tradizione turca, ma sono importati e dunque dovrebbero essere soppiantati da quelli locali e nazionali (Yerli ve Milli). Per questo sta smantellando stato di diritto e diritti umani. Il leader turco vede, mese dopo mese, i suoi consensi diminuire e sembra convinto che possa risalire nei sondaggi toccando le corde della identità nazionalista-islamista anche più radicale. Si rende conto che per avere la certezza di vincere le prossime elezioni dovrà eliminare dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d’opposizione, per questo è disposto anche a correre il rischio di passare alla storia come capo di un governo che chiude un partito come aveva fatto il potere kemalista e golpista nel corso della storia repubblicana contro i partiti islamisti e contro il suo stesso partito nel 2007. È dal 2018 che il partito del Presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento e dunque ha bisogno del suo prezioso alleato Devlet Bahçeli al quale ora ha offerto su un piatto d’argento la testa del Partito democratico dei popoli (Hdp), terza maggiore forza politica rappresentata nel Parlamento turco. Bahçeli sembra sempre più il “leader ombra” della Turchia, dopo aver “intrappolato” Erdogan in un angolo con accanto gruppi di potere politico-affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia. Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, ora è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia. Ecco perché si affida oltre che al Mhp anche al piccolo partito anti Nato, Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina, tutte correnti, che seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo in particolare nelle Forze armate e controllano gangli vitali delle istituzioni del paese. Siamo alla versione moderna del sogno antico dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi” quando tutte le minoranze, specialmente quelle escluse dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), si videro bandite e negate, costrette a celare la propria identità non turchizzata, la propria lingua nelle scuole, nei media e, più in generale, nelle istituzioni pubbliche. Se l’Hdp dovesse essere chiuso, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere messo al bando per il suo presunto coinvolgimento in attività “terroristiche”. Il potere di chiudere un partito politico spetta alla Corte costituzionale che dovrà decidere con la maggioranza dei due terzi. Assieme alla richiesta di dichiarare fuorilegge l’Hdp, è stata presentata anche quella del divieto di esercitare politica per suoi 687 membri. Si vuol dunque impedire che i dirigenti dell’Hdp ancora in libertà attivino un altro partito. L’Hdp infatti ha già pronta un’altra organizzazione, pienamente operante e che è il Partito democratico delle Regioni (Dbp). I curdi sono abituati ad essere messi fuorilegge, hanno sempre saputo che quando la loro presenza sarebbe diventata scomoda per il regime, quest’ultimo avrebbe chiuso il loro partito come è accaduto ben sette volte. Quando fondano una organizzazione politica, contemporaneamente ne aprono una di riserva perché la legge sui partiti in Turchia richiede che una forza politica per operare deve avere sedi aperte e registrate in almeno 41 province, cioè nella maggior parte del paese. E l’interdizione dalla vita politica di 687 dirigenti di questo partito servirà proprio a impedire che vi possano essere in libertà esponenti politici pronti a trasferirsi nella nuova formazione politica. Questa volta però la criminalizzazione e la repressione degli esponenti curdi non sta raccogliendo consensi al di fuori della ristretta cerchia dell’alleanza di governo. Se una grande maggioranza del partito anticurdo di Bahçeli sostiene la chiusura dell’Hdp, nell’Akp di Erdogan vi sono diffuse voci di dissenso e, al di fuori di questo schieramento, questa pratica mutuata dai regimi del passato è quasi unanimemente condannata. Contrari sono, oltre al maggior partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp) di Kemal Kılıçdaroglu; Meral Aksener, sua alleata con l’Iyi Parti (Il Buon Partito di destra nazionalista), il leader del Partito del Futuro (Gelecek Partisi), dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu, il leader del Partito della democrazia e del progresso (Deva), dell’ex vice primo ministro, Ali Babacan, e il leader del piccolo partito islamista, Saadet Partisi, di Temel Karamollaoglu. Contrario è anche l’ex capo di stato Abdullah Gül, fondatore assieme a Erdogan dell’Akp, ma ora fuoriuscito anch’egli dal partito e ispiratore del Deva. Contrari sono anche i sindaci delle due maggiori città turche, il sindaco di Ankara, Mansur Yavas, e il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, entrambi del maggior partito d’opposizione Chp. Sia Yavas che Imamoglu hanno accresciuto fortemente la loro popolarità scavalcando addirittura nei sondaggi, seppur di pochissimo, il leader turco. E dunque l’obiettivo del Presidente è quello di limitare fortemente il loro potere a livello locale privando le casse delle municipalità amministrate dal Chp dei fondi statali necessari per i servizi di pubblica utilità in maniera tale da provocare disagio e contrarietà nella popolazione. Recentemente il governo ha sottratto alla gestione della municipalità di Istanbul centinaia di aree pubbliche, compreso il parco Gezi di piazza Taksim, affidandole a una fondazione di facciata che fa capo allo stato. Se dovesse essere chiuso l’Hdp, si potrebbe creare uno scenario simile a quello a cui abbiamo assistito nelle elezioni locali del 31 marzo 2019 quando il partito di Erdogan subì una sconfitta bruciante in tutti i grandi centri urbani del paese grazie anche ad una intelligente ed efficace alleanza elettorale: quella tra il Chp e l’Iyi Parti che vedeva l’Hdp praticare la “desistenza” con la rinuncia a presentare propri candidati nei grandi centri urbani, dirottando tutti i suoi elettori sul Partito repubblicano del popolo. Questa desistenza potrebbe essere una carta vincente se praticata anche nel sudest anatolico. Per questo il presidente turco potrebbe decidere di convocare elezioni anticipate, per evitare che l’opposizione prenda le sue contromisure e si rafforzi ulteriormente. E intanto il governo cambia i confini di quattro province dell’Anatolia, quelle di Diyarbakir, Ordu, Giresun e Mus, per modificare i collegi elettorali e riequilibrare l’elettorato a favore dell’Akp e del suo alleato Mhp. La pratica che gli americani definiscono di Gerrymandering: manipolazione dei distretti elettorali.

Il pugno di ferro di Erdogan contro diritti e opposizioni per recuperare consensi. Mariano Giustino su L'Espresso il 26 marzo 2021. Dopo aver deciso l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, il presidente turco cerca di eliminare dalla scena il partito filocurdo Hdp: interdetti 687 membri, rischia la messa al bando. Il deputato Gergerlioğlu arrestato dentro il Parlamento e portato via in pigiama

La catena della repressione in Turchia sembra non avere limite. Dopo la richiesta della messa al bando del terzo maggior partito del paese, il Partito democratico dei popoli (HDP), di sinistra libertaria e filocurda, vi è stata l’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Poi il governo turco ha annunciato l’uscita, per decreto presidenziale, dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dalla Turchia il 14 marzo del 2012 dopo averla sottoscritta l’11 maggio del 2011. La Corte costituzionale esaminerà il caso della richiesta di chiusura dell’HDP il 31 marzo e nello stesso giorno verrà esaminata la domanda di Ömer Faruk Gergerlioğlu, parlamentare di questo partito a cui è stato tolto il seggio e che ora rischia di finire in prigione. Erdoğan sembra convinto, col suo alleato Devlet Bahçeli, che potrà arrestare la sua emorragia di consensi coltivando l’elettorato di estrema destra nazionalista e quello dell’islamismo più radicale ed eliminando dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d'opposizione, l’HDP. Il presidente turco, come è noto, dal 2018 non ha la maggioranza assoluta in Parlamento: dunque ha bisogno del suo prezioso alleato di estrema destra e gli ha offerto su un piatto d'argento la testa dell'HDP. Era stato infatti il leader del Partito del movimento nazionalista (MHP), Devlet Bahçeli in persona, a inoltrare presso la Corte suprema la richiesta di messa in stato d’accusa dell’HDP; ora la Corte costituzionale dovrà decidere, a maggioranza dei due terzi, se scioglierlo o meno. Se lo facesse, l’HDP sarebbe l'ottavo partito filocurdo ad essere chiuso. Secondo l’atto d'accusa si chiede lo scioglimento dell'HDP a norma dell'articolo 68 della Costituzione, perché ritenuto antidemocratico in quanto accusato di rappresentare il braccio politico del partito fuorilegge dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ritenuto un’organizzazione terroristica oltre che dalla Turchia anche dagli Stati Uniti e dell’Unione europea. Bahçeli sembra il "leader ombra" della Turchia, dopo aver "intrappolato" Erdoğan in un angolo con accanto gruppi di potere politico-affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia. Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, il Presidente è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia. Ecco perché si affida, oltre che al MHP, anche al piccolo partito anti NATO, Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina. Tutte correnti, che seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca, dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo, in particolare nelle Forze armate, e controllano gangli vitali delle istituzioni del Paese. I primi giorni di primavera in Turchia sono stati segnati da scene che ricordano i terribili anni '90 quando la repressione contro i curdi assunse proporzioni impressionanti. L’arresto avvenuto in Parlamento del deputato dell’HDP, Ömer Faruk Gergerlioğlu, ha ricordato la detenzione di parlamentari curdi eletti tra le file dell’allora Partito socialdemocratico (SHP) colpevoli di aver giurato in Parlamento in lingua curda il 6 novembre 1991. Tra questi vi furono Orhan Doğan, Leyla Zana, premio Sakharov nel 1995, che persero lo status di parlamentari e il 2 marzo del 1994 furono arrestati. Dopo 27 anni un altro parlamentare eletto nel partito di sinistra filocurda viene arrestato in Parlamento e ciò rivela come l'approccio della Turchia alla questione curda sia rimasta dopo tanti anni immutato. Gergerlioğlu, fervente musulmano, tenace attivista dei diritti umani, si è visto privato del suo seggio parlamentare il 17 marzo, per aver condiviso nel 2016 sui social media un articolo sul PKK. Sebbene il suo post non includesse alcun incitamento alla violenza, a febbraio la corte d'appello ha confermato la condanna del 2018 a due anni e sei mesi di prigione con l’accusa di «aver svolto propaganda per un'organizzazione terroristica». Con una mossa senza precedenti, Gergerlioğlu ha deciso di adottare una forma di lotta nonviolenta e si è rifiutato di abbandonare gli uffici del Parlamento occupando la stanza del gruppo parlamentare del suo partito. «Nessuno può cacciarmi via dal Parlamento perché sono stato mandato qui da novantamila elettori», ha dichiarato alla stampa Gergerlioğlu. Ha trascorso quattro notti nel suo ufficio parlamentare, ma all'alba del 21 marzo, un folto gruppo di agenti di polizia ha fatto irruzione nella sua stanza e lo ha arrestato. Gergerlioğlu era in pigiama e da osservante musulmano si preparava alla preghiera del mattino. Non indossava scarpe né abiti e non gli è stato permesso di vestirsi. "Fatemi prima pregare, poi mi vesto e vengo con voi", aveva implorato, ma le sue richieste sono state respinte. È stato portato nel quartier generale della polizia in pantofole e canottiera. Dopo qualche ora è stato liberato ed è in libertà condizionale. Il 2 marzo 1994, Orhan Doğan fu arrestato assieme ad altri deputati curdi in modo analogo: la polizia entrò in Parlamento, circondò il gruppo di parlamentari, li trascinò fuori e li caricò con forza nella volante. La foto di quell’arresto con la polizia nell’aula parlamentare diventò in seguito un simbolo dell'approccio della Turchia alla questione curda. E ora, 27 anni dopo, anche questa foto di Ömer Faruk Gergerlioğlu, in pantofole e in canottiera, mostra che dopo più di un quarto di secolo, l’approccio turco alla questione curda non è per nulla cambiato. Gergerlioğlu è uno dei più prestigiosi attivisti per i diritti umani del paese, vittima della persecuzione post tentato golpe del 2016, quando fu raggiunto dai famigerati decreti KHK varati durante lo stato di emergenza, la sua carriera di prestigioso medico pneumologo fu distrutta. Licenziato dall’ospedale e ridotto in condizione di indigenza, fu accusato di sovversione contro i poteri dello stato per un suo tweet in cui proponeva la ripresa del dialogo col PKK. Ha impegnato tutta la sua vita al servizio dei diritti dell’uomo. Sua moglie si è ammalata gravemente e l’HDP nel 2018 lo ha candidato alle elezioni parlamentari, dove è risultato eletto. La sua attività filantropica si era concentrata sui diritti dei detenuti, fino a rappresentarne la voce, la voce dei senza voce, dei prigionieri, dei dimenticati nelle carceri turche. È stato anche perseguitato per aver denunciato, sempre su Twitter, episodi di tortura avvenuti prevalentemente contro alcune detenute nelle carceri e nei commissariati di polizia. Per questo pende su di lui anche l’accusa di aver fomentato l’odio e di aver diffamato le istituzioni dello stato. L’arresto di Gergerlioğlu era scattato dopo le dichiarazioni del leader del MHP Bahçeli che lo aveva additato come «un separatista impegnato in attività illegali, uno spregevole individuo da rimuovere dal Parlamento con urgenza». Oggi, centinaia di membri dell'HDP sono dietro le sbarre con accuse legate al terrorismo, una pratica, questa, preferita dal governo per mettere a tacere i curdi.

Gli ammiragli difendono un trattato del 1936 ed Erdogan li fa arrestare. La Repubblica il 5 aprile 2021. Dieci ex alti ufficiali in pensione sono stati detenuti per aver firmato una dichiarazione di appoggio alla Convenzione di Montreux che vedevano messa in discussione dal raddoppio del Bosforo voluto dal presidente. Per le autorità la critica richiama i golpe militari. Domani Michel e Von der Leyen ad Ankara. In Turchia dieci ammiragli in pensione sono stati arrestati per aver firmato una lettera in cui dichiaravano il proprio appoggio a un accordo marittimo ratificato 85 anni fa: l'accusa contro di loro è cospirazione contro l'ordine costituzionale, ha riferito l'agenzia di stampa Anadolou. La dichiarazione in favore della Convenzione di Montreux - firmata da un centinaia di ex ufficiali di alto grado - è stata considerata una sfida al potere civile e una evocazione dei passati interventi del potere militare nella gestione dello Stato, un riferimento ai tre colpi di Stato militari avvenuti tra il 1960 e il 1980. Gli ufficiali avevano espresso le proprie preoccupazioni a proposito della Convenzione di Monteux, da cui il presidente Recep Tayyip Erdogan potrebbe decidere di ritirarsi. Il governo intende costruire un grande canale parallelo al Bosforo per mettere in comunicazoone il Mare Nero e il mar di Marmara. 

IL CASO. Una fonte ufficiale turca ha sottolineato che la Convenzione di Montreux non potrebbe coprire il canale. La Convenzione firmata nel 1936 dà alla Turchia il controllo sul Bosforo e sui Dardanelli e in tempo di pace garantisce l'accesso alla navigazione civile. Limita inoltre l'accesso ai battelli militari e regolamenta il traffico commerciale straniero. Gli ufficiali facevano notare che andrebbero evitate dichiarazioni o azioni che possano mettere in discussione la convenzione di Montreux "un trattato importante per la sopravvivenza della Turchia". Lo scontro con gli ammiragli è solo l'ultimo capitolo della profonda frattura tra il potere secolare dell'esercito e il partito religioso al potere. Un portavoce dela presidena ha dichiarato "Un gruppo di soldati in pensione si sta mettendo in una posizione ridicola e meiservole riecheggiando i passati colpi di Stato militari". Questo aprile si preannuncia come il mese della resa dei conti tra il governo turco e i golpisti accusati di aver tentato di rovesciare il governo il 15 luglio 2016.  Sono ben 33 i processi in programma, il cui svolgimento è previsto in 9 diverse province del Paese, con ben 816 imputati alla sbarra, tutti accusati di far parte della rete di Fetullah Gulen, ideologo islamico residente negli Usa, ritenuto da Ankara la mente del tentato golpe. Nel fitto calendario delle udienze in programma spicca il prossimo mercoledì la lettura della sentenza per i 497 imputati nel processo alla "guardia presidenziale, così denominato perché molti degli accusati avevano l'incarico di garantire l'incolumità del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan e del suo entourage. Il "maxi-processo" e' relativo agli scontri avvenuti la notte del 15 luglio 2016 tra diverse fazioni dell'esercito, quando i golpisti e lealisti arrivarono ad aprire il fuoco gli uni contro gli altri, mentre diverse decine di civili scesi per protestare nelle strade della capitale Ankara furono falciati dai colpi delle armi automatiche. La sentenza sarà letta nelle aule allestite fuori dal carcere di Sincan, ad Ankara, in cui sono detenuti gran parte degli imputati. Domani ad Ankara saranno i leader del Consiglio europeo Charles Michel e della Commissione, Ursula von der Leyen. Incontreranno il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, con l'intento di dare nuovo impulso alle relazioni e presentare la roadmap europea stabilita al summit  dei capi di stato e di governo del 25 marzo. In particolare, si parlerà di una nuova tranche di finanziamenti Ue affinché il paese anatolico continui ad accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani, ma anche di possibili avanzamenti nella politica dei visti, e di un approfondimento dell'unione doganale. Prima dell'incontro con Erdogan, Michel parteciperà ad una tavola rotonda con i rappresentanti dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Unicef e l'ente dell'Onu per la parità di genere (la Turchia si è ritirata di recente dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne).

La notte della Marina turca: retata per gli ex ammiragli. Lorenzo Vita su Inside Over il 6 aprile 2021. Una notte che cambia, ancora una volta, il destino della Turchia e della sua Marina. Le autorità di Ankara hanno arrestato 10 ex ammiragli ritenuti colpevoli di aver scritto una dichiarazione che ha accusato il governo turco sull’idea del ritiro del Paese dalla Convenzione di Montreux. Tra i detenuti c’è anche Cem Gurdeniz, l’ideatore di Mavi Vatan, la dottrina strategica della Patria Blu. La dichiarazione, firmata da 104 ex alti ufficiali della Marina turca ormai in pensione, era una forte presa di posizione in difesa dell’accordo siglato nel 1936 e che regola il transito attraverso Bosforo e Dardanelli. Una convenzione messa in dubbio da uomini vicini all’Akp, il partito di Recep Tayyip Erdogan, perché, con il progetto di costruire un canale che bypassi il Bosforo, questo accordo – dicono – perderebbe di senso. Ipotesi letta con terrore da parte degli ex alti ufficiali di Marina, che invece ritengono essenziale il mantenimento di Montreux proprio per evitare che il controllo del Bosforo e dei Dardanelli passi dalla Turchia a potenze straniere. E che considerano ancora oggi quel trattato come uno dei capolavori della strategia di Atatürk, ritenuto da questi segmenti della Marina un modello da seguire. La dichiarazione degli ex ammiragli è stata letta dai funzionari di Erdoğan come una minaccia di colpo di Stato. Un incubo per un presidente con una leadership sempre più debole e che ha vissuto sulla sua pelle il fallito golpe del 2016. Ma è un timore che affiora ciclicamente in tutta la Turchia anche per la sua storia più recente: i militari hanno sempre avuto un ruolo molto attivo in politica a tal punto da aver organizzato colpi di Stato nel momento in cui ritenevano in pericolo la Costituzione repubblicana. Erdogan non ha mostrato alcun dubbio. Il Sultano ha accusato gli ex ammiragli dicendo che quella dichiarazione non era da considerare frutto della libertà di espressione ma un messaggio che racchiudeva l’ipotesi di un golpe. “Questo atto, avvenuto a mezzanotte, è sicuramente in malafede”, ha detto Erdogan, sia “nel tono” che “nel metodo”. “Non è in nessuna circostanza accettabile per ammiragli in pensione fare un tale attentato nel cuore della notte in un Paese la cui storia è piena di colpi di stato e memorandum”, ha aggiunto Erdogan una volta terminato il vertice con il capo dell’intelligence, il capo di stato maggiore e i principali membri del gabinetto. E per adesso non sembrano esserci annunci di alcuna marcia indietro. La raffica di arresti è particolarmente interessante per tutta la Turchia. Non è un mistero che Ankara da tempo viva una situazione fatta di arresti e di accuse di cospirazioni e tentativi di golpe. E tutto questo si è ampiamente accentuato dopo il fallito golpe del 2016, vero momento di svolta della politica di Erdogan sia a livello interno che a livello esterno. Ma fa riflettere che a finire questa volta sotto la scure della procura turca sia quel mondo kemalista e nazionalista che in realtà sembrava aver ottenuto il sostegno dallo stesso presidente dopo il fallito golpe. Lo dimostra l’importanza che Mavi Vatan ha assunto in questi anni nel dibattito pubblico turco, ma lo conferma anche il fatto che i suoi principali ideologi sono diventati personaggi noti al grande pubblico proprio dopo il 2016, anno in cui Erdogan non solo ha ricominciato a interessarsi al mare, ma anche a ricucire i rapporti con l’universo dei militari kemalisti. Per il mondo di Gurdeniz e degli alti ufficiali di Marina turchi, il momento in cui la Patria Blu è diventata parte della strategia nazionale ha rappresentato il vero punto di svolta di una rapporto difficile con l’Akp iniziato già anni prima, quando la Marina era stata completamente decapitata da un’altra pesantissima raffica di arresti che aveva coinvolto anche in quel caso il contrammiraglio Gurdeniz. Era il 2011, l’esplosione dei processi “Ergenekon” e “Sledgehammer” portò alla condanna del contrammiraglio e di altri ufficiali di Marina. Un’altra lunga notte che la moglie dell’ammiraglio ricorda benissimo e che, intervistata a Cumhuriyet, ha messo in parallelo con quanto accaduto in queste ore: “Dieci anni fa, abbiamo avuto un processo di tre anni e mezzo. Adesso è un déjà vu in tutte le sue forme. Sento che stanno accadendo le stesse cose e sono preoccupata sia per me che per il mio paese. Questi uomini hanno espresso un’opinione, e in nessun altro paese al mondo sarebbe avvenuta un’indagine per questo motivo”. In quell’occasione, Gurdeniz accusò indirettamente gli Stati Uniti di essere il vero mandante degli arresti, e in molti articoli si cita proprio il pericolo nato dalla rete del predicatore Fetullah Gulen. La sua teoria è che gli apparati turchi più atlantisti avrebbero provveduto a decapitare la Marina prima che potesse aumentare la propria forza e soprattutto provare a spostare il baricentro turco verso una progressiva autonomia strategica. Gli stessi indiziati – nella prospettiva di Erdogan – del fallito colpo di mano del 2016. Una ferita che si è chiusa solo momentaneamente dopo il golpe ma che ha iniziato a riaprirsi in questi ultimi mesi in cui la Patria Blu, Mavi Vatan, sembrava in grado di essere la dottrina portante della strategia turca. Ricordiamo infatti che l’altro alto ufficiale che si era prodigato per Mavi Vatan, l’ammiraglio Yachi, aveva subito un decreto presidenziale con cui si ordinava la sua degradazione. Onta che Yachi ha preferito evitare dimettendosi e tornando a insegnare all’università, ma che ha comunque fatto comprendere allo stesso Gurdeniz di dover stare particolarmente attento ai movimenti del governo. Ora, con la nuova ondata di arresti, l’impressione è che Erdogan abbia effettuato due azioni in contemporanea. Da un lato ha fermato quella componente della Marina che ha spinto per una nuova dottrina molto pervasiva della strategia del Paese e che si rifà apertamente ad Atatürk. Una scelta diametralmente opposta all’islamismo erdoganiano dell’Akp e alle direttive di Devlet Bahçeli, regista oscuro della politica del Sultano e artefice della svolta estremista degli ultimi tempi confermata dall’uscita dalla Convenzione per i diritti delle donne. E questo probabilmente ha inciso (e non poco) sulla rapidità con cui i funzionari turchi hanno proceduto all’arresto della scorsa notte. Erdogan ha sfruttato la Patria Blu per espandere la proiezione di forza turca nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, gli serviva dopo l’ondata di arresti per il presunto golpe, e soprattutto aveva bisogno di quella lettura geostrategica indipendente da Washington. Dall’altra parte, il presidente turco ha fatto intendere a tutti i partiti e movimenti extra-governativi che non saranno tollerate “fughe in avanti”, mettendo bene in chiaro che la giustizia è di nuova pronta a intervenire. E a tal proposito, non va dimenticato che questo mese ci sarà una vera e propria resa dei conti tra Erdogan e gli accusati del golpe del 2016, con 33 processi in programma e 816 imputati. Già mercoledì sarà data lettura della sentenza per 497 imputati per quello che viene chiamato il processo alla “guardia presidenziale”. E con gli arresti in Marina il giro di vite sembra essere sempre più netto. Questi arresti sono anche un segnale di una nuova politica strategica turca? La domanda ora affiora con le analogie per i processi del 2011. Arrestando Gurdeniz, l’impressione è che la sua Mavi Vatan possa essere trasformata nuovamente in una dottrina che serpeggia nelle patrie galere e non più, come avveniva fino a pochi giorni fa, nei talk show televisivi e sui manifesti in giro per le strade. Patria Blu si presentava come la dottrina strategica di ascesa della potenza navale turca, ma anche come un segnale di riscossa dei kemalisti. In assenza del suo ideologo e con l’arresto di così tanti ex ammiragli, potrebbe anche essere l’inizio di un’ulteriore nuova era di rapporti tra Ankara e il Mediterraneo. La questione del Bosforo diventerà pertanto centrale per capire da che parte vorrà dirigersi la Turchia anche sul fronte marittimo. Russia e Stati Uniti osservano con molto interesse. Montreux interessa a entrambi e a nessuno sfugge che il Bosforo e il prossimo Canale di Istanbul rappresentano prima di tutto le porte di Mosca per il Mediterraneo. Una Turchia che mette in dubbio l’accordo sul transito in quello stretto è un problema che il Cremlino non potrà certo sottovalutare: specialmente se andrà avanti il piano del nuovo canale.

Per Erdogan un matrimonio funziona se picchi la moglie: Turchia, altro colpo alla laicità. Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. Erdogan assesta un nuovo colpetto allo Stato laico trascinando la Turchia fuori della Convenzione europea contro la violenza sulle donne. E dire che il documento in questione era stato sottoscritto dai Paesi appartenenti al Consiglio d'Europa proprio a Istanbul nel 2011. La mossa del Sultano è, come detto, l'ennesima di una lunga serie; soltanto il giorno prima la magistratura turca aveva iniziato a vagliare la richiesta governativa di bandire il partito curdo (moderato) Hdp. L'uscita dalla Convenzione di Istanbul è un favore agli amici di lunga data del presidente e leader islamista, cioè i religiosi sunniti, che Recep Tayyip sta cercando con successo di tenere alleati alla destra nazionalista.  Insomma: un colpo al curdo e uno alla laicità. Dei 47 Paesi del Consiglio d'Europa (organismo non Ue che vigila sul rispetto dei diritti dell'uomo) 34 avevano firmato e ratificato il documento. Ora restano 33 con la Turchia che raggiunge la Russia fra quelli totalmente contrari. Gli altri (tra cui Armenia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Moldavia, Slovacchia, Cechia, Regno Unito, Ucraina) hanno firmato ma poi i rispettivi parlamenti non hanno ratificato. Gli ambienti religiosi turchi non hanno mai digerito in particolare l'articolo 37 e il 42, il primo contro il matrimonio forzato, il secondo sul delitto d'onore, entrambi diffusi nelle aree arrretrate dell'Anatolia. Ma tutti i numeri sulla violenza contro le donne in Turchia sono drammatici. Secondo i dati della piattaforma contro i femminicidi (Kadin Cinayetlerini durduracagiz platformu), nel 2021 sono già state uccise 74 donne per mano di uomini, dopo che nel 2020 erano stati contati almeno 300 casi e 171 fra morti e suicidi sospetti. Nel 2019 e nel 2018 in Turchia erano stati contati rispettivamente 474 e 440 femminicidi. Tra i casi ritenuti sospetti non ci sono solo le morti avvenute in circostanze ancora da chiarire ma anche i suicidi, a cui molte donne si trovano costrette dal clima familiare di ripudio e odio che può scattare per una relazione che la famiglia non approva, o per aver rifiutato matrimoni combinati. La magistratura, ancora in parte laica, ha cercato di porre un freno, con 5.748 condanne a pene detentive inflitte lo scorso anno. Un numero minimo, se si considera che, in base ai dati forniti dal ministero degli Interni, nel 2020 ben 271.927 uomini sono stati soggetti a restrizioni imposte da autorità giudiziaria, 6.050 uomini sono stati condannati per violenza domestica, 99 donne sono state costrette a cambiare identità e residenza e 409 hanno dovuto abbandonare il luogo di lavoro. Migliaia di donne sono scese in piazza ieri a Istanbul per protestare contro la decisione del governo. Con loro anche attivisti gay e lesbiche. Il motivo della presenza di questi ultimi è che la Convenzione non si occupa delle donne in senso biologico ma in base alla "teoria del genere". Nell'art.3 (Definizioni), al comma c, si specifica che l'identità sessuale è «socialmente costruita». La formulazione è tuttora contestata anche da altri Paesi, in particolare dalla Polonia. Discussi sono anche gli articoli 60 e 61 che impegnano i firmatari a concedere permessi di soggiorno alle donne migranti vittime di abusi.

·        Quei razzisti come i marocchini.

Era reclusa da giugno in carcere. Ikram Nzihi libera, svolta per la studentessa italo-marocchina condannata per una vignetta sull’Islam. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Agosto 2021. La giovane studentessa italo-marocchina Ikram Nzihi “a breve sarà liberata”. A darne l’annuncio oggi è stato il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola a Marrakech, a margine dell’udienza in appello a carico della studentessa 23enne.  Ikram Nzihi, nata in Italia da genitori marocchini e studentessa di giurisprudenza a Marsiglia, era stata condannata a tre anni per offese contro la religione per aver condiviso una vignetta satirica su Facebook sull’Islam nel 2019 e dallo scorso giugno era reclusa in carcere. “Nel processo d’appello sono state ascoltate le ragioni della difesa e, grazie all’ottima collaborazione istituzionale con le autorità locali, Ikram uscirà di prigione. La nostra connazionale sta bene, a lei e alla sua famiglia vanno i miei migliori auguri”, ha sottolineato Amendola. “In queste settimane – ha aggiunto il sottosegretario – abbiamo lavorato insieme al nostro ambasciatore a Rabat Armando Barucco, al Consolato e di concerto con il ministro Di Maio e la Farnesina. Ad agosto ho seguito il caso personalmente, parlando con le parti interessate e andando a trovare Ikram Nzihi nel luogo di detenzione. Continuano i solidi rapporti tra Italia e Marocco, frutto di un partenariato strategico”. Soddisfazione per il risultato è stata espressa anche dalla Farnesina. Voglio ringraziare l’Ambasciatore italiano in Marocco Armando Barucco e il sottosegretario Enzo Amendola per l’impegno che hanno dedicato alla causa. Assieme abbiamo seguito la vicenda dal primo momento, avendo a cuore unicamente il benessere della nostra connazionale, nel pieno rispetto del lavoro delle istituzioni e della giustizia marocchine”, ha affermato il ministro Di Maio. Ikram era stata fermata lo scorso 20 giugno all’aeroporto di Marrakech dalla polizia di frontiera: era giunta nel Paese dalla Francia per raggiungere la famiglia in vista dell’Eid al Fitr (Festa del sacrificio) del 21 luglio. Una volta mostrati i documenti alla dogana, è stata accusata di aver “offeso pubblicamente l’Islam” per un post satirico su Facebook pubblicato nel 2019.

·        Quei razzisti come gli egiziani.

Egitto, condannato a cinque anni l’attivista Alaa Abdel Fattah. Marta Serafini Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2021. Quattro anni al suo avvocato e al blogger Mohamed «Oxygen». Tutti e tre accusati di diffusione di notizie false. Non si fermano le condanne in Egitto agli attivisti per i diritti umani. Il noto blogger Alaa Abdel Fattah, attivista per i diritti umani e protagonista della rivoluzione del 2011, è stato condannato a cinque anni. Condannati anche il suo avvocato Mohamed el-Baqer e il blogger Mohamed «Oxygen» Ibrahim entrambi a quattro anni. I tre imputati erano accusati di «diffusione di notizie false», stessa accusa per cui Patrick Zaki, dopo il rilascio, dovrà comunque presentarsi a processo il primo febbraio. Alaa Abdel Fattah e Mohamed el-Baqer sono accusati di aver criticato le autorità circa il trattamento dei detenuti e per alcuni decessi in custodia avvenuti in circostanze sospette; Mohamed «Oxygen» Ibrahim, invece, per aver denunciato sui social media il mancato rispetto dei diritti sociali ed economici da parte del governo. «I loro scritti non hanno in alcun modo incitato alla violenza e all’odio e i tre avrebbero dovuto essere tutelati dalla costituzione egiziana e dagli obblighi internazionali in materia di libertà d’espressione», sottolinea Amnesty International. «Sono tre condanne crudeli e senza appello, nei confronti di tre dissidenti e difensori dei diritti umani che mai avrebbero dovuto mettere piede in una prigione. C’è grande preoccupazione per l’impatto che queste condanne potranno avere sulle loro condizioni di salute psicofisica. Chiediamo al presidente al Sisi di usare le sue prerogative, in modo che queste condanne siano annullate», ha commentato Riccardo Noury portavoce di Amnesty International in Italia. Alaa Abdel Fattah era stato arrestato il 29 settembre 2019 così come Mohamed Baker, suo avvocato, proprio mentre andava a incontrare il suo cliente in un ufficio della procura. In occasione del loro trasferimento in carcere, nel mese di ottobre, Alaa Abdel Fattah era stato bendato, denudato, preso a calci e a pugni e, insieme a Mohamed Baker, sottoposto a insulti e minacce. La procura non ha disposto indagini. Mohamed «Oxygen» Ibrahm era stato arrestato il 21 settembre 2019. Il 19 novembre 2020 un tribunale del Cairo aveva arbitrariamente aggiunto Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker alla «lista dei terroristi» per cinque anni. Oltre all’impossibilità di ricorrere in appello a un tribunale di grado superiore, le procedure dei tribunali d’emergenza non riconoscono molti diritti, come quello ad avere un periodo di tempo adeguato a preparare la difesa, a comunicare coi propri avvocati difensori e a un’udienza pubblica. Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker non hanno colloqui privati coi loro legali dal mese di maggio. Alaa Abdel Fattah blogger, attivista e pensatore è uno dei protagonisti della rivoluzione egiziana del 2011, che ha trascorso sette degli ultimi otto anni in carcere insieme ad altri 60mila prigionieri politici egiziani. Il padre, Ahmed Seif al Islam, fu imprigionato due volte sotto il presidente Anwar al Sadat e altre due sotto Hosni Mubarak. Durante la prigionia fu torturato con scariche elettriche e gli furono rotte le braccia e le gambe. Nonostante questo, si laureò in legge nel carcere dove stava scontando una pena di cinque anni. Uscito di prigione, fondò l’Hicham Mubarak center e divenne uno dei più rispettati avvocati per i diritti umani in Egitto. La madre, Laila Soueif, è docente di fisica e attivista della prima ora.

Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. È iniziata - e terminata rapidamente dopo qualche minuto - stamattina a Mansura, in Egitto sul delta del Nilo, la terza udienza del processo a carico di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna sotto accusa per diffusione di false informazioni attraverso articoli giornalistici e detenuto in carcere esattamente da 22 mesi. Quando lo hanno portato velocemente in aula, non era ammanettato. Era vestito di bianco come altre volte. Ha detto «sto bene», ma era agitato. Due secondi al volo per parlare con la mamma e poi l’hanno portato via. Si è appreso che uno dei due diplomatici italiani presenti in tribunale ha potuto parlagli brevemente per rappresentargli la vicinanza delle istituzioni italiane e Patrick ha ringraziato per quello che l’Italia e l’Ambasciata stanno facendo per lui. Il diplomatico italiano si era intrattenuto anche con i genitori di Patrick poco prima. La legale di Patrick Zaki, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. L’udienza, dopo l’intervento del legale, è stata sospesa dopo appena 4 minuti. Al Tribunale non circolano ipotesi accreditabili circa la possibile durata dell’interruzione.

Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere da quasi due anni con l’accusa di diffusione di notizie false, è formalmente libero. Il giovane «non è stato assolto», ma verrà rilasciato dal carcere nelle prossime ore e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il 1 febbraio. L’ordine di scarcerazione — secondo fonti legali vicine a Zaki — è stato già firmato. Hoda Nasrallah, la legale di Zaki, ha confermato al Corriere che il rilascio dovrebbe avvenire a breve dal carcere di Tora al Cairo. Lobna Darwish di Eipr, la Ong con cui collaborava Zaki e che si occupa della sua difesa legale, ha confermato al Corriere che Zaki a breve verrà trasferito al Cairo. L’annuncio è stato accolto con un urlo di gioia nel tribunale di Mansoura, dove oggi si è svolta una nuova udienza del processo. Alla base del procedimento contro Zaki — che al momento dell’arresto aveva 28 anni, e ne ha compiuti 30 in una cella egiziana — c’erano tre articoli giornalistici sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto. L’Italia, nei mesi scorsi, aveva trattato e ricevuto assicurazioni per ottenere che la condanna corrispondesse al tempo che Zaki aveva già trascorso in carcere. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere», ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico». «Quando lo hanno arrestato nel febbraio 2020 abbiamo aspettato per ore all’aeroporto del Cairo sperando di vederlo arrivare, aveva appena passato i controlli, “tutto bene mamma”, mi ha detto per telefono. Poi lo hanno fermato», ha detto la madre di Zaki nei giorni scorsi al Corriere. «Diceva sempre così Patrick. “Tutto bene”». Il 20 novembre a Zaki è stato riconosciuto il premio Cutuli. «Mi piacerebbe scrivere presto per il Corriere della Sera», aveva fatto sapere il ricercatore attraverso la sorella Marise in occasione della premiazione. Il Corriere, come promesso, si augura presto di poter pubblicare il suo articolo.

Patrick Zaki sarà scarcerato, le mani gelate della sorella e poi l’urlo liberatorio del papà: «Grazie Italia». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2021. MANSOURA — Una giornata che sono cento. E che cambia temperatura come le mani di Marise, la sorella di Patrick. Fredde come il ghiaccio mentre il giudice si prende il suo tempo per deliberare. «Grazie, grazie, per quello che state facendo per lui». E Marise si tormenta la manica del maglione blu mentre gli occhi non smettono di correre in giro. Vedere il fratello durante la prima parte dell’udienza, anche solo per pochi minuti, ha portato un po’ di caldo nelle vene. Ma è durato poco, troppo poco, dopo 22 mesi di angoscia. «È riuscito a salutare la mamma era tanto che non si vedevano, almeno un mese», sussurra. E lui è ancora lì, dietro le sbarre. Poi tutti fuori dall’aula, in mezzo ai parenti degli altri detenuti. Una guardia con la pistola viene a controllare i documenti. Le voci iniziano a rimbalzare. «Ci sarà un rinvio». Si rientra. Marise e mamma Hala in prima fila si stringono l’una all’altra. Le mani sono calde ora, il sangue circola più veloce. Nell’altro banco Hoda Nasrallah, l’avvocata della Eipr, la ong con cui Patrick collaborava, sta ferma immobile con la schiena dritta, nei banchi dietro di lei, tutti gli attivisti e i compagni della Eipr. Poi i rappresentati diplomatici della delegazione di osservatori voluta dall’ambasciata italiana. Entrambi che non smettono di andare avanti e indietro. «L’ho visto bene, dai, meno nervoso delle altre volte». In ultima fila papà George. C’è tempo per due parole. «Io non dico niente. Solo pensarlo a casa mi pare impossibile, un sogno. Ma grazie, grazie davvero». Nella gabbia c’è un detenuto «comune», un uomo che ha firmato un assegno in bianco. «Il giudice ora ordinerà il suo rilascio», dice qualcuno. E di nuovo le mani di Marise sono di ghiaccio. Rientra il giudice, c’è via vai con il banco. Mr. Salim, l’avvocato dell’ambasciata italiana, che tutti conosce e tutto sa sussurra piano, «buon segno, buon segno». Il magistrato dà la notizia all’avvocata: Patrick sarà liberato . Ecco l’urlo di Hala e Marise. «Mabrouk, mabrouk» congratulazioni, come per una nascita. «Tamem, tamem», va tutto bene, va tutto bene, la frase che Patrick ripete sempre alla mamma. I funzionari del tribunale fanno allontanare tutti. In strada Hoda e Lobna Darwish, dirigente della Eipr che fin qui è rimasta ferma in mezzo alla tempesta, si abbracciano stretto. Lacrime, sorrisi, pacche sulle spalle. Da Bologna arriva il messaggio della professoressa Rita Monticelli, del master. «Lo aspetto, aspetto qui». Marise e Hala si precipitano a cercare del cibo. Patrick non mangia da domenica. «Ma dov’è Patrick ora? Dove lo portano?». Forse lo rilasciano già oggi, forse no. Forse prima lo riportano a Tora. Forse esce qui a Mansoura. Forse. C’è chi salta in auto e parte per il Cairo, chi resta. Poi cala il silenzio. E restano i clacson incessanti della città. Iniziano a rimbalzare le notizie. «Marise dov’è Patrick ora? L’hanno rilasciato?». «Non sappiamo niente di certo. Non l’abbiamo ancora visto». Il sole cala sulla casa dove Patrick è cresciuto e dove lo aspettano. Le mani tornano ad essere fredde. Lobna della Eipr paziente risponde a tutti. «Dovrebbero avergli fatto firmare dei documenti». Marise va al commissariato a verificare se hanno portato lì Patrick. «No, niente». Anche all’ambasciata italiana aspettano. I telefoni accesi fino a tardi. Papà George spera ancora sia per oggi. Ma alla stazione di polizia dove Patrick dovrebbe essere portato dalla prigione di Mansoura sono chiari. «Non è ancora qui. Forse è al dipartimento della Nsa, l’intelligence egiziana». Ed è di nuovo freddo. Sudore ghiacciato sul palmo delle mani. Patrick non è ancora fuori.

Patrick Zaki sarà scarcerato, ma non assolto. Albert Voncina su L'Espresso l'8 Dicembre 2021. Il ricercatore egiziano dell’università di Bologna potrà uscire dal carcere dopo 22 mesi di reclusione. La prossima udienza è prevista il primo febbraio. Rilasciato, ma non assolto. Il ricercatore dell’università di Bologna Patrick Zaki potrà finalmente uscire dal carcere, dove è rinchiuso dal 7 febbraio 2020, e potrà attendere la prossima udienza prevista il prossimo primo febbraio lontano dalle sbarre che lo hanno circondato per 22 mesi. Lo ha stabilito oggi la corte di Mansoura, dove Zaki è stato trasferito nei giorni scorsi dal carcere cairota di Tora, in cui aveva trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare. Lo studente egiziano sarà dunque libero, «anche se non è stato assolto» dalle accuse, come riferito da alcuni avvocati al termine dell’udienza. Ad attendere all’esterno dell’aula del tribunale la sentenza su Patrick - vestito di bianco, colore simbolo degli imputati - c’erano il padre George, la madre Hela, la sorella Marise, gli amici e alcuni attivisti. Oltre ai legali di Zaki in tribunale erano presenti anche due diplomatici italiani. Alla loro domanda su come stesse, lo studente ha risposto: «Bene, bene, grazie». Zaki potrebbe essere liberato già nelle prossime ore, anche se per il momento non c’è alcuna conferma ufficiale. A Patrick, secondo quanto si apprende, non è stato imposto l’obbligo di firma in vista della prossima udienza, fissata il primo febbraio. «Abbiamo appreso che la decisione è la rimessa in libertà ma non abbiamo altri dettagli al momento», ha spiegato la legale Hoda Nasrallah all'Ansa. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha espresso con una nota di Palazzo Chigi soddisfazione per la scarcerazione di Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano. Immediata anche la reazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere. Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico», ha scritto Di Maio su Twitter. «Un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare poi ad un provvedimento di assoluzione. L'idea che Patrick possa trascorrere dopo 22 mesi una notte in un luogo diverso dalla prigione ci emoziona e ci riempie di gioia. In oltre dieci piazze italiane questa sera scenderemo con uno stato d'animo diverso dal solito e più ottimista», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «La notizia che tanto aspettavamo. Patrick Zaki sarà scarcerato. Speriamo presto di poterlo riabbracciare qui a Bologna», ha invece esultato il sindaco di Bologna Matteo Lepore. Una sentenza, quella emessa durante la terza udienza a carico dello studente 30enne, tutt’altro che scontata. Contro Patrick ci sono diversi capi di accusa, per cui rischia fino a cinque anni di carcere. Il mandato di cattura contiene le accuse di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.

Lo studente 30enne detenuto da 22 mesi per “diffusione di notizie false”. Patrick Zaki scarcerato ma non assolto, la svolta all’udienza in Egitto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Patrick George Zaki sarà scarcerato ma non assolto. È quanto fa sapere l’Ansa da Mansoura, in Egitto, dove lo studente è detenuto e dove stamane al Palazzo di Giustizia si è tenuta la terza udienza sul caso. Il 30enne, ricercatore e studente all’Università di Bologna è in carcere da 22 mesi, dal febbraio 2020, con l’accusa di “diffusione di notizie false”. La notizia è stata confermata da alcuni avvocati all’esterno del Palazzo di Giustizia. Non è ancora stato chiarito ma la scarcerazione potrebbe avvenire già tra oggi e domani. L’ordine sarebbe stato comunque già firmato. La decisione è stata accolta con urla di giubilo all’interno del tribunale. Zaki dovrà ricomparire davanti alla Corte il prossimo 1 febbraio. “Sto bene, grazie Italia”, le parole del 30enne, in una cella nel Palazzo di Giustizia di Mansoura dove si è tenuta l’udienza, a un diplomatico italiano come riportato dall’Ansa. Presenti, come nelle precedenti udienze, due diplomatici italiani, su richiesta dell’Ambasciata italiana anche funzionari di altri Paesi (USA, Spagna, Canada), un avvocato della Delegazione dell’Unione Europea e un legale di fiducia della rappresentanza diplomatica italiana al Cairo. Tutti per monitorare il processo come prima avevano fatto per tutte le sessioni di rinnovo della custodia cautelare. Zaki non era ammanettato ed era vestito di bianco quando è arrivato in aula. Da poco è stato trasferito dalla prigione di Tora, nei pressi de Il Cairo, a quella di Mansoura, vicino casa sua. “In carcere ha freddo, nemmeno una coperta, ha ancora fortissimi dolori alla schiena. Non gli lasciano i libri per continuare a studiare”, ha detto a Il Corriere della Sera la madre Hala, intervistata nella casa dove lo studente è cresciuto. “Non gli fanno avere né acqua né cibo”, ha aggiunto il padre George. A soli quattro minuti dall’inizio l’udienza era stata sospesa: la legale del ragazzo, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. Articolo che era comparso sul sito Darj. Zaki è accusato di propaganda sovversiva per alcuni post sui social network e per alcuni articoli sulle persecuzione ai danni dei cristiani copti. È stato arrestato il 7 febbraio 2020, appena atterrato per una vacanza in Egitto. Da allora la sua custodia in carcere è stata puntualmente rinnovata. Il rinvio a giudizio è arrivato per “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” sulla base di un articolo scritto dallo stesso studente. Zaki era arrivato a Bologna dopo aver vinto una Borsa di Studio per un master Gemma dedicato agli studi di genere e delle donne. La nota della Presidenza del Consiglio: “Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano”. La giornalista di Rai3 e del quotidiano Domani ha fatto sapere di aver “appena parlato al padre di Patrick. Dovrebbe uscire alle 18. È molto contento e ringrazia tutti”. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Zaki ritrova la libertà: "Grazie Italia". Chiara Clausi su Il Giornale l'8 dicembre 2021. Un abbraccio e un pianto liberatorio. È stato quello tra la sorella di Patrick Zaki, Marise, e la madre, Hala, dopo una notizia attesa da quasi due anni. Patrick, il ricercatore egiziano di 30 anni, che frequentava un master in Studi di Genere all'Università di Bologna in carcere da 669 giorni, è stato liberato. Non è ancora stato assolto però, e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il primo febbraio. Patrick, durante i 4 minuti in cui è stato in aula fuori dalla gabbia, era vestito di bianco, colore simbolo degli imputati, portava una mascherina nera calata sul mento, codino, occhiali rotondi. Come sempre. Fuori dall'aula del tribunale insieme alla madre e alla sorella, c'erano anche il padre e gli amici. Lo studente invece non era in aula al momento dell'annuncio. Ma poco prima dell'inizio dell'udienza aveva detto «grazie, grazie sto bene» alzando il pollice. Il padre di Patrick, George, dopo la decisione, ha abbracciato i due diplomatici italiani presenti all'udienza e ha detto: «Vi siamo molto grati per tutto quello che avete fatto». Zaki era stato da poco trasferito dal carcere cairota di Tora, dove ha trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare, dove dormiva per terra, a una prigione di Mansura, la sua città natale. Immediatamente dopo l'arresto, aveva raccontato il suo avvocato, Patrick era stato torturato. Picchiato, spogliato, bendato, sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sull'addome, insultato verbalmente. Per molti mesi gli era stata negata la possibilità di comunicare con l'esterno e di ricevere visite dalla famiglia, anche se ufficialmente era stato detto a causa dell'emergenza coronavirus. Ma non finisce qui. C'erano state gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le cure mediche. Patrick soffre di asma, oltre che di ansia e depressione. Il suo dolore alla schiena si era aggravato ed era molto dimagrito negli ultimi tempi. Ma la partita non è conclusa. In tribunale, la legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto l'acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l'arresto avvenuto il 7 febbraio 2020 all'aeroporto del Cairo che la correttezza dell'articolo sui copti alla base del processo. I capi d'accusa menzionati nel mandato di arresto sono minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di notizie false, propaganda per il terrorismo. Inoltre, Patrick avrebbe compiuto propaganda sovversiva attraverso alcuni post pubblicati su Facebook. Il rinvio a giudizio è avvenuto invece per «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese» sulla base di tre articoli scritti da Zaki. In particolare ne spicca uno, scritto nel 2019, sul giornale Daraj, sui cristiani copti in Egitto perseguitati dallo Stato Islamico, e discriminati da alcuni segmenti della società musulmana. Tema caro a Zaki perché anche lui appartiene alla comunità copta egiziana. Subito dopo la sentenza è arrivato il commento di Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia: «È un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare a un provvedimento di assoluzione», ha dichiarato. «Non me l'aspettavo. Non siamo abituati a ricevere buone notizie sul processo, ma oggi sono molto contento per lui, la sua famiglia e per tutti quelli che hanno portato avanti la campagna per la libertà di Patrick». ha raccontato Rafael Garrido Alvarez, amico prima di tutto ma anche ex compagno di studi di Patrick Zaki, quando frequentava il master in studi di genere all'Università Alma Mater di Bologna.

Free PatrickZaki è libero, ma l’Egitto continuerà il suo assurdo processo politico. Futura D’Aprile su L'Inkiesta.it il 7 dicembre 2021. Il giovane egiziano è stato scarcerato dopo 22 mesi di detenzione, ma la prossima udienza del primo febbraio 2022 potrebbe concludersi con una condanna definitiva. Rischia fino a 5 anni di carcere a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti. Dopo ventidue mesi di carcere, Patrick Zaki è tornato libero,  per ora. Il 7 dicembre il tribunale egiziano ha ordinato la scarcerazione del giovane studente iscritto all’Università di Bologna e detenuto in Egitto dal febbraio 2020 con l’accusa di “diffusione di notizie false dentro e fuori il paese”. Il caso Zaki però non può dirsi ancora concluso. Le accuse contro il giovane sono ancora in piedi e il primo febbraio 2022 si attende la nuova udienza. Lo studente rischia fino a 5 anni di carcere per diffusione di false informazioni a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di Abdel Fattah al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti, a cui lo stesso Zaki appartiene. Nonostante ciò, la notizia della scarcerazione è stata accolta con grande gioia all’interno dell’aula, dove erano presenti i parenti del giovane oltre alla delegazione dell’Unione europea, due diplomatici italiani e alcuni funzionari delle ambasciate di Stati Uniti, Spagna e Canada. I legali di Zaki temevano l’ennesimo prolungamento della detenzione preventiva, a cui il giovane è stato sottoposto negli ultimi ventidue mesi. Le udienze tenutesi fino a ieri si sono sempre concluse con un nulla di fatto e con un rinnovo della detenzione del giovane, trasferito tra l’altro dal carcere di Mansura, sua città natale, a quello di Tora al Cairo, noto per la durezza dei trattamenti riservati ai detenuti. Per più di cinque mesi gli è stato anche negato il diritto a ricevere visite familiari, ufficialmente a causa delle restrizioni imposte dal governo per contenere i contagi da coronavirus. 

La difesa

L’udienza in cui si è decisa la scarcerazione di Zaki è stata breve. La sospensione è arrivata dopo soli quattro minuti, dopo che il capo del team della difesa, Hoda Nasrallah, aveva chiesto di aver accesso a tutte le prove a carica del suo cliente, facendo specifico riferimento alle immagini delle telecamere di sicurezza dell’aeroporto del Cairo. Zaki è stato fermato il 7 febbraio durante il controllo passaporti e portato in un edificio della National security agency dove, secondo i suoi avvocati, sarebbe stato picchiato, torturato con scosse elettriche, abusato verbalmente e minacciato di stupro. 

Nelle carte delle indagini, però, è riportato che il giovane è stato arrestato l’8 febbraio a Mansura, mentre era nell’abitazione della sua famiglia. Tramite le registrazioni dell’aeroporto, la difesa vuole invece dimostrare che Zaki è stato prelevato appena atterrato in Egitto e che il suo arresto è stato formalizzato solo 24 ore dopo. Gli avvocati hanno anche richiesto l’accesso al verbale redatto dal funzionario della Sicurezza nazionale riportante l’arresto al Cairo e a quello in cui viene ufficialmente registrato il fermo a Mansura del giovane. La difesa ha anche chiesto di poter ascoltare la testimonianza del fratello di un soldato cristiano ucciso da terroristi islamici, per dimostrare che quanto riportato da Zaki nell’articolo uscito nel 2019 sul portale el-Daraj corrisponde al vero. 

La stampa egiziana 

La notizia dalla scarcerazione di Zaki ha riempito i media italiani, ma ha invece trovato poco spazio in Egitto. Alcuni giornali online indipendenti in lingua inglese e che sfuggono alle maglie della censura hanno dato la notizia della sentenza emessa ieri dal giudice, ma la questione è passata abbastanza sotto traccia nel paese nordafricano. Il tema d’altronde è piuttosto delicato. Zaki è ufficialmente accusato di diffusione di notizie false, ma le motivazioni hanno una forte connotazione politica e riguardano sia il trattamento riservato nel paese alla minoranza copta, quanto (più indirettamente) il lavoro svolto dal giovane a Bologna all’interno della comunità Lgbt. 

I rapporti con il Cairo

Eppure i rapporti tra Egitto e Italia in questi ventidue mesi non hanno subito alcuna modifica. I due paesi continuano ad avere normali rapporti diplomatici e commerciali, come dimostra anche la recente partecipazione delle maggiori aziende dalla Difesa all’Expo militare tenutosi al Cairo. D’altronde nemmeno l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni e i continui depistaggi operati dai servizi di intelligence e di sicurezza sono stati sufficienti perché il governo italiano facesse le dovute pressioni alla controparte egiziana. Per quanto riguarda quest’ultima vicenda, si attende adesso la data del 10 gennaio, quando si terrà una nuova udienza davanti dal Gup di Roma dopo la pubblicazione della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del giovane ricercatore. Una data vicina a quella della prossima udienza di Patrick Zaki, che potrebbe concludersi con una condanna definitiva e senza appello.

Da ansa.it l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio. Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.

"Un abbraccio che vale più di tante parole. 

Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere. 

"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse". 

Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".

Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2021. Nei giorni del naufragio della civiltà, appena denunciati con forza disperata da papa Francesco, una notizia finalmente diversa, controcorrente, di gioia invece che di ripetuto dolore. Un sommerso che invece si salva, torna libero, si riguadagna un pezzo inatteso di futuro. Preparati a lasciare la tua cella, Patrick Zaki, figlio sgradito d'Egitto, fratello di tanti studenti italiani che ti hanno adottato. Questione di ore, massimo di giorni, e l'incubo senza fine dove eri precipitato svanirà. O almeno dovrebbe, condizionale d'obbligo quando si ha a che fare con Paesi che non praticano la democrazia ma il suo contrario. Hai nelle ossa, nei polmoni, negli occhi l'enormità di 670 giorni di carcere infame, senza materasso per dormire, senza medicine per curarti l'asma, senza una colpa da cui difenderti né una ragione per sopportare il fatto che di colpo, un giorno, il 7 febbraio 2020, a neanche 29 anni, ti hanno tolto all'improvviso la libertà. Ma tu hai resistito a tutto. Ti sei aggrappato come un naufrago alla speranza che da qualche parte, specialmente in quell'Italia dove eri stato studente per un master a Bologna, non si erano dimenticati di te. E forse questo ha contato nell'esito clamoroso di queste ore. Forse la mobilitazione di movimenti, università, città, instancabile nonostante le frustrazioni dei ripetuti prolungamenti della tua detenzione preventiva (45 giorni più altri 45 più altri 45), qualcosa ha smosso nei meccanismi ineluttabili e perversi del potere. Forse la richiesta di cittadinanza italiana, avanzata all'unanimità dalla maggioranza del Parlamento che sostiene il nostro governo, ha aiutato una diplomazia impigrita da una ragion di Stato che, in nome degli affari e delle convenienze strategiche, è spesso capace di chiudere un occhio, e anche tutti e due. Forse hanno avuto un peso le parole di Liliana Segre, quando si è spinta fino in Senato a Roma per sostenerti: «Sono qui come nonna di Zaki, e come lui so che cosa vuole dire la porta chiusa di una cella e l'angoscia che possa succedere di peggio quando si apre». E forse, da ultimo, non è stata inutile anche la pressione di alcuni giornali, e il Corriere della Sera è tra questi quando ancora ieri raccontava il tormento dei tuoi genitori e di tua sorella, in attesa come tutto il mondo libero di quello che ti sarebbe successo all'indomani, udienza importante del tuo irreale calvario giudiziario. I fari tenuti accesi sul buio della tua prigione hanno magari impedito che quel buio diventasse impenetrabile. Vero che non è finita. Non è quasi mai finita quando c'è di mezzo un regime che si considera arbitro e padrone delle vite degli altri, dei suoi cittadini, dei sudditi. Dovrai ripresentarti davanti a una Corte egiziana il primo febbraio, perché sarai anche libero ma non ancora assolto (da quale accusa, chissà). Potrebbero decidere di tornare a rovinarti l'esistenza in qualsiasi momento. Ma intanto sei praticamente fuori, potrai dormire prestissimo, una delle prossime notti, nella tua casa di Mansoura, con la famiglia che ti ha aspettato ogni secondo di questi 22 mesi, o magari anche tornare a studiare in quella Bologna, dove in ogni tua lettera dal carcere bestiale di Tora, al Cairo, chiedevi di poter ripartire dopo il tunnel dove ti avevano cacciato. «Riportatemi in piazza Maggiore. Grazie alla città, alle bandiere gialle. Io combatterò per questo». Combattere e vedere riconosciuto, in un giorno di festa, che non è impossibile, che non è tutto inutile, è un segno che pretende un seguito. Le pressioni delle piazze, della società civile, e l'effetto domino che determinano sulle attenzioni di un Paese come l'Italia, possono davvero cambiare il corso delle cose, anche per gli ultimi, le vittime più incolpevoli della perdita di qualsiasi valore per il rispetto dei diritti fondamentali dell'essere umano. Salvato, per adesso, il soldato Zaki, arruolato in una guerra di inciviltà che non lo ha mai riguardato, diventa ancora più urgente proseguire con convinzione sulla stessa strada. È evidente che il prossimo passo, nei confronti dell'Egitto, non può che avere a che fare con la riapertura del processo sulla fine ignobile di Giulio Regeni. Quella vita meravigliosa non si può più salvare. Ma almeno tutta la verità sulla sua esecuzione e i suoi assassini, ecco, quello è un obiettivo non contrattabile, non più rinviabile, irrinunciabile. La liberazione di Patrick è benedetta ma si completa soltanto con la fine dell'omertà sullo studente Giulio, italiano del mondo. 

Patrick Zaki è libero, ma le accuse non sono cadute: «Grazie a chi mi ha sostenuto. Avete tenuto accesa la luce». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021.Intervista a Zaki, scarcerato dopo 22 mesi: «In cella leggevo quel che potevo, il mio libro preferito è “L’amica geniale”. E scrivevo, quando mi era permesso. Vorrei pubblicare i miei diari. In carcere una delle cose che ti fa più soffrire è il pensiero del dolore che provochi a chi ti vuol bene. Ora vorrei andare a Napoli. E conoscere Liliana Segre»

«Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui». 

Non indossa più la tuta bianca dei detenuti in attesa di giudizio, Patrick Zaki. È seduto nel salotto della sua casa di infanzia a Mansoura. Alle sue spalle un arazzo di spugna che raffigura Cristo. È il più calmo di tutti, nella stanza. Intorno a lui, il magico «dream team» di donne. La sorella Marise, la fidanzata, un’amica, mamma Hala che, dopo 22 mesi di lontananza, angoscia e paura, ora non lo perdono di vista un attimo. C’erano loro ad aspettarlo fuori dal commissariato di polizia di Mansoura da cui è stato rilasciato ieri dopo 670 giorni di detenzione. E ci sono loro mentre Patrick entra nell’appartamento dove è cresciuto e sull’auto verso il Cairo. In salotto, intanto, papà George non smette di sorridere un attimo. Zaki ha cambiato montatura di occhiali («l’altra l’ho persa durante un trasferimento da una cella all’altra»). La barba è lunga, il sorriso quello delle fotografie di prima dell’arresto. Sotto il maglione scuro, la maglietta dell’Università di Bologna. Poi i jeans preferiti. I palmi della mani, neri al momento del rilascio, ora sono puliti. Intorno, la cagnetta Julie scodinzola felice.

Patrick, innanzitutto ben trovato. Quando hai capito che stavi per tornare libero?

«Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà».

Hai abbracciato prima tua mamma, poi la tua fidanzata e infine tua sorella Marise. Qual è stata la prima cosa che hai detto a questo gruppo di donne che lotta per te da 22 mesi, insieme a tuo padre e tutto lo staff della Eipr?

«Ho detto grazie. E poi “Temam”: va tutto bene».

Patrick ride, si interrompe.

La frase che hai sempre ripetuto a tua madre fin da quando lei stava in angoscia nel 2011 ai tempi della rivoluzione e tu ti eri trasferito a vivere al Cairo…

«Già. Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene. Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo».

Abbiamo tempo, ora.

«Gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona».

Chi è?

«La professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui».

L’Italia si è adoperata per il tuo rilascio a più livelli. Il premier Mario Draghi ha seguito costantemente il tuo caso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ti ha dedicato un abbraccio pubblico. L’ambasciatore Quaroni ti ha chiamato al telefono.

«Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano».

Anche la società civile ha avuto un ruolo fondamentale. «Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi», ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

«Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni».

La senatrice Liliana Segre ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere in Aula idealmente come tua nonna, come persona che sa cosa vuole dire stare chiusa dentro stanza da cui non si può uscire. Vuoi dirle qualcosa?

«Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima».

Patrick ora sei libero ma le accuse a tuo carico non sono cadute. Il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio come dice la tua legale Hoda Nasrallah. Pensi di poter tornare in Italia un giorno?

«Spero, ovviamente, che questo avvenga presto. Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo».

Dalle tue lettere traspariva grande dolore per il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che non hai potuto finire. Lo riprenderai?

«Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori. E c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia».

Qual è?

«Napoli. Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani».

Hai potuto leggere in carcere?

«Sì. Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco».

Già, scrivere… Ti piace?

«Permette di rielaborare, di processare l’accaduto. Una persona a me vicino mi ha insegnato questo».

Alza lo sguardo Patrick, e in cambio gli arriva un sorriso di rimando indietro. Ma in quegli occhi c’è anche un rimprovero, dolce. Basta parlare con gli altri. Prenditi il tuo tempo, Patrick. Ricordati cosa ti hanno fatto, sembrano dire quegli occhi.

Dal Corriere il 20 novembre scorso hai ricevuto un premio che speriamo di poterti consegnare molto presto di persona, il premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001…

«Sì, mia sorella mi ha detto. Maria Grazia… questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!».

Uscito dal commissariato di Mansura ha abbracciato la madre. Le sue prime parole sono state in italiano. Di Maio: «Bentornato Patrick». La Repubblica l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio.

Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.

"Un abbraccio che vale più di tante parole. Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere.

"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse". Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".

Giu. Sca. per "il Messaggero" il 9 dicembre 2021. Per adesso Patrick Zaki non potrà venire in Italia. Il rientro nella città che l'ha adottato, Bologna, è solo rinviato. Anche se occorre prudenza. Le reazioni del regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi sono imprevedibili. Zaki è, infatti, considerato un problema locale. La sua storia va vista nella più ampia condizione dei cristiani Copti in Egitto. Una minoranza costantemente perseguitata, cittadini di serie b rispetto al resto della popolazione musulmana. La colpa di Zaki, per la locale magistratura, è quella di aver avuto, da cristiano, il coraggio di scrivere articoli a difesa dei cristiani nel 2019. Una lunga ricostruzione in cui il 30enne denunciava una serie di vessazioni patite dai Copti che poi gli è valsa l'arresto, la detenzione lunga 22 mesi con annesse torture. Come scrive in una relazione la Onlus Porte Aperte «nella società egiziana, i cristiani sono considerati cittadini di seconda classe dalla maggioranza islamica. Una minoranza svantaggiata nella sfera politica e nei rapporti con lo Stato. In tale contesto, il Governo è restio a rispettare e fare rispettare i loro diritti». E ancora, si legge sempre sul sito di Porte Aperte, «lo Stato sembra concedere poca attenzione ai diritti umani fondamentali e al pluralismo democratico. Il livello di violenza contro i cristiani rimane estremamente elevato». Una minoranza ampia, di 16 milioni di persone, in una popolazione di 100 milioni. Nella visione del regime non deve assolutamente passare il messaggio che la pressione internazionale possa avere contribuito alla scarcerazione del 30enne. Sarebbe un segno di debolezza che il Cairo non vuole proiettare al proprio interno. E sebbene le richieste incessanti dell'Italia, con il sostegno degli Usa, siano andate avanti nei 22 mesi di carcerazione, il principale motivo che ha spinto l'Egitto a concedere la liberazione (il processo continuerà) di un suo cittadino è collegato all'assassinio di Giulio Regeni. Lo studente italiano ammazzato dai servizi di sicurezza locali tra gennaio e febbraio del 2016. Il messaggio che il Cairo manda sotto voce a Roma è quella di una sorta di compensazione, una comunicazione cinica. Sull'omicidio Regeni gli egiziani non vogliono che venga fatta giustizia né in Patria né in Italia. È quindi difficile che dall'altra sponda del Mediterraneo collaborino per la notifica dell'avviso di garanzia dell'inchiesta che il pm Sergio Colaiocco ha condotto dalla Capitale per individuare i responsabili delle torture culminate con l'omicidio di Regeni. E senza la notifica dell'atto della richiesta di rinvio a giudizio, in Italia non si può processare nessuno. Ecco allora che Zaki viene liberato come una concessione rispetto a un muro che il Cairo solleva sul brutale assassinio dello studente di Cambridge. È in quest' ottica che negli ambienti di governo italiano si legge la scarcerazione di Zaki. Occorre sempre ricordare che sulla testa del 30enne pende la spada di Damocle del processo. In qualsiasi momento le autorità locali possono ritornare sui loro passi. La Farnesina che ha lavorato a fari spenti lo sa bene. E nessuno, negli ambienti diplomatici, vuole urtare la sensibilità egiziana ben sapendo quale possa essere la reazione. Nessuno vuole che la macchina di repressione inghiottisca lo studente egiziano dell'Università di Bologna come è accaduto allo studente italiano dell'Università di Cambridge.

Patrick Zaki, Nicola Porro: "Sapete come funziona la giustizia in Italia?", quello che i giornali non dicono. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2021. "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina": Nicola Porro, nella sua consueta rassegna stampa della mattina, annota gli articoli e gli argomenti più importanti della giornata. Oggi in primo piano c'era, appunto, la scarcerazione dello studente egiziano, dopo 22 mesi di detenzione. Il giornalista, però, ha voluto far notare un dettaglio, che molti giornali non hanno riportato: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". E' un discorso di giustizia e garantismo quello fatto da Porro, che poi sull'argomento chiosa in questo modo: "Giusta l'indignazione nei confronti di Zaki, ma poi in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". Specificando: "Che nemmeno conosco". 

Patrick Zaki, Nicola Porro e il paradosso della giustizia in Italia: "Quello che non viene scritto". Il Tempo il 09 dicembre 2021. Dopo 22 mesi di detenzione, il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato il rilascio, in attesa del processo, per Patrick Zaki, l'attivista per i diritti umani e studente incarcerato a febbraio 2020. La prossima udienza si terrà il 1 febbraio, ma mentre difesa e pubblici ministeri prepareranno le loro argomentazioni finalmente Zaki sarà libero, probabilmente da mercoledì o nei giorni seguenti. Zaki, studente dell'Università di Bologna oggi 30enne, è stato arrestato nel febbraio 2020 poco dopo essere atterrato al Cairo per un breve viaggio di ritorno dall'Italia. Da allora è stato detenuto e accusato di aver diffuso notizie false sull'Egitto a livello nazionale e all'estero. Le accuse derivano da articoli di opinione scritti da Zaki nel 2019 e che parlano della discriminazione contro i cristiani copti in Egitto.  Nicola Porro, nella sua rassegna stampa mattutina segnala gli articoli più importanti della giornata evidenziando che su tutti i quotidiani c'è solo la notizia di Zaki fuori dal carcere dopo mesi di apprensione e di interessamento da parte dell'Italia: "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina" commenta il giornalista che evidenzia un particolare di cui invece pochi parlano: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". Porro ritiene "giusta l'indignazione nei confronti di Zaki ma poi - evidenzia - in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". "La cosa straordinaria - spiega Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". 

Scarcerazione Patrick Zaki, Roberto D'Agostino: "Sono intervenuti i servizi segreti americani, non certo i nostri..." La7.tv l'08/12/2021

Un appello (e gli aiuti): Usa decisivi. Fausto Biloslavo il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lettera di 56 deputati Usa. E ora si complica l'affaire Regeni. La lista Usa dei prigionieri da rilasciare, centinaia di milioni di dollari di aiuti militari in ballo e lo stop in punta di diritto al processo Regeni hanno dato il via libera alla liberazione di Patrick Zaki. «È un'operazione americana spinta dal Congresso e negoziata dalla Casa Bianca per ottenere delle concessioni nel campo dei diritti umani - rivela una fonte del Giornale - A livello politico siamo ai ferri corti con l'Egitto dopo la decisione del governo di costituirsi parte civile nel processo sul caso Regeni».

Otto mesi dopo l'arresto al Cairo dello studente egiziano dell'università di Bologna, 56 membri democratici del Congresso di Washington hanno inviato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi una lettera di una pagina e mezza. Nella missiva su carta intestata del Congresso i parlamentari chiedono la liberazione di sedici attivisti compreso «Patrick George Zaki». I rappresentanti americani vanno dritti al punto: «La esortiamo a rilasciare immediatamente e incondizionatamente i prigionieri che abbiamo citato (...). Queste sono persone che non avrebbero mai dovuto essere incarcerate», si legge nella lettera.

Una volta insediato alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden ha usato il bastone e la carota con l'Egitto per ottenere un'apertura sui diritti umani. «Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari all'anno di aiuti militari al Cairo - fa notare la fonte del Giornale che conosce il tema - Gli egiziani devono anche ammodernare i loro F-16 e Biden ha congelato qualche fondo sbloccando altri. Ottenendo alla fine un gesto distensivo soprattutto nei confronti della richiesta del Congresso».

Il 15 settembre la Casa Bianca ha concesso il via libera a 170 milioni di dollari di aiuti militari e ne ha congelati altri 130. La cifra fa parte del pacchetto di 300 milioni che il Congresso lega al rispetto dei diritti umani. Non è un caso che all'udienza che ha concesso la libertà vigilata a Zaki era presente pure un inviato Usa assieme ai diplomatici della nostra ambasciata al Cairo e rappresentanti di Canada e Spagna.

La mossa americana sarebbe stata caldeggiata dall'ambasciatore italiano in Egitto Cairo Giampaolo Cantini, Al Cairo fino ad agosto, e poi seguita dalla nuova feluca Michele Quaroni. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio solo da settembre a oggi ha discusso di Zaki con il suo pari grado egiziano alla media di una volta al mese.

Gli Stati Uniti hanno blandito il presidente al Sisi anche in campi non militari, come l'assegnazione al Cairo della Cop 27 del prossimo anno sui cambiamenti climatici. Ad annunciarlo ci ha pensato il 3 ottobre l'inviato Usa sul clima, John Kerry, proprio alla pre-Cop di Milano. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, «esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano». Nelle stesse ore del vittorioso comunicato di Palazzo Chigi, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani metteva il dito sulla piaga della Cop 27 in Egitto e l'impunito omicidio di Giulio Regeni. «Andiamo lì - dice il ministro - e che facciamo? Facciamo finta di nulla. Per me questo è un grosso problema».

Oltre alle mosse americane gli egiziani hanno liberato Zaki dopo lo stop al processo ai funzionari dei servizi segreti del Cairo per il brutale omicidio deciso dalla Corte d'Assise a causa di cavilli legati alla notifica degli atti.

Il rischio adesso è che la liberazione di Zaki allontani sempre più qualsiasi spiraglio sul caso Regeni con al Sisi che pensa di avere fatto abbastanza. Non solo: lo studente egiziano è libero, ma con una spada di Damocle sulla testa. Il primo febbraio dovrà tornare in tribunale per la sentenza sulle accuse che lo hanno già tenuto in galera 688 giorni. All'Italia conviene mantenere, almeno per ora, un profilo basso sul suo caso e su Regeni.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane. Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni. Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria. Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari. Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Zaki, la libertà pagata a caro prezzo. In cambio silenzio e lo stop su Regeni. Fausto Biloslavo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Chi tiene alle sorti dello studente sa che non ha senso esultare. E il caso dell'italiano ucciso potrebbe impantanarsi per sempre. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane.

Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni.

Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria.

Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari.

Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Patrick Zaki, il primo politico seguito dopo il carcere? Foto clamorosa: trionfo nel centrodestra. Libero Quotidiano il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki, finalmente scarcerato ma ancora sotto processo in Egitto, ha appena aperto un suo account su Twitter. Il suo primo messaggio è stato: "Libertà, libertà, libertà". Un concetto semplice ma forte allo stesso tempo. A corredo una foto in cui si mostra sorridente e con un'etichetta del Bologna calcio tra le mani. Lo studente, infatti, si trovava a Bologna prima di finire in carcere. Lì frequentava un master, dove adesso - come detto da lui stesso - spera di tornare. Impossibile non notare che per il momento Zaki segue solo due persone su Twitter. Uno è l'account ufficiale di Google. L'altro invece è il profilo di Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo e numero due di Forza Italia. Un riconoscimento non di poco conto per il partito di Silvio Berlusconi e, in generale, per tutto il centrodestra. I follower, invece, per il momento sono circa 600. Tanti i commenti sotto il suo primo post. "Torna preso in Italia, ti aspettiamo", ha scritto un utente. Un altro invece: "Bellissimo vederti sorridente e libero". Nonostante la scarcerazione, però, il 30enne non è ancora stato assolto dalle accuse di aver diffuso notizie false "dentro e fuori" il suo Paese d'origine. La prossima udienza, infatti, si terrà il primo febbraio 2022. Zaki è stato rinviato a giudizio alla fine della scorsa estate, ma la sua permanenza in carcere, da febbraio 2020, era stata rinnovata di volta in volta sulla base di ordinanze di custodia cautelare.Sapete come funziona la giustizia in Italia?"

Patrick Zaki, ecco l’articolo sui cristiani copti per cui l’Egitto accusa lo studente. Patrick Zaki su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. L’incriminazione: «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese». Pubblicato nel 2019 sul sito web Daraj, l’articolo è una sorta di diario delle persecuzioni cui sono sottoposti nel Paese musulmano i copti, minoranza a cui il giovane appartiene. Non passa un mese senza che si verifichino incresciosi atti di violenza contro i copti egiziani, dai tentativi di trasferimento forzato nell’alto Egitto fino ai sequestri di persona, chiusura delle chiese o attentati dinamitardi. Questo articolo si propone il semplice scopo di seguire gli avvenimenti di un’unica settimana, come annotati nei diari dei cristiani d’Egitto. Il primo giorno dell’ultimo Eid al-Fitr, l’Egitto è stato colpito da un gravissimo attacco terroristico che ha reclamato la vita di quattordici effettivi tra le forze armate e la polizia egiziana, di vario ordine e rango. Poiché non sono state menzionate vittime cristiane tra le reclute, siamo rimasti sorpresi nel ricevere la notizia di un funerale militare tenutosi nella cittadina natale di uno dei soldati cristiani, Abanoub Marzouk, proveniente da Bani Qurra, e dal centro di addestramento Qusiya di Assiut. Ho diffuso la notizia sul mio blog, nel quale chiedevo come mai si era taciuto il nome di Abanoub. Mi sono visto piombare addosso una valanga di critiche dagli utenti delle reti social, come pure da parte di certi giornalisti egiziani, i quali mi hanno confermato che cose del genere sono «normali», in quanto le forze armate non pubblicano mai i nomi delle vittime degli attacchi terroristici nel Sinai per motivi di sicurezza e per non deprimere il morale delle truppe stazionate in quei luoghi. Tutte queste pressioni mi hanno convinto a cancellare il mio post. Ho aggiunto che forse mi ero sbagliato e non si era trattato di un atto di discriminazione e ho chiesto scusa ai miei colleghi. Qualche ora più tardi, si è diffusa la notizia di scontri e violenze nella cittadina natale della recluta Abanoub Marzouk, poiché l’esercito voleva intitolare una scuola a suo nome e la popolazione locale si era violentemente opposta alla decisione, in quanto la recluta era «cristiana». I media egiziani si sono guardati bene dal far luce sulla vicenda, ma alcuni giornalisti e attivisti cristiani hanno sollevato obiezione. Nader Shukri, un reporter che tratta di affari cristiani in Egitto, ha scritto: «Il governatore della provincia ha consigliato a Abanoub Naheb, fratello della vittima, che se qualcuno lo invita a un matrimonio, e offre agli sposi dieci sterline, l’altro non vada in giro a dire che doveva offrirgliene cento. Questo in risposta al rifiuto del fratello di mettere il nome del martire su un ponte, che è un semplice attraversamento di un canale, «facendo inoltre notare che una targa del genere non è assolutamente indicata a onorare il sacrificio di un soldato morto in un attacco terroristico». Successivamente Ishaq Ibrahim, ricercatore presso l’Iniziativa egiziana per la tutela dei diritti della persona, ha commentato su Facebook: “Coloro che hanno rifiutato di dare il nome di Abanoub a una scuola non fanno parte né dei fratelli musulmani, né dei salafiti, né degli integralisti. Siamo coraggiosi e diciamo chiaramente che la decisione è stata presa da un funzionario dello stato per motivi discriminatori. Dare la colpa ai gruppi religiosi equivale a uno scaricabarile delle responsabilità». Per poi aggiungere: «Il governatore di Assiut, dopo aver criticato il funzionario per non aver dato il nome di Abanoub a una scuola, ha fatto sistemare una targa commemorativa su un ponticello della sua città natale, che scavalca un canale, malgrado l’opposizione della famiglia del defunto! Con questa soluzione, il governatore ha pensato da un lato di accontentare tutti, dando formalmente il nome della vittima a “qualcosa”, e dall’altro di scansare ogni seccatura che gliene verrebbe se avesse dato il nome a una scuola. Tra l’altro, il nome di ponti e strade nei piccoli centri non ha nessuna importanza, perché non viene nemmeno registrato nel piano urbanistico, né utilizzato dai residenti». Ibrahim ha rimarcato, nel suo post, l’assenza del ruolo dello stato e la totale indifferenza davanti al razzismo sistematico praticato dagli abitanti del luogo, mai affrontato dai funzionari statali, che hanno ceduto alle pressioni e non hanno intitolato una scuola alla giovane vittima. Il governo egiziano ha fatto prova di estrema passività in questa vicenda, rifiutandosi di adottare misure decisive per impedire la sistemazione della targa commemorativa di Abanoub Marzouk su un ponticello. Il governatore della provincia è intervenuto allora per risolvere il problema e ho scoperto che aveva dato il nome di Abanoub Marzouk a uno dei ponti in costruzione all’ingresso della cittadina natale della vittima. E così almeno uno, tra i tanti problemi che affliggono i cristiani d’Egitto, è stato risolto grazie a un «ponte»! Indagando sui modi più comuni per onorare ufficiali e militari morti in servizio, ho scoperto che il governo ha dedicato un certo numero di strade, scuole e piazze principali alla memoria delle vittime del Sinai, dal 2013 a oggi. Questo mi spinge a sollevare non poche domande su come il governo abbia gestito il caso di Abanoub Marzouk, la recluta cristiana, che i suoi concittadini hanno rifiutato di onorare intitolandogli una scuola, con il beneplacito del governatore, per timore dei militanti islamici più estremisti. Il figlio maschio eredita la quota di due figlie femmine, anche se sono cristiani! «Nella legge egiziana, non è stabilito da nessuna parte che al maschio spetti la quota di eredità di due femmine». È così che si è espresso il giudice, nella dichiarazione del tribunale, in risposta alla relazione pubblicata di recente dall’avvocata per i diritti umani Hoda Nasrallah. Dopo la morte del padre, Hoda ha deciso di proseguire la battaglia da sola, ma non a suo esclusivo beneficio, bensì a tutela di tutte le donne cristiane. Il terzo articolo della costituzione del 2014 dichiara che «i principi contenuti nelle sacre scritture dei cristiani e degli ebrei d’Egitto rappresentano la fonte legislativa principale nel dirimere ogni questione relativa al loro statuto personale, affari religiosi e la scelta dei loro capi spirituali». L’articolo 245 dell’Ordinamento copto ortodosso, varato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, per quanto riguarda l’eredità e il diritto di ciascun erede, che «i discendenti diretti avranno la precedenza sugli altri familiari, pertanto riceveranno tutta l’eredità o quanto resta dopo aver attribuito la quota legale al marito o alla moglie. Nel caso di più eredi, con il medesimo grado di parentela, l’eredità verrà suddivisa tra di loro in parti uguali, senza alcuna differenza tra eredi maschi ed eredi femmine». Hoda ha respinto la proposta dei due fratelli, quando hanno chiesto che venisse seguito l’iter stabilito dalle autorità giudiziarie secondo la normativa vigente, promettendo tuttavia di suddividere successivamente l’eredità in parti uguali. Ma Hoda mirava a un obiettivo più alto, ben al di là del suo caso personale, e cioè all’introduzione di normative che in futuro avrebbero cancellato le ingiustizie patite dalle donne cristiane attraverso la legge egiziana sul diritto di famiglia, dalle questioni delle separazioni fino all’eredità. Molti maschi cristiani approfittano della legge egiziana che non riconosce i diritti dei cristiani nella normativa sull’eredità e si accaparrano più di quanto a loro spettante, grazie alle sentenze dei tribunali e all’esecuzione delle stesse. La legge pertanto diventa un ostacolo per tutte le donne, impedendo loro di accedere ai loro diritti, specie nel caso delle donne cristiane.

È una battaglia che si traduce in una forma di persecuzione contro le donne cristiane sotto la legge islamica, benché la religione cristiana non sottoscriva queste idee né tuttavia le abbia mai affrontate, né da vicino né da lontano: le ingiustizie della società patriarcale sono tendenzialmente sostenute e giustificate dalla legge.

«Non accettiamo la tua testimonianza perché sei un cristiano!»

Un post di questo tenore ha raggiunto una diffusione inverosimile su Facebook qualche settimana fa, e si riferisce a quanto accaduto al padre di un dottore, Mark Estefanos, coperto d’insulti in tribunale. Tutto ciò in seguito a lunga storia del padre, ingegnere e dipendente statale per 35 anni. Il padre doveva recarsi in tribunale per testimoniare in una vertenza riguardante un collega, ma il giudice ha respinto la testimonianza dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Un copto non avrà mai nessuna autorità su un musulmano». Il padre e il figlio, dottore, sono rimasti sbalorditi, e quest’ultimo ha pubblicato un post per riferire che a causa di situazioni come queste sta pensando di lasciare l’Egitto, perché non gode degli stessi diritti dei suoi connazionali.

Questo problema fu sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, cittadino musulmano, chiese la testimonianza del suo vicino di casa cristiano, Sami Farag, in una questione ereditaria, caso 1824 del 2008, ma il tribunale di Shubra El-Kheima respinse le dichiarazioni di un cittadino cristiano, in quanto la sua testimonianza non era ritenuta ammissibile, sotto il profilo legale nonché religioso, contro un musulmano.

Il tribunale costrinse Shafiq a reperire un testimone musulmano. Per tornare alla costituzione… scopriamo che esiste una palese contraddizione sul diritto alla testimonianza e la sua normativa, visto che nel secondo articolo si dichiara che «l’Islam è la religione di stato, l’arabo la sua lingua ufficiale, e i principi della Sharia islamica sono alla base della legislazione», mentre l’articolo 53 recita che «i cittadini sono uguali davanti alla legge e godono di uguali diritti, libertà e doveri pubblici, e non esiste discriminazione tra di loro in base a fede religiosa, credenze, genere, origine, razza, colore, lingua, disabilità, classe sociale, appartenenza politica o geografica, o qualunque altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un crimine, punito dalla legge. Lo Stato ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per eliminare ogni forma di discriminazione e a tal scopo la legge regola la nomina di una commissione indipendente». D’altro canto, la Sharia islamica respinge la testimonianza di un non musulmano in più di un testo. «Nel diritto in materia di assunzione di prove, non si trova nulla che faccia distinzione tra cristiani e musulmani e impedisca di accogliere la testimonianza di qualsiasi cittadino», con queste parole si è espresso l’avvocato Reda Bakir dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona. Facendo riferimento al diritto sull’assunzione delle prove, è chiaro che non esiste alcun articolo legale che imponga di respingere la testimonianza di un non musulmano.

Muhammad Hassan, ex avvocato dei diritti umani e ricercatore in campo giudiziario, tuttavia conferma: «Sono propenso all’applicazione della legge islamica per tutto ciò che riguarda questioni religiose incontestabili. Non si tratta di essere al di sopra della legge o altro. Ma l’esercizio dell’autorità è riservato ai musulmani, e l’Egitto è la patria dell’Islam, mentre il dhimmi (non musulmano) paga la jizya (tasse) per agevolare le sue istanze».

Basta questa semplice osservazione per spiegare quello che la comunità cristiana in Egitto è costretta a sopportare in una sola settimana! (Traduzione Rita Baldassare)

«Il calvario dei cristiani copti in Egitto», l’articolo per cui Zaki è incriminato. Da editorialedomani.it il 14 settembre 2021.

Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pm egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. «Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi» scriveva Zaki. Traduzione di Monica Fava

Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pubblici ministeri egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. Patrick è in carcere da febbraio del 2020, il processo è partito il 14 settembre 2021. Traduzione di Monica Fava.

Non passa mese senza che si verifichino incidenti dolorosi contro i copti egiziani, dai tentativi di sfollamento nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o ad altri attentati. Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana della vita quotidiana di cristiani egiziani…

Non passa un mese per i cristiani in Egitto senza 8 o 10 incidenti dolorosi, dai tentativi di sfollarli nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di una chiesa o qualcosa che viene fatto saltare in aria, all’uccisione di un cristiano, la conclusione è sempre «disturbo mentale».

Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana dai diari dei cristiani d’Egitto, una settimana è sufficiente per rendersi conto della portata del calvario che vivono.

Il giorno seguente la fine dello scorso Ramadan, nella festa di Eid al-Fitr, l’Egitto è stato vittima di un enorme attacco terroristico che ha causato la morte di quattordici membri delle forze egiziane, di diversi ranghi della polizia e dell’esercito. Poiché non era stato fatto il nome di alcun soldato cristiano, ci ha sorpreso la notizia di un funerale militare nella città natale di uno dei soldati cristiani egiziani, Abanoub Marzouk del villaggio di Bani Qurra, affiliato al Centro Qusiya di Assiut.

UN POST

Ho scritto un post sul blog per chiedere le ragioni di questo blackout sul nome di Abanoub. Ho ricevuto una serie di attacchi da utenti di social network e anche da giornalisti egiziani che confermavano che queste cose sono “normali”, perché le forze armate non pubblicano i nomi di chi muore martire negli attentati terroristici in Sinai, per ragioni di sicurezza e per il morale delle truppe che si trovano là. Tutte queste pressioni mi hanno indotto a cancellare il post. Ho detto che forse mi ero sbagliato, che non era un atto di discriminazione, e mi sono scusato con i colleghi.

Alcune ore dopo, si è diffusa la notizia dell’insorgere di gravi problemi nel paese natale del soldato, Abanoub Marzouk, al cui nome le forze armate avevano deciso di intitolare una scuola: la gente della città si era opposta con decisione perché il soldato era un “cristiano”. I media egiziani non hanno fatto abbastanza luce sulla questione, ma diversi giornalisti e attivisti cristiani hanno espresso le loro obiezioni.

Nader Shukri, un giornalista che segue le vicende dei cristiani in Egitto, ha scritto: «Un governatore dice al fratello del martire Abanoub Naheh: “Se andassi a un matrimonio e regalassi agli sposi 10 sterline, non mi dire che avrei dovuto regalargli 100 sterline”. Questa è la sua risposta al rifiuto di un fratello del martire a farsi intitolare un ponte, quando si tratta solo di un passaggio sopra un canale”, sottolineando che quella dedica non è commisurata al valore di onorare un soldato caduto in un attentato terroristico.

Poi Ishaq Ibrahim, un ricercatore dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, ha commentato su Facebook. “Quelli che hanno rifiutato di intitolare ad Abanoub una scuola non appartengono ai Fratelli musulmani, non sono salafiti, non sono estremisti o altro. Abbiate il coraggio di dire che è stato un pubblico funzionario che ha preso questa decisione lasciandosi influenzare dai suoi pregiudizi. Qualsiasi tentativo di addossare la colpa a gruppi religiosi è un modo per annacquare le proprie responsabilità”. Poi ha aggiunto: “Il governatorato di Assiut, dopo aver criticato la sua decisione di non intitolare al martire Abanoub una scuola, ha messo il suo nome accanto a un piccolo ponte sopra uno dei canali nel suo villaggio, nonostante i familiari del defunto si fossero opposti!! In questa maniera il governatorato ha voluto accontentare tutti: gli ha formalmente intitolato ‘qualcosa’ e, al tempo stesso, si è tirato fuori dalle polemiche nate dopo la decisione di dedicargli una scuola. Peraltro, i nomi dei ponti e delle strade nei villaggi non sono importanti, perché non sono registrati nei documenti ufficiali e spesso non sono utilizzati dalla gente comune”.

Nel suo post Ibrahim ha messo in evidenza l’assenza del ruolo dello stato e il condono del razzismo sistematico della gente del villaggio, che le autorità hanno deciso di non affrontare, cedendo alle pressioni e rinunciando all’idea di dedicare la scuola ad Abanoub.

IL GOVERNO EGIZIANO

Il governo egiziano non ha reagito e non ha preso alcuna nessuna misura decisa per impedire di intitolare la scuola ad Abanoub Marzouk, così è intervenuto il governatore a risolvere il problema. Quando ho cercato di capire in che modo il governatore avesse risolto problema, ho scoperto che aveva dedicato a Abanoub Marzouk il ponte in costruzione all’ingresso del villaggio. Insomma, il problema, come tutti i problemi dei cristiani in Egitto, è stato risolto con un “ponte”!

Quando abbiamo cercato come fosse stato reso omaggio ad altri ufficiali o altre reclute morti nello stesso attentato o in altri, abbiamo scoperto che il governo in generale ha dedicato un buon numero di strade, scuole e piazze frequentate a molti dei soldati che sono caduti in Sinai dall’inizio del 2013 a oggi. Questo ci spinge a fare domande sulle ragioni per cui il governo ha gestito in questo modo il caso di Abanoub Marzouk, il soldato cristiano a cui i compaesani hanno rifiutato di intitolare la scuola del villaggio, cosa che il governatore ha accettato temendo l’ira dei militanti.

Un uomo riceve un’eredità pari a quella di due donne, anche nel caso dei cristiani!

«Nel diritto egiziano non c’è questa cosa che un uomo riceve una quota di eredità pari a quella di due donne». Così ha stabilito un giudice e così dice la relazione del tribunale dopo la dichiarazione sull’eredità dell’avvocata per i diritti umani Huda Nasrallah (che oggi difende Zaki, ndr), di recente pubblicazione. Huda ha dichiarato che, dopo la morte del padre, ha deciso di combattere la sua battaglia da sola, ma non solo per sé, bensì in nome di tutte le donne cristiane.

Il terzo articolo della Costituzione del 2014 afferma che “i principi delle scritture dei cristiani e degli ebrei egiziani sono la fonte legislativa principale per regolare lo statuto personale, gli affari religiosi e la selezione delle guide spirituali”.

L’articolo 245 del Regolamento della Chiesa ortodossa copta, pubblicato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, riguardo agli eredi e al diritto di ciascuno di loro all’eredità, che «i discendenti dell’erede hanno la priorità sugli altri parenti sull’eredità, pertanto ricevono tutta l’eredità o quello che ne resta dopo che il marito o la moglie hanno ricevuto la loro parte. Nel caso ci siano eredi multipli con lo stesso grado di parentela con il defunto, le proprietà saranno divise tra di loro in parti uguali, senza differenza fra uomini e donne».

Huda ha rifiutato la proposta dei suoi due fratelli, quando hanno chiesto che il processo si svolgesse nel modo solito in cui le autorità giudiziarie sono solite procedere e che la dichiarazione di eredità fosse ricevuta in qualsiasi forma, e poi l’eredità divisa tra loro in parti uguali. Hoda aveva un obiettivo più ambizioso, ben oltre il suo caso personale, e cioè di istituire provvedimenti che fossero applicati anche in seguito, per far fronte alle ingiustizie che subiscono le donne egiziane riguardo al diritto della persona, dai casi di separazione all’eredità. Molti cristiani uomini approfittano del fatto che i tribunali non riconoscono la religione cristiana nelle sue norme sull’eredità e prendono più di ciò che gli spetterebbe per diritto secondo la loro religione, perché lo ha ordinato il tribunale e devono rispettarlo. Di conseguenza la legge è diventata un ostacolo per le donne nell’ottenere i propri diritti, specialmente per le donne cristiane.

Questa battaglia dimostra una forma di persecuzione contro le donne cristiane in base al diritto islamico, anche se la religione cristiana non afferma questi concetti e non li ha affrontati, né da vicino né da lontano. Tuttavia, i mali della società patriarcale sono sostanzialmente supportati e giustificati dalla legge.

«Non accettiamo la sua deposizione perché è un cristiano!»

Questo post è stato diffuso ampiamente su Facebook qualche settimana fa e racconta che cosa è successo al padre del dottor Mark Estefanos e degli insulti che ha ricevuto in tribunale. Questo dopo una lunga vicenda del padre, un ingegnere che ha lavorato in un’istituzione pubblica per 35 anni. Il padre doveva presentarsi in tribunale per testimoniare di fronte al giudice su un caso riguardante un collega, ma il giudice ha rifiutato la deposizione dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Non c’è tutela legale per un copto rispetto a un musulmano». Il padre e suo figlio, un medico, sono rimasti estremamente turbati e quest’ultimo ha pubblicato il post, sottolineando che episodi così lo inducono sempre a pensare di andarsene dall’Egitto, perché non gode degli stessi diritti degli altri.

Il problema è stato sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, un cittadino musulmano, richiese la testimonianza del suo vicino cristiano, Sami Farag, nel caso di dichiarazione d’eredità 1824/2008, ma il tribunale di Shubra el-Kheima rifiutò la deposizione di un cittadino cristiano adducendo il motivo che la deposizione di un cristiano non era legalmente/religiosamente consentita contro un musulmano. Il tribunale obbligò Shafiq a portare un testimone musulmano.

Tornando alla costituzione...

C’è una chiara incoerenza sul diritto a testimoniare e la sua applicazione, poichè il secondo articolo afferma che «l’islam è la religione di stato, l’arabo è la lingua ufficiale e i principi della shari’a islamica sono la principale fonte legislativa».

L’articolo 53 afferma che «i cittadini sono uguali di fronte alla legge e hanno gli stessi diritti, libertà e doveri pubblici, non c’è discriminazione fra di essi sulla base della religione, delle convinzioni, del genere, dell’origine, della razza, del colore, della lingua, della disabilità, della condizione sociale, dell’affiliazione politica o geografica, o di qualsiasi altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un reato perseguibile dalla legge. Lo stato è obbligato a prendere le misure necessarie per eliminare tutte le forme di discriminazione e la legge regola l’istituzione di una commissione indipendente a tale scopo».

D’altro canto, la shari’a in più di un testo non accetta la deposizione di un non musulmano. «Non c’è nulla nel diritto procedurale che distingua fra cristiani e musulmani e impedisca di accettare la deposizione di un qualsiasi cittadino», ha dichiarato l’avvocato Reda Bakir dell’Egyptian Initiative for Personal Rights. Facendo riferimento al diritto procedurale è già evidente che non esiste nessuna disposizione di legge che impedisca di accettare la testimonianza di un non musulmano.

Muhammad Hassan, un ex avvocato per i diritti umani e ricercatore giuridico, ha confermato: «Sono incline alla legge islamica in questioni relative a costanti religiose che non sono in discussione. Non si tratta di legge o cose del genere. La tutela è nella casa dei musulmani, dato che l’Egitto è dimora dell’Islam e il dhimmi (non-musulmano) paga le jizya (tasse) per facilitare i suoi affari».

Questa era una semplice osservazione di quello che può succedere alla comunità cristiana in Egitto solo in una settimana!

Il cuore antico del cristianesimo in Medio Oriente. Mauro Indelicato su Inside Over il 7 dicembre 2021. “Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“. Il Libano, rispetto ai vicini arabi, ha una particolarità: è l’unico Paese del mondo arabo ad essere a maggioranza cristiana. O almeno così era fino all’immediato secondo dopoguerra. L’afflusso di profughi palestinesi prima e siriani poi, ha rivoluzionato il mosaico demografico. Tuttavia la presenza di cristiani è ancora molto significativa. I censimenti nel Paese dei cedri si fanno oramai a bassa voce, non esistono statistiche ufficiali, ma la comunità dovrebbe rappresentare circa il 40% della popolazione. Ed è questo il dato principale. Perché dona al Libano, quando si parla di cristianità in medio oriente, un ruolo politico, storico e sociale fondamentale.

Il ruolo dei maroniti

La diffusione del cristianesimo nell’area libanese la si deve soprattutto alla Chiesa cosiddetta “maronita“, sviluppatasi intorno al V secolo. Il suo nome deriva dal fondatore San Marone, un asceta vissuto in Siria e morto nel 452. I suoi discepoli hanno dato vita a una comunità che nel corso dei decenni ha considerato l’odierno Libano come sua base principale. Inizialmente la chiesa maronita ha seguito il Patriarca di Antiochia. Successivamente si è dotata di maggiore autonoma, pur rimanendo comunque all’interno dell’alveo romano. I maroniti infatti hanno sempre riconosciuto l’autorità papale. Dunque oggi è possibile considerare la Chiesa maronita come pienamente organica alla Chiesa cattolica. Una sorta di “dualismo identitario” sancito ufficialmente nel sinodo maronita nel 2004. Qui i vescovi maroniti hanno approvato i cinque elementi distintivi della comunità. Gli ultimi due riguardano proprio la fedeltà alla Cattedra di San Pietro e il suo radicamento nella storia del Libano. Per questo ancora oggi sono proprio i maroniti a costituire il numero più rappresentativo dei fedeli cristiani nel Paese. Una circostanza ben rintracciabile a livello politico. Quando nel 1943 il Libano ha optato per l’indipendenza dalla Francia, è stato stilato un “patto nazionale“, valevole ancora oggi, con il quale si è sancita la divisione delle più importanti cariche politiche. Ai cristiano maroniti è stata affidata la nomina del presidente della Repubblica. Da allora fino ad oggi i capi di Stato libanesi sono sempre stati maroniti. L’afflusso di profughi dalla Palestina dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948 ha determinato non poche tensioni. Gli equilibri tra le varie comunità etniche e religiose in Libano sono stati messi pesantemente in discussione. L’ingresso dell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i disagi economici avvertiti dalla popolazione sciita e i timori dei maroniti di perdere la maggioranza, hanno esasperato il clima. Tutto questo ha portato al periodo più buio della storia recente libanese, culminato con la grande crisi del 1958 e la guerra civile iniziata nel 1975. A livello politico, i partiti rappresentanti i maroniti sono confluiti nelle Falangi e nelle Forze Libanesi, queste ultime vere e proprie milizie sciolte poi soltanto negli anni ’90. In questa fase la sicurezza è rimasta precaria per tutti i vari cittadini libanesi, tanto cristiani quanto musulmani. Le ferite aperte durante il conflitto ancora oggi non sono state del tutto rimarginate.

I cristiani nel Libano di oggi

Quella maronita non è comunque l’unica comunità cristiana libanese. Fino al 1932 il 10% della popolazione professava la religione ortodossa. Una percentuale oggi inferiore e non meglio precisata. Gli ortodossi libanesi in gran parte appartengono alla comunità greco-ortodossa. Sono presenti, con percentuali inferiori al 10%, i cattolici romani e in minor misura i cattolici di rito armeno. Poco meno del 2% invece appartiene alla famiglia protestante. Più o meno tutte le varie comunità cristiane sono rappresentate da partiti politici. I maroniti hanno come riferimento soprattutto le Falangi e le Forze Libanesi, ma dal 2005 sulla scena parlamentare si è affacciato anche il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun, attuale presidente della Repubblica. In parlamento sono presenti anche membri di partiti armeni e indipendenti appartenenti alle altre confessioni cristiane. Il punto di equilibrio, in un sistema che privilegia la suddivisione su base settaria degli incarichi, è stato raggiunto con gli accordi di Taif del 1989. Con quel documento, che ha sancito la fine della guerra civile, ai cristiani è stata riservata la metà dei seggi in parlamento, mentre l’altra metà è suddivisa tra sciiti, sunniti e drusi. Un compromesso che, unito alla conferma dell’attribuzione ai maroniti del ruolo di presidente della Repubblica, ha contribuito a far diminuire le tensioni. Ma i problemi non mancano. I cristiani, al pari del resto della popolazione, stanno patendo gli effetti di una lunga e deleteria crisi economica. Oggi a Beirut e in tutte le altre principali città del Paese, i principali servizi sono a rischio: manca il carburante, l’elettricità viene erogata per poche ore al giorno, il prezzo dei beni di prima necessità è alle stelle. Crisi politiche e mancanza di riforme hanno lasciato sul lastrico il Libano e questo, tra le altre cose, sta facendo sorgere il timore di nuovi scontri tra le varie comunità. I cristiani libanesi hanno quindi due sfide davanti a loro. Da un lato respingere le tensioni e, dall’altro, contribuire alla rinascita del Paese dei cedri. Obiettivi non semplici, anche considerato il mai domato spettro del terrorismo jihadista.

Da rainews.it il 3 aprile 2021. Lo ha annunciato il generale Ossama Rabei, capo dell'authority che gestisce il canale, precisando che all'imbarcazione e al suo carico non sarà permesso lasciare l'Egitto se la questione dei danni verrà portata in tribunale. In un'intervista telefonica durante un talk show televisivo, Rabei ha riferito che l'importo tiene conto dell'operazione di salvataggio, dei costi del traffico bloccato e delle tasse di transito perse per la settimana. "È un diritto del Paese", ha detto Rabei, senza specificare chi dovrebbe pagare il risarcimento. Nel frattempo è ripresa la navigazione nel canale di Suez. L'enorme nave da carico si trova attualmente in uno dei laghi di contenimento del canale, dove sono in corso le indagini per ricostruire la dinamica dell'incidente. Giovedì, i responsabili tecnici della nave, Bernard Schulte Shipmanagement, hanno riferito in una e-mail all'Associated Press che l'equipaggio sta collaborando con le autorità nell'inchiesta che deve chiarire il motivo per il quale la portacontainer si è arenata. Gli investigatori dell'authority del Canale di Suez hanno avuto accesso al Voyage Data Recorder, la scatola nera della nave. Rabei dal canto suo ha fatto sapere che se l'indagine andrà a buon fine e il risarcimento verrà pagato, la nave potrà viaggiare senza problemi. Tuttavia, se la questione del risarcimento sfociasse in un contenzioso, allora l'Ever Given e il suo carico di circa 3,5 miliardi di dollari non sarebbero autorizzati a lasciare l'Egitto. Il contenzioso sarebbe complesso, considerato che la nave è di proprietà di una società giapponese, gestita da uno shipper taiwanese e batte bandiera panamense. La nave è stata disincagliata lunedì grazie alle operazioni condotte da una serie di rimorchiatori e con l'aiuto dell'alta marea, da allora il blocco del traffico marittimo nel Canale di Suez, causato dall'incagliamento, ha continuato ad attenuarsi, con il numero di navi in attesa di transito che è sceso a 206 unità. La società Leth Agencies, che gestisce il canale, ha affermato che, da quando la portacontainer è stata liberata, Suez è stato attraversato da 357 navi. 

Da tgcom24.mediaset.it il 27 marzo 2021. L'Authority del Canale di Suez ha annunciato la fine delle operazioni di dragaggio e l'inizio delle manovre di rimorchio del portacontainer Ever Given che da martedì blocca l'importante collegamento marittimo tra Asia ed Europa. La stessa Authority ha però avvertito che si tratta di una procedura complessa che prevede vari tentativi, che potrebbero anche andare a vuoto. L'aiuto degli Stati Uniti- Intanto la marina degli Stati Uniti si è detta disponibile a contribuire alle operazioni e valuta di inviare una squadra di esperti per consigliare le autorità locali. "Abbiamo offerto l'assistenza degli Stati Uniti alle autorità egiziane per aiutare a riaprire il canale", affermano funzionari Usa. "Ci stiamo consultando con i nostri partner egiziani su come possiamo sostenere al meglio i loro sforzi". La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha riferito che gli Stati Uniti hanno ufficialmente offerto la loro assistenza alle autorità egiziane. Psaki ha detto che le conversazioni con i funzionari egiziani sono "in corso" e ha confermato che la Casa Bianca "sta monitorando la situazione da vicino".

Dailymail.com il 27 marzo 2021. Fermi tutti! Ma quali ‘forti venti”, potrebbero esserci stati "errori tecnici o umani" che hanno portato la nave cargo Ever Given ad arenarsi contro le rive del Canale di Suez. Lo afferma Osama Rabie, capo dell'Autorità egiziana del Canale di Suez, che ha confermato che "i forti venti e i fattori meteorologici non erano le ragioni principali" per l'affondamento della nave nell'affollato canale, avvenuto cinque giorni fa. Un video di Vessel Finder ricrea l'incidente utilizzando il tracker di bordo della nave e mostra il momento in cui ha virato a sinistra prima di andare improvvisamente a dritta e colpire le sponde. Due tentativi per rimuovere la nave portacontainer lunga 400 metri - e riaprire la rotta commerciale che facilita il 12% delle spedizioni internazionali - saranno effettuati oggi dopo che gli sforzi di ieri sono falliti. La nave battente bandiera di Panama, lunga quanto l'Empire State Building, si è arenata a circa 6 km a nord dell'ingresso meridionale, vicino alla città di Suez, e ha causato una coda di circa 280 navi. Navi che sembrano fare affidamento sulla liberazione del cargo nave e stanno ancorando fuori dalla Suez piuttosto che girare intorno al Capo di Buona Speranza - il che potrebbe aggiungere 14 giorni e 5.000 miglia nautiche al viaggio, col rischio di esporli alla pirateria. I lavoratori del canale stanno tentando di estrarre la sabbia intorno alla prua della nave che è incastonata nella parete orientale del canale e potrebbe dover scavare decine di metri per consentire alla nave di galleggiare. Nel frattempo rimorchiatori e draghe stanno lavorando nella parte posteriore della nave per liberare la poppa contro la parete occidentale. Se questi sforzi falliscono, dovranno intervenire gru specializzate per aiutare a rimuovere parte del carico, con container che pesano fino a 33 tonnellate ciascuno. Non solo: si preparano piani per pompare acqua dagli spazi interni della nave per alleggerire il carico, e domenica dovrebbero arrivare altri due rimorchiatori per unirsi ad altri che stanno già cercando di spostare l'enorme nave. Un funzionario dell'Autorità del Canale di Suez ha comunicato del progetto di fare almeno due tentativi oggi per liberare la nave quando la marea cala. Secondo la società giapponese Shoei Kisen KK, proprietaria della nave portacontainer, almeno 10 rimorchiatori sono già stati schierati per aiutare a rimettere a galla la nave. Intanto, dalla Casa Bianca, Joe Biden, ieri ha detto: "Abbiamo attrezzature e capacità che la maggior parte dei paesi non ha e stiamo vedendo cosa possiamo fare e quale aiuto possiamo essere". Il fatto che la Casa Bianca sia pronta al soccorso sottolinea quanto sia essenziale il Canale di Suez per il buon funzionamento del commercio globale. Aziende e governi stanno già avvertendo ritardi per le merci in arrivo dall'Asia. Ikea ha avvertito di ritardi nelle forniture, che interesseranno principalmente le merci dall'Asia, come elettricità e mobili. Gli analisti affermano che ogni ora in cui la nave rimane incuneata sul canale ha un costo per stimato di 290 milioni di sterline. Una chiusura prolungata del corso d'acqua è particolarmente cruciale per il trasporto del petrolio e gas in Europa dal Medio Oriente. Si teme che merci come lavatrici, parti di automobili e giocattoli che vengono comunemente importati dalla Cina e altri partner commerciali asiatici potrebbero scarseggiare poiché le navi da carico destinate all'Europa rimangono bloccate nel canale di Suez. Prevedendo lunghi ritardi, i proprietari della nave bloccata hanno invece dirottato una nave gemella, la Ever Greet, su una rotta intorno all'Africa. Anche altri cargo vengono deviati. Il vettore di gas naturale liquido Pan Americas ha cambiato rotta nel medio Atlantico, ora punta a sud per aggirare la punta meridionale dell'Africa, secondo i dati satellitari di MarineTraffic.com. La Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti, che opera nel Mar Rosso, è stata contattata negli ultimi due giorni da un certo numero di compagnie di navigazione, temendo di poter essere attaccate. Zhao Qing-feng, responsabile dell'ufficio dell'Associazione degli armatori cinesi a Shanghai, ha dichiarato al Financial Times  che le navi che scelgono di percorrere la rotta africana dovranno assumere personale di sicurezza aggiuntivo per garantire che siano al sicuro. Nel frattempo Willy Lin, presidente del Consiglio dei caricatori di Hong Kong, ha detto che una coalizione internazionale di navi da guerra navali potrebbe dover essere coinvolta per proteggere le navi da carico se la crisi si trascina. La Ever Given, costruita nel 2018 con una lunghezza di quasi 400 metri e una larghezza di 60 metri, è tra le più grandi navi da carico del mondo. Può trasportare circa 20.000 container alla volta. In precedenza era stato nei porti della Cina prima di dirigersi verso Rotterdam nei Paesi Bassi.

Cristiano Tinazzi per "Il Messaggero" il 31 marzo 2021. Dopo sei giorni di attesa, la nave Ever Given è stata liberata. Il traffico nel canale di Suez è finalmente ripreso. In coda, per passare nel canale, si sono accumulate più di quattrocento navi e ci vorranno giorni per smaltire il passaggio di tutte le imbarcazioni e riportare alla normalità il traffico navale. Un incidente che ha tenuto con il fiato sospeso il mondo intero, a causa delle sue ripercussioni sulla catena globale degli approvvigionamenti energetici e commerciali. Un blocco che è costato quasi dieci miliardi di dollari al giorno. Poco prima del disincagliamento della portacontainer, l'agenzia di rating Fitch aveva prospettato danni per centinaia di milioni di euro per le compagnie di riassicurazione. La svolta è avvenuta poco dopo le tre del pomeriggio, quando il cargo battente bandiera panamense è tornato a navigare. Già nella notte il portacontainer era stato raddrizzato per l'ottanta per cento grazie al lavoro di tredici rimorchiatori, col contributo anche del rimorchiatore italiano di altura Carlo Magno, che ha lavorato tirando la poppa. Ma la parte più problematica era sbloccare la prua, come rilevato uno degli esperti intervenuto sul posto, Peter Berdowski, direttore esecutivo della Royal Boskalis, casa madre di Smit Salvage, alla radio pubblica olandese. Per rimettere in navigazione il portacontainer della classe megaship è stato necessario dragare in questi giorni trentamila tonnellate di sabbia dal fondo del canale. Il capitano della portacontainer e i venticinque membri indiani dell'equipaggio intanto rischiano gli arresti domiciliari e accuse penali. «C'è un pericolo evidente che l'equipaggio della nave venga usato come capro espiatorio», ha detto il capitano Sanjay Prashar, membro del National Shipping Board (Nsb), al Times of India. «Prima di tutto è necessario accertare le cause che hanno portato la gigantesca nave ad arenarsi», ha affermato Prashar, aggiungendo che «per verificare i fatti è necessario ascoltare ed esaminare le registrazioni delle conversazioni fatte durante il viaggio della nave e così si può arrivare a capire che cosa abbia causato l'intoppo». Dopo l'annuncio della ripresa della navigazione, il capo dell'Authority del Canale di Suez, l'ammiraglio Osama Rabie, ha previsto che ci vorranno circa tre giorni e mezzo per smaltire tutto il traffico nel canale. Le perdite da parte egiziana per mancati pedaggi sono dai dodici ai quindici milioni di dollari, ha confermato Rabie, il quale ha sottolineato come l'incidente abbia «messo in luce l'importanza del canale». La portacontainer si è poi diretta con i propri motori verso in un bacino interno allo stretto per essere sottoposta a una revisione tecnica. In tono trionfalistico, è intervenuto anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, recatosi in visita a Suez dopo il disincaglio della Ever Given: «Sono qui per lanciare un messaggio attraverso i media e dire che il canale di Suez è potente e in grado di assumersi la responsabilità del commercio internazionale». Al-Sisi ha celebrato «l'enorme complessità tecnica» dell'impresa ricordando, con toni nazionalistici, che gli egiziani «hanno scavato il canale con i corpi dei loro antenati e lo hanno difeso con le anime dei loro padri nella guerra dei sei giorni del 1967». Retorica nazionalista vecchio stile che in Egitto ha ancora un certo effetto su parte della popolazione. Le reazioni sui social media a proposito della crisi di Suez, definita un calvario, per al-Sisi sono state «una dimostrazione di quanto gli egiziani amino il loro Paese». Il presidente egiziano ha infine ringraziato «gli amici dell'Egitto del Golfo e nel mondo per aver offerto sinceramente la loro assistenza e per aver contribuito a risolvere in tempi record e con il numero minimo possibile di perdite la crisi del Canale di Suez». Dopo la notizia della riapertura del canale sono migliorate le principali borse europee, nonostante le notizie sulla pandemia, e il petrolio è sceso dello 0,5%, attestandosi a 60,6 dollari al barile.

La crisi di Suez dimostra il fallimento delle grandi opere promesse da al-Sisi. Giuseppe Acconcia su Notizie.it il 29/03/2021. Lo stop al commercio globale potrebbe aprire il vaso di Pandora delle mille contraddizioni di un presidente che impoverisce il suo popolo in nome della salvaguardia della propria immagine. Dopo il colpo di stato militare del 2013, l’Egitto era stato definito da molti capi di stato un modello di stabilità per il Nord Africa e il Medio Oriente. Tutto sembrava andare in questa direzione quando nell’agosto del 2015 venne inaugurata un’estensione di appena 35 km del Canale di Suez. Sembrava che l’esercito egiziano volesse confermare la sua immagine di modernizzatore del Paese. L’opera è stata conclusa a tempo di record in poco più di un anno. Eppure a distanza di sei anni il Canale di Suez è stato chiuso per una settimana a partire dallo scorso martedì, il cargo portacontainer Ever Given di 400 metri è stato a fatica liberato e si è creato un enorme ingorgo che ha bloccato le 370 navi in transito. Le operazioni vanno avanti mentre si stima che le perdite ammontino a circa 9,6 miliardi di dollari al giorno. Eppure, nonostante progetti faraonici di città satellite e per attrarre investimenti esteri, gli egiziani continuano ad impoverirsi.

Il Canale di Suez da Nasser ad al-Sisi. Il Canale originale, nazionalizzato dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser nel 1956, era lungo 193 chilometri, 80 dei quali già a doppia corsia (una bretella di 53 chilometri è stata aggiunta nel 1980). Con l’estensione del Canale, inaugurato il 6 agosto 2015 alla presenza del presidente francese François Hollande e del premier russo Dimitry Medvedev, si è passati a 115, 5 chilometri percorribili nei due sensi. In altre parole cargo e navi mercantili possono raggiungere i porti della Gran Bretagna partendo dai Paesi del Golfo in 14 giorni anziché 24. Non solo, si sono accorciati i tempi di attesa per le navi dirette in Europa: da undici passano a tre ore. Si riducono anche i tempi di attraversamento del Canale (da 18 a 11 ore). Secondo i piani, si sarebbe dovuti passare così dalle 49 navi al giorno che attraversavano Suez a 97. Al momento dell’estensione nel 2015, il Canale controllava il 19% (240 mila tonnellate di merci) dei traffici marittimi mondiali e la sua centralità è continuata ad andare crescendo esponenzialmente dal 2000 in avanti. Eppure, l’opera, costata 8 miliardi di dollari, ha accresciuto i profitti del Canale di Suez di appena il 4,7% tra il 2015 e il 2019, ben al di sotto dei 100 miliardi all’anno annunciati alla vigilia. Molti analisti critici nei confronti del progetto di estensione del Canale di Suez avevano sottolineato che gli effetti sull’economia egiziana in seguito alla realizzazione dell’opera sarebbero stati minimi. Non solo, i lavori per l’estensione del Canale hanno fatto registrare un impatto ecologico consistente. Non sono stati disposti studi sufficienti per l’impatto ambientale dell’opera. 1500 case sono state rase al suolo per la costruzione dei cantieri. Cinquemila abitazioni sono state distrutte lungo lo scavo. Gli abitanti di Ismailia hanno denunciato di non aver ricevuto nessuna compensazione per aver perso la loro casa. Durante i lavori gli ingegneri hanno riscontrato quantità eccessive di acqua da drenare che hanno fatto temere per la stabilità dell’opera. In più, al-Sisi aveva promesso per la realizzazione della bretella la creazione di «un milione di posti di lavoro». Eppure l’opera non ha inciso sugli alti tassi di disoccupazione giovanile che restano preoccupanti per il Paese.

Gli sforzi per le grandi opere di al-Sisi. Secondo i piani entro la fine del 2019 dovevano essere terminati anche i lavori per la realizzazione della città satellite del Cairo, centro amministrativo del paese. Tra i progetti realizzati c’è una delle torri più alte in Africa, con i suoi 350 metri. Sono state realizzate qui ampie zone residenziali e imponenti centri commerciali. A lavori terminati, la città ospiterà un totale di 5 milioni di abitanti potenziali. Tra i finanziatori dei lavori c’è anche Mohammed Alabbar, uno degli emiri che ha realizzato con ingenti investimenti i lavori di costruzione di imponenti grattacieli a Dubai. Nei primi anni di presidenza al-Sisi, sono stati numerosi i segnali positivi in termini di investimenti esteri in Egitto al tempo della presidenza di Donald Trump. Un esempio concreto è venuto da grandi imprese statunitensi ed europee che sono tornate a fare affari in Egitto. Per esempio, il consigliere di amministrazione di Visa, Alfred Kelly, ha realizzato nuovi investimenti nel Paese in seguito ai risultati ottenuti in tema di digitalizzazione dell’economia. Kelly ha anche salutato positivamente l’obiettivo promosso dalle autorità egiziane nel favorire i pagamenti digitali. Il Cairo ha puntato così ad attrarre nuovi investimenti dopo i contratti da oltre 8 miliardi di dollari siglati nella visita di al-Sisi in Francia nel 2015 con imprenditori francesi. A quota 8,5 miliardi di dollari ammontavano gli accordi commerciali conclusi con l’Italia nella visita a Roma e Milano del premier egiziano Ibrahim Mahleb nel luglio 2014. Il Golfo di Suez, insieme al Mediterraneo orientale e al Delta del Nilo, è l’area dove sono cresciuti di più gli investimenti esteri per lo sviluppo di giacimenti nel mercato petrolifero egiziano. Non solo, la realizzazione di quest’opera, in una regione colpita da grave instabilità politica com’è il Sinai, ha anche permesso al Cairo di puntare di più sulla produzione di gas: grazie alla gestione del Canale di Suez e della Suez-Med Pipeline. Dopo gli attacchi jihadisti ai gasdotti nel Sinai e lo stop all’esportazione di gas verso Israele e Giordania (2012), le imprese energetiche Usa (Noble) e l’israeliana Delek guardano sempre di più al mercato energetico egiziano per le loro esportazioni.

L’economia egiziana è al collasso. Eppure, nonostante gli annunci e l’avvio delle grandi opere, l’economia egiziana è al collasso. Mentre al-Sisi è stato impegnato a ricostruire la sua immagine all’estero e a tagliare la spesa pubblica per ottenere le tre tranche di prestito di 12 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (FMI), povertà e disuguaglianze in Egitto non hanno accennato a diminuire. E così nel 2015, al-Sisi ha chiesto al mondo tra i 200 e i 300 miliardi di dollari per lo sviluppo del Paese. Eppure, tra il 2015 e il 2019, il presidente egiziano ha fatto crescere il debito pubblico investendo 200 miliardi di dollari in mega progetti infrastrutturali. Ha radicato nuove forme di capitalismo di Stato, guidato dall’élite militare, e fondato sull’appropriazione di fondi pubblici, la proprietà in mano ai militari delle principali aziende del paese (dalla produzione del latte e dei frigoriferi fino ai grandi resort turistici) e politiche di austerità, inclusi tagli ai sussidi sul pane e le bollette dell’elettricità. La politica economica di al-Sisi ha prodotto il deprezzamento della lira egiziana del 50% rispetto al dollaro, alti tassi di inflazione e la crescita dei tassi di povertà in un paese dove già un terzo delle persone vive con meno di un dollaro al giorno. Lo scorso novembre la Banca mondiale ha pubblicato un report secondo il quale il debito pubblico egiziano avrebbe raggiunto il 96% del Pil nel 2020-2021, nel 2013 era all’87%. Non solo, lo scorso maggio, l’Egitto ha emesso 5 miliardi di dollari in eurobond, seguiti da 3,75 nel mese di marzo 2021, si tratta della maggiore emissione nella storia del paese. I problemi non riguardano solo l’aumento dei prezzi e il debito pubblico, la crescita economica tra il 2015 e il 2019 (4,8%) è stata inferiore alla media degli ultimi anni di presidenza Mubarak. La crescita al di sotto delle aspettative riguarda anche il settore non petrolifero, confermando che l’aumento della povertà sta facendo diminuire il livello di consumi nel Paese. Non si sono fermati neppure gli scioperi e le mobilitazioni degli operai. Quattromila operai dell’ Egyptian Iron e Steel Company , impegnata in mega progetti voluti dal presidente al-Sisi, hanno avviato un sit-in di protesta lo scorso 17 gennaio contro la liquidazione della fabbrica. Simili proteste hanno avuto luogo nel dicembre 2020 da parte dei lavoratori delle fabbriche tessili di Kafr al-Dawar preoccupati della possibile liquidazione dell’impianto che resterà fermo almeno per i prossimi nove mesi. L’incapacità di al-Sisi nella gestione economica dopo il suo insediamento in seguito al colpo di stato del 3 luglio 2013 è stata messa a dura prova dalla crisi del Canale di Suez. Lo stop al commercio globale potrebbe aprire finalmente il vaso di Pandora delle mille contraddizioni di un presidente che in nome della salvaguardia della sua immagine e di quella dell’esercito, di una millantata stabilità politica sinonimo di repressione permanente, sta impoverendo il suo popolo e esacerbando le carenze infrastrutturali del Paese.

Come ha fatto l'Egitto a passare dalla primavera Araba alla repressione di al-Sisi. Piazza Tahrir al Cairo è stata il simbolo del movimento di democratizzazione che ha interessato nord-Africa e medio Oriente dieci anni fa. Ma quel sogno è morto presto, lasciando spazio alla dittatura militare. Federica Bianchi su L'Espresso il 2 febbraio 2021. A dieci anni dalla Primavera araba, suo tentativo di risveglio, l’Egitto è ormai sprofondato in un lungo inverno dittatoriale che ha permanentemente congelato ogni anelito di democrazia. L’esercito non soltanto ha ripreso il controllo del Paese con astuzia nel 2013 ma, complice un Occidente, dagli Usa alla Francia, più interessato alla stabilità della regione che ai diritti dei suoi cittadini, negli ultimi anni Il Cairo non ha sentito il bisogno di sbandierare o fingere un sostegno popolare per esercitare il potere assoluto. Ogni opposizione è stata definitivamente stroncata senza nessuna concreta obiezione. L’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi ospita nelle sue carceri oltre 60mila prigionieri politici, negli ultimi due mesi del 2020 ha eseguito 57 pene capitali (il doppio rispetto a tutto l’anno precedente) e occupa il 166esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa. Appena salito al potere nel 2013, al-Sisi non solo massacrò durante la prima protesta 800 oppositori politici ma impose subito nuove leggi per impedire ogni futura protesta; poi nel 2015 impose una legislazione anti-terrorismo che lascia all’esercito arbitrio assoluto; nel 2017 varò una legge per privare della cittadinanza gli egiziani residenti all’estero (se ritenuti pericolosi per lo Stato) e nel 2018 passò una norma anti-terrorismo cibernetico per impedire ogni aggregazione in rete. D’altronde la rivoluzione del 25 gennaio 2011 era nata sul web e si era organizzata sui social. Questo il clima in cui nel gennaio 2016 è stato arrestato e torturato a morte Giulio Regeni, colpevole di fare troppe domande scomode, e in cui è oggi in carcere Patrick Zaki, reo di difendere i diritti umani e, in particolare, quelli delle donne. In Egitto i mariti sono ancora padroni assoluti e le mogli marciscono in galera per adulterio. Sono anni che il mondo si interroga su come una rivoluzione che ha ridato speranza a milioni di disperati possa essere finita così male. Come dal temuto Hosni Mubarak si sia passati al crudele al-Sisi. E dire che per per due anni e mezzo piazza Tahrir, un’enorme rotonda nel cuore del Cairo, schiacciata tra il Nilo e il museo egizio, era divenuta il simbolo mondiale della democrazia, dove i progressisti del movimento 6 Aprile e di Kefaya si confrontavano con i giovani della setta islamica dei Fratelli musulmani, riconoscibili per quei lividi in fronte, orgogliosamente ottenuti appoggiando di continuo il capo a terra in preghiera. Tutti intorno a una tazza di tè alla menta, uniti dallo stesso anelito non solo di democrazia ma soprattutto di espressione, un lusso, sull’altra sponda del Mediterraneo. Ad unirli avevano il nemico. A dividerli l’ideologia senza compromessi. Gli islamisti, sostenuti dalla maggioranza del Paese, volevano ottenere il potere politico dopo decenni di oppressione. I progressisti erano e restano minoranza, ma una minoranza più preparata e dialogante con un Occidente afflitto dal terrorismo islamico. Entrambi i fronti non hanno saputo scendere a patti. Inesperienza politica e una certa dose di sfortuna hanno giocato contro. Quando il professore islamista Mohamed Morsi è stato votato democraticamente presidente nel 2012, ha fatto guerra agli ex compagni rivoluzionari anziché scendere a compromessi con i liberali di Mohamed El Baradei e tessere insieme reti per imbrigliare l’immenso potere dell’esercito, che in Egitto controlla tutto, dall’economia alla società. Quest’ultimo ha prima finto di sostenerlo, poi si è organizzato, reclutando giornalisti locali e servizi segreti per alimentare il discontento nella popolazione verso il “terrore islamico”, utilizzando con sapienza i giornalisti occidentali per diffondere la propria propaganda come fosse la volontà del popolo. Ma un movimento come Tamarod, Ribelle, di Mahmoud Badr, il giovane dalla retorica facile che passava ore a conversare con la stampa di mezzo mondo, si scoprì dopo, era tutto tranne che figlio del popolo. Così, senza rendersene conto, in un tripudio di bandiere e canti patriottici, l’Egitto è finito contento nel colpo di Stato ordito dall’esercito, salutato come custode della Patria, il 3 luglio 2013. Non intuendo neppure che, l’arresto del presidente Morsi, avvenuto qualche giorno dopo, rappresentava un nefasto presagio del futuro. Un futuro che oggi è cronaca.

·        Quei razzisti come i somali.

Una catena infinita di vendette. Cosa sta succedendo in Somalia e perché da 10 anni si combatte senza sosta. Sergio D'Elia su Il Riformista il 2 Luglio 2021. La Somalia è la terra africana dove la storia millenaria di Caino e Abele continua a rappresentare una tragica attualità. I nemici dello Stato si chiamano Al-Shabaab. Lo Stato che li combatte è diviso in altrettanti Stati, tutti gelosi della loro indipendenza, uniti solo nella lotta senza quartiere al terrorismo islamico. Da oltre dieci anni gli uni, i “buoni”, si confrontano con gli altri, i “cattivi”. Si combattono senza sosta e si somigliano nella sostanza. La catena infinita dell’odio e della vendetta è un gioco di specchi delle parti in causa nel quale il bene e il male si confondono, il giusto e lo sbagliato si annullano. La stessa legge, quella del taglione, ispira gli uni e gli altri, gli islamisti e gli anti-islamisti. L’amalgama di sistemi giuridici, di tradizioni e diritto consuetudinario, un tempo, disegnava un codice molto più civile della legge della Sharia che la Somalia a un certo punto ha introdotto nel tentativo di placare l’ira degli Al-Shabaab. Alla mossa politica “pacifista” del governo, gli estremisti islamici hanno corrisposto con una ferocia ulteriore e un integralismo religioso rafforzato. Gli Al-Shabaab hanno decapitato o fucilato centinaia di persone: cristiani o apostati dell’Islam, ladri, adulteri e maghi, spie al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese. La scena è sempre la stessa: un sedicente giudice coranico emette la condanna a morte davanti a centinaia di residenti convocati con gli altoparlanti al centro della città e costretti ad assistere all’esecuzione dei malcapitati legati a un palo. Dopo l’esecuzione, gli Al-Shabaab seppelliscono le vittime in luoghi chiamati “cimiteri degli infedeli”. Il governo somalo risponde in automatico, e con una violenza uguale e contraria. Processi da giustizia sommaria sono celebrati da tribunali militari che operano ad ampio spettro e non vanno molto per il sottile. Non solo processano soldati accusati di reati militari, ma anche soldati, poliziotti, combattenti di Al-Shabaab e civili accusati di reati comuni. La velocità con cui le condanne a morte sono eseguite impedisce agli imputati di presentare ricorso e al Presidente di esaminare il caso per una possibile grazia o commutazione della pena. Anche le Nazioni Unite hanno espresso la propria preoccupazione per il “frettoloso” procedimento giudiziario che ha portato a decine di esecuzioni. Domenica scorsa, nell’arco di una sola giornata, la Somalia ha vissuto una sequenza impressionante di azioni e reazioni, di cause ed effetti, di delitti e vendette. Al mattino, cento islamisti hanno attaccato Wisil, una piccola città nello stato di Galmudug. Al-Shabaab ha rivendicato l’azione che avrebbe causato 34 vittime tra le forze di sicurezza. Circa due ore dopo l’attacco a Wisil, le autorità dello stato del Puntland hanno giustiziato 21 uomini accusati di appartenere ad Al-Shabaab. Il giorno prima, il ministro della sicurezza del Puntland era sfuggito a un attentato dinamitardo di Al-Shabaab che avevano preso di mira il suo corteo di auto. I 21 giustiziati per vendetta erano stati condannati in processi separati per una serie di omicidi e attacchi terroristici che sono costati la vita a leader regionali e comunitari, agenti di sicurezza e giornalisti. Diciotto di loro sono stati allineati vicino a una collina di sabbia fuori dalla città di Galkayo. Il plotone di esecuzione ha aperto il fuoco, giustiziandoli. Nelle stesse ore, altri tre uomini sono stati fucilati a Garowe e nella città di Qardho. È stata la più grande esecuzione singola di militanti di Al-Shabaab in Somalia. Domenica pomeriggio, un altro plotone d’esecuzione, stavolta di Al-Shabaab, ha giustiziato in pubblico sei persone, tra cui una donna di 36 anni, Fartun Omar Abkow. Erano accusate di spionaggio per conto della CIA e sono state fucilate in una piazza nella città di Sakow, nella regione del Medio Jubba. È stata la vendetta degli Al-Shabaab per l’esecuzione dei suoi militanti nel Puntland. A New York, al Palazzo di Vetro, la Somalia ha sempre votato a favore della moratoria sulla pena di morte. A Mogadiscio, non hai mai smesso di praticarla presso l’Accademia di polizia del generale Kahiye. In questi anni, la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto di questa doppiezza. Anzi, ha continuato ad assistere la Somalia nel peggiore dei modi. Con il paternalismo della cooperazione allo sviluppo ha speso molto in “aiuto umanitario” e investito poco in Stato di Diritto. Con il militarismo nella lotta al terrorismo ha affidato la giustizia ai plotoni d’esecuzione dell’esercito somalo e ha praticato in proprio quella segreta e più sbrigativa delle uccisioni coi missili sparati dai droni. Occhio per occhio, la Somalia è diventata oggi un Paese accecato dall’odio, paralizzato dalla paura, desertificato dalla violenza. Una terra dove abita solo Caino. Sperando contro ogni speranza, scriviamo ora un’altra storia, in cui a emergere siano il diritto e la coscienza, grazia e giustizia. Sergio D'Elia

La ricostruzione. Chi sono gli al-Shabaab, gli estremisti islamici che hanno rapito Silvia Romano. Redazione su Il Riformista il 11 Maggio 2020. Il nome degli al-Shabaab è tornato alla ribalta con il rapimento della volontaria italiana Silvia Romano, rilasciata venerdì 8 maggio dopo 18 mesi di prigionia. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, la 25enne è stata tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista di al-Shabaab. Emersi nel 2006 dopo la sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione, gli al-Shabaab, dal 2008 sono nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e nel 2012 hanno giurato fedeltà ad al-Qaeda. Sono stati protagonisti e firmatari di sanguinosi attentati, tra cui quello al centro commerciale Westgate a Nairobi che nel settembre del 2013 costò la vita a 67 persone. Due anni dopo, nel 2015 fecero una strage contro un campus universitario in Kenya, con un bilancio di almeno 147 morti, e nel dicembre 2018 un attentato con autobomba a Mogadiscio che ha contato almeno 85 morti. E’ dello scorso settembre invece l’attacco degli al-Shabaab contro la base americana all’aeroporto militare di Baledogle, nello stesso giorno in cui a Mogadiscio una bomba è esplosa al passaggio di un convoglio di mezzi militari italiani. GLI AL-SHABAAB – Definiti come la peste del Corno d’Africa in quanto identificati come uno dei più violenti gruppi di guerriglieri somali, gli al-Shabaab, in italiano “i giovani”, sono un movimento di resistenza popolare nella terra delle due migrazioni. La loro nascita è dovuta ad uno scopo preciso: quello di rovesciare il governo di Mogadiscio, utilizzando regolarmente attentatori suicidi contro il governo, i militari ed i civili. Di stampo islamico, il gruppo è opposto al TFG, Governo Federale Transitorio della Somalia, e a tutto ciò che non rientra nei canoni islamisti, oltre che essere alleato di al-Qaeda. Il gruppo dei ‘giovani’ inizia ad allinearsi ad al Qaeda sia nell’ideologia che nella tattica e ad avere come obiettivi i civili con attacchi suicida molto più frequenti. Infatti al-Shabaab fa leva sulla sua relazione con al Qaeda per attrarre combattenti stranieri, i cosiddetti foreign fighters e donazioni in denaro dai sostenitori della cellula jihadista. Anche se i loro efferati attentati sono stati commessi in maniera ricorrente dal 2008, quando sono stati dichiarati terroristi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la loro esistenza risale al 2006 formando l’Unione dei Tribunali Islamici (ICU) che governavano la Somalia prima di essere cacciati da Mogadiscio con l’intervento delle truppe etiopiche. L’obiettivo principale del gruppo è quello di riconquistare tutte le terre storicamente “islamiche” ora in mano ai non credenti imponendo la stretta osservanza della Sharia Law o comunemente conosciuta come legge di Maometto. Questa formazione islamista è presente nelle regioni del sud della Somalia e mantiene vari campi di addestramento nei pressi di Chisimaio. Alcuni finanziamenti per al-Shabaab provengono dalle attività dei pirati somali, anche se per quanto riguarda le armi il loro principale rifornitore è l’Eritrea, da sempre nemico dell’Etiopia. L’attuale leader degli al-Shabaab è Ahmed Umar, nominato dopo che nel 2014 l’allora leader degli al-Shabaab, Ahmed Abdi Godane, è stato ucciso in un raid di un drone americano. Dal 2016 gli Stati Uniti, infatti, hanno intensificato i raid aerei, gli attacchi con droni e le operazioni contro il gruppo in Somalia.

·        Quei razzisti come gli etiopi.

Chi è Abiy Ahmed. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 novembre 2021. Abiy Ahmed è il primo ministro dell’Etiopia dal 2 aprile 2018. Di etnia oromo, la maggioritaria nel Paese ma anche tra le più emarginate, deve la sua fama internazionale al premio nobel per la pace ricevuto nel 2019 e alla sua immagine di giovane primo ministro modernizzatore. Tuttavia il nome di Abiy Ahmed è destinato a essere legato anche alla guerra avviata dal suo governo nella regione etiope del Tigray.

La famiglia multireligiosa di Abiy Ahmed

Abiy Ahmed nasce a Beshasha, piccola località dell’attuale Stato di Oromia, il 15 agosto 1976. La sua famiglia appartiene all’etnia oromo. Si tratta dell’etnia predominante in Etiopia, ma allo stesso tempo quella che negli anni accusa le maggiori discriminazioni. Nell’anno di nascita di Abiy Ahmed, al potere vi è il cosiddetto “negus rosso”, ossia Hailé Menghistu, a capo di un regime filo comunista.

La sua famiglia non sembra risentire molto dei trambusti politici di quel momento. Il padre è un semplice contadino, uno dei tanti impegnati nelle terre di Oromia. C’è però una particolarità, non così rara nelle province a maggioranza oromo. Se il padre è di religione musulmana, la madre invece è cristiano ortodossa. Sono diverse già all’epoca le famiglie formate da due differenti religioni. A Beshasha, così come nei villaggi circostanti, la percentuale di musulmani e cristiani si equivale.

La famiglia di Abiy Ahmed, oltre a essere multireligiosa, è anche molto numerosa. Il futuro premier è il tredicesimo figlio di suo padre, nonché il sesto avuto dal rapporto tra suo padre e sua madre, quest’ultima sua quarta moglie. Questo contesto familiare influisce in futuro sulla formazione politica di Abiy Ahmed, la cui linea da premier è quella di superare le varie divisioni settarie sia etniche che religiose.

Il giovane Abiy aderisce comunque alla formazione religiosa della madre, anche se in un secondo momento lascerà il cristianesimo ortodosso per sposare l’adesione alla Chiesa Evangelica Pentecostale.

La formazione del futuro premier etiope

Le scuole in Etiopia in quegli anni iniziano ad essere diffuse e ad arrivare anche nei paesi più remoti. Abiy Ahmed può quindi permettersi la formazione elementare nel suo villaggio natio. Si sposta a 14 anni ad Agaro per frequentare gli istituti superiori.

Riesce, nonostante limitate risorse economiche familiari, ad iscriversi all’università. I suoi studi accademici iniziano comunque dopo i 20 anni in quanto Abiy Ahmed in quel periodo è maggiormente concentrato nello sviluppo della carriera militare. La sua prima laurea arriva nel 2009. Il primo titolo è in ingegneria informatica e viene conseguito ad Addis Abeba. Successivamente Abiy Ahmed, in parallelo con la sua carriera politica, continua a studiare nella capitale etiope in economia, con una laurea presa nel 2011, e in filosofia. La fine degli studi universitari in quest’ultima facoltà risale al 2017, con un dottorato su “pace e conflitti”.

L'affiliazione di Ahmed all'Oromo Democratic Party

Ma l’avvicinamento di Abiy Ahmed al mondo politico non si ha all’università. Al contrario, il primo contatto con la politica è a 14 anni, quando il futuro premier aderisce all’Oromo Democratic Party (Odp). Si tratta di una formazione partitica e paramilitare impegnata nella lotta contro Menghistu. Il movimento è alleato con quello di altre etnie contro il governo centrale di Addis Abeba. Per questo Abiy Ahmed entra a contatto con altri contesti del suo Paese, uscendo dalla sua regione di origine.

Buona parte dei ribelli sono di etnia tigrina e infatti il giovane inizia a parlare tigrino e amarico, quest’ultima lingua franca del Paese. Nello stesso anno in cui Abiy aderisce all’Odp, ossia nel 1991, il governo del negus rosso viene rovesciato. A quel punto le varie milizie ribelli danno vita al nuovo esercito etiope e il futuro premier decide intraprendere la carriera militare.

Abiy Ahmed ha 16 anni quando nel 1993 diventa ufficialmente un soldato del nuovo esercito. L’anno dopo fa parte del contingente etiope spedito in Ruanda a sostegno della missione delle Nazioni Unite. Come soldato viene coinvolto nel conflitto scoppiato nel 1998 tra Etiopia ed Eritrea. Il suo impiego però non è come soldato semplice. Al contrario, Abiy risulta organico a una squadra incaricata a scoprire il posizionamento delle forze avversarie lungo i confini contesi. Entra quindi a tutti gli effetti nell’intelligence etiope.

Durante i suoi anni nell’esercito, conosce Zinash Tayachew. Si tratta di una giovane donna di etnia ahmara impegnata anch’essa a prestare servizio militare. Tra i due nasce una storia sentimentale che li porta presto al matrimonio. È lei, peraltro cantante delle canzoni gospel in chiesa, a far avvicinare Abiy Ahmed alla religione evangelica. I due in futuro hanno tre figli e adottano un quarto figlio.

Con il cessate il fuoco nel 2000 tra Etiopia ed Eritrea, il futuro premier decide di continuare la sua carriera nell’esercito e alternarla con gli studi universitari.

La fondazione dell'Agenzia Etiope per la sicurezza informatica

La sua laurea in informatica e le competenze acquisite nel settore, fanno di Abiy un riferimento all’interno dell’esercito per la sicurezza informatica. Non a caso nel 2006 figura tra i fondatori dell’Agenzia Etiope per la sicurezza informatica (Insa), di cui diventa anche vice presidente. Per un periodo ricopre l’incarico di direttore ad interim.

L'ingresso in politica di Abiy Ahmed

Nel 2010 arriva un’importante svolta. Abiy Ahmed decide di lasciare l’esercito e l’agenzia Insa per dedicarsi unicamente alla politica. Punto di partenza per questa sua nuova avventura è ancora una volta l’Oromo Democratic Party (Odp). Il partito fa parte della coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (EPRDF), al potere dal rovesciamento di Menghistu e dominata al suo interno dal Tplf, il partito cioè dell’etnia tigrina.

Nell’anno in cui Abiy Ahmed decide di impegnarsi esclusivamente alla politica, viene eletto alle elezioni nazionali quale deputato del collegio di Agaro. Durante il suo primo mandato parlamentare scoppiano tensioni e scontri tra musulmani e cristiani nelle sue zone di origine. Per questo viene mandato dall’Odp a mediare. Il suo ruolo per arginare le violenze viene considerato importante. Tanto che pochi anni dopo è uno dei deputati scelti per la fondazione del Forum per il dialogo e per la pace, organismo creato proprio per dirimere le controversie tra le diverse confessioni religiose presenti in Etiopia e in particolare nello Stato di Omoria.

Nel 2015 arriva la rielezione per un secondo mandato in parlamento. In quell’anno scoppia la questione relativa ai piani urbani di sviluppo di Addis Abeba. I progetti, mandati avanti dall’allora governo guidato dal tigrino Desalegn, prevedono la costruzione di nuovi quartieri della capitale in terreni posseduti soprattutto dagli oromo.

Molti cittadini di etnia oromo scendono in piazza. Non solo c’è la questione della salvaguardia delle terre ma anche, più in generale, quella dell’emarginazione politica di cui i membri di questa etnia si sentono vittime. Abiy è tra i politici che si oppongono al progetto. Nel 2016 il governo congela i piani e per il deputato oromo arriva un’importante ventata di popolarità. Da questo momento in poi, oltre ad essere riferimento dell’Odp, Abiy viene visto come uno dei leader politici etiopi in maggiore ascesa. Per un anno diventa anche ministro della Scienza e della Tecnologia.

L'ascesa politica e la nomina a premier il 2 aprile 2018

La certificazione della sua scalata politica arriva nell’ottobre 2017, quando Abiy viene eletto segretario generale dell’Odp. Adesso è a tutti gli effetti leader del partito di cui fa parte già da quando ha 14 anni.

Il contesto politico è caratterizzato ancora una volta dalle proteste degli oromo. Il governo risponde con il pugno di ferro, arrestando molti manifestanti e in alcuni casi le violenze culminano anche con diverse vittime in piazza. Non riuscendo a far rientrare la tensione, il premier Desalegn decide a inizio 2018 di gettare la spugna e annuncia le dimissioni.

A questo punto si apre la corsa per la successione all’interno del Fronte Rivoluzionario democratico del popolo etiope. Dal 1991 in poi il leader infatti della coalizione viene per consuetudine anche nominato capo del governo. Per 27 anni questi ruoli sono spettati a membri tigrini del Tfpl. Nel 2018 ci sono oramai i presupposti per un cambio di mano. E così, spinto anche dalla popolarità acquisita negli anni precedenti, Abiy Ahmed è eletto segretario della coalizione di governo. Il 2 aprile 2018 giura formalmente come capo del nuovo governo, diventando quindi premier. È il primo cittadino oromo ad assumere questo compito.

Il premio nobel per la pace del 2019

Abiy Ahmed viene da subito visto, all’interno come all’estero, quale leader riformatore. In economia avvia alcune liberalizzazioni e spera di attrarre capitali stranieri. Dà seguito inoltre ai progetti infrastrutturali quali, tra tutti, la cosiddetta diga della rinascita. Ma all’estero la sua notorietà arriva soprattutto dalla pace con l’Eritrea. Stipulata sul finire del 2018 e firmata ufficialmente a Gedda, la fine definitiva delle ostilità con Asmara segna un punto importante nella carriera politica di Abiy Ahmed. Tanto da essere insignito, nell’anno successivo, quale vincitore del nobel per la pace. Al premier etiope viene riconosciuta buona parte del merito per il termine della guerra.

La fondazione del Partito per la Prosperità

L’ideale politico portato avanti da Abiy Ahmed è possibile tradurlo con un termine specifico, quello cioè di “etiopianismo”. Si tratta della volontà da parte del premier di rendere maggiormente centralizzato lo Stato etiope, partendo dai tratti in comune tra le varie etnie che compongono la nazione. Storia, tradizioni e appartenenza al mondo etiope sono quindi i tratti prevalenti di quella identità con la quale Ahmed vorrebbe cementificare lo Stato.

In tal modo si andrebbe a superare l’attuale impostazione basata sul federalismo etnico e sull’autonomia di cui godono tutte le principali componenti etniche e religiose dell’Etiopia. Per mandare avanti questo obiettivo il premier, in qualità anche di segretario della coalizione di governo, decide di fondare un partito unico in grado di raggruppare tutti i vari movimenti fino a quel momento federati. Abiy Ahmed nel 2019 scioglie l’Odp, passo seguito anche dai segretari degli altri partiti della coalizione. Viene data vita al partito unico denominato Partito della Prosperità. Il primo segretario della nuova formazione è lo stesso Abiy Ahmed. L’intento, da qui in avanti, è dare forma a partiti fondati su una base ideologica e non etnica.

La guerra nel Tigray

L’unico partito a tirarsi fuori dalla nuova formazione è il Tplf. I tigrini, al potere per 27 anni, non vedono di buon occhio né il Partito della Prosperità e né l’etiopianismo del premier. Inizia un braccio di ferro politico tra le due parti che culmina con le elezioni locali dell’ottobre 2020 nel Tigray, lo Stato dove vive gran parte dei tigrini e dove il Tplf è molto radicato. Il governo di Abiy Ahmed nell’estate del 2020 decide, in ragione anche dell’epidemia di Covid-19, di rinviare le consultazioni locali. Ma i dirigenti del Tplf convocano ugualmente le elezioni, vinte dal partito tigrino con una grande maggioranza.

A quel punto, il premier decide di intervenire militarmente. Per lui si presenta davanti l’occasione per sconfiggere l’ultima forza in grado di ostacolare il suo progetto politico. Il 3 novembre 2020 Abiy Ahmed dà ordine alle truppe federali di avanzare nel Tigray. A fine mese viene conquistata Makallè, capoluogo della regione.

La guerra tuttavia non volge al termine. Al contrario, il Tplf passa al contrattacco. A giugno i tigrini riprendono il capoluogo e si alleano con l’Ola, un gruppo indipendentista oromo. Nel novembre 2021 le forze ostili al governo centrale sono a 220 km da Addis Abeba. Abiy Ahmed proclama lo stato d’emergenza nazionale. La guerra ha dinamiche negative che il premier alla vigilia non si aspetta. E anche la sua reputazione internazionale rischia di essere rivista. 

·        Quei razzisti come i liberiani.

Gorge Weah ha 55 anni: dai gol e dal Pallone d’Oro con il Milan alla presidenza della Liberia. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2021. L’ex attaccante viene una infanzia poverissima: 13° figlio, con l’aiuto della nonna lui e i fratelli evitarono di finire bimbi soldato. Primi calci in Camerun, poi la Francia e la gloria con i rossoneri.

Pallone d’oro e presidente dei diamanti

Questo 1 ottobre compie 55 anni l’ex top player, oggi a capo di un Paese problematico eppure ricchissimo; di diamanti e significati geo-politici: la Liberia di George Tawlon Manneh Oppong Ousman Weah da Monrovia (classe 1966). Ieri devastante ariete (fra le altre) soprattutto di un Milan a cavallo di due cicli europei vincenti, oggi al vertice di una democrazia, come suo 25° presidente. Grafico di un’esistenza fuori dal comune — e condotta sempre al vertice — fra gli assi cartesiani del calcio internazionale e un impegno politico; ai tempi del Pallone d’Oro (1995) imprevisto e imprevedibile. Portato avanti con la veemenza di certi gol, la caparbietà radicale di chi conosce bene il proprio obiettivo: lo punta, lo afferra, ne fa storia. «King» George, quando un soprannome d’antan ha in sé il seme di un futuro destino. Sette aspetti di uomo fuori dal comune.

Una nonna (e un pallone) nel destino

Tredicesimo di tredici figli – «pa’» William e «mà» By, separati, erano spariti —; infanzia fra baracche di legno, lamiera e zanzare fra Clara Town e Gibraltar (periferie portuali di Monrovia). 14 in una stanza; caldo umido che si appiccica addosso; come il grasso degli ingranaggi di quell’Ak47 che rischia, bimbo, di ritrovarsi in mano. Come tanti (troppi) piccoli liberiani. Bambini-soldato – la metà non sanno né leggere né scrivere — arruolati in chissà quale esercito (contro)rivoluzionario. Due comete a indicargli la strada: l’amorevole nonna Emma, una palla di pezza che rotola. Sono gli anni 70, una via di fuga c’è. Sì, George supererà i 40 anni, l’età media liberiana di quegli anni... 

Radicalmente liberiano (e africano)

Al netto dei suoi remoti trascorsi calcistici liberiani, George resterà sempre profondamente «africano». A differenza di molti suoi colleghi-calciatori guarderà sempre al Paese di origine, come riferimento passato, presente e futuro. Emerso, dopo il campionato liberiano nel Mighty Barollee nell’Invincible Eleven, nel più performante massimo torneo camerunese (Tonnerre Yaoundé), comincerà a consacrarsi in Francia al Monaco (dall’88 al ‘92; 129 partite, 59 reti). In breve sarà ricco ed investirà tantissimo nel proprio Paese, fra la propria gente.

Solo gli stupidi...

«Solo gli stupidi non cambiano mai idea». George Weah era già un calciatore planetario — a metà anni 90 – quando abbracciò la fede mussulmana, aggiungendo Ousmane nel suo (già lungo) nome. Rimangono negli occhi di molti tifosi del Psg (poco prima che passasse al Milan) le immagini del campione (dal ‘92 al ‘95: 96 presenze, 32 gol a Parigi) che in campo, prima di ogni gara — in ginocchio, braccia aperte — si raccoglieva nella preghiera islamica. Poi la morte della nonna, scintilla del ritorno alla fede cristiana. E il 1995. In quel dicembre, già rossonero, France Football gli consegnerà il Pallone d’Oro. Periodo milanista (dal ‘95 al 2000 due Scudetti: 95-96 e 98-99; 147 gare, 58 reti in tutto), George si spiega alla stampa. «Non voglio far politica. Anche perché l’Africa tutta, non solo la Liberia, non ha ancora capito cos’è la democrazia. La gente della Liberia mi vuole bene, sono un simbolo di unità e voglio stare al di sopra delle fazioni». No, cambierà idea (anche la Liberia). Lui non sarà mai uno stupido.

Bizzarrie e lauree

Sfoggerà ricchezze e altruismi. Sua, in Liberia, una villa con quasi venti camere, centinaia di paia di scarpe – per un ex-bambino sempre scalzo –, abiti e decine di immobili (mai dimenticati i tetti in lamiera dell’infanzia). Dall’Africa alla Francia; dall’Italia agli Usa. E poi una laurea negli States (Gestione d’impresa alla DeVry University), un’altra – in Arte e amministrazione sportiva alla Parkwood University di Londra, accademia poi chiusa dai Federali Usa in accordo col governo britannico — che perse valore; e nel 1999 un dottorato onorario in umanità dal A.M.E. Zion University College della Liberia. Nel frattempo il matrimonio con Clar Weah, statunitense di origine giamaicana e i tre figli (George Jr., Martha e Timothy George). In viaggio alloggerà negli hotel più lussuosi, ma dormirà (quasi sempre) per terra. «Sono fatto così».

L’impegno alle urne

Chiuso col calcio, dopo le ultime residuali esperienze calcistiche anglo-francesi (Chelsea, ManCity e Marsiglia) e una passerella negli Emirati (2002, Al-Jizira), il ritiro. Per darsi alla politica: figura di riferimento nello stato fondato da ex-schiavi liberati, già nel 2005 sfiorò l’elezione a Presidente (sconfitto dall’economista Ellen Johnson Sirleaf) e divenne senatore (2014). Poi ricandidatosi alla massima carica nel 2017, dopo l’annullamento delle elezioni (per brogli), a dicembre fu regolarmente eletto Presidente della Liberia (61,5 % dei voti). In carica dal 22 gennaio 2018, dopo 12 anni di presidenza di Ellen Johnson-Sirleaf (premio Nobel per la pace e prima donna alla guida di uno stato africano).

La sua presidenza

Carica di (immancabili) polemiche e accuse la politica dell’ex attaccante, nel 1999 incoronato dall’IFFHS come «calciatore africano del secolo». Deciso, in quella estera, nel cercare partner per la sua Liberia (in particolare la Francia) e fra i paesi confinanti (Senegal). E avviluppato in una politica interna che non ha tardato a portare strascichi. Come nelle grandi manifestazioni di piazza (dal giugno ‘19), emerse dal declino economico: salari differiti, inflazione, prezzi delle materie prime alle stelle e – presunta – corruzione. Il «Weah step down campaign» (il movimento per le dimissioni di Weah) ha raccolto migliaia di adesioni; King George li ha accusati di essere uno strumento in mano alle opposizioni. Un’ennesima difesa (opposizione) da saltare, fendere, dissolvere. Come in quell’incredibile gol – il coast to coast al Verona dell’8 settembre 1996 -: 90 metri di corsa solitaria a schivare avversari e avversità. Come in una vita (di successo), intera.

·        Quei razzisti come i nigeriani.

Boko Haram ultimo atto: lo jihadismo sembra aver i giorni contati. Daniele Bellocchio su Inside Over il 15 settembre 2021. Forse la storia della ribellione islamista di Boko Haram è arrivata a un punto di svolta. La setta jihadista che dal 2009 ad oggi ha provocato oltre 350.000 morti e un esodo di 4 milioni di persone nel nord est della Nigeria e nella regione transfrontaliera del Lago Ciad, ha subito nell’ultimo mese una durissima battuta d’arresto. Stando infatti a quanto riportato dall’emittente britannica BBC, a partire da fine agosto, oltre 6mila ribelli musulmani hanno disertato consegnandosi alle autorità militari nigeriane e camerunensi. A diffondere la notizia della resa di migliaia di mujaheddin è stato il governo di Abuja che ha fatto sapere che l’avanzata delle truppe regolari nel nord ovest del Paese e la morte di una delle figure cardine della formazione jihadista, Abubakar Shekau, sono stati i principali motivi all’origine della consegna delle armi e della diserzione di un numero considerevole di ribelli islamici. “Stanno disertando a frotte. Per grazia di Dio e, con la dovuta cautela, speriamo che con questa svolta tutto finisca presto”, ha detto una fonte della sicurezza di Abuja alla testata nigeriana Vanguard. Nell’articolo della testata nigeriana ufficiali dell’esercito regolare spiegano anche che l’impiego congiunto di artiglieria e mezzi corazzati, della marina sulle acque del Lago Ciad e dell’aviazione nei cieli nigeriani sono stati i fattori principali che hanno portato alla smobilitazione in massa dei combattenti islamisti. Un successo militare che, unito ai contrasti interni alla formazione ribelle, alle faide intestine per la successione alla leadership dopo la morte di Shekau e anche a una situazione di crisi alimentare che ha travolto il Sahel e il nord est della Nigeria, ha visto sgretolarsi poco a poco, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, uno dei gruppi terroristici più feroci e spietati all’interno della galassia dello jihadismo internazionale. Da un lato la notizia dell’implosione del gruppo terrorista fa sperare la popolazione civile e, in molte città che sono state travolte negli ultimi anni dalla violenza ferina dei combattenti di Shekau, la disfatta delle bandiere nere è stata accompagnata da celebrazioni e dimostrazioni di giubilo. Parallelamente però sono sorti molti interrogativi su come affrontare questa resa di massa e quale futuro disegnare per gli ex terroristi. Per il governatore dello stato del Borno Babagana Zulum, leader di uno dei territori che negli ultimi anni sono stati maggiormente colpiti dal terrorismo di Boko Haram, la diserzione in massa dei ribelli jihadisti porta a un problema di carattere etico e morale di estremo spessore che, se non affrontato nei modi corretti, potrebbe far insorgere problematiche molto serie e gravose per il Paese. “Siamo in una situazione molto difficile perché ora ci si parano davanti due interrogativi; o intraprendere un cammino di riconciliazione e reinserimento oppure proseguire con una logica di guerra e far pagare ai terroristi arresi la propria pena per ciò che hanno fatto. È un quesito molto annoso perché o proseguiamo con la guerra oppure dobbiamo accettare nella società i combattenti jihadisti, gli stessi uomini che per 12 anni hanno ucciso la popolazione e sono stati gli assassini di uomini, donne e bambini”. Proseguendo nella sua dichiarazione alla testata nigeriana il governatore dello stato del Borno ha poi aggiunto: “Accettare i pentiti di Boko Haram ha il rischio di offendere gravemente i sentimenti delle vittime. Ma nel momento in cui i combattenti di Boko Haram disposti ad arrendersi non dovessero affrontare un percorso di reinserimento e deradicalizzazione, c’è il rischio che si uniscano all’ISWAP (la branca africana di ISIS operativa in Nigeria e nel bacino del Lago Ciad) o ad altre formazioni islamiste operative nel Sahel e la via della pace quindi si restringerebbe considerevolmente. Io al momento posso solo dire questo: possiamo perdonare ma non possiamo dimenticare”. Un aspetto importante è che la stragrande maggioranza dei combattenti che si sono arresi appartenevano all’ala di Boko Haram conosciuta come JAS, e con a capo il leader storico Abubakar Shekau. Al momento in Nigeria e nella zona di frontiera con Ciad, Camerun e Niger opera però anche l’ISWAP, un gruppo nato da Boko Haram ma che poi si è separato giurando fedeltà a Daesh e iniziando a creare un Califfato tra le sabbie saehliane. Il timore dell’esecutivo di Abuja è quindi quello che se non vengono attuate le giuste politiche di amnistia e reinserimento questi miliziani pentiti possano andare ad allargare le fila del gruppo jihadista ancora attivo o addirittura divenire una quinta colonna del Califfato all’interno della società civile nigeriana. Ad oggi la volontà del governo sembra proprio quella di sottoporre i terroristi a un percorso di deradicalizzazione e graduale inserimento nella società. InsideOver, nel 2019, aveva raccontato attraverso un reportage esclusivo come le pratiche di deradicalizzazione e accompagnamento nel tessuto sociale, in Ciad, avessero permesso poi ad ex terroristi di divenire delle figure cardine nella lotta al proselitismo e alla propaganda delle bandiere nere. Ora in Nigeria la questione è però più complessa perché il numero di pentiti è estremamente consistente, e un loro inserimento significa anche occuparsi di una loro formazione culturale e professionale, di un loro ritorno alle comunità d’origine e di un ingresso graduale anche nel mondo del lavoro. Tutte politiche che spesso non sono state attuate per le centinaia di migliaia di vittime di Boko Haram che vivono nelle tendopoli del più popoloso paese d’Africa. Il quesito in massima sintesi si riduce a questo interrogativo: ”è legittimo aiutare i carnefici quando non è stato possibile farlo con le vittime?”. Una risposta a questa domanda è difficile darla, il Paese è diviso e spaccato tra chi sostiene la politica della linea dura e chi invece predica la necessità della riconciliazione, in ogni caso la Nigeria oggi si trova ad affrontare non solo un semplice interrogativo di carattere nazionale ma una sfida globale, perché scegliere la strada giusta significa nei fatti mettere fine allo jihadismo, intraprendere un nuovo corso della storia e dimostrare che la Nigeria non sarà il nuovo Afghanistan ma una terra libera dal totalitarismo dell’odio.

Nigeria. Assalto al collegio: rapite 300 studentesse. Redazione Internet su Avvenire venerdì 26 febbraio 2021. Un drammatico copione che si ripete: uomini armati hanno fatto irruzione, nella notte, in una scuola secondaria femminile del Nord-ovest. ​Ancora un rapimento di massa da una scuola-convitto nigeriana. Uomini armati hanno rapito, nella notte, circa trecento studentesse a Zamfara, nella Nigeria nordoccidentale. Lo riferiscono i media nigeriani, spiegando che a essere stata presa di mira è la Government Secondary School di Jangebe. Uomini armati, alcuni dei quali in uniforme, avrebbero preso di mira la scuola verso l'una di notte e avrebbero prelevato le studentesse a bordo di veicoli. Confermando l'attacco in un incontro con i giornalisti, il commissario Suleiman Anka ha detto che si sta ancora verificando il numero delle studentesse rapite. Un dipendente della Government Girls Secondary School ha dichiarato a condizione di anonimato al quotidiano 'Punch' che uomini armati hanno fatto irruzione all'interno dell'istituto scolastico e rapito più di trecento studentesse. Il padre di una di loro e una professoressa hanno confermato alla Bbc lo stesso numero di studentesse prese in ostaggio. Secondo il portale di notizie Pm News Nigeria, gli assalitori hanno raggiunto la scuola dopo aver attaccato un posto di blocco dell'esercito di Abuja nella zona. Non si hanno notizie di vittime. La scorsa settimana, 42 persone sono state rapite da una scuola nello Stato nigeriano del Niger, nell'ovest. A dicembre oltre 300 ragazzi sono stati sequestrati da un istituto a Kankara, nello Stato settentrionale di Katsina, e poi rilasciati dopo una serie di negoziazioni con funzionari del governo.

Alessandro Da Rold per "La Verità" il 26 febbraio 2021. C'è un documento del 14 giugno 2018 che potrebbe mettere in serio imbarazzo il governo della Nigeria, costituitosi parte civile nel processo Opl 245, dove Eni e Shell sono accusate di corruzione internazionale. È una lettera firmata dall'ex ministro del petrolio Emmanuel Ibe Kachiwu dove si possono leggere le richieste da parte di Abuja di esercitare il diritto di «back-in right» (il diritto di rientrare con una quota dopo i rischi di esplorazione), in linea con gli accordi del 2011 stipulati proprio con le due compagnie petrolifere sotto accusa. La missiva, indirizzata a Massimo Insulla (direttore di Nigerian Agip exploration), rivela quindi che il governo nigeriano, a ben sette anni di distanza dal contratto e per di più a processo già in corso, non ravvedeva alcun problema o illecito nella condotta di Eni e Shell. I toni del ministro del Petrolio sono molto cordiali, si legge appunto che Abuja intende rispettare l'articolo 11 dell'accordo del 2011 e che soprattutto è interessata alla decisione delle compagnie petrolifere di iniziare a estrarre petrolio. In pratica i nigeriani convengono con Eni e Shell, come si dice nel gergo petrolifero, di passare dalla «oil prospecting license» alla «oil mining lease»: dopo aver trovato il petrolio bisogna iniziare a estrarlo. La lettera smentisce anche la costituzione di parte civile decisa dal governo il 5 marzo del 2018, in apertura del processo Opl 245 di fronte alla settima sezione del Tribunale di Milano. Perché chiedere i danni su una licenza di estrazione che sarebbe stata comprata grazie alla corruzione e poi invece, tre mesi dopo, riconoscere la validità del prodotto di quella stessa licenza? Per di più nella richiesta di parte civile presentata dall'avvocato Lucio Lucia si smentisce il ministro nigeriano dell'epoca, perché si sostiene che le clausole di «back-in rights» siano stata ottenute «illegittimamente» e siano persino un ostacolo per il rientro del governo. Di più, si sostiene che Eni e Shell abbiano cercato in ogni modo di escludere la Nigeria da diritti contenuti nel contratto: un'affermazione smentita dalla lettera del 2018 di Emmanuel Ibe Kachiwu. Non è l'unico dei tanti misteri che ha caratterizzato in questi anni la linea difensiva del Paese africano. Del resto nel 2017 la Nigeria non intendeva costituirsi parte civile. Poi nel 2018 cambiò idea, decidendo di affidarsi allo studio legale Johnson & Johnson, dove il titolare è lo sconosciuto Babatunde Olabode Johnson, un presunto avvocato che si fa coprire le spese legali da una società anonima, l'americana Poplar falls llc, fondata nel 2016 nel Delaware dal fondo Drumcliffe partners. Come già raccontato dalla Verità lo scorso anno, in questa ragnatela di sconosciute società si nascondono particolari molto particolari. Stando ai contratti, infatti, Poplar falls incasserà il 35% in caso di successo nella causa. Si potrebbe trattare di una cifra spropositata, perché gli avvocati che seguono la Nigeria nel processo di Milano hanno chiesto danni per 1,1 miliardi di euro. La cifra, quindi, dovrebbe toccare i 382 milioni di euro per la Poplar, a cui si aggiungerebbero anche 55 solo per Drumcliffe. Sempre stando agli accordi con Johnson & Johnson, i soldi che potrebbero arrivare in caso di condanna di Eni e Shell non andranno subito al governo di Abuja, quindi non torneranno ai cittadini nigeriani, ma rimarranno su un conto vincolato controllato da un avvocato nominato sempre da Poplar. Queste strane vicende sono da mesi all'attenzione dell'opinione pubblica nigeriana. In Italia in tanti hanno iniziato a porsi delle domande su dove voglia davvero andare a parare il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari. Del resto, il comportamento incomprensibile del 2018 negli anni successivi è proseguito. Mentre il processo continuava a celebrarsi nelle aule del Tribunale di giustizia di Milano, sempre la Nigeria - a metà 2020 - ha deciso di affidarsi a un altro studio legale di Londra, Franklin Wyatt. Quest' ultimo sarebbe stato incaricato di trovare un nuovo accordo con Eni e Shell, con l'obiettivo di evitare la data di scadenza della concessione, ovvero il maggio del 2021. Ma qualcosa è andato storto. Non a caso Eni ha deciso di avviare un arbitrato internazionale presso la Banca mondiale per dirimere la controversia sul giacimento. Il prossimo 17 marzo si aprirà la camera di consiglio sul processo. E i giudici di Milano decideranno l'innocenza o la consapevolezza delle due compagnie petrolifere come dei loro amministratori, tra cui l'attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Dopo un investimento di 2 miliardi di dollari, infatti, Eni e Shell perderanno a maggio i diritti di estrazione senza aver mai estratto una goccia di petrolio. Il governo di Abuja spera di incassare 1,1 miliardi di euro. Ma non si sa dove andranno a finire i soldi. Mentre l'indotto delle estrazioni petrolifere, 200.000 posti di lavoro e 41 miliardi di dollari in 25 anni, è andato perso. Del resto, dopo dieci anni così, quale compagnia vorrà occuparsi di Opl 245?

·        Quei razzisti come i Burkinabè.

Thomas Sankara, il Che Guevara d’Africa che voleva cambiare il suo Paese. E aspetta ancora giustizia. Rivoluzionario, carismatico, il presidente dello Stato africano fu ucciso da un commando il 15 ottobre 1987, in una congiura internazionale. Ora finalmente si apre il processo contro i suoi assassini. Giovanni Pigatto su L'Espresso il 18 maggio 2021. Rivoluzionario, ma senza l’idealismo di Che Guevara, fervente socialista, ma senza le derive staliniste o maoiste, terzomondista, ma senza mai piangersi addosso, pur da presidente di una delle Nazioni più povere e arretrate del mondo, mente libera, ma pratica e tutto fuorché utopista. Nell’Africa nera è molto difficile incontrare qualcuno che non sappia chi sia Thomas Sankara. Il presidente del Burkina Faso morto nel 1987 è diventato un simbolo grazie al suo esempio, perché ha fatto vedere al mondo che non servivano tante utopie per cambiare le cose, ma volontà, carisma e idee chiare. Per questo è stato ucciso dopo neanche quattro anni di governo, in una congiura internazionale dalle tinte fosche che proprio in queste settimane si tenta di definire grazie, finalmente, a un processo formale nei confronti dei suoi assassini, quasi trentaquattro anni dopo quel 15 ottobre 1987, «giorno in cui uccisero la felicità», come recita un documentario dedicato a questa storia. Il 12 aprile, infatti, il tribunale militare di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha aperto ufficialmente un processo nei confronti di Blaise Compaoré, il successore di Sankara alla presidenza, nonché amico e compagno di una vita, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato e complicità nell’assassinio. Un processo tardivo, ma necessario, perché attorno alla morte di Sankara non c’è solo una vendetta o la sete di potere di un compagno che diventa traditore, ma c’è un caso internazionale che ha coinvolto Stati stranieri e che si inserisce nel periodo storico dell’ultima fase della Guerra Fredda. Thomas Sankara è stato senza ombra di dubbio un personaggio diverso da tutti gli altri, e per questo difficile da inquadrare con comode etichette. Nei suoi appena quattro anni di governo intervenne in tutti gli aspetti della vita dei suoi concittadini, dimostrando una lungimiranza e una visione molto concreta: fece costruire pozzi, scuole, centri per la maternità, ospedali, farmacie, cercando però allo stesso tempo di emancipare il proprio Paese dagli aiuti internazionali che, sosteneva, altro non erano se non un nuovo controllo neocolonialista sugli Stati dell’Africa. Invitava a consumare “burkinabé”, prodotti locali, fece costruire ferrovie, formò insegnanti per abbattere il tasso altissimo di analfabetismo, fece coltivare milioni di piante per fermare la desertificazione (ogni occasione pubblica era buona per mettere un albero a dimora). Iniziò una imponente campagna vaccinale contro morbillo, meningite e febbre gialla che coinvolse volontari e militari dell’esercito, arrivando a vaccinare fino a un milione di bambini a settimana, e ora più che mai ci rendiamo conto di che numero impressionante potesse essere, a maggior ragione in condizioni difficili come quelle del Burkina Faso degli anni Ottanta. Si adoperò fin da subito per combattere la piaga della fame che colpiva la maggior parte del suo popolo e che fu il suo vero chiodo fisso, promettendo e riuscendo a garantire almeno due pasti e dieci litri di acqua al giorno per tutti i burkinabé. Quando a cavallo tra anni Settanta e Ottanta il Partito Radicale di Marco Pannella fece propria la battaglia contro la fame nel mondo, l’interlocutore simbolico e naturale divenne proprio Sankara, incontrato a Ouagadougou da Pannella e dall’allora segretario del Partito Radicale Giovanni Negri, nel marzo del 1985. Duro nei confronti dei Paesi del Nord del mondo, non ebbe mai paura di pronunciare interventi scomodi scegliendo le occasioni di maggiore portata e mediaticità. Celeberrimo il suo discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1984 in cui fece un discorso sferzante contro il neocolonialismo: «Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega di ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di vetro spesso; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi». Il discorso fu talmente dirompente e scomodo che venne presto tolto dagli archivi delle Nazioni Unite, e sopravvisse a lungo solo grazie alla registrazione audio di un giornalista burkinabé che aveva seguito il presidente a New York. Sankara ereditava un Paese poverissimo, all’entrata del deserto del Sahara, senza un accesso al mare, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, in cui si erano susseguiti uno dopo l’altro diversi colpi di Stato che di volta in volta avevano apparentemente sconvolto le istituzioni, per poi in realtà non cambiare niente per davvero. Ma il colpo di Stato del 1983, quello di Sankara e compagni, sarebbe stato profondamente diverso. Per il primo anniversario del golpe, il 4 agosto 1984, Sankara volle dare una svolta al suo Paese, a partire dagli odiosi simboli che ancora ricordavano il passato coloniale. Quel giorno sarebbe partito proprio dal nome, Alto Volta, e l’avrebbe cambiato in Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” nelle lingue dioula e mooré. Poi avrebbe annunciato che anche tutti gli altri simboli dello Stato sarebbero cambiati: la bandiera, l’inno nazionale. Il Burkina Faso era veramente uno degli Stati più poveri del mondo, senza alcuna materia prima da vendere o da sfruttare, senza il petrolio che aveva la Nigeria, senza le miniere del Mali, senza le pietre preziose del Congo, solo un vasto territorio semidesertico, terra di pastori e agricoltori che vivevano lì da secoli combattendo con le stagioni. I sette milioni di persone che ci vivevano contavano un medico ogni 50 mila abitanti, una mortalità infantile di 107 neonati ogni mille nascite, un tasso di scolarizzazione del 2 per cento, un’aspettativa di vita che sfiorava appena i 44 anni, un debito estero di oltre il 40 per cento del Pil, una desertificazione galoppante, e così via. Ma tutto questo, e tantissimo altro, venne stroncato violentemente il 15 ottobre del 1987, quando un commando di uomini armati fece irruzione nell’edificio dove Sankara stava presiedendo un consiglio dei ministri, aprì il fuoco e ammazzò il presidente insieme a una dozzina di collaboratori. Se da una parte fu chiaro fin da subito che in mezzo ci doveva essere Blaise Compaoré, l’amico e il compagno di una vita che decise di tradirlo per diventare lui presidente (cosa che puntualmente accadde), dall’altra negli anni sono emersi sospetti e accuse che hanno fatto diventare la morte di Sankara un caso internazionale che conserva ancora oggi diverse zone d’ombra. Sono molti i motivi per cui della morte di Sankara non sappiamo ancora tutto e per cui l’istituzione di un processo è arrivata così tardivamente. Prima di tutto, Blaise Compaoré riuscì a rimanere presidente del Burkina Faso fino al 2014, quando una serie di manifestazioni di protesta lo costrinsero a dimettersi e a fuggire e chiedere asilo in Costa d’Avorio, Paese del quale ha la cittadinanza per via del suo matrimonio con una ivoriana. Durante la sua presidenza, Compaoré non solo ha sempre negato la sua complicità nell’assassinio di Sankara, ma ha anche (inutilmente) tentato in tutti i modi di cancellarne la memoria, costringendo la sua famiglia a fuggire all’estero, impedendo di fatto che venissero condotte delle indagini per trovare la verità, facendo sequestrare e distruggere diversi documenti e carte di Sankara. In secondo luogo, la Francia, che aveva mantenuto (e mantiene tuttora) un certo controllo sulle sue ex colonie, possedeva nei suoi archivi sottoposti a segreto di Stato una serie di documenti riguardanti la morte di Sankara e i fatti immediatamente precedenti e immediatamente successivi. Questi documenti sono stati desecretati solo negli ultimi anni, e addirittura l’ultimo collo è stato consegnato alle autorità burkinabé solo nel marzo di quest’anno, per volontà del presidente Macron. Infine, quello che c’è dietro la morte di Sankara è oggettivamente intricato, e risalire alle responsabilità precise di ciascuno è e sarà molto complicato. Negli anni, grazie al lavoro di molti giornalisti, tra i quali è doveroso citare l’italiano Silvestro Montanaro (scomparso da poco) e il suo documentario “Ombre africane”, si è riusciti a fare un po’ di chiarezza almeno su chi fossero gli autori e gli Stati stranieri coinvolti. Una rete che parte da Oltreoceano, con un ruolo degli Stati Uniti e della Cia, coinvolge la Liberia del signore della guerra Charles Taylor, la già citata Costa d’Avorio del presidente filofrancese Félix Houphouët-Boigny, fino alla Francia, con tutti i suoi “Monsieur Afrique” usati nel tempo per mantenere i contatti politici ed economici con le ex colonie, e alla Libia di Gheddafi, allora terra di addestramento e fornitore di armi a chi volesse avventurarsi in un colpo di Stato. Questo processo ora ha tutte le carte in regola per poter proseguire e arrivare finalmente alla verità, se non alla giustizia. Verità forse tardiva, ma importante anche e soprattutto per comprendere i rapporti sovranazionali spesso tossici tra il Nord e il Sud del mondo.

Thomas Sankara: il debito è il nuovo colonialismo. Piccole Note il 13 luglio 2021 su su Il Giornale. Thomas Sankara è sconosciuto ai più, almeno per noi che riconduciamo il mondo ai nostri piccoli confini. In Africa è un eroe, un modello, un’ispirazione per tutti quelli che sognano la fine del colonialismo (o neo che è uguale) che costringe ancora tanta parte del continente a forme di schiavitù meno manifeste (sulle quali nessuna parola dei Black Lives Matters e nessun inginocchiamento). Proprio contro la più subdola e potente di queste forme di schiavitù si schierò Sankara con una lungimiranza rara, oggi forse estinta: la schiavitù del debito. L’allora presidente del Burkina Faso – che vuol dire “terra degli uomini integri”, nome che lui stesso diede al suo Paese, già Alto Volta – a metà degli anni ’80 capì con grande anticipo che la nuova schiavitù dei Paesi africani – ma non solo, visto il recente caso della Grecia – è l’accoppiata finanziamento/debito. In una drammatica sessione dell’Unione africana che si tenne ad Addis Abeba Sankarà tenne un discorso memorabile, che gli costò la vita, come d’altronde aveva profetizzato nel suo intervento, denunciando con forza il sistema del debito che i paesi occidentali usavano – e usano – per conservare controllo e supremazia sulle ex colonie. Un sistema che strangolava, e strangola, i Paesi, prosciugandone le scarne risorse ed impedendo qualunque forma di investimento e sviluppo. L’infernale circolo vizioso, infatti, fatto di interessi progressivi, rende il debito inestinguibile, tanto che ormai gli Stati che ne sono soggiogati si ritrovano a pagare gli interessi degli interessi, cumulando nuovi prestiti e nuovi cappi al collo. Sankara aveva capito bene il meccanismo, e tentò di convincere tutti i Paesi africani a combattere insieme questo meccanismo, semplicemente non pagando. Un’idea eversiva? Sul punto si può ricordare la più recente presa di posizione di Giovanni Paolo II, che in occasione del Giubileo del 2000 chiese con insistenza ai Paesi creditori di rimettere i debiti dei Paesi africani. Di seguito riportiamo passi dell’intervento.

[Sankara] “Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagarlo…perché non siamo responsabili del debito…perché gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo”. “Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato…che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali. Noi non c’entriamo nulla con quel debito né possiamo pagarlo”.

Se l’origine del debito non era imputabile agli stati africani, non lo era nemmeno il suo incremento progressivo negli anni del post-colonialismo. Infatti, non era una libera scelta dei popoli dell’Africa, ma una collusione tra governi fantoccio, mandati al potere e sostenuti dai Paesi creditori, e i “tecnici”, parola magica sotto il cui cappello è uso, ancora oggi, nascondere qualunque nefandezza. I “tecnici” ovviamente arrivavano sempre dall’Occidente.

[Sankara] “Il debito è la prosecuzione del colonialismo con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici… sono loro che ci hanno proposto i canali di finanziamento... siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50anni… Il debito, nella sua forma attuale, controllato e dominato dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a norme che ci sono completamente estranee, così che tutti noi siamo resi schiavi della finanza”.

Sankara smaschera anche il gioco della “onorabilità” del debito, perché la partita non è giocata ad armi pari. Infatti, pagare il debito, per gli Stati africani, vuol dire morire di fame, malattie, carestie e altri flagelli che la mancanza di risorse rende impossibile fronteggiare.

[Sankara] “…Rimborsare il debito…non è un problema morale…non è un problema di onore. Il debito non deve essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo in nostri finanziatori non moriranno… invece, se paghiamo, noi moriremo”.

Straordinariamente attuale anche la definizione degli schieramenti. Non è un problema tra Europa e Africa o tra Nord e Sud del mondo. È una partita che si gioca tra ricchi e poveri, tra chi sfrutta e chi è sfruttato, a Nord come a Sud.

[Sankara] “Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari africane, piuttosto quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa… dobbiamo dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato”

Thomas Sankara è coraggioso e lungimirante, ma non è affatto ingenuo e sa bene che se rimarrà solo a combattere questa battaglia, non ha alcuna speranza…

“Chi non vorrebbe che il proprio debito sia cancellato subito? Chi non lo vuole, può prendere il proprio aereo e andare subito alla Banca Mondiale a pagarlo! Lo vogliamo tutti!  La mia non è una provocazione… vorrei che la nostra conferenza possa dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non dobbiamo dirlo con spirito bellicoso, questo per evitare che ci facciano assassinare individualmente. Se sarà solo il Burkina Faso a rifiutarsi di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza, invece con il sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, potremo evitare di pagare, consacrando le nostre magre risorse al nostro sviluppo”.

L’ultima parte dell’intervento di Sankara è forse quella che scaccia i residui dubbi in chi lo voleva eliminare.  Thomas si scaglia, infatti, contro le armi e le guerre (in)civili che insanguinano il continente.

[Sankara] “Vorrei concludere dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano…perciò dobbiamo anche, nella scia della risoluzione del problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono un militare e porto un’arma, ma vorrei che ci disarmassimo… potremo fare la pace a casa nostra. Potremmo anche usare le nostre immense potenzialità per sviluppare l’Africa. Perché il nostro suolo è ricco: abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso…abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare e utilizzare la scienza e la tecnologia”..

L’appello finale per un Africa unita e pacificata suona forse un po’ utopistico, ma l’alternativa al sogno di Sankara è l’incubo irreversibile al quale era ed è consegnato il suo continente.

“Dobbiamo realizzare un fronte unito di Addis Abeba contro il debito… prendiamo la decisione di limitare la corsa agli armamenti di cui sono preda i paesi deboli e poveri… facciamo sì che il mercato africano sia il mercato degli africani: produciamo in Africa, lavoriamo i nostri prodotti in Africa, consumiamo in Africa… dobbiamo avere come orizzonte di vivere come africani: è il solo modo di vivere liberi e degni”.

Il discorso di Adis Abeba è del luglio dell’87.  Sankara sarà ucciso il15 ottobre successivo.

Thomas Sankara: il debito è il nuovo colonialismo. Piccole Note il 14 luglio 2021 su su Il Giornale. L’avventura di Thomas Sankara alla guida del Burkina Faso è durata poco più di 4 anni, ma non è stata vana utopia. Era un uomo pratico, di estrazione popolare, e sapeva quali erano le battaglie che andavano combattute per permettere ai burkinabè di provare a risollevare il paese, uno dei più poveri del mondo, con un tasso di analfabetismo altissimo, una aspettativa di vita di 40anni e lo spettro della carestia sempre alle porte.

Due pasti al giorno e acqua potabile. In due anni di lavoro riuscì ad assicurare ai 7 milioni di burkinabè  due pasti al giorno e acqua potabile, un traguardo utopistico ancora oggi per quasi tutte le nazioni africane.

Fece costruire infrastrutture di cui il Burkina Faso era quasi totalmente privo, come pozzi, scuole e ospedali e, in parallelo, cercò di affrancare il proprio paese dalla schiavitù degli aiuti internazionali sostenendo una sorta di autarchia, invitando cioè i cittadini a utilizzare i prodotti locali per favorire lo sviluppo agricolo e industriale, al quale aveva messo mano. Sapeva che il ruolo della scuola era fondamentale per lo sviluppo del Paese e si impegnò a fondo e con lungimiranza nella lotta contro l’analfabetismo, iniziando col formare una classe di insegnati. Con un singolare anticipo sui tempi, iniziò una vera e propria battaglia green, non tanto a livello ideologico, ma sul concreto, combattendo la desertificazione che stava erodendo le terre del suo Paese, piantando alberi ovunque fosse possibile. Pari fu l’impegno per promuovere imponenti campagne vaccinali contro le malattie che ogni anno chiedevano migliaia di vite alla sua gente, come il morbillo, la meningite e la febbre gialla. Straordinariamente moderno anche l’approccio alla condizione femminile a cui Sankara dedicò particolare attenzione: per la prima volta in Africa (e non solo) le donne assunsero per meriti ruoli di potere vero, nell’esercito, nella polizia e nella politica, fino ad assurgere alla dirigenza di alcuni ministeri dello Stato (e quando ancora la politica occidentale era appannaggio esclusivo degli uomini). “Dobbiamo dare un lavoro a ogni donna, dobbiamo dare alle donne i mezzi per una vita dignitosa”, diceva.

Il piccolo Burkina Faso in pochi anni era diventato non solo un Paese migliore, ma anche un esempio per altri Paesi africani. Cosa inaccettabile per i tanti ambiti di potere che avevano costruito imperi – finanziari, imprenditoriali, politici – grazie al saccheggio delle ricchezze del continente.

L’omicidio e la sua eredità. Come accennato nella nota precedente, Sankarà venne ucciso tre mesi dopo il discorso di Addis Abeba dal suo più grande amico e collaboratore, Blaise Compaoré, con l’appoggio di mercenari di quel Charles Taylor che, “evaso” da una prigione americana, approdò in Africa divenendo in breve presidente della Liberia (dove consumò varie atrocità, per le quali in seguito venne condannato a 50anni di carcere). Il bel documentario di Silvestro Montanaro “E quel giorno uccisero la felicità”, che RAI3 mandò in onda nel 2013, in orario da semi-clandestinità, narra anche delle complicità occidentali in questo tipico golpe africano, orchestrato da servizi più o meno segreti di tali Paesi. Ucciso il suo ex amico, Compaorè prese il suo posto alla presidenza del Paese e si adoperò a cancellare tutte le riforme attuate dal suo predecessore, come anche la sua memoria, arrivando al punto di distruggere più volte la sua tomba, sempre ricostruita dai tanti che non l’avevano dimenticato. Come recita la Treccani “Compaorè avviò un formale processo di democratizzazione (nel 1991 si fece eleggere alla presidenza della Repubblica, carica in cui è stato riconfermato nel 1998, nel 2005 e nel 2010). Il Burkina Faso ha avuto un periodo di stabilità politica fino allora sconosciuta, che ha consentito l’apertura agli investimenti stranieri e l’adozione di misure di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia in linea con le direttive del Fondo monetario internazionale”.  L’anomalia è rientrata e il mondo lo registra con la soddisfazione del caso. Dell’aprile di quest’anno “la notizia che un tribunale militare burkinabè processerà l’ex presidente Blaise Compaoré per l’assassinio del suo predecessore, Thomas Sankara” (Il Fatto Quotidiano). Che questo tribunale possa fare piena luce sull’assassinio di Sankara, cioè anche sulle responsabilità dell’Occidente, appare alquanto impossibile, ma va così va il mondo. “La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i burkinabé sono un po’ più felici grazie a essa: perché i burkinabé hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in buona salute, perché hanno scuole e case decenti, perché sono vestiti meglio, perché hanno diritto al tempo libero; perché hanno l’occasione di godere di più libertà, più democrazia, più dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo”.. Thomas Sankara aveva descritto così il senso della sua azione, pochi giorni prima di morire. Alla sua morte saranno resi noti tutti i suoi averi: 100 dollari e una chitarra. Nota a margine. Spesso, nel criticare la Via della Seta cinese, l’America accusa la Cina di approcciarsi ai Paesi interessati a tale progetto globale usando la trappola del debito. Esattamente quella trappola che America ed Europa hanno usato e usano per soggiogare l’Africa e altri Paesi poveri del mondo… bizzarrie della propaganda.

·        Quei razzisti come i ruandesi.

Manila Alfano per "il Giornale" il 21 settembre 2021. Considerato un eroe per il mondo, accusato di terrorismo nel suo Paese. Il Ruanda ha emesso la sentenza contro l'uomo che durante il genocidio del 1994 salvò oltre mille persone. Oggi il governo gli presenta il conto: nove capi di imputazione pendono sulla sua testa, compreso quello di «terrorismo», condannato a 25 anni di carcere. Paul Rusesabagina, è l'uomo che ha ispirato il film «Hotel Rwanda», è lo «Schindler africano», che con il suo coraggio è riuscito a mettere in salvo centinaia di persone. Rusesabagina, 67 anni, non era presente all'annuncio della sentenza, dopo aver dichiarato più volte negli anni di non aspettarsi giustizia in un processo definito una «vergogna». Le stesse organizzazioni per i diritti umani e l'opposizione al governo ruandese denunciano il processo come atto di vendetta politicamente motivato. «Non ha beneficiato di un processo equo e pertanto la sentenza è da rivedere», ha dichiarato la ministra degli Esteri belga Sophie Wilmès, secondo la quale non è stata rispettata neppure la presunzione di innocenza. Sinora è stato dichiarato colpevole di formazione di gruppo armato illegale e adesione a gruppo terroristico, ma restano sospese le accuse di omicidio, sequestro, rapina a mano armata legate a terrorismo. Paul Rusesabagina era diventato una celebrità mondiale dopo che il film di Terry George del 2004 raccontò la sua storia: nel 1994, durante il genocidio che in 100 giorni uccise più di 800.000 persone, lui riuscì a salvare più di 1.000 tutsi nascondendoli nell'hotel dove lavorava. Rusesabagina è passato negli anni da essere una figura celebrata a una contrastata dal governo, a causa delle critiche mosse al presidente Paul Kagame. Dopo l'uscita del film, ha utilizzato la sua popolarità per denunciare quelli che secondo lui erano gli abusi e le violazioni del governo di Kagame, comandante tutsi che con le sue truppe pose fine al genocidio del 1994 e che dal 2000 è il presidente del Rwanda. La sentenza è arriva oltre un anno dopo la scomparsa di Rusesabagina mentre era in visita a Dubai: l'uomo era ricomparso giorni dopo in manette in Ruanda, accusato di aver sostenuto il braccio armato della sua piattaforma politica di opposizione, il Movimento ruandese per il cambiamento democratico. Il gruppo aveva rivendicato la responsabilità di attacchi nel 2018 e 2019 nel sud del Paese, in cui erano morti nove ruandesi. Rusesabagina ha sempre dichiarato la propria innocenza, e la famiglia denuncia che fu sequestrato e riportato in Ruanda contro la sua volontà. L'ex manager e i suoi avvocati hanno boicottato le udienze da marzo, denunciando un processo «politico» reso possibile dal suo «sequestro» organizzato dalle autorità ruandesi, nonchè i maltrattamenti durante la detenzione. L'eroe di Hotel Rwanda viveva in esilio dal 1996 tra gli Stati Uniti e il Belgio, paesi da cui aveva ottenuto la cittadinanza. È stato arrestato nell'agosto 2020 in Ruanda in circostanze oscure, quando è sceso da un aereo che pensava fosse diretto in Burundi. Invece, una volta a terra, l'amara sorpresa. Dopo denunce e indignazione della stampa straniera, il governo ruandese ha dovuto ammettere di aver «facilitato il viaggio» a Kigali, ma ha affermato che l'arresto era «legale» e che «i suoi diritti non sono mai stati violati». Gli Stati Uniti, il Parlamento europeo e il Belgio di cui è cittadino hanno espresso preoccupazione. 

“Terrorista”: ecco la sentenza contro l’eroe di Hotel Rwanda. Daniele Bellocchio su Inside Over il 20 settembre 2021. A un anno dal suo arresto, Paul Rusesabagina, l’eroe del film Hotel Rwanda, è stato condannato per “terrorismo” e ora rischia il carcere a vita. Questa mattina la Corte Suprema ruandese si è pronunciata in questo modo nei confronti dell’uomo conosciuto in tutto il mondo come l’Oscar Schindler africano, per aver salvato, durante il genocidio ruandese del 1994, oltre 1200 cittadini tutsi dalle milizie genocidarie hutu. Per comprendere come si è arrivati a questa sentenza storica che fa di uno degli eroi di fine ‘900 un terrorista, e che, nel giro di poche ore dal suo pronunciamento, ha già sollevato polemiche a livello internazionale, occorre riavvolgere il rocchetto degli eventi sino al 1994 quando nel Paese delle Mille Colline si consumava uno dei crimini e delle tragedie più efferate della nostra contemporaneità. Da aprile a luglio del 1994 nel Paese dei Grandi Laghi si registrò un massacrò che vide oltre 800’000 cittadini di etnia tutsi morire sotto i colpi di machete delle milizie suprematiste hutu. In quei mesi di follia e ferocia, che sarebbero stati poi consegnati alla storia come i giorni del genocidio ruandese, Paul Rusesabagina era il manager del lussuoso Hotel delle Mille Colline a Kigali e l’uomo, di origine hutu, sfruttò la sua carica e i mezzi a sua disposizione per mettere al riparo 1.268 tutsi e hutu moderati, dalle esecuzioni sommarie e dalle barbarie che travolgevano le strade della capitale e i villaggi del Paese africano. La fine della guerra in Ruanda coincise con la presa del potere da parte del leader del Fronte Patriottico Ruandese Paul Kagame e Rusesabagina si trovò subito in contrasto con il nuovo esecutivo che accusò di metodi autoritari. Nel 1996, l’ex gestore dell’albergo delle ”Mille Colline” si trasferì prima in Belgio, dove chiese asilo politico, e poi negli USA. Nel 2004, con l’uscita nelle sale del film candidato all’Oscar “Hotel Rwanda” la storia di Rusesabagina raggiunse una notorietà di livello planetario e l’uomo ottenne nel 2005, dal presidente George W. Bush, la Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti. Dal suo esilio Rusesabagina ha sempre lanciato duri attacchi nei confronti di Kagame e del suo cerchio magico accusando l’esecutivo ruandese di aver preso una deriva autoritaria e di non rispettare la popolazione hutu. Negli anni però, alle accuse mosse da Rusesabagina, hanno fatto seguito numerosi racconti che hanno macchiato la figura di colui che era considerato uno dei massimi esponenti della difesa dei diritti umani a livello planetario. Testimonianze raccolte dalla stampa internazionale hanno ridisegnato la figura dell’ex manager dell’Hotel di Kigali dipingendolo come uno speculatore che si è arricchito chiedendo soldi e beni alle migliaia di civili che ha messo in salvo nel suo albergo. Ciò che però non è stato mai appurato è se queste fossero accuse comprovate o costruzioni fatte a tavolino dal governo di Kagame per infangare e discreditare la figura di uno dei suoi più conosciuti e autorevoli oppositori. Certo è che Rusesabagina ha proseguito la sua attività di oppositore dando vita nel 2017 al Movimento ruandese per il cambiamento democratico (Mrcd), e questa sigla si sospetta che abbia avuto anche un’ala armata, il Fronte di liberazione nazionale (Fln), resosi responsabile di alcuni attentati nel sud del Ruanda, tra il 2018 e il 2019, che hanno provocato la morte di 9 persone. Lo scontro tra Rusesabagina e Paul Kagame è proseguito con attacchi e accuse reciproche ma nessuno avrebbe mai immaginato che l’esito di questa controversia sarebbe stato quello di una condanna per terrorismo arrivata al termine di un iter giudiziario caratterizzato più da ombre che da luci e che in molti, tra editorialisti, attivisti dei diritti umani e legali, ritengono avere i connotati di una resa dei conti personale tra il governo ruandese e il suo nemico pubblico numero uno. Alla sentenza di poche ore fa si è arrivati infatti dopo un anno di accuse, incongruenze e denunce di violazioni dei diritti dell’accusato a partire dall’arresto avvenuto lo scorso agosto quando l’aereo su cui viaggiava l’ex gestore dell’albergo ruandese è atterrato in Ruanda anziché in Burundi dov’era diretto. Le dinamiche e le circostanze dell’arresto ad oggi rimangono molto caliginose così come tutto l’iter giudiziario che ha portato questa mattina l’eroe di Hotel Rwanda ad essere accusato di terrorismo. Durante questi tredici mesi di detenzione molti sono stati gli appelli fatti dalle organizzazioni umanitarie, tra cui Human Rights Watch, affinché venisse fatta chiarezza su quanto stava avvenendo nel carcere di Kigali. A Rusesabagina infatti é stato impedito di essere scarcerato sotto cauzione per motivi di salute, Vincent Lurquin, l’avvocato belga dell’imputato é stato espulso dal Paese in quanto persona non grata, é stato provato che materiale riservato, appartenente a Rusesabagina, é stato intercettato e sequestrato dalle autorità del penitenziario e inoltre ci sono stati casi di testimoni che hanno ritrattato più volte le loro deposizioni. Ma, nonostante la richiesta del parlamento europeo che venissero garantiti a Rusesabagina i diritti di un cittadino europeo, avendo lui cittadinanza belga, nonostante la mobilitazione internazionale e le richieste dei famigliari e degli attivisti dei diritti umani di fare chiarezza sui numerosi quesiti irrisolti; l’iter giudiziario é comunque proseguito e questa mattina é arrivato al suo epilogo. Rusesabagina si é presentato davanti al giudice indossando la divisa rosa dei detenuti e con le manette ai polsi e si è ritrovato alla sbarra a dover rispondere di nove capi d’accusa tra cui terrorismo, formazione di un gruppo armato illegale, rapimento, incendio doloso e omicidio. Dopo ore di attesa, il giudice Beatrice Mukamurenzi ha emesso la sentenza esprimendosi in questi termini nei riguardi dell’accusato: “Ha fondato un’organizzazione terroristica che ha attaccato il Ruanda. Ha contribuito finanziariamente alle attività terroristiche. Ha approvato disposizioni mensili di fondi per queste attività. Ha inventato un codice per nascondere queste attività”. Alla fine Rusesabagina è stato condannato per i suoi legami con il Fronte di Liberazione Nazionale ma gli avvocati della difesa hanno dichiarato che non esistono prove inconfutabili riguardo al fatto che l’organizzazione agisse come braccio armato del Movimento ruandese per il cambiamento democratico, di cui Rusesabagina era uno dei fondatori. La figlia di Rusesabagina, che ha assistito al processo in remoto da Bruxelles, sulle colonne del New York Times, ha gridato allo scandalo e alla messinscena, molti opinionisti e giornalisti hanno parlato di processo politico e una delle analisi più efficaci, sempre per il quotidiano statunitense, è stata fatta da Timothy P. Longman, professore di scienze politiche e affari internazionali alla Boston University e autore di due libri sul Ruanda. “Questo processo si inserisce all’interno di una lunga storia di repressione di qualsiasi voce di dissenso da parte del governo ruandese”. E poi il professore Longman ha proseguito dicendo: “Il verdetto nel caso Rusesabagina a questo punto è quasi irrilevante. Ciò che è stato fatto attraverso questo processo è qualcosa di molto più grande, è stato mandato un chiaro messaggio ad ogni cittadino ruandese in patria e all’estero: nessuno potrà mai sentirsi al sicuro nel momento in cui dirà qualcosa contro il presidente Kagame e il Fronte patriottico ruandese”.

·        Quei razzisti come i congolesi.

Il Congo sanguina. Daniele Bellocchio su Inside Over il 6 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio. 

“Era un uomo di grande umanità, umile e un vero amico del popolo congolese. Amava il Congo e i congolesi. Dentro di lui c’era un grande calore umano e un grande rispetto per le persone. Nutrivamo grande stima nei suoi confronti. La sua memoria resterà indelebile nei nostri cuori”. E poi: “Dalle stelle da cui ci sta guardando ora, potrà essere fiero se noi porteremo avanti i sogni per i quali è vissuto e morto”. È con queste parole che il Premio Nobel Denis Mukwege ha ricordato Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo che ha perso la vita in seguito a un attacco condotto da alcuni ribelli nella provincia congolese del Nord Kivu soltanto 9 mesi fa.

Luca Attanasio, nato a Varese nel 1977, uno dei più giovani ambasciatori italiani nel mondo, la mattina del 22 febbraio 2021 sta percorrendo la Route Nationale 2, la direttrice che mette in comunicazione Goma, il capoluogo della regione del Nord Kivu, con le aree settentrionali della provincia, per verificare la distribuzione del cibo nelle scuole di Rutshuru. Il convoglio, composto da un pick delle Nazioni Unite e da uno del World Food Programme, viaggia senza scorta, il vulcano Nyragongo troneggia all’orizzonte, la savana lentamente lascia spazio alle colline e nell’impenetrabile florilegio di piante, boschi e sterpaglie, intanto sono annidati decine di ribelli, sbandati, e disertori che nascosti nella vegetazione, pianificano attacchi, programmano sequestri, preparano le armi e passano all’azione.

All’improvviso un posto di blocco nei pressi della cittadina di Kanyamahoro. Un gruppo di uomini armati dapprima posiziona dei tronchi sulla strada, poi alza i kalashnikov, i miliziani sparano contro le macchine e uccidono l’autista Mustapha Milambo. Alcuni rangers del Parco del Virunga, insieme ad alcuni regolari dell’esercito di Kinshasa, si precipitano sulla scena dell’accaduto. L’arrivo dei militari provoca uno scontro a fuoco tra i banditi e i governativi e in pochi minuti, questioni di istanti, dalle remote regioni del Congo sopraggiunge una notizia che pietrifica il mondo intero: l’ambasciatore italiano Luca Attanasio di 43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci di 31 e l’autista Mustapha Milambo sono stati assassinati.

L’esecutivo di Kinshasa, da subito, punta il dito contro i ribelli hutu dell’FDLR, poi, in seguito alla smentita da parte dei rivoluzionari, spiega che si è trattato di un tentativo di rapimento finito drammaticamente. Il governo congolese apre un’indagine, lo stesso fanno l’UNDSS (United Nations Department of Safety and Security) e la magistratura italiana che invia sul campo un nucleo dei ROS. Ad oggi però, nonostante il lavoro degli investigatori, a una verità su quanto successo ancora non si è arrivati, tutto rimane ondivago, permeato da ipotesi, supposizioni e punti di domanda senza risposta.

L’unica certezza è quella dell’evidenza di una tragedia pubblica e privata che ha visto l’ambasciatore Attanasio, diplomatico italiano, padre di famiglia e marito, morire insieme a un militare dei Carabinieri di soli 30 anni, in quelle terre che lui amava e per le quali stava lavorando e dedicando tutta la sua professionalità.

Di nuovo Italia e Congo, due Paesi apparentemente lontani, si trovano quindi vicini, uniti nel dolore e travolti dal gorgo delle maledizioni. Perché, sempre in Congo, nel 1960, è stato assassinato dai ribelli il Viceconsole italiano Tito Spoglia e un anno dopo a Kindu, 13 aviatori italiani, che facevano parte della missione dei caschi blu, sono stati barbaramente uccisi da un gruppo di insorti.

La storia si ripete, di nuovo e, a unire Roma con Kinshasa, oggi come ieri, è un anatema, un filo rosso, sottile ma evidente, netto e tranchant; proprio come i confini del Congo, che non limitano soltanto una nazione ma sono uno scisma fisico e temporale del nostro presente, una presenza di coscienza di un mondo altro al di fuori di questo mondo nostro.

Lo spartiacque del Congo

Come si arriva a uno dei numerosi punti di frontiera che puntellano la Regione dei Grandi Laghi, immediatamente, si ha infatti la percezione di essere sospesi su uno spartiacque. Da un lato l’Africa che, uscita da conflitti e crisi umanitarie, ha intrapreso un percorso di crescita economica e sviluppo; dall’altro lato il Congo che invece travolge, investe e disorienta ancora prima che vi si acceda.

Si osservano, appena arrivati al confine, le colonne di cittadini che lasciano il Paese per cercare riparo nell’accogliente terra di Kampala. All’istante, una volta giunti alla frontiera, si viene accerchiati dal bailamme dei venditori di chincagliere e, nel momento stesso in cui ci si incammina per l’ispezione dei bagagli, si è immediatamente scrutati senza sosta dagli sguardi indagatori dei funzionari governativi. Solo dopo aver atteso, con ascetica pazienza, che i controlli doganali siano stati effettuati, ecco che la Repubblica Democratica del Congo apre le sue porte.

Pigri militari intabarrati in divise madide di sudore, nascosti in garrite e aggrappati ai loro kalashnikov, sollevano la sbarra che dà accesso al cuore dell’Africa; l’universo Congo si svela e da quel momento la terra dei minerali e della miseria endemica, dei bambini soldato e dei missionari eroi, degli stupri di guerra e del premio Nobel che lotta contro la violenza sulle donne, delle ribellioni orfane dei ribelli e dei costruttori di pace mai domi nella loro missione, travolge e trascina dentro di sé.

L’odore di carbone nell’aria, la nebbia sottile che si solleva dalle montagne, la terra nera, vulcanica, che contrasta con il verde di una natura feroce e matrigna che tutto circonda, colpiscono nell’istante stesso in cui si varca la frontiera. E sebbene siano anni ormai che ci rechiamo in questo lacerto di Africa centrale per raccontarne conflitti ed epidemie, condanne e remissioni, mai siamo riusciti ad abituarci a questo scontro frontale, a questa calata verso un precipizio di contraddizioni e di dicotomie, di tragedie e salvezze. E tra poco, di nuovo, dovremo affrontare tutto questo, perchè a breve ci recheremo per InsideOver nelle province orientali del Paese della regione dei Grandi Laghi per raccontare alcuni dei problemi più gravi e iconici della nostra contemporaneità che qui si stanno consumando lontano dai riflettori dei media internazionali: l’avanzata dello jihadismo, lo sfruttamento illegale del sottosuolo, la distruzione delle foreste e il divampare costante di nuove zoonosi.

Abbiamo deciso di tornare nell’ex colonia belga per descrivere la lotta che sta conducendo il governo di Kinshasa contro i gruppi islamisti dell’Adf, la formazione legata all’Isis che, in Congo, ha dato vita all’Iscap, la Provincia dell’Africa Centrale del Califfato. Sfruttando l’assenza di infrastrutture, la povertà assoluta, la porosità delle frontiere e la situazione di instabilità che perdura da decenni, le forze islamiste hanno avviato una guerriglia che attraverso rapimenti, massacri di civili e attacchi indiscriminati ha condannato la popolazione locale a vivere in uno stato di terrore assoluto. Nelle regioni orientali del Paese è stata proclamata a maggio dell’anno scorso la legge marziale; un estremo provvedimento adottato dal governo del presidente Thsisekedi per cercare di contrastare le milizie ribelli e porre un freno all’insicurezza che travolge la zona.

Tutte le autorità civili in Ituri e Nord Kivu sono state sostituite dalle autorità militari e proveremo a seguire quindi gli uomini dell’esercito congolese, le FARDC, nella loro guerra contro le formazioni irregolari e per la pacificazione del territorio. Non ci limiteremo a raccontare solo l’esercito di Kinshsasa ma anche il contingente di interposizione dei Caschi Blu dell’Onu che, dopo una missione decennale, probabilmente verrà smobilitato nel breve termine e quindi è quanto mai necessario ora interrogarsi e verificare, direttamente sul campo, soprattutto dopo quanto successo in Afghanistan, quali conseguenze potrebbe avere un ritiro di una forza di pace da un’area così instabile come la regione orientale del Congo. 

Nell’est del Congo non ci sono solo i gruppi islamisti, le formazioni ribelli sono più di cento e il motivo per cui questa terra è infettata da un coacervo di sigle irregolari è uno solo: la ricchezza del sottosuolo. Dal momento che non possono essere raccontati gli effetti senza prima aver analizzato le cause dei fenomeni, cercheremo di andare a descrivere l’origine della dannazione dell’est del Congo: i giacimenti minerari. Proveremo quindi a calarci nelle miniere di Rubaya dove, per una manciata di dollari al giorno, decine di uomini consumano le proprie vite estraendo quintali del minerale più prezioso che esista: il coltan.

Ribelli e regolari, materie prime e minatori, sono tutti i fattori di un’equazione che ha come risultato finale la dannazione della popolazione civile. Le genti dell’est del Congo vivono sotto assedio della guerra, delle malattie e della miseria più assoluta. Dall’inizio del 2020 i civili uccisi per mano delle milizie armate sono stati oltre 2000 e gli sfollati 2milioni, inoltre il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo. Ci spingeremo allora nei villaggi assediati e nei campi profughi per raccontare il dramma che sta travolgendo uomini, donne e bambini, e poi cercheremo di raccontare anche gli sforzi di chi sta cercando di trovare una soluzione a una tragedia che troppo spesso è stata dipinta come irrisolvibile e ontologica.

Il Congo sanguina ed è nostro dovere, in quanto giornalisti, non girarci dall’altra parte ma raccontare quanto sta avvenendo immergendoci, ancora una volta, in questa terra di estremismi e di contrasti dove se da un lato è tangibile e concreto il concetto di morte allo stesso tempo, in nessun luogo come il Congo, si può conoscere e comprendere la dimensione più alta del valore della parola vita racchiusa in storie come quella di Luca Attanasio: ambasciatore, marito, padre e per sempre, uomo di pace.

Le milizie che insanguinano la Repubblica Democratica del Congo. Lorenzo Vita su Inside Over il 7 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.

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Nel territorio più orientale della Repubblica Democratica del Congo, le milizie si muovono a decine e come schegge impazzite. Compiono rapimenti, mietono vittime, combattono tra loro e contro l’esercito, gestiscono traffici di minerali e lottano non solo per se stesse, ma anche per i Paesi limitrofi. O forse anche molto più lontani.

La morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso mentre percorreva la strada che collega Rutshuru-Goma, ha riportato tragicamente all’attenzione di molti la terribile situazione della Repubblica democratica del Congo. Un Paese in cui la parte orientale è costellata da fazioni ribelli che non sono semplici predoni o bande armate improvvisate. Tante, spiegano gli analisti, sono composte da uomini che sono militari di professione, convertiti in ribelli semplicemente per sopravvivenza o per ambire a guadagni più elevati legati al traffico di materie prime.

Un caos infernale in cui si muovono i Paesi che confinano con quell’area (in particolare Burundi, Ruanda e Uganda) e che si trovano così a poter sfruttare i gruppi ribelli per provare a espandere l’influenza su un territorio ricchissimo, che proprio per questo è condannato a subire il terrore e il sangue.

Angelo Ferrari, analista e africanista per Agi, spiega in un suo articolo che “nell’area si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani”. La formazione più nota e radicata sul territorio è quella Mayi Mayi, che raccoglie al suo interno diverse anime. Sorte come resistenza alle forze ruandesi che penetravano nelle regioni oltre il confine, le milizie hanno assunto diverse identità e obiettivi e i suoi leader sono spesso stati accusati di crimini di guerra. Il nome, spiegano gli autori del “Historical Dictionary of the Democratic Republic of the Congo” deriva da una parola Swahili che significa “acqua”. I suoi miliziani credevano infatti che attraverso alcune pratiche magiche legate all’acqua potessero salvarsi dai proiettili dei nemici. E così quel termine collegato a questi rituali propiziatori è diventato il simbolo di questa galassia di signori della guerra e miliziani che si muove nei territori orientali del Congo. Un gruppo con decine di morti sulla coscienza e con accuse che riguardano alcuni tra i più efferati delitti avvenuti nel Paese.

Non sono le uniche milizie a combattere nel Paese. Una delle più importanti – quella che Bienvenue Pombo, membro della commissione d’inchiesta per la morte di Attanasio, aveva definito a Repubblica come la milizia responsabile dell’assalto – è quella che va sotto il nome di Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr). Per la missione Monusco, l’operazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Repubblica democratica del Congo, questa forza rappresenta “il più grande gruppo armato straniero illegale” del Paese africano. Per l’Onu, non è chiaro se le Fdlr siano lì per premere sul governo del Ruanda o per rovesciare il potere prendendo il sopravvento sulla madrepatria. Quello che è certo è che migliaia di loro uomini operano nel territorio del Kivu, nei pressi del vulcano Nyiragongo, e proprio nel settore in cui Attanasio è stato tragicamente ucciso.

Un altro nome che terrorizza le aree orientali e settentrionale della Repubblica democratica del Congo è quello guidato da Joseph Kony, il  Lord’s Resistence Army (Lra), l’Esercito di resistenza del Signore. È una delle armate più inquietanti del panorama delle milizie locali. Unite da un fanatismo religioso cristiano, misticismo animista e da spirito nazionalista, gli uomini di Kony sono accusati di crimini orrendi. La Corte Penale Internazionale li ritiene colpevoli di schiavitù, rapimenti, arruolamenti di bambini e di innumerevoli omicidi. Per gli Stati Uniti sono un’organizzazione terroristica. Un’orda di centinaia di persone che ha terrorizzato tutta quella regione dell’Africa e che si è spostata dall’Uganda fino al Sud Sudan e ora in Congo. La sua forza si è ridotta nel tempo, ma questo non ha escluso attacchi e le conseguenza nefaste della sua guerra. 

Un altro gruppo che ha le sue radici in Uganda è quelle delle Allied democratic Forces (Adf), le Forze democratiche alleate. Le milizie Adf, nate nell’area del Rwenzori e guidate, come spiega sempre Ferrari su Agi, dall’ex cristiano convertito all’Islam, Jamil Mukulu, sono salafiti che vogliono imporre la più dura delle leggi islamiche in Uganda e in tutti i territori che controllano. A novembre del 2021, l’ultimo assalto è stato nel Nord Kivu, con la morte di alcuni civili e la reazione dell’esercito nazionale che ha ucciso i terroristi. Da qualche anno, spiegano gli osservatori di Africanews, alcuni attacchi da parte delle Adf sono stati rivendicati dallo Stato islamico, qui identificato come “Provincia dell’Africa centrale” (Iscap in inglese). Anche per gli analisti del Centre for Strategic and International Studies, dall’arresto di Mukulu nel 2015, “l’Adf ha rilasciato quantità crescenti di propaganda che riflette l’allineamento ideologico con lo Stato Islamico. Ciò include una maggiore attenzione agli sforzi per uccidere i civili non musulmani”. Un segnale di come l’islamismo sia esteso ormai anche in quest’area dell’Africa.

I fantasmi dell’Ebola infestano gli incubi del Congo. Federico Giuliani su Inside Over il 12 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.

L’illusione ha retto per circa cinque mesi. Sembrava che nella Repubblica Democratica del Congo Ebola fosse ormai un nemico sconfitto, un virus da relegare negli archivi della storia, una battaglia vinta da raccontare alle future generazioni. Lo scorso maggio Kinshasa annunciava la fine dell’ultima epidemia di Ebola a tre mesi dalla segnalazione di una ricomparsa del “nemico invisibile” nel Kivu Nord, a est del Paese. In una nota, l’Unicef spiegava che l’epidemia era stata contenuta grazie alla rapida risposta delle autorità congolesi, e che quella appena soffocata era la terza fiammata di Ebola nel Paese in meno di un anno.

A ottobre la realtà ha stravolto i piani di una nazione nel frattempo aggredita anche dal Sars-CoV-2. Tre nuovi casi di Ebola sono apparsi nell’est del Paese, nel distretto sanitario di Butsili, nei pressi della città di Beni, dove tra l’altro si era verificato l’ultimo focolaio estinto. I funzionari provarono a giustificare quanto accaduto ipotizzando che la riacutizzazione del virus potesse essere collegata alla massiccia epidemia che, a cavallo tra il 2018 e il 2020, aveva ucciso oltre 2.200 persone e infettate più di altre mille. Il risveglio del “fantasma” può essere stato causato da infezioni latenti che, in qualche modo, sono riuscite a resistere all’interno degli organismi dei sopravvissuti. C’era infatti stato un precedente di casi legati all’epidemia 2018-2020: era scoppiato a febbraio e, dopo esser stato contenuto a maggio, aveva causato sei vittime.

Il passato che ritorna

Inizio, fine, inizio, fine. E così fino alla prossima illusione di aver neutralizzato la minaccia Ebola. Il Congo è salito su queste montagne russe fin troppe volte, visto che ha annunciato la fine di oltre undici epidemie. Se i numeri relativi ai recenti contagi e ai decessi sono stati tutto sommato contenuti, lo si deve ai vaccini sperimentali, vero e proprio punto di svolta nel contenere più rapidamente i recenti focolai.

Intanto, l'Università di Oxford ha iniziato a reclutare volontari per uno studio di Fase 1 volto a testare un vaccino contro il virus Ebola, sia del ceppo Zaire che del ceppo Sudan, due delle specie più letali. Ma la scienza non può permettersi di perdere un istante, perché la Repubblica Democratica del Congo, nonostante abbia imparato a fare i conti con il "fantasma", si trova in una situazione delicatissima. L'area più a rischio, come detto, sembrerebbe essere quella localizzata nel nord est del Paese, già teatro di un contesto di guerra di vari focolai. Da agosto 2018 sono emersi numeri spaventosi, con oltre 2mila morti e più di 3,100 contagi. Adesso la domanda che si fanno gli esperti è una: l'ultimo focolaio è soltanto un ritorno di fiamma correlato alla precedente ondata oppure è un nuovo capitolo? 

Un nemico temibile

La febbre emorragica dell'Ebola è una delle malattie più virulente che l'essere umano conosca. I sintomi provocati da questo virus comprendono febbre, mal di testa e mal di gola. Poco dopo si scatenano dolori addominali, vomito e diarrea, seguiti talvolta da un'eruzione cutanea purpurea e singhiozzo, forse dovuto all'irritazione dei nervi che controllano il diaframma. Di solito, i sintomi più pericolosi si manifestano giorni dopo l'insorgenza della malattia, quando le cellule infettate dal virus si attaccano dentro i vasi sanguigni, provocando la fuoriuscita del sangue da naso e bocca (e non solo).

I contagiati finiscono col subire un calo della pressione sanguigna e morire a causa di choc e collasso multiplo degli organi. L'autore Richard Preston ha definito Ebola "un parassita che trasforma ogni parte del corpo in una melma digerita di particelle virali". E non c'è da sorprendersi di una descrizione del genere, visto che il tasso di mortalità di questa malattia oscilla intorno al 90%. Ebola non è contagiosa ma, allo stesso tempo, è altamente infettiva. Ecco perché il fantasma che infesta gli incubi della Repubblica Democratica del Congo è così spaventoso.

·        Quei razzisti come i sudsudanesi.

Dieci anni di Sud Sudan, storia di uno Stato fallito. Daniele Bellocchio su Inside Over il 31 ottobre 2021. Dieci anni sono passati da quando il mondo volgeva lo sguardo verso il continente africano e celebrava la nascita del Sud Sudan. L’indipendenza del nuovo Paese dell’Africa, il 9 luglio 2011, veniva festeggiata non solo a Juba e tra i confini della nazione racchiusa tra il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda e la Repubblica Centrafricana, ma anche a livello internazionale. Il mondo intero infatti vedeva nella nascita del cinquantaquattresimo stato africano la fine di una guerra che durava da decenni e di una situazione che costringeva le genti del Sud Sudan a vivere oppresse, discriminate, escluse economicamente e segregate dalla popolazione di origine araba del nord e dai vertici di Khartoum. L’autonomia e l’indipendenza sono state plaudite dai leader di tutti i Paesi del primo mondo e, da Tokyo a Washington, tutti i capi di stato si sono prodigati nel promettere aiuti e sostegni al neonato stato africano. Le parole però si sono infrante sul frangiflutti della realtà. Quello che era stato battezzato come un sogno di pace si è tramutato in breve tempo in un nuovo incubo di guerra. Sebbene la comunità internazionale si sia impegnata nel costruire le infrastrutture di un Paese che usciva frantumato da una guerra civile inclemente e feroce, ciò che non è stato fatto e non è stato considerato, è che non erano assenti solo i sistemi basici del Paese, ma persistevano a mancare le fondamenta vere e proprie della nazione: la coesione nazionale, l’unità dei leader politici, la riconciliazione sociale e l’idea di cittadinanza. Così il più giovane stato africano ha catalizzato in sé gli errori e gli orrori che dopo le indipendenze degli anni ’60 si erano verificati in molti altri paesi del continente: tribalismo, nepotismo, furto di risorse pubbliche e autoritarismo, e la violenza ha infettato in breve tempo i gangli vitali della società sud sudanese e ha trascinato il Paese, in soli tre anni, in una guerra civile che ancor oggi, nonostante siano stati firmati dei fragili accordi di pace, prosegue a intermittenza. In questi giorni in cui si dovrebbe festeggiare l’anniversario della nascita di una nazione invece si assiste con impotenza all’ennesimo fallimento di uno stato africano che ,su una popolazione di 11milioni di abitanti, ne registra 4 milioni e mezzo nei campi profughi interni e in quelli dei paesi confinanti e ad oggi, secondo il Global Crisis Severity Index, il Sud Sudan risulta essere uno dei Paesi più instabili al mondo e le prospettive di una ripresa nel futuro prossimo sono al momento intangibili. Per comprendere perché il Sud Sudan sia oggi tormentato da odio e crisi umanitarie bisogna riavvolgere il rocchetto della storia almeno sino agli anni sessanta e conoscere così alcune vicende storico e politiche e alcune parole chiave che sono determinanti per avere una visione chiara di ciò che è successo dalla metà del ‘900 sino ad oggi in questa regione africana.

La storia

Il Sud Sudan ha sempre fatto parte, sino al 2011, del Sudan, uno stato che, anche durante il periodo coloniale, ha avuto una storia alquanto travagliata e atipica rispetto agli altri paesi africani. E’ stato, questo Paese, nell’occhio di diverse potenze europee, ed, è qui, per l’esattezza a Fascioda, che si sono fronteggiati inglesi e francesi e si è rischiata una guerra aperta tra due eserciti coloniali. E’ questa terra bagnata dal Nilo ad essere stata una dei palcoscenici delle prime resistenze armate anticoloniali mosse da una forte componenti religiosa islamica, ed è sempre il Sudan ad aver avuto una forma coloniale unica essendo stato dalla fine del ‘900 sino al 1955 un protettorato anglo egiziano abitato da popolazioni islamiche e arabe nel nord e da gruppi etnici dell’Africa equatoriale e sub-sahariana nel sud.

La scoperta del petrolio

La divisione etnica e geografica ha sempre caratterizzato la storia di questa nazione tanto che già nel 1955, un anno prima dell’indipendenza del Paese, nelle regioni meridionali è nato un gruppo guerrigliero che rivendicava l’indipendenza del sud: il Movimento di resistenza del Sud Sudan (Ssrm nell’acronimo inglese). La guerra civile vera e propria però tra il nord e il sud è iniziata nel ’62 e solo nel ’69, quando i militari hanno portato al potere il colonnello Nimeiri che ha ascoltato le istanze autonomista delle genti del sud si è avuta la parvenza di una fine delle ostilità. Nel ’72 infatti, ad Addis Abeba, c’è stata la firma di un accordo di pace che ha sancito lo statuto di regione autonoma al Sud Sudan. Ma nel ’78 è successo un qualcosa che ha sparigliato le carte, ha annullato ogni accordo pregresso, ha infiammato avidità e corruzione e ha acceso gli istinti più brutali nelle leadership locali: nella regione autonoma del Sud Sudan sono stati rinvenuti giacimenti di petrolio. La scoperta dell’ oro nero ha portato il colonnello Nimeiri a imporre la sharia in tutta la nazione e a revocare l’autonomia al sud. Una decisione che ha avuto il peso di una dichiarazione di guerra e infatti nel 1983, i partigiani del Sud Sudan hanno ripreso in mano le armi e, sotto la guida di John Garan, è nato l’SPLA (Sudan People Liberation Army), ed è iniziata la seconda guerra civile. Nel 1989 il Paese è stato sconvolto da un altro colpo di stato, quello Omar El Bashir, uno dei dittatori più sanguinari della storia recente africana che rimarrà in carica per 30 anni e che proseguirà la sua guerra contro l’esercito indipendentista del sud.

Il cessate il fuoco

Una data importante, che porterà da lì a qualche anno alla separazione del Sud Sudan è il 2004 perchè il 7 gennaio di quell’anno è stato firmato un protocollo che prevedeva la divisione in parti uguali delle rendite petrolifere del Sudan (in gran parte nel sud) tra il governo di Khartoum e il Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla/m). Una stretta di mano molto significativa tanto che, l’anno dopo, il 9 gennaio del 2005, è stato siglato l’ Accordo globale di pace (Agp) tra Khartoum e l’Spla, a Nairobi, che prevedeva un cessate-il-fuoco permanente, autonomia per il sud, un governo di coalizione tra Khartoum e Spla/m, e un referendum da tenere nel sud, entro sei anni, per decidere sull’indipendenza o meno di quelle regioni. Nella parte meridionale del Paese questo accordo è stato salutato come una vittoria soprattutto perchè John Garang, il capo dei ribelli, divenuto vicepresidente del Sudan, ha concesso enorme autonomia alla sua gente. Pochi mesi dopo però, in un incidente aereo, Garang è morto e il suo posto è stato preso da Salva Kiir e gli accordi di pace sono stati sul punto di saltare e la guerra sembrava doversi infiammare di nuovo. Si sono registrati infatti scontri tra lealisti e irregolari in tutto il paese, soprattutto nelle regioni contese dei Monti Nuba, dello Stato del Blu Nile e della contea di Abey, zone ricchissime di giacimenti petroliferi. Ma la crisi umanitaria e un arbitrariato internazionale che ha stabilito a chi appartenessero i pozzi petroliferi hanno convinto le due parti a silenziare le armi e a dicembre 2009 si è arrivati all’accordo tra il governo di Khartoum e quello di Juba sul referendum per l’indipendenza del sud da tenere nel 2011.

L’indipendenza e la guerra civile

Si è arrivati quindi, nel 2011, al fatidico referendum sull’autodeterminazione del Sud Sudan, che ha visto i favorevoli all’indipendenza trionfare alle urne con il 98,83% dei voti, e il 9 luglio, è stata de facto proclamata la nascita del più giovane stato africano. E’ una vita da subito travagliata, quella del nuovo stato che, un anno dopo il referendum, ha affrontato una crisi politica ed economica con Karthoum in merito all’esportazione del greggio e i due Paesi sono stati molto vicini dall’intraprendere una guerra. Ma una volta risolta la situazione in politica estera a Juba si è assistito all’inizio di una crisi interna che non ha ancora visto la fine. Nel 2013 il presidente Salva Kiir ha sospeso dapprima il ministro delle finanze, Kosti Manibe, e il ministro per gli affari di governo, poi ha rimosso il vicepresidente, Riek Machar Teny, ha sciolto l’intero governo e licenziato tutti i ministri; poi ha dato vita a un nuovo governo con i suoi fedelissimi e ha nominato come vicepresidente James Wani Igga, ex comandante ribelle dell’Spla/m. Ma l’epurazione dei rivali politici e la deriva autoritaria di Salva Kiir non erano finite. A dicembre il Presidente ha accusato l’ex vice Machar di aver ordito un golpe, e a questo punto non c’è stato più nulla da fare: in Sud Sudan è scoppiata la guerra civile. Violenze a Juba, nelle principali città del Paese e anche nei villaggi più remoti hanno lasciato subito una scia di sangue e migliaia di morti e la guerra, che ufficialmente si protrarrà sino a febbraio 2020, ha visto contrapporsi le due principali etnie: i dinka, maggioritari, fedeli a Kiir e i nuer invece fedeli a Machar. Il bilancio finale, dopo svariati accordi di pace risultati fallimentari, sarà di 4 milioni di sud sudanesi costretti a fuggire dai propri villaggi, oltre 400mila vittime, massacri e casi di pulizia etnica, stupri di guerra e una crisi umanitaria senza pari che ha portato persino il Papa a invitare al digiuno e alla preghiera per la pace nel Paese africano. Si è dovuto attendere il 2020 prima che la guerra in Sud Sudan potesse dirsi definitivamente conclusa. A Roma il 12 Gennaio 2020, presso la Comunità di Sant’Egidio è stata firmata la “Dichiarazione di Roma”, che per la prima volta ha visto tutte le parti politiche del Paese firmare un accordo di cessate il fuoco e a febbraio una delegazione di Sant’Egidio si è recata in Sud Sudan per la firma dell’Accordo politico di Juba, frutto dell’intesa tra il presidente Kiir e il leader dell’opposizione Machar e che ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale.

Un bilancio

Nonostante gli accordi di pace, la formazione di un esecutivo transitorio e la riapertura del Parlamento la violenza non è mai del tutto finita in Sud Sudan e secondo l’ONG sud sudanese Community Empowerment Progress Organization (CEPO), tra gennaio e maggio 2021 oltre 3000 persone sono state uccise o ferite in scontri intercomunitari e ad oggi la situazione, aggravata anche dall’epidemia di Covid, rimane estremamente precaria: l’economia è criticissima, le armi continuano a circolare e le differenze etniche permangono divenendo un argine concreto a una rinascita unitaria del Paese. E sebbene dal 2013 ad oggi, molti sforzi siano stati fatti per uscire dalla crisi bellica, il Sud Sudan però se vuole cambiare rotta e, a dieci anni di distanza della sua nascita, intraprendere un percorso diverso deve ascoltare e fare tesoro delle parole di un suo illustre cittadino, Koj Madut Jok, antropologo e sottosegretario del ministro della cultura che, nel suo libro ”A Shared struggle: people and cultures of Sud Sudan”, ripreso in un editoriale della rivista Nigrizia, ha scritto queste parole per parlare di quella che è la grande piaga della sua nazione e quale deve essere la soluzione:“In questo momento, quasi tutte le questioni riguardanti la violenza di stato sono basate sull’etnia, con i gruppi minoritari che si lamentano di essere esclusi e che la loro terra è invasa. Quasi tutte le frequenti ribellioni hanno radici in risentimenti etnici o settoriali. Il Sud Sudan diventerà mai una nazione unificata, dove, ad esempio, l’appartenenza etnica non sarà più un elemento da considerare nelle interviste per un lavoro, dove non ci saranno più gruppi politico-militari fondati su base etnica, dove l’assegnazione di servizi, progetti di sviluppo, contratti pubblici non dipenderà dal gruppo etnico? Ora tutto questo è la norma e crea un contesto politico caratterizzato da sospetto e sfiducia…Se non si trova una soluzione a questa questione divisiva, la stabilità politica in Sud Sudan rimarrà con ogni probabilità un concetto vago”.

·        Quei razzisti come i giordani.

Igor Pellicciari per formiche.net il 7 aprile 2021. Due orientamenti opposti regolano una delle questioni più dibattute nelle scienze sociali, ovvero il rapporto ideale auspicabile tra ricercatore e oggetto di studio. Uno prescrive che egli mantenga un distacco da ciò che osserva per evitare che un coinvolgimento emotivo finisca con il falsarne percezione e conclusioni. L’altro suggerisce al contrario che egli si cali quanto più possibile nella realtà studiata per poterne cogliere il senso che altrimenti faticherebbe a comprendere da estraneo. Nell’appello del 14 marzo scorso a sostenere il modello giordano sviluppammo considerazioni oggettive di politica internazionale, seppure mossi nell’occasione da una esperienza soggettiva (lo svolgere un incarico diplomatico presso il Regno Hashemita di Giordania). A meno di un mese di distanza, un commento sull’ “attentato alla stabilità del paese” (nelle parole del vice-premier e ministro degli affari esteri Ayman Safadi)  non può prescindere da entrambe queste prospettive: quella del ricercatore distaccato e quella del diplomatico coinvolto. Fatta questa doverosa premessa, su quanto accaduto (e trapelato) si possono per ora avanzare alcune osservazioni sia di politica internazionale che interna. La prima è che l’immediata ed enorme eco mondiale suscitata dalle notizie provenienti dalla Giordania è forse la migliore conferma di quella esponenziale crescita di centralità vissuta dal Paese negli ultimi due decenni, amplificata dall’essere rimasto l’unico stabile dell’area medio-orientale. La seconda è che forse è in questa stessa importanza che vanno cercati sia gli elementi ispiratori del tentativo di sovvertire l’ordine ad Amman, sia i motivi del suo fallimento. La stabilità giordana ha radicalmente trasformato il Paese, storicamente povero di risorse naturali, aumentandone attrattività geo-politica ed economica. Da semplice territorio di sfogo “temporaneo” della questione palestinese in attesa di una improbabile soluzione, la Giordania è diventata crocevia degli equilibri di tutto il Medio-Oriente, arrivando ad influenzare anche quelli del Golfo. La cosa iniziò a delinearsi con la guerra in Iraq quando il Paese divenne per anni base logistica prima e poi sempre più centro di orientamento strategico delle principali operazioni multilaterali e bilaterali su Baghdad. La cui presenza si è istituzionalizzata con l’aggiungersi di attività qui decentrate dalla Siria, Yemen, Libano. Di pari passo, Amman è diventata nuova cassaforte per ingentissimi capitali in fuga dai ricordati scenari in crisi. In una parte minore essi sono stati investiti nel Paese (in particolare nell’immobiliare ad opera di gruppi libanesi come la famiglia Hariri) mentre per il resto hanno creato una ricchezza finanziaria di rendita, parcheggiata in attesa di tempi migliori. Per inciso, come in tutti gli scenari con un eccesso di stranieri stanziali di lungo periodo (profughi e operatori internazionali), essa ha drogato un’economia locale fatta di servizi che ha aumentato costi, diseguaglianze sociali, corruzione e malcontento nella popolazione locale. Con la Giordania nuovo centro di interesse politico-finanziario non è da escludere che l’idea di un cambio di leadership nel Paese sia partita da fuori, da una delle potenze regionali dell’area. Tuttavia, la stabilità di Amman è oramai questione che va oltre i confini del Medio Oriente o del Golfo e coinvolge i principali attori internazionali del momento. Il suo mantenimento è uno dei pochi punti su cui, nel corrente dis-ordine mondiale, concordano all’unisono Stati Uniti, Russia, Cina. Considerando il loro forte dispiegamento di intelligence in Giordania (senza dimenticare quella di Israele, che vi ha un’importante presenza diplomatica) si può ipotizzare che da questi ambienti sia partito in anticipo un avvertimento indirizzato al Mukhabarat locale, la cui proverbiale formazione professionale ha beneficiato negli anni dalla stretta collaborazione con lo stesso Mossad. Una considerazione finale riguarda invece lo sviluppo che ha preso il sistema politico-costituzionale giordano durante il regno di Re Abdallah II. E porta ad ipotizzare che, anche qualora non sventato dai servizi, il complotto ad Amman comunque non sarebbe andato a buon fine. Divenuto Sovrano a sorpresa nel 1999 e sconosciuto ai più, Re Abdallah fu accolto da commenti scettici sulla possibile durata del suo Regno. Alcuni osservatori internazionali ne paragonarono la posizione all’ultimo Scià di Persia, Reza Pahlavi: debole nel carisma, quasi assoluto nelle prerogative sovrane. In due decenni il Re ha chiaramente sovvertito le aspettative e di fatto invertito il punto di partenza iniziale. Da un lato è riuscito a diventare figura carismatica e popolare anche per avere mantenuto viva la sua vocazione militare che lo ha portato ad essere leader riconosciuto dell’esercito, che rimane insieme all’intelligence uno dei capisaldi della stabilità interna giordana. Dall’altro, la monarchia si è costituzionalizzata in senso parlamentare con un progressivo aumento del legame fiduciario dell’esecutivo rispetto al legislativo e una minore invadenza arbitraria nell’azione di governo sul piano interno da parte del Sovrano, rimasto ad occuparsi in prima persona della cruciale politica estera iniziata dal padre Re Hussein. Con la parlamentarizzazione della vita politica e una definizione costituzionale più chiara delle prerogative del Sovrano, inevitabilmente hanno perso di importanza ed incidenza i profili e gli eventuali disegni politici dei restanti membri della famiglia reale. Relegati da tempo a ruoli marginali, essi hanno scarsa presa in quelle forze armate fedeli direttamente al Sovrano, in quanto credibile e riconosciuta autorità militare. Non a caso, sventata la crisi, Re Abdallah ha dichiarato di volere risolvere la questione con il Principe Hamzeh “all’interno della famiglia”. Come a dire, il Regno è superiore a tutto.

Giordania, l'audio del principe Hamzeh alla guida delle tribù contro re Abdullah. Il capo di Stato maggiore spiega al principe che viene arrestato per gli incontri con persone "che hanno parlato troppo..." Chiara Clausi - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. La saga della casa reale giordana riserva ogni giorno colpi di scena. Tanto che ieri Amman ha imposto il divieto di pubblicare qualsiasi cosa riguardasse il caso del principe Hamzeh bin Hussein, accusato di ordire un colpo di stato contro il fratellastro, il re Abdullah II. L'ordine arriva il giorno dopo che l'ex erede al trono aveva firmato una dichiarazione in cui riaffermava la sua fedeltà al monarca. «Per assicurare il rispetto della segretezza delle indagini dei servizi di sicurezza sul principe Hamzeh e altri soggetti, è stato deciso di vietare la pubblicazione di qualsiasi cosa relativa all'indagine in questa fase», ha spiegato alla televisione il magistrato Hassan al-Abdallat. I trasgressori saranno sottoposti a sanzioni penali. Ma la disposizione difficilmente fermerà le continue fughe di notizie. Ieri è emerso un nuovo audio. È la registrazione dell'incontro fra il principe Hamzeh e il capo di Stato maggiore dell'esercito, Yousef Huneiti. L'audio è circolato poco dopo che il palazzo e un mediatore vicino al principe Hamzeh hanno riferito che era in corso una trattativa. Nella registrazione si sente il capo dell'esercito dire che il principe viene punito per incontri avuti con persone che «hanno cominciato a parlare più di quanto avrebbero dovuto». Hamzeh ha criticato apertamente le politiche del governo e ha stretto legami con potenti leader tribali, in una mossa considerata una minaccia al re. Ma il principe nel corso della conversazione si infuria e alza la voce arrabbiato contro Huneiti: «Vieni da me e mi dici a casa mia cosa fare e chi incontrare nel mio Paese, chi del mio popolo? Mi stai minacciando?». E ancora: «La cattiva performance dello Stato è a causa mia? Perdonami ma gli errori sono colpa mia?». Il generale Huneiti, parlando con voce calma, nega di averlo minacciato e dice che sta semplicemente consegnando un messaggio da parte di capi dell'intelligence, ma Hamzeh gli grida addosso e gli chiede di andare via. Nessun accenno al coinvolgimento nella vicenda di potenze straniere. La registrazione trapelata è arrivata il giorno dopo che il principe ha firmato una lettera rilasciata dalla corte reale. «Gli interessi della patria devono rimanere al di sopra di ogni altra cosa, e dobbiamo tutti sostenere sua maestà il re e i suoi sforzi per proteggere la Giordania e i suoi interessi nazionali», diceva Hamzeh nella lettera dattiloscritta firmata in presenza del principe Hassan, lo zio utilizzato per mediare il conflitto. Hamzeh è molto temuto dalla corte perché ha un seguito nel Paese, per la sua sorprendente somiglianza con suo padre, il defunto re Hussein. I video del principe sono spesso condivisi quando il malcontento bolle nel regno e molti in più occasioni lo hanno invocato per salvare la nazione. Ma ora anche le potenze della regione iniziano a muoversi. Lunedì c'è stata una visita non programmata in Giordania da parte di una delegazione saudita di alto rango, guidata dal ministro degli Esteri Faisal bin Farhan al-Saud. Riad ha offerto il suo «pieno sostegno al re Abdallah II» e i funzionari sauditi hanno chiesto il rilascio di Bassem Awadullah, un personaggio di spicco arrestato sabato. Awadullah è un ex consigliere supremo del re e ha servito come inviato speciale del monarca in Arabia Saudita, che gli ha concesso la cittadinanza. Anche se la Giordania ha solo circa 10 milioni di abitanti, ha un'importanza strategica enorme in una regione turbolenta. Confina con Israele e la Cisgiordania, la Siria, l'Irak e l'Arabia Saudita, ospita truppe statunitensi e milioni di palestinesi e oltre mezzo milione di rifugiati siriani. «Questo è solo l'inizio di una crisi e non la fine», ha detto il capo dell'istituto di ricerca Phenix Center for Economic and Informatics di Amman.

Il Regno hashemita. Intrigo in Giordania, 20 arresti per presunto golpe: coinvolto il principe Hamza, fratellastro del re. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Complotto di portata e interesse internazionale in Giordania. Un’ondata di arresti. Giro di vite si potrebbe dire se non si susseguissero in queste ore ipotesi, dichiarazioni, smentite, trame ancora oscure. Ci sarebbe dietro un colpo di stato ai danni del re Abdallah II. E quindi una ventina di arresti tra alti dignitari del regno. Il nome che fa scalpore è quello di Hamzah bin Hussein, fratellastro del monarca. Il principe ha mandato un video alla BBC affermando di essere stato costretto agli arresti domiciliari. “Ho avuto una visita del capo di stato maggiore delle forze armate giordane che mi ha informato che non mi era permesso uscire, comunicare o incontrare persone perché durante incontri a cui avevo partecipato – o sui social o durante visite da me compiute – erano state espresse critiche al governo o al re “. E quindi ha aggiunto di non essere stato accusato direttamente di aver espresso delle critiche. “Non sono responsabile del crollo della governance, della corruzione e dell’incompetenza che è stata prevalente nella nostra struttura di governo negli ultimi 15-20 anni e che ora sta peggiorando. E non sono responsabile neanche della mancanza di fiducia che le persone hanno nelle istituzioni. Si è raggiunto un punto in cui nessuno è in grado di parlare o esprimere opinioni su qualsiasi cosa senza essere vittima di bullismo, arrestato, molestato e minacciato”. La tesi del complotto contro il re è stata subito riportata dal Washington Post che ha parlato con fonti dell’intelligence. Il capo di stato maggiore giordano, generale Yousef al Huneiti, ha fatto sapere che ad Hamzah è stato intimato di astenersi da spostamenti e da altre attività che potrebbero essere sfruttate per destabilizzare il regno hashemita. Amman ha negato ufficialmente gli arresti domiciliari di Hamzah. Gli altri venti dignitari sono stati motivati per ragioni “di sicurezza”. Hamzah, ex principe ereditario, è stato privato del titolo nel 2004. È figlio di re Hussein e di Noor, quarta moglie di origini americane. È cresciuto con dodici tra fratelli e fratellastri. Il suo titolo è stato conferito a Hussein, primogenito di Abdallah II e della regina Rania. Ha denunciato che il suo telefono e internet gli sono stati interrotti. La dichiarazione alla Bbc sarebbe arrivata attraverso l’avvocato. L’intrigo di palazzo o il presunto tale è quindi al momento ancora un enigma. Il palazzo di Abdallah II è protetto da mezzi blindati e militari. La Giordania è un Paese fondamentale per la nuova amministrazione americana del presidente Joe Biden. Un Paese fondamentale negli equilibri della Regione. Sulla monarchia preme la crisi economica, peggiorata dalla pandemia da coronavirus, e le pressioni affinché il re riveda l’accordo di pace firmato con Israele ventisette anni fa.

Lo scontro tra il re Abdallah II e il principe Hamzah bin Hussein. Giordania, il golpe fallito e lo zio a fare da mediatore nella sfida tra fratellastri. Redazione su Il Riformista il 5 aprile 2021. La pace, almeno apparante, dopo il tentativo di golpe avvenuto in Giordania. Il principe Hamzah bin Hussein ha promesso di “restare fedele” al re Abdallah II, suo fratellastro. “Resterò fedele all’eredità dei miei antenati, a Sua Maestà (il re) e al suo principe ereditario e mi metterò a loro disposizione”, ha scritto il principe in una lettera, secondo una nota di palazzo reale. Dal canto suo, il re di Giordania ha deciso di risolvere i dissidi con il fratellastro ed ex principe ereditario Hamzah all’interno della famiglia e ha affidato il compito di mediare a suo zio, il principe Hassan. Lo ha annunciato la Corte reale, secondo quanto riportano i media locali. “Alla luce della decisione del re Abdullah II di affrontare la questione del principe Hamzah nell’ambito della famiglia hashemita, sua Maestà ha affidato il compito a suo zio, il principe Al Hassan”, ha detto la Corte in un comunicato pubblicato su Twitter. La tensione in Giordania è salita alle stelle dopo l’arresto di almeno 16 persone, tra cui il principe Hamzah, accusate di aver cospirato per destabilizzare il Paese insieme al principe Hamzah bin Hussein, fratellastro del re Abdallah II. Lo stesso principe è intervenuto nelle scorse ore affermando di aver ricevuto dall’esercito “ordini inaccettabili” a cui non obbedirà. “Il capo di stato maggiore dell’esercito è venuto da me e ha lanciato minacce a nome dei capi delle agenzie di sicurezza”, ha detto Hamzah in una registrazione circolata online, “Ho registrato i suoi commenti e li ho inviati ai miei conoscenti all’estero e alla mia famiglia nel caso in cui accadesse qualcosa”. “Non voglio un’escalation ora”, ha poi assicurato il fratellastro del re ma, ha aggiunto, “ovviamente non mi atterrò” agli ordini di “non uscire, twittare o entrare in contatto con le persone”. “E’ inaccettabile che un capo di stato maggiore dell’esercito dica questo”, ha aggiunto. Le autorità giordane hanno riferito domenica di aver sventato un “complotto” di Hamzah per destabilizzare il regno con il sostegno straniero. Il principe ha negato di aver preso parte a qualsiasi cospirazione e ha affermato di essere stato preso di mira per essersi espresso contro la corruzione e il malgoverno. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha riferito che nell’ambito dell’operazione sono stati arrestati dai 14 ai 16 associati di Hamzah, oltre a Bassem Awadallah, ex ministro di gabinetto e un tempo capo della corte reale, e Sharif Hassan bin Zaid, un membro della famiglia reale. Il capo della diplomazia non ha però fornito ulteriori dettagli sul presunto complotto. Abdullah e Hamzah sono entrambi figli del defunto re Hussein, che, a due decenni dalla morte, resta una figura amata nel Paese. Dopo essere salito al trono nel 1999, Abdullah ha nominato Hamzah principe ereditario, ma gli ha poi revocato il titolo cinque anni dopo. In this Monday, April 2, 2001 file photo, Jordan’s King Abdullah II laughs with his brother Prince Hamzah, right, shortly before the Jordanian monarch embarked on a tour of the United States. Prince Hamza said he has been placed under house arrest. in a videotaped statement late Saturday, April 3, 2021. Il rapporto tra i due è stato descritto generalmente come buono ma Hamzah a volte si è espresso contro le politiche del governo e più recentemente ha stretto legami con potenti leader tribali, una mossa che è stata avvertita come una minaccia per il re. Le potenze occidentali e i Paesi arabi si sono schierati tutti al fianco di Abdallah, il che riflette l’importanza strategica del Paese nella regione. L’appoggio al re è arrivato da Usa, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Israele e anche dall’Unione europea. “L’Ue sostiene pienamente il re Abdallah II e il suo ruolo di moderatore nella regione”, ha scritto su Twitter Nabila Massrali, portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas). La stabilità di Amman è da tempo sotto osservazione nella regione, soprattutto da quando l’amministrazione Trump si è schierata con forza con Israele, mettendo all’angolo i palestinesi, molti dei quali sono ospitati dalla Giordania che è custode dei luoghi sacri a Gerusalemme. Dopo la pace del 1994, tra Israele e Giordania in anni recenti ci sono stati momenti di tensione, proprio in relazione alla questione palestinese.

Barak Ravid per axios.com il 5 aprile 2021. Un uomo d'affari israeliano ha contattato l'ex principe ereditario giordano Hamzah bin Hussein sabato e ha proposto di inviare un jet privato per portare la moglie e i figli in Europa. L'intrigo: Il governo giordano sostiene che l’israeliano abbia legami con l'agenzia di spionaggio del Mossad, mentre l'uomo d'affari sottolinea di essere solo un amico del principe. Perché è importante: Il governo giordano sostiene che il principe Hamzah e i suoi associati abbiano cospirato contro il re Abdullah insieme ad alcune persone straniere. I presunti collegamenti con Israele e il Mossad sono molto efficadi dal punto di vista comunicativo per la campagna del governo giordano contro il principe Hamzah, visto che l’opinione pubblica giordana non vede di buon occhio lo stato ebraico. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha detto in una conferenza stampa domenica che una persona con collegamenti con un servizio di sicurezza straniero ha avvicinato la moglie del principe Hamzah e si è offerta di organizzare un jet privato per scortare lei e la sua famiglia in un paese straniero. Diverse ore più tardi l'agenzia di stampa giordana "Ammon", vicina ai servizi di sicurezza giordani, ha pubblicato il nome di un presunto ex ufficiale del Mossad, Roy Shaposhnik. Shaposhnik mi ha contattato e ha rilasciato una dichiarazione che nega quanto affermato dal governo giordano sul suo coinvolgimento nel presunto colpo di stato. Mi ha detto di non essere mai stato un ufficiale del Mossad, ma ha confermato di aver proposto assistenza al principe Hamza e alla sua famiglia come parte della loro amicizia. Cosa dice Shaposhnik: "Sono un israeliano che vive in Europa. Non ho mai lavorato nei servizi segreti israeliani. Non ho alcuna conoscenza degli eventi che hanno avuto luogo in Giordania o delle persone coinvolte. Sono uno stretto amico personale del principe Hamzah". Ha aggiunto che voleva solo aiutare la moglie del principe e i loro figli in questo momento difficile. Tra le righe: Shaposhnik, 41 anni, 15 anni fa faceva parte del partito centrista Kadima in Israele, ed è stato consigliere dell'allora primo ministro Ehud Olmert. Più tardi è passato al settore privato e ha lavorato per una società di sicurezza, che fa capo all’uomo d’affari americano Erik Prince. Dopo diversi anni ha fondato la propria azienda, RS Logistical Solutions, che lavora con il Dipartimento di Stato americano e altri governi in tutto il mondo. La società di Shaposhnik ha anche fornito servizi logistici alla società di Prince mentre addestrava i soldati iracheni in Giordania. Fu allora che incontrò il principe Hamzah attraverso un amico comune. I due e le loro famiglie divennero amici intimi. Una fonte che ha familiarità con la questione mi ha detto che Shaposhnik ha inviato subito un messaggio di testo alla moglie del principe Hamzah e ha proposto di inviare un jet a prendere lei e i loro figli fino a quando la situazione non si sarà chiarita.

Da allora, Shaposhnik non ha avuto alcun contatto con il principe Hamzah e la sua famiglia, che sono agli arresti domiciliari e senza possibilità di comunicare con il mondo esterno, ha detto la fonte.

·        Quei razzisti come gli israeliani.

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 23 dicembre 2021. I capelli sempre impomatati, il sorriso lucido quanto quel ciuffo pettinato all'indietro. Gli israeliani hanno imparato negli ultimi cinque anni a conoscere il volto e gli atteggiamenti di questa ex spia che di anni ne ha compiuti 60 a settembre. Dei predecessori sapevano a mala pena il nome e fino al 1996 neppure quello, il capo dell'Istituto veniva identificato con l'iniziale. A Yossi Cohen una semplice Y non sarebbe bastata. Anche prima di concludere il mandato da direttore del Mossad ha voluto costruirsi un profilo pubblico, riflettori accesi sull'ombra in cui l'organizzazione incaricata delle operazioni esterne cerca sempre di muoversi.

Quando nel 2018 Benjamin Netanyahu - allora primo ministro, ha considerato Cohen un possibile successore alla guida della destra - annuncia che gli agenti segreti sono riusciti a recuperare i dossier del programma nucleare iraniano, ai reporter arriva la conferma da fonti anonime che il blitz dentro a Teheran sia stato pilotato in diretta da Cohen stesso (la fonte anonima secondo tutti).

Ormai in pensione (dallo scorso giugno) è sempre lui a divulgare altri dettagli su quel raid durante un'intervista televisiva: la squadra - dice - era composta da 007 che parlavano diverse lingue straniere; l'archivio era nascosto in una zona industriale e a un certo punto le guardie e gli operai iraniani hanno cominciato ad arrivare mentre gli operativi stavano scassinando («non è che puoi saltare dall'altra parte del muro e scappare»).

Sceglie un paragone hollywoodiano: «Lo stile è alla Ocean's Eleven con George Clooney, fiamma ossidrica per aprire la cassaforte». Avrebbe spiattellato ancora di più a quella che il programma investigativo del Canale 13 sostiene essere stata la sua amante, una relazione iniziata nel 2018 quando Cohen era il boss delle spie israeliane.

I due si sarebbero conosciuti sull'aereo dove la donna lavorava come assistente di volo e di altri viaggi in giro per il mondo - che però avrebbero dovuto rimanere clandestini - Yossi si sarebbe vantato con lei e con il marito. Che ha deciso di rivelare la vicenda al giornalista Raviv Drucker in una lunga confessione trasmessa l'altra sera.

Ha spiegato di aver conosciuto Cohen attraverso la moglie, di averci cenato. «È un chiacchierone - dice Guy Shiker, noto nell'ambiente finanziario - e una volta ha raccontato che il Mossad controllava il medico personale di un leader arabo. Oppure di come avesse dovuto travestirsi da guida turistica per una missione. Si vantava del suo stile manageriale, che diventato direttore aveva cacciato sei capi divisione perché non gli erano leali».

Shiker ha scritto sulla sua pagina Facebook di essere andato in tv per proteggere i due figli (Cohen ne ha quattro): «Il prezzo del silenzio è sempre più caro». L'ex 007 smentisce e la donna ha cercato di fermare la messa in onda attraverso un intervento del giudice: i suoi avvocati negano «la relazione con Cohen o che lui abbia parlato di azioni segrete alla coppia». Sostengono «che il matrimonio non è finito a causa di Cohen come dichiarato da Shiker, la nostra cliente aveva presentato la domanda di divorzio già nel 2016». L'inchiesta di Drucker rivela anche che Cohen avrebbe sfruttato la posizione al Mossad per raccogliere informazioni sul marito e che lo stesso Shiker lo avrebbe sollecitato ad assumere la sua assistente personale offrendole un posto nella stazione dell'agenzia a Bangkok. La richiesta sarebbe stata accolta. 

Israele, sei ong "umanitarie" sotto indagine per terrorismo. Fiamma Nirenstein il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le organizzazioni, finanziate da Onu e Ue, sono il volto presentabile del Fronte popolare di liberazione palestinese. La disputa in atto dovrebbe far tremare tutto il mondo: tu chiamalo terrorismo, io lo chiamo organizzazione per i diritti umani, e lo finanzio coi nostri soldi. Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha collocato sei fra le maggiori organizzazioni non governative palestinesi nella lista delle organizzazioni terroriste. Questo significa che i loro traffici bancari e i movimenti dei loro leader e affiliati sono adesso sotto controllo. Le informazioni: molto accurate. L'accusa è servire da mano pubblica all'organizzazione terrorista Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Fplp, fornendole un'identità ibrida, e rastrellare così consenso e denaro dall'Onu e dall'Unione europea. Questi soldi alimentano, secondo Gantz, il fiume di sangue; le organizzazioni accusano Israele di persecuzione e rivendicano un ruolo caritativo. Certo, anche gli Hezbollah, Hamas, i talebani si prendono cura di bambini, vedove, vecchi. Così sorride il professor Gerald Steinberg, che con costanza ha indagato il tema col suo Ngo Monitor. Sul sito troviamo tutti i particolari: «Dieci anni fa presentammo i risultati all'Unione europea, la Mogherini ci disse che le prove non bastavano». E oggi il Dipartimento di Stato Americano, protesta di non essere stato informato. Israele nega l'accusa. Le organizzazione nella lista terrorista sono: Adameer, Al Haq, Bisan, Difesa dei bambini-Palestina (Dci-P) Unione delle donne (Upwc); Unione degli Agricoltori (Uawc). Il punto di partenza è l'Fplp, un vulcano di attività terrorista, che ha ucciso il ministro israeliano Rehavam Ze'evi nel 2001, ha compiuto sei attacchi suicidi nell'Intifada con 13 vittime, tre al mercato a Gerusalemme; ha tentato di uccidere il rabbino capo Ovadya Yossef; ha ucciso a colpi d'ascia cinque persone alla sinagoga Har Nof nel 2014. Terribile anche l'assassinio della 17enne Rina Shnerb nell'agosto del 2019, in cui il padre e il fraatello vennero feriti. Gli assassini sono parte dell'organizzazione degli agricoltori, finanziata dall'UE. L'Fplp, paleomarxista, radicata a Ramallah, in competizione con Fatah che non osa metterla ai margini, è stata, come spiega bene Steinberg, capace di mettere in piedi, priva dei finanziamenti di Abu Mazen, una rete autonoma di organizzazioni non governative che l'alimenta autolegittimandosi. Così che i documenti provano, dice Steinberg, con le foto, che i diplomatici in visita dei vari Paesi, di fatto si incontrano con leader del Fplp. Un paradosso per cui negli ultimi dieci anni gli sono stati dati dall'Europa circa 200 milioni euro del contribuente, sostiene Steinberg. Il direttore amministrativo degli «agricoltori» è stato arrestato, e così anche il contabile, per bombe, attentati, reclutamento di terroristi. Hashem Abu Maria, il leader dell'organizzazione per i bambini, è morto in uno scontro a fuoco con l'esercito, il presidente dell'asseblea dei soci è stato direttore della rivista dell'Fpl. Questa organizzazione è finanziata anche direttamente dall'Italia. Le leader dell'Unione femminile sono quasi tutte membri dei comitato centrale e del direttivo dell'Fplp; il Centro palestinese per i diritti umani, già nella lista, ha un vicepresidente che è stato capo dell'ala militare dell'Fplp di Gaza, condannato all'ergastolo: Al Haq ha un direttore, Shawan Jabarin, che fu accusato di reclutare e organizzare il training dei membri del Fplp. L'Italia finanzia direttamente anche al Haq. La lista è lunga, ma parla chiaro: ammantarsi di diritti umani è un'abitudine consolidata per chi vuole distruggere Israele, e il cinismo della politica internazionale fa finta di non capire, anzi, aiuta questo sistema. Per cui il diritto va in polvere, la vittima diventa persecutore, il terrorista che ignora ogni principio democratico diventa il protagonista dell'era delle organizzazioni non governative.Fiamma Nirenstein

(ANSA il 18 settembre 2021) - E' stato un robot killer capace di sparare 600 colpi al minuto e operato da remoto via satellite dagli israeliani ad uccidere lo scorso novembre lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh alla periferia di Teheran. Lo scrive il New York Times rivelando i retroscena dell'operazione, in parte già trapelati all'indomani dell'attacco. Il robot è come un tiratore scelto ad alta tecnologia, equipaggiato con intelligenza artificiale e occhi a più telecamere. Una macchina da guerra che va ad arricchire l'arsenale delle armi ad alta tecnologia per eliminare target remoti. Col vantaggio che, a differenza di un drone, non attira l'attenzione nel cielo e può essere collocato ovunque: caratteristiche, sottolinea il Nyt, che probabilmente cambieranno il mondo della sicurezza e dello spionaggio. 

Da open.online il 10 ottobre 2021. Enrico Michetti torna sulle polemiche scoppiate ieri per un suo vecchio articolo sulla Shoah. «Nonostante abbia con fermezza condannato ogni forma di discriminazione razziale, anche in tempi non sospetti, ed in primis quella rappresentata dalla Shoah, mi rendo conto che in quell’articolo ho utilizzato con imperdonabile leggerezza dei termini che alimentano ancora oggi storici pregiudizi e ignobili luoghi comuni nei confronti del popolo ebraico», ha dichiarato il candidato sindaco di Roma. «Per questo mi scuso sinceramente per aver ferito i sentimenti della comunità ebraica, che come tutti gli italiani apprezzo e ritengo parte perfettamente ed orgogliosamente integrata della città di Roma da sempre e nel Paese tutto». Nell’articolo finito al centro delle polemiche, Michetti scriveva: «Ogni anno si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah, viaggi della memoria, iniziative culturali di ogni genere nel ricordo di quell’orrenda persecuzione. E sin qui nulla quaestio, ci mancherebbe. Ma mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta».

The Believer (film). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. The Believer è un film del 2001, diretto da Henry Bean e scritto con la collaborazione di Mark Jacobson. Tratta da un'opera teatrale scritta dallo stesso Bean, la pellicola narra fatti biografici e vicende personali ispirati alla vita di Daniel Burros, membro attivo dell'American Nazi Party, antisemita convinto seppure sia stato circonciso e cresciuto secondo le tradizioni ebraiche della famiglia.

Trama. The Believer è la storia di Daniel Balint, un giovane skinhead neonazista di periferia. Fin dall'inizio mostra il suo sentimento riguardo al concetto di razza: sceso da un bus insieme a un ebreo aspetta di avvicinarlo in una strada isolata per colpirlo con calci e pugni. La sera stessa partecipa a un raduno di militanti nazisti, che sembrano voler parlare della sola politica e del concetto di nazione e identità: infatti, non appena Daniel si intromette parlando delle leggi razziali naziste e dell'idea di razza pura, nessuno gli dà credito, ma riuscirà comunque ad aprire un lungo discorso che colpirà il capo della riunione, Curtis Zampf. Facendosi strada nel mondo del neofascismo e del neonazismo si convince di uccidere Ilior Manzetti, un ebreo bulgaro direttore di una banca d'investimento. Per fare ciò occorre tempo e denaro, e di questo si occupa Curtis, il quale comunque mostra timore nel farsi avanti politicamente con un omicidio. Dopo essere uscito dalla casa di Curtis, Danny si ritrova con alcuni suoi amici neonazisti e con loro fa a botte contro tre neri che li avevano importunati in una strada di New York. Entrambe le parti vengono incarcerate, ma Danny e i suoi amici vengono liberati sotto cauzione pagata da Carla, un'amica di Curtis. Per tutto il film è ricorrente una scena d'infanzia di Daniel: ancora piccolo in una classe di una scuola ebraica, comincia una lunga conversazione con il professore di religione su Abramo, sul peccato originale e sui problemi dell'ebraismo e del "popolo eletto", fino a quando scappa di classe correndo per le scale scendendo i piani. Daniel viene contattato da un giornalista del New York Times - che si era in precedenza inserito sotto mentite spoglie nel circolo dei seguaci di Curtis - e una mattina lo incontra in un ristorante. Con lui apre un lungo discorso sul sionismo, gli ebrei e la sessualità, un possibile complotto ebraico (dal controllo dei media, alla finanza), ma durante l'intervista il giornalista fa capire di essere molto arguto dal momento che, informandosi sul passato di Danny, è venuto a scoprire che da piccolo è stato istruito in una scuola ebraica arrivando a celebrare il bar mitzvah. La cosa fa innervosire Danny a tal punto che tira fuori una pistola minacciando il giornalista di uccidersi se avesse pubblicato l'articolo sul quotidiano. Su invito di Curtis, Daniel, insieme al suo amico Billings, si reca presso un campo di skin neonazisti per adempiere a ciò che ha promesso, cioè uccidere Manzetti, e nel frattempo imparare il più possibile del nazismo e del problema ebraico. Ma è proprio durante questo periodo di addestramento che la banda di neonazisti viene portata in tribunale da due ristoratori ebrei che sono stati da loro picchiati. Il giudice dà ai ragazzi due possibilità: passare un mese in carcere o partecipare a una seduta con sopravvissuti all'Olocausto. Durante la seduta, i ragazzi scherniscono e insultano i partecipanti all'incontro. Uno dei presenti ricorda un episodio di crudeltà che ha vissuto durante la guerra: suo figlio, a soli tre anni, è stato ucciso da un soldato tedesco sotto i suoi occhi. Daniel è disgustato dal fatto che il sopravvissuto non avesse avuto la forza di reagire e, quando gli anziani presenti gli rispondono che lui stesso non si sarebbe comportato diversamente, decide di lasciare l'incontro: l'episodio diventerà un pensiero ricorrente per il protagonista, che immagina di riviverlo dapprima nel ruolo del soldato e successivamente nel ruolo dell'ebreo, in un futile tentativo di resistenza. Daniel, insieme ai nuovi amici, organizza un attentato dinamitardo nella sinagoga principale della città piazzando una bomba sotto il pulpito, programmandola per l'esplosione alcuni giorni dopo la celebrazione religiosa. Tuttavia la bomba non esplode, probabilmente a causa di un difetto nell'alimentazione del detonatore. Danny, nel frattempo, si muove per fare un passo avanti e viene coinvolto da Drake nel tentato omicidio di Manzetti. Appostati fra i cespugli di notte, Drake e Daniel attendono che Manzetti esca da un edificio dove ha tenuto una conferenza: Daniel mira, spara ma sbaglia, forse di proposito. Ciò fa infuriare Drake che crede che lo abbia fatto apposta e si rende conto che il suo camerata in realtà è ebreo, cosa che sospettava da tempo: ne nasce una lite durante la quale Daniel spara a Drake prima che lui faccia altrettanto e scappa via convinto che Drake sia morto. Curtis apre un'associazione fascista alla luce del sole e incarica Danny di farsi carico della raccolta fondi. Le prime conferenze di Daniel sembrano un successo ma dato che, oltre ai militanti, servono anche i soldi per la retta e l'affitto, Daniel si muove anche in questa direzione. Durante un colloquio con un bancario circa la donazione di quest'ultimo nasce un diverbio durante il quale Daniel accusa il potenziale finanziatore di essere un ebreo. La vita di Daniel si fa sempre più complicata, stretta tra l'antisemitismo e la sua riscoperta della religione ebraica, che avviene a seguito dell'incontro con ex compagni di scuola, ormai adulti, che frequentano la sinagoga. Anche Carla, la ragazza di cui Daniel si è invaghito, si appassiona allo studio dell'ebraico e dell'ebraismo, apparentemente al fine di conoscere il nemico. A tal proposito, resasi conto che Daniel legge e parla l'ebraico, si fa insegnare questa lingua e insieme leggono passi della Torah; addirittura Carla arriva a partecipare a incontri in sinagoga. I due hanno anche una discussione su come il Dio degli ebrei sia essenzialmente indefinibile e distante dagli uomini. Daniel sembra ritrovare l'identità ebraica persa, ma, mentre partecipa a una preghiera insieme a dei vecchi amici, litiga con un vecchio compagno di scuola, Avi, circa il sionismo e il nazismo, che Danny pone sullo stesso livello, ovvero ideologie razziste. Su queste parole scatta la rissa con Avi e Daniel viene accompagnato fuori dall'edificio. La sera stessa, Daniel tiene un discorso con personalità importanti impegnate nel neofascismo a New York su invito di Curtis ma, durante il discorso, invita i presenti ad amare gli ebrei in quanto ritiene che questo sia l'unico modo per distruggere un popolo che con l'odio si rafforza. Il messaggio non viene colto e quando Daniel inizia a cantare una preghiera in ebraico viene allontanato dalla moglie di Curtis, infuriata per l'atteggiamento tenuto da Danny. Tuttavia Daniel, ancora preso dal proposito di uccidere un ebreo, mette una bomba nella sinagoga, proprio sotto il pulpito e la programma per le 19:30 del giorno seguente, orario in cui si svolgerà la funzione del Yom Kippur. La mattina del giorno dell'esplosione, al telegiornale viene data la notizia dell'omicidio di Manzetti: anche se tutti credono sia stato Daniel, in verità il responsabile è Drake, fortunosamente sopravvissuto al colpo di fucile. La sera del fatidico attentato il protagonista viene colpito dal rimorso, soprattutto perché alla preghiera vi sono alcuni suoi amici cari: di conseguenza, dopo essersi sostituito al lettore ufficiale dell'orazione, avverte tutti di fuggire il prima possibile dalla sinagoga. Solo lui rimane all'interno aspettando l'esplosione per liberarsi di quella vita oramai diventata un tormento. Prima di morire ha nuovamente la visione ricorrente di lui alla scuola ebraica: questa volta però Daniel si vede adulto. Il professore desidera continuare il discorso su Isacco che, dice, potrebbe essere morto e risorto nel nuovo mondo. Simbolicamente, Danny lo ignora e continua testardamente a salire le scale, trovando solo infinite altre scale, altri pianerottoli e lo stesso insegnante che lo invita a desistere poiché "non c'è niente lassù".

Film The Believer: frasi

Danny Balint (Ryan Gosling):

"Prendi le più grandi menti ebree: Marx, Freud, Einstein. Che cosa ci hanno dato? Il comunismo, la sessualità infantile e la bomba atomica!" 

"Il nulla senza fine..." 

"Danny, dove stai andando? Lo sai che non c'è niente lassù!"

The Believer, il coraggio delle riflessioni scomode. Di Riccardo Rosati su Ereticamente il 21 luglio 2015. I “Protocolli dei Savi di Sion”, apparsi all’inizio del secolo scorso, sono stati oggetto di vari studi e critiche, e sono ormai chiaramente giudicati un falso in chiave antisemita, redatto dalla polizia segreta russa tra il 1903 e il 1905. Ciò malgrado, il punto non è questo, ovvero quello della non autenticità di tali scritti, ma è un altro: benché falsi, alcune delle teorie in essi contenute sono da considerarsi plausibili? Per giunta, esse si sono poi attuate nel tempo e hanno una qualche logica di base nello scenario politico internazionale? Piuttosto che subire sempre la “fobia antisemita”, la quale impedisce oggi di criticare qualsiasi ebreo che possa addirittura aver commesso dei reati, senza venir immancabilmente bollati come “antisemiti” – pensiamo all’entourage di Dominique Strauss-Kahn che ha accusato il film di Abel Ferrara “Welcome to New York” (2004), ispirato alle note vicende dell’uomo d’affari francese di religione ebraica, di essere antisemita – dovremmo ragionare su alcune evidenti influenze della finanza e intellighenzia ebraiche sul mondo occidentale. Ci sarebbe poi la necessità di fare dei distinguo tra “antisemitismo” e “antisionismo”, che non sono affatto la stessa cosa. Per far ciò, ci vorrebbe ben più spazio di quello messo a nostra disposizione. Purtuttavia, anni fa uscì in America un film che con immenso coraggio ebbe modo di raccontare una storia realmente accaduta e che dovrebbe farci riconsiderare la melassa buonista in cui siamo impantanati da anni e che ha fatto degli ebrei una comunità praticamente di intoccabili. La storia di cui andremo a parlare è realmente accaduta e, proprio in virtù di ciò, ci permettere di “parlare”, senza essere messi subito a tacere, poiché determinati membri delle nostre società non si possono più nemmeno criticare. “The Believer”(2001) è un film diretto da Henry Bean e scritto con la collaborazione di Mark Jacobson. La pellicola narra i fatti biografici di Daniel Burros (1937 – 1965), membro attivo dell’American Nazi Party, antisemita di primo piano nel suo Paese. Due fatti in questa storia lasciano davvero senza parole: 1) Non si tratta dello sfogo razzista di qualche folle sceneggiatore, bensì di una storia vera. 2) Il protagonista – Danny è stupendamente interpretato da Ryan Gosling – è un nazista ebreo. “Il mondo moderno è una invenzione ebraica”, questa è in sintesi la essenza del pensiero di Danny. Certo, il tutto sa molto di complottismo mondiale, lo stesso che spinse alla creazione dei sopracitati “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciononostante, la storia raccontata nel film di Bean non si perde affatto nel più becero antisemitismo, anzi, ogni concetto viene affrontato in modo talmente profondo, anticonvenzionale, che durante la visione della pellicola si resta in più occasioni interdetti, con un tarlo che monta nella forma della seguente domanda: “Forse ci hanno mentito su molte cose?”. Sia ben chiaro che le riflessioni di Danny non si esauriscono in un insopportabile negazionismo sulla Shoah! Esse intaccano invece efficacemente dei precetti culturali che sono ormai Legge! “Perché così tanti ebrei comunisti?”. Ecco una altra domanda che esce prepotentemente fuori nel film. Non possiamo certo negare questo dato, come il fatto che poi il marxismo sia penetrato nei gangli della società occidentale, alterandone almeno in parte l’identità. Quello che Danny contesta, e la fa con un eloquio raffinato, mai volgare, è la “cultura del pianto” che ha permesso a una minoranza, come quella ebraica, di ottenere un potere sovente superiore a quello della stessa maggioranza. Economia, stampa, università, difficile contestare come la influenza di molte figure di spicco in questi campi e, di conseguenza, sulla vita e il modo di pensare occidentali siano state e sono tutt’ora degli ebrei. Strano no? O vogliamo forse credere alla baggianata che gli ebrei sono più intelligenti? Sarebbe razzismo al contrario. Non ci risulta che Bernini o Pirandello fossero di confessione giudaica. Il personaggio di Danny è davvero “malevolmente” seducente, esercitando una attrattiva tipica di quelle intelligenze scomode, le quali hanno il brutto vizio di dire quelle verità che nessuno vuole sentire. Egli sa bene di cosa parla, avendo frequentato da bambino una scuola ebraica, dove però litigava con i suoi insegnanti, poiché si permetteva di mettere in discussione i dogmi della Fede, che nell’Ebraismo sono ben più consolidati che nel Cristianesimo di oggi. Egli si mostra palesemente come una persona erudita, che ama leggere, quanto fare a pugni. Il suo spessore intellettuale si nota, ad esempio, in una delle scene iniziali, quando presenzia a un incontro politico in un salotto di destra. Qui, ha un fitto scambio di vedute con Curtis, il quale ha una visione assai meno estremista della sua. La loro sofisticata polemica permette inoltre di mettere in evidenza le chiare differenze ideologiche tra una interpretazione fascista e una nazista della società. Colpisce la lucida, quanto fredda, capacità di analisi politica del protagonista, che lo spinge a dire frasi del tipo: “La Germania una altra volta, ma fatto per bene”. Sempre in questa scena, Curtis, che nella trama gioca talvolta la parte dell’antagonista politico di Danny, sottolinea un concetto di grande importanza, definendo quello che lui chiama: “Errore americano”, riferito alla ostilità mostrata verso il fascismo dalla società statunitense dal Secondo Dopoguerra in poi. Trattasi di una assoluta verità, anzi potremmo persino spingerci oltre, sostenendo come la cultura ufficiale americana, nelle università, nei libri e nei film, abbia persino manipolato il concetto stesso di fascismo, descrivendolo come la origine di ogni sistema totalitario, negandone qualsiasi lato positivo, e proponendone una lettura talmente artefatta da farlo diventare col tempo sinonimo di “nazismo”; quando basta avere una discreta e onesta conoscenza dei fatti per sapere che vi erano enormi differenze tra i due regimi. Strano è comunque che in tutta la storia non venga mai pronunciato il nome di Mussolini. L’espressione “ebreo che odia se stesso” è usata per indicare una persona di religione ebraica che nutre pensieri antisemiti. Essa è apparsa per la prima volta nel libro “Der Jüdische Selbsthass” (“L’odio di sé ebraico”, 1930) del filosofo tedesco ed ebreo Theodor Lessing. Solitamente questa scottante e assai poco nota tematica è legata alla critica al sionismo, la quale ha avuto dei sostenitori persino all’interno della stessa comunità ebraica internazionale. Va de sé, che si è sempre trattato di una minoranza intellettuale, ma è una realtà che va in ogni modo conosciuta, studiata e compresa: cosa spinge un ebreo a considerare la propria cultura come nociva per il mondo? Ci vorrebbero vari dottissimi libri, e non certo un semplice articolo, per cercare di abbozzare almeno una risposta a un quesito tanto complesso e scomodo. Una cosa però la possiamo dire, ovvero che la storia raccontata in “The Believer” può senz’altro fornire un valido aiuto per cercare le risposte a un problema che sembra quasi paradossale, ma che se poi ci si addentra nella questione, proprio così folle non è: Daniel Burros è esistito veramente, aveva idee politiche ben precise e, alla fine, non potendo in alcun modo conciliarle con la sua origine ebraica si è tolto la vita, come del resto fa anche il protagonista del film. “The Believer” potrebbe ricordare un altro ottimo titolo, forse però non così riuscito come quello di Bean. Ci riferiamo a “American History X” (1998) di Tony Kaye. Siamo sempre in quella America degradata dove cova una destra nazista che si nutre del disagio sociale dei bianchi più poveri. Tuttavia, il protagonista Derek (Edward Norton) se la prende principalmente con i neri e non è certo intellettualmente paragonabile a Danny, giacché quest’ultimo è veramente una “mente autodidatta” e decisamente più colto di Derek. Per non parlare poi del finale, assai più lieto che in “The Believer”, ma non avrebbe potuto essere differentemente, visto che il conflitto insanabile tra fede e politica in Danny poteva solo che risolversi col suo totale annientamento. Il film di cui abbiamo parlato, e del quale consigliamo spassionatamente la visione a quelle persone che nutrono un necessario dubbio, in una società dove la menzogna è la unica regola, è politicamente notevole; forse uno dei migliori di sempre da questo punto di vista. Trattasi di una storia che riecheggia involontariamente “Il mito del sangue” (1942) di Julius Evola, con tutte le scomodissime argomentazioni sulla razza che ne conseguono. Come quello del grande filosofo italiano, il ragionamento che presenta questa pellicola non è fazioso, bensì coraggioso! Una qualità, il coraggio, assai rara di questi tempi. Lo scrittore americano Ray Bradbury ebbe modo di dichiarare in una intervista a Herman Harvey del 1962: “I giornali sono il boccone di

traverso della nostra epoca”; parole degne di una grande penna come era lui. Proprio alla stregua delle sue spesso impopolari dichiarazioni a giornali e quotidiani (pubblicate di recente: Ray Bradbury, “Siamo noi i marziani. Interviste [1948-2010)]”, a cura di Gianfranco de Turris e Tania Di Bernardo, Bietti, 2014), “The Believer” è un film che spinge, anzi, potremmo dire persino impone una riflessione, politica, ma anche teologica, adempiendo a una delle due funzioni principali della Settima Arte: da una parte intrattenere, dall’altra far pensare. Daniel Burros è stato un uomo in carne ed ossa, un attivista politico di un certo peso. Ragion per cui, i soliti benpensanti del progresso non se la possono cavare, liquidando il tutto con la, ormai, solita incontrastabile parola: “razzismo”. Noi ci offriamo, da intellettuali e studiosi di cinema, di sostenere il peso pure delle riflessioni più scomode: cosa spinge un ebreo a odiare se stesso? Se all’ascolto c’è ancora qualche – come diceva Italo Calvino – Uomo di Coscienza, allora magari si potrà condividere questo peso assieme. Pubblicato da Ereticamente il 21 Luglio 2015

The Believer, il più bel film sull’antisemitismo, fra polemica e profondità. Roberto Zadik su mosaico-cem.it il 26 Gennaio 2016. In questo periodo di Giornata della Memoria, di riflussi tremendi di antisemitismo, di antisionismo e di aggressività di vario tipo, mi sembrava doveroso ripescare in questo mio blog un bel film come “The believer”. Uscito 15 anni fa sugli schermi italiani, chiacchieratissimo e criticato negli Usa e qui cestinato nel dimenticatoio dopo il solito “botto” iniziale, questa pellicola è davvero originale per tanti motivi e malgrado sia uscita diversi anni fa, ero un baldo giovane di 25 anni quando l’ho visto, merita di essere riesumato dal solaio. In questo mio blog dedicato a cinema, musica e cultura del mondo ebraico contemporaneo non parlo solo di film nuovi ma mi piace ogni tanto ripescare prodotti notevoli anche se di un po’ di tempo fa. Per quale motivo “The Believer è un film importante? Innanzitutto perché ha lanciato il bravissimo attore mormone canadese Ryan Gosling, (trucido e affascinante Scorpione ascendente Pesci, 35 anni, esploso anni dopo con lenta e scivolosa scalata e ora famoso per film come “Drive” e “La grande scommessa” di recentissima produzione. Poi perché questa pellicola americana, che nel cast oltre allo straordinario Gosling vede altri due solidi attori come Billy Zane, sconosciutissima star del film “Titanic” e Theresa Russell, non parla al passato, con storie di Shoah, di ricordi, di anni ’30 e ’40, ma dell’antisemitismo oggi  attraverso la crisi esistenziale e identitaria profondissima del protagonista ebreo Daniel Balint che diventa uno spietato e sarcastico naziskin influenzato dai suoi amici e dalla sua ragazza che invece si avvicinerà all’ebraismo.

Una storia fortissima che incatena lo spettatore e lo ammalia grazie a un ritmo da film d’azione, merito del bravo regista Henry Bean, (strano nome che può tradursi come “Enrico Fagiolo” e poi sparito come fugace lampo) e a dialoghi affilati, azzeccati e molto ben confezionati. Com’è possibile essere ebreo e al tempo stesso antisemita? Da dove deriva l’antisemitismo e quali sono i suoi stereotipi e le sue subdole trappole? Sebbene molti spettatori e critici attaccarono il film, accanto ai tanti elogi, definendolo “esagerato” o “paradossale” questo lungometraggio premiato a vari prestigiosi festival si ispira, invece, alla storia vera dell’ebreo Daniel Burros che divenne naziskin. Sono passati quindici anni dal film che in certi passaggi ricorda un altro bel lavoro come “Talk Radio” di Oliver Stone ma Gosling e il regista sono più profondi, emotivi e esistenziali e l’America rappresentata è diversa, non quella ottimista e anni ’80 del film di Stone ma gli Usa violenti, cupi e feriti e insospettabilmente razzisti degli anni 2000. Diverse scene sono memorabili, dall’aggressione del crudele Balint diventato naziskin all’indifeso seminarista ebreo che apre in maniera angosciante la pellicola, che rappresenta la crudeltà di attaccare verbalmente e fisicamente persone indifese solo perché “diverse”, situazione che tristemente si è ripresentata più volte nelle recenti cronache di antisemitismo e di violenza europea e mondiale. I ricordi di Balint quando nella scuola ebraica poneva domande scomode e imbarazzanti al suo insegnante di Torah che rispecchiano i dubbi di tanti laici e il dissidio laici-religiosi molto vivo nell’ebraismo contemporaneo. L’intervista del giornalista del New York Times anche lui ebreo come Balint che rimane sconvolto nell’ascoltare i discorsi deliranti e gelidamente articolati del ragazzo mentre sciorina i soliti stereotipi antisemiti con inquietante rabbia. Dallo strapotere degli ebrei nei media, alla mentalità manipolatrice e attaccata al denaro, al fatto che “gli ebrei sono tutto astrazione e diverse idee contorte dalla psicanalisi, al comunismo sono colpa loro” come dice Balint. Gosling è veramente eccezionale e all’epoca aveva solo 22 anni nell’impersonare un personaggio tanto fragile e crudele come Balint che rappresenta un certo “odio di sè” ebraico del mondo ashkenazita, seppure all’estremo, l’assimilazione e l’influenzabilità, la confusione e il senso di disorientamento che molti ebrei della mia generazione e più giovani spesso vivono nei tempi odierni circondati da sentimenti ambigui, da compagnie sbagliate, indecisi su valori e convinzioni e immersi in questo clima che oscilla fra tolleranza e diffidenza. Molto accurata nel film anche la rappresentazione della Sinagoga, i dialoghi sullo Shabbat, sulla kasherut, coinvolgenti le liti su sionismo, nazismo, antisemitismo e le discussioni di Balint coi sopravvissuti alla Shoah. Il rabbioso protagonista contesta tutto e vorrebbe credere, da lì il titolo “The Believer” (Il credente), che si oppone e aggredisce perché si sente ferito, che parla preoccupato di assimilazione, che si commuove quando ascolta i racconti delle vittime dei lager e si innervosisce con loro perchè non hanno reagito alle barbarie subite. Per questi dialoghi e situazioni, per i sentimenti che è in grado di risvegliare e le riflessioni che questa stimolante pellicola suscita, “The Believer” è più di un semplice film che si avvale della sceneggiatura del bravo giornalista Mark Jacobson e della sensibilità del regista Henry Bean e dalla travolgente espressività di Gosling. Molto utile e educativo, sebbene decisamente provocatorio, scomodo e a tratti polemico, come “Arancia Meccanica” di Kubrick che creò al regista diversi problemi, il film è complesso e va filtrato dal buon senso data la forza delle sue immagini e dei contenuti e posso capire che tanti ne siano rimasti perplessi e spiazzati. Del resto l’originalità in questa epoca di banalità e di conformismo, di filmetti commerciali e “facili” è un dono preziosissimo e com’è giusto che sia il film si rivela spiazzante e splendido per forza narrativa e emotiva. Magistrale anche la scena finale dove Balint cerca di far saltare la Sinagoga ma alla fine si suicida e torna a litigare col suo professore di Torah in cerca del senso della sua esistenza. 

IL FILO A PIOMBO DELLE SCIENZE. A volte la gente non vuole ascoltare la verità perché non vuole vedere le proprie illusioni distrutte. Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità. (Friedrich Wilhelm Nietzsche)

THE BELIEVER su perpendiculum.blogspot.com mercoledì 3 ottobre 2018.

Lingua originale: Inglese, ebraico

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Anno: 2001

Durata: 102 min (secondo altri 98 min)

Dati tecnici: Colore e B/N

Rapporto: 1.66: 1

Genere: Drammatico

Regia: Henry Bean

Soggetto: Henry Bean, Mark Jacobson

Sceneggiatura: Henry Bean

Produttore: Susan Hoffman, Christopher Roberts

Produttore esecutivo: Daniel Diamond, Jay

    Firestone, Adam Haight, Eric Sandys

Casa di produzione: Fuller Films, Seven Arts

    Pictures

Fotografia: Jim Denault

Montaggio: Mayin Lo, Lee Percy

Effetti speciali: Drew Jiritano, Thomas Viviano,

    Andrew Mortelliti, Andrea Swistak

Musiche: Joel Diamond

Scenografia: Susan Block

Costumi: Alex Alvarez, Jennifer Newman

Trucco: Renee Di Dio, Renee Von Maluski, Angela

     Gallagher, Seth Lombardi

Interpreti e personaggi

    Ryan Gosling: Danny Balint

    Billy Zane: Curtis Zampf

    Theresa Russell: Lina Moebius

    Summer Phoenix: Carla Moebius

    Heather Goldenhersh: Linda

    A.D. Miles: Guy Danielsen

    Natasha Leggero: Valerie

    Joshua Harto: Kyle

    Elizabeth Reaser: Miriam

    Glenn Fitzgerald: Drake

    Sacha Knopf: Cindy Pomerantz

    Henry Bean: Ilio Manzetti

    Jordan Lage: Roger Brand

    Ebon Moss-Bachrach: Priaty

Doppiatori italiani

    Massimiliano Manfredi: Danny Balint

    Massimo De Ambrosis: Curtis Zampf

    Isabella Pasanisi: Lina Moebius

    Barbara De Bortoli: Carla Moebius

Budget: 1,5 milioni di dollari

Incassi al botteghino: 1,3 milioni di dollari, di cui:

    USA: 416.925 dollari

    Italia: 56.786 dollari

    Francia: 56.493 dollari

    Messico: 35.204 dollari

    Spagna: 743.908 dollari

    (Fonte: Box Office Mojo)

Riconoscimenti:   2001 – Courmayeur Noir in festival

    Premio Leone Nero al miglior film

  2001 – Festival cinematografico internazionale di Mosca

    San Giorgio d'oro

  2001 – Sundance Film Festival

     Gran Premio della Giuria 

Trama: Daniel "Danny" Balint è un neonazista suburbano, un giovane skinhead fanatico e violento che consuma la sua vita spettrale in una periferia desolata di New York. C'è soltanto un piccolo problema: Daniel Balint è ebreo. Aveva ricevuto un'educazione ortodossa e da bambino era uno studente di una yeshiva, ossia una scuola talmudica. Brillante e dotato di un intelletto molto acuto, si era fin da subito fatto notare per le sue interpretazioni non ortodosse delle Scritture. La sua idea portante era di una logica ferrea. Dio aveva comandato ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco, trattenendo all'ultimo la mano armata pronta ad uccidere. Tuttavia nel momento stesso in cui il patriarca aveva levato il coltello per compiere il sacrificio umano, era come se lo avesse compiuto davvero. Isacco era stato davvero ucciso e subito era resuscitato, dando però origine a una ferita insanabile, che aveva piagato gli Israeliti per sempre. Ogni ebreo mostrava i segni dell'accaduto e li avrebbe portati su di sé fino alla Fine dei Tempi. Ovviamente queste idee non piacevano all'insegnante di Torah, che litigava con il giovane eterodosso ogni giorno in modo furioso. La Verità compresa da Daniel non era colta né compresa dagli altri studenti, tutti stupidissimi e conformisti. Questa Verità possiamo scriverla a caratteri cubitali e incorniciarla. DIO È UN BULLO. Egli ti dice così: "Io sono tutto e tu non sei niente, per questo posso farti tutto ciò che voglio". Sì, il Dio Bullo può anche uccidere ogni persona, mutilarla, renderla invalida, renderla demente, colpirla con una malattia immonda, farla incarcerare, torturarla e perseguitarla in modo atroce. Non c'è scampo, non c'è riparo dall'arbitrio del Boia Cosmico. Come ci si sente a sapere di essere in balia di un mostro sadico? Ecco, Daniel Balint non ha retto a questa consapevolezza e ha iniziato la sua discesa agli Inferi, che lo porterà all'incontro col Mostro della Follia. Incurante dei dolori arrecati a suo padre e a sua sorella, gira per la città con una maglietta con una grande svastica, ricavata da una bandiera del Terzo Reich. Porta bene in evidenza anche un piccolo stemma delle SS su una spalla. La sua vita è violenta. Su un autobus si imbatte in uno studente ebreo, lo segue quando scende, gli tende un'imboscata, lo insulta e lo massacra di botte. Tuttavia qualcosa lo distingue da altri skinhead, la cui brutale esistenza si esaurisce nella mera fisicità, senza alcuna forma di pensiero nel cranio: egli cerca invece di trasmettere le proprie idee, di diffonderle come un virus. In questa sua ricerca Daniel si imbatte nel circolo neofascista guidato da Curtis Zampf e da sua moglie Lina Moebius, così inizia a partecipare alle riunioni. Quando parla delle leggi razziali naziste e della necessità dell'antisemitismo, tutti lo guardano come se fosse un extraterrestre. Il neofascismo di Curtis Zampf è più che altro una forma di politica identitaria, per certi versi simile a quello che oggi viene etichettato come "sovranismo". Questa dottrina auspica la decomposizione degli Stati Uniti d'America nelle comunità etniche che ne formano il tessuto sociane, ognuna sovrana e indipendente. C'è profondo scetticismo sull'odio antisemita, ritenuto una cosa del passato da superare, in grado soltanto di arrecare danni. Eppure i discorsi di Daniel, fondati sulla retorica del Mein Kampf, finiscono con l'affascinare il circolo di Curtis e della sua consorte. Entra in scena la figlia dei due coniugi, Carla Moebius, che è subito colpita dal giovane neonazista: se ne innamora perdutamente. Tutti sono colpiti dall'intelligenza acuta di Daniel nell'esporre i propri argomenti. Quando arriva a proporre l'uccisione del banchiere ebreo Ilio Manzetti, Curtis e Lina si oppongono recisamente. Tuttavia è chiaro che l'antisemitismo cova come brace sotto la cenere ed è tenuto nascosto persino in privato per paura dei delatori e di subire persecuzione. Per questo Curtis e la moglie investono molto nel ragazzo, arrivando a pagare la cauzione per lui e per i suoi compagni quando vengono arrestati per aver scatenato una rissa di strada con alcuni robusti Mandingo. I guai sono appena iniziati: il giornalista biondiccio Guy Danielsen, che sta scrivendo un articolo sui gruppi dell'odio, intervista Daniel e ascolta la sua dettagliata esposizione di rabbiose invettive antisemite, quindi gli rivela qualcosa di traumatizzante: egli ha scoperto la sua vera identità e ha anche contattato il rabbino Stanley Nadelman, l'insegnante che lo ha preparato al Bar Mitzvah. Daniel riesce a cavarsela estraendo la pistola e minacciando il suicidio. A questo punto Daniel viene invitato da Curtis e da Lina nel loro campo, dove numerosi neonazisti si radunano e si esercitano con le armi. Subito sa farsi valere. Accade però qualcosa di decisamente bizzarro. Egli ha una relazione con Carla Moebius, che finisce con dargli appuntamento nella propria stanza a mezzanotte, dicendogli di entrare dal balcone. Quando Daniel si reca all'appuntamento, vede la ragazza che copula con il padre nella posizione della cowgirl. Non ci sono dubbi: lei siede a cavalcioni sull'uomo, impalata dal suo fallo e a un certo punto riceve nella vagina lo sperma che l'ha generata! Sconvolto dall'incesto, il giovane si reca con i suoi compagni in un ristorante kosher, dove inizia ad attaccare briga. Ne scaturisce una rissa: lui e i suoi sodali, dopo aver chiesto di potersi ingozzare di prosciutto e di formaggio, le prendono e finiscono nuovamente in carcere. Il giudice dà loro una scelta tra un mese di carcere e un incontro con sopravvissuti all'Olocausto. I neonazisti scelgono la seconda opzione. Durante questo incontro accade qualcosa di decisivo. Gli anziani superstiti vengono scherniti più volte, tanto che l'assistente sociale minaccia l'interruzione della misura alternativa. A un certo punto uno di loro racconta che un soldato tedesco ha ucciso suo figlio di soli tre anni, trafiggendolo con la baionetta. Daniel è preso dalla furia e si chiede come l'uomo possa essere rimasto immobile, senza tentare di difendere il figlio. La moglie del sopravvissuto afferma che lui al suo posto avrebbe fatto lo stesso, non avrebbe avuto possibilità alcuna, o sarebbe stato annientato. Per il resto della sua vita, Daniel avrà terribili flash mentali, in cui si vedrà sia con le sembianze del soldato che con quelle del padre del bambino ucciso. Qualcosa in lui si sta incrinando. Liberato, Daniel torna dai suoi amici e insieme organizzano un attentato in una sinagoga. Entrano di notte nel tempio per piazzare una bomba sotto il pulpito. Durante il raid, Daniel cerca di impedire la profanazione dei rotoli della Torah, dando prova di conoscere il mondo ebraico. I compagni, che sono stolti bestioni, non riescono davvero a capire. La bomba si rivela un fallimento. Daniel porta a casa la Torah e ripara con cura i danni che ha subìto. Il fanatico Drake coinvolge il giovane nell'attentato al banchiere Manzetti, vantandosi di aver ucciso quattro ebrei. Così viene preparato un agguato, che non va a segno: Daniel manca il colpo. Drake lo accusa di aver fallito apposta e vede qualcosa di strano: un panno con caratteri ebraici che pende dal fianco del compagno. Ne scaturisce una lite e Daniel spara a Drake, pensa di averlo ucciso, quindi fugge nella notte. Anziché sbrogliarsi, la matassa si complica incredibilmente. Il tentativo di Curtis di far uscire alla luce del sole il suo movimento neofascista, l'incontro di Daniel con i suoi ex compagni di scuola, la sua relazione con Carla, che si fa da lui insegnare l'ebraico e arriva a frequentare la sinagoga. L'azione procede tra vari colpi di scena fino all'unico epilogo possibile: la nemesi del protagonista. 

Recensione: Un film da vedere e rivedere. Un capolavoro totale, che purtroppo non ha avuto i riconoscimenti che meritava. In fondo non dovrebbe stupire più di tanto se è stato un tale insuccesso. Le genti del mondo non sono in grado di comprendere argomenti troppo complessi. Non capiscono il modo di pensare degli Israeliti proprio come non capiscono la natura del Nazionalsocialismo e più in generale delle ideologie antisemite. Allo stesso identico modo. Banalizzano ogni cosa, proprio perché non è loro impossibile afferrare categorie troppo distanti da quelle che hanno ricevuto dall'ortodossia del pensiero unico politically correct. Per questo motivo l'opera di Henry Ban è andata incontro al disastro economico: un milione e mezzo di dollari spesi per produrre il film, soldi che poi non sono tornati nemmeno tutti indietro. All'appello mancavano duecentomila dollari e non è stato generato alcun nuovo reddito. Un vero peccato. L'ennesima occasione persa per dare fastidio al conformismo vigliacco delle masse acefale. Quando qualcuno è un genio, la vita in genere non gli si presenta facile, mentre è consentito a squallidi speculatori come i neoblogger e gli influencer di accumulare denari manipolando il vuoto assoluto, vendendo pataccate come i loro ridicoli brand. Nel Web anglosassone The Believer è ritenuto una vera e propria patata bollente e rifuggito come un'epidemia di peste. A quanto pare nessun distributore di una certa importanza ha voluto averci a che fare, dopo che una sua proiezione al Centro Simon Wiesenthal ha dato origine a vivaci proteste. Trasmesso qualche volta sulla TV via cavo, è stato cancellato in seguito agli attentati dell'11 settembre alle Torri Gemelle. Certo, non c'entra una cippa col fondamentalismo islamico, ma andatelo a spiegare ai Neocon!  

Daniel Balint e i pompini. Intervistato dal giornalista Guy Danielsen in un bar, il protagonista introduce un argomento che in genere viene taciuto. Comincia a parlare dei pompini! Innanzitutto chiede all'uomo dai capelli ricci color paglia se è mai stato a letto con una ragazza ebrea. Alla risposta affermativa, scava ulteriormente e vuole sapere se lei gli ha fatto un pompino. Ebbene sì, è proprio quello che è accaduto. La ragazza ha preso l'uccello in bocca al suo amante e lo ha succhiato, portandolo a schizzare lo sperma. A questo punto inizia l'astioso trattato di Daniel Balint sul sesso orale, da lui tecnicamente etichettato come una perversione. Egli sostiene che i pompini sarebbero stati inventati dal Popolo Eletto, che ne sarebbe ossessionato. Quindi accusa gli Israeliti di non essere in grado di penetrare e di aver quindi inventato questa forma di sesso, da lui considerata "infantile" e fondamentalmente "omosessuale". Fa l'elogio della copula, che definisce come il mezzo adatto per fare godere una donna. Per contro, i pompini sono in grado di manipolare l'uomo e di compromettere la sua integrità, riducendolo a un essere incapace di affermarsi. Questo pur ammettendo che ricevere il sesso orale è "molto piacevole" - segno che deve averlo sperimentato. A questo punto scatta la rappresaglia del biondo e occhialuto Danielsen, che tira fuori la scomoda faccenda del Bar Mitzvah e del rabbino Nadelman. Tutto ciò sembra essere passato inosservato, nonostante sia ben raro che in un film si arrivi a parlare esplicitamente dei pompini e ancor più raro che li si condanni. Sarebbe il caso di compiere un approfondito studio antropologico sull'argomento "estremisti di destra in USA e pompini". Ci si potrebbe fare una tesi di laurea. Peccato che gli antropologi non ritengano queste cose degne di interesse. Una volta mi è capitato di trovare nel famoso sito Stormfront.org un commento di un tale che in sintesi condannava i pompini perché "piacciono da morire agli ebrei". Non so fino a che punto sia diffuso questo bizzarro pacchetto memetico che associa la cultura ebraica alla pratica del sesso orale. Ogni tanto capita di imbattersi nei forum pornografici americani in narrazioni di uomini che non amano farsi fare i pompini. Per indagare è sufficiente digitare in Google stringhe del tipo "men who don't like blowjobs". Si trovano resoconti davvero molto morbosi. Ricordo di aver letto di una ragazza che si lamentava del fatto che il suo ex la allontanava ogni volta che lei cercava di avvicinare la bocca ai suoi genitali. Sospirava, affermando di non essere riuscita a farglielo nemmeno una volta. Un'altra era una milf che ha raccontato di aver avuto un incontro occasionale in un bar con un uomo che non le ha permesso di prenderglielo in bocca e si è limitato a copulare more ferarum. Come lei ha cercato di convincerlo a farlo spruzzare nella sua bocca, lui l'ha spinta via e ha emesso il seme nel vuoto. In genere nelle comunità online testimonianze di questo tipo destano grande scalpore. Una milf scandalizzata ha paragonato l'uomo che non ama i pompini al bigfoot, ossia a una creatura inesistente. Non so però dire se le motivazioni alla base di questi strani episodi siano collegate in qualche modo all'estremismo di destra. Erano questi uomini neonazisti? Erano membri del Ku Klux Klan? Non ho prove sufficienti per affermarlo. In alcune narrazioni da me rinvenute nel Web, il rifiuto della fellatio era connesso a brutte esperienze con donne inesperte che sfregavano il glande con i denti: queste occorrenze vanno quindi espunte dalla casistica. Nel film di Bean, vediamo la sensuale Carla Moebius con le labbra che le fremono dalla libidine, tanto è presa dalla voglia di succhiarlo a Daniel. Ci sarà riuscita?    

L'ultimo monologo di Daniel Balint. L'atteso discorso dell'agitatore neonazista inizia in un modo assolutamente inatteso, che trasforma ogni astante in una statua di sale come la moglie di Lot. Questo è l'incipit: "SHEMA YISRAEL!" Già alla prima emissione salmodiata di quei fonemi si registrano reazioni di grande sconcerto e di insofferenza tra il pubblico, che reagisce come un gruppo di musulmani riuniti in una moschea in cui fosse trascinato all'improvviso un grosso porco estinto tutto coperto di sterco. C'è persino un afroamericano, che contorce le narici quasi per sfuggire ai lezzi di un fantomatico stronzo. La grande ipocrisia di quella congrega è degna della massima stigmatizzazione. L'incestuoso Curtis Zampf, fottitore della propria figlia, voleva fondare un partito neofascista alla luce del sole e invitare ai dibattiti ebrei come Noam Chomsky, appoggiando al contempo la diffusione dell'antisemitismo. Poi Daniel Balint col suo genio folgorante gli rompe le uova nel paniere! Senza mezzi termini, spiazza tutti dicendo che bisogna amare gli Ebrei, in modo incondizionato e non ipocrita. Dice che bisogna accoglierli, che l'integrazione è la sola arma in grado di neutralizzarli. Poi passa a spiegare le ragioni del suo sentire. L'antisemitismo è ciò che ha permesso nei secoli la conservazione dell'identità ebraica. Senza l'antisemitismo, non esisterebbero più Israeliti da tempo, perché avrebbero contratto matrimoni misti e avrebbero smarrito la propria cultura, il proprio senso di alterità. La peggior maledizione per il Popolo Eletto è proprio questa. "Vi perderete voi tra le genti", minaccia il Signore degli Eserciti, pieno d'ira. Per evitare questo destino di annientamento peggiore della morte stessa, l'ostilità dei Gentili è un prezzo che è necessario pagare, anche se comporta oppressione, omicidi e pogrom. Senza l'Olocausto, lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito, le ciance di Theodor Herzl non sarebbero bastate a far tornare gli Ebrei alla Terra Promessa. Questi concetti, perfettamente razionali e corrispondenti alla realtà dei fatti, non sono capiti dal pubblico, che rumoreggia pieno di sdegno. Tutti si aspettavano da Daniel qualcosa di elementare nella sua banalità, un discorso ventrale e crepitante, privo di concetti e ricco di bile. Invece ecco una vera e propria sfinge, in grado di far crollare l'intero edificio su cui si regge l'estremismo di destra. 

Daniel Balint e Daniel Burros. Il regista-sceneggiatore e il suo collaboratore Mark Jacobson hanno preso spunto da una storia vera, quella di Daniel Burros. Questa è la sintesi apparsa sul Jerusalem Report: "The film has its roots in a true story. Daniel Burros was a nice Jewish boy from Queens who somehow went from being his rabbi's star pupil to a hotheaded proponent of the long-defunct Third Reich. After a stint in the Army, he became involved with the American Nazi Party and the Ku Klux Klan. In 1965, following Burros' arrest at a KKK event in New York City, the New York Times disclosed that he was Jewish. Hours after the paper hit the stands, Burros took his own life."

Questa è una traduzione per coloro che ancora non hanno nozione alcuna della lingua inglese: "Il film ha le sue radici in una storia vera. Daniel Burros era un bravo ragazzo ebreo del Queens che per qualche motivo divenne da pupillo del suo rabbino a impetuoso proponente del Terzo Reich, da tempo defunto. Dopo un periodo nell'esercito, venne coinvolto nel Partito Nazista Americano e nel Ku Klux Klan. Nel 1965, in seguito all'arresto di Burros a una manifestazione del KKK a New York, il New York Times ha rivelato che egli era ebreo. Qualche ora dopo l'uscita del quotidiano, Burros si è tolto la vita." La vicenda terrena di Daniel Burros non è un infetto parto della mia fantasia. Vien voglia di sbattere l'accaduto in faccia a coloro che reputano impensabile che un ebreo possa essere al contempo un antisemita viscerale. Al momento non mi è dato sapere se il bravo ragazzo del Queens odiasse i pompini come il protagonista del film di Bean, salvo poi farseli fare ugualmente. 

La sindrome dell'ebreo che odia se stesso. C'è una cosa molto singolare che Daniel Balint riporta ai suoi stupidissimi compagni appartenenti al White Trash. Adolf Eichmann conosceva bene la Torah e il Talmud. Conosceva perfettamente la lingua ebraica e si districava nella complessa terminologia, che disorienterebbe chiunque. Eichmann sapeva tutto. Come spiegarsi questa cosa? Semplice: il genocida, poi rapito dal Mossad e processato in Israele, era un ebreo rinnegato, proprio come Daniel Burros. La cosa non deve stupire: vi erano numerosi Mischlinge in posti chiave del Partito. Sappiamo che Eichmann è un cognome nobiliare tedesco, di per sé non tipico di discendenti di Abramo. Probabilmente è il ramo materno a riservare grandi sorprese. Anche se Daniel non lo menziona, possiano analizzare in breve anche il caso di Reinhard Heydrich, rimandando a una successiva e più approfondita trattazione. Colui che fu chiamato "La Bestia Bionda" o "Un giovane e crudele Dio della Morte" in un'occasione si ubriacò e fu sentito inveire davanti a uno specchio, maledicendo il suo "ebreo interiore". Suo padre parlava alla perfezione lo Yiddish e in più occasioni raggelò in presenti, che iniziarono a domandarsi chi fosse realmente. A scuola era bullizzato in modo pesante: lo soprannominavano "Moshe Heydrich" e "Süss l'Ebreo". Tra gli stessi membri del Partito era noto come "Mosè biondo". Chiaramente il mondo è pieno di persone pronte a fare l'impossibile per screditare chi menziona questi dati di fatto. Quella del bullismo subìto è stata un'esperienza comune ad Adolf Eichmann. Si vede quanto il bullismo sia devastante. Anziché essere combattuta con la massima severità, questa piaga è sempre stata tollerata da insegnanti che sono anche complici. I nodi però alla fine vengono al pettine. Gratta un uomo che ha subìto bullismo e potresti trovare un potenziale genocida. Non esito a dichiarare che se per uno scherzo del destino avessi davanti a me la fatidica valigetta del Presidente degli Stati Uniti d'America, darei immediato avvio alle procedure per il lancio di tutto l'arsenale nucleare, senza nemmeno un istante di esitazione.

Ain Soph, il Nulla senza confini. In un'intervista trasmessa sui canali televisivi all'indomani del fallito attentato alla sinagoga in cui era stata collocata una bomba inesplosa, il rabbino afferma che Dio è intervenuto per salvare la comunità. Le sue parole sono sorprendenti, perché chiama Dio con l'epiteto Ain Soph, spiegato come "Il Nulla senza confini". Si converrà che è una cosa ben strana. Come può un capo religioso assimilare Dio a una condizione che le genti reputano essere sinonimo di non esistenza? La locuzione Ain Soph (varianti ortografiche Ayin Sof, Ein Sof, etc.) la tradurrei più propriamente come "Senza confini", anche se la glossa "Il Nulla senza confini" è frequentemente riportata. L'argomento rabbinico è molto sofisticato: Dio è inassimilabile a qualsiasi cosa concepibile da mente umana, quindi persino allo stesso concetto di esistenza. Sarebbe impossibile riassumere qui la complicatissima teologia che sta alla base di queste definizioni. Perché Bean e Jacobson hanno voluto fare menzione di questo aspetto di certo incomprensibile alla maggior parte degli spettatori? Bisogna arrivare al finale del film per capirlo.  

Visione di pre-morte. Poco prima di morire a causa dell'esplosione della bomba collocata sotto il pulpito della sinagoga durante lo Yom Kippur, Daniel Balint ha una visione molto significativa. Sale le scale dell'edificio della yeshiva e a ogni piano incontra il suo insegnante. L'uomo gli dice che ha riflettuto sulla teoria eretica di Isacco morto e resuscitato, giungendo ad accettarla. La sequenza sembra quella di un loop infinito: Daniel, il cui corpo è quello che aveva al momento della morte - non è più il bambino ribelle - è intrappolato negli stessi fotogrammi ad ogni piano. Questo finché a un certo punto il circuito temporale chiuso sembra rompersi. Egli arriva a un piano in cui qualcosa cambia: filtra dall'alto una strana luce. L'insegnante lo avverte che là in alto non c'è nulla. C'è il Nulla. 

Riflessioni conclusive. In nessun modo il giovane ebreo che odia se stesso è riuscito a superare il monoteismo, a lasciarsi alle spalle l'idea secondo cui tutta l'esistenza risale a un unico principio, a un unico Creatore. Se avesse compiuto questo salto, sarebbe diventato un Manicheo. A volte si ha l'impressione che mancasse poco, ma questa trasformazione gli era impossibile a causa della sua educazione teologica, che lo ha spinto in un vicolo cieco.

Giordano Stabile per "la Stampa" il 22 luglio 2021. Dove arrivava Benjamin Netanyahu, arrivava Pegasus. Un filo rosso lega i Paesi che hanno utilizzato lo spyware ideato dall'israeliana Nso e i viaggi all'estero l'ex premier israeliano. Arabia Saudita, Ungheria, Azerbaigian, Ruanda, Messico. Tutti Stati che hanno allacciato o riallacciato, anche in segreto, le relazioni con Israele e sono diventati clienti privilegiati dei suoi prodotti militari e di intelligence. In dodici anni filati da primo ministro Netanyahu è riuscito ad allargare molto la sfera di influenza dello Stato ebraico, uno dei suoi maggiori successi. Ma adesso l'exploit tecnologico che ha accompagnato la sua azione diplomatica rischia di ritorcersi contro.  Le rivelazioni di Forbidden Stories sulle centinaia se non migliaia di politici, giornalisti, attivisti, oppositori spiati e a volte arrestati suscitano preoccupazioni. In Francia sono già state avviate indagini, dopo che i telefoni del presidente Emmanuel Macron sono stati infettati dal malware. L'Ungheria è di nuovo nel mirino delle ong per i diritti umani e Reporter senza frontiere ha esortato lo Stato ebraico a sospendere l'esportazione di «tecnologia volta alla sorveglianza». Un mercato lucroso, ma con riflessi pesanti sul rispetto dei diritti umani. Il governo israeliano ha respinto le accuse su un legame diretto con i servizi offerti dall'Nso. Di certo però i viaggi di Netanyahu aprivano molte porte. Nell'estate del 2016 l'ex premier parte per uno «storico viaggio» in Africa, con la tappa principale in Ruanda. Nel dicembre dello stesso anno visita il Kazakhstan e l'Azerbaigian. Nel luglio del 2017 è il primo leader israeliano ad arrivare in Ungheria. A settembre parte per il Messico, altra prima assoluta. Nel gennaio del 2018 è in India. In tutti questi Paesi l'uso di Pegasus per infiltrarsi nei cellulari dei cittadini comincia pochi mesi o al massimo un anno e mezzo dopo, nel caso di Budapest. Israele ha interesse a potenziare le capacità di intelligence dei nuovi alleati. Il Ruanda si offre per accogliere immigrati irregolari dall'Africa che lo Stato ebraico vuole espellere. L'Azerbaigian confina con l'Iran, è una base ideale per controllare il principale avversario in Medio Oriente. Viktor Orban si pone come la voce più vicina alle posizioni israeliane nella Ue, anche su Gerusalemme e Territori occupati. L'uso di Pegasus comincia nel febbraio del 2018, subito dopo l'incontro fra Netanyahu e il consigliere per la sicurezza Jozsef Czukor. Coincidenze che hanno insospettito, fra gli altri, anche il Financial Times. Il quotidiano londinese sottolinea come Pegasus sia diventato «una componente essenziale dell'espansione diplomatica» israeliana. Anche l'export di armi, fin dagli anni Cinquanta, lo è stata, ma la sorveglianza di massa pone maggiori problemi. Il ministero della Difesa, che approva ogni licenza per le esportazioni, ha ribadito che vengono prese «misure appropriate» per evitare abusi. Il co-fondatore di Nso, Shalev Hulio, è tornato a negare che il software sia stato usato per spiare «rappresentanti della società civile non legati a fatti di terrorismo o crimine». Ma la condanna in Marocco del giornalista Omar Radi, controllato da Pegasus, o i telefoni infettati della moglie e della fidanzata dell'editorialista del «Washington Post» Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita di Istanbul, gettano ombre preoccupanti. Pure questi Paesi rientrano nella «rete diplomatica» di Netanyahu, che nel dicembre del 2020 aveva annunciato il ristabilimento delle relazioni con Rabat, e nel novembre dello stesso anno aveva incontrato in segreto sul Mar Rosso il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Anche perciò Reporter senza frontiere chiede, con il suo numero uno Christophe Deloire, una moratoria sulla vendita di questi prodotti, «fino a quando non sarà istituito un quadro normativo di protezione».

Perché scoppiano così facilmente le guerre in Medio Oriente (e contro Israele). Daniel Pipes su L'Inkiesta il 16/6/2021. I leader arabi minimizzano la disfatta militare perché le terribili implicazioni dei conflitti non li riguardano minimamente. La sofferenza della popolazione è irrilevante e il governante può aspettarsi di sopravvivere illeso. Anzi, il disastro sul campo di battaglia può essere politicamente utile. Quando il portavoce di Saddam Hussein incontrò il segretario di Stato americano alla vigilia della guerra del Kuwait nel gennaio 1991, Tariq Aziz disse qualcosa di importante a James Baker. «Mai», lo cita una trascrizione irachena, «un regime politico (arabo) è entrato in guerra con Israele o con gli Stati Uniti e ha perso a livello politico». Elie Salem, ministro degli Esteri libanese per la maggior parte degli anni Ottanta e noto professore di politica, ha concordato: la logica della vittoria e della sconfitta non trova piena applicazione nel contesto arabo-israeliano. Nelle guerre con Israele, gli arabi celebravano le loro sconfitte come se fossero vittorie, e presidenti e generali erano più conosciuti per le città e le regioni che avevano perso che per quelle che avevano liberato. Esagerano leggermente, poiché la sconfitta subita da Israele nel 1948-1949 da parte degli eserciti siriano, egiziano, iracheno e giordano costò molto a quei regimi con tre di loro che crollarono e uno che sopravvisse a malapena. A parte questa eccezione, le perdite militari di solito non danneggiano i governanti arabi sconfitti. In effetti, il disastro sul campo di battaglia può essere politicamente utile, e non solo contro Israele o gli Stati Uniti, ma anche nei conflitti intra-arabi e con iraniani, africani o europei. Nei sessantacinque anni trascorsi dal 1956, le perdite militari non hanno quasi mai rovinato i governanti di lingua araba e talvolta sono state loro utili. L’analisi che segue mostra questo schema attraverso ventuno esempi, diciannove dei quali brevi e due analisi più lunghe, ne dà una spiegazione e infine ne trae una conclusione.

Esempi, 1956-2014.

La crisi di Suez del 1956. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser ha subito un’umiliante disfatta militare per mano di inglesi, francesi e israeliani, eppure, questo evento «lo ha rafforzato politicamente e moralmente», scrive Shukri Abed. Questa sconfitta, di fatto, ha aiutato Nasser a diventare la figura dominante nella politica araba del successivo decennio.

La guerra d’Egitto in Yemen, 1962-1967. Dopo cinque anni di intensa guerra, grandi spese e molte vittime, Nasser ritirò incondizionatamente le truppe egiziane, già debilitate dalla guerra dei Sei Giorni, dalla guerra civile dello Yemen. Nasser non ha pagato quasi nessun prezzo politico interno per questo disastro.

Lo scontro tra Siria e Israele, aprile 1967. Il 7 aprile, i siriani persero sei MiG-21 e gli israeliani non persero nessun aereo, ma la battaglia non causò costernazione a Damasco. Al contrario, dieci giorni dopo, il presidente Nur ad-Din al-Attasi definì la perdita degli aerei «molto utile per noi».

La guerra dei Sei giorni, giugno 1967. Una delle più grandi sconfitte militari nella storia umana indusse l’egiziano Nasser a scusarsi con i suoi elettori e ad offrire loro le sue dimissioni, ma essi reagirono riversandosi in massa nelle strade e chiedendo al loro ra’is (presidente) di rimanere al potere, cosa che fece, più potente che mai, fino alla sua morte per cause naturali, nel 1970. In Siria, il ministro della Difesa Hafez al-Assad, tre anni dopo il disastro del 1967, divenne il dittatore assoluto del suo Paese per tre decenni. Re Hussein di Giordania rimase sul trono fino alla sua morte, avvenuta anch’essa tre decenni dopo, mantenendo intatto il suo potere e molto rispettato.

La battaglia di Karama, 1968. Sebbene Fatah di Yasser Arafat avesse perso il suo primo grande scontro armato con gli israeliani, rivendicò la vittoria, convincendo molti, cosa che avrebbe fatto molte volte da allora in poi. Anche il generale israeliano Aharon Yariv ammise che «sebbene sia stata una sconfitta militare per loro, è stata una vittoria morale».

La guerra dello Yom Kippur, 1973. All’inizio. gli israeliani fecero un passo falso, a si ripresero ottenendo un brillante successo militare contro gli eserciti di Egitto e Siria. Tuttavia, il presidente egiziano Anwar Sadat dipinse la guerra come un trionfo egiziano celebrato ancora oggi, e utilizzò questo presunto successo per legittimare la successiva diplomazia con Israele.

Anche il siriano Assad ottenne una grande vittoria. Il suo biografo, Moshe Ma’oz, osserva: «Sebbene da un punto di vista puramente militare, Assad avesse perso la guerra, è riuscito a trasformare la sua sconfitta in una vittoria agli occhi di molti siriani e altri arabi». I siriani, riferisce Ma’oz, hanno sostenuto «La conduzione fiera e audace della guerra da parte di Assad nelle sue ramificazioni militari e diplomatiche». Di conseguenza, il suo «prestigio e la popolarità aumentarono vertiginosamente in Siria durante la guerra e in seguito».

La guerra d’Algeria nel Sahara occidentale, 1975-1991. Il governo marocchino e quello algerino appoggiarono le parti opposte in una lunga guerra civile in cui, alla fine, prevalsero il Marocco e i suoi alleati. Chadli Bendjedid, presidente dell’Algeria dal 1979 al 1992, pagò poco il prezzo politico del fallimento.

L’occupazione siriana del Libano, 1976-2005. Il debole e diviso governo del Libano non poté impedire alle forze siriane di entrare nel Paese o di rimanervi per ventinove anni. Nonostante questo lungo fallimento, l’élite al potere proseguì come se nulla fosse fondamentalmente cambiato. Quando una rivolta popolare finì per cacciare i siriani, quell’élite andò avanti impassibile.

La guerra Iran-Iraq, 1980-1988. Saddam Hussein iniziò la guerra tra Iran e Iraq, che si divise in due fasi principali. Nella prima, dal settembre 1980 al luglio 1982, Saddam fu all’attacco. Quando le cose si misero male, e l’Iraq dovette successivamente giocare in difesa per sei lunghi anni, il rais non pagò alcun prezzo interno. Ma la cosa più sorprendente fu che, due anni dopo la fine della guerra, il 15 agosto 1990 (tredici giorni dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq), Saddam Hussein restituì all’improvviso all’Iran tutte le conquiste ottenute in otto anni di combattimenti: «In un annuncio fatto alla radio di Baghdad, l’Iraq ha dichiarato che avrebbe riconosciuto i contesi confini dell’Iran antecedenti alla guerra, che avrebbe rilasciato tutti i prigionieri di guerra e che avrebbe iniziato a ritirare le truppe da circa mille miglia quadrate della parte sudoccidentale dell’Iran occupate fin da venerdì». Questo ignominioso ritiro passò quasi inosservato e non lese Saddam.

Israele contro la Siria, 1982. In una guerra aerea in Libano, le forze siriane persero una novantina di aerei contro le forze israeliane, senza abbatterne nessuno. Ma Assad ne uscì illeso, semmai, la sua audacia nell’affrontare il terribile nemico israeliano accrebbe la sua statura.

Israele contro l’OLP a Beirut, 1982. Attraverso la magia verbale, Arafat trasformò un’umiliante ritirata da Beirut in una vittoria politica rilevando quanto tempo impiegarono gli israeliani (ottantotto giorni) per sconfiggerlo, molto più del necessario per sconfiggere gli eserciti arabi convenzionali (nove giorni nel 1956, sei nel 1967 e venti nel 1973). Rashid Khalidi, allora esponente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e ora professore alla Columbia University, arrivò al punto di confrontare la minuscola operazione di Beirut (e i suoi ottantotto morti israeliane) con i due anni e mezzo di assedio di Leningrado da parte dei nazisti (con i suoi circa due milioni di morti). Il passare del tempo trasformò ulteriormente questa disfatta in un glorioso successo; nella rivisitazione di Hamas alcuni anni dopo: «Il nostro popolo (…) ha umiliato [Israele] (..). e ha incrinato la sua determinazione».

Il ritiro dell’OLP da Tripoli, 1983. Quando le forze siriane costrinsero l’OLP a lasciare la sua ultima roccaforte in Libano, Arafat reagì prevedibilmente trasformando questo ritiro in un successo morale. Secondo i suoi biografi, ’il leader dell’OLP, nel bel mezzo di un’altra storica battuta d’arresto, era ancora intento a sfruttare l’occasione, per tutto il suo valore teatrale».

Il bombardamento statunitense della Libia, 1986. Dopo aver subito l’ignominia di essere stato attaccato dagli aerei da guerra statunitensi, Muammar Gheddafi trasformò la sua stessa sopravvivenza in qualcosa di magniloquente. Tra le varie misure, il rais libico commemorò questo risultato aggiungendo la parola “Grande” (’uzma) al nome formale del suo Paese, che divenne la Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista. Nove anni dopo, ricordava ancora l’episodio come un disastro per gli Stati Uniti:

L’America non ammette mai le sue perdite. Non abbiamo abbattuto quindici dei suoi aerei quando fecero irruzione [nel 1986]? Ma ha ammesso solo la perdita di due aerei. L’America non parla mai delle sue sconfitte e delle sue perdite: tiene la bocca chiusa. Si è persino rifiutata di ammettere che il capo della squadriglia che ha attaccato la mia casa è stato abbattuto e ucciso nello schianto. Non hanno mai ammesso la sua perdita fino a quando non li abbiamo messi in imbarazzo mostrando il suo cadavere che abbiamo consegnato al Vaticano.

Milizie ciadiane contro Libia, 1987. In Ciad, la Libia perse in modo umiliante contro forze decisamente inferiori a livello numerico e per equipaggiamento, come scrissi a quattro mani all’epoca: «Le Toyota a quattro ruote motrici sconfissero un convoglio di carri armati». Questo disastro, tuttavia, non ebbe ripercussioni visibili sul prestigio o sul dominio di Gheddafi sulla Libia.

Iraq contro Kuwait, 1990. L’attacco iracheno al Kuwait fece seguito a mesi di minacce da parte di Baghdad; le forze kuwaitiane non erano in allerta e vennero rapidamente sopraffatte, spingendo immediatamente e ingloriosamente l’emiro Jaber al-Ahmad as-Sabah a fuggire oltre il confine in Arabia Saudita, dove supervisionò il governo kuwaitiano in esilio da una suite d’albergo. Nonostante la sua mancanza di preparazione e le azioni non eroiche, Jaber non affrontò sfidanti durante o dopo i combattimenti.

Hezbollah contro Israele, 2006. Hezbollah perse contro Israele, ma lo fece in modo rispettabile, rafforzando così la presa di Hassan Nasrallah sull’organizzazione. Parlando a una manifestazione di massa dopo i combattimenti, il leader di Hezbollah rivendicò una «vittoria divina e strategica». Paradossalmente, Nasrallah in seguito ammise di aver commesso un errore nell’iniziare il conflitto [16], ma si dette poca attenzione a ciò, e quindici anni dopo mantiene il controllo.

Hamas contro Israele, 2008-2009. Chiamata in Israele operazione “Piombo fuso”, questa guerra di 3 settimane vide Israele fare molto bene sul campo di battaglia (come simboleggiato dalla morte di circa cento volte più palestinesi che israeliani) e in modo schiacciante nell’arena politica (come simboleggiato dal Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite e da una conferenza internazionale per la ricostruzione di Gaza che fruttò 4,5 miliardi di dollari). I leader di Hamas emersero dalla guerra rafforzati dalla sconfitta militare.

Hamas contro Israele, 2012. Le Forze di Difesa Israeliane potrebbero aver ucciso molti dei leader di Hamas, distrutto le sue infrastrutture e lasciato Gaza vacillante, ma, come previsto, il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, Hamas indisse dei festeggiamenti di celebrazione che si conclusero drammaticamente con la morte di una persona e il ferimento di altre tre a causa di colpi di arma da fuoco sparati in aria. Non solo questo, ma Hamas sancì che il 22 novembre sarebbe stato un giorno da celebrare ogni anno da allora in poi: «Chiediamo a tutti di festeggiare, visitare le famiglie dei martiri, i feriti, coloro che hanno perso la casa».

Hamas contro Israele, 2014. La guerra devastò Gaza, ma un sondaggio condotto dai palestinesi dopo la fine delle ostilità rilevò che il 79 per cento affermava che Hamas aveva vinto; al contempo, Ismail Haniyeh risultò essere il preferito degli intervistati a ricoprire la carica di presidente palestinese, passando dal 41 per cento al 61 per cento. (Poche settimane dopo, queste percentuali scesero leggermente, rispettivamente al 69 e al 55 per cento). Quel sostegno si estese anche alle tattiche, con il 94 per cento degli intervistati a favore dello scontro militare con le truppe israeliane e l’86 per cento che si espresse a sostegno del lancio di razzi contro Israele.

Questo sondaggio mostra che i leader arabi possono perdere contro chiunque: una potenza occidentale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia), Israele, una milizia africana, uno Stato musulmano non arabo (Iran) o uno Stato confinante arabo (Yemen, Siria, Iraq), e poco importa. Il prezzo politico è quasi sempre minimo e talvolta la sconfitta comporta un vantaggio effettivo.

Case study I: la guerra del Kuwait, 1991

L’invasione irachena del Kuwait portò alla formazione di una coalizione guidata dagli Stati Uniti di trentanove Stati che attaccò le forze irachene il 17 gennaio 1991 e le ostilità terminarono il successivo 28 febbraio, quando Baghdad capitolò. Emerse rapidamente un chiaro consenso sul fatto che il leader iracheno Saddam Hussein dovesse rassegnare le dimissioni o sarebbe stato deposto.

Il rais, però, non aveva tali intenzioni e aveva preparato il terreno per grandiose rivendicazioni. Il suo regime inizialmente parlò di una «battaglia veramente decisiva e storica» che segnò «l’inizio della fine dell’imperialismo mondiale». Dopo che ebbe inizio l’attacco guidato dagli Stati Uniti, Baghdad istituì la radio a onde corte “Mother of Battles Radio” (in arabo, : Idha’at Umm al-Ma’arik) per trasmettere la sua imminente vittoria sulle forze alleate.

In seguito, le cose non andarono così bene, con la disfatta delle forze irachene (tiro al tacchino) e il conseguente danno semi-apocalittico alle infrastrutture irachene. Nonostante ciò, i media del regime insistettero con sconsideratezza per ottenere una famosa vittoria sull’operazione “Tempesta del Deserto”. «Avete trionfato su tutti i leader del male messi insieme», informò Radio Baghdad le forze irachene, affermando di aver calpestato «nel fango» il prestigio dell’America.

Anche dopo aver ammesso formalmente la sconfitta, Baghdad continuò a rivendicare la vittoria. Un incredibile esempio di ciò, arrivò quattro anni dopo la fine dei combattimenti, quando il capo Stato maggiore Iyad ar-Rawi affermò: «La nostra vittoria è stata leggendaria. Il magnifico esercito iracheno ha inciso nel libro della Madre di Tutte le Battaglie il massacro più impressionante, quando ha schiacciato le forze americane e alleate durante la prima battaglia terrestre». Rawi proseguì parlando della battaglia (fittizia) dell’Aeroporto del Kuwait e di un enorme scontro di carri armati a sudovest di Bassora, definendolo come una delle «più feroci battaglie di carri armati che sia mai stata combattuta». George H.W. Bush, concluse Rawi fu «costretto a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale il 28 febbraio 1991, perché sapeva che le forze statunitensi non potevano sostenere le perdite derivanti dalle battaglie terrestri».

I sostenitori all’estero approvarono queste pretese di vittoria. Nel novembre 1994, alla cerimonia di consegna dei diplomi della polizia palestinese, un coro intonò canzoni in omaggio a Saddam Hussein. Il fatto che ad alcuni sostenitori di Saddam non importasse se avesse effettivamente vinto o meno sul campo di battaglia, contribuì ad alimentare la finzione. Così Hichem Djaït, l’intellettuale più noto della Tunisia e fervido sostenitore di Saddam, rilevò: «Non abbiamo nulla da perdere da questa guerra, anche se finisce con una sconfitta».

Questa chiara mistificazione contribuì a tenere ancora in piedi il governo di Saddam, permettendogli di intimidire qualsiasi aspirante ribelle, fluttuando al di sopra dei disastri che colpirono il suo Paese, compreso un calo del 90 per cento del reddito pro capite, e a rimanere al potere per altri dodici anni. Solo quando le forze guidate dagli Stati Uniti tornarono nel 2003, questa volta con l’intento specifico di deporlo, cadde dal potere e finì in un buco.

Case Study II: Hamas contro Israele, 2021

Hamas e i suoi alleati concordano quasi all’unanimità sul fatto di aver vinto il conflitto con Israele del maggio 2021, nonostante quello che l’Associated Press ha definito «l’orribile peso che la guerra ha avuto su innumerevoli famiglie palestinesi che hanno perso i propri cari, le case e gli esercizi commerciali».

Appena due giorni dopo l’inizio dei combattimenti, il leader di Hamas Ismail Haniyah aveva già annunciato che la sua organizzazione aveva «conseguito la vittoria nella battaglia per Gerusalemme». Tali affermazioni si sono moltiplicate dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, quando Haniyah ha rivendicato una «vittoria strategica e divina» e ha inoltre annunciato che Hamas «ha sconfitto le illusioni dei negoziati, ha sconfitto l’affare del secolo, ha sconfitto la cultura della sconfitta, ha sconfitto i progetti di disperazione, ha sconfitto i progetti di insediamento, ha sconfitto i progetti di coesistenza con l’occupazione sionista e ha sconfitto i progetti di normalizzazione [delle relazioni] con l’occupazione sionista».

Allo stesso modo, Khalil al-Hayya, un leader di Hamas, partecipando a un raduno di massa a Gaza ha detto che «ci sono festeggiamenti in tutte le città della Palestina (…) perché noi abbiamo ottenuto questa vittoria insieme», aggiungendo: «Abbiamo il diritto di gioire. (…) Questa è l’euforia della vittoria». Ziad al-Nahala, leader della Jihad Islamica Palestinese (JIP), si è rallegrato del trionfo della sua organizzazione e ha minacciato di bombardare Tel Aviv come rappresaglia per «qualsiasi operazione omicida mirata ai nostri combattenti o leader».

Hanno festeggiato anche i sostenitori stranieri. Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha definito gli attacchi di Hamas contro Israele una «grande vittoria». L’ayatollah iraniano Ali Khamene’i si è congratulato per una «vittoria storica» ​​e il comandante della Forza Quds, forza speciale del Corpo della Guardia della Rivoluzione Islamica, Esmail Ghaani, ha acclamato i combattimenti perché hanno «distrutto l’orgoglio dell’esercito sionista». (A sua volta, un portavoce della JIP ha ringraziato il governo iraniano per essere «partner della nostra vittoria».) Anche il primo ministro marocchino Saad Eddine El Othmani, che mesi prima aveva firmato un accordo di normalizzazione delle relazioni con Israele, si è congratulato con Haniyeh per la «vittoria del popolo palestinese».

E pare che anche la popolazione palestinese ne fosse convinta. Infatti, non appena è entrato in vigore il cessate il fuoco delle due di notte, «per le strade di Gaza è tornata una frenesia di vita. La gente è uscita dalle proprie case, alcuni gridando Allahu Akbar o fischiando dai balconi. Molti hanno sparato in aria, festeggiando la fine dei combattimenti. Grandi folle hanno celebrato la fine del conflitto, elogiando Hamas». I festeggiamenti si sono diffusi ampiamente nel cuore della notte:

I residenti di Gaza hanno applaudito dalle loro terrazze. Spari celebrativi sono risuonati nei quartieri per lo più bui, alcuni clacson di auto strombazzavano, con i conducenti che hanno sfidato le strade butterate di crateri di bombe, e le lodi a Dio risuonavano dalle moschee intorno a Gaza City. I gaziani hanno sfilato in spiaggia, rivolgendo verso l’alto le luci dei loro telefonini.

Nei giorni successivi ci sono state celebrazioni su larga scala da parte di Hamas e del suo alleato più piccolo, la Jihad Islamica Palestinese.

Questi festeggiamenti hanno delle implicazioni politiche. «La reputazione di Hamas tra i palestinesi è cresciuta notevolmente», osserva Khaled Abu Toameh, «a causa del lancio di migliaia di razzi e missili in tutto Israele». I palestinesi, arguisce Toameh, «considerano i leader di Hamas come i veri eroi dei palestinesi e cercano di impegnarsi in una lotta armata contro Israele»: non sopportano Mahmoud Abbas e l’Autorità Palestinese. In altre parole, la sconfitta sul campo di battaglia ha apportato a Hamas importanti vantaggi politici.

Spiegazioni

Da dove deriva questa impunità? Sei fattori contribuiscono a spiegarlo: onore, fatalismo, cospirazionismo, retorica, propaganda e confusione.

Onore. L’onore riveste importanza tra gli arabofoni al punto che tenerlo alto può contare più del raggiungimento dell’obiettivo. «Per gli arabi, l’onore è più importante dei fatti», spiega Margaret K. Nydell, insomma, la causa conta più dei risultati ottenuti. Elie Salem concorda, e parlando degli arabi dice: «Sono stati glorificati per i loro intenti, non per i loro risultati». Questo spiega perché «nel perdere la guerra del giugno 1967, Jamal Abd al-Nasir divenne un eroe. Ottenendo la pace, ma dissentendo dalla prevalente psicologia araba, Anwar al-Sadat divenne un infame». Più in generale, Fouad Ajami spiega:

In una storia politica araba disseminata di sogni infranti poco onore sarebbe stato concesso ai pragmatici che conoscevano i limiti di ciò che si poteva e non si poteva fare. La cultura politica del nazionalismo ha riservato la sua approvazione a coloro che hanno condotto campagne rovinose perseguendo missioni impossibili.

Fatalismo. Il participio passato maktùb (scritto) riassume il fatalismo musulmano, pertanto, non il leader non va incolpato. As’ad Abu Khalil della California State University osserva la tendenza a spiegare in tempi di sconfitta che «le persone non hanno alcuna influenza né alcun effetto sulle loro azioni e sui loro comportamenti. È solo Dio che agisce». Invocando «l’ineluttabilità del destino», assolvono «i regimi e gli eserciti arabi da ogni responsabilità» per la sconfitta. Questo schema, osserva, «è diventato tipico al punto da essere prevedibile».

Così, all’indomani della disfatta israeliana delle forze armate egiziane nel giugno 1967, Nasser cercò di dimostrare che né lui né l’esercito avrebbero potuto evitare la sconfitta subita. Per assolvere il suo governo dalla colpa e segnalare che non avrebbe potuto fare altro che quello che aveva fatto, ricorse a un proverbio arabo («La precauzione non cambia il corso del destino») e a un’analogia quotidiana (l’Egitto era «come un uomo investito in strada da un’auto»). Al contempo, re Hussein di Giordania consolò i suoi sudditi con questa riflessione: «Se non siete stati ricompensati con la gloria, non è stato perché vi mancasse il coraggio, ma perché è volontà di Allah».

Cospirazionismo. Il cospirazionismo presuppone che ogni scontro con Israele o con le potenze occidentali implica che il nemico intende eliminare i loro governanti, occupare i loro Paesi, cambiare i loro sistemi politici e sfruttare le loro risorse. Quando queste implicazioni non si verificano, la loro elusione viene dipinta come una vittoria. Abdel-Moneim Said, un analista egiziano, osserva: «Abbiamo celebrato la vittoria perché il nemico non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi come li abbiamo definiti. Quanto ai nostri obiettivi, è stato dato per scontato fin dall’inizio che non sarebbero entrati nelle nostre equazioni di guerra e pace». Ad esempio, gli egiziani ritenevano che questo fosse l’obiettivo israeliano nel 1967, sostenuto dagli Stati Uniti, e Said ricorda la sua esperienza in una pubblicazione studentesca dopo quella perdita: «Con mia grande sorpresa, ho scoperto che alcuni dei miei colleghi di quel giornale credeva che avessimo vinto la guerra del 1967!». In che modo?

La logica era la seguente: lo scopo dell’aggressione israelo-americana era quello di rovesciare il glorioso presidente e il sistema socialista in Egitto, ma dato che il presidente era ancora al potere dopo che la popolazione aveva sfilato in manifestazioni di massa a suo sostegno e della sua saggia leadership, il 9 e il 10 giugno, e dato che il sistema socialista era ancora in vigore, i nemici non avevano raggiunto i loro obiettivi. Quindi, abbiamo vinto!

Said rileva che questa stessa “linea generale di logica” prevale in altri casi, come per Saddam Hussein dopo la guerra del Kuwait del 1991, per Hassan Nasrallah dopo la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006, per Bashar Assad nella guerra civile siriana e i combattimenti del 2014 tra Hamas e Israele.

Nel caso del 2014, Said nota l’enorme disparità di morti in guerra (2.100 palestinesi contro 72 israeliani) e di distruzione, quindi conclude che «i risultati della recente guerra a Gaza difficilmente possono essere considerati una vittoria palestinese». Tuttavia, i leader di Hamas hanno proclamato la vittoria sulla base del fatto che «l’obiettivo israeliano era eliminare Hamas e porre fine al lancio di missili. Pertanto, finché sia ​​Hamas sia i missili esisteranno, i palestinesi dovrebbero gioire di questa clamorosa vittoria».

Retorica. La retorica è una caratteristica di spicco della vita politica araba, che fa sì che leader e seguaci siano affascinati dal potere delle parole anche se estranee alla realtà. E. Shouby, di madrelingua araba e psicologo, nel 1951, disse che gli arabofoni «enfatizzavano il significato delle parole in quanto tali, prestando meno attenzione al loro significato» rispetto a quanto avviene nelle lingue occidentali, portando a una «confusione tra le parole e le cose che rappresentano». Walter Laqueur notò nel 1968 la «capacità quasi illimitata [degli arabi] di credere ciò che vogliono credere».

Theodore Draper spiegò ulteriormente questa nozione nel 1973:

Ogni volta che vengono citate dichiarazioni arabe, sorge la questione della “retorica” ​​araba. Dovrebbe essere presa sul serio o gli arabi sono propriamente dediti a una retorica esagerata? Ogni volta che un portavoce arabo dice qualcosa di particolarmente provocatorio o di oltraggioso, c’è sempre qualcuno che dice che «non lo pensano mai veramente». (…) Ho perfino sentito il ministro degli Esteri di un Paese arabo informare un gruppo di americani che gli arabi sono allergici al razionalismo occidentale e che, se gli occidentali desiderano trattare con gli arabi, devono adottare l’apparentemente irrazionale modo di pensare arabo.

Propaganda. La propaganda induce alcuni leader arabi a cercare sostegno per la loro causa. Curiosamente, questo assume due forme opposte, una per gli arabi e i musulmani, l’altra per gli israeliani e la Sinistra globale. Nel primo caso entra in gioco l’adagio del “cavallo forte”: i governanti cercano di mostrarsi come figure eroiche che le masse dovrebbero seguire. I motivi per cui Saddam Hussein ha conquistato la maggior parte del mondo occidentale sono così spiegati da Hussein Sumaida, un iracheno: «Vincere non contava. Quello che importava era dare spettacolo e conquistare i cuori e le menti del mondo arabo focoso».

Gli israeliani e la Sinistra globale rispondono all’esatto contrario, vale a dire presentarsi come deboli e vittime comprensivi. A tal fine, Hamas attacca periodicamente (2008-2009, 2012, 2014, 2021) Israele, sapendo molto bene di perdere sul campo di battaglia militare, ma aspettandosi di ottenere un vantaggio nell’arena politica: tra la Sinistra israeliana, nei campus universitari di tutto il mondo, nella stampa internazionale, nelle organizzazioni internazionali, e non solo.

Barry Rubin la definisce la strategia del suicidio e ne parafrasa la logica: «Inizierò una guerra che non posso vincere per creare una situazione in cui l’altra parte distrugga la mia infrastruttura e uccida la mia gente. Allora perderò militarmente, ma vincerò la battaglia. Come?» Rubin elenca tre vantaggi: gli israeliani sono codardi, quindi qualsiasi danno subiscono li farà tirare indietro; la sofferenza degli abitanti di Gaza farà sentire in colpa gli israeliani e si ritireranno; la “comunità internazionale” spingerà gli israeliani a smettere di combattere e a concedere benefici a Hamas.

Confusione. Qual è la verità? Presi tra due resoconti contraddittori della realtà, gli esseri umani tendono a optare per quello che preferiscono, che si tratti di immigrazione (Angela Merkel: Wir schaffen das [“Ce la faremo!”]), di prospettive referendarie (Brexit), o di esito delle elezioni (Stop the steal [Fermate il furto]). Cosa pensare quando “Baghdad Bob” dice che gli americani troverebbero il loro “cimitero” a Baghdad nel momento in cui cominceranno a intravedersi i carri armati statunitensi? Naturalmente, quando Saddam Hussein venne catturato, alcuni arabi reagirono con incredulità, e un certo Hassan Abdel Hamid, un commerciante egiziano, si rifiutò di credere alla notizia, definendola «propaganda e bugie americane». Questo miasma incoraggia le popolazioni arabe a ignorare la realtà delle sconfitte militari, così come i massacri che provocano, e ad appoggiare piuttosto questi leader.

Conclusione

Questo modello di sopravvivenza o di beneficio dalla sconfitta si estende ad altri leader. Nella guerra indo-pakistana del 1965, ad esempio, il ministro degli Esteri pakistano Zulfikar Ali Bhutto guidò il suo governo in un disastroso conflitto con l’India e ne uscì più popolare che mai, e questo lo portò a ricoprire la carica di primo ministro otto anni dopo. Nelle parole del suo biografo, «Quanto più diventava oltraggiosa la sua retorica (…) tanto più Zulfi Bhutto appariva eroico al pubblico pakistano». Allo stesso modo, la leadership iraniana estese la sua guerra con l’Iraq e passò all’attacco dal luglio 1982 all’agosto 1988; fallita questa offensiva, l’Ayatollah Khomeini «bevve dal calice avvelenato» accettò un cessate il fuoco, e né lui né il suo regime soffrirono per i loro sei anni di follia. Più di recente, le cupe avventure militari di Recep Tayyip Erdoğan in Siria e in Libia non hanno intaccato il suo potere.

Al contrario, perdere le guerre di solito ha importanti implicazioni per un leader non musulmano. In Medio Oriente, Golda Meir e Moshe Dayan pagarono a caro prezzo la deludente prestazione israeliana del 1973, così come Nikol Pashinyan per la terribile esibizione armena del 2020. Anche le sconfitte nelle guerre periferiche di solito hanno un impatto importante: l’Algeria sulla politica francese, il Vietnam su quella americana e l’Afghanistan sulla politica sovietica. È particolarmente difficile immaginare leader non musulmani che sopravvivano a sconfitte così devastanti come quella dell’Egitto, nel 1967, e dell’Iraq, nel 1991.

Il fatto che i governanti sconfitti possano celebrare le disfatte invita al rischio morale e li rende più aggressivi. Perché preoccuparsi se una sconfitta e le sue terribili implicazioni non ti riguardano? Questo schema spiega ampiamente perché il Medio Oriente è teatro di così tante guerre. Il denaro per le armi è sempre abbondante, la sofferenza della popolazione è irrilevante, le perdite economiche sono insignificanti e il governante può aspettarsi di sopravvivere illeso. Con una posta in gioco così bassa, occorre dare una possibilità alla guerra e sperare per il meglio.

Daniel Pipes e Middle East Quarterly, traduzione di Angelita La Spada.

Chi è Lehava, il movimento estremista anti-assimilazione. Futura D'Aprile su Inside Over il 14 giugno 2021. Prevenire l’assimilazione della Terra Santa è sia il nome che la missione di Lehava, il gruppo estremista che sta guadagnando sempre più consensi in Israele e in particolar modo a Gerusalemme. Il movimento, fondato nel 2015 da Bentzi Gopstein, chiede l’espulsione dei palestinesi, l’annessione della Cisgiordania (e non solo) allo Stato di Israele, il divieto di matrimoni misti e l’allontanamento dei cristiani dalla Terra Santa. Il successo di Lehava è in crescita da quando la formazione Sionismo religioso, creata alla vigilia delle elezioni grazie agli sforzi di Benjamin Netanyahu, è riuscita ad entrare nella Knesset, segno dello spostamento sempre più a destra di una parte della popolazione israeliana.

Come nasce Lehava. Lehava è stato fondato nel 2005 dal 51enne Bentzi Gopstein, studente del rabbino Meir Kahane e seguace del Kahanismo, l’ideologia alla base del movimento politico Kach bandito da Israele negli anni Novanta. Il partito fu escluso dalle elezioni del 1988 e del 1992 e definitivamente sciolto nel 1994 sulla base della Legge elettorale che bandiva formazioni considerate razziste. Ad oggi, sia Kach che Kahane Chai – formazione nata nel 1990 dopo l’assassinio del rabbino Kahane – sono considerate organizzazioni terroristiche da Israele, Stati Uniti, Canada, Giappone ed Unione europea. Nel 2015, secondo quanto riportato da Channel 2, l’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon aveva chiesto allo Shin Bet di raccogliere informazioni sul movimento per una eventuale classificazione quale entità terroristica. Tra gli idoli di Lehava, oltre a Kahane, vi è anche Baruch Goldstein, l’uomo che nel 1994 aprì il fuoco nella Moschea di Abramo a Hebron durante le preghiere per il Ramadan, causando la morte di 29 fedeli. Come si legge sulla pagina ufficiale, il movimento nasce per proteggere le donne ebree, contrastando la nascita di relazioni con uomini appartenenti ad altre religioni o riportando sulla “retta via” le ragazze che si sono allontanate dalla comunità di appartenenza.

Cosa vuole Lehava. Alla base dell’ideologia di Kahane, a cui Lehava si ispira, vi è la creazione del Grande Israele, uno Stato unicamente ebraico che comprenda non solo la Cisgiordania, ma anche il Sinai egiziano, il Libano, la Siria e parte dell’Iraq. La creazione di una terra per i soli ebrei implica non solo l’espulsione degli arabi, ma anche di coloro che non appartengono alla religione ebraica. Il movimento anti-assimilazione si è distinto fin dal primo momento per la sua totale avversione ai matrimoni misti, principale motore della tanto temuta assimilazione contro cui Lehava si batte. Emblematico a questo proposito fu l’opposizione che il gruppo dimostrò nel 2014 nei confronti del matrimonio tra il palestinese Mahmoud Mansour e Morel Malka, ebrea convertitasi all’islam. I seguaci di Lehava inscenarono delle vere e proprie proteste durante la celebrazione delle nozze per convincere Morel Malka a tornare sui suoi passi. Ma a finire nel mirino del movimento estremista non sono solo gli arabi. Nel 2015, Gopstein organizzò delle manifestazioni contro la celebrazione del Natale in Israele, definendo i cristiani dei “vampiri” e chiedendone l’allontanamento dalla Terra Santa. “Gli ebrei non possono essere uccisi, ma possono essere convertiti”, aveva scritto al tempo Gopstein. “Dobbiamo cacciare questi vampiri prima che succhino nuovamente il nostro sangue”. Lo stesso anno, il fondatore di Lehava era anche stato interrogato dalla polizia dopo aver giustificato il rogo delle Chiese presenti in Israele in quanto luoghi di culto di falsi idoli. Una convinzione in linea con il Kahanismo, secondo cui anche la Moschea al-Aqsa a Gerusalemme dovrebbe essere rasa al suolo per costruire al suo posto il Terzo Tempio.

Un successo crescente. Le elezioni di marzo 2021 e le proteste che hanno infiammato Gerusalemme il mese seguente sono due eventi importanti per capire l’attuale successo di Lehava. I movimenti khanisti erano assenti dallo spettro parlamentare israeliano dagli anni Ottanta, ma le ultime elezioni hanno sancito l’entrata nella Knesset di Sionismo religioso, una formazione di estrema destra erede del partito Kach. Al suo interno vi è anche Otzma Yehudit (Potere ebraico) dell’avvocato Itamar Ben-Gvir, considerato una delle figure più influenti all’interno di Lehava. L’entrata in Parlamento di Sionismo religioso e la possibilità che faccia parte del prossimo governo preoccupano buona parte dell’opinione pubblica israeliana, ma sono il segno di un costante spostamento sempre più a destra di una parte dell’elettorato. Il movimento può anche fare affidamento sulla tacita approvazione delle autorità nei confronti delle sue manifestazioni. A fine aprile i seguaci di Lehava hanno organizzato una marcia di protesta a Gerusalemme scandendo slogan come “Morte agli arabi” e attaccando i passanti senza alcun ostacolo da parte delle forze dell’ordine, che hanno invece represso duramente le manifestazioni dei palestinesi svoltesi negli stessi giorni.

Deposto il re, ecco cosa Bennett non può evitare nel post Netanyahu. Alberto Stabile su L'Espresso/La Repubblica il 15 giugno 2021. Dal conflitto con Hamas alla questione del nucleare iraniano. I dossier che il nuovo governo deve affrontare senza poter prescindere dall’eredità di Bibi. Grazie ad un accordo ad excludendum, traducibile anche come un pasticcio in cui otto partiti che più diversi fra di loro non si può si sono ritrovati concordi sull'unico proposito d'impedire a Benyamin Netanyahu di guidare per l'ennesima volta il governo d'Israele, e sul resto delle questioni più urgenti hanno scelto di tacere, tanto non si sarebbero trovati d'accordo su nulla, hanno raggiunto il loro obbiettivo e quello che era stato definito dai suoi inguaribili sostenitori “il re d'Israele”, titolo che il popolo della destra israeliana aveva già generosamente conferito ad Ariel (Arik) Sharon, è stato alla fine spodestato. Al posto di primo ministro che il popolare Bibi aveva ricoperto per oltre dodici anni, un record superato forse soltanto dal fondatore dello stato ebraico, David Ben Gurion, arriva un personaggio incolore, di modesta statura politica, leader di un partito marginale nella galassia dell'estrema destra nazionalista religiosa, rivelatosi più abile ad arricchirsi con una start-up riguardante un sistema di sicurezza per le banche, che a progredire nella carriera militare abbracciata entusiasticamente nel mito di Yoni Netanyahu, il fratello di Bibi, l'eroico comandante dei Commando dello Stato Maggiore (Sayeret Matkal) morto ad Entebbe il 4 luglio del 1976 in quella che viene tutt'ora considerata come la più ardita operazione militare per la liberazione di ostaggi nella storia d'Israele. Naftali Bennett, questo il nome del nuovo premier, era molto attratto anche dall'altro Netanyahu, il politico, al punto che quando nel 2005 Bibi ascese al vertice del partito conservatore, Likud, sebbene un Likud dissanguato dalla fuoriuscita di Sharon e dei tanti che lo avevano seguito nella nuova formazione da lui fondata, Kadima, dopo il ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza, anche Bennett entrò nel Likud e più tardi sarebbe diventato chief of staff, capo di gabinetto, di Netanyahu. Ma per poco, perché la costanza dei legami politici non sembra essere una virtù del nostro, il quale nel 2009 capisce che potrà ottenere molto più da alleato che da seguace di Bibi e fonda la Casa Ebraica, il primo di una serie di partitini colonialisti e razzisti, accomunati dalla fede assoluta nella Terra d'Israele (Eretz Israel) e nella necessità di riscattarla strappandola ai palestinesi. Gli stessi estremisti che adesso accusano Bennett di aver tradito la causa, dando vita ad un governo con i “sostenitori del terrorismo”, allusione al partito arabo guidato dal leader palestinese-israeliano Mansour Abbass, entrato a far parte del governo che domenica scorsa ha ottenuto la fiducia. Il governo del “minimo sindacale”, potremmo definirlo, dopo aver seguito attentamente il discorso programmatico pronunciato alla Knesset del nuovo premier e letto le interviste del co-fondatore della nuova maggioranza del “cambiamento”, Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid (“C'è un futuro”) una sorta di “Yes we can” all'israeliana. Il nuovo governo, in realtà una specie di caleidoscopica alleanza di sinistra-centro-destra efficacemente riassunta nello slogan “con tutti tranne che con Bibi”, farà tutto quello su cui i suoi partecipanti sono già d'accordo, vale a dire qualche riforma, la ferrovia Gerusalemme-Tel Aviv, l'Università della Galilea, ovviamente amplierà gli investimenti militari, ma metterà da parte tutto il resto. Che non è poco. L'incendio divampato il mese scorso tra Sheik Jarrah, Gaza e la Galilea, provocando l'ennesima guerra contro Hamas e la risposta mai così temeraria di Hamas contro il territorio israeliano con migliaia di razzi, i morti tra i civili palestinesi, gli scontri all'interno della  moschea Al Aqsa e i gravi incidenti tra  le due comunità scoppiati nelle città a popolazione mista araba ed ebraica, hanno rappresentato per il nuovo premier, Bennett, il “promemoria che il conflitto coi palestinesi è ancora qui”. Vero. È lì da quasi cento anni, e almeno 73, ufficialmente se solo si contano le guerre guerreggiate. Ma come intende affrontarlo il nuovo governo? A sentire Bennett, sembra di riascoltare le frasi ripetute fino alla noia da Netanyahu, contro “i nostri nemici che negano la nostra stessa esistenza nella Terra d'Israele”. E questo a premessa che “non si tratta di un conflitto sopra la terra”, il che palesemente è. Ma per venirne a capo occorre “forza militare, resilienza e fede nella giusta causa”, che, par di capire, si tradurrà nel “rafforzare gli insediamenti in tutta la Terra d'Israele”, con un'enfasi particolare sulla parola “tutta”. Assieme al monito che, riecheggiando una frase del leader del Movimento revisionista ebraico, Vladimir Jabotinski, avverte Hamas di non provarci a mettere in dubbio la capacità di deterrenza israeliana, o sarà costretta a scontrarsi contro un “muro di ferro”. Quanto all'Iran, idem: Israele non permetterà che la Repubblica islamica acquisisca la bomba atomica. Lo Stato ebraico si ritiene libero di agire. Perché, ha detto Bennett, “soffriamo ancora delle conseguenze sul nucleare che ha imbaldanzito l'Iran a suon di miliardi di dollari e gli ha offerto legittimazione internazionale”. Conclusione, che segnala una prima evidente dissonanza nei confronti di Biden e dei tentativi in atto da parte della nuova amministrazione di ricostruire il tessuto diplomatico che rese possibile il dialogo tra Usa e Iran,  “un nuovo accordo sarebbe un errore”. Accenno che a Netanyahu deve esser sembrato acqua fresca al confronto con le sue sparate contro il “peggior accordo diplomatico mai firmato nella storia”, i disegni sulla bomba sventolati all'Assemblea generale dell'Onu, l'odio manifestato verso Obama con l'insultante discorso al Congresso americano e, infine, il sostegno incondizionato offerto a Trump nella decisione di rompere un trattato che, anche secondo i servizi d'Intelligence americani, l'Iran aveva rispettato. Così, il fantasma del sovrano deposto continuava ad svolazzare sugli scranni della Knesset resi invivibili dall'aggressività dei deputati ultra nazionalisti e, l'indomani, nei commenti dei giornali, impegnati ad accompagnare l'uscita di scena dell'ennesimo re d'Israele con un coro degno dell'occasione e dunque a riconoscere che c'era stato del buono nel suo lungo regno e non soltanto del marcio. Anche se, certo, provocare quattro elezioni in due anni, attaccare frontalmente istituzioni che sembravano al di sopra della ciarla politica, come la magistratura, o la polizia, o alcuni Capi di Stato Maggiore, seminare la divisione nel paese accusando gli “arabi (israeliani) di marciare in massa verso le urne”, favorire l'estremismo dei gruppi razzisti e fanatici cui ha teso la mano e proposto alleanze, e tutto questo per evitare di finire sul banco degli imputati, questo, alla fine, è quello che ha provocato la rivolta di molta parte del mondo politico, mascherata da “governo del cambiamento”, e da “con tutti tranne che con Bibi”. Ma come negare, altresì, i risultati ottenuti? Fra questi vengono elencati: la decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con l'evidente riconoscimento dell'annessione unilaterale della parte orientale della città e l'altrettanto unilaterale riconoscimento che trattasi della “capitale unita e indivisibile “dello Stato d'Israele; il riconoscimento americano della sovranità israeliana sulle alture del Golan, territorio siriano strappato alla Siria nella guerra del 1967; la “compartimentazione” del conflitto coi palestinesi per usare un termine che vorrebbe essere elogiativo adoperato dal New York Times, e la sua riduzione della resistenza contro la spietata occupazione militare a semplice problema di ordine pubblico; l'espansione degli insediamenti e infine, udite udite, gli accordi di Abramo che hanno permesso a Netanyahu di dimostrare quanto fondato fosse il suo assunto secondo cui non esiste alcuna questione palestinese che, se non risolta, impedirebbe la pace tra Israele e i Paese Arabi, perché Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan alla fine, hanno firmato accordi con Israele. Ovviamente non si dice che ad ognuno di questi paesi, gli Stati Uniti (Trump) hanno offerto importanti concessioni e che i palestinesi, cioè l'incarnazione vivente di uno dei più lunghi e sanguinosi conflitti della storia moderna, sono del tutto assenti dalla retorica degli accordi di Abramo stretti fra i popoli discendenti del profeta. Ad osservarle attentamente, le conquiste di Netanyahu sembrano altrettanti colpi mortali inferti al processo di pace, ma c'è da aggiungere che esse non sarebbero state possibili senza la condiscendenza degli Stati Uniti e il silenzio complice della comunità internazionale, paralizzata dai ricatti di Trump. Ma quando è esplosa la guerra di Gaza, l'ultima, davanti alle scene agghiaccianti dei palazzi sbriciolati sotto le bombe a guida intelligente americane esportate in israeliane, anche i quattro aderenti agli accordi di Abramo hanno minacciato di richiamare gli ambasciatori. Ma questo nessuno l'ha scritto. 

È la prima volta dopo 12 anni. Naftali Bennett è il nuovo premier di Israele: finisce l’era di Netanyahu. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Giugno 2021. Finisce l’era di Benjamin Netanyahu. Con una risicata maggioranza di 60 voti contro 59, la Knesset ha accordato la fiducia al nuovo governo di Israele guidato da Natali Bennett. Per la prima volta da 12 anni un governo senza Netanyahu. Ultrazionalista di destra, a capo del piccolo partito Yamina, Bennett ha giurato da premier pochi minuti dopo la votazione. Guida una coalizione varia e fragile che include otto partiti con profonde differenze ideologiche: in base all’accordo di coalizione, Bennett resterà premier fino a settembre del 2023, poi la palla dovrebbe passare a Yair Lapid, leader del centrista Yesh Atid, per altri due anni. Gli otto partiti che compongono la coalizione, che includono una piccola formazione araba che fa la storia entrando nel governo, sono uniti nell’opposizione a Netanyahu e a nuove elezioni (il Paese ne ha già avute quattro in due anni) ma concordano su poco altro. È probabile che proveranno a portare avanti un’agenda limitata che prova a ridurre le tensioni con i palestinesi e a mantenere buone relazioni con gli Usa senza lanciare altre grandi iniziative. Leader più a lungo in carica nella storia di Israele, Netanyahu resta a capo del Likud e diventa leader dell’opposizione. È stato premier la prima volta dal 1996 al 1999 e poi continuativamente dal 2009 al 2021. Durante la votazione è rimasto seduto e in silenzio; poi, indossando una mascherina nera, si è alzato e ha stretto la mano a Bennett, prima di sedersi brevemente sulla poltrona del leader dell’opposizione e andare via. Lui, che è a processo per corruzione, resta il capo del più grande partito in Parlamento, il Likud, ed è atteso che farà un’opposizione molto forte. Se anche un solo partito della coalizione cedesse, il governo potrebbe cadere e per lui si aprirebbe un’opportunità di tornare al potere. La promessa di tornare a guidare il Paese Netanyahu l’ha fatta nell’acceso dibattito alla Knesset che ha preceduto la fiducia a Bennett: “Se è nostro destino essere all’opposizione, lo faremo a testa alta” e “se Dio vorrà, rovesceremo” il governo “prima di quanto pensiate”, ha detto l’ormai ex premier. Per lui, “l’Iran sta festeggiando perché questo è un governo debole”. Dal canto suo Bennett, che durante il suo intervento è stato contestato dall’opposizione, ha assicurato che “Israele non permetterà all’Iran di armarsi di armi nucleari” e “non sarà parte dell’accordo” sul nucleare, il cui rinnovo reputa un errore. Lo stallo politico è cominciato ad aprile del 2019, quando nelle elezioni Netanyahu non riuscì a ottenere il sostegno sufficiente a formare una nuova coalizione di governo. Seguirono altre due elezioni senza un esito chiaro. Le terze elezioni portarono a un governo di unità nazionale in cui Netanyahu accettò di condividere il potere con l’allora leader dell’opposizione Benny Gantz, ma l’accordo saltò a dicembre, facendo scattare le quarte elezioni. Pur avendo ottenuto la maggioranza nella Knesset, Netanyahu non è stato in grado di formare un governo, aprendo la strada a questa nuova coalizione. (Fonte:LaPresse)

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Israele, finisce l'era Netanyahu: al suo posto Bennett. Quale futuro per la Palestina? Le Iene News il 14 giugno 2021. Dopo 12 anni consecutivi al governo, Benjamin Netanyahu è costretto a lasciare la carica di primo ministro d’Israele. Al suo posto arriva Naftali Bennett, alla guida di una eterogenea coalizione che potrebbe avere breve durata. Il nuovo premier sembra avere idee molto simili al suo predecessore sullo scontro tra israeliani ed ebrei: ci sarà mai la pace? Quando Benjamin Netanyahu assunse la carica di primo ministro d’Israele, il mondo era molto diverso da come lo conosciamo oggi. Barack Obama si era insediato da poche settimane come presidente degli Stati Uniti; in Italia Silvio Berlusconi guidava stabile il suo quarto governo; Instagram e Tik Tok non esistevano; la grande crisi finanziaria che ha travolto l’Europa non aveva ancora cambiato il nostro modo di vivere. Era il 31 marzo del 2009. Nel suo discorso di insediamento, Bibi - così è soprannominato Netanyahu - assicurò che lui non intendeva dominare i palestinesi, ma anzi era disposto a concedere loro i poteri di autogoverno, esclusi quelli che avrebbero messo - secondo lui - a rischio lo stato d’Israele. Da pochi anni era finita la "Seconda Intifada", una rivolta palestinese contro l’oppressione esercitata da Tel Aviv in quei territori. Ieri, il 13 giugno del 2021, Bibi ha lasciato lo scranno occupato per oltre 12 anni, il più lungo mandato nella storia di Israele. E lo ha fatto subito dopo la fine dell’ennesima crisi arabo israeliana, che in due settimane ha lasciato sul selciato centinaia di morti (soprattutto palestinesi). I rapporti tra palestinesi e israeliani sono stati spesso, probabilmente troppo spesso, al centro della scena politica durante i 12 anni consecutivi di mandato di Benjamin Netanyahu (ne ha servito anche un altro, tra il 1996 e il 1999). Continue tensioni e scontri che hanno portato l’ormai ex primo ministro a spostarsi, negli anni, da posizioni centriste a posizioni sempre più oltranziste nei confronti dei palestinesi e dei paesi vicini con cui Israele ha pessimi rapporti diplomatici, tra tutti l’Iran. Secondo Haaretz, tra i più importanti quotidiani d’Israele, Netanyahu è arrivato a convincere gli israeliani che l’occupazione dei territori palestinesi non solo è sostenibile, ma anche conveniente. La promessa di concedere ai palestinesi la loro sovranità è ormai sbiadita, lontanissima nel tempo. E sbiadita nel frattempo è anche la leadership dello stesso Netanyahu, costretto a lasciare lo scranno più importante della politica israeliana dopo due anni ininterrotti di crisi di governo. A prendere il suo posto è Naftali Bennett, che è stato assistente di Netanyahu molti anni fa e adesso è a capo del partito dei coloni israeliani, il più oltranzista nelle posizioni contro i palestinesi. Guida una colazione raccogliticcia, che va dalla destra al centro alla sinistra fino al partito arabo conservatore, che per la prima volta accede a un governo israeliano. La sua maggioranza si regge sull’astensione di uno dei 120 deputati della Knesset, e c’è chi è pronto a giurare che il nuovo esecutivo avrà vita brevissima. In effetti, a ben guardare i partiti che compongono la nuova coalizione di governo, è chiaro che a unirli sia un solo desiderio: mandare a casa Benjamin Netanyahu e la sua destra religiosa. Ma la cacciata di Bibi non sembra, e quasi sicuramente non sarà, sufficiente a riaccendere la speranza di pace tra israeliani e palestinesi: Naftali Bennett in passato si è espresso chiaramente contro la soluzione dei due stati. E non solo: Bennett è pure contrario a riconoscere pari diritti tra i cittadini israeliani ebrei e non ebrei. Nel 2013, parlando dell’occupazione della Cisgiordania, disse che “non esisteva” perché “non c’è mai stato uno Stato palestinese qui”. Annunciando l’accordo con il partito centrista e laico di Yair Lapid - rinnegando una promessa fatta in campagna elettorale - ha subito dichiarato che il suo governo “non farà ritiri e non consegnerà territori” ai palestinesi. Insomma il cambio di guida in Israele potrebbe portare a molti cambiamenti, ma difficilmente questi riguarderanno gli scontri tra arabi e israeliani. Una guerra infinta, che dura da cento anni e di cui non si vede la fine: noi de Le Iene abbiamo provato a raccontarvela nel corso degli anni, con una serie di servizi realizzati sia in Israele che nei Territori palestinesi. Abbiamo provato a raccontarvi quanto abbiamo compreso di questo scontro, ascoltando le voci sia dell’una che dell’altra parte. Potete rivedere i nostri servizi nel video in testa a questo articolo. Con la speranza che un giorno questo lungo e durissimo conflitto possa finalmente vedere la parola fine.

La complessa agenda economica di Naftali Bennett punta sulla tecnologia. Andrea Muratore su Inside Over il 14 giugno 2021. Naftali Bennett si è insediato alla guida del governo di larghe intese che in Israele ha detronizzato, dopo dodici anni, Benjamin Netanyahu, scalzato assieme al suo Likud dal potere di larga coalizione imbastito dal leader di Yamina, formazione nazionalista di destra, e nuovo premier di Tel Aviv e dal leader centrista Yair Lapid, che si alternerà con Bennett nel 2023 come premier. L’ampia coalizione che forma l’esecutivo, che comprende anche il partito Bianco e Blu dell’ex militare Benny Gantz, i labruisti, i verdi di Meretz, la destra religiosa di Focolare Ebraico e, attraverso il loro appoggio esterno, la Lista Araba Unita, è in larga parte coesa dalla volontà di mettere in minoranza Netanyahu e spingerlo all’opposizione dopo lungo tempo. “Il potere logora chi non ce l’ha”, diceva Giulio Andreotti, e questa prassi è stata accolta dai partner della nuova coalizione che mirano a trovare coesione e una comune direzione di marcia nel compattamento dell’esecutivo attorno al ritorno dei partiti a lungo messi all’opposizione o ridotti a partner di minoranza del Likud. Per rendere meno brusco il cambio di guida al vertice di Israele e favorire una linea di continuità, Bennett ha anche deciso di mantenere nel loro incarico due pedine chiave della catena di comando dell’ex premier Netanyahu. Si tratta del Consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat e di quello militare Avi Blut. Dove invece si potranno vedere maggiori discontinuità è in campo economico. Il motivo è chiaro: un esecutivo tanto complesso nasce per garantire la difesa dello status quo in diversi campi, dal conflitto coi palestinesi alla questione dei coloni, cristallizzando i focolai di tensione politica e spingendo al dialogo forze contrastanti o addirittura diametralmente opposte. Ma per i suoi connotati eterogenei l’esecutivo di Bennet non potrà non orientare su altri punti dell’agenda le sue priorità. L’economia, il rafforzamento della sicurezza industriale e produttiva di Israele, la lotta alle disuguaglianze sono fondamentali per lo Stato ebraico: in primo luogo perché temi meno divisivi; in secondo luogo perché volano per una possibile vittoria politica di lungo termine qualora, per fare un esempio ben comprensibile, a beneficiarne fosse l’intera massa della popolazione, araba ed ebraica. L’obiettivo è creare sviluppo e garantire coesione al Paese. Bennett si troverà a gestire un’agenda economica da lui già guidata dal 2013 al 2015 in qualità di ministro di Netanyahu. L’ex manager e imprenditore nel settore della cybersicurezza ha una visione complessa dell’agone economico. Bennett ritiene infatti, da un lato, che sia necessario in Israele un minor intervento pubblico dello Stato nell’economia così come una riduzione delle facoltà di manovra di apparati come il ministero della difesa in seno al sistema nazionale nei settori strategici, ma ritiene anche che ciò si debba coniugare con un maggior investimento in istruzione, coesione sociale e incentivi all’occupazione per permettere la creazione di competenze nella popolazione che si avvia all’età lavorativa, la trasformazione dei settori e la coesione sociale. Soprattutto, il nazionalista Bennett non ha mai trascurato il fatto che il lavoro, l’imprenditoria e l’istruzione possano essere la strada per rafforzare l’integrazione degli arabo-israeliani, che già di base sperimentano tenori di vita ben più dignitosi di quelli dei palestinesi, ma non sono ancora ai livelli della maggioranza della popolazione. Non a caso Bennett, nota StartMag, “nell’ultima campagna elettorale, all’inizio di quest’anno, ha rivendicato la sua formazione manageriale per ‘guarire’ l’economia israeliana in crisi a causa dell’epidemia di Covid, con una ricetta incentrata sul taglio delle tasse e deregulation”. Fondatore di Cyota, azienda costruita negli Stati Uniti per occuparsi di cybersicurezza e lotta alle frodi, venduta per 145 milioni di euro a Rsa Solutions nel 2005, Bennett è stato poi amministratore delegato di Soluto, azienda pioneristica del cloud computing venduta nel 2013 ad Asurion per oltre 100 milioni di dollari. Il nuovo premier ritiene che le energie del Paese debbano in particolar modo focalizzarsi sul rilancio dell’imprenditorialità dei suoi connazionali e sul coinvolgimento degli arabi, specie nei settori ad alta tecnologia. Adam Fisher, partner del fondo di investimento Bessemer che ha contribuito a far sviluppare finanziariamente Soluto, ha dichiarato: “Spero che in Israele vedremo più personaggi dell’hi-tech entrare in politica. L’hi-tech è il settore economico di punta del Paese, è completamente indipendente, globale e al tempo stesso sionista. È inclusivo e capace di portare insieme arabi e ebrei”. L’innovazione appare il volano strategico per far ripartire l’economia. Anche nel durissimo 2020, contraddistinto da continui lockdown, gli investimenti complessivi, pubblici e privati, nell’innovazione hanno toccato quota 10,6 miliardi di dollari. Erano stati un’enormità, 21,74 miliardi nel 2019, nota Corriere Comunicazioni: il dimezzamento appare solo temporaneo e recuperabile. Inoltre, nello Stato ebraico si contano 45 “unicorni”, società private attive nella tecnologia e nell’informatica con valore superiore al miliardo di dollari, il 10% a livello mondiale. Come spiega Jonathan Pacifici nel saggio “Gli unicorni non prendono il Corona”, Israele ha mostrato punte di successo nella tecnologia anche durante la pandemia. Sanità, sicurezza, energia, aerospazio: i settori in cui l’innovazione ha fatto da driver fondamentale sono numerosissimi. Su questo tessuto Bennett intende operare per rafforzare la fibra dell’economia israeliana, la cui direzione sarà affidata a un “grande vecchio” della politica nazionale, Avigodr Lieberman, esponente di peso di Focolare Ebraico, a lungo braccio destro di Netanyahu ora alla guida delle finanze dopo essere stato ministro degli esteri (2009-2012, 2013-2015) e della difesa (2016-2018). Bennett è un uomo di grande esperienza e, come Liberman, ha ben chiaro il fatto che una delle direttrici su cui l’economia israeliana può crescere è quella del rafforzamento commerciale di Tel Aviv nei campi strategici e dell’alta tecnologia. Non a caso Bennett, già da ministro dell’economia di Netanyahu, ha aperto la strada alla cooperazione multilaterale con diversi Paesi del Medio Oriente, dell’Asia, dell’Africa per rafforzare le partnership di Israele e la sua presenza in mercati terzi. Un’espansione di Israele in mercati terzi si prevede decisiva per rilanciare occupazione, lavoro e sviluppo sistemico. Così come può avvenire anche nel campo del settore energetico che, dall’estrazione nel Mediterraneo alle rinnovabili, vede Israele attivo su tutta la filiera. E si sa che energia e innovazione sono settori saldamente uniti e interdipendenti. Poter mettere assieme istanze ambientaliste, volontà di coesione sociale degli arabi, tutela del lavoro, difesa della produzione e strategie per la ripartenza non sarà facile: ma attorno all’innovazione Bennett ha sicuramente un perno su cui far ruotare una strategia.

Chi è Naftali Bennett. Futura D'Aprile su Inside Over il 14 giugno 2021. Dopo essere stato per anni uno degli uomini più vicini a Benjamin Netanyahu, Nafatli Bennett ha definitivamente preso le distanze dal leader del Likud diventando il king maker delle elezioni di marzo 2021. Ex ministro della Difesa, per gli Affari della diaspora, dell’Economia e dell’Educazione, Bennett si è presentato alle ultime elezioni a capo di Yamina, partito di estrema-destra da lui stesso fondato nel 2019, ottenendo sette seggi. Durante la campagna elettorale non ha preso una posizione esplicita nei confronti di Netanyahu, finendo così con il diventare l’ago della bilancia nella formazione del nuovo governo e diventando il nuovo premier, di fatto chiudendo l’era-Bibi. Ecco la sua storia:

Dall'esercito all'informatica. Nato ad Haifa nel 1972 da genitori americani, Bennett ha passato i primi dieci anni della sua vita tra Israele, Stati Uniti e Canada prima che la famiglia decidesse di trasferirsi definitivamente ad Haifa. Sia la madre che il padre sono ebrei ortodossi moderni, come lo stesso leader di Yamina.

Bennett ha servito nell’esercito israeliano dal 1990 al 1996 e ha fatto parte della Sayeret Matkal, l’unità militare di forze speciali con compiti di ricognizione, operazioni antiterrorismo e raccolta di intelligence in territorio ostile. La Sayeret Matkal si occupa anche del recupero ostaggi fuori dai confini dello Stato ebraico. Di questa stessa unità fece parte anche il fratello di Benjamin Netanyahu, Yonatan. Durante i suoi anni nella Sayeret Matkal, Bennett ha raggiunto il grado di maggiore e ha continuato a servire come riservista, venendo così richiamato durante la guerra in Libano nel 2006 per far parte dell’unità Maglan, cui spettava il compito di svolgere missioni dietro le linee nemiche. Dopo il 1999, Bennett ha ottenuto una laurea in Legge all’Università ebraica di Gerusalemme e si è trasferito a Manhattan dove ha fondato la compagnia di software anti-frode Cyota, successivamente venduta nel 2005 per 145 milioni di dollari. Grazie ai ricavi della vendita della sua start-up, Bennett ha fatto ritorno in Israele ed è entrato in politica.

Carriera politica. Bennett ha iniziato la sua carriera politica al fianco di Benjamin Netanyahu: ha ricoperto per due anni – dal 2006 al 2008 – il ruolo di capo dello staff e si è occupato della campagna per le primarie del Likud del 2007.

Nel 2010, Bennett è stato poi nominato direttore generale dello Yesha Council, una lobby che si occupa di promuovere la costruzione di insediamenti in Cisgiordania, un tema molto caro all’attuale leader di Yamina. Bennett è rimasto nel Likud fino al 2012, quando decise di unirsi a Casa ebraica candidandosi alle primarie per la leadership del partito, in quel momento in forte crisi nei sondaggi. Sotto la sua guida, Casa ebraica riuscì ad ottenere 12 seggi alle elezioni legislative del 2012 e Bennett divenne ministro dell’Economia e degli Affari religiosi. Un mese dopo gli fu affidato anche il ministero per gli Affari della diaspora. Nel governo Netanyahu nato nel 2015, Bennett ottenne invece il ruolo di ministro dell’Istruzione, ma rinunciò alla carica quello stesso anno, tornando a sedersi tra i banchi della Knesset. L’ultimo incarico da lui ricoperto è stato quello di ministro della Difesa dal 2019 al 2020. Entrato nuovamente in Parlamento nel 2018 con Casa ebraica, Bennett decise di lasciare il partito per fondare insieme ad altri parlamentari Nuova destra. L’esperimento fu fallimentare: alle elezioni del 2019 il partito non superò la soglia di sbarramento. Bennett però imparò subito la lezione e diede vita a Yamina, una coalizione con Casa ebraica e Tkuma che vinse sette seggi alle seguenti elezioni. La formazione ha avuto vita breve, ma il successo di Yamina è rimasto invece stabile: in vista delle urne del 2021, Tkuma – oggi Sionismo religioso – ha lasciato la coalizione, ma Bennett è comunque riuscito a vincere sette seggi.

Pensiero politico di Bennett. A livello economico, Bennett è considerato un ultraliberale. A suo parere, il settore privato, vero motore dell’economia, deve essere il più libero possibile dal controllo del governo, mentre le disparità sociali posso essere risolte tramite maggiori investimenti nell’educazione. Da ministro dell’Economia ha poi cercato di diversificare il settore dell’export, aprendo il Paese verso i mercati di Africa, Asia e Sud America e riducendo così la dipendenza dall’Ue. Hanno invece fatto discutere le sue affermazioni sui matrimoni dello stesso sesso, a cui Bennett si oppone in quanto aderente alla corrente ortodossa. Da ministro dell’Educazione ha invece vietato alle scuole di invitare in aula i membri di Breaking the silence o qualsiasi altro movimento critico nei confronti della presenza militare israeliana in Cisgiordania. Bennett è anche ricordato per aver cercato di implementare delle politiche che portassero ad una maggiore integrazione degli ultra-ortodossi e delle donne arabo-israeliane nel settore dell’economia grazie a programmi di apprendimento specifici.

La questione palestinese. La posizione di Bennett nei confronti della questione palestinese è chiara: nessuno Stato palestinese indipendente e sovrano potrà mai vedere la luce. Grande sostenitore dalla costruzione di insediamenti nei Territori occupati, Bennett ha proposto di annettere a Israele l’area C della Cisgiordania offrendo ai palestinesi che vi risiedono la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana. Le aree A e B dovrebbero invece essere amministrate dall’Anp, con Idf e Shin Bet ad occuparsi della sicurezza. Il piano di Bennett prevede anche la costruzione di maggiori infrastrutture nell’area annessa e nelle restanti per garantire la crescita economica di tutto il territorio. Gaza dovrebbe invece passare sotto il controllo dell’Egitto. Il leader di Yamina è quindi contrario alla soluzione dei due Stati e ritiene che non possa esserci alcuna soluzione alla questione palestinese. Secondo Bennett è anche scorretto parlare di occupazione israeliana della Cisgiordania dato che “non è mai esistito uno Stato palestinese”. In caso di formazione di un nuovo governo con lui quale primo ministro, Bennett si è tuttavia impegnato a non promuovere l’aumento degli insediamenti nella West Bank.

CCla. Per "il Giornale" il 14 giugno 2021. Soldato coraggioso, milionario proprietario di società tecnologiche che si è fatto da sé, attivista politico e poi leader di una sua formazione. Naftali Bennett, l'uomo che ha scalzato Netanyahu, è scaltro, instancabile, ambizioso, e molto sicuro di sé. È anche un grande giocatore d' azzardo con una notevole capacità di raggiungere i suoi obiettivi. È nato ad Haifa nel marzo 1972, ma ora vive a Raanana sobborgo a nord di Tel Aviv dove vivono molti anglofoni e hanno sede diverse start-up. Il leader 49enne, è il più giovane di tre figli di genitori immigrati americani Jim e Myrna, che si sono trasferiti in Israele da San Francisco nel 1967, sulla scia della Guerra dei Sei Giorni. Determinato fin dall' inizio, ha superato le prove per far parte dell'unità di comando più prestigiosa dell'esercito, Sayeret Matkal e ha servito poi nel reparto di ricognizione Maglan. Ha lasciato il servizio militare dopo sei anni. Tre anni dopo, alla tenera età di 27 anni, viveva a Manhattan e fondava la sua prima azienda tecnologica, Cyota, che ha venduto sei anni dopo per 145 milioni di dollari. Il suo pallino per la politica è arrivato durante la guerra del Libano del 2006. Ha prestato servizio come riservista in quella guerra, partecipando ad operazioni dietro le linee nemiche per distruggere cellule di Hezbollah. Poi si è dedicato alla politica ed è stato capo di gabinetto sotto Benjamin Netanyahu, allora leader dell'opposizione, dal 2006 al 2008, quando ha litigato con la moglie di Bibi, Sara, ed è stato escluso così dal Likud. Dopo il ritiro da Gaza, che non approvava, si è buttato su una posizione di destra nazionalista, favorevole all' annessione dei Territori in Cisgiordania. È stato ministro delle Finanze e della Difesa in vari governi di Netanyahu, fino a staccarsi dall' alleato di sempre alle ultime elezioni. Una mossa che gli ha fatto guadagnare la premiership. Ma il loro rapporto è stato difficile fin dall' inizio. Bibi nel corso della fulminea ascesa politica di Bennett ha cercato diverse volte di schiacciare il popolare parvenu. Il neo premier invece nella sua scalata ha lavorato molto sulla sua immagine per cercare di andare oltre quella di un leader nazional-religioso e raggiungere anche elettori laici e centristi. Quando è diventato ministro dell'istruzione ha incoraggiato gli studenti delle scuole superiori a specializzarsi in matematica e fisica, e ha sostenuto come il sistema educativo fosse il motore per l'industria tecnologica della nazione. Bennett stringe la mano alle donne, e sua moglie Gilat originaria di una famiglia laica non si copre i capelli. Quando si sono svolte le elezioni del marzo 2021 - la sua scommessa più ambiziosa - ha puntato tutto sulla sfida aperta al potere di un Netanyahu «fallito». Ma per i suoi oppositori è irritante che diventi primo ministro mentre guida una fazione di soli sette seggi e da Netanyahu è pure stato accusato di essere un traditore. La sua scaltrezza e intuito però sembrano dargli ragione e portano sempre più in alto il parvenu che ha spodestato Bibi the King.

Cosa è successo nel 1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Abbiamo parlato nella scorsa puntata del 1973 senza accennare all’evento più drammatico, imprevisto e carico di conseguenze che allora sembrarono catastrofiche e inguaribili. La guerra di Yom Kippur. Quell’anno la festività ebraica di Yom Kippur, la più importante, quella che raduna la stessa tavola dopo lunghissima preparazione tutte le famiglie religiose e laiche del popolo di Israele, coincise con il mese di digiuno e di pace musulmano del Ramadan. Onestamente, proprio nessuno aveva immaginato che potesse accadere una cosa del genere, nemmeno in Israele dove i servizi segreti e le antenne erano irte e sintonizzate da sempre su tutti i segnali provenienti dal mondo nemico di Israele. Fu una guerra tremenda e improvvisa in cui l’Egitto alleato della Siria dell’Iraq attaccò lo stato di Israele nel tentativo di ribaltare le sorti della guerra di sei anni prima, quella del 1967 che in soli sei giorni si era risolta in una disfatta totale delle forze arabe che avevano lungamente pianto per quella sconfitta cocente e disonorevole. Israele non se l’aspettava. Nessuno al mondo se lo aspettava. Fu un grande colpo dell’intelligence sovietica perché la guerra di Yom Kippur fu una guerra sovietica in cui specialmente l’Egitto ricevette dall’Urss le armi più moderne e anche l’addestramento si dimostrò accurato e perfettamente efficiente sul campo di battaglia. L’ artiglieria funzionava e si batteva con quella israeliana il cui personale era stato colto nel sonno e scaraventato alle sue postazioni. All’inizio fu un trauma da formicaio: man mano che la notizia dell’attacco raggiungeva le case, tutti i cittadini, maschi e femmine, vecchi e giovani, si ritrovarono all’istante soldati rispondendo alle chiamate già prestabilite nei punti convenuti. Ma l’effetto sorpresa fu devastante. La notizia arrivò in Occidente e in Oriente come un colpo di fulmine e – in breve – tutti coloro che odiavano gli ebrei gioirono, tutti coloro che provavano pena e senso di protezione per loro e non soltanto per gli israeliani, caddero in uno stato di profonda depressione finché Tsahal (l’esercito) e l’IDF nel suo complesso si riorganizzarono. Quando andai a intervistare Mohachem Begin, qualche anno dopo, gli chiesi quale fosse stato stata la causa della faticosa ripresa e poi della vittoria, e mi rispose: “Gli egiziani fanno come gli inglesi: raccolgono i loro ufficiali nell’alta borghesia e nell’aristocrazia politica. Mettono al comando i figli dei potenti. I nostri sono selezionati tra gli adolescenti più audaci, nelle strade, e così abbiamo un personale militare pronto a combattere senza arrendersi. Noi odiamo la guerra e non possiamo permetterci il lusso della sconfitta. In questo – mi disse ancora Begin – consiste la differenza fra noi israeliani e gli arabi: loro possono perdere tutte le guerre ma essere ancora pronti a cancellarci dalla faccia della terra, mentre noi possiamo vincere tutte le guerre ma sappiamo che se perderemo la prossima perderemo vita, figli e patria”. Tutti dissero allora: questa sarà la più grave crisi energetica della storia. Chiuderanno i pozzi petroliferi. La benzina andrà alle stelle. Il mondo diventerà povero perché non potrà più trasportare cibi al mercato. È l’inizio della fine della civiltà. Parlavano soltanto dei disastri che la guerra mediorientale avrebbe causato al prezzo del petrolio, non ricordando che quando sale il prezzo del petrolio in Medioriente, quello russo fa affari d’oro. La guerra cominciò il 6 ottobre 1973 con un attacco simultaneo e preparato con segretezza militarmente encomiabile dalla Siria, dall’Egitto, e poi dagli altri paesi arabi della coalizione. Ma fu prima di tutto la vendetta egiziana. Gli egiziani erano stati malamente umiliati nel 1956 quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez che apparteneva ad una compagnia privata franco-inglese abilitata ad operare sul territorio nazionale egiziano, e Anthony Eden, già ministro degli Esteri di Winston Churchill, affamato di una guerra che riaffermasse l’esistenza dell’impero britannico, si mise a urlare che Nasser era come Mussolini e che andava trattato come Mussolini e sconfitto come Mussolini. Non che Nasser fosse troppo dissimile da Mussolini, ma era, come quasi tutti gli egiziani, filo-inglese, sentendosi debitore dell’impero per tutte le innovazioni di cui la sua patria aveva fatto uso per diventare una nazione relativamente moderna. Nel ‘56 gli israeliani si accodarono all’attacco franco-inglese mentre americani e sovietici – per la prima volta uniti dopo la seconda guerra mondiale – intimarono l’alt alle operazioni che avrebbero dovuto concludersi con la conquista del Sinai da che lo avevano invaso seguendo un piano secondo cui il Regno Unito avrebbe ottenuto un mandato dell’Onu come peace-keeper per rinsaldare la propria potenza. Nel 1956, sotto la frusta di Mosca e di Washington, inglesi e francesi tornarono alle loro case abbattuti umiliati e gli israeliani semplicemente, si ritirarono. Poi ci fu la grande vittoria israeliana del 1967, i sei giorni. L’esercito di Zahal guidato dal generale Moshe Dyan con una teatrale benda nera, sull’occhio perduto in guerra, travolse l’esercito egiziano con un blitz krieg all’israeliana in cui i soldati combattevano come gruppi di pirati collegati via radio. Stavolta invece le cose andavano per le lunghe: in Siria si era appena installato Hafez al Assad il padre dell’attuale Bashar al Assad, un uomo del partito Baath nazionalsocialista antisemita, a suo tempo alleato dei nazisti tedeschi. Inoltre era un leader laico, anzi ateo e quindi malvisto dei religiosi sunniti che gli negavano il pieno appoggio di una popolazione sensibile quasi soltanto al richiamo dei muezzin. Lo sbandamento israeliano durò sette giorni durante i quali egiziani e siriani penetrarono profondamente in Israele. Ma fu presto chiaro che la loro strategia militare, di scuola tradizionale sovietica, era vecchia anche se bene organizzata. Lo shock nel comando operativo israeliano fu molto duro ma l’analisi che ne seguì dette i suoi frutti. Fu deciso infatti di suddividere le formazioni di carri israeliani in piccoli gruppi di due o tre fra loro dotati di una eccellente comunicazione radiofonica di cui le forze armate sovietiche non erano ancora provviste. I carri israeliani riuscirono così a penetrare attraverso le linee egiziane e con una serie di operazioni di ingegneria molto ardite le avanguardie della fanteria israeliana riuscirono a varcare il canale di Suez su passerelle gettate su pontoni galleggianti dai genieri e su quelle passarono poco dopo gli stessi carri armati israeliani ormai in Africa sulle piste che conducevano al Cairo: alla loro testa era un generale che per questa operazione diventò famoso, Ariel Sharon, che sarà il primo ministro e molti anni dopo decise di donare la striscia di Gaza strappata agli egiziani, personalmente a Yasser Arafat sperando così di chiudere una partita sanguinosa. (Ma Sharon fece questo regalo senza calcolare la forza e la potenza di Hamas, nemica sia dei palestinesi che degli israeliani). Allora i combattimenti furono sanguinosi anche perché i soldati egiziani e siriani si batterono con disciplina e coraggio e morirono in grandi quantità. In tre settimane i morti nel complesso furono 15.000 di cui solo 2000 israeliani. Fu allora che Anwar el Sadat, il presidente egiziano che si era giocato la vita con la guerra, capì che era arrivato il momento di arrivare a far pace con gli israeliani e di mandare al diavolo i russi. Fu a causa di quella guerra del 1973 che l’Egitto decise di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico, di sfidare le forze che si opponevano al suo interno, e furono proprio quelle forze che qualche anno dopo presentarono il conto con un attentato letale che uccise Sadat mentre assisteva alla parata delle sue forze armate. L’Egitto pagò la propria decisione di far pace con Israele, nel ‘73, con l’espulsione immediata dalla Lega araba, un organismo oggi scomparso, bellicoso, militaresco, e che durò finché durò la guerra fredda cioè fino alla caduta di Berlino nel 1989. La guerra per tentare di sopprimere Israele e che Israele invece aveva vinto, divise la destra dalla sinistra in Italia e nel mondo. In breve, quasi tutta la gente di sinistra sia pur tra qualche se e qualche ma, fece il tifo per una operazione che non avrebbe dovuto soltanto correggere confini ma avrebbe dovuto cancellare lo Stato ebraico che le Nazioni Unite avevano ordinato che nascesse insieme ad uno stato palestinese. Dal 6 all’ 11 ottobre del 1973 era durata l’illusione della vittoria ma già all’alba del 12 si vide che la realtà era diversa. La Siria perdeva definitivamente le alture del Golan, su cui aveva piazzato la sua artiglieria per battere Israele. Mentre ancora duravano i combattimenti, gli Stati Uniti si offrirono come mediatori per un cessate il fuoco. Ma Mosca si oppose finché eserciti arabi sembrava vincessero. Nell’ultima fase, gli americani decisero di rifornire massicciamente e senza alcun sotterfugio le forze israeliane che seguitarono a combattere dopo il cessate il fuoco ordinato dall’Onu. Fu quello uno dei momenti di massimo attrito tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Henry Kissinger, segretario di Stato di Nixon, volò a Mosca per chiedere ai sovietici che intenzioni avessero, perché il suo paese – disse – non avrebbe più tollerato l’uso della guerra per annientare Israele. I russi, a parti invertite, furono costretti loro a chiedere agli americani di imporre all’esercito israeliano di cessare la sua avanzata sul Cairo e di deporre le armi. La guerra di Yom Kippur sconvolse i prezzi del petrolio su cui prese il comando l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, imponendo valori fittizi e cominciò una trattativa che spaccò l’occidente: gli americani erano furiosi con gli europei perché non avevano mosso un dito per soccorrere Israele o anche semplicemente per dire chiaramente da che parte stavano. L’Europa sentiva l’America come una potenza non amica le cui azioni avrebbero potuto compromettere gli interessi europei determinati dal prezzo del petrolio e quindi la guerra di Yom Kippur fu considerata l’evento che mise fine alla perenne amicizia dell’Europa debitrice nei confronti degli Stati Uniti è sua alleata. L’America repubblicana rispose a brutto muso che avrebbe fatto da sola, esattamente come poi accadrà con Donald Trump. Anche l’America si spaccò. La fazione filoeuropea, allora come oggi, cancellò la sua tradizione, che era quella di stare dalla parte degli israeliani, cambiò campo benché il nerbo dell’elettorato democratico americano fosse costituito allora come oggi da ebrei di sinistra. Questo evento gigantesco determinò uno scossone brutale in tutte le agenzie dei servizi segreti europei e americani, un capovolgimento della politica sovietica nei confronti dei paesi arabi, una revisione radicale delle questioni energetiche e dei problemi dei prezzi del petrolio e una risposta conseguente ed immediata di quella guerra fu la vampata del terrorismo sotto le bandiere filopalestinesi e filolibiche pur di creare uno schieramento anti-americano che permettesse la collusione della destra con la sinistra. In Italia subito dopo nacquero le Brigate Rosse cui si sarebbero aggiunte le sedicenti brigate nere dei Nar neofascisti con le stesse modalità e armamenti e sloganistica, di quelle ispirate al mondo sovietico. Cominciava così un lungo decennio in cui si svolse una guerra a bassa intensità coperta da strati di retorica. Le conseguenze più sdolcinate furono quelle delle domeniche ecologiche in bicicletta che tanti ricordano come un’età felice molto simile alle giornate naturalistiche di oggi in cui tutti ci precipitavamo con le bici, i bambini sul collo o in canna, le merende sul portapacchi e le borse a penzolare dal manubrio per raduni in luoghi pieni di zanzare in cui con grande spirito di adattamento ci dichiaravamo ci dichiaravamo tutti più o meno fieri di esser parte di una grande coalizione anticapitalista.

CRONOLOGIA DI VENTI ANNI

1956: Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez. Fallisce l’attacco Anglo-Francese all’Egitto.

1958: Scoppia la rivoluzione in Iraq. Gli Stati Uniti intervengono in Libano. Viene proclamata la Repubblica Araba Unita fra Egitto e Siria.

1960: Nasce l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC).

1965: Prima azione di resistenza armata da parte dei Feddayn di Yasser Arafat.

5/11 giugno 1967: Guerra dei sei giorni, Israele occupa la parte orientale di Gerusalemme, la Cisgiordania, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e l’altopiano del Golan, che si annetterà del dicembre del 1981.

22 novembre 1967: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiede all’unanimità il ritiro di Israele dai territori occupati.

1970: Muore il Presidente Egiziano Nasser. I Palestinesi vengono espulsi dalla Cisgiordania.

1972: Un gruppo di Palestinesi sequestra gli atleti Israeliani alle Olimpiadi di Monaco, l’azione si conclude in una strage.

1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera.

1974: Arafat pronuncia il discorso del mitra e dell’ulivo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

1975-1976: In Libano è guerra civile, la Siria e Israele invadono il paese.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La congiura degli (dis)eguali. Uniti solo dall'odio verso Bibi. Fiamma Nirenstein il 31 Maggio 2021 su Il Giornale.  Estrema destra, centro, sinistra. Con l'appoggio arabo Accozzaglia con un unico scopo: eliminare il premier. Bennett l'ha ripetuto giustificando la sua scelta, come tutti si aspettavano, e presentandola come un sacrificio politico e personale: è per evitare le quinte elezioni in due anni che accetto di far parte del «governo del cambiamento» di cui sarò il primo ministro, dato che Netanyahu non ha i numeri. Ma non è vero: la destra avrebbe avuto i numeri, ma ha fatto i capricci, si è spaccata, si è abbandonata all'estremismo di Smotrich che ha dichiarato che con l'appoggio arabo non avrebbe mai accettato, e poi, e soprattutto, all'ambizione personale di Naftali Bennett, capo di Yemin, la Destra, e di Gideon Sa'ar; e sempre a destra, anche l'odio inveterato di Lieberman ha bloccato quella che era la scelta degli elettori. Bennett, Sa'ar, Lieberman e anche Benny Gantz: tutti avevano un conto aperto con Netanyahu. Così adesso Bennett il giovane, capace tecnocrate, ufficiale di valore, critico sì, ma fino a ieri da destra, farà il primo ministro a rotazione, prima di Yair Lapid. Sarà il primo anche se ha meno uomini per il maggiore sacrificio ideologico: a lui il premio più grande, e anche l'accusa di aver tradito e venduto tutto il suo patrimonio ideale. La sua base ribolle, e difficilmente accetterà che la metta in gioco col partito Meretz, ultrapacifista e amico di Abu Mazen, o con Yair Lapid, che non può soffrire i religiosi, appena un po' meno di Lieberman che li vuole tutti coscritti. Ma Bennett ha ceduto a due spinte che il suo carattere ambizioso gli ha imposto: l'occasione unica di essere il premier del piccolo Stato a cui il mondo intero guarda dicendogli ogni giorno «non posso vivere né con te né senza di te», e soprattutto far fuori lo statista che da 12 anni siede in Rehov Balfour, riconosciuto come un leader storico da chi lo ama e da chi lo odia, come Sa'ar, come Lieberman, come tanti altri che lo accusano di arroganza, noncuranza, prepotenza. Ma Bennett aveva promesso ai suoi elettori di non fare alleanze con Lapid, di restare fedele al guscio della destra. È un impegno che adesso sarà difficile mantenere: significa liberalismo economico accentuato, apparato della difesa forte e deciso di fronte ai pericoli, fedeltà al sionismo delle origini, compresa la questione dei territori disputati e dei cosiddetti «coloni» di cui Bennett è stato sempre un sostenitore, tanto quanto altri membri del nuovo governo li detestano. Ma la proposta della rotazione con Lapid lo affascinava da tempo, e adesso vi è tornato dopo il breve ripensamento durante le operazioni a Gaza e gli scontri con gli arabi israeliani. Quando avranno realizzato il sogno «chiunque fuorché Bibi» cosa resterà a questo gruppo? La verità è che Netanyahu, che sembra potere uscire indenne anche dall'assalto giudiziario, sarà un macigno sulle spalle dei partitini al governo lontani fra di loro e senza un leader in comune. Netanyahu è il primo ministro che parla, d'accordo o no, a tutto il mondo e a tutta Israele. e che tutti considerano anche per la severità nel considerare la sicurezza di Israele e insieme per la disponibilità a condividerne i risultati col mondo minacciato dal terrorismo; è, oggi soprattutto, il leader che ha salvato con un'azione unica, il suo Paese dalla pandemia. Adesso come potranno Yair Lapid, C'è un futuro, Blu e bianco di Benny Gantz, Israele casa nostra di Avigdor Lieberman, Gideon Sa'ar con Nuova speranza, fin qui di destra o di centrosinistra, Meerav Michaeli, laburista, Tamar Zandberg del partito radicale estremista, e il futuro primo ministro con 5 o 6 seggi di Yemina, la Destra, parlare con una voce forte a fronte della nuova ipotesi di accordo con l'Iran cui Joe Biden tiene moltissimo e che Netanyahu aveva reso una battaglia principale dello Stato d'Israele? Il recupero dell'economia dopo il Covid, l'eventuale guerra a Gaza se Hamas dovesse attaccare di nuovo, o in Libano con gli Hezbollah, o il rapporto con Abu Mazen, la politica verso gli insediamenti, gli Accordi di Abramo... Tutti temi su cui dei convegnisti possono discutere a lungo. Ma in Israele spesso le decisioni si prendono al volo, pena la vita.

Dagotraduzione dal DailyMail il 25 maggio 2021. Sabato scorso il World Values Network ha comprato un’intera pagina del New York Times per un appello particolare alla cantante Dua Lipa e alle modelle Bella e Gigi Hadid. Secondo il rabbino Shmuley Boteach, a capo dell’organizzazione, le tre star hanno «accusato Israele di pulizia etnica» e «diffamato lo stato ebraico». Non si è fatta attendere la risposta di Dua Lipa, che ha condannato l’annuncio: «Respingo completamente le false e spaventose accuse che sono state pubblicate oggi nella pubblicità del New York Times diffusa dal World Values Network». «Questo è il prezzo che pago per aver difeso i diritti umani dei palestinesi contro un governo israeliano le cui azioni sono state già condannate come percecutori e discriminanti sia da Human Rights Watch che dal gruppo israeliano per i diritti umani V’Tselem». «Prendo questa posizione – ha continuato la cantante, che sta uscendo con il fratello delle due Hadid, Anwar – perché credo che tutti, ebrei, musulmani e cristiani, abbiano il diritto di vivere in pace tra cittadini uguali di uno stato che scelgono». «Il World Values Network sta usando spudoratamente il mio nome per portare avanti la sua brutta campagna con falsità e palesi travisamenti di chi sono e di cosa rappresento. Sono solidale con tutte le persone oppresse e rifiuto tutte le forme di razzismo». La polemica non si è fermata il rabbino del World Values network ha risposto così al post di Dua: «Dua Lipa sta facendo i capricci sui social media. Sfoga il suo odio antisemita ma impazzisce quando viene additata per i suoi pregiudizi e il suo bigottismo. Dovrebbe imparare che quando gli ebrei dicono “Mai più”, intendono “Mai più”». «Non permetteremo che il popolo ebraico venga demonizzato da personaggi come Dua Lipa». 

Anna Guaita per “il Messaggero” il 28 maggio 2021. La guerra delle bombe e dei razzi è ferma per il momento, ma quella delle parole continua anche più infiammata. Il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu, che ha sede a Ginevra in Svizzera, è entrato fermamente nella lotta fra palestinesi e israeliani, decidendo di aprire un'inchiesta sulla sanguinosa battaglia che si è fermata lo scorso 21 maggio dopo un inteso lavorio diplomatico internazionale. La presidente del Consiglio, Michelle Bachelet, ha preso posizione di condanna sui razzi lanciati da Hamas contro Israele, che ha definito «una chiara violazione della legge umanitaria internazionale», ma è stata più dura nei confronti di Israele e delle sue bombe, rivelando che gli agenti Onu in loco «non hanno trovato prove che le costruzioni colpite fossero usate a scopi militari o ospitassero gruppi armati». Bachelet ha ammonito che se l'inchiesta aperta dimostrasse che effettivamente gli attacchi di Israele a Gaza sono stati «indiscriminati e sproporzionati, potrebbero costituire crimini di guerra», e ha concluso che «non ci sono dubbi che Israele abbia diritto a difendere i propri cittadini e residenti. E tuttavia i palestinesi hanno anch'essi diritti. Gli stessi diritti». La reazione di Israele è stata immediata e arrabbiata. Il premier Benjamin Netanyahu ha accolto la decisione del Consiglio per i Diritti Umani sostenendo che deriva da «una chiara ossessione anti Israele». Netanyahu ha sostenuto che ancora una volta «un'immorale maggioranza automatica al Consiglio ha coperto una organizzazione terrorista genocida (Hamas) che prende deliberatamente di mira i civili israeliani trasformando i civili di Gaza in scudi umani». Secondo il premier, il Consiglio attribuisce automaticamente la colpa «a una democrazia che agisce legittimamente per proteggere i suoi cittadini da migliaia di attacchi indiscriminati con i razzi». E ha concluso che l'apertura dell'inchiesta non è che una farsa che «ridicolizza la legge internazionale e incoraggia i terroristi nel mondo». Una certa disapprovazione è venuta anche dagli Usa, la cui missione a Ginevra ha rilasciato una dichiarazione in cui si esprime rammarico per la decisione del Consiglio. È bene ricordare che gli Usa non fanno parte del Consiglio sui Diritti Umani dell'Onu e quindi sono presenti a Ginevra solo come osservatori. La seduta di ieri è stata convocata su richiesta del Pakistan, uno dei 47 Paesi che formano il Consiglio. A sua volta, il Pakistan agiva per conto dei palestinesi e dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica. I palestinesi hanno chiesto all'assemblea dei Paesi riuniti che venga condotta un'indagine sulla «sistematica violazione dei diritti civili» che sarebbe compiuta da Israele sui palestinesi nei territori occupati. È stata ascoltata anche una attivista venuta dal quartiere di Sheikh Jarrah, dove decine di famiglie palestinesi vengono sfrattate da case che secondo la legge appartenevano a israeliani e devono essere restituite a loro: «Non vogliamo la vostra simpatia ha detto Muna El-Kurd -. Vogliamo che fermiate questa pulizia etnica ai danni dei palestinesi». Sono accuse pesantissime, che Israele rintuzza categoricamente, come ha rifiutato la denuncia di «apartheid», attribuita al ministro degli Esteri di Parigi Jean-Yves Le Drian che, in un'intervista dei giorni scorsi, ha parlato appunto di un «rischio apartheid» nello Stato ebraico a causa delle violenze tra arabi e ebrei durante il conflitto. Il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi ha espresso forte contrarietà: «Quelle di Le Drian - ha detto - sono parole inaccettabili che distorcono la realtà. Ci aspettiamo dagli amici che non si esprimano in maniera irresponsabile».

Da tpi.it il 28 maggio 2021. Totti verrà raggiunto nella capitale israeliana da quattro sorteggiati tra gli iscritti al concorso indetto dal noto marchio di birra, che seguiranno con lui lo scontro finale tra le due squadre inglesi. “Ciao Israele fans, sono molto felice di venire in Israele per partecipare alla fantastica esperienza della finale di Champions League con quattro di voi. Sarete la mia Totti team, un uomo, una squadra. See you soon“, dice il numero uno della Roma nel messaggio di lancio dell’iniziativa. La partenza di Totti per Tel Aviv arriva in un momento delicato, nel pieno del cessate il fuoco raggiunto tra Israele e il movimento nazionalista palestinese Hamas dopo giorni di ostilità che hanno provocato numerose vittime, ufficialmente 232 palestinesi a Gaza, di cui 65 bambini, e 12 in Israele, di cui due bambini. Motivo per cui la notizia della partenza del calciatore ha scatenato diverse polemiche, particolarmente forte è stato l’attacco di Chef Rubio. “Comunque la @OfficialASRoma è più vecchia dello stato illegale, teocratico, d’occupazione e apartheid israeliano fondato dai sionisti, gruppo di sadici fascisti, razzisti e colonialisti. Una carriera da Capitano per poi finire camerata“, scrive su Twitter il cuoco e attivista romano Gabriele Rubini.

Da laroma24.it il 31 maggio 2021. Fabio Sonnino e Samuele Giannetti sono romani di nascita e romanisti per fede e per passione. Ma più di tutto, sono il presidente e il vicepresidente della scuola calcio Roma club Gerusalemme, la città in cui vivono e lavorano da tantissimi anni. La foto, postata sui social, di Totti in posa dietro la bandiera del Club ha avuto immediatamente moltissime condivisioni. Ed ha finito per diventare una sorta di risposta implicita alle polemiche innescate nei giorni scorsi da Gabriele Rutini, nell’arte dei fornelli Chef Rubio, che su Twitter aveva attaccato l’ex giallorosso L’antefatto è la serata di sabato. Serata trascorsa dal Pupone in una villa vicino a Tel Aviv per vedere la partita di Champions che si giocava ad Oporto. Un evento promozionale organizzato da un noto marchio di birra. "Ma quella di Totti - spiega Samuele Giannetti — è stata un’operazione puramente commerciale che nulla ha a che vedere con le ultime tensioni in Israele. Tanto è un’operazione commerciale che allo stesso evento, negli anni passati, sono stati invitati Pirlo, Ronaldinho e Del Piero. E mai nessuno li ha attaccati».  E quello di Totti, sabato scorso, era un altro dei suoi regali. «Prima della pandemia, a più riprese, siamo venuti a Roma a Trigoria con una piccola delegazione di giovani leve — spiega Sonnino — E Francesco li ha incantati coi palleggi e i tiri importa». Ragazzini col sogno di diventare calciatori, rapiti dalle prodezze del re del “cucchiaio”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 maggio 2021. Caro Dago, non è facile indicare quali siano stati “crimini di guerra” dopo che le due parti in campo se le sono date di santa ragione. E’ impossibile farlo scegliendo gli episodi uno a uno, separati dal contesto. Ove i nazi avessero vinto la Seconda guerra mondiale, sui banchi degli accusati al modo del processo di Norimberga sarebbero andati i capi politici e militari britannici che avevano ordinato il mostruoso bombardamento di Dresda, una città tedesca che non ospitava installazioni militari. Vedo adesso che un tribunale dell’Onu punta il dito sui bombardamenti di Gaza ad opera dell’aviazione israeliana. Sono moltissimi i civili palestinesi uccisi da quei bombardamenti, molti i bambini vittime innocentissime. Non ci sono prove, sembrerebbe dire l’Onu, che gli edifici presi a bersaglio dai bombardieri israeliani ospitassero davvero installazioni militari. Nel suo comunicato l’Onu critica “anche” i 4000 razzi lanciati da Hamas su Israele a dove coglieva coglieva. Detta così mi sembra una bestialità inaudita, e lo dico da cittadino repubblicano dell’Europa del terzo millennio. Non ho nessun altro titolo per mettere becco sulla questione. Lo faccio solo per dire quanto sia palmare che alle origini della tragedia di questi undici giorni di distruzione e morte c’è l’operato brutale di una gang terroristica di nome Hamas, i cui primi prigionieri sono i cittadini palestinesi di Gaza. Non è che loro abbiano ammazzato meno bambini israeliani per una loro scelta generosa, non è che loro indirizzassero i razzi solo sulle caserme israeliane o sul quartiere generale del Mossad. Loro hanno fatto meno danni solo perché Israele ha un efficientissimo sistema di difesa contro i razzi e perché la buona parte di quegli ordigni ricadevano sullo stesso territorio di Gaza. Loro stavano semplicemente facendo la prova generale di quella che è la loro strategia finale e la loro ragion d’essere, distruggere Israele fino all’ultima sua donna e all’ultimo suo bambino. Niente di meno che questo, assolutamente niente. Poi succede che quando le ostilità comincino, l’orrore della contesa si dispiega in tutta la sua ampiezza, come racconta benissimo un film israeliano sulla guerra in Libano che ho rivisto qualche giorno fa in streaming. Lasciano allibiti di orrore i paesaggi urbani di una Gaza su cui sono piovute armi micidiali. Case distrutte, gente per strada che non ha più un tetto, bambini nelle braccia delle madri. Solo che tutto questo lo devono a Hamas, assolutamente lo devono a loro. Gaza fosse nelle mani di un gruppo dirigente tedesco o israeliano o nordeuropeo, in questi ultimi vent’anni avrebbe potuto diventare una ridente cittadina che si affaccia sul Mediterraneo. Molti di noi avrebbero scelto volentieri di passarci qualche giorno di vacanza, di tastare con mano le condizioni della gente palestinese, nostri fratelli né più né meno che la gente israeliana. E del resto le istituzioni europee e mondiali pagano dei buoni soldi alla gente di Gaza. Solo che quei soldi passano dalle mani criminali di Hamas, quelli che dopo aver vinto le elezioni a Gaza portarono su dopo averlo legato il cuoco di Abu Mazen e lo scaraventarono giù dal terzo piano, gente che li usa per costruire razzi e tunnel sotterranei. Qualsiasi discorso sugli undici giorni stramaledetti di guerra deve partire da questo presupposto, da questo giudizio di fatto. Se non lo fa non è un discorso ahimè quanto necessario sul futuro possibile di Gaza, e bensì cialtroneria.

Da “Swg” il 25 maggio 2021. IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE. A otto anni dal conflitto israelo-palestinese del 2014, l’opinione degli italiani sulla responsabilità dei due schieramenti si mantiene stabile: per una larga parte, 4 rispondenti su 10, si tratta di concorso di colpa, mentre il 18% addita gli israeliani e il 9% i palestinesi. Aumenta però il senso di confusione per cui una quota crescente non se la sente di valutare (+17% rispetto al 2014). Insieme agli elettori del PD e dei Cinquestelle, la generazione Z (gli under 26) si schiera maggiormente con i palestinesi (+10%), in linea con il nuovo trend registrato negli Usa, dove molti teen si sono mobilitati online sotto l’hashtag #PalestinianLivesMatter. Sui mezzi impiegati da entrambi gli schieramenti la condanna è forte: 4 su 10 considerano i bombardamenti israeliani un crimine di guerra, 3 su 10 descrivono il lancio di razzi da parte di Hamas come un atto terroristico. In merito alle cause del conflitto, oggi oltre un terzo del campione indica la dimensione geopolitica di competizione internazionale nell’area, prima ancora del movente religioso o di politica interna. 

All’Europa i cittadini italiani chiedono di condannare le violenze e muoversi con gli strumenti diplomatici (43%): l’invio di ispettori o forze di pace e l’uso di sanzioni sono citate solo da una minoranza. Escluso invece da tutti il supporto militare.

Israele e Hamas siglano il cessate il fuoco: dopo 11 giorni di guerra stop a raid e razzi. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2021. La notizia tanto attesa è arrivata. Dopo un conflitto arrivato ormai all’undicesimo giorno, con 227 morti nella Striscia di Gaza (tra cui 65 bambini e 39 donne) e 12 in Israele, arriva la tregua tra lo Stato ebraico e Hamas, il gruppo politico-militare che controlla il lembo di terra ‘casa’ dei palestinesi. Le forti pressioni internazionali, a partire da quelle del presidente americano Joe Biden, hanno avuto un risultato concreto: il gabinetto di sicurezza israeliano, riunitosi per circa tre ore, ha votato all’unanimità per il cessate fuoco. Notizia poi confermata dall’ufficio del premier Netanyahu, in un comunicato nel quale si afferma che i ministri hanno concordato “di accettare l’iniziativa egiziana per un cessate il fuoco reciproco senza condizioni”. Una mossa arrivata dopo la presentazione ai ministri israeliani, da parte dell’esercito, degli vi militari raggiunti durante l’operazione ‘Guardiano delle Mura’, alcuni di questi “senza precedenti”. Un cessate il fuoco confermato dalla controparte palestinese, Hamas, che ha definito l’accordo “simultaneo e reciproco”. Il cessate il fuoco entrare in vigore dalle 2 del mattino di venerdì, l’una di notte in Italia. L’accordo è commentato positivamente dal ministro degli Esteri palestinese Riad Al-Malki, che dal Palazzo di Vetro dell’Onu all’ufficialità della notizia ha spiegato: “È un bene che il popolo palestinese, gli oltre 2 milioni di loro a Gaza, potranno dormire stanotte sapendo che domani avranno un clima migliore. Ma non è abbastanza, non è affatto abbastanza”. L’ipotesi di uno stop al conflitto era stata rilanciata questa mattina dal Wall Street Journal citando fonti vicine ai negoziati, secondo le quali i mediatori egiziani avevano compiuto “progressi nei colloqui con i leader di Hamas”. Il giornale economico statunitense scriveva infatti che Israele aveva “ammesso” di essere vicino al raggiungimento dei suoi obiettivi militari e che un cessate il fuoco poteva essere “imminente, possibilmente entro 24 ore”, secondo quanto confermato anche da fonti vicine ad Hamas alla Cnn. Nella notte era arrivato l’ulteriore pressing americano, col confronto tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e l’omologo israeliano Gabi Ashkenazi in cui il ‘ministro degli Ester’ Usa aveva ribadito di aspettarsi “una de-escalation sulla strada per un cessate il fuoco”. Conferme arrivate anche su Twitter, dove Blinken aveva spiegato di aver discusso al telefono degli “sforzi per mettere fine alla violenza in Israele, Cisgiordania e Gaza, che ha causato la perdita di vite di civili israeliani e palestinesi, compresi bambini”.

Israele-Palestina: perché le guerre scoppiano sempre a Gaza. Francesco Battistini e Milena Gabanelli il 21 maggio 2021 su Il Corriere della Sera. La pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 54 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella dodicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima.

Sette anni di calma. Era dall’estate 2014 che non si sentivano squillare le sirene con tanta frequenza. Una quiete, solo apparente, perché negli ultimi sette anni quasi 200 palestinesi sono rimasti vittime d’attacchi aerei o d’operazioni di terra; diversi soldati israeliani sono stati uccisi, con decine di civili feriti, e 163 attentati a quei coloni ebrei che, dal 1967, hanno progressivamente occupato la Cisgiordania. E 1.920 palestinesi sono stati feriti dalla polizia, con 8.139 uliveti di proprietà araba vandalizzati dai coloni. Come mai questa linea è stata superata proprio ora?  Da una parte c’è Netanyahu, al quinto mandato, bersagliato da inchieste per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e senza una maggioranza di governo. Dall’altra parte, i palestinesi che restano divisi. In Cisgiordania, dal 2006 è presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, 85 anni, leader del partito Fatah, ma il suo mandato è scaduto da dodici anni: non si va mai alle urne perché tutti i sondaggi prevedono una vittoria del movimento islamico di resistenza Hamas. Nato negli anni ’80, durante la protesta palestinese della Prima Intifada, nel 2006 prese il controllo della Striscia di Gaza. È un movimento che dichiara incompatibile Israele con una Repubblica islamica di Palestina. E Israele, al pari degli Usa e della Ue, lo considera un’organizzazione terroristica.

Gli amici di Hamas. È questa spaccatura palestinese a spiegare perché, negli ultimi quindici anni, il conflitto si sia concentrato sempre su Gaza. Hamas gode dell’amicizia d’un grande sponsor politico come la Turchia di Recep Erdogan, che dal 2010 tenta di forzare il blocco israeliano intorno alla Striscia. Secondo i servizi israeliani e lo stesso Abu Mazen, però, oggi è l’Iran il grande amico di Hamas. Il finanziamento diretto è per circa 6 milioni di dollari al mese, arrivati fino a 30 negli ultimi due anni. Una cifra versata attraverso gli islamici di Hezbollah che controllano il Sud del Libano. Gli Hezbollah sono sciiti come gli ayatollah di Teheran e si battono, come Hamas, per la distruzione del vicino Israele. 

2015: accordo sul nucleare. Dunque per Netanyahu, gli iraniani sono il nemico numero uno. A causa del programma atomico, ripreso nel 2002, che secondo l’Onu ha anche scopi militari e viola il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare. Nel 2015 i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza Onu, Germania e Ue, hanno firmato con l’Iran un accordo voluto dal presidente americano Obama e osteggiato da Netanyahu, che prevede tra l’altro la fine delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente a Teheran. Quel patto è stato una svolta. Ha normalizzato le relazioni tempestose con l’Iran. È da quel momento che contro Israele si sono raffreddate anche le ostilità di Hamas e del piccolo gruppo sunnita che lo fiancheggia, il Movimento per il Jihad in Palestina responsabile di molti attacchi suicidi e finanziato, pure lui, dagli Hezbollah filoiraniani. 

2018: l’inversione di Trump. Poi è arrivato Trump, che nel 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare. Non solo: trasferisce l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale unica e indivisibile d’Israele. E ha ribaltato le alleanze, riavvicinandosi ai tradizionali alleati dell’Arabia Saudita, grandi nemici tanto dell’Iran quanto della Turchia.

L’inversione a U americana è stata la grande vittoria diplomatica di Netanyahu. E infatti dopo di essa, con la stessa puntualità con cui s’erano fermati, sono ricominciati fra Israele e Teheran gli scontri per aria (colpite in Siria le postazioni delle milizie sciite, finanziate dall’Iran), per mare (con incursioni sui cargo israeliani e sulle petroliere iraniane che transitano per il Golfo d’Arabia) e per terra, con due attentati alle centrifughe nucleari di Natanz. Dall’Iran, sono ripartite verso Gaza forniture d’armi sempre più sofisticate. E dopo dieci anni, è ripresa la campagna di eliminazione degli scienziati iraniani che lavorano al nucleare: il 27 novembre scorso è stato ucciso Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma atomico di Teheran. Un assassinio che è seguito a quello, nel gennaio 2020, del generale Qassem Soleimani, il potente capo delle Guardie della Rivoluzione, colpito sulla sua auto da un drone americano.

Pioggia di dollari. La rottura definitiva dell’amministrazione Trump con l’Iran ha portato, il 13 agosto 2020, alla cosiddetta «Pace di Abramo»: l’accordo tra Israele e i più ricchi dei Paesi arabi, Emirati e Bahrein, di tradizione musulmana sunnita e quindi contrapposti agli sciiti iraniani. La «Pace di Abramo» ha un significato politico ben preciso e serve a dirci una cosa: che la soluzione dei Due Popoli e Due Stati, ipotizzata dagli accordi di pace di Oslo e firmata nel 1993 da Rabin e Arafat, non è più una condizione. In altre parole: il mondo arabo non si impunta per contendersi Gerusalemme, i confini restano quelli di oggi senza tirare più in ballo quelli precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967, e i profughi del 1948 in Libano e Giordania restano dove stanno. L’accordo – ammesso che il presidente Joe Biden voglia mantenerlo - prevede una pioggia di soldi sulla Cisgiordania di Abu Mazen, sempre più corrotta e dipendente dagli aiuti internazionali: 50 miliardi di dollari in investimenti stranieri per i prossimi dieci anni, assieme alla promessa d’un Pil raddoppiato entro il 2030, d’un milione di posti di lavoro, della povertà ridotta del 50%, d’un export schizzato dal 17 al 40% del Pil, d’un ranking della Banca mondiale pari a quello del Qatar.

L’avanzata degli insediamenti. Non è detto che i soldi bastino. E basti un accordo disegnato a tavolino nel 2020, peraltro senza i palestinesi. Il pericolo d’una Terza Intifada, se mai scoppierà, è legato a quel che s’è mosso in questi anni di tregua armata. Il complotto di corte contro il re di Giordania — che in aprile ha portato all’arresto del fratellastro del sovrano Abdallah, sospettato di voler rovesciare una famiglia regnante dove la regina (Rania) è una palestinese — anche questo rientra nei timori d’un allargamento della questione palestinese, dove i profughi dalla Cisgiordania sono il 70%. Il sogno d’Abramo rivela i suoi limiti. Due dei tre Paesi che hanno aderito — Emirati, Bahrein — hanno già protestato per le bombe su Gaza. E intanto nei Territori palestinesi non s’è fermata la sistematica violazione dei diritti umani, assieme alla politica degli espropri e degli insediamenti illegali d’Israele. «Più che coi nemici, mi sembra di trattare con agenti immobiliari», un giorno ironizzò amaro il negoziatore palestinese Saeb Erekat, calcolando il tempo a favore delle betoniere che costruiscono insediamenti: nel 2025, i coloni saranno più di 700mila. Un settimo della popolazione palestinese in Cisgiordania. A quel punto sarà la geografia, prima di qualsiasi guerra con Hamas, a impedire definitivamente la nascita di uno Stato palestinese.

E l’Europa. Piccola postilla. C’era una volta la Ue, che si batteva per il rispetto degli accordi di Oslo. «Ormai il conflitto coinvolge più gli euro che l’Europa», disse il famoso mediorientalista, Nathan Brown. E infatti ci laviamo la coscienza finanziando l’Autorità palestinese, che senza i nostri soldi non vivacchierebbe: abbiamo evitato di disturbare il manovratore politico, finché era solo l’America, ma i giochi adesso possono farsi più complessi. Le guerre, più dure. E agli europei si chiederebbe un ruolo diverso.

Soleimani, la “confessione” di Israele. Lorenzo Vita su Inside Over il 23 dicembre 2021. L’uccisione di un nemico non è mai una notizia da dare facilmente. Significa svelare di fronte al mondo quello che viene solo sospettato o detto a mezza bocca. La conferma di una campagna precisa, chirurgica, a volte anche plateale ma senza alcuna vera ammissione di colpa.

Israele, in questo senso, compie da molti anni operazioni di raid e omicidi mirati in cui il suo nome non appare da nessuna parte, ma solo sospettato. È una verità che tutti conoscono eppure che nessuno può dire con certezza, perché sono gli stessi vertici dello Stato ebraico a non dire mai con certezza quando e se colpiscono, nemmeno a fatto avvenuto. Un po’ come avviene da diversi anni in Siria, dove i raid dell’aeronautica israeliana sono ormai regolari eppure le Idf, le Israel defense forces, evitano in ogni caso eccessi di trionfalismo. E lo stesso avviene con i cosiddetti omicidi mirati: quelle operazioni dei servizi di intelligence in cui vengono uccisi gli elementi  più importanti degli apparati nemici e in cui non esistono conferme, se non in inchieste giornalistiche o rivelazioni di gole profonde più o meno volute per inviare un segnale. Basti pensare al caso dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, uno dei vertici del programma nucleare iraniano. Lo stesso dicasi per Baha Abu al Ata, guida del braccio militare della Jihad islamica, ucciso da un raid israeliano a Gaza mentre era nella propria abitazione. E sono solo alcuni degli ultimi episodi in cui si parla di veri e propri omicidi chirurgici compiuti da forze militari e agenti segreti dello Stato ebraico.

Stupisce, quindi, (anche se ultimamente non troppo, e scopriremo perché) che Israele, tramite le parole dell’ex capo dell’intelligence militare, generale Tamir Hayman, abbia ammesso il coinvolgimento nell’omicidio di Qasem Soleimani. Il generale iraniano, vertice dei Pasdaran iraniani e a capo delle operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione, venne ucciso nel gennaio del 2020 in un attacco con un drone condotto dagli Stati Uniti all’aeroporto di Baghdad. In una intervista alla rivista Malam pubblicata dall’Israel Intelligence Heritage and Commemoration Center, Hayman ha affermato che l’eliminazione di Soleimani “fu un successo perché ai nostri occhi il nemico principale è l’Iran”. “È raro che un uomo di grado talmente elevato sia al tempo stesso l’organizzatore della forza combattente, uno stratega e anche colui il quale impartisce ordini”, ha spiegato il generale, il quale ha aggiunto che “Soleimani rappresentava un forte potenziale di danno per la stabilità della regione, era la locomotiva del treno dell’espansione iraniana”. Il generale, che ha terminato il suo incarico a ottobre, ha poi confermato che esistono “due omicidi significativi e importanti” avvenuti durante il suo mandato. Uno è appunto quello di Soleimani, l’altro, citato in precedenza, quello di Abu al-Ata.

Per Israele si tratta di un’ammissione che non è solo la confessione di un ex vertice dell’intelligence militare. Da tempo lo Stato ebraico ha scelto una strada diversa anche nel modo di comunicare: per certi versi anche più sfacciata. Da un lato si inviano segnali molto diretti all’avversario regionale, l’Iran, in un momento di tensione per i pochi risultati sul negoziato per il programma nucleare. Dall’altro lato, il messaggio è rivolto a tutti coloro che sono considerati nemici dagli apparati israeliani: non è solo un avvertimento rivolto a Teheran, ma, come dimostrato anche dalla conferma dell’assassinio di uno dei leader della Jihad islamica, anche per tutti coloro che costruiscono una strategia contro Israele. L’omicidio mirato diventa quindi un’arma al pari di un raid: un metodo pubblico, non per questo ritenuto migliore, ma sicuramente accettabile. Ed è un importante punto di svolta anche per i rapporti di vicinato e con vecchi e nuovi alleati: l’intelligence sa come, dove e chi colpire. Anche più degli Stati Uniti. 

Hamas minaccia: "Residenti Tel Aviv state attenti". Guerra di Gaza, Israele bombarda grattacielo sede di Al-Jazeera e AP: “Inorriditi, il mondo saprà meno cose ora”. Redazione su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Israele ha abbattuto il grattacielo Al Jala, che agli ultimi piani ospita gli uffici dei media di Al Jazeera e Associated Press e di altre agenzie di informazioni, perché “Hamas lo usava come nascondiglio”. Prosegue la guerra nelle Striscia di Gaza con l’ultimo bombardamento che ha fatto crollare l’edificio di 12 piani. In precedenza Israele aveva bombardato i tunnel dei miliziani costruiti dopo lo scontro del 2014 e un campo profughi provocando la morte di diversi bambini. “Hamas ha trasformato zone residenziali a Gaza in postazioni militari”. Ha giustificato così l’attacco il portavoce militare israeliano. “Usa edifici elevati a Gaza per fini militari di vario genere come la raccolta di informazioni di intelligence, la progettazione di attacchi, operazioni di comando e controllo, e per le comunicazioni”. Il portavoce ha aggiunto che la aviazione israeliana ha avuto cura di non colpire civili, “ricorrendo a messaggi sms” e “colpendo preventivamente il tetto” dell’edificio con un primo attacco di avvertimento “che fa rumore e non danni”. “Tutti i grattacieli colpiti da Israele erano sfruttati per fini militari”, ha rimarcato, specificando che “quando Hamas utilizza un edificio elevato per fini militari, esso diventa un obiettivo militare legittimo. Il diritto internazionale è chiaro”. All’attacco è seguita la reazione di Hamas, che ha minacciato nuovi razzi contro Tel Aviv. Abu Obeida, portavoce dell’ala militare, le Brigate Izz al-Din al-Qassam, ha annunciato una dura reazione: “I residenti di Tel Aviv e del centro d’Israele devono stare attenti”, ha detto, citato da Times of Israel. In precedenza, l’ultimo lancio di razzi su Tel Aviv aveva provocato un morto in un edificio colpito a Ramat Gan, sobborgo cittadino. La vittima è un uomo di 50 anni, colpito nel suo appartamento dalle schegge innescate dall’esplosione. Hamas ha fatto sapere che l’attacco è “la vendetta” per i morti nella famiglia Abu Hatab, colpita a Gaza all’alba, con unico superstite un bimbo di pochi mesi.

La reazione di AP: “Scioccati e inorriditi”. “Siamo scioccati e inorriditi dal fatto che l’esercito israeliano abbia preso di mira e distrutto l’edificio che ospita l’ufficio di AP e altre organizzazioni giornalistiche a Gaza. Conoscevano da tempo l’ubicazione del nostro ufficio e sapevano che c’erano dei giornalisti. Abbiamo ricevuto un avviso che l’edificio sarebbe stato colpito”, ha dichiarato il presidente dell’agenzia americana AP Gary Pruitt, “Stiamo cercando informazioni dal governo israeliano e siamo impegnati con il dipartimento di Stato degli Stati Uniti per cercare di saperne di più. Questo è uno sviluppo incredibilmente inquietante. Abbiamo evitato per un pelo una terribile perdita di vite umane. Una dozzina di giornalisti e liberi professionisti di AP erano all’interno dell’edificio e per fortuna siamo stati in grado di evacuarli in tempo”. “Il mondo”, ha concluso Pruitt, “saprà meno di ciò che sta accadendo a Gaza a causa di ciò che è accaduto oggi”.

La Casa Bianca: “Garantire incolumità giornalisti”. “Abbiamo comunicato agli israeliani che garantire la sicurezza e l’incolumità dei giornalisti e dei media indipendenti è una responsabilità fondamentale”. Lo ha scritto su Twitter la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki.

Giornalista Al Jazeera: “Lavoriamo in ospedale”. E’ l’ospedale Al Shifa di Gaza City “l’unico posto più sicuro che conosciamo” e dove “siamo in grado di lavorare”. A riferirlo è la giornalista di Al Jazeera Youmna al-Sayed che ha poi spiegato che il proprietario dell’edificio ha ricevuto e quindi comunicato l’ordine di evacuazione soltanto un’ora prima dell’attacco e che i militari israeliani hanno rifiutato di concedere ulteriore tempo.

Unicef: “40 bambini uccisi e 38 scuole danneggiate”. “Ieri sera, altri 8 bambini palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza. Il più piccolo aveva 4 anni, il più grande 15. Dall’inizio dell’escalation 5 giorni fa, 40 bambini sono stati uccisi nella Striscia di Gaza e 2 in Israele. Questi sono bambini. Questa è una grave violazione”. E’ quanto rende noto l’UNICEF. “Decine di altri bambini sono stati feriti. Molti giovani palestinesi sono stati arrestati”, prosegue il Fondo Onu per l’infanzia, aggiungendo che “35 scuole nella Striscia di Gaza e 3 scuole in Israele sono state danneggiate dalle violenze. Gli attacchi alle scuole e alle strutture educative rappresentano una grave violazione contro i bambini”.

Francia, tensioni al corteo pro-Palestina. In decine di città francesi si stanno tenendo manifestazione a sostegno dei palestinesi mentre continua il conflitto tra Israele e Hamas. L’attenzione è concentrata in particolare su Parigi dove i manifestanti hanno deciso di marciare nonostante il divieto emesso dalle autorità e confermato dal tribunale amministrativo. Il capo della polizia di Parigi Didier Lallement ha ordinato la chiusura dei negozi intorno al punto di partenza della marcia in un quartiere operaio nel nord di Parigi. Gli organizzatori hanno affermato che intendono “denunciare le aggressioni israeliane” mentre la polizia ha avvertito che userà gli idranti contro chi sfida il divieto. Le proteste sono state consentite in numerose altre città, tra cui Lille e Marsiglia. Le autorità hanno giustificato il divieto a Parigi ricordando che nel 2014 una protesta pro-palestinese vietata contro l’offensiva israeliana a Gaza è degenerata in violenze e scontri con la polizia. L’escalation degli attacchi missilistici tra Israele e Hamas ha messo a dura prova le autorità francesi, che temono il conflitto possa accendere violente proteste nel Paese.

Manifestazioni pro-Palestina anche in Inghilterra. Un fiume di manifestanti a sostegno della Palestina ha sfilato per le vie di Londra lungo Hyde Park verso l’ambasciata israeliana a Kensington. Lo riporta il sito della Bbc. Alcuni fumogeni rossi e verdi – riferisce l’emittente britannica – sono stati salutati da applausi dai manifestanti che sventolavano bandiere palestinesi. Tra i cori “Palestina libera” chiedono che Israele fermi gli attacchi aerei e che il governo britannico intervenga.

Gianluca Perino per "il Messaggero" il 17 maggio 2021. «Se cercheremo di eliminarli? Certo. Chiunque ha organizzato e sta mettendo in pratica questo attacco nei confronti di Israele è un nostro target». L'alto ufficiale dell'IDF, l'esercito di Gerusalemme, per ragioni di sicurezza preferisce mantenere l'anonimato. Ma non fa giri di parole. E spiega che in cima alla lista dello Stato ebraico ci sono soprattutto i tre pezzi da novanta di Hamas che stanno dirigendo le operazioni dall'interno della Striscia: Yahya Sinwar (il cui covo è stato distrutto la scorsa notte ma, a quanto pare, lui si è salvato), Mohammed Deif e Marwan Issa. Ma chi sono questi uomini? E che posto occupano nella catena di comando dell' organizzazione terroristica?

I DOCUMENTI Secondo i rapporti dell'intelligence israeliana il più pericoloso è Mohammed Deif. Il 55enne nato a Khan Younis, nella parte Sud della Striscia, è il potente capo dell'ala militare di Hamas ed è l'uomo che ha progettato e fatto realizzare la rete di tunnel (costata oltre un miliardo di dollari) che doveva servire per spostare armi, difendere Gaza da una eventuale invasione via terra e consentire ai vertici dell'organizzazione terroristica di muoversi con maggiore facilità e meno rischi. Un'opera faraonica, che però è stata di fatto smantellata un paio di giorni fa da una serie di raid israeliani. Non solo. L'IDF, nelle scorse ore, è riuscito anche ad uccidere alcuni dei fedelissimi di Deif, che adesso è più solo e, in parte, anche più vulnerabile. Ma non è detto che per questo sia più facile da colpire. «Nelle nostre operazioni - spiega ancora l'ufficiale dell'IDF - dobbiamo sempre tenere conto della popolazione civile di Gaza, che Hamas sfrutta per raggiungere i propri scopi. Non vogliamo fare vittime innocenti. I terroristi, invece, non hanno scrupoli. Anzi, sperano che muoiano più palestinesi possibile per giustificare la loro esistenza con l'Iran e gli altri sponsor. E per cercare di portare la comunità internazionale dalla loro parte». È quindi molto difficile raggiungere Deif sul proprio terreno. Anche perché spesso, per evitare di essere colpiti, i capi di Hamas si mischiano alla popolazione civile, tenendo riunioni in scuole e in altri uffici pubblici.

GLI ATTENTATI Oltretutto, Mohammed Deif è già sfuggito a cinque tentativi di eliminazione da parte israeliana. Attacchi che gli hanno causato anche pesanti danni fisici (cieco da un occhio, è stato gravemente ferito alla spina dorsale e deve muoversi su una sedia a rotelle) ma dai quali alla fine è riuscito sempre ad uscirne vivo. Gerusalemme gli dà la caccia da oltre venti anni, perché è ritenuto responsabile, tra le altre cose, dell'uccisione dei soldati Shahar Simani, Aryeh Frankenthal e Nachshon Wachsman, e di alcuni attentati agli autobus a Gerusalemme e Ashkelon che hanno causato la morte di oltre cinquanta cittadini israeliani. In realtà è una specie di fantasma, si muove con grande attenzione e frequenta una cerchia molto ristretta di fedelissimi. Tanto è vero che in circolazione ci sono pochissime foto che lo ritraggono e tutte risalenti ad almeno venti anni fa.

GLI ALTRI Ma in cima alla lista ci sono anche Yahya Sinwar e Marwan Issa. Il primo, scampato all'attacco di ieri, è il capo di Hamas di Gaza, in pratica il numero due del movimento guidato da Ismail Haniyeh. Come Deif è nato a Khan Yunis, in un campo profughi, 59 anni fa. Alle sue spalle ha una lunga scia di crimini, che gli hanno garantito la scalata all'interno dell'organizzazione. È stato anche catturato e condannato a quattro ergastoli per il rapimento e l'uccisione di due soldati israeliani. Ma poi è uscito di prigione grazie ad uno scambio di prigionieri per il soldato israeliano Gilad Shalit. Grazie a questa opportunità è potuto rientrare a Gaza nel 2011, dove ha preso il comando di Hamas a partire dal 2017. Tra i tre, quello di peso minore è sicuramente il 56enne Marwan Issa, che però ricopre comunque una posizione di spicco all'interno dell'ala militare di Hamas. E che, soprattutto, gode della fiducia di Mohammed Deif.

Mattatoio Gaza. Piccole Note il 19 maggio 2021 su Il Giornale. Amira Hass verga un durissimo atto di accusa contro i bombardamenti di Gaza in una nota pubblicata da Haaretz dal titolo: “Gaza viene cancellata: Israele sta spazzando via intere famiglie di proposito”. Secondo la Hass, che si rifà a fonti dell’organizzazione israeliana B’Tselem e delle Nazioni Unite, nel corso dei bombardamenti alcuni edifici sono stati abbattuti, “per quanto è noto, senza alcun preavviso” che permettesse agli occupanti di “evacuare le case prese di mira”, come invece è accaduto per altri target, come ad esempio la Torre che ospitava al Jazeera, l’Associated Presse e altri media internazionali. Da qui l’alto numero dei civili uccisi, di cui molti bambini. “Spazzare via intere famiglie attraverso i bombardamenti israeliani è stata una delle caratteristiche della guerra del 2014″, scrive la Hass. “Nei circa 50 giorni di guerra, i dati delle Nazioni Unite dicono che 142 famiglie palestinesi furono cancellate (742 persone in totale). I numerosi incidenti di ieri e di oggi attestano che non si trattava di errori: e che il bombardamento di una casa con tutti i suoi occupanti ancora al suo interno dipende da una decisione dall’alto, esaminata e approvata dai giuristi che supportano i militari”.

Nessun preavviso. Nel 2014, scrive la Hass, tante vittime innocenti furono causate dal fatto “che l’esercito israeliano non ha fornito alcun preavviso ai proprietari della casa [presa di mira] né agli inquilini; o dal fatto che l’avviso non ha raggiunto l’indirizzo corretto in tempo”. Quindi, dopo aver elencato vari casi in cui i bombardamenti sono stati preceduti da un preavviso per salvare i civili, spiega: “Il fatto stesso che l’esercito israeliano e lo Shin Bet [l’intelligence militare ndr] si preoccupino di chiamare e ordinare l’evacuazione delle case dimostra che le autorità israeliane hanno i numeri di telefono correnti degli abitanti di ogni struttura che stanno per distruggere. E hanno i numeri di telefono dei parenti delle persone sospettate o note per essere attiviste di Hamas o della Jihad islamica”. “Il registro della popolazione palestinese, compreso quello di Gaza, è nelle mani del ministero dell’Interno israeliano. e ha dettagli come nomi, età, parenti e indirizzi”. Ciò perché l’Autorità palestinese deve comunicare a Israele nuovi nati, indirizzi e quanto altro, continua la Hass. Informazioni che prima di essere ufficializzate devono “ricevere l’approvazione israeliana, perché senza di essa i palestinesi non possono ricevere la carta d’identità quando sarà il momento o, nel caso di minori, non potranno viaggiare da soli o con i loro genitori attraverso i valichi di frontiera controllati da Israele”, viaggi necessari per quanti si recano a lavorare fuori dalle ristrettezze economiche della Striscia o altro. “È chiaro, quindi, che l’esercito conosce il numero e i nomi dei bambini, delle donne e degli anziani che vivono in ogni edificio residenziale che bombarda”, conclude la Hass. Di obiettivi militari e non. L’altro corno della questione riguarda il motivo per cui un edificio viene abbattuto, cioè la sua definizione di “obiettivo militare”, riguardo al quale non è previsto alcun preavviso ovviamente, che prevede uno spettro molto ampio di possibilità. La Hass spiega che alcuni degli edifici abbattuti “sono stati individuati come infrastrutture operative o di comando e controllo dell’organizzazione o infrastrutture terroristiche, anche se tutto ciò che avevano era un telefono o semplicemente aveva ospitato una riunione” di membri dell’organizzazione. Infine, flessibile è anche il concetto di “proporzionalità” sul quale si basano le operazioni dell’esercito israeliano, che soppesa anche la possibilità e l’entità dei “danni collaterali” dei bombardamenti. “Una volta che l”importanza’ di un membro di Hamas è considerata alta e la sua residenza è identificata come obiettivo legittimo per i bombardamenti, il danno collaterale ‘ammissibile’,- in altre parole il numero di persone innocenti uccise, compresi bambini e neonati – diventa molto ampio”. Commovente la nota della Hass, che elenca nomi e cognomi dei civili innocenti morti a Gaza: ad oggi sono 213, di cui 63 bambini. Resta che anche Hamas non è che lanci fiori sul territorio israeliano, e che i civili innocenti ebrei sono altrettanto importanti, sia i vivi che, purtroppo, i morti, che sono. Detto questo Hamas non ha armi di precisione: un razzo al massimo può essere indirizzato verso una città, non su un obiettivo più specifico, al contrario della controparte, che sa dove e quando colpire. Importante un altro articolo di Haaretz, firmato da Amos Harel, che spiega come nel corso dei colloqui intercorsi in questi giorni tra i più importanti esponenti politici israeliani e i capi dell’esercito è emerso che la “stragrande maggioranza di essi ritiene che l’ operazione a Gaza sia prossima alla conclusione”. Gli obiettivi strategici sarebbero cioè stati conseguiti, dato che all’esercito era stato dato mandato di tagliare le unghie ad Hamas e ripristinare la deterrenza, non altro e più radicale.

Ma, spiega, Harel, Netanyahu vuole una “vittoria netta”, un successo che si riverberi anche nell’ambito politico israeliano. A tale proposito ricorda che il suo rivale Yair Lapid ha ancora due settimane di tempo per cercare di formare un governo alternativo al suo, come da mandato del presidente di Israele. “Nulla di nuovo sotto il sole”, conclude Harel, conclusione alla quale ci associamo. Il mattatoio continua.

L'escalation a Gaza. “I media non cedano alla propaganda di Hamas”, intervista a Noemi Di Segni. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Dolore, inquietudine e rigetto di una visione propagandistica della tragedia che si sta consumando a Gaza e in Israele. Sono i sentimenti che dominano nell’ebraismo italiano e di cui Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), si fa interprete in questa intervista a Il Riformista.

Bombe, razzi, morte e distruzione. A Gaza, in Israele. Quali sentimenti prova di fronte a tutto ciò?

Tantissima tristezza, tantissima angoscia e tantissima disperazione e struggimento. Lo strazio è anche per il crimine di donne e bambini utilizzati come scudi umani. Uffici e centrali terroristiche ubicati nei palazzi ordinari civili. Perché? Poi si comincia a ragionare sui ma e i però e i perché. Tutta l’analisi lato israeliano è un’analisi lunga e complessa. Come comunità ebraiche abbiamo a cuore questa situazione sia per l’identità ebraica che abbraccia e comprende Israele e una storia che comprende tutto il sentire ebraico. Per noi Israele è un punto di riferimento e lo Stato d’Israele va difeso e ha il diritto di difendersi e di essere riconosciuto e salvaguardato. Questo da un punto di vista da qui verso Israele. Ma poi da Israele a qui: quello che succede nei territori israeliani, nei territori che sono il controllo dell’Autorità Palestinese, genera un quadro di pressioni e di sentimenti in qualsiasi altra parte del mondo e anche dove ci sono le comunità ebraiche che a loro volta ricevono l’eco di quello che succede in maniera molto forte, come esplicitazione di antisemitismo a livello locale.

Qual è il segno di questo antisemitismo?

È un antisemitismo che nasce da una rappresentazione assolutamente appiattita e monocolore, frutto di una propaganda ben studiata della parte palestinese nelle sue varie articolazioni. L’Autorità Palestinese, il terrorismo palestinese, Hamas e le altre organizzazioni palestinesi hanno un disegno ben preciso, ben chiaro che non accetta l’esistenza d’Israele. E su questo è assolutamente necessario che governi e media capiscano con chi si ha a che fare, con il supporto di potenze note, Iran, Turchia, Qatar… All’interno di questo disegno di distruzione c’è l’uso della propaganda. Israele non mostra le proprie vittime, né quelle degli altri. E non le fa vedere, quelle degli altri, non per negarle, ma perché non crede che sia un modo di comunicare in una situazione di questo genere. Non fa vedere i propri cittadini feriti, massacrati, assassinati. Non li esibisce. Lo stile urlante, quello della propaganda, non ci appartiene. E qui torno ad Hamas…

E alla sua “guerra” di propaganda…

Una propaganda fatta di immagini struggenti, molto gravi che alcuni giornali italiani hanno messo in evidenza. Cosa che non è stata fatta in anni e anni di conflitti e di guerre. Neanche i bambini siriani venivano messi così sulle pagine dei giornali per creare pietà nel mondo per quel che succede in altri Paesi con guerre tuttora in corso. Ma per la Palestina sì. C’è un modus operandi giornalistico che favorisce la condivisione di immagini, materiali che sono propaganda, non informazioni che arrivano dal lato palestinese. O immagini completamente costruite ad arte, inesistenti nella realtà, di come i soldati israeliani trattano bambini o donne palestinesi. Immagini inventate totalmente, come è facilmente dimostrabile. Questo è qualcosa di letale. Usare una propaganda che penetra a gocce, a gocce che diventano fiumi, nell’opinione pubblica, non solo palestinese ma nei media internazionali ed europei, che finisce per supportare l’azione di chi mira alla distruzione, all’annientamento totale d’Israele e del suo popolo. Questo è esattamente quello che è accaduto prima della Seconda Guerra mondiale. È esattamente la stessa cosa. L’alert io lo rivolgo a chi deve imparare a distinguere un linguaggio da un altro. Questo genera ulteriore stress e ansia. Non si tratta di fare pace “al mignoletto” come fra bambini che hanno litigato. Siamo davanti a una situazione storica e geopolitica estremamente complessa, perché comporta tante ideologie e tanti interessi che vanno anche oltre i confini d’Israele e dei due popoli. Due popoli, due Stati, si ripete.

Impossibile?

È uno slogan troppo facile. Due popoli esistono, ma due Stati con chi? Con chi si fa questo Stato palestinese? Questo è l’enorme punto interrogativo irrisolto. E va ricordato che la proposta di costituire lo Stato palestinese è stata fatta nel ’47, è stata fatta da Ehud Barak nei negoziati di Camp David e fu risposto no. È stato liberato il territorio di Gaza che da anni non è più sotto controllo. È stato fatto il ritiro unilaterale da parte di Sharon, dopo di che si è detto: organizzatevi in questo territorio. E quel territorio, la Striscia di Gaza, ha un confine con Israele e ha un confine con l’Egitto. Perché quel territorio ha oggi quell’assetto, mentre gli altri territori hanno un assetto diverso? Ci sarà una spiegazione legata anche a chi controlla quei territori per davvero. Perché Israele riesce ad arrivare ad accordi di pace con altre potenze arabe e qui no? Non può essere solo la “cattiveria” israeliana che vuole distruggere il popolo palestinese. Se avessimo voluto distruggere Gaza, perché allora le operazioni sono così mirate, chirurgiche? Se uno davvero odiasse, se davvero fossimo come siamo dipinti, allora basterebbe una bomba per radere al suolo tutto in tre minuti. Non è stato fatto perché è chiaro che non è questa la volontà, il disegno. Io vorrei con tutto il cuore che il popolo palestinese vivesse in una situazione di raccordo con la popolazione israeliana, ma quel popolo è sotto il controllo delle proprie autorità che non consente di andare avanti in questa direzione. Come comunità ebraiche siamo preoccupate per questo modo di rappresentare il conflitto israelo-palestinese, in particolare in questo momento così drammatico. E ad aggravare la preoccupazione c’è un altro fatto…

Quale?

Quello che accade nelle città miste, etnicamente vissute da ebrei israeliani e da arabi israeliani. Ciò che sta accadendo fa malissimo. Perché mentre sulla parte degli accordi con i palestinesi la situazione, anche per quanto riguarda Gaza, è molto complessa e investe negoziati anche a livello internazionale, sul piano delle città miste israeliane, lì c’è una sfida che dipende da noi. Da noi tutti, cittadini, autorità locali, governo. Come si vive in armonia, come si convive giorno per giorno, casa per casa, negozio per negozio. Io ricevo tantissimi messaggi, fioccano iniziative per dire noi: vogliamo vivere insieme. Medici, ingegneri, persone che lavorano al supermercato, persone che stanno al lavaggio delle macchine insieme. In qualsiasi fotografia di vita quotidiana, arabi ed ebrei israeliani che esplicitano di voler vivere insieme. E va assolutamente recuperato questo senso di fiducia. La sfida è sul quotidiano. E siccome l’ho visto con i miei occhi, posso testimoniare che si può. Questo dipende da noi. E ciò passa anche per l’isolamento di quelle frange che puntano alla divisione e allo scontro. Israele non è pacco di fiocchi rosa. Ci sono tantissime sfide nella società israeliana, anche all’interno del mondo ebraico. Ma la forza d’Israele non è quella di essere un fiocco rosa. La sua forza è essere una democrazia che affronta i problemi,

E sul versante palestinese?

La diplomazia va sostenuta. Un accordo va ricercato. Ma ci sono presupposti dai quali non si può prescindere. Il primo dei quali è il riconoscimento del diritto di d’Israele all’esistenza e la salvaguardia di questo diritto. E poi c’è la strumentalizzazione ideologica che viene fatta su Gerusalemme, e che va ben oltre ciò che si vorrebbe fare di Gaza o sui confini. Haniyeh, il capo politico di Hamas, ha fatto un discorso ideologico su Gerusalemme, che catalizza molto consenso. Lui si vuole affermare come leader. E anche questo sfugge alla comprensione di chi vive in Europa. C’è una dialettica aspra all’interno degli stessi movimenti palestinesi, di chi vuole affermare il proprio potere sugli altri. Il mondo deve capire le ragioni d’Israele. Ciò che sta avvenendo in Israele, a Gaza, riguarda l’Europa, riguarda l’Italia. Non basta guardare da lontano con pietà. Non basta l’appello del Papa. Qui bisogna intervenire e salvaguardare valori che sono della cultura nostra, in Italia e in Europa. E questi valori sono riflessi nella difesa d’Israele. Se non si comprende questo, se si cede alla propaganda e non si fa informazione, si regala ad Hamas il controllo dei valori distorti. E il mondo perde. Ed è quello che è successo negli anni ’30. Propaganda, propaganda, propaganda. E poi il disastro.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 17 maggio 2021. È il 16 febbraio 2003. Nidal Farahat è al lavoro in un'officina di Gaza su un modello di drone acquistato sul mercato civile. Con lui alcuni militanti di Hamas, membri dell'apparato impegnato nello sviluppo di armi. Qualche istante dopo sono dilaniati da una bomba nascosta nel mini-velivolo, una trappola del Mossad. L'omicidio mirato è il primo in una lunga campagna di Gerusalemme per neutralizzare gli uomini coinvolti nel programma per lo sviluppo di razzi. All'epoca erano i Kassam, costo sui 300 dollari, gittata una dozzina di chilometri. La morte di Farahat è una perdita simbolica, ma non ferma i progetti delle fazioni che aumentano gli sforzi per avere sistemi migliori. Nel 2009 importano, con l'assistenza dell'Iran, i missili Fajr. I carichi arrivano via nave in Sudan, proseguono lungo le piste dei contrabbandieri verso il Sinai egiziano per essere quindi trasferiti a Gaza. Israele reagisce con i suoi metodi abituali. Nel gennaio 2009 esce la notizia di un raid aereo contro un convoglio di camion nella regione sudanese di al Shananun, informazioni parlano del trasporto di armamenti, girano sospetti persino sugli Usa. Invece sono stati gli israeliani, responsabili anche dell'affondamento di un cargo nei pressi di Port Sudan. A dicembre dello stesso anno una misteriosa esplosione coinvolge un bus a Damasco. A bordo vi erano esperti di Hamas e iraniani, tutti coinvolti nel piano di riarmo. I pasdaran forniscono materiale finito e tecnologia, svolgono la funzione di consiglieri mentre l'alleato mette in piedi una propria «industria» con inventiva e determinazione viste le condizioni di Gaza. L'asse Iran-Hebzollah-Gaza non si interromperà mai. Non passa neppure un mese ed arriva un colpo clamoroso: l'assassinio in un hotel di Dubai di Mahmoud al Mabhouh. La vittima ricopre un ruolo cruciale nella catena di approvvigionamento militare, viaggia molto, è l'interlocutore di Teheran e di personaggi fidati in Sudan. I killer usano una sostanza letale, sperano che il decesso sia imputato ad una crisi cardiaca. La polizia locale non «dorme», denuncia la trama del Mossad, pubblica le foto dei responsabili. Show mediatico per avvertire Gerusalemme. I «cacciatori di teste» si limitano ad attendere. Rispuntano in Ucraina l'11 febbraio 2011, quando rapiscono su un treno Diran Abu Sisi, ingegnere, esperto nel campo missilistico in Est Europa. Lo portano nello Stato ebraico, lo chiudono in cella e ottengono informazioni importanti. Che probabilmente sono usate per un nuovo strike a Port Sudan ai primi d' aprile: il target è il presunto successore di al Mabhouh. E a fine maggio, ancora nel porto sudanese, salta in aria Nasser Said, membro del clan Abada, presentato come uno dei perni dei traffici. A giugno a Damasco trovano il corpo semicarbonizzato di Kamel Ranaja, indicato come procacciatore di armi. Altra sequenza: il 24 ottobre 2012 i sudanesi accusano Gerusalemme di aver bombardato con i caccia una fabbrica di munizioni a Yarmuk. È una lotta senza tregua, perché i palestinesi ad ogni confronto rivelano pezzi più potenti, ne estendono il raggio d'azione, li nascondono meglio. Capacità che provocano le contromosse dell'intelligence contro elementi impegnati in ricerche belliche. Nel 2016 una sofisticata operazione elimina a Sfax, in Tunisia, Mohamed Zawahiri. Superano la sua cautela con il pretesto di un'intervista (finta). Ancora più lontano dal teatro l'agguato dell'aprile 2018: Kuala Lumpur, Malaysia, dove cade sotto il tiro di una coppia di sicari Fadi al Batsh. La guerra segreta del Mossad ha privato il nemico di teste pensanti, ha ostacolato la linea di rifornimento. Non è però riuscita a impedire che i militanti ottenessero ciò che volevano: mezzi non comparabili alla potenza dell'avversario, tuttavia sufficienti per mantenere la sfida.

Israele e Palestina, storia di una guerra infinita e di una convivenza (im)possibile. Le Iene News il 14 maggio 2021. Tra Israele e la fazione palestinese di Hamas a Gaza è di nuovo guerra aperta da giorni, dopo la decisione del governo israeliano di chiudere la "porta di Damasco", un importante varco di accesso alla Spianata. Ma il conflitto tra parte del popolo arabo e quello ebraico che da un secolo convivono su quelle terre affonda le sue radici molto in profondità: ecco da dove nascono gli scontri di questi giorni, anche con un servizio di Antonino Monteleone in cui incontriamo una famiglia palestinese e una israeliana delle colonie. Dessau è una piccola cittadina tedesca nel cuore della Sassonia, una delle regioni che oggi compongono la repubblica federale di Germania. A quasi tremila chilometri di distanza sorge una delle città più famose e importanti della storia, Gerusalemme, che in questi giorni è tornata tristemente alla ribalta per gli scontri tra le autorità israeliane e Hamas. Proprio di Gerusalemme e di questo conflitto infinito vi abbiamo parlato anche nel servizio di Antonino Monteleone del 2017 che vedete qui sopra: abbiamo passato un po’ di tempo in compagnia di una famiglia palestinese e di una israeliana delle colonie per capire meglio questo conflitto che sembra senza fine. I conflitti tra israeliani e palestinesi continuano, a fasi alterne, da oltre settant’anni, da quando il 14 maggio del 1948 David Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Ma per capire questo conflitto che insanguina da decenni la Terra Santa bisogna partire da lontano, proprio da quella cittadina tedesca che sonnecchia appoggiata sulle rive dell’Elba. Il 6 settembre del 1729 le gelide acque del più importante fiume dell’Europa centrale tennero a battesimo Moses Mendelssohn, filosofo tedesco di origine ebraica e importante pensatore dell’Illuminismo. Alle sue opere si fa risalire la nascita - o meglio la rinascita - dell’Haskalah: un movimento di pensiero che riteneva necessario introdurre modifiche allo stile di vita tradizionale degli ebrei, permettendone la contaminazione con altre culture senza però rinnegare i fondamenti della propria identità. È a questo movimento di pensiero che si deve, per esempio, la modernizzazione della lingua ebraica. Ed è da questo filone dell’Illuminismo, nato e sviluppatosi in Germania, che un secolo dopo nacque l’ideologia politica del sionismo. Non si può riassumere in breve né la complessità dell’Haskalah, né quella del sionismo. In questo contesto basti sapere che quest’ultimo sosteneva il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico e la nascita di uno Stato d’Israele in quelle terre che la Bibbia definiva le “terre d’Israele”. A cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importanti ondate migratorie interessarono l’allora territorio di Palestina sotto il controllo dell’Impero Ottomano: migliaia di ebrei iniziarono a trasferirsi in quelle terre anche per l’impulso culturale del sionismo, un fenomeno che prenderà il nome di Aliyah, “la salita” in ebraico. Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1918, la Palestina passò sotto il controllo dell’Impero Britannico e il processo migratorio degli ebrei aumentò considerevolmente: Londra, favorevole all’idea di creare due stati distinti, separò le terre del proprio mandato in Transgiordania a est ed insediamenti ebraici a ovest. È la prima pietra della diffidenza e poi scontro tra ebrei e arabi nella zona. Dalla fine della Grande Guerra all’inizio delle persecuzioni ebraiche da parte della Germania nazista, la popolazione ebraica residente in Israele passò da 80mila a 400mila persone. E già in quegli anni la tensione tra gli abitanti musulmani e quelli ebrei iniziò a montare, dando non pochi problemi alle autorità inglesi nel gestire l’ordine pubblico in Palestina. Nel 1936 la situazione degenerò e iniziò quella che oggi viene chiamata “grande rivolta araba”: un’insurrezione degli arabi palestinesi contro i coloni di origine ebraica durata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Le popolazioni arabe della zona, che già vent’anni prima si erano sollevate in modo simile contro l’occupazione ottomana, lamentavano la benevolenza con cui i britannici sembravano favorire l’immigrazione ebraica. Migliaia di arabi e centinaia di ebrei morirono durante gli scontri. Alla tensione si aggiunse l’ulteriore ondata migratoria causata dalle feroci persecuzioni contro gli ebrei in Germania prima e in Italia dopo. Lo scontro tra palestinesi ed ebrei, insomma, è iniziato anni prima che Israele nascesse. È in quegli anni che nacque e si sviluppò la città di Tel Aviv, futura capitale de iure di Israele. Ed è proprio in quegli anni che le attività economiche ebraiche e arabe, fino ad allora sostanzialmente interconnesse, si separarono in modo deciso. Furono proprio quegli scontri tra le due fazioni che piantarono definitivamente il seme di quanto stiamo vivendo ancora oggi. Facendo un salto in avanti nel tempo, arriviamo alla fine della Seconda guerra mondiale: l’atrocità della Shoah portò gli occidentali a vedere la nascita di uno Stato d’Israele come una sorta di compensazione di quanto accaduto. Il 29 novembre 1947 l’Onu stabilì ufficialmente la nascita di due stati separati, Israele e la Palestina. Nel primo, che occupava un po’ più della metà del territorio del mandato britannico, avrebbero vissuto mezzo milioni di ebrei e quasi altrettanti arabi. Nel secondo, la popolazione era quasi tutta araba. Ma questi ultimi lamentavano l’ingiusta partizione delle terre: molte di quelle fertili sarebbero infatti state destinate a Israele. Caso a parte Gerusalemme, la città santa per gli ebrei e i cristiani e la terza città più importante per i musulmani: sarebbe stata zona franca gestita direttamente dall’Onu. Senza entusiasmo, gli ebrei accettarono il progetto delle Nazioni unite. Gli arabi della zona, supportati dagli stati circostanti, no: appena finì il mandato britannico sulla Palestina, il leader del popolo ebraico Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato d’Israele. Il giorno dopo, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania invasero il neonato Stato. Contro ogni prospettiva e pronostico, Israele vinse nettamente la guerra. In meno di un anno il conflitto terminò e Israele occupò moltissimi territori esterni ai suoi confini. Quasi un milione di palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case: “al-Nakba”, la catastrofe, così i palestinesi chiamano l’esilio a cui furono costretti dal conflitto. Crucialmente, anche Gerusalemme Ovest fu occupata da Israele, che lì trasferì gli uffici del governo e proclamò capitale dello stato. Molti dei territori che sarebbero  dovuti essere parte dello stato di Palestina, furono occupati dagli altri stati arabi: la striscia costiera di Gaza dall’Egitto, la Cisgiordania dalla Giordania. La Città Santa entrò così in uno stato di guerra permanente che dura fino a oggi. Metà città controllata da Israele, l’altra metà controllata dalla Giordania. Intanto, per ritorsione alla cacciata dei palestinesi dai territori occupati da Israele, gli stati arabi limitrofi iniziarono a loro volta a cacciare gli ebrei: quasi un milione di persone si trasferirono così in Israele, aumentando la presenza ebraica nei confini. Nei decenni successivi si sono combattute altre guerre aperte tra Israele e i suoi vicini: nel 1956 Israele partecipò alla guerra di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez. Meno di un decennio dopo, nel 1964, nacque l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, con il sostegno della Lega araba. Nel 1967 si passò nuovamente alle armi, con Israele che attaccò l’Egitto causando la risposta di Siria e Giordania: lo stato ebraico vinse nettamente la guerra, occupando Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai. Nel 1973 Egitto e Siria contrattaccarono, nello scontro divenuto famoso come “guerra dello Yom Kippur”, festività ebraica durante la quale fu lanciato l’attacco. Una battaglia terminata in stallo, con l’Egitto che riottenne il Sinai in cambio del riconoscimento dell’esistenza di Israele (prima di allora nessuno stato arabo l’aveva riconosciuta). Quella del 1973 rimane di fatto l’ultima guerra aperta combattuta tra gli stati confinanti arabi e Israele, ma di certo non è l’ultimo periodo di guerra o guerriglia nella zona. Nel 1987, a seguito delle continue colonizzazioni di Israele dei territori occupati, venne lanciata dai palestinesi la “prima Intifada”: atti di disobbedienza civile, scioperi generali, boicottaggio di prodotti israeliani, barricate e attacchi alle forze militari israeliane. Tel Aviv rispose con durezza: in quattro anni furono oltre mille i palestinesi uccisi dagli israeliani e quasi altrettanti quelli uccisi da altri palestinesi, perché accusati di collaborare con il nemico. Alla prima Intifada, terminata nel 1993, ne seguì una seconda iniziata nel 2000: l’allora leader israeliano Ariel Sharon visitò la Spianata (del Tempio per gli ebrei, delle Moschee per i musulmani), scatenando la reazione dei palestinesi. Furono altri cinque anni di guerriglia, che causarono la morte di mille israeliani e 5mila palestinesi, in grande maggioranza vittime civili. Tra le due Intifade, l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin per mano di un estremista di destra ebraico, avvenuto nel 1995, segnò la fine dei difficilissimi colloqui di pace tra le due fazioni. Il 13 settembre del 1993 infatti è rimasta ancora oggi la data in cui la pace tra israeliani e palestinesi è sembrata più vicina: l’immagine dei due leader, Rabin e Yasser Arafat, che si stringono la mano sotto lo sguardo compiaciuto del presidente americano Bill Clinton, passò alla storia e aveva riacceso le speranze di pace dei due popoli. Speranza che purtroppo è rimasta lettera morta. Nel corso degli ultimi decenni infatti la tensione tra israeliani e palestinesi è continuata a crescere con vicendevoli scontri e attacchi. Il governo di Israele ha colonizzato territori occupati che i palestinesi rivendicano come propri. Alcune città - di cui Betlemme è l’emblema - vivono in uno stato di durissima occupazione militare: l’intero centro abitato è circondato da un muro, con checkpoint per poter entrare e uscire. E la popolazione araba denuncia le continue angherie che è costretta a subire. La Palestina oggi è ridotta alla Striscia di Gaza e a parte della Cisgiordania: Gaza è controllata da Hamas, un’organizzazione politica e paramilitare che - almeno da alcuni stati, tra cui gli Stati Uniti - è indicata come organizzazione paraterroristica. La Cisgiordania è invece governata da al-Fatah, anch’essa un’entità politica e paramilitare che non è però accusata di praticare azioni terroristiche. A rendere ulteriormente complicato il quadro politico della zona - e le condizioni di vita dei palestinesi - c’è il conflitto, che dura ormai da quindici anni, proprio tra Hamas e al-Fatah: nel 2006 le due fazioni palestinesi si sono combattute per il controllo della striscia di Gaza. La guerra è stata vinta a Gaza da Hamas e da allora le due aree non contigue che formano la Palestina odierna sono controllate da due entità che a stento dialogano tra di loro in una situazione di spartizione di fatto. Insomma, come è facile intuire le terre di Israele e Palestina sono una vera polveriera. Per capire fino in fondo le tensioni che animano quelle terre però manca ancora un elemento, quello religioso, fin qui di sottofondo al racconto ma in realtà cruciale negli eventi dell’ultimo secolo. E se si parla di religione, nessun luogo al mondo ne è impregnato come Gerusalemme. Gerusalemme è una Città Santa per ebrei, cristiani e musulmani. Conquistata da re David nel 1000 a.C., fu capitale dello stato ebraico fino alla conquista per mano di Alessandro Magno nel 331. Tutti i tentativi di ellenizzare la città, operati dalle varie occupazioni che si sono succedute nei secoli, hanno però sempre trovato una fiera resistenza da parte degli abitanti ebrei. Nel 70 d.C., a seguito dell’ennesima ribellione contro la dominazione straniera - questa volta romana - l’imperatore Tito ordinò la distruzione del Tempio che sorgeva sulla Spianata. Nel VII secolo Gerusalemme cadde sotto la dominazione araba che, escluso l’intermezzo della conquista cristiana a seguito della prima crociata, è durata quasi ininterrottamente fino alla fine della Prima guerra mondiale e l’arrivo degli Inglesi, di cui abbiamo già raccontato. Gerusalemme dunque è stata al centro di moltissimi eventi storici, che abbracciano le tre grandi religioni monoteiste: è stata la capitale del regno d’Israele dove sorgeva il Tempio ebraico, è stata la città dove s’è svolta la predicazione e l’uccisione di Gesù, è stata anche teatro della preghiera prima di ascendere al cielo del profeta Maometto nel 621. Tutto questo fa di Gerusalemme Città santa per tre distinte religioni, che nel corso dei secoli si sono spesso fatte la guerra per detenerne il controllo. Oggi il Muro del Pianto, che “regge” la Spianata su cui ormai due millenni addietro sorgeva il Tempio, è il luogo di preghiera più sacro dell’ebraismo. Ma sulla Spianata sorgono da secoli la moschea al-Aqṣā e la Cupola della Roccia: insieme formano l’al-Ḥaram al-Sharīf, il terzo sito più sacro del mondo per i musulmani. In poche decine di metri quadrati si concentrano due dei luoghi di preghiera più importanti del mondo. Chi di voi è stato nella Città santa - che come abbiamo raccontato dal 1967 è occupata militarmente da Israele - sa bene cosa sia in realtà oggi il Muro del pianto e la Spianata: una sorte di fortezza, difesa da centinaia di soldati, dove la tensione tra due popoli e due fedi si respira come elettricità nell’aria. La santità ha lasciato da tempo il campo alle armi. E basta una scintilla per far esplodere quell’elettricità. Le rivolte di questi giorni, anche se come abbiamo raccontato hanno radici storiche e culturali ben più profonde, sono state scatenate dalla decisione del governo israeliano di chiudere uno dei più importanti varchi d’accesso alla Spianata, la porta di Damasco che affaccia sulla parte nord ovest della città: un atto visto dai palestinesi come l’ennesima negazione dei propri diritti da parte dell’occupante israeliano. Una scelta legittima di governo al tempo della pandemia per evitare assembramenti, per le autorità ebraiche. E così Israele e Palestina sono di nuovo in guerra aperta. A oggi sono più di cento le persone che hanno perso le vita, in grande maggioranza civili palestinesi: le forze regolari israeliane stanno pesantemente bombardando la Striscia di Gaza costringendo i palestinesi alla fuga, dopo che dalla Striscia stessa erano partiti attacchi missilistici verso le città israeliane (in gran parte naturalizzati dall’Iron Dome, un sistema di protezione antiaereo israeliano).  Si dice che: “Chi sarà capace di portare la pace a Gerusalemme, potrà portarla in tutto il mondo”. Noi tutti aspettiamo l’arrivo di quel giorno. 

Perché l’ultima chance di pace in Medio Oriente morì con Yitzhak Rabin. Francesca Salvatore su Inside Over il 15 maggio 2021. Nel luglio del 1992 Yitzhak Rabin divenne premier in Israele, il primo ad essere nato nel Paese: era lui l’eroe di guerra che, in qualità di capo di Stato maggiore, polverizzò i progetti tattici egiziani durante la Guerra dei sei giorni. Da quel momento, la vita e le missioni di Rabin si intrecciarono saldamente ai destini della vicenda arabo-israeliana. Prima dell’estate del 1992, infatti, Rabin visse molteplici vite: da militare ad ambasciatore negli Stati Uniti, ministro, perfino uno scandalo finanziario che lo costrinse a stare nell’ombra. Un’eterna rivalità con Shimon Peres, che poi sarebbe stato fondamentale nella svolta verso l’Olp. Ma all’alba di quel nuovo decennio post Guerra fredda, Rabin scelse di abbandonare il pugno di ferro trasformandosi da “Mister sicurezza” a interlocutore, seppur cauto, dell’Olp.  Sul tavolo, la sempiterna opzione della nascita di un soggetto autonomo palestinese, osteggiata dal Likud. Una complessa situazione acuita dalle tensioni esacerbatesi dopo lo scoppio dell’intifada a cui il governo conservatore di un altro Yitzahak (Shamir) rispose col pugno di ferro nel 1990.

La svolta del 1993-94. Mentre la diplomazia seguiva i suoi canali, sottotraccia, i laburisti salirono al potere e Rabin impresse una svolta decisiva verso i negoziati. Alla fine dell’estate del 1993 una “dichiarazione di principi” raggiungeva un compromesso storico fra le due parti: autogoverno palestinese per la striscia di Gaza e Gerico e autonomia (seppur inferiore) per i territori occupati. Il 13 settembre di quell’anno a Oslo, Shimon Peres e Mahmoud Abbas firmavano a Washington l’elaborato realizzato con la mediazione norvegese. Un anno dopo, per imporre l’imprimatur internazionale a quello sforzo, il leader palestinese Yasser Arafat, Rabin e il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres ricevettero il premio Nobel per la Pace. Quell’anno non era iniziato sotto i migliori auspici: a cominciare dal massacro di Hebron del 25 febbraio, in cui un ebreo israeliano uccise 29 palestinesi musulmani in una moschea. Nello stesso anno, altri attentati, rivendicati soprattutto da Hamas, colpirono Tel Aviv, segnando 22 morti. Nel resto del mondo, il 1994 sembrava imprimere significati nuovi al sistema internazionale, di segno, però, opposto: la guerra nei Balcani, il conflitto somalo, il genocidio ruandese ma anche la cementificazione dell’Unità europea e Mandela presidente del Sudafrica. Un nuovo ordine che guardava al centro del Medio Oriente come a un termometro del mondo che sarebbe venuto. Ecco perché un’ulteriore svolta sarebbe stata impressa, nell’immaginario collettivo, due anni dopo a Washington, quando Rabin e Arafat, con la benedizione di Bill Clinton si strinsero la mano sotto i riflettori del mondo intero.

I contenuti della pace. Al di là della solennità epica del momento, la pace del 1995 era un accordo più che concreto e obbligò i contraenti a mettere sul piatto della bilancia principi fino ad allora irrinunciabili: venivano definiti i paletti di un processo nel quale Israele acconsentiva alla nascita di un’entità statale palestinese (anche se il termine “stato indipendente” non venne utilizzato) e l’Olp si piegava a riconoscere lo stato di Israele, “rinunciando” al desiderio di espellere gli israeliani dall’area. Questi ultimi, inoltre, acconsentivano al ritiro da Gaza e da parte della Cisgiordania. Israele, inoltre, riconobbe l’Olp come unico rappresentante del popolo palestinese. A sottendere gli aspetti militari vi era poi un corposo piano di crescita economica comune, considerato la base per il decollo internazionale dell’area e per la coesistenza pacifica.

Promesse epocali, rinunce epocali. Gli accordi fondevano due serie fondamentali di scambi. In primo luogo, Israele si sarebbe affrancata dalla responsabilità della popolazione palestinese, pur mantenendo il controllo strategico del territorio. I palestinesi si sarebbero sbarazzati del giogo militare israeliano e avrebbero ottenuto l’autogoverno, giungendo gradualmente a conquistare lo status di nazione. In secondo luogo, il disconoscimento della violenza da parte di Arafat e il suo impegno a combattere il terrorismo – attraverso l’uso di una forza di polizia nazionale palestinese – sarebbe stato una garanzia anche per gli israeliani. I palestinesi, inoltre, avrebbero attinto dalla grande quantità di aiuti esteri dagli Stati Uniti (e da altri Paesi ) e dagli accordi economici stipulati con Israele progettati per promuovere l’occupazione e il commercio. La sterzata di Rabin suscitò un’enorme opposizione da parte del Likud, sebbene la maggioranza degli israeliani, in un primo momento, lo sostenne fortemente, soprattutto perché l’accordo avrebbe permesso a Israele di sbarazzarsi della polveriera di Gaza. Specularmente, non tutti i palestinesi, tuttavia, furono favorevoli al nuovo corso di Arafat. Hamas vi si oppose violentemente scagliando una serie di attacchi terroristici contro civili israeliani.

La morte di Rabin e l’occasione perduta. L’atmosfera in Israele e nei territori palestinesi occupati, nei mesi precedenti l’assassinio di Rabin, era turbolenta; un misto di speranza, paura e odio. In alcuni manifesti, sventolati alle manifestazioni contro gli accordi, i nemici israeliani di Rabin solevano ritrarlo come un nazista, con l’uniforme nera delle Ss. Tra i palestinesi, i militanti di Hamas avevano già iniziato una campagna di attentati suicidi: Oslo per loro era una resa e non poteva esserci alcun compromesso territoriale con uno Stato che credevano non dovesse esistere. Eppure, la sensazione generale, popolare e intellettuale, suggeriva che gli estremisti, sebbene scalciassero, fossero stati messi finalmente sotto scacco. Rabin, che era stato a lungo il volto della macchina bellica di Tel Aviv, amava ripetere: Io, che ho inviato eserciti al fuoco e soldati fino alla morte, oggi dico: salpiamo per una guerra che non ha vittime, né feriti, né sangue né sofferenza. È l’unica guerra a cui è un piacere partecipare: la guerra per la pace. Vederlo morire, per poi essere pianto dal mondo intero, costrinse anche Israele a interrogarsi sul non averlo protetto abbastanza. I negoziatori non avevano ancora toccato i punti più difficili dell’accordo di pace: i confini finali di uno Stato palestinese, il futuro di Gerusalemme, dei profughi palestinesi e degli insediamenti ebraici nei territori occupati: presumibilmente, sarebbe stata solo questione di tempo. L’euforia per quelle strette di mano ebbe vita breve. La sera del 4 novembre 1995, alle 21.30, al termine di una manifestazione in favore del processo di pace e degli Accordi di Oslo a Tel Aviv, Rabin venne raggiunto da due proiettili. Erano stati esplosi da Yigal Amir, un giovane estremista “armato” dalle frange ebraiche più radicali, le cui ire Rabin aveva scatenato. Nel 1996 il Likud, ostile agli accordi, vinse le elezioni ed ebbe inizio l’era Netanyahu. Si provò a far rivivere lo spirito di Oslo a Camp David: ma all’alba del nuovo Millennio, i negoziati tornarono a fallire come era accaduto nei cinquant’anni precedenti. La finestra lasciata aperta sulla storia si chiudeva violentemente per non riaprirsi mai più.

La trappola infernale contro Hamas. Lorenzo Vita su Inside Over il 14 maggio 2021. L’annuncio dell’operazione via terra da parte delle Israel Defense Forces non è stato un errore. All’inizio il portavoce delle forze dello Stato di Israele ha parlato di un’incomprensione scusandosi con i media internazionali. Ma a poche ore dalla smentita, l’ipotesi che prende sempre più forza è che non si sia trattato di un “misunderstanding”, ma di una precisa tattica di guerra. La storia è andata più o meno così. Poco dopo la mezzanotte, i media internazionali hanno affermato quasi simultaneamente che le truppe dell’esercito israeliano avevano fatto il loro ingresso nella Striscia di Gaza. In effetti, il giorno prima, il comando meridionale delle Idf aveva presentato i piani di attacco per un’operazione di terra e – anche se l’annuncio appariva più come un avvertimento che come una reale possibilità di attacco – molti parlavano della possibilità di un’incursione su larga scala quantomeno delle forze speciali. Dopo qualche ora, i siti internazionali e i telegiornali hanno cambiato la notizia. Non c’era più l’annuncio dell’invasione di terra ma di bombardamenti con l’utilizzo di carri armati all’interno del territorio israeliano. Un dietrofront importante perché, naturalmente, cambiava completamente la descrizione di quanto stava avvenendo ai confini tra Israele e la Striscia di Gaza. Ma è sembrato abbastanza difficile credere che i reporter, i giornalisti che avevano contatto con le forze armate e i commentatori più attenti avessero preso un abbaglio inventando una presunta invasione da parte dello Stato ebraico. Cosa era successo? Stando alle prime informazioni riportate da diversi quotidiani israeliani, i corrispondenti internazionali avevano ricevuto un messaggio da parte dell’Unità del portavoce delle stesse Idf con cui si annunciava l’avvio delle operazioni terrestri. Steve Hendrix, inviato del Washington Post a Gerusalemme, ha scritto su Twitter un post in cui ha ripercorso i momenti salienti della nottata e i messaggi delle Idf. Secondo il corrispondente, alle 00:17 è stato inviato il seguente messaggio: “Le forze aeree e di terra dell’IDF stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza”. All’una e mezza una conferma: “* Dichiarazione ufficiale IDF *Ci sono truppe di terra a Gaza”. Alle 2:13 la smentita di quanto sopra: “Chiarimento: attualmente non ci sono truppe di terra dell’IDF all’interno della Striscia di Gaza”. Il portavoce estero delle Idf, Jonathan Conricus, si è scusato con i giornalisti stranieri parlando di un errore e di essere dispiaciuto per averli tratti in inganno. Ma quello che è avvenuto nella notte potrebbe non essere affatto un errore. E i primi a segnalarlo sono stati proprio i media israeliani, in particolare uno, Canale 12, che in un articolo ha parlato espressamente della trappola messa in atto dalle Idf per annientare il più possibile le forze di Hasm durante i bombardamenti avvenuti nella notte nella Striscia di Gaza. L’idea è che quanto avvenuto nella notte non sia stato un errore, ma una scelta precisa delle forze israeliane che hanno così deciso di usare la “nebbia di guerra” per indurre i miliziani di Hamas a rifugiarsi nei tunnel sotto Gaza, la cosiddetta “metropolitana”. I tunnel, quei canali strategici che permettono alle milizie dell’exclave palestinese di rifornirsi di armi, contrabbandare materie prime, spostare uomini e svolgere tutte quelle attività non tollerate da Israele, sono così diventate da armi a trappole. Trappole di fuoco e cemento colpite dalla pioggia di missili lanciata dall’aviazione israeliana e dei droni. I bombardamenti, tra i più massicci degli ultimi anni, sono durati circa 40 minuti e hanno riversato sul suolo di Gaza circa 450 bombe. Una resa dei conti che lo Stato ebraico attende dal 2014, quando dopo l’operazione “Margine di protezione” Hamas ha iniziato a costruire quella rete inestricabile di tunnel che per i comandi delle Idf è ancora il vero grande incubo per qualsiasi operazione di terra. 

Davide Frattini per corriere.it il 13 maggio 2021. Ancora bombe, missili, morti e distruzioni: un migliaio di razzi sparati da Hamas verso Israele, centinaia di attacchi aerei dello Stato ebraico su case e strade della Striscia di Gaza. L’escalation non cessa e la situazione è tesa nelle comunità di alcune città israeliane. Al terzo giorno di fuoco il segretario generale dell’Onu António Guterres si dice «preoccupato» dalla prospettiva di «una guerra vera e propria». Il bollettino, per ora: 400 feriti tra i palestinesi e un centinaio tra gli israeliani secondo i rispettivi governi; sei morti israeliani e almeno 65 palestinesi. Tra loro c’erano 14 bambini. E sul fronte israeliano uno di 6 anni è rimasto ucciso a Sderot. Hamas conferma l’annuncio di poche ore prima del premier Benjamin Netanyahu che i raid israeliani di ieri su Gaza hanno ucciso 16 «ufficiali graduati» del movimento paramilitare, tra cui il comandante della brigata locale. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha risposto che «il confronto con il nemico non ha una fine prevista», facendo eco alle parole del capo di stato maggiore israeliano Aviv Kochavi, che aveva ordinato a «tutti i comandi di prepararsi a un conflitto esteso e senza limiti di tempo». «Non è che l’inizio», ha detto Netanyahu. «Israele», ha aggiunto il ministro della difesa Benny Gantz, «non è pronto a una tregua». E mentre i razzi di Hamas vengono intercettati dallo scudo Iron Dome (secondo l’esercito l’85%), Israele accusa Hamas di avere annidato i propri quartieri generali nel mezzo dei centri abitati, dove si trova gran parte dei 500 obiettivi militari colpiti negli ultimi due giorni, tra cui un palazzo di dieci piani che sarebbe stato sede dell’«intelligence» del movimento. E più esplosiva — e per il governo di Netanyahu più difficile da gestire dei razzi di Hamas, secondo l’analista americano Jonathan Schanzer su Twitter — è la situazione delle città israeliane dove la popolazione è mista e la convivenza più stretta, come Bat Yam e il villaggio di Lod dove da ieri è stato dichiarato lo stato di emergenza con centinaia di arresti. Da due notti i residenti arabi attaccano quelli che possono riconoscere come ebrei e martedì notte hanno dato fuoco a una sinagoga. Parla di «pogrom» l’ex presidente del Parlamento israeliano Reuven Rivlin, che con la stessa parola aveva condannato gli estremisti ebrei in passato. Ora è indignato con i deputati arabi: «Il loro silenzio è inaccettabile quanto il sostegno al terrorismo e ai disordini». Ayman Odeh, alla guida della formazione araba più grande, invita a «continuare le proteste senza danni a persone e proprietà». Sempre a Lod, martedì, un uomo armato ha sparato contro una folla di arabi, uccidendo il trentatreenne Musa Hassuna: il suo arresto ha aizzato i ministri di Netanyahu. I disordini si sono estesi ad Acri, la fortezza sulla costa a nord, a Ramle e a Jaffa che fa parte della municipalità di Tel Aviv. Lo stato di emergenza permette al capo della polizia di imporre il coprifuoco per domare quella che Netanyahu definisce «anarchia»: «Dobbiamo proteggere la nazione dai nemici all’esterno e dai rivoltosi all’interno».

Netanyahu: "Agiremo per tutto il tempo necessario". Gaza, diluvio di fuoco nella notte: Israele attacca con missili e carri armati, 115 morti. Redazione su Il Riformista il 14 Maggio 2021. E’ di almeno 115 un primo bilancio delle vittime provocate dai raid dell’aviazione israeliana nella Striscia di Gaza a tre giorni dall’inizio del conflitto e dopo l’ultima notte di bombardamenti con il lancio, da parte di 160 caccia, di 450 missili per colpire 150 obiettivi palestinesi, compresa una rete di tunnel che sarebbe stata utilizzata dai militanti del partito Hamas. I feriti sono invece 600 mentre delle 115 vittime, 27 sono minori e 11 le donne. Israele sostiene che la maggior parte delle vittime siano membri di gruppi armati palestinesi o siano state uccise da un razzo di Hamas che è atterrato all’interno della Striscia.

La gaffe sull’invasione via terra. Un portavoce dell’esercito, Jonathan Conricus, ha invece corretto una sua precedente dichiarazione secondo la quale le forze di terra sarebbero già entrate nel territorio di Gaza. Il responsabile ha detto che unità dell’esercito e dell’aviazione stanno conducendo attacchi verso la Striscia con carri armati e artiglieria ma restando dalla parte israeliana del confine. Lungo la frontiera si sarebbero concentrati tra i 3mila e i 4mila soldati. “Le forze di difesa israeliane – scrive il Times of Israel – sembrano aver indotto erroneamente i media stranieri a credere che l’esercito avesse lanciato un’invasione di terra nella Striscia durante il suo massiccio bombardamento del nord di Gaza. Nella sua dichiarazione iniziale in inglese, l’esercito ha espresso in modo ambiguo dove si trovavano le sue forze di terra durante l’attacco, dicendo che ‘le truppe aeree e di terra dell’IDF stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza’. Quando è stato chiesto di chiarire la questione, ovvero se ci fosse stata un’invasione di terra, il portavoce dell’IDF Jonathan Conricus ha risposto: ‘Si’. Come e’ scritto nella dichiarazione. In effetti, le forze di terra stanno attaccando a Gaza. Questo vuol dire che sono nella Striscia'”. Parole che Conricus tra l’altro ha ripetuto anche al corrispondente dell’ANSA a Tel Aviv che lo ha chiamato per avere conferma diretta dell’avvio dell’intervento di terra. Ma, continua Times of Israel, sebbene dire che l’esercito era dentro Gaza “fosse tecnicamente corretto”, è stato fuorviante: “Alcune truppe dell’IDF erano effettivamente posizionate in un’enclave tecnicamente all’interno del territorio di Gaza, ma a tutti gli effetti sotto il controllo israeliano. Per questo la loro presenza lì non poteva rappresentare un’invasione di terra”. “Tutto ciò – conclude il Times of Israel – ha portato alla diffusione di notizie false in tutto il mondo, incluso da parte del New York Times e del Washington Post, secondo cui Israele aveva lanciato una campagna di terra nella Striscia di Gaza, cosa che invece non aveva fatto”.

Netanyahu: “Agiremo per tutto il tempo necessario”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto sapere che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che “l’operazione continuerà per tutto il tempo necessario. Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all’esterno e contro i fuorilegge all’interno per riportare la calma nello Stato di Israele”. Media locali riferiscono di famiglie palestinesi che stanno scappando dal Nord della Striscia verso Gaza City a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco. L’agenzia stampa palestinese Wafa riferisce di due morti e una dozzina di feriti a Beit Lahia. Ieri l’esercito aveva dispiegato al confine con la Striscia unità di fanteria e corazzati e richiamato 9,000 riservisti. L’esercito ha ordinato alla popolazione israeliana nel raggio di 4 chilometri dalla Striscia di rimanere chiusi nei rifugi fino a nuova comunicazione. Nel corso della notte si è registrata un’altra vittima israeliana a Sderot. Sono circa 2.000 i razzi e i colpi di mortaio lanciati dalla Striscia di Gaza in direzione di ISRAELE da lunedì scorso, dall’inizio delle ostilità tra ISRAELE e Hamas. Lo rendono noto le forze israeliane (Idf), secondo quanto riportano i media locali. La maggior parte dei razzi diretti verso aree abitate di ISRAELE sono stati intercettati dal sistema Iron Dome.

Stefano Pioppi per formiche.net il 12 maggio 2021. Nelle ultime 38 ore ben 1.050 razzi sono stati lanciati contro Israele. Sono gli ultimi numeri forniti, questa mattina, dalle Forze di difesa israeliane (Idf). Di quelli diretti contro zone abitate ne sarebbe stato intercettato il 90%. Sempre oggi sarebbe stato inoltre colpito un drone proveniente dalla Striscia di Gaza, a conferma della crescente minaccia rappresentata da sistemi a pilotaggio remoto, anche piccoli e ben poco sofisticati (conta più ciò che portano). Protagonista della difesa è la “Cupola di ferro”, il sistema Iron Dome che sta accompagnando, insieme alle sirene, le notti israeliane. Il sistema è stato progettato appositamente per intercettare razzi a corto raggio, colpi di mortaio e pezzi di artiglieria provenienti dai territori palestinesi e dall’area del Libano sottoposta al controllo di Hezbollah. Sistema mobile terrestre, l’Iron Dome si colloca nella categoria “V-Shorad”, per la difesa di minacce a raggio più che corto, entro i quaranta chilometri. Si compone di tre elementi principali: il radar ELM 2084, il sistema di gestione e controllo (BMC), e i lanciatori trasportabili dotati di missili Tamir, vettori da tre metri di lunghezza per un diametro di 160 millimetri, peso di 90 chilogrammi e raggio da due a 40 chilometri. Secondo Rafael (che guida la realizzazione del sistema), ogni batteria di Iron Dome permette di difendere un’area di 150 chilometri quadrati. È composta da un radar, un sistema di controllo, tre piattaforme di lancio, ciascuna con venti missili Tamir. I vettori sono dotati di apposite alette per la manovrabilità e di sensori elettro-ottici per colpire il bersaglio. L’avanzata tecnologia permette la detonazione nelle immediate prossimità della minaccia; l’esplosione verso l’esterno produce un anello di schegge intorno alla testata del missile, formando come uno scudo (abbastanza visibile nei video che circolano online) per aumentare le capacità di intercettazione. L’ELM 2084, realizzato dalla Israeli Aerospace Industries, è un radar 3D a scansione elettronica. Secondo il costruttore permetterebbe di individuare fino a 1.100 minacce simultaneamente fino a 70 chilometri di distanza. Fornisce rapidamente l’alert agli operatori BMC che attivano l’eventuale lancio di intercettazione. Il radar segue le prime fasi di viaggio della minaccia, distinguendo quelle dirette verso obiettivi sensibili da quelle che invece sono destinate ad aree non abitate. Ciò permette di conservare gli intercettori, capacità molto utile in caso di attacchi massivi come quelli in questione. Lo stesso radar ELM 2084 è impiegato anche sul sistema di fire control di David Sling, la “fionda di Davide”, che copre la difesa aerea a raggio intermedio. A completare il sistema di difesa c’è poi l’Arrow per le minacce a raggi ancora maggiori. Il sistema Iron Dome è operativo dal 2011, e ha visto impieghi importanti a difesa di Israele sin da subito, con progressivi aggiornamenti, per lo più nella parte software. A novembre 2012, le forze armate di Tel Aviv dichiararono l’intercettazione dell’85% dei 400 razzi sparati dalla Striscia di Gaza. Nell’estate del 2014, quando gli scontri furono particolarmente sanguinosi, le batterie di Iron Dome intercettarono il 90% degli 800 razzi diretti contro obiettivi sensibili in territorio israeliano, quota minore dei complessivi 4.500 colpi lanciati, per lo più dunque su aree disabitate. L’efficacia al “90%” è ribadita in ogni comunicazione relativa all’Iron Dome. Per alcuni osservatori è relativamente bassa, considerando le migliaia di razzi a disposizione di Hezbollah. Oggi il Jerusalem Post si chiede: “Is Iron Dome era dominance over?”. L’accento è soprattutto sugli avversari, che nel tempo avrebbero imparato come sfruttare il 10% di spazio disponibile per accrescere la letalità degli attacchi. Il timore israeliano è che il sistema di batterie per la difesa a corto raggio possa essere saturato facilmente in caso di lanci massicci in contemporanea. Per questo, via Haaretz, nel 2018 il già tre volte ministro della Difesa Moshe Arens spiegava che, accanto alla difesa della “Cupola di ferro”, occorreva procedere eliminando le capacità d’offesa dell’avversario. Non è un caso, dunque, che le Forze israeliane rispondano prontamente nei casi di inizio escalation, andando a colpire postazioni di Hamas, magazzini e tunnel. È successo anche questa volta. Il ministro Benny Gantz ha spiegato ieri l’obiettivo di colpire “duramente” le forze attive nella Striscia di Gaza. Il dicastero della Difesa ha fatto sapere che circa 80 velivoli militari si sono attivati a tal fine, compresi gli avanzati caccia di quinta generazione, gli F-35.  A maggio 2018, fu l’Aeronautica israeliana a segnare l’assoluto debutto operativo del Joint Strike Fighter, con almeno due bombardamenti in Siria contro postazioni iraniane. L’Iron Dome nasce come sistema totalmente “made in Israel”, con sviluppi risalenti agli anni 2000, quando la difesa di Tel Aviv si trovò poco protetta rispetto alle minacce a corto raggio derivanti dal conflitto in Libano. In linea con il partenariato strategico con gli Stati Uniti, nel corso degli anni l’Iron Dome è entrato nella cooperazione bilaterale, con Washington pronta a coprire con il proprio budget alcune quote del programma, coinvolgendo l’industria e stelle e strisce. Secondo l’attento portale Missile Threat del Csis, oggi circa il 55% delle componenti del sistema è realizzato negli Usa in virtù degli accordi tra l’israeliana Rafael e l’americana Raytheon. Anche gli Stati Uniti hanno beneficiato dell’intesa. Nel 2016 lo US Army testò il proprio sistema MML con il lancio di missili Tamir. Il costo di un singolo intercettore Tamir si aggira intorno ai 100mila dollari, mentre l’intero sistema Iron Dome vale 100 milioni di dollari.

Simona Verrazzo per "il Messaggero" il 12 maggio 2021. Soffiano venti di guerra tra israeliani e palestinesi, nel secondo giorno di violenze tra lanci di razzi e incursioni aeree, ed è in continuo aumento il numero delle vittime. Ieri due donne sono morte nella città di Ashkelon, nel sud di Israele, ultima grande città prima della Striscia di Gaza. Un'altra vittima, sempre una donna, a Tel Aviv. I morti nel territorio palestinese invece sarebbero circa trenta in due giorni. Secondo Hamas, il gruppo islamista che controlla la Striscia di Gaza dal 2007 e che ha lanciato l'offensiva, tra le vittime dei raid ci sono anche «10 bambini». È la notizia più tragica di una giornata cominciata con Israele che annunciava di richiamare 5.000 riservisti per portare avanti le incursioni aeree sulla Striscia di Gaza, e che ha visto il lancio di 480 razzi dal territorio palestinese più altri 130 in serata. Netanyahu ha dichiarato lo stato di emergenza a Lod, dove sono stati inviati rinforzi.

LE PROTESTE E LA RISPOSTA L'escalation di violenze era iniziata lunedì, dopo già una settimana di proteste tra le due parti per i luoghi sacri di Gerusalemme, quando lo Stato ebraico ha risposto a una pioggia di razzi con cui Hamas ha tentato di forzare il sistema antimissili israeliano Iron Dome. All'azione palestinese, denominata Operazione Spada di Gerusalemme, Israele ha risposto con le incursioni aeree da parte dell'Aviazione, in quella che è stata denominata Operazione Guardiano delle Mura, destinata - annunciano i vertici militari - a durare diversi giorni. Ingenti le forze messe in campo, con 80 velivoli israeliani impegnati a centrare oltre 140 obiettivi, con le fonti militari israeliane che hanno riferito dell'uccisione di due dirigenti di Jihad islamica, altro gruppo islamista presente nella Striscia di Gaza, e di Iyad Fathi Faik Sharir, comandante delle unità anticarro di Hamas. Il lancio di razzi non si è comunque fermato e ieri in serata Hamas ha indirizzato i suoi colpi anche verso la città di Tel Aviv, dove è stato chiuso lo scalo. «Abbiamo deciso di accrescere ancora di più la potenza e il ritmo degli attacchi. Hamas riceverà un colpo che non si aspetta», ha detto il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, al termine di una consultazione con i vertici militari. Dopo Gerusalemme, dove gli scontri si sono concentrati sulla Spianata delle Moschee, luogo sacro per i musulmani, sotto cui sorge il Muro del Piano, luogo sacro per gli ebrei, le operazioni si sono spostate verso sud e la Striscia di Gaza, territorio palestinese a ridosso con l'Egitto. L'esercito israeliano ha deciso l'invio di rinforzi al confine, tra questi la Brigata di fanteria Volani, la VII Brigata Corazzata e unità di intelligence. Le autorità hanno invitato la popolazione delle città meridionali, tra cui Sderot, Ashdod e Ashkelon, a non uscire di casa ed è in quest'ultima località che si sono registrate le prime vittime civili israeliane, tre donne anziane rimaste uccise in tre separati attacchi. Dalla scorsa settimana la tensione è nuovamente cresciuta, e si temono nuove violenze per domani, ultimo giorno del mese di Ramadan, sacro per i musulmani. Giorno delicato anche venerdì, quando lo Stato ebraico celebra la dichiarazione di indipendenza. All'origine degli scontri lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dalle loro abitazioni di Sheiikh Jarrah, rione di Gerusalemme est dove da anni cresce la presenza di famiglie ebraiche attorno alla tomba di un antico rabbino. La comunità internazionale cerca una via diplomatica per un cessate il fuoco. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, riunito d'urgenza, non ha raggiunto un accordo per una dichiarazione comune. Gli Stati Uniti, membro permanente, hanno ritenuto «non appropriato un messaggio pubblico in questa fase». L'incontro era stato richiesto da Tunisia, Norvegia e Cina, altro membro permanente. L'Unione europea ha chiesto la fine immediata delle violenze, così come il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio. «L'Italia ribadisce la sua preoccupazione per l'escalation di attacchi e violenze in particolare a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza».

Israele shock: le sinagoghe in fiamme. Chiara Clausi il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Gli arabo-israeliani incendiano i luoghi di culto a Lod. Il presidente Rivlin: "Pogrom". Lo scambio di fuoco micidiale tra i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza e l'esercito israeliano si è intensificato ancor più. L'Onu teme una «guerra su vasta scala». La mediazione dei Paesi arabi, come l'Egitto, è per il momento fallita. Hamas e la Jihad islamica in due giorni hanno lanciato 1.050 razzi e colpi di mortaio, 850 sono atterrati in Israele o sono stati intercettati dal suo sistema di difesa aerea «Iron Dome», mentre 200 non sono riusciti a superare il confine e hanno colpito Gaza stessa. La pressione sulle città del Sud è però devastante. Ieri sera un'altra raffica di missili è arrivata fino a Tel Aviv, una casa è stata colpita a Ashkelon e Hamas ha lanciato razzi per vendicare la morte dei suoi comandanti. Un altro razzo ha colpito un condominio a Sderot. Un bambino di sei anni è stato ferito e con lui molti altri. Forti boom e sirene hanno risuonato senza interruzione a Modiin, Beersheba e a Tel Aviv. Fra martedì e ieri sono state demolite anche due palazzine a Gaza. Raid più mirati hanno invece eliminato almeno quattro comandanti di Hamas e tre della Jihad. Sono i combattimenti più duri dal 2014. I palestinesi lamentano 53 vittime, molti «bambini», mentre sei israeliani sono stati uccisi da lunedì. Ieri un razzo anticarro sparato da Gaza ha centrato un veicolo che si trovava nei pressi della linea di demarcazione. Un sergente 21enne dell'esercito è morto in ospedale, due commilitoni sono in gravi condizioni. Le vittime israeliane includono anche un padre di 52 anni e sua figlia di 16 anni che sono morti nella città di Lod, vicino a Tel Aviv, quando un razzo ha colpito la loro auto. Mentre a Gaza cinque membri di una famiglia sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano. Le strade sono piene di macerie dove gli edifici sono crollati e molte auto sono state schiacciate o bruciate. Ma è anche il fronte interno a preoccupare. Gli arabi israeliani hanno organizzato proteste violente in diverse città israeliane. La città di Lod, vicino a Tel Aviv, è in stato di emergenza dopo che, oltre a centinaia di auto, sono state incendiate anche diverse sinagoghe. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha denunciato il «pogrom» di Lod da parte di «una folla di arabi assetati di sangue ed esaltati». «Sono scene - ha attaccato - imperdonabili». Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha precisato che il governo utilizzerà tutte le sue forze per proteggere Israele dai nemici all'esterno e dai rivoltosi all'interno. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha ribadito invece che gli attacchi israeliani sono stati «solo l'inizio». Nel frattempo, l'aeroporto Ben Gurion ha interrotto brevemente i voli martedì ed è stato colpito un gasdotto tra le città di Eilat e Ashkelon. Disordini anche in altre città con una grande popolazione araba israeliana, così come a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha tuonato: «Se Israele vuole intensificare i combattimenti, noi siamo pronti, se vuole fermarsi, siamo anche pronti».

"Hamas ha ingaggiato lo scontro per ottenere la leadership islamista". Fiamma Nirenstein il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Il generale: "Non è ancora la resa dei conti, ci saranno altri round. Ma Israele ha il dovere di proteggere il proprio popolo". No, lo scontro di queste ore fra Israele e Hamas non è una resa dei conti definitiva: è soltanto un round, anche se molto importante. Lo dice il generale Yossi Kuperwasser, uno degli esperti più importanti del Jerusalem Center for Public Affairs, famoso esperto di strategia, di sicurezza e di mondo arabo. Dall'esercito dove ha diretto il settore ricerca, è passato a direttore generale del ministero degli Affari Strategici occupandosi con taglio nuovo di antisemitismo. Adesso fra un incontro e l'altro ci affida i suoi pensieri, molto diretti e privi di illusioni o ideologie. Netanyahu e il ministro Gantz sembrano promettere alla popolazione bombardata, tormentata da Hamas, lo smantellamento definitivo dell'organizzazione. «Si tratta di un altro capitolo di una lunga storia, un capitolo con caratteri di estrema durezza data la smodata aggressività di Hamas che ha bombardato Gerusalemme e Tel Aviv, terrorizza la popolazione civile del sud giorno dopo giorno, ha fatto morti e feriti a tutte le latitudini con un attacco premeditato e sanguinoso». Sta però pagando un duro prezzo, come se ci fosse una risposta non proporzionale. Ci sono crolli imponenti e bambini uccisi durante le eliminazioni mirate dei capi di Hamas. «Penso che stavolta chi non ha un pregiudizio incancrenito e pesante contro Israele capisce che sotto un attacco di migliaia di missili, Israele ha il dovere di fermare l'attacco e di proteggere la popolazione. Israele deve attaccare gli edifici in cui si nascondono i capi di Hamas, e tuttavia noi avvertiamo uno a uno gli abitanti prima di colpire; quanto ai bambini che cerchiamo in tutti i modi di non colpire, secondo Defense for Children Palestine alcuni sono stati uccisi da missili palestinesi mal costruiti e sparati (Dcip). Detto questo, l'escalation di Hamas deve fermarsi».

Lei stesso dice che è solo un round. Presto ci saranno gli stessi problemi?

«Perché presto? Dal 2014, dopo l'ultima guerra abbiamo avuto poche aggressioni. Si tratta di garantire la messa fuori giuoco delle armi e dei leader terroristi per un bel pezzo. È quello che stiamo facendo».

Perché Israele non cerca di smantellare Hamas?

«Perché nessuno ha intenzione di governare di nuovo la striscia di Gaza; non lo vuole l'Egitto, non lo vuole Fatah, non vedo perché dovremmo metterci noi in questo guaio».

L'ipotesi «stivali sul terreno» non è contemplata?

«Ci sono tanti modi di vincere una guerra, quella è la più rischiosa, si cerca di evitarlo».

Hamas lo sa. Perché ha intrapreso una guerra perduta?

«Ne sta ricavando altissimi riconoscimenti nel mondo in cui ambisce alla leadership ideologica, quello islamista che mette la Moschea di Al Aqsa e Gerusalemme in testa ai suoi interessi. Ha intrapreso la guerra perché questo le garantisce di battere Abu Mazen e poi perché deve sperimentare i missili nuovi preparati con l'aiuto dell'Iran».

E questo li compensa dalle distruzioni in corso.

«Reputano i guadagni ideologici maggiori delle perdite».

Hamas conta anche sul sostegno di Iran e Turchia.

«E non solo. Sente anche che i commenti dell'amministrazione americana gli consentono margini di manovra. Si è sentito rassicurato».

Intanto i moti degli arabi israeliani a Lod sono molto preoccupanti. Una nuova Intifada di cittadini israeliani musulmani contro gli ebrei?

«Difficile dirlo. Noi sopravvalutiamo sempre l'integrazione, il senso di comunanza nella democrazia. La loro leadership alla Knesset ha rifiutato il giuramento di fedeltà al Paese, gli abitanti delle case di Lod vedono stupefatti i vicini dare fuoco alle auto nei comuni parcheggi. Storia molto difficile».

Quanto dura ancora questa guerra?

«Se è una guerra, dura ancora settimane. Se invece è solo un grande scontro e possiamo accontentarci di risultati che garantiscano la quiete, poco. Per ora, Hamas ha ancora i missili nascosti, e i terroristi che li lanciano a centinaia».

Netanyahu parla di "campagna militare". Quarta guerra di Gaza, perché è scoppiato il nuovo conflitto Israelo-Palestinese. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 12 Maggio 2021. L’avevano cancellata dall’agenda politica internazionale. Scomparsa dai “radar” dei media. E invece la “polveriera palestinese” è tornata ad esplodere. Prima a Gerusalemme, la Città contesa, e poi nella Striscia di Gaza e nelle città frontaliere israeliane. Raid aerei, razzi, colpi d’artiglieria, mobilitazione di riservisti, sirene che risuonano per segnalare il pericolo che viene dal cielo. La quarta guerra di Gaza è iniziata. A cambiare è il nome in codice dell’operazione avviata dalle Idf, le Forze di difesa israeliane. Stavolta è “Guardiano delle Mura”. E per non essere da meno, anche le milizie palestinesi hanno battezzato la loro resistenza armata, operazione “Spada di Gerusalemme”. Ventiquattr’ore di attacchi ininterrotti, di razzi, feriti e vittime, in un conflitto che si inasprisce ulteriormente con l’invio di truppe israeliane al confine con la Striscia e il richiamo di 5mila riservisti. È di almeno 28 morti, compresi nove bambini, e 152 feriti il bilancio delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza: lo ha reso noto il portavoce del ministero della Salute di Gaza, Ashraf al-Qudra, citato dalla tv satellitare al-Jazeera. Secondo i militari israeliani “vanno ancora chiarite” le circostanze della morte dei nove bambini. E anche Israele conta le sue prime vittime: due donne, ferite mortalmente da uno degli oltre 250 razzi sparati dai miliziani palestinesi da Gaza verso Israele, in particolare verso Gerusalemme, Ashdod e Ashkelon. Più di 70 i feriti curati in ospedale, oltre 30 sono in pronto soccorso e due in gravi condizioni. Lo riferiscono fonti mediche, citate dai media. Un’altra persona anziana, secondo la radio militare, è in fin di vita. La risposta di Tsahal, l’esercito israeliano, non si è fatta attendere: colpiti oltre 130 obiettivi militari nell’enclave palestinese. Un portavoce militare israeliano ha inoltre riferito che a essere stata colpita è anche una cellula di Hamas che usava missili anti-carro a Gaza. L’esercito ha anche deciso l’invio di rinforzi al confine di Gaza: tra questi, la Brigata di fanteria Golani e la 7/a Brigata Corazzata, oltre a unità di intelligence e aviazione. Gli attacchi su Gaza continueranno e “tutti i comandi si devono preparare ad un conflitto più esteso senza limiti di tempo”, annuncia il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, confermando l’ordine ai militari di colpire i membri operativi di Hamas e della Jihad islamica a Gaza. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato ieri mattina consultazioni sulla sicurezza nel suo ufficio a Tel Aviv dopo l’escalation delle ultime ore. Israele «intensificherà ulteriormente la potenza ed il ritmo degli attacchi» contro la Striscia di Gaza, ha dichiarato il primo ministro al termine della una riunione. «Siamo nel mezzo di una campagna militare», afferma Netanyahu, citato dal Times of Israel. «Da ieri pomeriggio (lunedì per chi legge, ndr) l’esercito ha eseguito centinaia di attacchi contro Hamas e la Jihad islamica a Gaza. Abbiamo colpito comandanti e molti obiettivi di alta qualità», ha aggiunto. In serata, Israele avrebbe respinto una richiesta di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza che sarebbe stata avanzata da Hamas. Lo riporta l’emittente Channel 12 secondo cui sarebbero stati “intermediari arabi” a consegnare il ‘messaggio’ di Hamas a Israele. Le autorità dello Stato ebraico avrebbero respinto la proposta, sostenendo che il movimento islamista non avrebbe ancora pagato il giusto prezzo per i suoi attacchi contro Israele. «Il nostro obiettivo è di colpire duramente Hamas, indebolirlo e fargli rimpiangere la sua decisione» di lanciare missili contro Israele. A dirlo è il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, parlando con i giornalisti vicino ad una batteria di missili del sistema di difesa Iron Dome nel sud d’Israele. L’operazione militare in corso durerà diversi giorni con le forze aeree, terrestri e navali israeliane, che bombarderanno obiettivi di Hamas e la Jihad islamica. «Ogni bomba ha il suo indirizzo. Continueremo nelle prossime ore e i prossimi giorni. È difficile dire quanto tempo ci vorrà», ha rimarcato, citato da Times of Israel. Ad accendere lo scontro è stato l’ultimatum di Hamas che, a fronte del mancato ritiro delle truppe israeliane dall’area della moschea di Al Aqsa e da Sheikh Jarrah, quartiere palestinese a Gerusalemme est, ha sparato sei razzi contro la città a circa cento chilometri di distanza. Era dal 2014 che non veniva colpita. Le autorità israeliane hanno chiuso tutte le scuole nelle comunità vicino Gaza, limitando le riunioni di persone a 10 all’aperto e 50 all’interno. Imprese e posti di lavoro sono aperti solo se vi è un accesso ai rifugi per tutti. Hammed a-Rakeb, un dirigente di Hamas citato dalla radio pubblica israeliana, ha affermato che questo attacco è una risposta ad attacchi lanciati in precedenza da Israele contro appartamenti dove si trovavano comandanti militari. «Abbiamo lanciato razzi contro Ashkelon dopo un attacco israeliano che ha colpito una casa a ovest di Gaza City. Se Israele continuerà ad attaccare, trasformeremo Ashkelon in un inferno». È quanto aveva affermato in mattinata il portavoce dell’ala militare di Hamas, – le Brigate Ezzedin al-Qassam – Abu Ubaidah, secondo quanto riporta Haaretz. Intanto due comandanti della Jihad islamica, Kamel Kuraika e Sameh al-Mamluk, sono rimasti uccisi in un attacco condotto dall’aviazione israeliana contro un appartamento in un grande condominio nel rione Rimal di Gaza. Con loro è rimasto ferito in modo grave un altro comandante della Jihad islamica, Muhammad Abu al-Atta, fratello del leader militare della Jihad islamica nel nord della Striscia ucciso da Israele nel 2019. Da Washington a Bruxelles (Ue), dal Palazzo di Vetro (Onu) a Mosca: la comunità internazionale sforna appelli alla moderazione e al freno dell’escalation militare. Appelli che, come sempre, non sortiscono effetto. Gaza e Israele si preparano ad una nuova notte di fuoco. Come le tante che si sono susseguite negli anni. È l’impotenza della forza. In Terrasanta le “colombe” non volano più. A regnare sono i falchi.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Israele e Gaza, un conflitto nuovo e vecchio allo stesso tempo. Piccole Note il 12 maggio 2021 su Il Giornale. Ancora non è guerra aperta tra Israele e Gaza, ma poco ci manca, o forse gli scambi di colpi di questi giorni sono solo l’avvio della stessa, mentre all’interno del Paese continuano gli scontri tra palestinesi e forze dell’ordine, che potrebbero essere i prodromi di una nuova Intifada. La conta dei morti e dei feriti sale e continuerà a salire se non accade qualcosa. Situazione che appare irreversibile nella sua corsa verso il precipizio di una nuova mattanza di Gaza, e di bambini di Gaza, e di nuove paure per gli ebrei di Israele, dove seppure i morti sono e saranno di meno, non hanno certo minor rilevanza. Nella precedente nota, riferivamo un cenno su Haaretz sul fatto che la situazione favorisce oggettivamente il premier israeliano, che vedeva il suo regno al tramonto e che l’acuirsi delle tensioni può conservare al potere, impedendo la nascita di un governo formato dai suoi antagonisti con l’appoggio del partiti arabi. Yossi Verter, in particolare, riferiva lo stop ai negoziati per la formazione di un nuovo governo, mossa che avrebbe offerto a Netanyahu un “incentivo per mantenere alta la tensione”. Certo, il premier ora è obbligato a mostrare i muscoli a fronte del lancio di razzi da Gaza, dato che nessun Paese, come ha detto il presidente Reuven Rivlin, può tollerare di esser bersagliato da missili (1). Ma sembra solo limitarsi a minacciare sfracelli contro Gaza, non sembrando particolarmente interessato a trovare un modo per far rientrare le armi nelle fondine, come invece accaduto altre volte in tempi recenti, quando invece ha cercato e trovato accordi con Hamas dopo simili – seppur in scala minore – escalation. Interessante, sul punto, un articolo di Times of Israel che inizia così: “L’Egitto ha contattato Israele per aiutare a calmare le tensioni in corso di questi giorni, funestati da disordini a Gerusalemme e dal lancio di razzi da Gaza, ma non ha ancora ricevuto una risposta, come ha detto il suo ministro degli esteri martedì in una riunione di emergenza della Lega araba”. E nel prosieguo dell’articolo si legge: “Un diplomatico che ha familiarità con i tentativi di mediazione ha detto al Times of Israel che Hamas martedì mattina ha fatto sapere di essere interessato a ridurre le tensioni, ma che avrebbe risposto se gli attacchi israeliani fossero continuati […]. Il diplomatico ha anche dichiarato che Israele non ha risposto alle proposte del suo paese dirette a porre fine alle violenze in corso”. Garbuglio ad ora inestricabile. Sul punto, l’editoriale di Haaretz, che spiega come “le ragioni dello scoppio di questa violenta protesta sono collegate a una serie di cattive decisioni prese a Gerusalemme durante il mese di Ramadan”, che hanno acuito le tensioni. Il capo della polizia “Yaakov Shabtai ha svolto un ruolo decisivo in tutto questo, e la sua affermazione che la polizia era stata ‘troppo morbida’ indica un preoccupante problema di percezione della realtà”. Al di là degli errori di Shabtai, continua Haaretz, il fatto è che “la polizia è costretta ad affrontare i sintomi di un problema molto più profondo che sta esplodendo in questi giorni: la realtà di 54 anni di occupazione”. “Nel suo desiderio di combattere il nazionalismo palestinese, indebolirlo e persino farlo sparire, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha attaccato e infiammato gli animi contro gli arabi israeliani in modo criminale. Invece di affrontare il problema, ha preferito escludere, discriminare, giudaizzare e portare dichiarati razzisti alla Knesset. Questa strategia disastrosa sta ora esplodendo in faccia a Israele”. Tempi bui, ma, come dimostra l’editoriale di Haaretz, non tutti in Israele sono concordi nel ritenere che l’unica via che ha il Paese sia un nuovo, sanguinoso, redde rationem con gli arabi. Anche l’America, nonostante non possa che stare a fianco del suo più prossimo alleato, ha uno sguardo meno unilaterale sul lungo conflitto arabo-israeliano. Ciò rende le prospettive un po’ meno catastrofiche, anche se il momento resta buio e gravido di nefasti presagi.

(1) Fa accezione Damasco, che deve invece accettare il lancio di missili dall’enclave terrorista di Idlib. Quando l’esercito siriano e i russi hanno provato a reagire per eliminare la minaccia, la comunità internazionale li ha ammoniti a non rispondere agli attacchi. Allora la Casa Bianca intimò subito lo “stop” a Damasco, arrivando a minacciare addirittura un intervento a sostegno di Idlib. Ieri, invece, nonostante alla Casa Bianca sedesse un altro inquilino, Washington ha dichiarato che Israele ha “diritto a rispondere ai missili“. Certi “diritti” evidentemente non sono per tutti.

Il recente attacco contro Israele rivela il problema dei sistemi antimissile. Paolo Mauri su Inside Over il 12 maggio 2021. L’ultima offensiva missilistica scatenata contro Israele è forse la più violenta che si ricordi, e non è un caso. Secondo le Idf (Israel defense forces), oltre 1050 razzi e colpi di mortaio sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il territorio dello Stato ebraico dalla sera del 10 maggio, di cui 200 non sono riusciti a superare il confine e sono caduti all’interno dell’enclave. Oltre 400 sono stati diretti in profondità nel territorio israeliano in due enormi ondate la sera dell’11 e dalle 3 del mattino circa di mercoledì 12. Si tratta del più pesante attacco sin dal 2014. Per fare un paragone, proprio quell’anno, a luglio sono stati sparati 2874 razzi e 15 colpi di mortaio, ma distribuiti nell’arco di tutto il mese, con un picco di 197 il 10. Quella di questi giorni assume le caratteristiche, quindi, di un’offensiva senza precedenti per il rateo dei lanci effettuati.

Come funziona Iron Dome. Questa peculiarità del recente attacco non è affatto casuale, e dipende dalle caratteristiche del sistema difensivo israeliano Iron Dome. Si tratta di un complesso strumento da difesa aerea in grado di intercettare razzi, colpi di mortaio, Uav di cui ricorrono proprio quest’anno i 10 anni dell’ingresso in servizio. Iron Dome è formato da tre elementi fondamentali: un radar di scoperta e tracciamento, un sistema di controllo del fuoco e gestione della situazione di combattimento (Bmc) ed una unità di lancio missili (Mfu). Una batteria di Iron Dome consiste di tre/quattro lanciatori fissi trasportabili su camion ciascuno dei quali dotato di 20 missili “Tamir” associati ad un radar sviluppato dalla israeliana Elta. Ogni batteria può coprire un’area di approssimativamente 150 km quadrati con un raggio di azione compreso tra i 4 ed i 70 chilometri. Il missile “Tamir”, cuore del sistema, è lungo tre metri ed ha una circonferenza di 160 millimetri per un peso di circa 90 chilogrammi. È equipaggiato con un sensore elettro-ottico e ha alette stabilizzatrici mobili in grado di dargli un buon grado di possibilità di cambiare la traiettoria di volo. La testata di guerra, esplosiva, viene innescata da un sensore di prossimità. Iron Dome lavora, secondo il concetto di difesa area multistrato, di concerto con i Patriot, e coi sistemi Arrow-2 e 3, David’s Sling ed Iron Beam pensato per poter intercettare i più insidiosi proietti di mortaio. Il successo più eclatante di Iron Dome è stato durante l’Operazione Pillar nel novembre 2012. L’operazione è iniziata nel pomeriggio del 14 novembre e, quando la sera del 21 entrò in vigore il cessate il fuoco, 1506 razzi erano stati lanciati contro Israele. Di questi 875 sono risultati caduti in aree non abitate e quindi non sono stati intercettati da Iron Dome. Altri 152 lanci sono da considerarsi falliti (questo significa i razzi sono caduti nella Striscia di Gaza) pertanto il sistema israeliano risulta aver intercettato 421 razzi, mancandone 58 caduti in aree edificate causando danni.

L’efficacia della “Cupola di Ferro”. Fonti ufficiali israeliani danno la percentuale di intercettazione di Iron Dome compresa tra l’85 e il 90%; secondo le statistiche dell’industria produttrice, la Rafael, questa si assesterebbe fermamente al 90%. Sono dati non privi di controversie: nel 2014 un ricercatore dimostrò che l’efficacia era molto più bassa (tra il 6 ed il 12%) e lo “scudo” era dato per la maggior parte dalla prontezza del sistema di allarme precoce di Israele e dall’avere un alto numero di rifugi, che insieme all’addestramento della popolazione, che in caso di attacco sa esattamente cosa fare, ha ridotto drasticamente il numero delle vittime. In attesa che l’offensiva di Hamas di questi giorni termini, e quindi di poter sapere quanti razzi e colpi di mortaio sono stati sparati in totale e quanti sono stati intercettati, possiamo però fare alcune considerazioni tattiche su quanto sta accadendo. Iron Dome, come tutti i sistemi di difesa antimissile, nonostante la concentrazione di strumenti atti a rispondere in modo appropriato a diverse offese, ha una falla: in caso di attacco di saturazione, ovvero quando si trova a dover affrontare un alto numero di proietti o razzi, non riesce ad eliminarli tutti e qualcuno sfugge alle “maglie” del sistema. Questo è tanto più possibile quanto più è alto il rateo di lancio. Iron Dome ha quindi un “punto di saturazione” oltre il quale vede la sua efficacia diminuire. Il sistema, cioè, è in grado di intercettare un certo numero (non pubblicato) di bersagli contemporaneamente e non di più. Il lancio massiccio di razzi, effettuato in un’unica salva concentrata, può quindi riuscire a sfondare le difese e causare danni. Questa, stando a quanto ci riporta la cronaca degli ultimi giorni, è proprio la tattica usata da Hamas per la sua offensiva, che quindi sembra aver fatto tesoro delle esperienze fatte negli anni precedenti.

Un problema comune. Una falla, quella di Iron Dome, che non è peculiare solo del sistema israeliano, ma che è comune a tutti gli strumenti antimissile in servizio, dai Patriot e Thaad statunitensi, agli S-300 e 400 russi, passando per il Gmd antimissili balistici sempre di fabbricazione Usa. Questo aspetto può essere mitigato assumendo un’architettura multistrato (e quindi multisistema): l’ombrello Abm (Anti Ballistic Missile) degli Stati Uniti, ad esempio, prevede diversi sistemi che lavorano in coordinazione, su più livelli, e dispiegati su un’ampia area geografica. L’Aegis – imbarcato e ashore – il Thaad, il Gmd ed i Patriot forniscono una copertura maggiore a difesa dei missili balistici proprio grazie a queste caratteristiche appena citate, ma in caso di attacco massiccio la loro efficacia nell’intercettare tutti i vettori, e quindi eliminare la minaccia, resta fortemente in discussione, e possiamo dire, con ragionevole certezza, che lo “scudo” lascerebbe passare qualche decina di vettori. Per quanto riguarda la minaccia data da razzi campali e colpi di mortaio trovano utile impiego anche sistemi tipo C-Ram – una sorta di Ciws (Close In Weapon System) terrestre – ma anche in questo caso vale la stessa considerazione fatta per un attacco di saturazione.

Troppi e troppo vicino. Tornando a Iron Dome e alla sua efficacia, bisogna considerare anche alcune peculiarità date dalla geografia e dal sistema stesso: gli attacchi vengono sferrati dalla Striscia di Gaza, che possiamo considerarla un’enclave stretta tra il mare, Israele e l’Egitto, quindi a pochissima distanza dagli obiettivi nello Stato ebraico. Il sistema israeliano, poi, risulta incapace di far fronte a minacce a brevissimo raggio: non può abbattere razzi o proiettili la cui gittata è inferiore a 5-7 chilometri. Inoltre sembra che Iron Dome abbia difficoltà a intercettare razzi sparati su traiettorie “piatte” anche su distanze più lunghe (fino a 16-18 chilometri). Qualcosa che ci ricorda molto la tattica usata dai veicoli di rientro (Rv) per missili balistici tipo Hgv (Hypersonic Glide Vehicle) di fabbricazione russa che, avendo un profilo di volo molto più basso rispetto ai classici Rv, rendono molto difficoltosa la loro intercettazione restando non visibili dai sistemi di ingaggio radar per lungo tempo, fattore a cui va sommata la loro estrema velocità.

Prima però di trarre ulteriori considerazioni su quanto Iron Dome abbia realmente neutralizzato la maggior parte degli attacchi missilistici a cui stiamo assistendo in questi giorni dobbiamo aspettare che l’offensiva termini, in quanto si tratta della prima volta che Hamas utilizza i suoi razzi in questo modo.

Da "corriere.it" il 16 maggio 2021. Almeno 2 morti e una sessantina di feriti nel crollo di una tribuna nella sinagoga ortodossa di Givat Zeev. Alcuni video pubblicati su Twitter mostrano una sinagoga piena di gente e una gradinata che crolla improvvisamente. L’incidente avviene mentre in Israele si festeggia Shavuot, una delle tre feste di pellegrinaggio. Accade poche settimane dopo che 45 persone sono state uccise in un crollo simile in un santuario sul monte Meron, nel nord del Paese.

Israele, 44 morti nella calca al raduno religioso al Monte Meron: dubbi sulla dinamica. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Una terrificante tragedia in Israele: almeno 44  sono state calpestate a morte e 150 ferite, all'uscita, dopo la mezzanotte di giovedì, da un raduno religioso a cui hanno partecipato oltre 50mila ebrei ultraortodossi per celebrare la festa di Lag B’Omer a monte Meron, nella regione dell’Alta Galilea. Le immagini che arrivano dal luogo della sciagura sono sconvolgenti, tra le vittime ci sarebbero anche dei bambini piccoli. Magen David Adom — l’equivalente israeliano della Croce Rossa — riferisce che i suoi paramedici stanno prestando cure a oltre 150 persone. Il servizio di soccorso riferisc che sei elicotteri e dozzine di ambulanze stanno trasportando i feriti all’ospedale Ziv di Safed, al Galilee Medical Center di Nahariya, all'ospedale Rambam di Haifa, all'ospedale Poriya di Tiberiade e Ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme. Ancora non è del tutto chiara la causa della strage. Inizialmente si è parlato del crollo di una gradinata con uno stand a uno dei concerti a cui stavano prendendo parte 50.000 persone. Secondo quanto riferito poi dal Time of Israel, al contrario, la sciagura sarebbe stata almeno in parte causata da una passerella scivolosa: nel corso del concerto o circa 20.000 persone si sono riversate lungo una stretta passerella tra due muri. A terra c'era una pavimentazione metallica scivolosa, che avrebbe fatto cadere le persone generando il disastro. 

Tra le vittime anche bambini piccoli. Disastro in Israele, pellegrini schiacciati dalla calca a un raduno religioso: 44 morti e 150 feriti. Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Oltre 50mila ebrei ultraortodossi si erano radunati per celebrare la festa di Lag B’Omer a monte Meron, nella regione dell’Alta Galilea, in Israele. Dopo la mezzanotte il dramma: almeno 44 persone sono morte schiacciate sotto il peso della folla e sono almeno 150 i feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche “bambini piccoli”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito l’incidente “un terribile disastro”. E intanto la Magen David Adom, i soccorsi israeliani, stanno continuando a evacuare la zona trasferendo i feriti all’ospedale Ziv di Safed, al Galilee Medical Center di Nahariya, all’ospedale Rambam di Haifa, all’ospedale Poriya di Tiberiade e Ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme. Una vera tragedia. Non si capisce ancora bene cosa sia successo. Da una prima ricostruzione dei fatti sarebbe crollata una gradinata con uno stand di uno dei concerti a cui stavano prendendo parte in 50mila. Secondo quanto riporta invece il quotidiano online Times of Israel la tragedia sarebbe stata causata, almeno in parte, da una passerella scivolosa. Durante il concerto circa 20.000 persone si sono riversate lungo una stretta passerella tra due muri. A terra c’era una pavimentazione metallica scivolosa, che ha fatto cadere alcune persone durante la corsa all’uscita. Le autorità avevano autorizzato solo la presenza di 10.000 persone nel recinto della tomba ma, secondo gli organizzatori, sono stati noleggiati più di 650 autobus in tutto il Paese, vale a dire almeno 30.000 persone. La stampa locale parla addirittura di 100.000. Ogni anno gli ebrei si radunano sul monte Meron per celebrare la festività di Lag B’Omer, che ricorda la ribellione ebraica del 132 d.C contro le legioni romane. Pregano sulla tomba di Rabbi Shimon Ber Yochai, un saggio e mistico del II secolo d.C. Secondo la tradizione questi è l’autore del testo mistico dello “Zohar” (lo splendore). Un evento che attira sempre migliaia di fedeli, a volte fino a mezzo milione di persone. L’anno scorso era stato annullato a causa del Covid ma quest’ anno è stato autorizzato e nonostante le misure di prevenzione e distanziamento è stato impossibile evitare la tragedia. Un altro disastro era avvenuto sul monte Meron anche nel 1911. Allora decine di persone morirono nel crollo di un edificio vicino alla tomba del rabbino.

Rossella Grasso.  Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

(ANSA il 30 aprile 2021) Sale ad almeno 150 il bilancio dei feriti della calca scatenatasi al raduno religioso ebraico sul monte Meron, in Galilea, dove sono morte 44 persone travolte dalla folla. Lo rendono noto fonti di soccorso citate dai media israeliani, secondo le quali almeno 24 persone sono in gravi condizioni e sei di queste rischiano la vita.

Da ilgiorno.it il 30 aprile 2021. Una fuga di massa durante una celebrazione religiosa ha causato una strage in Israele: è di almeno 44 morti e oltre 60 feriti - di cui una ventina in gravi condizioni -, infatti, il bilancio dell'incidente avvenuto dopo mezzanotte tra il 29 e il 30 aprile nella calca durante la celebrazione della festività ebraica Lag B'Omer sul monte Meron, in Galilea. I numeri sono forniti dai media israeliani che citando fonti di soccorso e di sicurezza. Sul posto erano presenti decine di migliaia di persone, si stima oltre centomila ebrei osservanti, e secondo le ultime informazioni, tutto sarebbe avvenuto quando alcune di queste persone sono scivolate dai gradini delle scalinate trascinando con sé altri partecipanti e innescando una fuga di massa in cui decine di persone sono rimaste schiacciate. Secondo un'altra ricostruzione, però, potrebbe essere crollata una sezione di posti a sedere dello stadio, innescando poi la fuga. In ogni caso la polizia avrebbe cercato di trattenere la fuga, come appare dai video postati su Twitter. Alcuni testimoni hanno accusato la polizia di aver bloccato l'uscita. Ai soccorsi hanno partecipato decine di ambulanze e anche elicotteri militari. Il premier Benjamin Netanyahu ha definito l'incidente "un terribile disastro".  "È successo tutto in una frazione di secondo; le persone sono cadute, calpestandosi a vicenda. È stato un disastro", ha detto un testimone. Il comandante del distretto settentrionale delle forze di polizia Shimon Lavi, che ha supervisionato le disposizioni di sicurezza al monte Meron, ha detto di assumersi la responsabilità del disastro.  "Ho la responsabilità generale, nel bene e nel male, e sono pronto a sottopormi a qualsiasi indagine", ha dichiarato ai giornalisti. C'è un continuo "sforzo per raccogliere prove per arrivare alla verità", dice.

La festività. Come ogni anno in occasione della festività ebraica di Lag ba-Omer, (che ricorda la ribellione ebraica del 132 d.C contro le legioni romane) ieri decine di migliaia di ebrei si sono recati sul monte Meron per pregare sulla tomba Shimon Ber Yochai, un celebre rabbino del secondo secolo d.C. Secondo la tradizione questi è l'autore del testo mistico dello 'Zohar' (lo splendore). Da anni questo evento è il più affollato in Israele, richiamando a volte fino a mezzo milione di persone. L'anno scorso, a causa del coronavirus, era stato annullato. Quest'anno, col miglioramento della situazione sanitaria, era stato autorizzato, ma con numerose limitazioni che però non hanno resistito alla pressione della folla immensa. Secondo alcune notizie, c'erano tre volte più persone di quelle autorizzate. Un altro disastro era avvenuto sul monte Meron anche nel 1911. Allora decine di persone morirono nel crollo di un edificio vicino alla tomba del rabbino.

Francesco Semprini per "La Stampa" l'8 aprile 2021. Agenti stranieri camuffati da reporter de La Stampa hanno tentato di raccogliere e divulgare informazioni volte a screditare la leadership degli Emirati arabi uniti. È quanto emerge da un'inchiesta del giornale online «Daily Beast» secondo cui l'azione è stata condotta da Bluehawk CI, società di investigazioni private con sede in Israele. «All'inizio del 2020 individui che si sono spacciati per ricercatrice di Fox News e giornalista del quotidiano italiano La Stampa hanno approcciato due uomini coinvolti in contenziosi contro Ras Al Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti - spiega la testata Usa -. Gli impostori hanno tentato di carpire dai loro interlocutori informazioni circa le azioni legali che li vedono contrapposti alla leadership dell'Emirato». In un caso hanno agito su Facebook utilizzando nome e foto di utenti reali per creare il profilo fake di «Julia», fantomatica reporter de La Stampa. Con l'obiettivo di approcciare Khater Massaad, cittadino con doppio passaporto svizzero e libanese che ha lavorato come capo del fondo sovrano Rakia sino al 2012. «La scelta della testata - spiegano fonti informate - è legata alla sua assidua copertura delle vicende regionali, sino a quel momento». Nel 2015, i giudici hanno condannato Massaad in contumacia per appropriazione indebita di fondi. Accuse definite dal diretto interessato false e motivate politicamente, perché - sostiene - è considerato oppositore del governo dell'emirato. «La falsa giornalista italiana si è avvicinata a Massaad tramite un messaggio Facebook chiedendo di discutere il suo rapporto con il governo di Ras Al Khaimah», spiega Daily Beast. Lo scambio tra i due sarebbe stato molto limitato. Massaad insospettito da qualche incertezza dell'interlocutore non ha proseguito il colloquio. «A quanto pare, ha fatto bene - prosegue il sito Usa -, visto che il curioso giornalista italiano era un agente legato a Bluehawk CI». A smascherare il cacciatore di segreti reali è stato proprio Facebook che ha dimostrato come il falso profilo di cronista de La Stampa fosse stato illecitamente utilizzato dalla società israeliana di business intelligence. Il social ha adottato provvedimenti immediati tra cui la cancellazione dell' utente "fake". Completa estraneità quindi della testata, come ribadito in una nota del direttore Massimo Giannini. Stesso metodo è stato ha utilizzato con una finta «ricercatrice presso il canale di notizie Fox a New York», interessata a scrivere sui «numerosi casi di immigrazione e detenzione tra i confini degli Emirati e Penisola araba». La fantomatica "Samantha" ha contattato nel febbraio 2020 Oussama El Omari, cittadino americano che aveva lavorato come amministratore delegato della zona di libero scambio di Ras Al Khaimah e ha citato in giudizio l'emirato nel 2016 per un pagamento non corrisposto. La causa è stata archiviata nel 2017. Anche in questo caso è emerso il legame con la società fondata da Guy Klisman, ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana. Non è chiaro invece chi potrebbe aver assunto Bluehawk CI e perché. El Omari ha intentato un'azione legale sostenendo che dietro il falso giornalista Fox si celano dipendenti di aziende dell'emirato.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2021. Una volta erano gli agricoltori-soldati dei kibbutz, che poco si preoccupavano dell'estetica e di quella barba germogliata incolta a differenza dei campi. Ancora oggi sono gli ultraortodossi che per fede religiosa non si rasano. Sempre di più avanzano gli hipster che fanno della peluria ben curata un simbolo di identità da indossare ed esibire. Lasciarla andare ispida - come il sabra, il fico d'India in ebraico, simbolo dei pionieri cresciuti spinosi nel deserto - ha sempre fatto parte di una certa mascolinità israeliana, compreso il ritorno a casa dal miluim (il servizio militare nei riservisti, obbligatorio una volta l'anno) arruffati e poco lavati. Fino al 2016, quando i generali che assistevano a un'esercitazione congiunta con le forze americane, hanno notato una differenza nel grugno guerresco: «I nostri erano i soli a esibire tutte quelle barbe lunghe, a volte è un segno di trascuratezza che si trasferisce in battaglia», hanno commentato i portavoce. Così lo Stato Maggiore ha deciso di inserire nel regolamento l'obbligo di radersi e presentarsi all'adunata con il volto ripulito. La Corte Suprema è intervenuta per evitare discriminazioni verso i giovani militari laici, la leva per i maschi dura tre anni: gli osservanti ottengono la dispensa dal taglio per intercessione dei rabbini militari e i giudici hanno decretato che lo stesso diritto andasse accordato a chi dimostri attraverso una procedura su per la catena di comando che la barba è parte profonda della sua identità. Da allora le richieste per questi casi speciali sono state migliaia, le esenzioni concesse dagli ufficiali ben poche. In gennaio un gruppo di 17 soldati ha deciso di presentare una nuova petizione alla Corte e hanno raccolto via Facebook i soldi (120 mila shekel, oltre 30 mila euro) per sostenere le spese legali. Il simbolo della campagna è lo stemma di Tsahal, le forze di difesa israeliane, effigiato da una lunga barba e i promotori spiegano «di voler spingere l'esercito a concentrarsi sulle questioni essenziali: investire tempo e risorse nella difesa della nazione». Sostengono che la discriminazione delle barbe crea «malcontento nei ranghi»: «Perché complicare la vita di questi ragazzi - dicono Bar Pinto e Gilad Levi all'agenzia France Presse - che fanno uno sforzo per proteggere la patria e offrono il periodo migliore della loro vita?». Anche perché quelli disposti al sacrificio - nonostante l'obbligo - sono sempre meno: Benny Gantz, il ministro della Difesa, ha avvertito che tra gli esoneri degli haredim (gli ultraortodossi: situazione mai davvero risolta per legge), certificati medici, studi all'estero, metà dei giovani israeliani non indossa la divisa. Cinque anni fa le nuove regole avevano finito con lo spaccare il pelo anche tra i praticanti: i sionisti religiosi, che spesso sono la maggioranza nelle unità combattenti, hanno protestato perché rischiavano di venire penalizzati rispetto ai più ortodossi. «Non taglierete in tondo i capelli ai lati del capo, né spunterai gli orli della tua barba», prescrive il Levitico. E un potente rabbino aveva allora ordinato ai fedeli nell'esercito di «rispettare la norma anche se dovessero prendersi cento frustate».

Sharon Nizza per "la Repubblica" il 4 marzo 2021. La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale dell' Aia (Cpi), Fatou Bensouda, ha annunciato l' apertura di un' indagine "sulla situazione in Palestina" che valuterà potenziali crimini di guerra commessi da Israele in tre ambiti: l' operazione a Gaza Margine Protettivo del 2014, le "marce della rabbia" palestinesi del 2018 al confine della Striscia di Gaza e la politica degli insediamenti israeliani. L' indagine riguarderà anche crimini commessi da Hamas e "altri gruppi armati palestinesi": gli attacchi intenzionali contro civili israeliani e l' uso di civili come scudi umani, nonché crimini contro la popolazione palestinese come la privazione del diritto a un processo equo, omicidi intenzionali e torture. Per il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki è «un passo atteso da tempo che aiuterà lo sforzo incessante della Palestina per ottenere giustizia». Il portavoce di Hamas Hazem Qassem si dice fiducioso che «le nostre azioni ricadano nell' ambito della resistenza legittima». «Il fatto che un' organizzazione terroristica come Hamas accolga con favore la decisione è indice di quanto non abbia alcuna validità morale», ha replicato il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi, mentre il premier Netanyahu promette che «lotteremo per la verità e ribalteremo la decisione», definita "antisemita". La decisione era attesa, specie dopo che il 5 febbraio la Cpi aveva riconosciuto la propria giurisdizione su Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, nonostante Israele, non avendo ratificato il Trattato di Roma istitutivo della Cpi, non aderisca alla Corte. In Israele parlano di decisione politica e ipocrita, indicando come Bensouda, che a giugno termina il mandato, abbia deciso di dare priorità a questa indagine rispetto alle inchieste preliminari concluse a dicembre sulla situazione in Ucraina e Nigeria. E, mentre Israele compila una lista di ufficiali che potrebbero trovarsi al centro delle indagini - a cui il ministro della Sicurezza Gantz garantisce ogni sostegno legale - , da un punto di vista procedurale ci vorrà tempo prima che vengano adottate iniziative concrete. Per ottemperare al principio di complementarità, per cui la Cpi può intervenire solo quando gli Stati non vogliano o siano incapaci di investigare autonomamente, la Corte dovrà ancora esprimere una valutazione sui procedimenti aperti in autonomia dalle autorità giudiziarie israeliane in relazione alle accuse. Israele punta sull' autonomia del suo sistema giudiziario, ma per fare leva su questo, ora deve decidere se collaborare con la Corte. L' annuncio potrebbe trasformarsi in merce di scambio in altri scenari: Blinken ha condannato a febbraio la Corte, ma questo sostegno potrebbe ora avere un prezzo per Israele, specie considerando che Netanyahu avrebbe chiesto a Biden di mantenere le sanzioni imposte da Trump alla Cpi: potrebbe costare concessioni su altri dossier, come le trattative sul nucleare iraniano o la ripresa di colloqui con i palestinesi.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 22 febbraio 2021. Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato nucleare iraniano assassinato a novembre nei pressi di Teheran, sarebbe stato ucciso da un’arma con un peso totale di una tonnellata contrabbandata in Iran dall’agenzia di intelligence israeliana Mossad. È quanto riportato da The Jewish Chronicle citando fonti dell’intelligence, aggiungendo che una squadra di oltre 20 agenti, tra cui cittadini israeliani e iraniani, ha effettuato l’imboscata a Fakhrizadeh dopo otto mesi di sorveglianza. I media iraniani avevano riferito che lo scienziato era morto in ospedale dopo essere stato colpito a bordo della sua auto da assassini armati. Poco dopo il decesso, l’Iran ha puntato il dito contro Israele, il ministro degli Esteri Javad Zarif su Twitter aveva parlato di “gravi indicazioni di un ruolo israeliano”.

Chi era Mohsen Fakhrizadeh. Fakhrizadeh, 59 anni, da lungo tempo era sospettato dall’Occidente di essere l’ideatore di programma segreto riguardante la bomba nucleare. Per anni, dai servizi segreti occidentali e israeliani era stato ritenuto il misterioso leader di un programma segreto interrotto nel 2003, e che attualmente Israele e Stati Uniti accusano Teheran di tentare di ripristinare. Secondo il Jewish Chronicle, l’Iran ha “segretamente valutato che ci vorranno sei anni” prima che un sostituto dello scienziato sia “pienamente operativo” e che la sua morte avrebbe “prolungato il periodo di tempo necessario all’Iran per sviluppare una bomba atomica da tre mesi e mezzo a due anni”.

L’arma del Mossad che ha distrutto le prove dopo l’omicidio. Jewish Chronicle, ha riferito che il Mossad ha montato la pistola automatica sul pick-up Nissan e che “l’arma su misura, azionata a distanza da agenti a terra mentre osservavano l’obiettivo, era pesante perché includeva una bomba che ha distrutto le prove dopo l’omicidio”. Ha aggiunto che l’attacco è stato effettuato “solo da Israele, senza coinvolgimento americano”, ma che gli agenti statunitensi hanno ricevuto una qualche forma di preavviso”.

Sapevano tutto di lui, anche che dopobarba usava": così Israele ha ucciso il capo del programma nucleare iraniano.  Vincenzo Nigro su La Repubblica il 12 febbraio 2021. Il Jewish Chronicle, più antico giornale ebraico in inglese, ricostruisce l'assassinio di Mohsen Fakhrizadeh, colpito in un attentato a Teheran il 27 novembre. Un gruppo di spie sul terreno e un'arma sofisticatissima - poi fatta saltare in aria - sono state le chiavi dell'operazione. Nei giorni scorsi il Jewish Chronicle, il più antico giornale ebraico pubblicato in inglese a Londra dal 1841, ha offerto una lunga ricostruzione dell'assassinio di Mohsen Fakhrizadeh. Lo scienziato nucleare iraniano fu colpito in un attentato il 27 novembre del 2020: l'uomo era soprannominato dagli israeliani "il padre" del programma nucleare iraniano e quella per colpirlo fu un'operazione molto complessa, messa in piedi dal Mossad e dai suoi operativi di nazionalità iraniana dopo mesi di appostamenti. La ricostruzione del Chronicle conferma alcuni elementi che erano girati già in dicembre. Sono questi: innanzitutto è stata utilizzata una mitragliatrice automatica a controllo remoto, del peso di una tonnellata. L'arma venne fatta entrare in Iran pezzo dopo pezzo e fatta saltare in aria con tutto il veicolo su cui era stata piazzata per eliminare elementi delicati che non dovevano cadere in mano iraniana. Secondo elemento: il ruolo di Fakhrizadeh nel programma nucleare iraniano era stato individuato da Israele nel 2018 con il furto a Teheran di un importante archivio sul programma nucleare iraniano. Dall'archivio emerse il ruolo dello scienziato, che sovrintendeva ai vari aspetti della ricerca. L'operazione fi avviata nel marzo del 2020, nelle settimane inIziali del Coronavirus. Una squadra di 007 israeliani venne introdotta in Iran dove si riunì con gli altri agenti locali del gruppo: in tutto oltre 20 persone, un numero elevato. Da quel momento iniziò il controllo di Fakhrizadeh: "Per otto mesi la squadra respirò con lui, si svegliò con lui, dormì con lui, viaggiò con lui: sapevano anche quale dopobarba utilizzava". Gli attentatori israeliani decisero di colpire Fakhrizadeh sul tragitto verso la villa di famiglia di Absard, poco fuori Teheran. Il professore era scortato da almeno 12 guardie del copro, il convoglio viaggiava su 4 veicoli. Gli agenti israeliani piazzarono un Suv Nissan con la mitragliatrice ai lati di una strada che l'uomo percorreva abitualmente.  L'attentato avvenne il 27 novembre, mentre l'uomo era in auto con le guardie del corpo e la moglie: l'arma sparò in tutto 13 colpi, nessuno della famiglia o fra le guardie del colpo (secondo il Chronicle) venne colpito. La Nissan con la mitragliatrice fu fatta esplodere immediatamente dopo. A questo punto il giornale inglese riporta le considerazioni di una sua fonte: "Grazie a Dio tutti i nostri agenti sono riusciti a uscire, nessuno è stato preso, non ci sono neanche arrivati vicino: la sicurezza iraniana non è affatto male ma il Mossad è molto meglio. Il regime (iraniano) è stato umiliato e devastato, anche il Mossad è rimasto sorpreso dal forte impatto dell'attacco". Una valutazione fatta dal Mossad è che ci vorranno sei anni perché l'Iran riesca a trovare un sostituto di Fakhrizadeh. Il Chronicle aggiunge un particolare cruciale: l'amministrazione di Donald Trump (già sconfitto nelle elezioni di novembre) non era stata avvertita. "Gli americani non furono coinvolti, è stata assolutamente un'operazione israeliana. non era una questione politica ma di sicurezza, non c'entrava nulla con Trump o le elezioni Usa". Il governo israeliano non ha voluto commentare in nessun modo il racconto del Jewish Chronicle, ma in qualche modo l'autorevolezza della rivista e lo stesso silenzio di Israele confermano la ricostruzione, Che fatta in queste ore diventa un nuovo elemento nella battaglia politica e anche di informazione che Israele sta conducendo contro l'Iran per fermare il suo programma nucleare.

·        Quei razzisti come i siriani.

Da huffingtonpost.it il 24 dicembre 2021. Un Narcostato affacciato sul Mediterraneo. Così l’Economist aveva definito la Siria questa estate, così lo descrive il New York Times pubblicando un’inchiesta che fa luce sui protagonisti, sui volumi e sul valore multimiliardario del traffico di droga che attraversa e oltrepassa il Paese mediorientale. Il prodotto di punta è il Captagon, una anfetamina sintetizzata in laboratori clandestini, molto popolare negli stati arabi. Originariamente usata per curare il deficit di attenzione e la narcolessia, venne dichiarata illegale nel lontano 1981, quando aveva ormai preso piede negli Stati del Golfo Persico. La produzione di captagon si è diffusa prima in Libano, per arrivare in Siria con l’esplosione della guerra. I trafficanti siriani trovarono quindi un terreno particolarmente fertile: non solo materie prime facilmente reperibili e uno sbocco sulle rotte mediterranee, ma anche una comoda situazione di caos estremo causata dal conflitto. Il proseguire incessante della guerra, le sanzioni statunitensi comminate contro la Siria, il collasso finanziario del vicino Libano, la pandemia che incide sulle rimesse dei siriani all’estero, ha portato ad un tracollo economico devastante. Questo ha convinto numerose figure vicine al presidente al-Assad ad investire in questo nuovo business, dando vita ad un cartello profondamente legato e protetto dallo Stato. A sovrintendere la produzione e la distribuzione, spiega la testata americana, è infatti la Quarta Divisione Corazzata dell’esercito siriano, unità d’élite agli ordini del Generale Maher al-Assad, fratello più giovane del presidente Bashar. Poco sotto il vertice della piramide, ma in una posizione chiave, uomini d’affari come Amer Khiti e Khodr Taher, entrambi arricchitisi notevolmente durante e grazie alla guerra, e vicini al governo di Assad, come spiega sempre il Nyt. Il massiccio incremento del traffico di droga è diretta conseguenza dei dieci anni di conflitto che hanno travolto la Siria, alzando vertiginosamente il livello di povertà, e portando affaristi, quadri militari e vertici politici a cercare nuove fonti di guadagno – in denaro contante – e nuovi modi per eludere le sanzioni statunitensi. E a quanto pare le anfetamine illegali rendono bene, molto meglio dei prodotti legali che hanno ampiamente sorpassato. Attualmente sono il bene nazionale di esportazione di maggior valore, stando al database di retate globali di captagon costruito da New York Times. Negli ultimi anni si è verificata una vera e propria esplosione: solo quest’anno, sono state sequestrate nel mondo più di 250 milioni di pillole di captagon. Quattro anni fa il bilancio era 18 volte inferiore. In Italia sono state trovate 84 milioni di pillole nascoste in cilindri di carta per uso industriale e macchinari costruiti in maniera tale da impedire agli scanner di individuare il contenuto. 

Giuseppe Gagliano per startmag.it il 13 dicembre 2021. Cosa scrive il New York Times sull’impero della droga di Assad in Siria. La recentissima inchiesta del New York Times sull’impero della droga che la famiglia Assad ha costruito in Siria conferma quanto rilevato dall’Economist nell’agosto del 2021. Più nello specifico la droga commercializzata è il Captagon, un composto di anfetamina e altre sostanze stimolanti. La produzione e la distribuzione di questa droga sintetica coinvolge direttamente una parte importante delle forze armate siriane e cioè la quarta divisione dell’esercito siriano diretta da Maher al-Assad, fratello minore del presidente. A livello economico questa droga sintetica raggiunge la cifra record di 2,9 miliardi di dollari e naturalmente giunge in Europa e cioè in Grecia e in Italia (nel luglio del 2020 la guerra di finanza di Salerno ne aveva infatti sequestrato una quantità per un valore di mercato di 84 milioni). Per giungere in Italia la droga passa attraverso la Svizzera e più esattamente attraverso la società fantasma come la GPS Global Aviation Supplier di Lugano. L’importanza di questo traffico era stata già evidenziata dal periodico The Economist, come dicevamo poc’anzi. Che cosa rivelava l’inchiesta del periodico? In primo luogo veniva sottolineato come la Siria sia diventato il primo fornitore mondiale di questa droga sintetica e cioè è diventata la principale merce di esportazione e fonte di valuta pregiata del paese. Stando infatti alle indagini del Centro che la ricerca di Cipro, le autorità di altri paesi hanno sequestrato droghe siriane per un valore di circa 3,4 miliardi di dollari e quindi data l’entità notevole di questa cifra è chiaro che la commercializzazione di questa droga sta diventando uno strumento per finanziare il governo centrale. Ciò non deve sorprendere, dal momento che già negli anni 90 la Siria e più esattamente la valle della Beqa’ è stata la principale fonte di hashish. Tuttavia l’apice della produzione di droga è cominciata soltanto nel 2011, cioè dopo la guerra civile. A parte la famiglia Hassad, Hezbollah svolge ieri come oggi un ruolo fondamentale: proprio nelle montagne di Qalamoun non solo ha prodotto hashish, ma ha prodotto anche le pillole di captagon. Tuttavia è certamente la Siria a svolgere il ruolo centrale in questo traffico e più esattamente le due fabbriche chimiche site rispettivamente nella città di Aleppo e di Homs. Al di là del fatto – assolutamente scontato – che il regime di Assad è un regime assolutamente autoritario, è tuttavia altrettanto evidente che il ruolo della droga – e i profitti che determina – costituisce un aspetto molto importante anche per le nostre democrazie: e cioè che lo Stato ufficiale collabora in modo sinergico con il Deep State sia nelle democrazie che negli Stati autoritari. Pensiamo – a titolo esemplificativo – al ruolo che i contras ebbero proprio nel commercio di droga per contrastare la minaccia comunista, ed in particolare faccia di ananas cioè Noriega un uomo chiave non solo per gli USA ma anche per la P2, come rivelato da Francesco Pazienza nella sua autobiografia Il Disubbidiente. 

·        Quei razzisti come i libanesi.

Chi è Samir Geagea. Mauro Indelicato su Inside Over il 23 novembre 2021. Samir Geagea è l’attuale presidente delle Forze Libanesi, uno dei più importanti partiti della comunità cristiano-maronita. Protagonista molto discusso della guerra civile libanese, dal 1994 al 2005 risulta recluso per le responsabilità a lui attribuite di un attentato compiuto a Beirut nei primi anni ’90. Da sempre su posizioni anti siriane, nel corso degli anni mantiene un ruolo di primo piano nella vita politica del Libano.

L'infanzia e gli studi di Geagea

Samir Geagea nasce il 25 ottobre 1952 da una famiglia cristiana in un quartiere di Beirut. Il padre lavora per l’esercito e, nonostante una posizione economica non agiata, riesce a far studiare il figlio al liceo prima e all’università poi. Samir infatti risulta iscritto nella facoltà di medicina presso l’Università Americana di Beirut. Ma quando ha 23 anni nel Paese scoppia la guerra civile. Un evento destinato a incidere profondamente nella vita di Samir Geagea.

Gli studi interrotti con lo scoppio della guerra civile

Fino a prima dell’inizio del conflitto Samir Geagea non sembra essere molto coinvolto nel mondo politico. Tuttavia poco dopo il suo ingresso all’università risulta iscritto al Partito delle Falangi Libanesi, formazione cristiano-maronita guidata da Bachir Gemayel. In quel periodo tutti i principali partiti iniziano ad avere delle proprie fazioni armate. La tensione in Libano è molto alta e le varie comunità etnico-religiose decidono di prepararsi allo scontro.

La scintilla del conflitto scoppia nel 1975. A quel punto anche Samir Geagea viene risucchiato dagli eventi della storia. Da quel momento in poi l’impegno politico diventa prioritario nella sua vita, tanto da interrompere gli studi universitari. Lascia quindi la facoltà di medicina per aderire a pieno titolo sia alle Falangi Libanesi che alle milizie armate del partito. Prova a completare l’università iscrivendosi nel 1976 alla Saint Joseph, ma gli eventi della guerra anche in quel caso non gli consentono di arrivare alla laurea.

La militanza nelle Forze Libanesi

La guerra imperversa in Libano e soprattutto a Beirut. Per questo nel 1976 Bachir Gemayel decide di unire tutte le varie forze cristiane, anche al di fuori delle Falangi, e fondare il gruppo delle Forze Libanesi.

Samir Geagea aderisce alla nuova coalizione armata e ne diventa uno dei più importanti rappresentanti giovanili. Lo stesso Gemayel inizia a considerarlo tra gli elementi su cui puntare, soprattutto da un punto di vista militare.

Il massacro di Ehden del 1978

Il leader delle Forze Libanesi mette per la prima volta alla prova Samir Geagea affidandogli una parte del commando destinato a prendere in consegna Tony Frangieh, a capo di una milizia interna denominata “Brigata Marada” in contrasto con le posizioni di Gemayel. Quest’ultimo ha infatti una linea anti siriana e considera il ruolo di Damasco come deleterio per l’indipendenza e l’integrità del Libano.

La milizia di Frangieh, al contrario, ha ottimi rapporti con il governo siriano. Anzi, il capostipite Suleiman Frangieh, presidente della Repubblica dal 1970 al 1976, intrattiene relazioni politiche molto strette con il presidente siriano Hafez Al Assad. Questo dà vita a un contrasto ben presto portato dal piano politico a quello militare.

Nella primavera del 1978 un membro delle Forze Libanesi viene assassinato nel nord del Paese, in una zona dove la Brigata Marada è molto radicata. Il sospetto di Gemayel è che dietro l’omicidio ci sia un ordine impartito da Tony Frangieh. Da qui la decisione di raggiungere quest’ultimo nella propria abitazione per arrestarlo. Il compito viene affidato il 13 giugno 1978 a due gruppi, uno dei quali comandato da Samir Geagea. I suoi uomini devono raggiungere la località di Ehden, dove si trova la villa dei Frangieh.

Qualcosa però va storto. Lo stesso Geagea viene ferito in un agguato prima di arrivare sul posto. La sua mano rimane parzialmente paralizzata e questo gli impedisce di completare il proprio tirocinio in medicina. Quello che accade dopo è uno degli episodi più cruenti della guerra civile libanese. A Ehden va in scena un cruento scontro armato, in cui rimangono uccise 40 persone. Tra queste lo stesso Tony Frangieh, assieme alla moglie e alla figlioletta di appena tre anni. Della sua famiglia si salva solo il figlio Soleiman. L’eccidio di Ehden rappresenta, tra le altre cose, uno degli episodi più controversi nella vita politica di Geagea. Ancora oggi è ignoto il suo ruolo nel massacro. In tanti però gli imputano quanto meno una certa responsabilità politica e morale.

Le posizioni anti siriane di Geagea

Nel corso della sua militanza nelle Forze Libanesi, Samir Geagea mantiene sempre posizioni antistanti a quelle di Damasco. Nei primi anni ’80 Gemayel gli affida il comando delle fazioni armate del partito nel nord del Libano. Qui in più occasioni ingaggia battaglie dirette contro l’esercito siriano. Così come sono diversi gli scontri contro le fazioni armate dell’Olp e di altri gruppi palestinesi.

Nel 1982 Israele invade il sud del Libano per contrastare l’Olp. Lo Stato ebraico intrattiene buoni rapporti con le Forze Libanesi e la presenza dei soldati israeliani favorisce l’elezione a presidente della Repubblica di Gemayel. Quest’ultimo però viene ucciso pochi giorni prima dell’insediamento. A succedergli è il fratello Amin Gemayel, il quale ha posizioni più moderate nei confronti dei siriani.

Il comando delle Forze Libanesi viene preso da Elie Hobeika, con Samir Geagea che diventa uno dei più importanti leader militari.

Samir Geagea a capo delle forze libanesi

Hobeika nel 1985 dà vita a una svolta importante. Sigla con Nabih Berri, leader del partito sciita Amal, e con Walid Jumblatt, leader druso, un patto tripartito per favorire la pacificazione. Ma non tutti all’interno delle Forze Libanesi sono d’accordo. Il forte sospetto è che questa nuova alleanza contribuisca a rafforzare il ruolo della Siria all’interno del Libano.

Il 15 gennaio 1986 i militanti vicini a Samir Geagea, divenuto a tutti gli effetti capo militare delle Forze Libanesi, ordiscono contro Hobeika. Quest’ultimo viene costretto, dopo un assedio del proprio quartier generale, a rassegnare le dimissioni. Gli stessi militanti proclamano quindi Samir Geagea quale nuovo leader delle Forze Libanesi. Tre anni più tardi, con gli accordi di Taif, viene sancita la fine della guerra civile.

Quale leader delle Forze Libanesi e quale importante rappresentante della comunità cristiano-maronita, a Geagea viene offerto nel 1990 un posto nel nuovo governo post bellico. La proposta viene tuttavia rifiutata. Geagea considera il nuovo esecutivo eccessivamente vicino alla Siria, le cui truppe peraltro rimangono presenti in Libano come forza stabilizzatrice in virtù degli accordi di Taif. I rapporti tra le Forze Libanesi e Damasco rimangono quindi tesi anche con la fine della guerra.

Le forze libanesi trasformate in partito dopo la guerra

Nel 1992 Samir Geagea prova ad avere una maggiore legittimazione politica. Confermato alla guida delle Forze Libanesi, in quell’anno si candida anche alla guida del partito delle Falangi. In tal modo avrebbe il controllo dell’intera formazione, sia militare che partitica. Tuttavia Geagea perde il confronto con Saadeh. Quest’ultimo, deciso a non dare un orientamento anti siriano alle Falangi, espelle Geagea e tutti i suoi seguaci.

A questo punto l’ex leader militare fonda il partito delle Forze Libanesi e dà definitivamente addio alla coalizione nata nel 1976. Le formazioni delle Falangi e delle Forze Libanesi sono adesso due distinte entità partitche.

L'arresto di Geagea del 1994

Nel 1990 viene propugnata un’amnistia per i crimini commessi durante la guerra. In tal modo nessun leader politico libanese che ha avuto ruoli nel conflitto rischia dei processi. C’è però un piccolo particolare: l’amnistia è data per le azioni commesse prima del 1990, non dopo. Nel 1994 una bomba esplode in una chiesa nella cittadina di Zouk, causando nove morti. Il governo punta il dito contro Samir Geagea, accusandolo di aver mantenuto in vita una milizia mascherata all’interno di un partito.

Si ordina quindi lo scioglimento delle Forze Libanesi mentre il 21 aprile del 1994 la magistratura spicca un mandato di arresto per Geagea. Quest’ultimo perde l’amnistia e viene condannato sia per l’attentato di quell’anno che per il ruolo avuto nel precedente conflitto. La detenzione è descritta come non rispettosa dei diritti umani dalle stesse Nazioni Unite. In particolare, Geagea viene imprigionato in un locale senza finestre dei sotterranei del ministero della Difesa. Ha diritto di vedere soltanto i familiari più stretti e le conversazioni vengono costantemente monitorate. Secondo i suoi sostenitori, la sentenza di condanna ha solo motivazioni politiche e fa di Geagea l’unico leader libanese a essere imprigionato per i fatti riconducibili alla guerra civile.

Il rilascio dopo la morte di Hariri del 2005

Il 14 febbraio 2005 muore in agguato l’ex premier Rafiq Hariri. L’omicidio dà vita a un’ondata di proteste a Beirut e in tutto il Libano. I manifestanti puntano i riflettori sul presunto ruolo della Siria nella morte dell’ex capo del governo. La piazza chiede la fine della presenza siriana nel Paese e questo spinge la politica libanese a dividersi di fatto in due grandi coalizioni: da un lato gli anti siriani e dall’altro i filo siriani. Del primo gruppo fanno parte i partiti sunniti vicini alla famiglia Hariri e le Falangi che, assieme ad altre formazioni minori, danno vita all’Alleanza del 14 marzo. La coalizione vince le elezioni e fa approvare il 18 luglio 2005 un disegno di legge di amnistia per Samir Geagea. Quest’ultimo, viste le sue posizioni anti siriane, viene quindi politicamente riabilitato e può ricostituire le Forze Libanesi.

Al momento del rilascio, avvenuto a fine luglio, le sue condizioni di salute appaiono precarie. È costretto a ricorrere alle cure in Francia, terminate soltanto dopo tre mesi. Il 25 ottobre 2005 Geagea torna in Libano per la prima volta da uomo libero dopo 11 anni.

L'attuale ruolo di Geagea nella politica libanese

La liberazione di Geagea coincide con un suo ritorno in politica. Il suo partito ottiene 8 seggi nelle elezioni del 2009 e 12 invece in quelle del 2018. Nel 2014 prova a essere eletto presidente della Repubblica con il sostegno dell’Alleanza del 14 marzo, ma è costretto poi a desistere.

Come capo delle Forze Libanesi, Geagea viene visto con sospetto dal partito sciita Hezbollah. Il 14 ottobre 2021 si verifica uno scontro armato nel centro di Beirut durante una manifestazione organizzata proprio da militanti sciiti. Il loro obiettivo è chiedere la destituzione di Tarek Bitar, il magistrato che indaga sull’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto 2020. Le proteste degenerano in scontri a fuoco in cui muoiono almeno 7 persone. Hezbollah dà la colpa degli eventi a cecchini delle Forze Libanesi appostati negli edifici vicini. Geagea nega ogni coinvolgimento e accusa a sua volta gli sciiti di aver fomentato disordini.

Che cos’è la rivoluzione dei Cedri. Mauro Indelicato su Inside Over il 2 novembre 2021. Con il termine “rivoluzione dei Cedri” ci si riferisce a una serie di manifestazioni andate in scena in Libano tra l’inverno e la primavera del 2005. Epicentro delle proteste è la capitale Beirut e il casus belli è da individuare nell’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri. La rivoluzione dei Cedri porta alla caduta del governo di Karami e allo scioglimento del parlamento, nonché all’indizione di nuove elezioni. Ma la conseguenza più grande si ha sul piano internazionale: a seguito delle proteste, la Siria, presente in Libano dal 1976, ritira le proprie truppe.

L'attentato a Rafiq Hariri

Alle 12:55 del 14 febbraio 2005 Beirut viene sconvolta da una violenta esplosione. In un lampo la capitale ripiomba nell’incubo vissuto vent’anni prima, quando era il principale fronte avanzato della guerra civile libanese. Il violento boato proviene da una strada vicina all’Hotel Saint George. L’esplosione è provocata da un’autobomba fatta saltare in aria mentre l’arteria adiacente all’albergo vive il consueto traffico dell’ora di punta. In quel momento nel punto dell’esplosione transita l’auto di Rafiq Hariri. Quest’ultimo è l’uomo politico più influente del Libano post guerra.

Primo ministro dal 1992 al 1998 e ancora dal 2000 al 2004, uomo d’affari con stretti legami con l’Arabia Saudita, Hariri imprime il suo nome nella ricostruzione del Paese. Dopo le dimissioni sul finire del 2004, in molti però scommettono su un suo prossimo rientro alla guida dell’esecutivo. Sono però importanti i contrasti con il presidente della Repubblica, Emile Lahoud. Cristiano, considerato vicino alla Siria, è proprio il rapporto con Damasco a far deteriorare i suoi rapporti con Hariri. L’ex premier viene considerato sempre più distante dal governo siriano, presente con il proprio esercito in Libano dal 1976 con le truppe autorizzate a rimanere dagli accordi di Taif del 1989.

L’attentato provoca 22 morti, tra cui lo stesso Hariri e almeno sue 9 guardie del corpo. Ma soprattutto l’agguato scatena indignazione in seno all’opinione pubblica. Nasce un sentimento profondamente anti siriano, che ben presto manda in piazza migliaia di persone.

L'inizio delle proteste

Sia durante che dopo il funerale di Hariri la capitale Beirut e diverse altre grandi città libanesi sono paralizzate dalle proteste. In centinaia scendono per strada sventolando bandiere del Paese dei Cedri. Per questo la stampa occidentale conia il termine “rivoluzione dei Cedri”. Le manifestazioni non sono legate a una precisa appartenenza etnica o religiosa ma, al contrario, appaiono trasversali. Il filo comune è dato dalla richiesta di allontanamento delle truppe siriane.

Una posizione portata avanti in primis dal Movimento del Futuro, il partito sunnita fondato da Hariri. Ma a questa formazione si aggiungono anche le Falangi cristiano-maronite e i drusi radunati nel Partito Socialista Progressista di Jumblatt. Per loro dietro l’omicidio di Rafiq Hariri c’è proprio la Siria, preoccupata di perdere la propria influenza in Libano.

Al di là degli schieramenti politici, il movimento di protesta che scende in piazza vede la presenza di numerosi giovani. Per loro, a prescindere dall’appartenenza confessionale o partitica, la priorità è rendere Beirut autonoma da Damasco. Non a caso se la stampa occidentale usa il termine rivoluzione dei cedri, nel mondo arabo si parla di “intifada dell’indipendenza”. Le proteste non assumono contorni violenti. Buona parte delle manifestazioni sono pacifiche e non culminano con scontri. Vengono occupate piazze, vie di comunicazione, scuole e università. Il Libano è paralizzato ma, al tempo stesso, non in preda agli spettri della guerra civile.

Le dimissioni del governo di Karami

Le manifestazioni portano il 28 febbraio 2005, a due settimane esatte dall’attentato contro Hariri, alle dimissioni dell’esecutivo. Il governo in quel momento è guidato Omar Karami, sunnita considerato però molto vicino alla Siria. Il presidente Lahoud prende atto del passo indietro, anche in considerazione delle forti pressioni arrivate dalla piazza.

Una volta annunciate le dimissioni, a Beirut si notano scene di festa per strada. Tuttavia la fine del governo di Karami apre la strada anche a un’instabilità istituzionale pericolosa per gli equilibri libanesi interni. I manifestanti inoltre iniziano a chiedere anche un passo indietro del presidente Lahoud. A marzo viene presa la decisione di sciogliere il parlamento e convocare nuove elezioni tra maggio e giugno.

La manifestazione anti siriana del 14 marzo 2005

Nella ricorrenza del primo mese dall’attentato, migliaia di persone si radunano a Beirut sia per ricordare Rafiq Hariri e sia per tornare a chiedere alla Siria un passo indietro dal Libano. Qualche giorno prima il presidente siriano, Bashar Al Assad, dichiara in televisione di essere pronto a ritirare le sue truppe entro pochi mesi. Un’affermazione che arriva anche a seguito di una certa pressione internazionale. Oltre a Francia e Usa, le prime potenze a dar manforte alle richieste dei manifestanti, anche Germania e Russia chiedono ad Assad di richiamare i propri soldati. Particolarmente significativa è la posizione di Mosca, storica stretta alleata della Siria.

I gruppi di protesta in piazza in quel 14 marzo vedono nell’allontanamento dei soldati di Damasco la vera svolta decisiva per il Libano. La prova di forza dei manifestanti, i quali parlano di oltre 50.000 persone in strada nella sola Beirut, orienta la cosiddetta rivoluzione dei Cedri verso una linea sempre più anti siriana.

La nascita dell'Alleanza del 14 marzo

Con lo scioglimento del parlamento e l’indizione di nuove elezioni, le proteste di piazza cambiano anche il quadro politico. In Libano le divisioni partitiche solitamente rispecchiano quelle settarie e confessionali. Dopo l’omicidio Hariri e l’inizio delle proteste, la politica libanese si divide invece in due fazioni trasversali: da un lato la coalizione filo siriana e dall’altro quella invece anti siriana.

Sul primo fronte si trovano i due partiti sciiti di Amal ed Hezbollah, assieme ad altre formazioni minori di orientamento laico. La coalizione viene denominata “Alleanza dell’8 marzo”. Sull’altro fronte invece si assiste a un’alleanza tra il Movimento del Futuro di Hariri, preso in mano dal figlio dell’ex premier assassinato Saad Hariri, i drusi di Jumblatt e i cristiani delle Falangi e delle Forze Libanesi. Assieme danno vita alla cosiddetta “Alleanza del 14 marzo”, in relazione alla data della più grande manifestazione della rivoluzione dei Cedri.

La scarcerazione de Geagea e il ritorno di Aoun

Tra le conseguenze delle proteste anti siriane vi è quella del ritorno di due figure invise a Damasco. In primo luogo si assiste alla riabilitazione politica delle Forze Libanesi, sciolte nel 1994 e da sempre contrarie alla presenza siriana. Il suo leader, Samir Geagea, è in carcere da 11 anni con l’accusa di aver compiuto attacchi anche dopo la fine della guerra civile. Geagea, durante il conflitto, ha rappresentato uno dei leader militari e politici più ostili alla Siria. Durante la rivoluzione dei Cedri in tanti ne chiedono il rilascio. La fine della sua prigionia avviene a luglio.

L’altra figura politicamente riabilitata è quella di Michel Aoun, la cui presidenza nel 1990 termina sotto i colpi di cannone sparati dall’artiglieria siriana verso il palazzo del governo. Da allora vive in esilio in Francia. La piazza ne chiede un rientro. Circostanza che avviene nel mese di maggio. C’è però un colpo di scena: Michel Aoun fonda un nuovo partito, il Movimento Patriottico Libero, il quale si schiera contro la coalizione anti siriana e stringe un’alleanza con Amal ed Hezbollah.

Il ritiro della Siria dal Libano

Intanto da Damasco si danno seguito agli annunci di Assad di marzo. A inizio aprile i primi soldati siriani oltrepassano il confine e rientrano in patria. Nel giro di poche settimane, caserme e basi siriane lasciano il Libano e le infrastrutture vengono consegnate all’esercito locale. Se in un primo tempo si parla di un’ultimazione del ritiro entro l’estate, in realtà l’ultimo gruppo di soldati siriani lascia il Paese dei Cedri il 30 aprile. Quel giorno si chiude un’epoca iniziata nel 1976, anno in cui Damasco decide di intervenire direttamente in Libano nell’ambito della guerra civile.

Le elezioni della primavera del 2005

Affievolite le proteste di piazza grazie all’indizione di nuove consultazioni e al ritiro della Siria, il mese di maggio è contrassegnato dalla campagna elettorale. Le votazioni sono fissate a più tappe tra il 29 maggio e la prima decade di giugno. Il Libano va al voto tra non poche incognite. La sfida principale è tra l’Alleanza anti siriana del 14 marzo e quella filo siriana dell’8 marzo.

I responsi premiano, come prevedibile, la prima coalizione. Gli anti siriani conquistano 69 seggi su 128. All’interno dell’alleanza vincitrice il primo partito è il Movimento del Futuro di Hariri, forte di 36 seggi. Seguono i drusi di Jumblatt con 16 deputati, 6 seggi a testa vanno invece ai cristiani delle Falangi e delle Forze Libanesi. Altri 5 posti parlamentari sono assegnati a formazioni minori interne all’alleanza.

Sull’altro fronte, la coalizione filo siriana si ferma a 35 seggi, 15 dei quali attribuiti ad Amal e 14 ad Hezbollah, più altri deputati di diverse formazioni minori. Il Movimento Patriottico Libero di Aoun conquista invece 15 deputati, tra cui lo stesso rientrante leader. Il 30 giugno, a circa un mese dal voto, l’Alleanza del 14 marzo trova l’accordo per eleggere Fouad Siniora quale nuovo primo ministro.

Il Libano dopo la fine della protesta

La rivoluzione dei Cedri ottiene importanti risultati nell’immediato, con la fine del governo di Karami, l’indizione di nuove elezioni e soprattutto il ritiro siriano. Ma nel lungo periodo, chi nel 2005 scende in piazza è destinato a rimanere deluso. Il Libano non riesce a superare le divisioni settarie, né a rinnovare la sua classe politica. La tanto attesa autonomia dalla Siria non porta a un Paese in grado di reggere da solo il peso delle sue difficoltà. Lo si vede nel 2006, anno della guerra tra Israele ed Hezbollah, così come nei successivi periodi di instabilità politica contrassegnati da mesi senza governi in carica.

A Beirut si torna in piazza nel 2019 per protestare contro la corruzione e condizioni di vita sempre più esasperanti. Il 4 agosto 2020 un’esplosione all’interno del porto della capitale causa più di 200 morti e blocca ancora di più l’economia. Nell’ottobre 2021 il Paese rimane senza carburante e con una scarsa erogazione dell’energia elettrica. Di fatto, lo Stato sembra scivolare verso il fallimento.

Anni dopo la rivoluzione dei Cedri inoltre viene messo in dubbio il coinvolgimento della Siria nell’omicidio di Rafiq Hariri. Nel 2010 il figlio Saad, in un’intervista sul quotidiano Asharq al-Awsat, ammette di non avere prove sulle responsabilità di Damasco e parla di “accuse politiche” alla Siria. Il 18 agosto 2020 il tribunale speciale per il Libano, incaricato di indagare sull’attentato del 14 febbraio 2005, rileva di non avere prove in grado di accusare ufficialmente il governo siriano per l’omicidio di Hariri.

Carneficina in strada a Beirut, cecchini sparano sui manifestanti: 6 morti e 30 feriti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Strage nelle strade di Beirut, capitale del Libano. Spari sulla folla, presumibilmente esplosi da tiratori scelti, scesa in piazza a protestare contro Tarek Bitar, il giudice che si occupa delle indagini sulla devastante esplosione del 4 agosto 2020 nel porto della città, quando morirono oltre 200 persone a causa di un carico di nitrato di ammonio confiscato e depositato nel porto senza misure di sicurezza per sei anni. La manifestazione, per chiedere la rimozione del giudice, era stata organizzata dal movimento paramilitare oltre che partito sciita Hezbollah e dai suoi alleati. La protesta si teneva davanti al Palazzo di Giustizia. Ancora da chiarire con precisione la dinamica degli eventi. Sono morte almeno sei persone e più di trenta sono state ferite dai colpi di arma da fuoco. Per Hezbollah e Amal, i due partiti armati libanesi, “cecchini” hanno cominciato a sparare per primi e hanno denunciato “l’aggressione” da parte di “gruppi armati organizzati”. Sempre secondo le due organizzazioni sciite i cecchini miravano alla testa, erano appostati sui palazzi di fronte alla rotonda di Tayyoune, quartiere di Ayn Remmane. “L’aggressione ha lo scopo di spingere appositamente il Paese verso la sedizione su base religiosa. Un giornalista dell’Associated Press ha detto di aver visto un uomo aprire il fuoco con una pistola e altri uomini sparare da un balcone di un edificio in direzione dei manifestanti. Il quartiere degli scontri è considerato roccaforte dei partiti cristiani maroniti, rivali di Hezbollah e Amal. I due movimenti sciiti accusano Tarek Bitar di prendere di mira soprattutto politici alleati a loro negli interrogatori: e quindi di essere di parte. L’inchiesta va avanti da 14 mesi. Per due volte in un mese il giudice ha sospeso le indagini dopo essere stato denunciato da alcuni ex ministri che aveva convocato perché sospetti di negligenza. Appello alla pace e alla calma da parte del Primo Ministro Najib Mikati (miliardario, secondo Forbes l’uomo più ricco del Paese) che solo un mese fa era riuscito a creare un nuovo governo dopo oltre un anno di vuoto istituzionale. Il nuovo esecutivo dovrà quindi affrontare non solo una crisi economica durissima; una crisi energetica altrettanto grave – quasi un giorno è durato il blackout totale dello scorso fine settimana, anche se è da mesi che la corrente viene centellinata dallo Stato per via della scarsità di carburante; oltre alle conseguenze dell’esplosione e della pandemia da coronavirus. In queste ore i militari sono stati dispiegati nella capitale. L’Orient le jour scrive di grande paura nelle scuole della zona che hanno aperto e che subito hanno dovuto chiudere, perché alcune non hanno aperto viste le previsioni di scontri. I sospetti dei movimenti sciiti vanno verso le Forze Libanesi, movimento cristiano maronita, che ha negato qualsiasi coinvolgimento. Le tensioni nel Paese sono tracciate sulla scorta della guerra civile che per 15 anni ha dilaniato il Paese fino al 1990. Il quotidiano Daily Star ha fatto sapere di essere offline per “circostanze al di fuori del nostro controllo”. “In questo momento è necessario dare prova della massima moderazione, garantire che sia ripristinata la calma e che i cittadini siano protetti”, il tweet di Joanna Wronecka, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano. “La classe politica e i leader politici hanno la responsabilità di ciò che sta succedendo, allo stesso modo hanno la responsabilità di assicurare che le indagini sull’esplosione al porto di Beirut, bloccate da oltre un anno, vadano avanti. I libanesi hanno legittime pretese di ricevere delle risposte”, le parole del portavoce dell’Unione Europea per la politica estera.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il Libano è al buio, senza cibo e medicine. Ma i politici nascondono milioni nei paradisi fiscali. Mentre il Paese affronta una crisi economica devastante, i Pandora Papers rivelano le ricchezze dei membri del nuovo governo. Intanto il costo del paniere alimentare di base di una famiglia è cinque volte il salario minimo nazionale. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 12 ottobre 2021. «Gli uomini le donne e i bambini chiedono giustizia, non accetteremo una volta ancora la vostra impunità». Questa la frase che campeggia su uno striscione di fronte alla porta 3 del Porto di Beirut. A srotolare lo striscione i parenti delle 215 vittime dell’esplosione del 4 agosto del 2020. Si ritrovano qui ogni 4 del mese, da quattordici mesi, a chiedere giustizia. A chiedere che i responsabili vengano indagati, processati e puniti. Che la morte dei loro cari non resti solo una commemorazione destinata a diventare col tempo l’ennesimo esercizio della memoria di un lutto, in un Paese che per decenni è stato attraversato da perdite e conflitti. Ogni mese alle 18.07, nell’ora esatta in cui l’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio ha fatto tremare la città ormai più di un anno fa, i parenti delle vittime accendono le candele di fronte alle immagini delle persone amate che hanno perso. Un bambino di fronte all’immagine di un giovane uomo sorridente chiede: «Dov’è mio padre? Chi lo ha portato via?». Le immagini sono una mappa di età e confessioni. Donne, bambini, uomini, musulmani e cristiani. Musulmane e cristiane sono le donne che pregano insieme, tenendosi la mano in una fede che, per una volta, non ha barriere. Hiyam al-Bikai stringe tra le mani la foto del suo unico figlio, Ahmad Kadaan, è morto a 23 anni, due mesi prima di sposarsi. «Oggi dovrei essere una nonna che visita suo figlio e i suoi nipoti e invece sono una madre che ogni giorno va al cimitero». Hiyam ha trasformato il dolore in battaglia. È la prima a sfidare la polizia durante le manifestazioni, è in prima fila di fronte al tribunale. Era lei a gridare la parola giustizia quando, per la seconda volta l’inchiesta sull’esplosione era stata sospesa. La prima volta era stato il turno del giudice Fadi Sawan, rimosso dall’incarico. Poi è toccato al giudice attuale, Tarek Bitar. Proprio la mattina del 4 ottobre, il giorno della commemorazione mensile, la corte d’Appello di Beirut ha respinto le richieste di rimozione di Bitar presentate dagli ex ministri e funzionari e addetti alla sicurezza indagati dallo stesso Bitar. «Devono pagare per quello che hanno fatto, per tutto quello che hanno fatto, non solo per il porto, ma anche per aver rubato tutti i nostri soldi», dice Rima al-Zahid, il cui fratello era un impiegato portuale ed è morto nell’esplosione. «I documenti che mostrano l’esistenza delle loro società offshore sono la prova che quello che gridiamo da anni è vero: hanno rubato i nostri soldi, li hanno portati via i risparmi di un Paese intero e questa inchiesta ne è la dimostrazione». Il 4 ottobre Beirut si è svegliata con le notizie dei Pandora Papers. I nomi ai vertici delle istituzioni sono tutti lì: l’attuale primo ministro Najib Mikati, il governatore della banca centrale Riad Salameh, l’ex primo ministro Hassan Diab, il potente banchiere Marwan Kheireddine, i loro parenti usati come prestanome. Una lista che ha il sapore della beffa nel Libano che vive non una crisi ma tante emergenze che si sommano, il collasso economico, la gestione di due milioni di sfollati in un Paese di quattro milioni di abitanti, l’instabilità politica, a cui si sono aggiunti gli effetti della pandemia e le tragiche conseguenze economiche dell’esplosione del 2020 che secondo la Banca Mondiale ha provocato dai 4 ai 4,5 miliardi di dollari di danni, in un Paese il cui il 90 per cento delle importazioni arrivava dal porto di Beirut. La pubblicazione dei documenti sulle società offshore di politici, imprenditori e banchieri libanesi avviene durante la peggiore crisi economica mai vissuta dal Libano. Dal 2019, la lira libanese, che la Banca Centrale mantiene al cambio ufficiale di 1.500 per dollaro Usa (entrambe le valute sono utilizzate in Libano), ha perso oltre il 90 per cento del suo valore di mercato, superando i 20.000 per dollaro in luglio, la maggior parte delle persone guadagna e spende nella valuta locale, il cui valore di mercato nero varia ogni giorno, mentre i prezzi del cibo sono aumentati del 400 per cento, nei settori commerciali il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 50 per cento e un milione di persone vive ormai in una condizione di insicurezza alimentare. Secondo la banca Mondiale, quella libanese è la peggiore crisi economica al mondo dalla metà dell’800. Alla fine di settembre il tasso di inflazione annuale è salito al livello più alto di tutti i Paesi monitorati da Bloomberg superando lo Zimbabwe e il Venezuela. L’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 137,8 per cento rispetto a un anno fa. Dopo l’esplosione, l’ex primo ministro Saad Hariri ha provato per diciotto volte a formare un governo, presentando diverse liste dei ministri al presidente Michel Aoun. Tante le liste quante i rifiuti. Poi la rinuncia definitiva di Hariri. Dentro i palazzi si spartiva il potere, fuori dai palazzi ci sono cinque cambi diversi: uno ufficiale con le vecchie riserve di dollari, uno ufficioso con i dollari fresh money che arrivano sui conti bancari libanesi e tre cambi diversi al mercato nero, uno per le medicine, uno per il carburante, uno per gli altri beni di consumo. Dentro i palazzi le liti per le assegnazioni dei ministeri chiave, fuori dai palazzi la fame. Dopo dieci mesi è ora la volta di Najib Mikati, nominato lo scorso dieci settembre. Uomo d’affari, imprenditore delle telecomunicazioni, uno degli uomini più ricchi del Libano, secondo Forbes ha dalla sua un patrimonio di quasi tre miliardi di dollari. Nel 2019, mentre in strada scoppiavano le proteste, è stato accusato di corruzione per aver tratto profitto illegalmente da prestiti immobiliari destinati a famiglie a basso reddito. Il caso, non sorprende, fu insabbiato. Mikati viene da Tripoli, la città più povera del Paese, e anche questo dato è lo specchio delle contraddizioni libanesi, è già stato due volte primo ministro, l’ultima da giugno 2011 a maggio 2013. Fa parte di quella categoria di politici accusata dai manifestanti di essere la causa della rovina del Paese. E i Pandora Papers lo dimostrano, rivelando che ha ricchezze nascoste in paradisi fiscali offshore, in un momento in cui la gente comune libanese non può accedere ai propri risparmi bancari. Eppure un governo era necessario, perché al governo sono vincolati gli aiuti esteri. Senza un governo in funzione non arrivano i soldi e il Libano ha un debito di 90 miliardi di dollari. Il Libano ha chiesto aiuto al Fondo monetario internazionale, agli Stati Uniti e alla Francia ma gli aiuti sono condizionati all’adozione di misure di trasparenza e a un governo efficiente. Difficile che lo sia quello di Mikati. Più facile che rappresenti una momentanea cosmesi, che continui a garantire il vecchio sistema di potere per condurre il Paese alle elezioni del prossimo maggio, ammesso che non vengano rinviate. Ma la grande domanda che i cittadini si fanno è: come possono coloro che hanno causato i problemi, che hanno sottratto risparmi ai cittadini, che hanno distrutto il valore della moneta e messo in ginocchio l’economia, proporsi come la soluzione? Il racconto della crisi libanese è un racconto di disuguaglianze. Il racconto di una città che sono due. Quella dell’opulenza, e quella della gente comune, che non ha elettricità e mangia una volta al giorno. È in quartieri come Bourj Hammoud e Nabaa che la distanza tra questi due mondi è radicale. Nabaa è un quartiere popoloso nella parte orientale di Beirut, è un quartiere misto, ha una storia di convivenza e accoglienza di rifugiati nei momenti di bisogno, ci vivono armeni, palestinesi, iracheni e siriani fuggiti dalla guerra. Decine i negozi che hanno chiuso, botteghe, negozi alimentari. Panetterie. Quella di Abu Ali resiste «ma ancora per poco», dice l’uomo, 63 anni, prima di infornare il pane. Prepara i man’touch con lo zaatar, il tradizionale pane con un misto di erbe e spezie. L’odore invade il piccolo spaccio. Ad aspettare i man’touch un gruppo di bambini che contano le lire, ma non ne hanno abbastanza: «È così ogni giorno, abbiamo smesso di comprare carne e verdura, presto la gente smetterà anche di comprare il pane». Molte panetterie hanno chiuso a Nabaa perché i negozianti non possono permettersi il diesel per alimentare i generatori di corrente privati e le interruzioni di elettricità, in quartieri come questo, possono arrivare a 21 ore al giorno. Quelli che rimangono aperti provano a sopravvivere. Per decenni, il Libano ha fatto affidamento sulle importazioni di beni essenziali come il carburante, le medicine e il cibo, beni che fino allo scorso luglio beneficiavano di sussidi. Per affrontare la carenza di dollari tre mesi fa il governo ha ridotto i sussidi per alcuni beni, e il costo di prodotti di base come riso e fagioli è più che raddoppiato. Secondo un rapporto dello scorso luglio dell’Osservatorio di crisi del Libano presso l’Università americana di Beirut (AuB) il costo del paniere alimentare di base di una famiglia era cinque volte il salario minimo nazionale, che ammonta a 675.000 lire libanesi al mese, che prima valevano 450 dollari al cambio ufficiale e oggi valgono 45 dollari al mercato nero. Sulla stessa via della panetteria di Abu Ali, Alexander, 50 anni, vende prodotti per l’igiene personale. Almeno, li vendeva prima della crisi. Oggi nel suo negozio non entra più nessuno: «Mangiare si deve mangiare per forza, se c’è una cosa che facilmente si può sacrificare sono i detersivi e la carta igienica». Gli scaffali della sua bottega sono pieni e impolverati e raccontano la fluida realtà di un Paese in cui fino a pochi mesi fa, finché c’erano i sussidi, gli scaffali erano vuoti. Oggi che i sussidi non ci sono più e il valore della lira continua a precipitare, gli scaffali sono pieni perché nessuno può più permettersi nemmeno uno shampoo. Alexander ha due figli e spera, come molti padri, che riescano a lasciare il Paese. Anche loro, come altre seimila persone al giorno, hanno chiesto il passaporto agli uffici della Sicurezza generale. Erano in piazza anche loro due anni fa: «La rivoluzione del 17 ottobre la chiamavano». Usa l’imperfetto, Alexander, perché di quella rabbia, di quella richiesta di giustizia sociale, oggi, resta solo la voglia di scappare. Il 70 per cento dei giovani libanesi vuole lasciare il Paese. Quelli che riusciranno si andranno ad aggiungere ai milioni delle diaspore precedenti, quella della guerra civile conclusasi nel 1990 e quello della guerra con Israele del 2006, diaspore che hanno portato la popolazione libanese fuori dal Paese a essere tre volte superiore a quella interna: quindici milioni. «Magari dall’estero manderanno un po’ di soldi e medicine», dice Alexander, che ha ancora tremila dollari di risparmi in banca, ma può prelevarli solo in lire e il loro valore è precipitato. Gli servono per comprare le medicine a suo padre che soffre di ipertensione, ma nemmeno quelle si trovano più. Nelle farmacie, mancano medicinali generici come il paracetamolo e i pochi che ci sono vengono venduti in pillole e non a scatole. «Quando sono esauriti nelle farmacie, puoi stare sicuro di trovarle al mercato nero», dice Alexander che ha pagato una scatola di medicine per suo padre a 50 dollari, il corrispettivo di uno stipendio medio locale. Nemmeno gli ospedali funzionano a pieno regime da mesi lavorano al 50 per cento della capacità, secondo l’Oms il 40 per cento dei medici e il 30 per cento degli infermieri hanno lasciato il Paese in modo permanente o temporaneo. È al buio anche il suo negozio, non c’è elettricità ed è inutile comprare carburante e far funzionare il generatore in un negozio in cui non entra più nessuno. Bussano solo le madri che hanno bisogno di pannolini e assorbenti. Costano venti volte più dell’anno scorso. E Alexander regala sia i pannolini che gli assorbenti: «Un giorno Dio se ne ricorderà. Ma non farti ingannare da quartieri come questo, Beirut è sempre doppia, da una parte la gente che ha bisogno di tutto, dall’altra la gente che può ancora permettersi tutto», dice, prima di abbassare la serranda e andare a casa. Lungo le curve che portano a Rouche con i suoi hotel di lusso e i ristoranti sul mare le luci sono tutte accese, nelle abitazioni lungo la corniche l’elettricità non manca, le famiglie passeggiano e i giovani della Beirut privilegiata, scendono dai loro Suv per entrare nelle discoteche e nei locali intorno all’hotel Phoenicia. Roukoz Alam, che gestisce un ristorante lungo la costa, dice che gli affari non sono andati mai tanto bene come la scorsa estate: «Qui da noi i prezzi erano stracciati per la crisi, non ho mai visto tanti turisti come quest’anno, libanesi che tornavano dall’estero soprattutto». I locali come il suo, come gli hotel lungo la costa, accettano solo pagamenti in dollari, il costo di una stanza per notte equivale a due stipendi mensili di un cittadino libanese. Lontano dal lungomare, i quartieri che fino a un anno fa brulicavano di giovani sono spenti. È spenta la zona intorno a piazza dei Martiri, è spenta Hamra. È la crisi intermittente di Beirut. Da una parte la luce, accesa, dei pochi a cui la vita non è cambiata, delle società offshore, dall’altra le finestre buie, la luce spenta, del novanta per cento della popolazione che non riesce a mettere insieme il pranzo e la cena.

·        Quei razzisti come gli iraniani.

L'Iran dà il via all'era Raisi: attaccate 4 petroliere in Oman. Chiara Clausi il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Il neopresidente si insedia ufficialmente e si presenta. Le priorità: stop alle sanzioni Usa e lotta all'inflazione. L'ultraconservatore Ebrahim Raisi è stato confermato ufficialmente come nuovo presidente della Repubblica islamica iraniana dalla Guida suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei. Ieri alla cerimonia, allo spazio Hoseiniye Imam Khomeini nel centro di Teheran, hanno partecipato i principali leader politici e militari del Paese. «Seguendo la scelta del popolo, incarico il saggio, infaticabile, esperto e popolare Ebrahim Raisi come presidente della Repubblica islamica dell'Iran», ha scritto Khamenei in un decreto letto dal suo capo di gabinetto. Raisi, che fino a poco tempo fa era a capo della magistratura, ha vinto le elezioni presidenziali lo scorso giugno con quasi il 62 per cento dei voti. La consultazione è stata segnata però dalla più bassa affluenza alle urne dal 1979, l'anno della Rivoluzione. Raisi nel suo discorso inaugurale ha toccato i temi più scottanti che il Paese dovrà affrontare. «Lavoreremo per arrivare alla revoca delle sanzioni americane, ingiuste e oppressive, ma la vita degli iraniani non sarà legata alla volontà degli stranieri», ha assicurato. Sul tavolo infatti c'è prima di tutto il dossier nucleare, e poi lo scontro con Israele nella cosiddetta «guerra delle petroliere», inasprita dopo l'attacco con un drone suicida a una nave gestita da un miliardario israeliano, al largo dall'Oman di cui lo Stato ebraico ritiene responsabile Teheran. Un incidente che preoccupa pure Stati Uniti e Gran Bretagna. E ieri altre quattro navi hanno perso il controllo in questo stesso pezzo di mare. L'equipaggio della Asphalt Princess è stato preso in ostaggio da uomini armati, al largo di Fujairah, e la Golden Brilliant, battente bandiera di Singapore, avrebbe colpito una mina. L'Iran è di nuovo sotto accusa, e Israele ha chiesto il sostegno degli alleati. Ora si rischia anche un altro incidente, ma questa volta diplomatico. Enrique Mora, il massimo rappresentante dell'Ue ai colloqui di Vienna, dovrebbe partecipare all'inaugurazione di Raisi giovedì. Una mossa fortemente criticata da Israele. Oltre ai problemi sullo scacchiere internazionale esistono però anche quelli di politica interna. «La gente ha chiesto un governo che colmi il divario tra la gente e il governo», ha precisato Raisi, che si è impegnato anche a combattere la corruzione. Il suo discorso si è inevitabilmente concentrato sull'economia del paese, che ha un tasso di inflazione alle stelle di oltre il 40 per cento, un'elevata disoccupazione e un enorme deficit di bilancio. Il neopresidente ha detto che ha già pronti i piani per risolvere queste grane. Aveva promesso di tagliare l'inflazione, costruire quattro milioni di case in quattro anni e creare un milione di posti di lavoro all'anno. Come se non bastasse obiettivo di Raisi e del suo entourage è rinforzare i legami con la Cina e la Russia e ridimensionare quelli con l'Occidente. Ma ci sono anche altri nodi sul fronte interno: oltre alla pandemia, le proteste per la mancanza d'acqua partite dal sud ovest ricco di petrolio e poi dilagate in altre zone del Paese, anche a Teheran. Nel frattempo le trattative per il ripristino dell'accordo sul nucleare sembrano in una fase di stallo. Il sesto round di colloqui si è tenuto il 20 giugno, due giorni dopo l'elezione di Raisi alla presidenza. Ma non è stato ancora annunciato quando riprenderà il prossimo. Con l'uscita di scena del pragmatico Hassan Rohani l'Iran perderà purtroppo una importante spinta alla moderazione in questi negoziati cruciali per il futuro del paese. Chiara Clausi

Il 48% al voto, il capo della magistratura al potere. In Iran vince Raisi ma trionfa l’astensione, l’attacco di Israele: “Presidente-macellaio più estremista di sempre”. Redazione su Il Riformista il 19 Giugno 2021. Con una affluenza al volto inferiore al 50%, il conservatore Ebrahim Raisi, capo della magistratura, e favorito del leader della Rivoluzione islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, è stato eletto presidente dell’Iran con il 61,95% dei voti. La vittoria era data per certa e già in mattinata, prima dell’ufficialità dei risultati, i rivali si sono congratulati con Raisi. Il magistrato ha promesso che il nuovo governo farà ogni sforzo per risolvere i problemi del Paese e in particolare i problemi del popolo. E ha detto che si consulterà con il presidente del Parlamento iraniano e altri esponenti politici, “per formare un governo che possa mantenere la fiducia della gente”. Sebbene l’Ayatollah Khamenei abbia parlato di vittoria del popolo contro la propaganda dei media occidentali, i dati hanno mostrato la bassa partecipazione dell’elettorato. L’affluenza è stata del 48,8%, il dato più basso della Repubblica islamica. L’elezione ha scatenato la reazione di Israele. “Dopo che il Leader Supremo ha effettivamente dettato al pubblico iraniano chi poteva scegliere, meno del 50% dei cittadini iraniani aventi diritto al voto ha eletto il suo presidente più estremista fino ad oggi”, twitta il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Lior Haiat. Raisi è stato definito come “il macellaio di Teheran denunciato dalla Comunità internazionale per il suo ruolo diretto nelle esecuzioni extra giudiziali di oltre 30mila persone”. “Il nuovo presidente dell’Iran, è un estremista responsabile della morte di migliaia di iraniani”, ha aggiunto il ministro degli Esteri Yair Lapid, leader del partito politico Yesh Atid, “La sua elezione dovrebbe provocare una rinnovata determinazione a fermare immediatamente il programma nucleare iraniano e porre fine alle sue distruttive ambizioni regionali”. L’ufficialità della vittoria di Raisi è arrivata a metà mattinata. Il ministero dell’Interno ha annunciato che il conservatore ha incassato 17.926.345 di voti contro i 3.412.712 dell’ex comandante dei Pasdaran, Mohsen Rezaei, i 2.427.201 del riformista ex capo della Banca centrale Abdolnasser Hemmati, e i 999.718 di Amirhossein Ghazizadeh Hashemi. Hemmati è stato tra i primi a congratularsi con Raisi: “Spero che la sua amministrazione fornisca motivi di orgoglio per la Repubblica islamica dell’Iran, migliori l’economia e la vita per la grande nazione iraniana”, ha scritto su Instagram. L’elezione di Raisi “promette l’istituzione di un governo forte e popolare per risolvere i problemi del Paese”, ha scritto Rezaei su Twitter. A congratularsi con il nuovo leader è stato anche il presidente russo Vladimir Putin che ha espresso la speranza di un “ulteriore sviluppo di una cooperazione bilaterale costruttiva”. Il voto si è concluso alle 2 di notte di sabato, dopo che il governo ha esteso l’orario di apertura dei seggi per smaltire l'”affollamento”. La televisione di Stato ha cercato di minimizzare sul dato della bassa affluenza e ha trasmesso scene di seggi stracolmi in diverse province, cercando di mostrare una corsa alle urne dell’ultimo minuto. Da quando la rivoluzione del 1979 ha rovesciato lo Scià, la teocrazia iraniana ha citato l’affluenza alle urne come segno della sua legittimità, a cominciare dal primo referendum (che ottenne il 98,2% dei consensi) per chiedere sei i cittadini volessero o meno una Repubblica islamica. L’elezione arriva mentre il Paese è afflitto non solo dalla pandemia di Covid-19, ma anche da una pesante crisi economica causata dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti durante l’era dell’ex presidente Usa Donald Trump, che si è ritirato unilateralmente dal Jcpoa. I rapporti tra Teheran e Washington restano tesi, così come quelli con Israele. Anche Tel Aviv ha visto un cambio dell’esecutivo con l’estromissione di Benjamin Netanyahu dalla guida del Paese dopo 12 anni. Resta da vedere come e se l’avvento dei nuovi leader, compreso l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, cambierà gli equilibri nella regione mediorientale.

Giordano Stabile per “La Stampa” il 20 giugno 2021. Sarà il primo presidente iraniano a entrare in carica con già sulle spalle sanzioni americane per «crimini contro l'umanità». E un'enorme macchia nera nel passato, le esecuzioni di massa del 1998, ordinate dall' ayatollah Khomeini alla fine della guerra con l'Iraq ed eseguite dal «quartetto della morte». Ebrahim Raisi era uno dei quattro giudici implacabili che mandarono al patibolo almeno 2500 oppositori. Di lì è cominciata però anche la sua scalata ai massimi vertici, fino alla presidenza della Repubblica, conquistata venerdì con il 61,95 per cento dei voti, quasi 18 milioni di preferenze. Un successo schiacciante rispetto agli tre candidati, che assieme hanno raccolto poco più di cinque milioni di schede. Raisi, sessant' anni, ce l'ha fatta al secondo tentativo, dopo la bruciante sconfitta contro Hassan Rohani, nel 2017, quando prese soltanto il 38,3 per cento. In quattro anni tutto è cambiato. Dopo il fallimento delle riforme economiche e degli accordi sul nucleare nel secondo mandato di Rohani, gli oltranzisti hanno preso le redini del potere, compatti dietro la guida suprema Ali Khamenei. I riformisti, eredi di Hashemi Rafsanjani e Khatami, sono stati emarginati. A 43 anni dalla rivoluzione, e a 33 dalla morte di Khomeini, la Repubblica islamica entra in una nuova fase. La personalità di Khomeini aveva creato un bilanciamento fra oltranzisti e progressisti, ma il lunghissimo regno di Khamenei ha finito per distruggerlo. Si marcia verso il "partito unico dei Pasdaran" e non a caso i manifesti che invitavano ad andare al seggio portavano l'immagine della mano mozzata e sanguinante del generale Qassem Soleimani, ucciso dagli americani il 3 gennaio 2019: «Fatelo per lui». All' interno di una repubblica islamica militante, Raisi si incornicia alla perfezione. Nato a Mashhad, uno dei principali centri religiosi, in una famiglia di chierici, ha frequentato i seminari di Qom da quando aveva quindici anni. Poi ha sposato Jamileh Alamolhoda, figlia di Ahmad, grande imam del santuario Reza di Mashhad. Un matrimonio destinato a far decollare la sua carriera e a rafforzare le sue credenziali, in quanto secondo gli oppositori non ha mai raggiunto il grado di ayatollah. Poco importa, l'appoggio di Khamenei gli ha spianato tutte le strade, non esclusa quella della successione in futuro alla Guida suprema. Una ricompensa anche per il lavoro sporco nell' ultima fase dell'era Khomeini, quando il Paese era esangue dopo otto anni di conflitto con Saddam Hussein e l'imam malato cercava in tutti i modi di salvare la "rivoluzione". Nel luglio del 1988 arriva l'infausto ordine di giustiziare i prigionieri politici, in gran parte Mujaheddin del popolo. Raisi è allora viceprocuratore di Teheran e opera assieme al procuratore Morteza Eshraqi e il capo dell'Intelligence nella famigerata prigione di Evin. Migliaia di detenuti vengono interrogati, torturati e portati al patibolo, comprese centinaia di donne. Per questi fatti Raisi è sotto sanzioni americane. Per questo il ministro degli Esteri israeliano Lapid ieri ha commentato: «È un macellaio estremista». Le esecuzioni sono un'ombra nera che si trascina da oltre tre decenni ma sul fronte interno il nuovo leader iraniano può contare anche su molti sostenitori, in parte ex fan di Mahmoud Ahmadinejad. Le sue promesse di lotta senza pietà alla «corruzione» e alle «ingiustizie sociali» attirano il mondo del bazar, soffocato dall' inflazione e dalla burocrazia. La sua prima uscita pubblica, un incontro con il presidente uscente Rohani, è stata nel segno della moderazione: «Spero che possiamo attuare nel miglior modo possibile la pesante responsabilità messa sulle nostre spalle», ha dichiarato con un'aura di umiltà. Ha davanti una montagna da scalare per conquistare la fiducia dei suoi cittadini e del mondo. 

Kepel: «Poco carisma, è un vincitore che rivela la debolezza del regime». Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 20 giugno 2021. «L'elezione di Ebrahim Raisi a fronte di una bassa partecipazione al voto, probabilmente molto minore di quanto annunciato ufficialmente, è rivelatrice della grande debolezza del regime iraniano. In passato gli Ayatollah cercavano di mantenere una qualche forma di modus vivendi pacifico con la società civile, permettendo la nomina di un presidente moderato e riformista. Ma oggi sentono più che mai cedere il terreno sotto i piedi, sono isolati, hanno bisogno di fare quadrato». A pochi giorni dalla pubblicazione in Italia del suo nuovo libro, «Il ritorno del Profeta. Perché il destino dell'Occidente si decide in Medio Oriente», Gilles Kepel analizza le elezioni in Iran e gli ultimi sviluppi internazionali. 

Ma la nomina di un presidente falco non rischia di riaccendere gli scontri di piazza in Iran?

«Diventa molto più possibile. Raisi non ha nulla di carismatico, nessuno dimentica le sue responsabilità nell' esecuzione di migliaia di oppositori politici, non sarà capace di fare digerire agli iraniani i sacrifici imposti dal radicalismo ideologico degli Ayatollah. D' altro canto, il regime non può rischiare, non può più permettere divisioni interne. Sul tavolo ci sono i negoziati sul nucleare con l'America di Joe Biden. Ma oggi Teheran è a mal partito. L' Iraq sta fuggendo fuori controllo per la prima volta dal 2003. In Siria i russi esigono una rinascita economica, che necessita di aprire all' Europa a scapito della presenza iraniana. Il disastro libanese è colpa degli sciiti di Hezbollah, protetti da Teheran. Persino il rapporto con Hamas appare incrinato. Sei anni fa noi europei cercavamo la collaborazione con l'Iran per battere Isis. Ora non serve più». 

Un giudizio sull' ultimo vertice Nato?

«Biden ha un bel insistere sulla minaccia cinese, però per noi europei i problemi maggiori continuano a venire dal mondo islamico».

I più pressanti?

«Gli stessi degli ultimi anni. Prima di tutto, quelli dei migranti illegali, che fanno da corollario al problema jihadista: resta grave ed è destinato a farsi presto ancora più esplosivo. Il permanere dei prezzi bassi del petrolio, la crisi economica tunisina, algerina, libica, egiziana, la destabilizzazione del Sahel, sono tutti fattori che incrementeranno i flussi delle partenze dal Mediterraneo meridionale verso le nostre coste. Mi attendo in particolare un maggior numero di barconi dalla Tunisia. Rischiamo di litigare tra di noi partner Ue. E ciò, se non viene regolato presto, porterà alla crescita del peso politico delle destre e dai partiti xenofobi».

Conseguenze?

«Gli estremisti islamici e le organizzazioni caritative dei Fratelli Musulmani approfitteranno della generosità ingenua delle sinistre europee e dei movimenti di accoglienza cattolici per accrescere la loro presenza nelle nostre società. 

Già al vertice Ue di Ajaccio l'anno scorso avevano prevalso gli interessi particolari. I partiti al governo in Germania temono l'influenza di Erdogan sull' elettorato d' origine turca. L' Italia non intende litigare con Putin per salvaguardare l'arrivo del gas e gli scambi economici. Ognuno pensa per sé e perdiamo tutti». 

C' è però un atlantismo di ritorno che aiuta a cementare le relazioni con gli Usa.

«Certamente, con Biden si ricompatta la Nato. Ma adesso gli interessi europei rischiano di diventare ancillari rispetto a quelli americani. Washington sottolinea la minaccia cinese e insiste sul contenimento di Putin. Non capisce la centralità del Mediterraneo per noi. È sufficiente analizzare come Biden si sia ritrovato spiazzato di fronte alla recente crisi di Gaza per vedere quanto per lui il Medio Oriente sia uno scenario secondario, come del resto lo era per Obama e Trump». 

Può spiegare?

«Gli Stati Uniti non erano pronti per mediare tra Israele e Hamas. Tanto che Biden ha dovuto telefonare in fretta e furia ad Al Sisi ed Erdogan, due dittatori con cui non voleva avere a che fare, se non per denunciare le violazioni dei diritti umani. Ma alla fine sono stati loro a garantire il cessate il fuoco». 

Nel suo libro non c' è capitolo che non menzioni quanto sia pericolosa la politica di Erdogan per l'Europa.

«Erdogan si proietta come Mehmet II, il Sultano della conquista di Costantinopoli nel 1453. Lo si è visto benissimo a Istanbul nella scelta della restaurazione a moschea di Santa Sofia il 24 luglio 2020. Una mossa simbolica: Erdogan diventa una sorta di Ataturk nazionalista e però religioso, un Sultano allo stesso tempo del suo popolo e di tutto l'Islam, che mira a ricostruire l'antica potenza imperiale, sino alle porte di Vienna». 

Il 23 luglio a Berlino si tiene una nuova conferenza sulla Libia. Cosa cambia?

«Per fortuna Italia e Francia abbandonano le vecchie lotte suicide e decidono di agire assieme. Sino a poco fa proprio Turchia e Russia avevano approfittato del nostro braccio di ferro per dividersi il Paese. Berlino potrebbe diventare il simbolo di una nuova politica europea comunitaria. Dobbiamo sperarlo. La cooperazione italo-francese potrebbe garantire una Libia unita sotto la guida del nuovo premier Abdul Hamid, Abdul Hamid Dabaiba».

Anna Guaita per “il Messaggero” il 20 giugno 2021. L'accordo sul nucleare si farà, e presto, ma non bisogna sperare in altro, con il nuovo presidente iraniano. Il Messaggero parla a Aaron David Miller sul risultato delle presidenziali in Iran. Miller è stato consigliere delle Amministrazioni Usa sul Medio Oriente per 25 anni. E' stato al fianco di sei segretari di Stato, sia democratici che repubblicani, e di recente è diventato vicepresidente del think tank Woodrow Wilson International Center for Scholars. 

Che significato ha la vittoria di Ebrahim Raisi in politica estera?

«Stiamo assistendo a una concentrazione del potere non solo nelle mani del leader supremo, ma in quelle di una forza militare in crescita veloce e dell'intelligence. Questa concentrazione fa sì che un nuovo presidente non avrà una ricaduta sensibile sulla politica estera». 

La traiettoria non cambia?

«La protezione del regime rimane la principale filosofia della politica di Teheran. Vedremo che la repressione del dissenso aumenterà, e il dissenso chiaramente esiste come ci prova l'affluenza alle urne così bassa. In politica estera vedremo che l'Iran continuerà a gettare la sua ombra sull' area, dal Libano all' Iraq alla Siria». 

E cosa succede della riconferma dell'accordo sul nucleare che è in fase di negoziato a Vienna?

«Sono persuaso che il rientro nell' accordo avverrà nelle prossime settimane. Ma questa nozione che qualcuno ha nel mondo diplomatico che dopo la riconferma del Joint Comprehensive Plan of Action, l'Iran sarà più mite e amichevole nei confronti degli Stati Uniti è del tutto infondata».

Non pensa che ci sarà un ulteriore negoziato, per un accordo più duraturo e più forte come spera Biden?

«Un negoziato può avvenire, possono sedersi a un tavolo, ma se speriamo in ulteriori concessioni dobbiamo essere pronti a farne anche noi. Ci chiederanno di sicuro qualcosa in cambio. Magari di tornare a commerciare direttamente con noi, di cancellare l'embargo commerciale, qualcosa di politicamente impossibile. Ma non c' è da illudersi su ipotetici futuri negoziati. Gli iraniani vogliono solo ritornare all' accordo sul nucleare perché così verranno cancellate le sanzioni che strangolano la loro economia».

Come vede il futuro fra l'Iran e il mondo occidentale?

«Guardi, è vero che l'accordo sul nucleare è lungi dall' essere perfetto. È vero che anche quando sarà rifirmato, qui negli Usa nessuno stapperà lo champagne. È vero che i repubblicani lo odiano e anche molti democratici non lo amano. Ma non possiamo non ammettere che è il meglio che si può ottenere ora, se non vogliamo che fra due anni Teheran abbia la prima bomba nucleare. Stiamo guadagnando tempo. Non è la soluzione ideale, ma per ora noi in Occidente dobbiamo accontentarci. Senza questo accordo, non avremmo nessun modo per impedire che l'Iran costruisca armi nucleari». 

Intanto cosa ci si aspetta in questo tempo così guadagnato, che quel 52% che si è astenuto, riesca a organizzare un'opposizione?

«Non c' è un'opposizione organizzata adesso in Iran. Certo, ci sono state proteste e manifestazioni. Ma io penso che avremo un Iran autoritario ancora per un lungo tempo. Ma sempre più disposto ad aprire l'economia». 

Cioè un Iran sul modello cinese?

«Sì, esatto. Tutti questi poteri autoritari, dalla Cina a Cuba alla Russia hanno dimostrato disponibilità ad aprire l'economia al mondo, pur mentre all' interno seguono una politica repressiva». 

Non crede nella possibilità di una rivoluzione? Dopotutto ne hanno già fatta una!

«Ma anche tutte le rivoluzioni della primavera araba, le rivoluzioni dal basso, sono finite con regimi autoritari con l'eccezione della Tunisia. I poteri autoritari durano a lungo, si aggiustano, si adattano, adesso in Iran i poteri forti sono più uniti che mai».

Lei è molto pessimista.

«E' la realtà. E tuttavia penso che se Rouahni avesse potuto ripresentarsi, chissà... Se non ci fosse stata l'interferenza del leader supremo e delle Guardie della Rivoluzione, forse l'uomo che aveva impersonato le speranze e le aspirazioni di milioni di iraniani sarebbe stato rieletto. Invece abbiamo un autoritario, che sbloccherà l'accordo sul nucleare e quindi le sanzioni, e così farà credere che solo gli autoritari possono avere successo. E in parte dobbiamo ringraziarne Trump, la sua uscita dall' accordo e l'imposizione di sanzioni che hanno prostrato il Paese, senza ottenere nulla in cambio».

Fiamma Nirenstein per “il Giornale” il 12 aprile 2021. Un «incidente» a Natanz, centrale nucleare iraniana, sempre in primo piano, già investita nel luglio scorso da una misteriosa esplosione, ha fermato proprio il giorno dopo l'inaugurazione le nuove, bellissime, centrifughe di ultima generazione, proibite dall'accordo Jcpoa stretto nel 2015. Sabato scorso il presidente Rouhani aveva annunciato che l'Iran aveva iniziato a iniettare l'uranio in forma di gas hexafluoride nelle centrifughe di Natanz IR-6 e IR-5. Una tecnica molto avanzata e veloce, fuori delle norme, usando la quale (oltre forse ad altri sistemi) «in meno di quattro mesi» come aveva annunciato Behrouz Kamalvandi, il portavoce della AEOI l'Organizzazione Atomica Iraniana, qualche giorno prima, «abbiamo prodotto 55 chili di uranio arricchito al 20 per cento, e in meno di otto mesi possiamo raggiungere i 120 chili». Passi evidenti sulla strada della bomba atomica nonostante una beffarda assicurazione che si tratta di strutture civili, minacce palesi proprio mentre il presidente Hassan Rouhani di ritorno dagli Usa, riferendosi al summit di Vienna si era vantato che «tutte le parti del patto nucleare hanno concluso che non c'è nessuna conclusione migliore del Jcpoa e che non c'è nessuna altra strada che la sua totale realizzazione». Una sfida, per altro in questi giorni riportata dai mallevadori europei (per ora Iran e Usa non si incontrano direttamente) ai due maggiori interlocutori, che risulta evidente: per noi, dice l'Iran, il blocco immediato delle sanzioni, anche di quelle non legate all'arricchimento atomico (per esempio quelle sui diritti umani, o sull'assalto balistico al Medio Oriente) per voi la ripresa del patto da cui Trump ha ritirato gli Usa nel 2018. Un patto che non ha mai garantito che l'Iran rinunciasse ai suoi fini atomici e bellici, oltre a restare inchiodata alla sua totale violazione dei diritti umani. La centrale ha subito «un'interruzione dell'elettricità»: qui non si tratta di impianti che si fermano tagliando un filo o toccando un interruttore. Il blocco è complesso, e arresta processi superveloci e protetti, il cui «stop» comporta un danno consistente e perdurante nel tempo. È dunque una delle tante imprese che si sospettano compiute dalla mano del Mossad (ieri il canale 13 della TV israeliana ha parlato di una fonte occidentale attendibile) nel cuore del regime degli Ayatollah e fra i ranghi delle Guardie della Rivoluzione. La lista è infinita e impressionante; l'eliminazione del capo del sistema atomico Fahrizadeh; l'asporto degli archivi atomici per cui l'Iran seguitava a costruire la bomba dopo l'accordo; attacchi alle centrali; scontri navali fra cui l'attacco nel Mar Rosso di un cargo «Saviz», una piattaforma logistica di supporto delle Guardie della Rivoluzione per le guerre mediorentali; innumerevoli operazioni dal cielo, nelle acque, per bloccare il rifornimento e la costruzione iraniani di armi ai suoi «proxy» in Siria, Hezbollah, libanesi e iracheni e a Hamas. Ieri pomeriggio è giunto in Israele il segretario alla difesa americano Lloyd Austin, un amichevole e severo gigante. Devono essere state dette parole significative: l'attacco a Natanz segnala parecchie cose per l'agenda americana. Per esempio, che pare che Israele abbia una struttura di intervento a Teheran molto robusta, e non consentirà di distruggerla al Paese che ha giurato con intento ideologico profondo e sincero. L'Iran, gli Usa lo sanno, tesse le sue tele anche con la Cina e gli Stati dell'Asia Centrale. Zarif si è appena fatto un bel giro da quelle parti. Anche gli Ayatollah, che hanno definito «un attacco terroristico» quello di Natanz, lanciano le loro minacce agli Usa di Biden. Tempi di scelte difficili.

Iran: l'intelligence israeliana manda in tilt il sito di Natanz. Piccole Note il 12 aprile 2021 su Il Giornale. L’intelligence israeliana ha messo a segno un attacco all’impianto nucleare di Natanz, nel cuore dell’Iran. Non ha rivendicato ufficialmente, come al solito, ma i media israeliani e internazionali non nutrono dubbi in proposito. A essere colpite sono state le centrifughe usate per arricchire l’uranio, con grave rischio di una fuoriuscita di materiale radioattivo, per fortuna evitata. Teheran, a differenza di quanto avvenuto per l’attacco a una sua petroliera avvenuto nei giorni scorsi, non può derubricare la cosa a questione secondaria. Non può esimersi, cioè, dal denunciare ad alta voce l’attacco, dato l’obiettivo sensibile e il disastro che poteva procurare: una fuga radioattiva, peraltro, avrebbe inevitabilmente provocato una risposta militare. La guerra segreta che si sta consumando in Medio oriente sta prendendo pieghe sempre più rischiose, né si vede come possa essere frenata. I media israeliani non possono non elogiare il grande successo militare della loro intelligence, che avrebbe conseguito il risultato di ritardare di nove mesi lo sviluppo della bomba atomica iraniana. Ma il vero obiettivo dell’attacco, al solito, non è tanto il nucleare iraniano, ma i cruciali colloqui su questo tema avviati la scorsa settimana a Vienna, dove Iran e Stati Uniti hanno fatto i primi passi per ripristinare l’accordo sull’atomica iraniana. Colloqui indiretti, cioè mediati dall’Europa, ma che avevano dato frutti, come da ammissione di entrambe le parti. L’attacco a Natanz, in questo senso, è esploso come una bomba sotto il tavolo dei negoziati, che riprenderanno a breve. Lo scrive il New York Times che, nel riferire l’accaduto, spiega che i colloqui di Vienna non sono affatto facili, e dopo l’attacco “potrebbero essere diventati ancora più difficili”. Per tre motivi. Anzitutto perché alimentando le tensioni tra Tel Aviv e Teheran si allargano anche le distanze tra quest’ultima e Washington, stretta alleata di Israele. In secondo luogo perché rende più fragile l’ala moderata degli iraniani, quella interessata a negoziare, incalzata dai duri e puri che ritengono del tutto inutile trattare con una controparte sulla quale non si può fare alcun affidamento. Il terzo motivo è che l’Iran, dopo l’uscita di Washington dal trattato, aveva iniziato ad arricchire uranio per far pressione sull’America, per costringerla al dialogo. Tale arricchimento, cioè, più che una questione militare ha uno scopo politico: è una leva per costringere Washington a trattare (peraltro, usata anche da Washington per spiegare ai suoi riluttanti alleati che il negoziato è l’unica via di uscita da questo incubo). “L’analista della Difesa di Channel 13 Alon Ben-David – scrive sul punto il Timesofisrael – ha affermato che il danno a Natanz potrebbe minare la leva dell’Iran nei colloqui con gli Stati Uniti”. L’attacco, se vero che ha ritardato lo sviluppo della bomba atomica di nove mesi, toglie anzitutto quella leva, ma indica anche che per evitare l’atomica iraniana si può percorrere anche un’altra strada, quella militare. Per questo, invece, le autorità iraniane hanno affermato che il danno sarà riparato a breve, anzi al posto delle vecchie centrifughe ne metteranno altre di nuova generazione, in grado di velocizzare l’arricchimento (Tansim). Importanti, da questo punto di vista, le parole del ministro degli Esteri Javad Zarif: “Pensano che raggiungeranno il loro obiettivo. Ma i sionisti otterranno come risposta [al loro attacco] un incremento dello sviluppo del nucleare”. “L’Iran – ha aggiunto – non cadrà nella trappola che gli è stata tesa, ritirandosi dai colloqui che potrebbero ottenergli la revoca delle sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti” (al Jazeera). Ma quanti hanno in mente l’idea di sabotare i colloqui, in America come in Israele, hanno dalla loro il tempo. La strategia è alquanto chiara: rendere il dialogo infruttuoso, ponendo condizioni che Teheran non può accettare, come ad esempio chiedere che smetta di arricchire sic et simpliciter l’uranio prima di revocare le sanzioni o che essa rinunci, in tutto o in gran parte, al suo programma missilistico. E più il dialogo va per le lunghe, più c’è tempo per sabotarlo, sia reiterando azioni militari, sia alimentando l’opposizione politica allo stesso, in America come in Iran, sia, infine, aggiungendo nuove condizioni inaccettabili. Non solo, tra nove mesi a Teheran si terranno le elezioni: se l’accordo non sarà chiuso entro tale scadenza, i moderati rischiano di soccombere agli intransigenti; e con Teheran in mano ai falchi non ci sarà più spazio per un dialogo e la parola passerà alle armi. Sempre che ciò non accada prima. “L’analista della Difesa di Channel 12 Ehud Ya’ari – scrive, infatti, Timesofisrael – ha affermato che, a causa delle fughe di notizie del Mossad sui media ebraici, nelle quali [l’intelligence] si assume la paternità dell’incidente di Natanz, "Ci stiamo avvicinando al momento" in cui Teheran non avrà altra scelta che rispondere con un attacco militare”.

Allo stesso tempo, Ya’ari fa notare che queste operazioni non hanno avuto alcun impatto sullo sviluppo dell’atomica di Teheran, infatti, “nonostante le varie battute d’arresto attribuite a Israele, l’Iran ha continuato a fare progressi con il suo programma nucleare”. Ciò vuol dire che in realtà non esiste una via militare per frenare tale sviluppo che non sia una guerra aperta. Guerra che non vedrebbe coinvolta la sola Israele, dato che dovrebbe intervenire giocoforza anche l’America, con quel che ne consegue per la pace del mondo.

Il caso in Iran. La brutalità della Qisas, la legge del taglione: 19enne aiuta il boia a giustiziare la madre. Valerio Fioravanti su Il Riformista il 19 Marzo 2021. In Iran una ragazza di 19 anni ha “partecipato attivamente” all’impiccagione della madre. La notizia risulta talmente stridente da meritare un approfondimento. La storia è stata pubblicata il 15 marzo da Iran Human Rights, una Ong che per comprensibili motivi di sicurezza non identifica mai i propri corrispondenti, ma asserisce di pubblicare le notizie provenienti dall’Iran solo dopo averne ricevuto conferma da almeno due fonti diverse. Quindi sì, è molto verosimile che una giovane donna, Maryam Karimi, sia stata impiccata il 13 marzo nella prigione di Rasht, e che la figlia abbia partecipato attivamente all’esecuzione. Così IHR ha ricostruito la vicenda: «Maryam Karimi era accusata di aver ucciso il marito, un uomo violento, che abusava di lei, e che non voleva concederle il divorzio. Il padre della donna, Ebrahimi Karimi, che non aveva altro modo per salvare la figlia, l’aveva aiutata nell’omicidio». Entrambi vennero condannati a morte 13 anni fa. All’epoca i coniugi avevano una figlia di 6 anni, alla quale era stato detto che tutt’e due i genitori erano morti. Poche settimane fa, per prepararla psicologicamente all’esecuzione, alla giovane è stata detta la verità. Dopo l’esecuzione della figlia, Ebrahimi Karimi è stato portato al patibolo perché potesse vederla penzolare, ma poi, per motivi che la fonte non è stata in grado di specificare, è stato riportato in isolamento, e non giustiziato a sua volta. Sembra anzi che nell’arco delle prossime 48 ora verrà tolto dall’isolamento e riportato al reparto “normale”. L’Iran, come è noto, ha modellato il proprio codice penale sull’interpretazione sciita del Corano. I reati di sangue sono normati dal concetto di “Qisas”, termine che in Occidente viene tradotto come “restituzione dello stesso tipo” oppure, più colloquialmente, “legge del taglione”. La famiglia della vittima può richiedere “qisas”, oppure può concedere il proprio “perdono”. A volte il perdono è gratuito, quasi sempre fa seguito ad un risarcimento, detto “diya”, che letteralmente sarebbe “prezzo del sangue”. Le trattative economiche per il “prezzo del sangue” generano a volte delle “esecuzioni abortite”: il condannato viene sottoposto a tutti i preparativi per l’esecuzione, compreso l’ultimo colloquio con i familiari, e all’alba viene portato al patibolo, e gli viene infilato il collo nel cappio. A quel punto il direttore del carcere annuncia che sono in corso ulteriori trattative, e l’esecuzione viene sospesa. Sono riportati casi di persone che hanno subito queste “esecuzioni abortite” anche più di una volta. Se l’accordo viene raggiunto, il condannato lascia il braccio della morte, e in alcuni casi viene anche scarcerato. Altrimenti i parenti delle vittime vengono sollecitati a compiere loro stessi alcune delle manovre relative all’impiccagione. Nei resoconti delle esecuzioni capita di leggere che il “parente” ha scalciato personalmente lo sgabello da sotto le gambe del giustiziando. Questo coinvolgimento delle “vittime”, nella sensibilità contemporanea, appare molto controverso. Lo stesso IHR, che da 5 anni edita un rapporto annuale sul “perdono” ha un atteggiamento ambivalente. Nell’ultima edizione (2020) notava con favore che per ogni 2 esecuzioni effettuate, 3 erano state annullate grazie al “perdono”, e che la tendenza a perdonare sta crescendo al ritmo del 10% l’anno. Il direttore di IHR, Mahmood Amiry-Moghaddam, però, commentando l’esecuzione di Maryam, ha messo in luce anche l’altra faccia della medaglia: «Le leggi della Repubblica islamica fanno di una ragazza il cui padre è stato ucciso quando era bambina, la carnefice di sua madre. La Repubblica Islamica è oggi il principale promotore della violenza all’interno della società iraniana. Porre la responsabilità dell’esecuzione sulle spalle dei parenti delle vittime favorisce il perpetuarsi di ulteriori violenze e crudeltà». Noi europei, con il nostro “stato di diritto”, ci sentiamo molto lontani dal meccanismo tribale iraniano che assegna potere di vita o di morte al privato cittadino. Eppure, ci si passi la lettura paradossale, forse tra le nostre culture c’è un punto di contatto. La ministra Cartabia sta proponendo l’introduzione della “giustizia riparativa” nei nostri codici. Sarebbe una misura altamente innovativa. Speriamo ci riesca, così anche in Italia la parte lesa, se si riterrà soddisfatta dal percorso riabilitativo del reo, potrà aiutarlo ad ottenere uno sconto di pena. Come dire, la parte buona del Qisas. A volte il progresso segue percorsi ben strani.

DAGONEWS il 12 marzo 2021. Due producer collegati a un cantante pop iraniano residente in California sono stati arrestati dopo che nel video musicale compare un’attrice porno. Il cantante Sasy, 32 anni, il cui vero nome è Sasan Yafteh, ha pubblicato il video musicale della sua canzone "Tehran Tokyo" al quale partecipa l'attrice di film per adulti Alexis Texas. Texas inizia il video indossando abiti tradizionali, incluso un velo, per poi iniziare a spogliarsi restando con un costume nero mentre balla con Sasy. Anche se non ci sono contenuti espliciti nel video, i sostenitori della linea dura temono che il video possa “traviare” i giovani. E ora, le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato i fratelli Mohsen e Behrouz Manouchehri, i producer che hanno lavorato alla canzone nella città meridionale di Shiraz, ha rivelato Rafe Rafahi, il manager di Sasy Farshid. I fratelli Manouchehri devono ora affrontare un processo penale a Teheran. Reagendo all'arresto, Rafahi, CEO di EMH Productions con sede a Los Angeles, ha detto del video: «È piuttosto folle. Alexis Texas balla come qualsiasi persona in un normale video musicale, non sta facendo nulla di inappropriato in queste scene. La missione di Sasy non è creare scompiglio, è rendere felici le persone».

Da huffingtonpost.it il 19 febbraio 2021. Un appuntamento atteso a lungo, preparato con tutto l’impegno e la passione che negli anni l’hanno già portata al suo posto di responsabilità. Ma all’ultimo momento il sogno di Samira Zargari, commissaria tecnica della nazionale iraniana di sci alpino femminile, si è infranto davanti a una legge che ha permesso al marito di impedirle di lasciare l’Iran per guidare le sue atlete ai Mondiali di Cortina. La squadra, scrive il quotidiano Shargh, ha lasciato ieri l’Iran alla volta dell’Italia, ma alla Zargari non è stato consentito di partire. “Fino all’ultimo - ha fatto sapere la Federsci iraniana - abbiamo cercato di trovare una soluzione, ma non è stato possibile”. Il compito di accompagnare le sciatrici è stato quindi affidato a Marjan Kalhor, un’altra tecnica della Federazione. Ancora una volta, dunque, in Iran le vicende sportive si intrecciano con quelle politiche, e in particolare con la condizione delle donne e le loro faticose lotte per l’emancipazione. In base alla legge della Repubblica islamica, per ottenere il passaporto una donna ha bisogno del permesso del marito, ma quando anche sia in possesso del documento di espatrio lo stesso marito può impedirle di lasciare il Paese di volta in volta. E in passato ciò è già successo ad altre protagoniste della scena sportiva iraniana. Il caso più clamoroso fu, nel 2015, quello di Niloufar Ardalan, capitana della nazionale di calcetto, alla quale il marito, un giornalista sportivo, aveva vietato di partire per partecipare ai Mondiali in Guatemala dopo una lite. La vicenda provocò una tale ondata di proteste che le autorità dovettero intervenire e un giudice concesse alla calciatrice il permesso di lasciare il Paese, annullando il veto del coniuge. Non prima, tuttavia, che la stessa atleta prendesse apertamente posizione contro la legge vigente in un post su Instagram. Le proteste contro le normative che limitano i diritti delle donne in Iran prendono spesso spunto da vicende sportive. Come nel caso della tragica vicenda di Sahar Khodayari, la trentenne che nel 2019 si suicidò con il fuoco per protestare contro il divieto alle donne di entrare allo stadio. La vicenda di quella che i social media ribattezzarono ‘la ragazza in blu’ - dal colore dell’Esteghlal, la sua squadra del cuore, a quel tempo allenata da Andrea Stramaccioni - provocò un’ondata di emozione senza precedenti nel Paese. E anche in quell’occasione le autorità furono costrette ad un compromesso, lasciando entrare per una partita della nazionale con la Cambogia 3.500 donne in settori separati delle gradinate dello stadio Azadi di Teheran, che ha una capienza di quasi 80.000.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2021. Un messaggio giudiziario e politico a Teheran. C' è questo nella sentenza per Assadollah Assadi, diplomatico iraniano condannato a 20 anni di prigione. Un tribunale belga lo ha riconosciuto colpevole di aver progettato un attentato contro una manifestazione di esuli a Parigi, nell' estate del 2018. Terzo segretario all' ambasciata iraniana a Vienna, dove arriva nel 2014, il funzionario è ritenuto il responsabile della rete europea del Dipartimento 312, entità dei servizi di intelligence. Per questo si sposta in tutto il continente per allacciare rapporti e reclutare elementi, compresa una coppia che vive da tempo in Belgio, Amir Saadouni e la moglie Nasimeh Naami. È a loro che Assadi, nome in codice Daniel, consegna un ordigno in un fast food del Lussemburgo, una bomba che deve essere innescata durante un evento nella capitale francese. Il meeting è organizzato dal Consiglio per la Resistenza iraniana e sono attesi rappresentanti stranieri, tra questi Rudy Giuliani, Newt Gingrich. L' operazione, però, è stoppata dall' intervento della polizia belga che, il 30 giugno 2018, blocca i due attentatori dopo una soffiata. Assadi invece è fermato, con la famiglia, in Germania. Le indagini sono ampie, condotte da Germania, Belgio, Austria, Francia. Gli inquirenti hanno ricostruito tutti i movimenti di «Daniel», lavoro favorito anche dalla documentazione sequestrata. In particolare un taccuino verde, dove la spia ha annotato appuntamenti, trasferte, spese, e il Gps delle auto utilizzate. Dalle carte processuali risulta che ha visitato 289 località in undici Paesi diversi. Nella lista appare anche l' Italia - 13 volte - con tappe a Milano e Venezia. Assadi somiglia più a Pollicino che a 007. L'enorme massa di indizi solleva dubbi sulla sua professionalità, un funzionario che peraltro aveva già operato in zone difficili, come l' Iraq. E alimenta tesi alternative, con trappole e provocazioni. Ma è anche possibile che «Daniel» sia rimasto incastrato dal suo stesso network. Sapevano chi era fin dal primo giorno che ha messo piede a Vienna, lo hanno lasciato fare per «vedere» i suoi contatti. Magari si è fidato delle sue «reclute» - qualcuno ha fatto il doppio gioco? - e quando è apparsa la bomba lo hanno fermato. Avevano le prove per istruire un processo clamoroso ad Anversa negando al funzionario lo scudo dell' immunità diplomatica. Quindi il verdetto, pesante anche per i tre complici che dovranno scontare dai 15 ai 18 anni. La condanna di Assadi racchiude molti aspetti. Primo. Chiama in causa direttamente l' Iran, i suoi apparati (Bruxelles lo ha indicato in modo netto). Secondo. Mette in guardia Teheran sulle conseguenze di attività clandestine: negli ultimi anni in Olanda, Danimarca e Turchia si sono verificati attacchi nei confronti di oppositori iraniani. Terzo. La magistratura non si è fatta intimorire dalle minacce di ritorsioni, messaggi «trasmessi» dallo stesso imputato. Quarto. La vicenda fornisce munizioni a quanti chiedono che Joe Biden non riapra il dialogo con Teheran. Davanti agli addebiti la Repubblica islamica ha parlato di atto illegale, di una manovra creata dagli avversari per mettere in difficoltà il presidente Rouhani. Ma ha anche pensato al dopo rastrellando diversi iraniani con la doppia cittadinanza: messi in prigione con vari pretesti, rischiano di restare a lungo in cella oppure la sentenza capitale. Sono degli ostaggi - tra loro anche Ahmadreza Djalali, ricercatore che aveva lavorato in Italia - da usare in uno scambio per riavere Assadi. Baratti contestati dalle associazioni umanitarie in quanto convalidano accuse fabbricate, ma è anche vero che sono il modo per evitare che un innocente finisca sul patibolo.

L’Iran è la nuova base di Al Qaeda? Francesca Salvatore su Inside Over il 14 gennaio 2021. L’Iran sarebbe il “nuovo Afghanistan” secondo il Segretario di Stato americano Mike Pompeo. A conferma di questo, l’uccisione, il 7 agosto scorso, del n.2 di Al Qaeda Abdullah Ahmed Abdullah, accusato di essere una delle menti degli attacchi mortali del 1998 contro le ambasciate americane in Africa e meglio noto con il nome di battaglia Abu Muhammad al-Masri. Il terrorista è stato ucciso in quel di Teheran insieme a sua figlia, Miriam, la vedova del figlio di Osama bin Laden, Hamza bin Laden.

L’omicidio di al-Masri. Da subito, l’uccisione di al-Masri era stata avvolta dal mistero. Nell’immediato, Al Qaeda non ne aveva annunciato la morte, tantomeno l’intelligence iraniana. A lungo inserito nella lista dei most wanted terrorist dell’FBI, era stato incriminato negli Stati Uniti per crimini legati ai bombardamenti delle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania: i federali avevano posto sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari. Secondo le fonti americane, al-Masri (nato ad Al Gharbiya, in Egitto) era sotto protezione dell’Iran dal 2003, ma almeno dal 2015 viveva liberamente nel quartiere dei Pasdaran di Teheran. Nell’immediato, il governo iraniano aveva negato l’uccisione. Anzi, i media iraniani, pochi giorni dopo la sparatoria, riferirono l’uccisione di un misterioso docente libanese (identificato come ‘Habib Daoud’) e di sua figlia, mentre i social media legati ai Guardiani della Rivoluzione riferirono dell’uccisione di un militante del movimento sciita Hezbollah. Washington, invece, credette fin da subito che Habib Daoud fosse la copertura assegnata ad al-Masri nella Repubblica Islamica.

Le dichiarazioni di Pompeo. Secondo Pompeo i legami tra Teheran e al-Qaeda hanno iniziato a cementarsi notevolmente nel 2015, quando l’amministrazione Obama, insieme a Francia, Germania e Gran Bretagna, era alle prese con il Jcpoa. L’Iran governato dagli sciiti e Al Qaeda prevalentemente sunnita sono stati a lungo considerati nemici nella regione e, sebbene siano stati segnalati agenti qaedisti che utilizzano il territorio iraniano, le affermazioni di un maggiore coordinamento sono state precedentemente accolte con scetticismo all’interno sia dell’intelligence che del Congresso. Le accuse del Segretario di Stato uscente sono state mal digerite dal ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, che ha prontamente accusato Pompeo di “bugie guerrafondaie” in un tweet. In questo c’è il timore fondato che il governo degli Stati Uniti possa utilizzare questa presunzione per condurre un’escalation ai danni del governo iraniano sotto altre forme: ai sensi della legislazione statunitense, l’autorizzazione all’uso della forza militare dal 2001 consente alle forze statunitensi di perseguire Al Qaeda ovunque nel mondo. Una mossa che l’amministrazione Trump, anche nelle ultime battute del suo mandato, avrebbe potuto utilizzare per lasciare un’impronta nella regione: tuttavia, gli eventi degli ultimi giorni rendono questa opzione pressoché impossibile. Sono in molti, inoltre, nell’establishment attuale di Washington e in numerosi think tank, a credere che questa ipotesi sia poco plausibile: ciò che non convince è la tempistica con la quale Pompeo avrebbe fatto le sue rivelazioni. Nello stesso discorso, inoltre, Pompeo si è spinto oltre, annunciando una ricompensa di 7 milioni di dollari per chiunque abbia informazioni su un membro di Al Qaeda che si crede sia in Iran, identificato come Muhammad Abbatay o come Abd al-Rahman al-Maghrebi.

Cosa sappiamo sui due “frenemies”. Esistono prove, al netto dell’uccisione di al-Masri, a sostegno di quanto dichiarato da Pompeo? In parte sì. Nel gennaio del 2017 la direzione della National Intelligence americana annunciò la pubblicazione su internet dell’ultima parte dei documenti trovati nel covo di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, nel 2010. L’amministrazione Obama aveva già declassificato e rilasciato alcuni dei Bin Laden files che evidenziavano abbastanza chiaramente le tensioni tra Iran e Al Qaeda, mantenendo invece classificati tutti quelli che potessero compromettere gli accordi sul nucleare. L’ulteriore declassificazione, invece, aveva portato a galla altri documenti che provavano, tra le altre cose, propri i legami cooperativi tra Al Qaeda e l’Iran. Alcuni dettagli erano cose ben risapute, come il fatto che il governo iraniano, dopo l’attacco americano in Afghanistan, dette rifugio ai capi di Al Qaeda in fuga e aiutò il gruppo a ricostituirsi in barba all’atavica frattura tra sunniti e sciiti. Tra i vari file un documento di 19 pagine che contiene le osservazioni valutazione di un alto jihadista sulle relazioni del gruppo con l’Iran. L’autore spiega che l’Iran ha offerto ad alcuni “fratelli sauditi” “tutto ciò di cui avevano bisogno”, inclusi “soldi, armi” e “addestramento nei campi di Hezbollah in Libano, in cambio di interessi americani in Arabia Saudita e nel Golfo”. L’intelligence iraniana avrebbe, inoltre, facilitato il viaggio di alcuni agenti attraverso l’elargizione generosa di visti, mentre ne proteggeva altri. Abu Hafs al-Mauritani, un influente ideologo qaedista, prima dell’11 settembre, avrebbe contribuito, ad esempio, a negoziare un rifugio sicuro per i suoi compagni jihadisti all’interno dell’Iran. I file mostrano anche come le due parti abbiano avuto accesi disaccordi in passato: ciononostante, lo stesso bin Laden avrebbe invitato alla cautela quando si trattava di minacciare l’Iran. In una lettera precedentemente rilasciata, avrebbe descritto il Paese proprio come “la principale arteria di Al Qaeda per i fondi, il personale e le comunicazioni”.

·        Quei razzisti come gli emiratini.

Vincenzo Nigro per repubblica.it il 27 giugno 2021. Gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso la data dello sfratto. Entro il 2 luglio i militari e i materiali della Difesa italiana dovranno lasciare l'aeroporto di Al Minhad, la base avanzata nel Golfo Persico utilizzata dal 2003 innanzitutto per trasferire uomini e materiali in Afghanistan, ma capace anche di svolgere un ruolo per le missioni in Kuwait e in Iraq. È l'emiro in persona, il principe Mohammed Bin Zayed, ad aver deciso ormai da mesi una linea sempre più aggressiva diplomaticamente contro l'Italia. "Mbz" risponde a una delle ultime decisioni del governo Conte, quando a fine gennaio per rispondere alle pressioni della parte più massimalista dei 5Stelle il ministro degli Esteri Luigi Di Maio congelò le licenze (già regolarmente concesse) all'esportazione di circa ventimila bombe da aereo agli Emirati e anche all'Arabia Saudita. Di Maio e Conte accoglievano l'appello di una campagna a favore di un embargo contro i paesi che combattono nello Yemen. Con il particolare non insignificante che ormai da quasi 2 anni gli Emirati non combattono più contro i ribelli houthi nello Yemen. E gli stessi sauditi hanno iniziato ad adottare profili di impiego degli aerei che causano molte vittime in meno fra i civili. La durissima irritazione del principe emiratino venne rafforzata dal fatto che, in maniera incomprensibile, il ministero degli Esteri congelò anche contratti e fornitura di materiali per gli aerei delle "frecce tricolori" degli Emirati, che giarda caso cono gli MB 339 di Leonardo simili a quelli della pattuglia italiana. Quei velivoli devono essere ammodernati con un contratto di 70 milioni di euro, ma alla "Unità di Autorizzazione di Armamento Militare" della Farnesina è stato ordinato di bloccare anche quei contratti. La reazione di Mbz è stata quella di cancellare contratti italiani anche nel settore civile, e di iniziare a lanciare anche una serie di punture di spillo. La prima è stata il blocco dell'aereo Boeing che all'inizio di giugno trasportava in Afghanistan un gruppo di giornalisti che seguiva il ministro Guerini. Al Boeing venne negato il diritto di sorvolo degli Emirati, un permesso detto "diplocleareance" che era già stato concesso all'Aeronautica militare. Adesso arriva la chiusura della base di Al Minhad: l'accesso a quell'aeroporto vicino ad Abu Dhabi è meno importante per l'Italia, perché il ritiro dall'Afghanistan di fatto è stato completato. Ma lo schiaffo politico al governo di Roma è umiliante. Da giorni il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha provato a spiegare al collega Luigi Di Maio e adesso anche al premier Mario Draghi che i rapporti con Emirati e Arabia Saudita non possono essere compromessi. "Ne va non solo delle forniture militari, ma della collaborazione politica in tutto il Medio Oriente con partner essenziali per l'Italia", dicono fonti alla Difesa. La soluzione poteva essere quella di far approvare alla Camera o al Senato una nuova mozione parlamentare che "smontasse" la richiesta di embargo fatta al governo. La mozione ancora non è stata presentata ufficialmente, verrà presentata alla Commissione Difesa del Senato. Ma l'operazione politica è complicata: esponenti del Pd dicono adesso ""vogliamo essere sicuri che i deputati dei 5Stelle condividano la necessità di una correzione di rotta, altrimenti non faremmo che aggravare la situazione". Il Pd, in altre parole, non vuole farsi trovare col cerino in mano, ed essere accusato di autorizzare nuove esportazioni militari. Nelle ultime ore il dossier-Emirati in ogni caso è arrivato a Palazzo Chigi, è stato anticipato al presidente del Consiglio Mario Draghi, sul tavolo del consigliere diplomatico Luigi Mattiolo. I tempi stringono, c'è questa data del 2 luglioentro cui la base dovrebbe essere chiusa. I ministri Di Maio e Guerini hanno intenzione di porre il tema direttamente a Draghi nel prossimo Consiglio dei ministri, che sarebbe fissato il 1° luglio. Fra l'altro non è chiaro neppure cosa potrebbe fare rapidamente il premier per evitare lo schiaffo della chiusura. Nei giorni scorsi il Guerini ha telefonato al suo collega ministro della Difesa emiratino. Anche i capi militari del regno sono stati contattati dal generale Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa. Ma a tutti i responsabili emiratini rispondono solo una cosa: "È Mbz in persona che sente come un'offesa gravissima la vostra decisione di applicare l'embargo, ed è lui che andrà convinto con le mosse giuste che l'Italia vorrà prendere". Molti nel governo sperano che sia Draghi in persona a chiamare l'emiro per raffreddare la crisi. Ma non è detto che una inversione di rotta sia una decisione semplice. 

Da "LaPresse" l'11 giugno 2021. Gli Emirati Arabi hanno intimato all'Italia di smobilitare lo scalo di Al Minhad, utilizzato dalle nostre truppe in arrivo e in partenza da Herat (Afghanistan). Lo apprende LaPresse da fonti della Farnesina. Adesso il nostro contingente potrà rientrare in Italia da uno scalo in allestimento in Kuwait.

Fausto Biloslavo per “Il Giornale” il 12 giugno 2021. Il ritiro dall'Afghanistan è a rischio. Gli Emirati arabi minacciano di sloggiare l'Italia dalla base di Al Minhad, snodo strategico per riportare a casa tutto il materiale non solo bellico da Herat. Ieri l'agenzia LaPresse, citando fonti anonime della Farnesina, aveva dato per certa l'intimazione dello sfratto. Il ministero degli Esteri smentisce e la Difesa conferma «che il rischio esiste, ma si sta lavorando per evitarlo». Giovedì il responsabile del dicastero, Lorenzo Guerini, ha parlato al telefono con l'omologo emiratino, Mohammed bin Ahmed al Bowardi. Secondo l'agenzia stampa degli Emirati è stato discusso «il rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi in campo militare e nel settore della difesa». L'8 giugno all'aereo con i giornalisti che volava verso Herat per l'ammaina bandiera è stato proibito lo spazio aereo degli Emirati. E la Farnesina aveva convocato l'ambasciatore per spiegazioni. Gli emiratini sono inferociti per lo stop di gennaio voluto dai grillini e dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, alle esportazioni di armi per il coinvolgimento del paese nella guerra nello Yemen, in realtà in parte superato dagli eventi. E anche il nostro avvicinamento al Qatar, rivale giurato, compresa la recente vendita di navi da guerra, è una spina nel fianco dei rapporti con Abu Dhabi. La crisi è tale, che la Difesa sta predisponendo piani alternativi, più costosi, che allungherebbero i tempi del ritiro con relativo pericolo per le nostre truppe se ce ne andassimo dopo gli americani. Una ventina di giorni fa dovevamo ancora fare tornare in Italia 2 chilometri di materiale, soprattutto shelter e container, comprese le armerie, ma ci sono anche elicotteri, blindati e altri velivoli. I piani del Coi, Comando Operativo di vertice Interforze, prevedono di chiudere tutto a fine giugno o in luglio. Dalla base di camp Arena a Herat è stato pianificato un ponte areo con una trentina di voli grazie al noleggio di Antonov e Ilyushin IL-76. Da Herat atterrano ad Al Minhad a Dubai e poi il materiale viene imbarcato nel porto di Jebel Alì per raggiungere l'Italia. Ogni volo costa circa 300mila euro e la nave verrà pagata 700mila euro. L'ultima fase del ritiro costerà almeno 10 milioni. «Se non possiamo passare per gli Emirati è un grosso problema» spiega lo spedizioniere Valter Amatobene, specializzato in aree di crisi. «Come alternativa immaginerei il Kuwait, dove siamo già presenti in una base, o Gedda in Arabia Saudita. Ogni volo costerà circa 50mila euro in più oltre alla differenza dei giorni di navigazione» calcola Amatobene, che opera in Afghanistan. In realtà, la Difesa sta studiando altre opzioni, sempre nella penisola arabica, a cominciare dall'Oman attraverso le basi dei nostri alleati occidentali. Se perdessimo la base di Dubai sarebbe un disastro strategico e logistico anche per altre missioni. Negli Emirati sono impiegati 106 militari e Al Minhad è uno snodo cruciale non solo per il ritiro dall'Afghanistan, ma pure per le operazioni nel Corno d'Africa e Prima Parthica in Irak. Il governo Conte, che ha provocato la frittata, non ha tenuto conto dei rancori pregressi come il caso Alitalia-Etihad, che ha provocato un'indagine della procura di Civitavecchia sul ruolo degli emiratini. Per non parlare della Piaggio aviazione comprata dagli arabi, che poi non ha mai prodotto un previsto drone militare. Ci ha pensato la Casa Bianca, mentre i grillini sventolavano lo stop alle armi agli Emirati, a vendere caccia F-35 e droni per 23 miliardi di dollari ad Abu Dhabi.

Michele Nones per affarinternazionali.it il 15 giugno 2021. Chi va in montagna sa bene quanto può essere pericoloso muoversi incoscientemente fuori dai tracciati: il rischio è quello di provocare una valanga dagli effetti devastanti. Nessuno lo fa consapevolmente, ma non cambiano gli effetti. Non tutti, però, ci vanno. Nelle relazioni internazionali avviene lo stesso ed è solo così che si può spiegare il peggioramento delle relazioni fra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. A richiamarvi l’attenzione ci ha pensato il divieto di sorvolo deciso all’ultimo momento dagli Emirati Arabi Uniti nei confronti del velivolo militare italiano che trasportava i giornalisti in Afghanistan per la cerimonia della fine del nostro intervento in quel lontano paese, al seguito del ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Una decisione inaspettata e preoccupante perché conferma che si sta diffondendo nel mondo post-Covid una pessima tentazione: dirottare i voli e chiudere gli spazi aerei per ragioni politiche. Una nuova forma di embargo aeronautico che rischia di compromettere la difficile ripresa del sistema del trasporto aereo internazionale che, invece, dovrebbe essere nell’interesse di tutti favorire. L’occasione scelta per manifestare il forte disappunto emiratino nei nostri confronti non è stata certamente la migliore, visto che il viaggio era legato al forte e continuo impegno dell’Italia nel cercare di stabilizzare le aree di crisi e contrastare il fondamentalismo islamico. Con queste stesse motivazioni, peraltro, i due Paesi arabi sono da anni impegnati nello Yemen. Ma solo gli ingenui potevano non aver colto i crescenti segnali che ci sono stati lanciati nei quasi cinque mesi trascorsi dallo “schiaffo” che abbiamo un po’ incoscientemente dato a questi due Paesi, revocando in modo plateale l’autorizzazione a ricevere gli involucri delle bombe d’aereo prodotti in Italia, come era avvenuto negli ultimi sei anni. Una decisione comunicata con grande clamore il 29 gennaio dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e che ha lasciato isolato il nostro Paese rispetto a partner ed alleati (che sono – non va dimenticato – anche nostri concorrenti). Vi sono alcune questioni che, comunque, avrebbero dovuto spingerci ad agire con maggiore prudenza e riservatezza, ma, continuando in troppi ad usare la politica internazionale per condurre battaglie politiche di casa nostra, abbiamo “avvelenato i pozzi” e adesso non sappiamo come venirne fuori. Anche perché, fuori metafora, questi sono anche pozzi petroliferi. La prima questione è di natura politica e tocca la natura orgogliosa del mondo arabo, legata al loro carattere e alla più recente indipendenza. Avere di fatto bollato i due Paesi come “esecrabili”, ha urtato pesantemente il loro orgoglio e sta coinvolgendo inevitabilmente tutti i settori della collaborazione e dell’interscambio. Dal loro punto di vista, d’altra parte, la posizione è chiara: se non si vuole collaborare con loro nel campo della sicurezza e difesa, non lo si fa nemmeno negli altri campi. Va peraltro ricordato che solo venti giorni prima della decisione italiana il nostro ministro degli Esteri aveva incontrato in Arabia Saudita il principe ereditario Mohammad bin Salman e il suo omologo, firmando un Memorandum of Understanding per l’avvio del dialogo strategico bilaterale fra i due Paesi. Difficile spiegare ai sauditi cosa è poi rapidamente cambiato. Andrebbe, invece, posta grande attenzione al modo di gestire le relazioni internazionali, soprattutto quando riguardano Paesi con cui vogliamo mantenere e sviluppare un clima di collaborazione. Le stesse decisioni possono avere conseguenze molto diverse a seconda di come vengono preparate e comunicate. In questo caso una decisione politica comunicata sui social è un esempio da manuale di ingenuità e irresponsabilità. La seconda questione riguarda la diversa intensità dei nostri rapporti con gli Emirati e con l’Arabia Saudita. Nello scorso decennio abbiamo ripetutamente cercato e accolto calorosamente gli investimenti emiratini in Italia, soprattutto come salvataggio di imprese in crisi, dall’Alitalia alla Piaggio. Queste iniziative, in particolare, dopo aver bruciato miliardi di euro arabi, sono comunque finite malamente. Abbiamo utilizzato e stiamo utilizzando, dal 2015, la loro base di Al Minhad e, dal 2002 al 2015, quella di Al Bateen per la nostra Forward Logistic Airbase, indispensabile per garantire i nostri collegamenti aerei con il teatro afghano. Dieci anni fa abbiamo venduto un gruppo di velivoli da addestramento e formato i loro piloti per la loro pattuglia acrobatica, ma dall’inizio dell’anno non forniamo le parti di ricambio. Per altro con gli Emirati abbiamo avuto dal 2003 un Memorandum of Understanding di collaborazione nel campo della difesa, che da tre anni stiamo rinegoziando. I rapporti con loro sono, quindi, molto più stretti che non quelli con l’Arabia Saudita e questo avrebbe dovuto portarci ad ancora una maggiore prudenza. Tutto questo è emerso nella freddezza con cui sono state accolte le ultime visite ufficiali italiane, militari e civili, fra cui quella del ministro degli Esteri a fine aprile. Ma, evidentemente, qualcuno ha pensato che scherzassero, dimenticandosi che siamo più noi ad avere bisogno di loro come esportatori di petrolio e come investitori, oltre che come acquirenti dei nostri prodotti, che non loro ad avere bisogno di noi. Nel frattempo i nostri concorrenti sono già in fila per sostituirci. La terza questione riguarda il fatto che una simile decisione avrebbe dovuto essere condivisa a livello interministeriale. La normativa prevede, infatti, che le revoche delle autorizzazioni siano “disposte con decreto del ministro degli Affari esteri sentito il Cisd”, il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa. Ma, purtroppo, nel 1993 è stato cancellato questo Comitato passandone le competenze al ministero degli Esteri, che le dovrebbe esercitare “d’intesa” con quelli della Difesa e dello Sviluppo economico, oltre che con la presidenza del Consiglio. Si è sostenuto che sia stato coinvolto il Consiglio dei ministri, ma non ve ne è traccia nei comunicati ufficiali. Forse anche perché in realtà dal 26 gennaio ministro degli Esteri e governo erano già dimissionari. Adesso bisognerebbe rapidamente inserire nuovamente un Comitato interministeriale al vertice del sistema di controllo delle esportazioni in modo da tenere conto di tutte le implicazioni politiche, economiche, industriali, tecnologiche della nostra politica esportativa militare, definendo in quella sede le linee direttrici e le decisioni di carattere strategico. In questo modo si potrebbe anche impedire che prosegua l’effetto valanga con i due paesi arabi. La quarta questione riguarda l’affidabilità dell’Italia sul delicato tema della sicurezza e difesa. Un conto è evitare la vendita di certi equipaggiamenti verso determinati Paesi (a tal proposito bisognerebbe però chiedersi se negli ultimi sei anni il problema non avrebbe potuto essere disinnescato e, di nuovo, perché le valutazioni politiche italiane sono cambiate, oltre tutto quando gli attacchi condotti dagli insorgenti yemeniti colpiscono direttamente il territorio dell’Arabia Saudita, finendo con il coinvolgere il diritto all’autodifesa). Un altro conto è, invece, annullare un contratto in assenza di embarghi e formali condanne internazionali verso questi Paesi (le condizioni previste dalla nostra normativa per la revoca delle autorizzazioni). E che la decisione italiana sia stata, invece, politica, lo dimostra il fatto che il divieto riguarda solo alcune tipologie di armamenti. Ma i sofismi italiani ben difficilmente possono evitare che l’Italia sia considerata, come minimo, poco affidabile. E quando è in gioco la sicurezza e la difesa, ogni Paese ha inevitabilmente la massima attenzione e sensibilità. Forse la valanga può essere ancora fermata o “deviata”: gli unici a poterlo tentare sono i più autorevoli nostri vertici politici e il governo in quanto tale.

La (vera) partita tra Italia ed Emirati. Lorenzo Vita su Inside Over l'11 giugno 2021. Lo sgarbo degli Emirati Arabi Uniti per il volo italiano diretto in Afghanistan potrebbe essere solo uno dei sintomi di un problema molto più ampio. La “Sparta” del Golfo Persico non ha apprezzato le ultime mosse italiane nei suoi confronti. E nonostante la fredda (ma cordiale) accoglienza di Luigi di Maio nel paese per l’expo di Dubai, l’impressione è che quello tra Italia ed Emirati sia un rapporto che ha subito lacerazioni importanti. Il problema per gli Emirati arriva soprattutto da due ordini di ragioni. Il primo riguarda il blocco all’esportazione di armi imposto dall’Italia per l’accusa di utilizzare quelle stesse munizioni contro civili nella guerra in Yemen. L’accusa, la stessa che aveva portato al blocco da parte americana, ha rappresentato per Abu Dhabi un colpo durissimo sia a livello di immagine che a livello strategico. Gli EAU contavano sulle forniture dell’industria italiana, con cui era legata da molti decenni sia in campo bellico che in campo civile. E la scelta di fermare l’esportazione di armi, oltre a costringere gli Emirati a convertirsi ad altre aziende estere, ha dato un segnale di inaffidabilità nei rapporti che non è affatto piaciuta a Mohammed Bin Zayed. Vincenzo Camporini, già capo di Stato Maggiore della Difesa, ha spiegato in questi termini ad Aki – Adnkronos International la decisione emiratina di bloccare il Boeing dell’Aeronautica italiana. “Si dovrebbero rivedere le decisioni prese dal ministro degli Esteri” ha detto Camporini, visto che sono state fermate “tutte le forniture militari agli Emirati, comprese alcune cose che francamente lasciano basiti”. Il riferimento è ad esempio ai pezzi di ricambio per la pattuglia acrobatica di Abu Dhabi. “Gli Emirati hanno la pattuglia acrobatica che vola con aeroplani italiani e gli abbiamo bloccato i pezzi di ricambio. Si tratta di velivoli di addestramento. Nessuno può pensare vengano usati per motivi bellici al di là della valutazione unilaterale su quello che sta accadendo nel Medio Oriente. Quindi il governo emiratino è chiaramente molto irritato ed essendo molto irritato ha reagito come probabilmente avrebbe reagito chiunque”. Camporini, oggi a capo del settore Sicurezza per Azione, ha poi incalzato: “Noi dovremmo riflettere sulla nostra politica dell’esportazione di materiale d’armamento perché attualmente le cose non stanno andando bene”. E l’accusa riguarda anche la modalità di scelta di questo blocco di vendita degli armamenti. Perché mentre la legge 185 del 1990 aveva messo in piedi un comitato interministeriale su queste decisioni, in modo di dare “una visione collegiale” del governo, dopo tre anni quello stesso comitato è stato abolito per affidare tutto “a un ufficio del ministero degli Esteri” che opera “senza un coinvolgimento del governo, con valutazioni che in questo momento particolare io trovo abbastanza discutibili”. La decisione di fermare l’export di armi si inserisce inoltre in un quadro di rapporti delicato, in cui Italia ed Emirati si sono trovate molto spesso dall’altra parte della barricata sia per quanto riguarda il Medio Oriente che per quanto concerne il Nord Africa. Roma ha blindato in questi anni il rapporto con il Qatar, acerrimo nemico di Abu Dhabi, intessendo una fitta trama di interessi convergenti che vanno dalla Libia all’Africa fino ai rapporti con la stessa industria militare. Agli Emirati non va giù che mentre è stata bloccata la vendita di armi nei confronti di Abu Dhabi, l’Italia continua rifornire le forze armate di Doha, in particolare la flotta. La Marina qatariota ha nell’Italia uno dei principali partner internazionali. Soltanto a giugno c’è stato il varo del Sheraouh, pattugliatore della classe Musherib, nei cantieri di Muggiano, l’inaugurazione del centro di addestramento Halul 1 in coordinamento con la Marina militare italiana, e negli stabilimenti di Riva Trigoso sono iniziati i lavori per la futura nave ammiraglia della flotta del Qatar. Scelte importanti che confermano la convergenza di interessi tra un nemico sistemico per gli Emirati e l’Italia. A questi nodi mediorientali, in cui l’Italia di fatto sta rafforzando un avversario degli Emirati mentre ha bloccato la vendita di armi proprio ad Abu Dhabi, si aggiunge il nodo strategico regionale. In Libia i rapporti tra Italia ed EAU sono diventati molto difficili nel momento in cui Roma ha virato in modo più netto al supporto di Tripoli mentre Abu Dhabi ha sostenuto sia a livello politico che a livello militare le forze legate a Khalifa Haftar. Un problema che investe anche i rapporti tra Italia e Turchia, altro nemico emiratino, e che riguardano anche il coinvolgimento italiano in Sahel e nel Corno d’Africa, dove gli EAU tentano da molti anni di inserirsi nella partita sfruttando anche le pieghe dei rapporti tra Italia e Francia, con quest’ultima che ha impresso una decisa sterzata anti-turca in tutta l’area del cosiddetto Mediterraneo allargato. La questione emiratina diventa poi particolarmente importante se si pensa alle ripercussioni globali di questo scontro per l’Italia. Roma ha sempre mantenuto una posizione privilegiata nel Golfo Persico proprio per la capacità di muoversi su diversi fronti senza entrare troppo nelle diatribe regionali. Questo ha permesso per decenni alle aziende italiane e alle nostre forze armate di essere praticamente di casa in un’area così complessa come quella mediorientale. La mossa del precedente governo Conte di bloccare la vendita di armi – insieme ai problemi legati alle inchieste su Alitalia-Etihad e al nodo Piaggio – ha di fatto interrotto un rapporto che andava avanti da molti anni e che permetteva all’Italia di non essere considerata appartenente a un blocco. Ora invece Roma si trova nella posizione di non essere considerata né super partes né alleata, ma semplicemente inaffidabile. E lo dimostra il fatto che mentre si blocca l’export di armi agli EAU, si è anche propensi a scontrarsi con l’altro avversario di Abu Dhabi, ovvero Ankara. Gli effetti però possono essere pericolosi. Gianluca di Feo, su Repubblica, ha parlato per esempio della possibilità che gli Emirati possano escludere l’utilizzo italiano della base di Al Minhad a Dubai. La base, utilizzata anche da australiani, britannici e americani, è considerata un hub di fondamentale importanza nella strategia italiana non solo nel Golfo, ma anche per l’Asia centrale, ed è oggi il ponte per il ritiro dall’Afghanistan. Un pericolo che l’Italia deve evitare a ogni costo.

Cosa c’è dietro lo schiaffo diplomatico degli Emirati Arabi all’Italia. Francesca Salvatore su Inside Over l'8 giugno 2021. Un secco no, quello delle autorità emiratine, al passaggio nel proprio spazio aereo di un C130 dell’Aeronautica militare italiana che, con a bordo 42 giornalisti italiani e numerosi a militari, era diretto a Herat, in Afghanistan, per la cerimonia dell’ammainabandiera del tricolore nella base di Camp Arena. Il diniego ha costretto il C130 a effettuare un atterraggio nell’aeroporto saudita di Dammam per una lunga sosta mentre la trattativa tra il comandante del velivolo italiano, il maggiore Valentina Papa, e le autorità emiratine procedeva. Il volo era partito a mezzanotte da Pratica di Mare e inizialmente prevedeva l’arrivo a Herat per le 9,30 locali (le 7 italiane). Le autorità locali sono state irremovibili, riservandosi fino all’ultimo di dare un via libera che poi non hanno comunque concesso. A bordo è stata anche valutata, in contatto con le autorità della Difesa italiana interessate, l’ipotesi di tornare indietro, annullando la presenza della stampa alla cerimonia di Herat, nel frattempo posticipata di alcune ore. Poi, la decisione di proseguire, con una nuova rotta verso l’Afghanistan, necessariamente più lunga, per aggirare il territorio degli Emirati, seguendo un percorso che non prevedesse il sorvolo di basi militari. Un grave sgarbo diplomatico che lascia di stucco la Farnesina. Su istruzione del ministro Luigi Di Maio, il segretario generale del ministero degli Esteri ambasciatore Ettore Sequi, ha convocato l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Omar Al Shamsi. Sul caso, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha dichiarato: «La questione non è dipesa da noi, sono state mosse alcune iniziative di carattere diplomatico, è stato convocato l’ambasciatore degli Emirati al ministero degli Esteri per chiedere spiegazioni e per manifestare tutto il disappunto e lo stupore per avere negato il sorvolo rispetto a decisioni che erano già state comunicate, assunte e garantite». Ciò che sorprende maggiormente è che, come si fa in questi casi, il piano di volo era stato precedentemente approvato, ma solo all’ultimo minuto Abu Dhabi non ha concesso il via libera al sorvolo dei propri cieli, costringendo la comandante a trovare un aeroporto alternativo per atterrare, rifornirsi e cambiare di conseguenza il percorso. Al netto di un misunderstanding o di problemi tecnici, sui quali si farà luce nelle prossime ore, il pensiero va a una valutazione complessiva delle relazioni bilaterali tra il nostro Paese  e gli Emirati: i rapporti sono complicati ma non sospesi, sebbene lo stop alle forniture militari deciso dall’Italia potrebbe avere qualche ruolo nello sgarro diplomatico di oggi. Negli scorsi mesi la decisione era stata ufficializzata da un atto dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento che fa capo alla Farnesina. Gli ordigni che l’Italia esportava sono stati utilizzati principalmente nel conflitto in Yemen, Paese dove Arabia Saudita ed Emirati sono coinvolti militarmente nel quadro della coalizione araba che sostiene il governo Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale, e combatte i ribelli Houthi. Il provvedimento riguarda almeno sei diverse autorizzazioni già sospese a luglio 2019, tra le quali la licenza Mae 45560 relativa a quasi 20mila bombe aeree della serie Mk. Una sorta di embargo legato al fatto che in Yemen non sono stati discriminati i bersagli civili da quelli dei ribelli Houthi. Un’occasione per uno stress test dei rapporti con Abu Dahabi si era presentata un mese fa, quando una delegazione del ministero della Difesa si era recata in loco e negli incontri con gli omologhi locali si era deciso di avviare nuove attività di cooperazione attraverso la firma di un protocollo. Un tampone al gelo delle relazioni bilaterali, dunque, che rischiava di produrre un impatto negativo sull’interscambio economico e commerciale con il rischio di annullamento di molte commesse (Eni, Leonardo, le grandi imprese italiane coinvolte nei progetti infrastrutturali emiratini). Un gesto che resta, qualora lo fosse, una ritorsione a scoppio ritardato, visto e considerato anche che gli Emirati sono l’unico Paese del Golfo che ospita un contingente di militari italiani e che è in costruzione la prima chiesa cattolica del Paese, un precedente innovativo per tutto il mondo islamico. Meno probabile l’ipotesi, paventata nelle prime ore dopo l’accaduto, di un diniego per ragioni di genere: il fatto che il velivolo fosse pilotato da una donna non sembra, al momento, essere causa diretta o indiretta dell’accaduto.

·        Quei razzisti come i dubaiani.

Da "huffingtonpost.it" il 21 giugno 2021. Da anni è al centro delle preoccupazioni dell’opinione pubblica, soprattutto negli Stati Uniti, dopo essere stata sequestrata nel 2018 nel tentativo di fuggire dal padre, lo Sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum. La principessa di Dubai Latifa è riapparsa però oggi in un post su Instagram con un’amica. Le due, stando a ciò che viene scritto nel post, si troverebbero in Spagna, per una “festa europea”. L’immagine sul social network è stata pubblicata da una donna identificata nei media britannici come ex membro della Royal Navy, chiamata Sioned Taylor. Nella foto Taylor appare insieme a Sheikha Latifa bint Mohammed Al Maktoum all’aeroporto Adolfo Surez Madrid Barajas. La didascalia scritta da Taylor, punteggiata da una faccina sorridente, recitav: “Grande vacanza europea con Latifa. Ci stiamo divertendo ad esplorare!”. I fari sulla vicenda della principessa di Dubai - figlia dell’emiro di Dubai nonché vice presidente e primo ministro degli Emirati, Sheikh Mohammad bin Rashid Al Maktoum - si sono accesi a marzo, quando in un video pubblicato su YouTube la 32enne denunciava di essere tenuta prigioniera dalla sua famiglia e di essere vittima di abusi. Nel video Latifa annunciava anche la sua fuga da Dubai, accusando il padre di maltrattamenti. Alla domanda su Sheikha Latifa, Taylor ha scritto in un altro commento “lei è fantastica” con un’emoji pollice in su. Taylor ha pubblicato immagini di Sheikha Latifa anche lo scorso maggio. In quelle foto le due apparivano in due centri commerciali locali di Dubai. Sheikha Latifa, 35 anni, aveva cercato di fuggire dal paese nel 2018, per poi essere sequestrata e trattenuta dal commando su una barca al largo dell’India. Nei video diffusi a febbraio dalla BBC, Sheikha Latifa si descriveva come se si trovasse in una villa che “è stata trasformata in una prigione”. La potenziale fuga in mare della donna e le sue conseguenze hanno cominciato a mettere al centro dell’attenzione la figura dello sceicco Mohammed, che si ritiene abbia diverse dozzine di figli da più mogli. La vita familiare dello sceicco è diventata di nuovo una questione pubblica nel 2020, quando un giudice britannico ha stabilito che lo sceicco aveva condotto una campagna di paura e intimidazione contro la sua ex moglie e aveva ordinato il rapimento di due delle sue figlie, una delle quali Sheikha Latifa.

Da "repubblica.it" il 16 febbraio 2021. La principessa Latifa Al Maktoum - figlia dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, uno dei capi di Stato più ricchi del mondo, sovrano di Dubai e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti (Eau) - accusa il padre di averla rapita e di tenerla in "ostaggio" dopo il tentativo di fuga dal Paese nel 2018. In un video fatto pervenire al programma Panorama della Bbc, la figlia dello sceicco racconta di essere stata fermata da un commando che l'ha drogata e riportata alla sua prigionia, mentre tentava di fuggire a bordo di un'imbarcazione. Il video fa parte di una serie di messaggi segreti che la principessa ha inviato ai suoi amici per chiedere aiuto. I video sono stati registrati per diversi mesi grazie a un telefono che Latifa ha ricevuto segretamente circa un anno dopo la sua cattura e il suo ritorno a Dubai. Li ha registrati in un bagno perché era l'unico posto con una porta che poteva chiudere a chiave. Nei messaggi ha spiegato in dettaglio come si è opposta ai soldati che l'hanno portata giù dallo yacht "prendendoli a calci" e mordendo il braccio di un membro del commando.  Dopo essere stata drogata e aver perso conoscenza è stata trasportata su un jet privato e non si è svegliata finché non è atterrata a Dubai. Finora è stata tenuta in isolamento senza accesso ad assistenza medica o legale in una villa con porte e finestre sbarrate sorvegliata dalla polizia. In precedenza, i portavoce del governo di Dubai avevano riferito che la principessa era al sicuro, affidata alle cure della sua famiglia. L'ex inviata per i diritti delle Nazioni Unite Mary Robinson, che aveva descritto Latifa come una "giovane donna problematica" dopo averla incontrata nel 2018, ora dice di essere stata "orribilmente ingannata" dalla famiglia della principessa. L'ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e presidente dell'Irlanda si è unito agli appelli per un'azione internazionale per stabilire le condizioni attuali e il luogo in cui si trova Latifa. Nei mesi scorsi Mohammed al Maktoum è stato sconfitto di fronte alla giustizia britannica al termine di una clamorosa causa di divorzio intentata contro di lui da una delle sue consorti, Haya bint Hussein, sorella del re di Giordania, riuscita a fuggire - a differenza di Latifa - e a trovare poi rifugio in una lussuosissima quanto blindata residenza di Londra. La vicenda giudiziaria ha provocato grande imbarazzo nel Regno Unito, coinvolgendo due dinastie e due Paesi arabi considerati alleati strettissimi di Londra, come di Washington.

Chiara Clausi per "il Giornale" il 18 febbraio 2021. Le sorti della principessa prigioniera e triste, Latifa, figlia del sovrano di Dubai, diventano un caso internazionale. La sua vicenda è balzata all' attenzione di tutti media da quando sono stati condivisi da Bbc Panorama i video registrati di nascosto da Latifa nel bagno della villa in cui è segregata. «Sono ostaggio, non sono libera, sono schiava, sono rinchiusa in questa prigione, la mia vita non è nelle mie mani», è l' urlo di disperazione della principessa nella clip. «Non so se sopravviverò alla situazione», ha poi continuato. «La polizia mi ha minacciato che starò in prigione per tutta la vita e non vedrò mai più il sole». Le Nazioni Unite hanno dichiarato che solleveranno il caso alle autorità degli Emirati Arabi Uniti. «Anche altre parti del sistema dei diritti umani delle Nazioni Unite potrebbero essere coinvolte dopo aver analizzato il nuovo materiale», ha detto l' Ufficio dell' Alto Commissario delle Nazioni Unite. Nel frattempo pure il Regno Unito è intervenuto e ha affermato che i video sono «profondamente preoccupanti». Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha precisato che le clip mostravano «una giovane donna in profonda angoscia», e ha aggiunto che Londra avrebbe guardato «molto da vicino» qualsiasi sviluppo. Ma alla domanda se si possano imporre sanzioni, Raab ha spiegato: «Non mi è chiaro se ci siano le condizioni a sostegno di questa azione». Il primo ministro Boris Johnson ha anche espresso preoccupazione ma «aspetterà e vedrà come le Nazioni Unite andranno avanti». «Speriamo che un' indagine dell' Onu sarà decisiva per ottenere finalmente il rilascio della principessa Latifa», ha affermato invece Rodney Dixon, l' avvocato che ha presentato il caso all' Onu. Ma non è il primo episodio di questo tipo nella famiglia del sovrano di Dubai. L' Alta Corte di Londra aveva già stabilito che lo sceicco aveva orchestrato una campagna «mirata a intimidire e spaventare» la principessa Haya, la sua sesta moglie, sorella del re di Giordania, fuggita nel Regno Unito con i loro due figli piccoli nel 2019 perché sosteneva di aver paura per la sua vita. La Corte aveva anche appurato che in precedenza l' emiro aveva già «ordinato e orchestrato» il rapimento di due delle sue figlie avute da un precedente matrimonio, Latifa, e sua sorella, Shamsa. Le accuse contro lo sceicco sono particolarmente sensibili per l' establishment britannico poiché il sovrano degli Emirati ha interessi commerciali significativi nel Regno Unito ed è una delle figure più importanti delle corse ippiche. Il sovrano ha una vasta azienda di corse di cavalli e frequenta spesso eventi importanti come il Royal Ascot, dove è stato fotografato con la regina Elisabetta II. Gli Emirati Arabi Uniti hanno stretti rapporti con numerosi Paesi occidentali, inclusi anche gli Stati Uniti che lo considerano un alleato strategico. Ma gli attivisti per i diritti umani sostengono che nel piccolo Stato del Golfo non c' è tolleranza per il dissenso e le donne sono ancora molto discriminate. Sebbene gli Emirati Arabi Uniti non siano rigidi come la vicina Arabia Saudita, le donne hanno ancora bisogno del permesso del loro tutore per sposarsi e il divorzio è molto più difficile da ottenere per loro che per gli uomini.

·        Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 14 novembre 2021. Il calcio donne si evolve, lotta per la parità di genere e compie passi in avanti. Dal 22 novembre l'Arabia Saudita darà il via al campionato di calcio femminile Saudi women's football league. Ad annunciarlo è stata la Federcalcio di Riad sottolineando che il torneo segna un cambiamento importante per le donne saudite a cui solo nel 2018 è stato concesso di poter assistere allo stadio alle partite di calcio. Un segnale di apertura da parte del regno saudita che sta cercando di liberarsi dell'immagine di paese ultraconservatore, anche se le sportive saranno in campo con velo e pantaloni. La competizione si svolgerà in due fasi, le squadre prima si sfideranno in tre leghe regionali a Riad, quelle qualificate giocheranno le finali all'inizio del 2022 a Jeddah. La creazione di questo campionato è un «momento importante» per la federazione, ha dichiarato il suo presidente, Yasser al-Misehal, e fa parte di un programma di sostegno al calcio femminile lanciato nel 2017. Sotto la guida del principe ereditario Mohammed ben Salman, l'Arabia ha recentemente avviato un programma di riforme economiche e sociali che include anche un allentamento di alcuni divieti per le donne. I leader sauditi, criticati per le violazioni dei diritti umani del regno, utilizzano da diversi anni lo sport come leva diplomatica per migliorare l'immagine del Paese sulla scena internazionale. Lo scorso mese di agosto, la tedesca Monica Staab è stata nominata allenatrice della nazionale e il 2 novembre ha tenuto il primo allenamento, un giorno storico per il calcio femminile. La 62enne ha una grande esperienza nel Golfo, in precedenza ha guidato le squadre del Qatar. Era stata scelta per modellare la struttura calcistica in un progetto dedicato in Gambia, poi è arrivata la proposta da Riad. «Quando mi hanno chiamata dall'Arabia Saudita non ci credevo», ha scritto sul sito della Fifa. Staab, che si occupa anche della formazione delle allenatrici, deve selezionare una squadra di 30 giocatrici tra le 700 tesserate, «tutte donne che studiano o lavorano, praticano lo sport per passione con enormi sacrifici». L'esordio internazionale è previsto a febbraio, contro le Maldive. Ma i progetti sono molto più ambiziosi: dal 18 novembre il lancio di una Lega femminile che si giocherà in tre città. «Quel che succede è incredibile, e non si crede se non lo si vede - ha dichiarato ancora Staab -: ragazze che portano con sé un'incredibile voglia di libertà e tanti sogni. In 10 anni vogliono andare al Mondiale, io dico calme, ci arriveremo. Stiamo lottando

Claudio Savelli per "Libero quotidiano" il 14 ottobre 2021. Mohammad Bin Salman in Italia era un nome noto ben prima che fosse associato all'Inter "grazie" a Matteo Renzi. «È mio amico», disse infatti il leader di Italia Viva lo scorso marzo, quando il principe ereditario al trono dell'Arabia Saudita fu accusato dalla Cia di essere il mandante dell'"omicidio Jamal Khashoggi", il giornalista (critico nei confronti dell'operato del regno saudita) del Washington Post ucciso nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018 mentre stava ottenendo i documenti per il suo matrimonio. La responsabile Onu, Agnes Callamard, aveva annunciato la presenza di «prove credibili» sull'ordine diretto di Bin Salman, il quale ha negato di aver ordinato l'omicidio ma si è assunto «piena responsabilità perché commesso da individui che lavorano per il governo saudita». Poi, giusto per spiegare la stoffa del personaggio, è passato dalle parole ai fatti: a settembre, un tribunale saudita ha emesso otto condanne (senza nome) per l'omicidio Khashoggi, cinque sono stati giudicati colpevoli e condannati a morte, poi commutati in ergastolo, altri tre hanno ricevuto pene detentive. Insomma le accuse non fermano di certo l'ascesa al potere di Bin Salman. Questa alle volte macchia la sua immagine e quella del suo Paese, ma al principe interessa seminare in vista dell'ascesa al trono saudita, a cui ha diritto essendo figlio maggiore della terza moglie del padre Salman bin Abdulaziz al Saud: a quel punto, Bin Salman, ora 35enne, confida di aver già una larga fetta di mondo tra le mani. Dopo la laurea in legge nel 2009 alla King Saud University di Riad, Bin Salman diventa consigliere speciale del padre. Nel 2015 è nominato Ministro della Difesa e come atto d'ingresso inaugura una politica estera aggressiva in cui rientra "Decisive Storm", l'operazione della coalizione araba per cancellare la milizia degli Houthi nello Yemen, gruppo armato sciita. L'obiettivo è liberare l'Arabia Saudita «dall'estremismo e del terrorismo senza fermare la crescita del Paese», secondo quanto dichiara il principe, ma il modo è considerato inaccettabile dal resto del mondo: un terzo degli attacchi aerei sauditi colpiscono obiettivi civili, inclusi ospedali e scuole, e i combattimenti provocano la morte di oltre 110mila persone. Così l'Arabia Saudita viene stata accusata di crimini di guerra. Di nuovo, nulla ferma Bin Salman, che cerca di acquisire popolarità interna annunciando il ritorno dell'islam moderato come chiave per modernizzare il regno. Intanto lancia un'ampia campagna anti-corruzione, apparentemente per recuperare soldi dai guadagni illeciti, in realtà per epurare potenti principi e uomini d'affari arabi: così rimuove gli ultimi ostacoli per ottenere il controllo totale del regno. Il divieto per le donne al volante è terminato nel giugno 2018 in Arabia - l'ultimo paese al mondo in cui esisteva - e a Bin Salman è stato dato gran parte del merito. Nel 2016 può introdurre il piano di sviluppo "Vision 2030": l'obiettivo è riformare il modello economico del Regno saudita, rendendolo indipendente dal petrolio entro il 2030 attraverso la diversificazione degli investimenti in altri settori. Quali? Naturalmente il turismo, supportato e promosso dalla rinnovata campagna "Visit Saudi" circolata negli scorsi mesi anche nella televisione italiana, la cultura, l'intrattenimento e lo sport, ovvero gli strumenti che offrono il cosiddetto "soft power", la capacità di persuadere, convincere e attrarre popolazioni altrimenti ostili. I tentacoli di Mohammad Bin Salman affondano anche nell'arte. Si è rivelato essere infatti il misterioso acquirente del (presunto) «Salvator Mundi» di Leonardo, il dipinto più costoso della storia, battuto in un'asta di Christie' s da un suo intermediario a colpi di 20 milioni e infine acquistato per 450 milioni di dollari. È lo stesso dipinto finito poi al centro di un caso internazionale con la Francia, quando Emmanuel Macron decise di non esporlo al Louvre di Parigi per la mostra dedicata a Leonardo in quanto la sua autenticità era (ed è) contestata dagli esperti d'arte. Così il principe lo propose alla filiale del Louvre di Abu Dhabi, vicini di casa concorrenti in politica: un paradosso, per questo forte atto politico. Si dice che oggi sia appeso su un muro di "Serene", lo yacht da 458 milioni del principe. Dall'arte al calcio è un attimo, concesso dalla sconfinata liquidità accumulata dall'Arabia e accumulata nel fondo PIF (Public Investment Fund), che avrebbe mandato di gestione di un patrimonio di 347 miliardi di dollari per conto dei regnanti. Circa 360 milioni di euro sono stati stanziato per l'acquisto del 100% del Newcastle (Yasir Al-Rumayyan, governatore del fondo saudita, è diventato il presidente) per cui la trattativa durava da più di due anni e su cui la Premier aveva più volte posto il veto. Logico che PIF possa continuare lo shopping nel calcio con club di rilievo in Italia (l'Inter?) e in Francia (il Marsiglia?), in modo da contestare il crescente potere dei vicini: Bin Salman lancerebbe la sfida al Qatar, proprietario del Psg, e a Abu Dhabi, padrone del City. Il terzo incomodo arabo nel calcio potrebbe diventare presto uno delle prime potenze mondiali.

Simona Verrazzo per "il Messaggero" il 12 luglio 2021. Attiviste che difendono i diritti umani, in particolare quelli delle donne, sottoposte a scariche elettriche, frustate, pestaggi e violenze sessuali nelle carceri, anche segrete, dell'Arabia Saudita. È questo l'agghiacciante quadro descritto nel rapporto di Human Rights Watch, una delle più grande ong del mondo, relativo al 2018. Ne emerge un'immagine del paese ben diversa da quella che negli ultimi anni il regno sta cercando di diffondere nella comunità internazionale, pubblicizzando l'avvio dell'emancipazione femminile voluta dall' erede al trono, il principe Mohammed Bin Salman, come l'accesso delle donne al mondo del lavoro e la fine di divieti femminili, soprattutto quello elettorale e di guida. Torture e abusi fisici e psichici di attiviste di alto rango, tra cui spicca Loujain al-Hathloul, avvocatessa che si è battuta per l'accesso delle donne al diritto a guidare, ma anche uomini come lo scrittore Mohammad Al-Rabea, arrestato nel maggio 2018, in quella che è stata una delle più dure ondate di repressione e che ha visto coinvolti noti nomi della società civili, come l'uomo d' affari Abdulaziz Al-Mesha' al, l'avvocato Ibrahim Al-Modaimeegh e il professore Aziza Al-Yousef. Nel rapporto di HRW il riferimento più noto è quello a Loujain al-Hathloul, rilasciata a febbraio dopo lo sdegno per il suo arresto. Ad aggiungere valore al documento sono le testimonianze delle stesse guardie carcerarie, carnefici e testimoni. «Nuove prove che indicano l'uso di torture brutali su donne che difendono i diritti delle donne e altri detenuti di alto profilo mettono ancora più a nudo il disprezzo saudita per lo stato di diritto e il fallimento di qualunque credibile tentativo di indagare su queste accuse». è scritto in una nota di Michael Page, vicedirettore di Human Rights Watch l'area MENA (Medio Oriente e Nord Africa). Le testimonianze riportate da HRW si riferiscono in particolare al carcere di Dhabhan, a nord di Gedda, e a un'altra prigione definita segreta. In uno dei messaggi di testo riportati, una guardia carceraria menziona per nome una importante attivista saudita per i diritti delle donne che le autorità saudite hanno arrestato in un'ampia repressione iniziata nel maggio 2018. Al momento Human Rights Watch sta nascondendo il suo nome.

ABUSI SESSUALI «In una delle sue sessioni di tortura, ha perso conoscenza ed eravamo tutti terrorizzati - è la trascrizione - Temevamo che fosse morta e che ci saremmo assunti la responsabilità perché le istruzioni erano di non uccidere nessuno dei detenuti, uomini o donne». In un altro messaggio di testo, la guardia carceraria ha fatto riferimento alle molestie sessuali che durante gli interrogatori sauditi hanno inflitto alla nota avvocatessa. «Loujain al-Hathloul - si legge - È stata sottoposta a molestie sessuali senza precedenti. Si divertivano a insultarla è la prosecuzione La prendevano in giro dicendo che è libera e non le dispiacerebbe essere molestata, come infilando le mani nella sua biancheria intima o toccandole le cosce o sputandole e urlandole parole degradanti». Già nel novembre 2018, le ong per i diritti umani aveva iniziato a segnalare violenze e torture nelle carceri saudite.

Stefano de Paolis per l'ANSA il 29 dicembre 2020. Loujain al-Hathloul, 31 anni, attivista per i diritti umani, è divenuta nota in tutto il mondo per aver fatto campagna a favore del diritto delle donne del suo Paese, l'Arabia Saudita, a guidare l'automobile. Nel maggio del 2018, pochi mesi prima di vedere quel diritto finalmente riconosciuto, Loujain è stata però arrestata, con pesanti accuse. Ora, dopo oltre due anni e mezzo dietro le sbarre, è stata condannata da un Tribunale penale istituito per processare casi di terrorismo: cinque anni e otto mesi di prigione. La sentenza, secondo fonti di stampa saudite, riguarda l'accusa di "incitamento a cambiare il regime di governo del regno e aver cooperato con individui ed entità per portare avanti un'agenda straniera". Parte della condanna, due anni e dieci mesi, è stata però sospesa, a patto che al-Hathloul "non commetta altri crimini per altri tre anni", ha riferito sua sorella, Lina al-Hathloul. E questa riduzione, unita al tempo già passato in carcere, potrebbe far sì che la donna sia liberata "nei prossimi due mesi", ha scritto Lina su Twitter. Organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno accusato le autorità saudite di aver arrestato al-Hathloul e alcune altre attiviste saudite in seguito alla loro campagna per garantire alle donne il diritto di guidare. Accuse che le autorità hanno sempre respinto, come hanno sempre respinto le affermazioni secondo cui al-Hathloul nel corso della detenzione ha dovuto subire torture, con scosse elettriche, frustate e molestie sessuali, oltre ad essere stata confinata in isolamento totale per oltre tre mesi dopo l'arresto. Secondo la sua famiglia, le sarebbe stata peraltro offerta la libertà se avesse accettato di dire che non era stata torturata. La vicenda ha contribuito ad aumentare la pressione internazionale sulle autorità saudite già accusate a più riprese di disprezzo dei diritti umani, in particolare dopo l'atroce assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, in cui è stato implicato perfino il leader di fatto del Regno, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, noto come MBS. L'imminente liberazione di al-Hathloul potrebbe ora allentare la tensione e Riad potrebbe trarne giovamento specie alla vigilia dell'insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden, che avrà una politica sul rispetto dei diritti umani con ogni probabilità ben più severa rispetto al presidente uscente, Donald Trump.

Chi sono i sauditi e perché sono importanti. Giovanna Pavesi su Inside Over il 26 giugno 2021. La dinastia saudita, per come il mondo la conosce oggi, è il “risultato” di secoli di storia, intrighi, battaglie e conquiste durate anni. Istituita dal sultano del Najd, Abd al-Aziz Al Sa ‘ud, governa dal 1926 il regno arabo saudita, nato dopo la vittoriosa annessione al sultanato del regno hascemita del Hijaz. La realtà saudita, da sempre, intreccia potere, politica e religione, ma soprattutto negli ultimi anni è stata il baricentro economico non solo dell’Asia occidentale (di cui fa parte), ma di tutto il mondo. Dietro ai Saud, che “prestano” il nome a una delle più influenti famiglie della contemporaneità, c’è la storia di un Paese, dei suoi nemici e dell’odierna Arabia Saudita, pedina fondamentale e composita dello scacchiere politico internazionale. Le sue origini sono da collocare tra il 1446 e il 1447, quando il clan dei Mrudah si stabilì nella Penisola Arabica. Quello fu il primo fondamentale tassello a cui, però, seguirono la fondazione dell’Emirato di Dir ‘iyya nel 1774, del Najd nel 1818 e, infine, la fondazione del Regno dell’Arabia Saudita nel 1932. Ma per comprendere meglio la complessa struttura dello Stato contemporaneo è necessario partire dalle sue origini e soprattutto dai suoi antenati. Tutti appartenenti al clan dei Mrudah.

Le origini: gli antenati dei sauditi. Il primo “antenato” della dinastia saudita di cui gli storici e gli esperti hanno informazioni certe è Mani ibn Rabi al-Muraydi, che si stabilì a Diriyya tra il 1446 e il 1447, con il suo clan, quello dei Mrudah. Secondo quanto riportato dalla tradizione, tutto iniziò quando Mani venne invitato da un parente (che governava una serie di villaggi nella zona che oggi corrisponde a Riad) a visitare l’area che la sua famiglia controllava. Ibn Dir diede a Mani le proprietà di al-Mulaybid e Ghusayba, in cui lo fece insediare con la sua famiglia. Mani, una volta stabilitosi in quella zona, chiamò la regione al Diriyya, in omaggio al parente benefattore, Ibn Dir. I Mrudah divennero quindi i sovrani di al-Diriyya, dominio che prosperò tra i corsi d’acqua nella Wadi Hanifa e che divenne un importante insediamento nel Najd (regione che, attualmente, si trova al centro dell’Arabia Saudita). E se all’inizio la spartizione del potere all’interno del clan risultava facilmente governabile, con la crescita della dinastia iniziarono a emergere le prime lotte per il potere. Così uno dei due rami della famiglia partì per Dhruma, mentre gli al Watban lasciarono la regione e si diressero nella città di al-Zubayr, nell’Iraq meridionale. La famiglia degli al-Muqrin (il cui nome derivava dallo shaykh Sa ‘ud ibn Muhammad ibn Muqrin, che morì nel 1725) , in seguito, divenne sovrana tra i Mrudah di Diriyya.

Il primo Stato saudita e il wahhabismo. Il primo vero Stato saudita venne fondato ufficialmente nel 1774, durante un periodo di grandi cambiamenti storici e di conquiste (anche religiose). Alla sua massima estensione, l’Emirato di Dir ‘iyya comprendeva la maggior parte dell’attuale Arabia Saudita e si imponeva come un luogo di dominatori. Spinti da tanto potere, alleati, seguaci e sostenitori dei sauditi, in quel periodo storico, si resero protagonisti di incursioni nello Yemen, in Oman, in Siria e in Iraq. E se l’ascendente era forte sul piano politico e di conquista, anche la religione iniziò a giocare un ruolo decisivo in quell’area. Studiosi ed esperti di islam ritengono infatti che, nel periodo di espansione, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un arabo della tribù sedentaria dei Banu Tamim, e i suoi discendenti abbiano avuto un importante (e decisivo) ascendente sul governo saudita di quel periodo. Fu così che i sauditi e i loro alleati, che si riferivano a loro stessi come muwahhidun (parola che significa “monoteisti”), vennero definiti wahhabiti (dal nome del fondatore) e si riconobbero in un gruppo di musulmani sunniti particolarmente osservanti. Il wahhabismo, che si sviluppò come movimento di riforma religiosa all’interno della comunità islamica sunnita hanbalita, è stato per oltre due secoli il credo dominante nella Penisola Arabica ed è ancora una componente identitaria importante dell’Arabia Saudita. Nei fatti, da sempre, il wahhabismo costituisce una forma estremamente rigida di islam, che insiste su un’interpretazione quasi letterale del Corano. Intanto, comunque, il potere della dinastia Saud si consolidò senza particolari difficoltà e così, al primo imam, Muhammad ibn Sa ‘ud, succedette il figlio maggiore, ‘Abd al-Aziz Muhammad Sa ‘ud, nel 1765.

L'attacco di Karbala e le conseguenze. Nel 1802, ‘Abd al-Aziz Muhammad Sa ‘ud guidò un esercito di 10mila soldati wahhabiti nella città santa di Karbala, nell’odierno Iraq meridionale, dove nel 680 venne ucciso Hosein, nipote del profeta Maometto e una delle figure più importanti dell’islam sciita. In quella circostanza, i soldati di Sa ‘ud uccisero più di 2mila persone, saccheggiarono la città e demolirono l’imponente cupola dorata posta sulla tomba di Hosein. Da quel luogo, i sauditi portarono via di tutto: oggetti preziosi, gioielli, armi, monete e altri beni di valore. L’attacco di Karbala, che non si risolse soltanto in una comune questione bellica, ebbe una risonanza religiosa determinante e convinse egiziani e ottomani a ritenere i sauditi una minaccia alla pace della regione. ‘Abd al-Aziz venne ucciso nel 1803, secondo alcuni da uno sciita che cercava vendetta per quanto accaduto a Karbala l’anno prima, e a lui succedette il figlio Sa ‘ud. E fu proprio con quest’ultimo che lo Stato saudita raggiunse la sua massima estensione storica. Quando Sa ‘ud morì nel 1814, il suo successore, ‘Abd Allah, si trovò costretto ad affrontare l’invasione ottomano-egiziana, lanciata con lo scopo di recuperare il territorio ottomano perduto in precedenza. ‘Abd Allah venne sconfitto e fatto prigioniero dalle truppe egiziane, che in seguito presero anche la capitale Dir ‘iyya, nel 1818. L’Emirato di Dir ‘iyya finì con la sua decapitazione da parte degli ottomani a Istanbul e la distruzione egiziana della capitale Dir ‘iyya. Alcuni membri del clan saudita vennero poi mandati dagli egiziani nell’attuale Turchia e in Egitto.

Il secondo Stato saudita: l'Emirato del Najd. Alcuni anni dopo la caduta di Dir ‘iyya, nonostante le esecuzioni e gli arresti, i sauditi riuscirono a ristabilire la loro autorità nella regione del Najd, fondando l’Emirato del Najd, con capitale Riad. Quello fu ufficialmente il secondo Stato saudita. Rispetto all’Emirato di Dir ‘iyya, l’espansione territoriale del Najd fu sicuramente più ridotta (non ci fu la riconquista di Hegiaz o di Asir, per esempio) e un’altra differenza sostanziale fu un’osservanza certamente minore del credo religioso, nonostante i governanti sauditi continuassero a utilizzare il titolo di imam e ad avvalersi di studiosi salafiti per l’interpretazione del testo sacro. A segnare il lungo regno furono anche diverse tensioni interne alla famiglia saudita, che provocarono la caduta della dinastia. E così dopo alcuni conflitti e una guerra civile, il primo a tentare di riprendere il potere dopo la caduta di Dir ‘iyya fu Mishari ibn Sa ‘ud, fratello dell’ultimo sovrano della capitale.

Il fondatore della seconda dinastia. Nel 1824, Turki ‘Abd Allah, un saudita che riuscì a evitare la cattura da parte degli egiziani, riuscì a espellere questi ultimi e i loro alleati locali da Riad. Grazie a quel gesto, Turki, nipote del primo imam saudita, Muhammad ibn Sa ‘ud,  iniziò a essere considerato ifondatore della seconda dinastia saudita e, in base alle analisi degli studiosi, sarebbe il vero antenato dei sovrani sauditi attuali. Fece di Riad la capitale e decise di accogliere lì molti parenti fuggiti dalla prigionia in Egitto, compreso suo figlio Faysal. Turki venne ucciso nel 1834 da un lontano cugino, Mihari ibn ‘Abd al-Rahman, che fu condannato a morte da Faysal, il quale alla morte del padre divenne il più importante sovrano saudita del secondo regno. A quattro anni dalla sua nomina, Faysal affrontò una seconda invasione del Najd da parte degli egiziani. Ma in quella circostanza, la popolazione locale non reagì, né resistette e Faysal venne sconfitto e fatto prigioniero in Egitto nel 1838.

L'insediamento di Khalid e il ritorno di Faysal. Dopo l’allontanamento di Faysal, gli egiziani fecero diventare sovrano di Riad Khalid ibn Sa ‘ud, sostenendolo con il loro apparato militare. Questi era sì l’ultimo fratello ancora in vita dell’ultimo imam del primo Stato saudita, ma aveva anche passato diverso tempo alla corte egiziana. Nel 1840, l’avvio di nuovi conflitti esterni costrinse gli egiziani a ritirarsi completamente dalla Penisola Arabica, lasciando Khalid ibn Sa ‘ud solo e poco supportato. Percepito come un governatore a tutti gli effetti egiziano e solo ufficialmente saudita, fu spodestato poco tempo dopo da ‘Abd Allah ibn Thumiyyan, del ramo familiare degli Al Thuniyyan. Faysal, liberato nello stesso periodo, riuscì a riprendersi Riad, ad assumere il controllo della zona e a designare suo figlio ‘Abd Allah come principe ereditario, anche se divise i suoi domini tra tutti suoi eredi: ‘Abd Allah, Sa ‘ud e Muhammad. Alla morte di Faysal, nel 1865, ‘Abd Allah assunse il governo di Riad, ma il fratello Sa ‘ud lo sfidò. Un’altra guerra civile insanguinò lo Stato e la sovranità della città passò da un fratello all’altro. Tuttavia, in precedenza, un vassallo dei sauditi che apparteneva alla famiglia Al Rashid, colse nella crisi familiare l’opportunità di inserirsi e di intervenire nel conflitto, accrescendo così il proprio potere. Ibn Rashid, poco alla volta, estese la propria autorità su tutta la regione del Najd, inclusa la capitale Riad, ed espulse l’ultimo leader saudita, dopo la battaglia di Mulayda nel 1891.

L’ascesa di Ibn Sa ‘ud e la nascita dell’Arabia Saudita. Dopo la sconfitta a Mulayda, ‘Abd al-Rahman ibn Faysal fu costretto all’esilio con la sua famiglia, nel deserto dellArabia orientale, tra gli appartenenti alla comunità beduina di al-Murra, e in seguito si rifugiò in Kuwait, ospite dell’emiro Mubarak al Sabah. Nel 1902, suo figlio, ‘Abd al-Aziz si impegnò a ripristinare la sovranità saudita a Riad. Sostenuto da una decina di seguaci e accompagnato da altri membri della sua cerchia familiare, ‘Abd al-Aziz riuscì a impossessarsi del forte Masmak e a uccidere il governatore  nominato da Ibn Rashid. Secondo quanto riporta il racconto, ‘Abd al-Aziz, soltanto con una manciata di soldati, riuscì a prendere il palazzo e venne immediatamente proclamato sovrano di Riad e come nuovo capo della dinastia saudita, ‘Abd al-Aziz divenne allora Ibn Sa ‘ud.

Abd al-Aziz dell’Arabia Saudita è stato il fondatore e primo sovrano del Paese. Nei trent’anni successivi provò a ristabilire la sovranità della sua famiglia nella Penisola Araba, iniziando dalla regione del Najd (dalla quale proveniva il clan). Tra i suoi principali rivali c’erano, ovviamente, il clan al Rashid ad Hali (al quale, di fatto, aveva sottratto la sovranità), lo sharif della Mecca in Hijaz, i turchi ottomani ad al-Hasa e il ramo “Sa ‘al-Kabir” della famiglia, cioè i discendenti di Sa ‘ud ibn Faysal, zio di Ibn Sa ‘ud ormai scomparso, i quali si definivano i legittimi eredi al trono. Per un po’, Ibn Sa ‘ud riconobbe la sovranità dei sultani ottomani, ma scelse infine di schierarsi contro di loro, al fianco dei britannici. Con il trattato di Darin, che venne firmato nel 1915, i territori di Ibn Sa ‘ud diventarono ufficialmente un protettorato britannico (e li rimasero fino al 1927). ‘Abd al-Aziz conquistò il Najd nel 1922 e l’Hijaz nel 1925. E da sultano del Najd diventò prima re del Hijaz e Najd e poi, nel 1932, si autoproclamò re del Regno dell’Arabia Saudita. Negli anni successivi, una serie di importanti scoperte, svelarono le potenzialità di quei territori. Nel 1937, per esempio, vicino a Dammam, alcuni periti americani scoprirono l’enorme riserva petrolifera che, negli anni a seguire, avrebbe fatto la fortuna del Paese. Intanto, Ibn Sa ‘ud, che si sposò e divorziò diverse volte, ebbe 12 figli ed entrò a far parte di diversi clan e tribù del suo territorio (tra cui le tribù Banu Khalid, Ajman, Shammar e al-Shaykh, discendenti di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab). Scelse di indicare il suo figlio maggiore, Sa ‘ud, come suo possibile erede, a cui sarebbe dovuto succedergli Faysal. La famiglia saudita venne riconosciuta a tutti gli effetti come una famiglia reale e ogni suo membro, maschio o femmina che fosse, venne insignito del titolo di amir e amira (in arabo, principe e principessa). Nel 1945, Ibn Sa ‘ud volle consolidare la sua alleanza con gli Stati Uniti, legame che ha retto per tutto il Novecento. Morì nel 1953 ed è tuttora celebrato ufficialmente come il padre fondatore dello Stato. La data della riconquista di Riad, nel 1902, venne scelta per celebrare il centenario dell’Arabia Saudita. Oggi, soltanto i suoi discendenti possono prendere il titolo di altezza reale.

L'attuale dinastia. Alla morte di Ibn Sa ‘ud, il figlio Sa ‘ud salì al trono senza troppe difficoltà, ma la sua gestione economica della casa reale portò a una lotta interna per il potere con il nuovo principe ereditario Faysal. Così, nel 1964, la famiglia reale, aiutata da un responso giuridico del gran mufti del Paese, obbligò Sa ‘ud ad abdicare in suo favore. Nello stesso periodo, alcuni dei figli più giovani di Ibn Sa ‘ud scelsero di abbandonare la famiglia ed entrare in Egitto con l’appellativo di “principi liberi”. Faysal li convinse a tornare indietro, ma la scelta di lasciare il Paese li escluse da futuri ruoli di governo. Il sovrano morì assassinato nel 1975, per mano del nipote Faysal ibn Musa ‘id (che venne giustiziato subito dopo) e salì al trono Khalid, un altro fratello (anche se il principe designato sarebbe stato Muhammad, che però rinunciò), che però morì per un attacco di cuore nel 1982. Gli successe Fahd, il più vecchio dei potenti “sette Sudayri“, chiamati in questo modo perché figli di Ibn Sa ‘ud e Hassa al-Sudayri. Nel 1986, Fahd decise di eliminare il precedente trattamento reale di “sua Maestà” e lo sostituì con il “Custode delle Due Sacre Moschee“, in riferimento alle città sante sunnite della Mecca e di Medina. Nel 1995, Fahd ebbe un infarto che lo rese fisicamente disabile e il principe ereditario, ‘Abd Allah, gradualmente, assunse molte delle responsabilità del re, fino alla sua morte, che avvenne nell’agosto del 2005. ‘Abd Allah venne proclamato sovrano nel giorno del decesso del padre e subito nominò suo fratello più giovane, Sultan bin ‘Abd al-‘Aziz, che era ministro della Difesa e secondo vice primo ministro, come nuovo successore. Il 27 marzo del 2009, ‘Abd Allah nominò il principe Nayef ministro degli Interni, secondo vice primo ministro e, infine, principe ereditario il 17 ottobre del 2011. Sultan morì nello stesso periodo, mentre Nayef terminò la sua vita a Ginevra, in Svizzera, il 15 giugno del 2012. Il 23 gennaio 2015, ‘Abd Allah, dopo nove anni di regno, si spense a causa di una lunga malattia. Così, il principe ereditario Salman bin ‘Abd al-Aziz al Sa ‘ud fu proclamato nuovo re. È attualmente il sovrano del Paese ed è di tendenza conservatrice. Per quanto più restio al cambiamento sociale e alle riforme politiche, è previsto che il re continui sul sentiero tracciato dal suo predecessore, che teneva alla modernizzazione, ma che supervisionò un regime criticato per lo scarso rispetto dei diritti umani. Il 21 giugno 2017, il sovrano ha nominato suo figlio, il 35enne Mohammad bin Salman al Sa ‘ud, erede apparente e, come principe ereditario, è il primo nella linea di successione al trono.

La successione e la gestione del potere. Il re dell’Arabia Saudita è, a tutti gli effetti, il capo di Stato del Paese e il monarca del regno, ma è anche e soprattutto il capo della famiglia saudita. I monarchi che, nel tempo, si sono succeduti dopo la morte del fondatore sono tutti suoi figli, in ottemperanza alla legge araba, la quale prevede che alla successione di un’istituzione sia chiamato il componente più anziano della famiglia. Lo decide un’assemblea del nucleo, che sceglie l’erede dalla generazione del predecessore o da quella immediatamente successiva, privilegiando non tanto e non sempre il figlio di un sovrano deceduto, quanto il più anziano membro della famiglia. A differenza delle famiglie reali occidentali, la monarchia saudita non ha un ordine di successione ben definito. Tuttavia, una volta diventato re, il sovrano designa il proprio erede al trono (che diventa quindi il principe ereditario del regno). Alla morte del re, quest’ultimo dovrebbe prendere il suo posto e in caso di assenza di poteri del monarca è sempre lui ad assumerne le facoltà. In ogni caso, il re detiene un potere politico quasi assoluto e nomina i ministri del suo ufficio. I dicasteri decisivi sono, da sempre, la Difesa, gli Interni, gli Esteri e quasi tutti i 13 posti di governatore regionale sono riservati agli al Saud. In genere, la maggior parte dei portafogli, come quello per le Finanza, il Lavoro, l’Informazione, le Pianificazioni, gli Affari petroliferi e l’Industria vengono affidati a cittadini comuni, affiancati da vice appartenenti alla dinastia. La famiglia al Saud detiene anche la maggior parte delle cariche più importanti (militari e governative), anche se il supporto degli ulama, cioè i teologi islamici più importanti, e di parte della popolazione risultano fondamentali per il mantenimento e la gestione del potere. Le varie cariche di governo di lunga durata hanno tramandato la creazione di veri e propri feudi dove i principi più anziani hanno mescolato le loro ricchezze private con quelle dei rispettivi domini, intrecciando ancora di più politica e dinastia.

L'opposizione e i dissidenti. Considerata a capo di un governo autoritario e teocratico, l’attuale dinastia saudita è stata spesso oggetto di molte critiche per il trattamento della dissidenza e lo scarso rispetto dei diritti umani. Gli oppositori dei Saud hanno spesso definito la monarchia un sistema di governo dittatoriale e totalitario. Ed è vero che, negli anni, diverse forme di resistenza si sono opposte alla gestione autoritaria dei Saud e la risposta della famiglia reale è stata oggetto di critiche internazionali. Il 20 novembre del 1973, per esempio, il santuario alla Mecca venne occupato da 500 dissidenti armati (in particolare uomini della tribù Ikhwan degli Otayba), compresi alcuni egiziani che frequentavano l’università islamica di Medina. L’occupazione venne guidata da Juhayman al-Otaybi e ‘Abd Allah al-Qahtani, i quali denunciavano la corruzione e l’immoralità del governo saudita (“colpevole” della sua modernizzazione socio-tecnologica e di vendere il petrolio all’America). Il gesto ebbe poco seguito al di fuori del gruppo che inscenò la protesta e la famiglia saudita si rivolse agli ulama per risolvere la questione. I religiosi decisero di emettere una fatwa, che autorizzava l’assalto al santuario da parte delle forze armate saudite, aiutate da soldati francesi e pachistani, che impiegarono due settimane per far uscire i ribelli dal luogo sacro. In quella circostanza, tutti i sopravvissuti, compreso al-Otaybi, vennero condannati alla pena capitale e decapitati pubblicamente. Attualmente, non sembrano del tutto chiare le modalità con cui sono trattati gli oppositori politici. Rimane, infatti, ancora un parzialmente un mistero, la fine del giornalista del Washington post e dissidente saudita, Jamal Khashoggi, ucciso e fatto sparire in Turchia nell’autunno del 2018, mentre si trovava all’interno dell’ambasciata del regno.

La ricchissima (e influente) famiglia Saud. Secondo quanto riportato da un articolo dell’agosto del 2019 del Corriere della sera, quella di re Salman risulta essere una delle famiglie più ricche del mondo. E non è corretto ridurre il motivo di tanta ricchezza soltanto alle vaste riserve di petrolio (che fruttano una fortuna stimata in 100 miliardi di dollari): molte delle persone appartenenti a questo nucleo familiare, negli anni, hanno accumulato beni e fortune attraverso l’intermediazione di contratti governativi e fondiari e creando imprese che servono, per esempio, aziende statali. Soltanto il principe ereditario, infatti, controlla personalmente beni per oltre un miliardo di dollari.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. Le vie del deserto sembrano particolarmente trafficate. Specialmente quelle che conducono sotto la tenda del principe Mohammed bin Salman, l'uomo forte dell'Arabia saudita - e mandante diretto, secondo la stessa Cia, dell'assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Sono soprattutto gli ex primi ministri europei che non sembrano avere particolari esitazioni a stringere la mano insanguinata di MBS (sigla con cui è conosciuto il principe). Del nostro Matteo Renzi sapevamo già, così come delle sue lodi al «rinascimento saudita» (per maggiori informazioni, chiedere alla vedova Khashoggi); ma adesso si scopre che a godere dell'ospitalità di Bin Salman, addirittura in campeggio fra le dune, è stato pure l'ex premier britannico David Cameron, volato lì in qualità di lobbista della Greensill Capital, la discussa società finanziaria di cui era diventato consulente dopo aver lasciato Downing Street. Il viaggio, ha raccontato il Financial Times , sarebbe avvenuto all'inzio del 2020, subito prima dello scoppio della pandemia. Ma Cameron era andato a Riad già nell'ottobre del 2019, per partecipare alla cosiddetta «Davos del deserto»: una visita che era avvenuta un anno dopo l'omicidio Khashoggi e che già Amnesty International aveva criticato perché poteva «essere interpretata come una dimostrazione di supporto per il regime saudita» nonostante «gli spaventosi precedenti in tema di diritti umani». Considerazioni che evidentemente non hanno impedito a Cameron (e dopo di lui a Renzi) di fraternizzare col despota mediorientale. D'altra parte, gli ex premier sono di bocca buona: il loro modello sembra essere Tony Blair, che dopo aver lasciato la politica attiva ha fatto da consulente ai peggiori regimi, da quello egiziano di Al-Sisi a quelli dei satrapi centro-asiatici. Ma come si sa, pecunia non olet : e Cameron dall'attività di lobbista per la Greensill Capital, esercitata tanto con i sauditi che col governo di Londra, si apprestava a incassare 60 milioni di sterline. La finanziaria però è crollata per le sue dubbie pratiche d'affari e ora a Londra si reclama a gran voce che Cameron risponda a parecchie domande.

 “Renzi in Arabia? I parlamentari non prendano soldi dai governi stranieri”. Calenda: "Metà del mondo non è democratico e bisogna averci a che fare, ma attraverso le relazioni diplomatiche, non incassando soldi personalmente mentre si è pagati dai cittadini italiani. Questo è il punto". Il Dubbio martedì 2 marzo 2021. “Invece di continuare questa discussione all’infinito sarebbe meglio varare una norma che vieti ad un rappresentante in carica di percepire soldi direttamente o indirettamente da un governo straniero”. Lo dice Carlo Calenda, leader di Azione ed europarlamentare, intervistato dal Corriere della Sera, sulla partecipazione di Matteo Renzi alla "Davos nel deserto" a Riad. Renzi è membro del board del Future investment initiative voluta da Mohammed bin Salman, da cui riceverebbe un compenso annuo di 80 mila euro. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha indicato nel principe ereditario dell’Arabia Saudita il mandante del rapimento e dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Renzi ha definito l’Arabia un “baluardo contro l’estremismo islamico, uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni”. “Difendersi menzionando i rapporti tra governi vuol dire buttare la palla fuori campo – sostiene Calenda -. Metà del mondo non è democratico e bisogna averci a che fare, ma attraverso le relazioni diplomatiche, non incassando soldi personalmente mentre si è pagati dai cittadini italiani. Questo è il punto”.

"Contro di me odio e vendetta dei pm rossi orfani di Conte". Premessa: senatore Matteo Renzi, lei parla di vaccini, di giustizia, o d'altro, per non rispondere alle critiche per i suoi rapporti con l'Arabia Saudita? Augusto Minzolini - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale.

Premessa: senatore Matteo Renzi, lei parla di vaccini, di giustizia, o d'altro, per non rispondere alle critiche per i suoi rapporti con l'Arabia Saudita?

«È vero il contrario. Stanno strumentalizzando la tragedia di Kashoggi perché non hanno altro a cui aggrapparsi in Italia. Nel merito ho risposto su tutti i giornali, dal Financial Times a Le Monde: ciò che faccio può essere discusso da chiunque, ma è perfettamente lecito, pubblico e legittimo. La questione saudita è stata posta da quel noto statista di Di Battista, uno che apprezzava Maduro e definiva Obama golpista e non capisce che l'Arabia è il baluardo contro il fondamentalismo. E ovviamente dai più rancorosi del Pd. Credo di essere la loro ossessione. Se parlassero un po' più di idee e un po' meno di me, ci guadagnerebbero almeno in salute».

Il più duro, però, è stato uno degli esponenti di primo piano di Magistratura Democratica, Nello Rossi. È arrivato a dire che bisognerebbe «stringere un cordone sanitario» intorno a Matteo Renzi...

«Nello Rossi è uno degli esponenti più in vista di Magistratura democratica. Si può dire che ne è stato l'ideologo. Un personaggio che ha un lungo passato come magistrato. Ascoltatissimo ed influente non solo nella sua corrente. Non so, andrebbe approfondito, se nella sua carriera è mai venuto in contatto con il cosiddetto sistema Palamara, quello raccontato nel libro scritto con Sallusti. Ebbene, l'uso dell'espressione cordone sanitario nei confronti di una persona che ha un ruolo nelle istituzioni parlamentari, che ricopre una carica importante in un partito della maggioranza di governo e che in passato è stato anche presidente del Consiglio, lo trovo a dir poco allucinante. Resto allibito ma non sorpreso, perché avverto un clima di odio e di rabbia che cova in una parte dell'establishment di questo Paese rimasto legato agli equilibri del governo passato che non si dà per vinto...».

Dai veleni alle querele. Il caso Arabia Saudita scuote la maggioranza. Pd e grillini contro l'alleato Renzi per i rapporti con Riad. E lui denuncia Travaglio. Paolo Bracalini - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Con una maggioranza che va dal Pd alla Lega, passando per Forza Italia e Cinque stelle, il tasso potenziale di litigiosità è enorme. Le tensioni non sono ancora esplose in modo fragoroso ma agitano le acque fin dal primo giorno di insediamento di Draghi e si stanno facendo sentire in particolare sull'asse M5s-Iv-Pd. La presenza di Renzi, il disgregatore della precedente maggioranza di Conte, è un forte elemento perturbatore, soprattutto per i Cinque stelle alle prese con la scissione della corrente di Di Battista, ma con scosse anche dentro il Pd. Il punto è ancora il rapporto tra il leader di Italia Viva e l'Arabia Saudita, visto che Renzi svolge un incarico (retribuito) di conferenziere e membro dell'advisory board del FII Institute, un organismo controllato dal fondo sovrano saudita Saudi public investment Fund (Pif) presieduto dal principe Mohammad bin Salman. La vicenda è riesplosa dopo il rapporto della Cia che accusa espressamente il principe ereditario bin Salman per l'omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi. La nuova autodifesa di Renzi («L'Arabia Saudita è un baluardo contro l'estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell'Occidente da decenni») ha scatenato le critiche degli alleati, dal Pd («È irresponsabile dal punto di vista morale e istituzionale ricevere un compenso economico da una dittatura straniera mentre si svolgono le funzioni di Senatore» attacca Andrea Romano) e dai Cinque stelle che definiscono «una farsa» la spiegazione di Renzi e chiedono che «convochi formalmente una conferenza stampa per rispondere alle domande dei giornalisti, piuttosto che fare comodi monologhi» scrivono i deputati M5s della commissione Esteri. L'ex M5s Alessandro Di Battista chiede le dimissioni del leader Iv dalle colonne del Fatto, quotidiano vicino alla galassia grillina che titola: «Renzi d'Arabia si tiene i soldi insanguinati». Articoli che fanno partire l'ennesima querela del senatore di Rignano, che pubblica una foto con tenuta e casco da bici accompagnata dal commento: «Oggi è una giornata bellissima, con un sole che scalda il cuore. Non è il giorno giusto per fare polemica o per arrabbiarsi. È sempre il giorno giusto, invece, per citare in giudizio Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano vista l'ennesima aggressione di questa mattina. Non c'è da arrabbiarsi. Solo prendere nota, denunciare e aspettare le sentenze. Il tempo è galantuomo». La convivenza tra Renzi e grillini insieme nel governo Draghi si annuncia movimentata. Ma non c'è solo quello a far traballare la maggioranza, anche il passaggio di due big del Pd come Pier Carlo Padoan e Marco Minniti dalla politica rispettivamente a Unicredit e Leonardo-Finmeccanica, alimenta le polemiche sulle porte girevoli tra politica e interessi privati. Anche qui ad alimentarle è Di Battista, tornato alla carica come disturbatore dell'asse tra grillini e Pd, un nervo scoperto del Movimento sopratutto ora che i vertici intendono consegnare il M5s a Conte proprio con l'obiettivo di saldare l'alleanza a sinistra anche alle prossime scadenze elettorali. Un abbraccio con il «partito di Bibbiano» che è indigesto per molti elettori grillini, e sui cui soffia Dibba: «Due ex ministri del governo Gentiloni, prima Padoan e ora Minniti, sono passati dall'essere deputati a incarichi per imprese attive nei settori di cui si occupavano da ministri. È tutto a norma di legge, ma in un Paese normale non dovrebbe accadere».

Da ansa.it il 28 febbraio 2021. "Ricevo molti attacchi da PD, Leu e soprattutto Cinque Stelle che, strumentalizzando una tragedia come quella dell'uccisione del giornalista saudita Khashoggi, mi invitano a chiarire rispetto alla mia partecipazione all'evento 'Neo-Renaissance' di Riyad". Lo scrive Matteo Renzi sua enews, rispondendo alle polemiche. A chi gli chiede se svolga "attività stile conferenze o partecipazione ad advisory board o attività culturali o incarichi di docente presso università fuori dall'Italia", Renzi risponde che "sì" lo fa, che "sono previste dalla legge" e che riceve "un compenso sul quale pago le tasse in Italia. La mia dichiarazione dei redditi è pubblica. Tutto è perfettamente legale e legittimo", spiega. Poi, parlando del programma Vision2030, Renzi spiega che "rispettare i diritti umani è una esigenza che va sostenuta in Arabia Saudita come in Cina, come in Russia, come in tutto il Medio Oriente, come in Turchia. Ma chi conosce il punto dal quale il regime saudita partiva sa benissimo che Vision 2030 è la più importante occasione per sviluppare innovazione e per allargare i diritti". Riguardo la vicenda Khashoggi,  afferma ancora, "ho condannato già tre anni fa quel tragico evento -e l'ho fatto anche nelle interviste" e "su tutti i giornali del mondo. Difendere i giornalisti in pericolo di vita è un dovere per tutti. Io l'ho fatto sempre, anche quando sono rimasto solo, come nel Consiglio Europeo del 2015, per i giornalisti turchi arrestati. Difendere la libertà dei giornalisti è un dovere, ovunque, dall'Arabia Saudita all'Iran, dalla Russia alla Turchia, dal Venezuela a Cuba, alla Cina". "Sì. Non solo è giusto, ma è anche necessario. L'Arabia Saudita è un baluardo contro l'estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell'Occidente da decenni. Anche in queste ore - segnate dalla dura polemica sulla vicenda Khashoggi - il Presidente Biden ha riaffermato la necessità di questa amicizia in una telefonata al Re Salman. Ma Biden ha chiesto giustamente di fare di più. Soprattutto sulla questione del rispetto dei giornalisti", ha aggiunto Renzi.

Perché Md si occupa delle visite a Riad se non c’è nulla di illecito? Non solo M5S, Pd e Leu. Anche Magistratura democratica punta il dito contro Matteo Renzi per le conferenze saudite. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 2 marzo 2021. Non solo M5S, Pd e Leu. Anche i magistrati puntano il dito contro Matteo Renzi per le conferenze saudite. O meglio, una parte della magistratura organizzata, Md (la corrente di sinistra delle toghe) che sulla sua rivista on line Questione giustizia ospita un articolo dal titolo più che eloquente: «Legittimare un despota? E per un piatto di lenticchie?». A firmarlo è il direttore Nello Rossi, già avvocato generale presso la Corte di cassazione ed ex membro del Csm. «Se l’Italia vuole conservare un accettabile grado di credibilità nel contesto internazionale, deve stringere un cordone sanitario intorno a sortite come quella ‘ araba’ di Matteo Renzi, ricordandogli che essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica e che essere parlamentari di una Repubblica democratica non è compatibile eticamente e politicamente – con l’adulazione dei despoti», scrive il magistrato in quiescenza. Ma è proprio questo il punto: perché un magistrato, seppur in pensione, si occupa di politica e di etica sulla rivista di una corrente dell’Anm? Cosa sarebbe accaduto a parti invertite, se cioè fosse stato un politico, seppur non più in attività, ad attaccare un magistrato nel pieno delle sue funzioni? Il problema non riguarda il punto di vista di Nello Rossi, che può essere condivisibile o meno, ma l’opportunità delle parole pronunciate da chi non dovrebbe curarsi di questioni attinenti alla giustizia. Altrimenti i campi si mescolano fino a diventare indistinti e un potere costituzionalmente riconosciuto rischia di prevaricare su un altro. E come nel caso di Renzi a Riad: anche per Nello Rossi nulla di illecito, tanto di sconveniente.

Raphael Zanotti per "La Stampa" il 3 marzo 2021. Quando parliamo delle armi che l' Italia ha venduto all' Arabia Saudita durante il governo Renzi riportiamo cifre, citiamo report, mostriamo grafici. Ma la morte non è mai una somma aritmetica. Alle 3 del mattino dell' 8 ottobre 2016 la famiglia Al Ahdal stava dormendo nella sua abitazione a Deir Al-Hajari, piccola cittadina nello Yemen nord occidentale, quando una bomba sganciata da un caccia dell' aviazione saudita ha raso al suolo la loro casa. Husni, sua moglie Qaboul - incinta al quinto mese - e i figli Taqia, Fatima, Sarah e Mohammed sono morti nel sonno, dilaniati da un ordigno venduto all' Arabia Saudita. Tra i calcinacci e i giochi dei bambini sono stati trovati i resti di una bomba MK80. Il sistema di guida intelligente non ha saputo distinguere la casa degli Al Ahdal dal checkpoint militare che distava 300 metri dalla loro camera da letto. Un anello di sospensione, componente bellico necessario per caricare la bomba sull' aereo, riportava la sigla della Rwm Italia, la ditta autorizzata dal nostro governo a vendere a Riad ventimila bombe al prezzo di 411 milioni di euro. Da pochi giorni, per quelle morti, sono indagati i vertici della Rwm Italia e dell' Uama, l' autorità italiana che concede le autorizzazioni all' export di armamenti. È la prima volta che accade. Tanto che l' Italia è diventata un caso internazionale. L'indagine è condotta dalla procura di Roma ed è stata avviata grazie all' enorme lavoro di denuncia portato avanti da tre organizzazioni: la Rete italiana Pace e Disarmo, il centro europeo per i diritti costituzionali e umani Ecchr di Berlino e la Ong yemenita Mwatana che nell' aprile del 2018 avevano presentato un esposto lamentando la violazione delle norme italiane e internazionali nella vendita di armi ai sauditi. Inizialmente la procura aveva chiesto l' archiviazione nonostante avesse accertato che l' anello di sospensione era stato esportato nel novembre 2015. Il gip di Roma, tuttavia, ha rigettato l' archiviazione e ha disposto altri sei mesi di indagine per accertare le eventuali responsabilità italiane e della Rwm. L' Uama poteva non sapere che uso avrebbe fatto l' Arabia Saudita delle armi che le venivano vendute? Come mai i funzionari italiani non hanno tenuto in considerazione i rapporti sulla guerra in Yemen, che già all' epoca segnalavano la possibile commissione di crimini di guerra da parte della coalizione saudita? C' è un passaggio fondamentale nell' ordinanza del giudice di Roma, che forse spiega più di mille parole come si è giunti a questo punto. L' Uama, nel 2016, ha autorizzato la più grande commessa di bombe che il nostro Paese abbia mai avuto, sostenendo che si trattava di un' operazione «in linea con la legislazione nazionale e internazionale, in grado di generare un positivo indotto sul piano economico e sociale per l' Italia». Scrive il giudice: «Il pur doveroso, imprescindibile impegno dello Stato per salvaguardare i livelli occupazionali non può, nemmeno in astratto, giustificare una consapevole, deliberata violazione di norme che vietino l' esportazione di armi verso Paesi responsabili di gravi crimini di guerra e contro le popolazioni civili». È l' annientamento di uno dei meccanismi più perversi dell' industria bellica in generale: il mantenimento dei posti di lavoro o il doveroso sviluppo di un settore industriale strategico da parte di uno Stato non può in alcun modo giustificare la violazione dei diritti umani. L'indagine riguarda la Rwm e l' Uama, ma non possiamo chiudere gli occhi. Se tra il 2014 e il 2016, durante il governo Renzi, l'export delle armi italiane è sestuplicato, questo non può dipendere da funzionari o dalle abilità produttive di un attore privato. L'industria bellica non può prescindere dalle indicazioni in politica estera provenienti dal governo. E di tutto questo, forse, un giorno, dovremo rispondere alla famiglia Al Ahdal.

Ora si indaga sulle armi italiane vendute all’Arabia Saudita. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 4 marzo 2021. Il boom di armi italiane vendute ai sauditi durante il governo Renzi diventa un caso internazionale oltre che giudiziario. Come riporta La Stampa, infatti, risultato indagati i vertici della Rwm Italia, ditta autorizzata dal nostro governo a vendere a Riad 20mila bombe al prezzo di 411 milioni di euro, e dell’Uama, l’autorità italiana che concede le autorizzazioni all’export di armamenti. L’indagine, condotta dalla procura di Roma, è stata avviata grazie all’esposto presentato nell’aprile 2018 dalla Rete italiana pace e disarmo, dal centro europeo per i diritti costituzionali e umani Ecchr di Berlino e dalla Ong yemenita Mwatana: anche se in un primo momento la procura aveva chiesto l’archiviazione dell’indagine, il gip l’ha rigettata e ha disposto altri sei mesi di indagine per accertare le eventuali responsabilità italiane e della Rwm. In particolare, va fatta chiarezza sull’attacco a Deir al-Hajari, nel nord-ovest dello Yemen, nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 2016. Lo si deve, fra gli altri, alla famiglia al-Ahdal, sterminata da un bombardamento della coalizione militare guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Come denuncia la Rete italiane Pace e Disarmo in un post pubblicato lo scorso 27 ottobre sul sito dell’organizzazione, “esistono ampie e affidabili prove che nella guerra nello Yemen vengano utilizzati equipaggiamenti militari prodotti in Italia, come gli aerei da combattimento Eurofighter Typhoon e Tornado (prodotti congiuntamente dal Consorzio Eurofighter, di cui Leonardo S.p.A. è uno degli azionisti) e le bombe della serie MK 80 (prodotte in particolare da RWM Italia S.p.A.), i cui resti sono stati trovati sul luogo di potenziali crimini di guerra in Yemen. Questo materiale viene esportato in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait”.

L’export di armi italiane verso Riad diventa un caso. In questo contesto, scrive sempre l’organizzazione che si batte contro l’esportazione delle armi italiane verso i Paesi del Golfo, l’11 dicembre 2019 è stata depositata una Comunicazione alla Corte Penale Internazionale da parte di ECCHR, Mwatana for Human Rights e delle loro organizzazioni partner, tra cui la Rete Italiana per il Disarmo (ora Rete Italiana Pace e Disarmo). La Comunicazione “sollevava la questione della responsabilità delle aziende italiane ed europee produttrici di armi, nonché delle autorità nazionali che rilasciano licenze di esportazione, nel conflitto yemenita. Queste organizzazioni della società civile internazionale chiedono un’indagine sulla presunta complicità dei dirigenti delle aziende in 26 attacchi aerei che hanno ucciso o ferito illegalmente civili e distrutto o danneggiato scuole, ospedali e altri luoghi protetti”.

“Gravi violazioni di diritti umani”. Infatti, in risposta alle gravi violazioni dei diritti umani commesse nello Yemen, nel luglio 2019 il Governo italiano ha sospeso fino a gennaio 2021 tutte le licenze per bombe aeree, missili e loro componenti verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Ma nonostante lo stop, denunciava in un altro post datato maggio 2020 l’organizzazione umanitaria, nei mesi scorsi “sono state rilasciate nuove autorizzazioni per quasi 200 milioni di euro e le consegne definitive certificate dalle Dogane hanno raggiunto i 190 milioni di euro” verso il regno saudita e gli Emirati (Guarda il reportage di InsideOver dallo Yemen). Le gravi violazioni commesse dalla coalizione a guida saudita in Yemen sono state denunciate da numerose organizzazioni internazionali. Nel 2019, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha presentato un rapporto a Ginevra mettendo in evidenza la possibilità che in Yemen si siano perpetrati “una serie di crimini di guerra”. Secondo le indagini condotte dal gruppo di esperti dell’Onu, le violazioni comprendono crimini commessi attraverso gli attacchi aerei, bombardamenti indiscriminati, uccisioni e detenzioni arbitrarie, torture e violenza sessuale. Secondo Amnesty International, dal 2015 in poi, la coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che appoggia il governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, continua a bombardare infrastrutture civili e a compiere attacchi indiscriminati, che uccidono e feriscono centinaia di civili. Inoltre, tutte le parti in conflitto hanno soppresso la libertà d’espressione ricorrendo a detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, maltrattamenti e torture. La stessa Ong aveva avviato una campagna per chiedere di interrompere l’export di armi verso l’Arabia Saudita.

Boom di export di armi durante il governo Renzi. Come già evidenziato da InsideOver, durante il governo Renzi (22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016) l’export di armi è schizzato alle stelle, grazie proprio alle generose commesse arrivate dall’Arabia Saudita. Nel 2013, prima dell’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi, il nostro Paese aveva autorizzato l’esportazione di armi per un valore di 2,1 miliardi di euro. Nulla in confronto al periodo nel quale Renzi era in carica, dove l’export è cresciuto del 581%, toccando i 14,6 miliardi di euro, come documentato da Giorgio Beretta del’Opal di Brescia, l’osservatorio permanente sulle armi leggere. Con Renzi al governo, secondo La Stampa, Riad ha ottenuto l’autorizzazione a ricevere oltre 855 milioni di euro in armamenti contro i poco più di 170 milioni del triennio successivo.

Alessandro Di Matteo per “La Stampa” il 28 febbraio 2021. In gergo militare si parlerebbe di "danni collaterali", addirittura di "fuoco amico". Il rapporto della Cia - diffuso dall'amministrazione Biden per lanciare una serie di messaggi ai principali protagonisti dello scacchiere medio-orientale - finisce per trascinare, di nuovo, nella bufera Matteo Renzi, che pure vanta buoni rapporti con il neo-presidente Usa e con il suo principale sostenitore, Barack Obama. Ad attaccare è Sinistra italiana, ma anche M5S e lo stesso Pd, cioè gli ex alleati del Conte bis. Il problema, per il leader di Iv, è che quelle quattro pagine della Cia chiamano in causa direttamente il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, per il brutale omicidio del giornalista Jamal Kashoggi. Proprio quel Bin Salman pubblicamente omaggiato da Renzi durante una conferenza a Ryad a fine gennaio, quando definì l'Arabia il teatro di un possibile «nuovo rinascimento». Evento per il quale il leader Iv ha anche percepito un compenso di decine di migliaia di euro come oratore. Tutto regolare, per l'ex premier. Ma non per i suoi ex compagni di coalizione. Ad affondare i colpi, stavolta, è anche il Pd. Gianni Cuperlo incalza: «Il senatore Renzi aveva annunciato che, una volta archiviata la crisi di governo, avrebbe offerto le motivazioni di quella sua iniziativa. È opportuno che lo faccia. Se possibile presto». Ma anche il vicecapogruppo alla Camera Michele Bordo: «Penso sia arrivato il momento che Renzi chiarisca fino in fondo la natura dei suoi rapporti con l'Arabia Saudita e con il principe ereditario». Addirittura, non esclude una «iniziativa parlamentare», anche se allo stato non è stata presa nessuna decisione al riguardo. Simili le parole di Maria Edera Spadoni, M5S: «Renzi deve chiarire la natura dei suoi rapporti col principe saudita Mohammed Bin Salman e quello con la fondazione Future investment iniziative». Ma, appunto, Renzi ritiene che non ci sia nulla da chiarire. Il leader di Iv replica attraverso la "enews", la sua newsletter settimanale. Per il leader di Italia viva «Pd, Leu e soprattutto Cinque Stelle stanno strumentalizzando una tragedia come quella dell'uccisione del giornalista saudita». La linea di difesa è la stessa usata un mese fa: a quell'evento in Arabia saudita, «la Davos del deserto», spiega, «partecipano regolarmente moltissimi leader della finanza e della politica provenienti da tutto il mondo». L'ex premier elenca tutte le interviste nelle quali, nell'ultimo mese, ha parlato della vicenda, quindi ripete che il compenso preso per la conferenza è «perfettamente legale e legittimo», mentre «il Pd sotto la mia gestione e Italia viva dalla sua nascita non hanno mai ricevuto denari da governi stranieri o strutture ad essi collegati». Renzi ricorda di avere «condannato già tre anni fa» l'omicidio di Kashoggi e ripete che mantenere rapporti con l'Arabia è «giusto e necessario», perché è un «baluardo contro l'estremismo islamico». Spiegazioni che non bastano ai suoi ex alleati. Bordo, al telefono, lo spiega chiaramente: «Deve chiarire meglio, non basta la "enews" settimanale. E non può essere lui a fare contemporaneamente le domande e le risposte».  Per l'esponente Pd non sono sufficienti nemmeno tutte le interviste citate da Renzi: «Quando le ha fatte non c'era ancora il rapporto della Cia. Oggi c'è un elemento di novità rispetto al quale un chiarimento è utile. Dice che i presidenti del consiglio vanno in Arabia? Ma lui non è presidente del consiglio, è un senatore che va a fare conferenze pagate 80mila euro». Solo accuse pretestuose, per Renzi: «Spiace solo che si utilizzi la vicenda saudita per coprire le difficoltà interne italiane e per giustificare un'alleanza dove - come spesso è accaduto a una certa sinistra - si sta insieme contro l'avversario e non per un'idea».

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 febbraio 2021. Caro Dago, pur dopo avere deciso di scriverlo sono molto a disagio per quello di cui ti sto scrivendo. Il fatto è che di politica estera ne so poco, forse pochissimo. Non sono mai stato in Arabia Saudita né ho letto particolarmente di quell’ambiente, di quel Paese, della personalità politica di Bin Salman, ossia di colui che guida e domina l’Arabia da molti anni e che probabilmente ha avuto una responsabilità diretta dell’avere i suoi sgherri maciullato il giornalista Jamal Kashoggi. Contemporaneamente a tutto questo, e del resto lo sai, io apprezzo molto Matteo Renzi, lo reputo uno che se ne mette in tasca dieci dei politici italiani del nostro tempo. L’ho fatta così lunga per dirti che ho letto con molto disagio il bell’articolo odierno sul ”Fatto” di Marco Lillo e gli altri articoli che su quel quotidiano gli stanno accanto. Lillo scrive che Renzi dovrebbe dimettersi da quel think tank di cui fa parte e per il quale riceve una paga annua. Ovvio che chiunque, da Obama a Tony Blair, può andare in giro per il mondo e fare tutte le chiacchiere che vuole ed esserne pagato. Ci mancherebbe altro. Però, ecco il punto, andare a dire nudo e crudo che il Paese di cui sei in quel momento un ospite pagato si trova in una fase “rinascimentale” della sua storia è un’affermazione troppo forte non dico per passare inosservata e bensì per essere dimenticata. No, quell’affermazione non va dimenticata. E’ troppo forte. Quando io l’ho ascoltata per la prima volta e ne sono allibito, ho pensato – ho sperato – che Renzi avesse delle informazioni di prima mano che escludessero la responsabilità del leader saudita nel martirio del giornalista, che lui volesse con quell’affermazione dare lustro al ruolo “riformista” di Bin Salman, un ruolo che sono in tanti a reputare tale. In politica è fondamentale “trattare”, trattare con chiunque, come svela benissimo la splendida serie “Occupied” attualmente su Netflix, quella in cui gli autori si immaginano che i russi semi-occupino la Norvegia e dunque che fare?, dato che affrontarli militarmente sarebbe un suicidio. In politica si tratta anche con il diavolo. Quando le forze alleate dovevano scegliere qualcuno del vertice politico/militare nazi con cui “trattare” la fine della guerra guerreggiata, scelsero Heinrich Himmler, il capo supremo tra quanti avevano portato a termine il massacro degli ebrei europei. Non c’è dubbio che vada preservato il ruolo dell’Arabia Saudita come Stato cuscinetto fra Israele e i Paesi che in quell’area le sono più drammaticamente avversi. Lo stesso Joe Biden non ha certo mandato dei marines a dare dei calci negli stinchi a Bin Salman, ha invece telefonato al padre. Ha fatto un distinguo intelligente e importante. Renzi ha sbagliato, ha sbagliato nettissimamente a usare quelle specifiche espressioni in quello specifico colloquio con quello specifico personaggio. Sbagliare è umano, in politica come negli altri campi. L’importante è non perseverare. Renzi deve prendere le distanze dal sé stesso di quel suo duetto di più e meglio di come abbia fatto finora. Molto di più e molto meglio. Glielo chiediamo noi che gli siamo amici e che lo stimiamo.

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 9 marzo 2021. Quando, ieri mattina, Matteo Renzi è atterrato all'aeroporto di Milano Malpensa, con un volo di linea Emirates proveniente da Dubai, non era solo. Con lui, su quell'aereo, ha viaggiato l'amico di una vita, l'uomo di cui è stato testimone di nozze, l'imprenditore Marco Carrai. Non era facile riconoscerlo, nascosto dietro la mascherina, mentre prendeva il bus interpista insieme al leader di Italia Viva. Ma lo hanno visto, era lui. Renzi e Carrai insieme a Dubai, quindi. Il motivo del loro viaggio non è chiaro, né sappiamo chi siano andati a incontrare. Certo è che entrambi, in questi anni, hanno sviluppato relazioni e interessi nella penisola araba. Per Carrai, uno su tutti: la Toscana Aeroporti, società di cui è presidente e che gestisce gli scali di Firenze e Pisa, ha come azionista di maggioranza la Corporacion America Italia, che entra nel capitale nel 2017, con la benedizione di Renzi e del Pd locale. Vale la pena qui ricordare che, prima di quell'acquisizione, tra il 2014 e il 2016, la stessa società aveva fatto due donazioni, per un totale di 75mila euro, alla fondazione Open, la cassaforte del renzismo, nel cui direttivo sedeva all'epoca lo stesso Carrai. In seguito, nel luglio del 2018, il 25% delle quote azionarie di CAI è stato rilevato dalla Mataar Holdings, società con sede ad Amsterdam, indirettamente controllata da Investment Corporation of Dubai, il principale fondo di investimento del governo degli Emirati, con asset totali del valore di 166 miliardi di dollari. L'amministratore delegato dell'ICD si chiama Mohammed Ibrahim Al Shaibani, che è anche nel consiglio di amministrazione di Corporacion America Italia, oltre che nel board di Dubai Aerospace Enterprise: la più grande compagnia di leasing aeronautico al mondo, creata dal fondatore e numero uno della Emirates, lo sceicco Ahmed bin Saeed al Maktoum, membro della famiglia reale. Ma il nome da tenere a mente è quello di Al Shaibani. L'uomo del regime ben inserito nel giglio magico fiorentino. Il trasporto aereo lo unisce a doppio filo con Carrai, che nel 2018 aveva anche costituito (come socio di minoranza) la filiale italiana di Iss Global Forwarding, colosso della logistica aeroportuale con sede nella zona franca dello scalo di Dubai. Il gruppo, che ha filiali in tutto il mondo, è di proprietà del solito fondo governativo ICD. Non stupisce, quindi, che l'imprenditore Carrai sia andato a Dubai per colloqui di lavoro, per parlare di affari, investimenti, progetti. Tutto legittimo. Il punto è cosa sia andato a fare il senatore Renzi, a che titolo abbia accompagnato l'amico e quale ruolo abbia giocato negli incontri che sicuramente i due hanno avuto durante le loro 48 ore scarse trascorse nell'emirato. Ma c'è un'ultima domanda che merita una risposta. La normativa anti-Covid prevede, per chi torna dall'estero, 14 giorni di isolamento fiduciario e sorveglianza sanitaria: Renzi e Carrai la stanno rispettando, visto che non rientrano in nessuna delle categorie esentate dall'obbligo?

Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 9 marzo 2021. Né per vacanza né per un lavoro retribuito. Chiuso nella sua magione fiorentina, infastidito dalle «polemiche surreali» (così la ministra Elena Bonetti) scaturite dal viaggio lampo a Dubai, Matteo Renzi non ha intenzione di dare spiegazioni. Convinto di non doverne a nessuno. E ai pochi che riescono a bucare il muro di silenzio dietro cui resta trincerato tutto il giorno spiega solo di aver avuto una buona ragione per volare negli Emirati Arabi. Dove, ha confidato, si è pagato tutto da sé: sia il biglietto di andata e ritorno su un volo di linea, sia la lussuosa suite affacciata sul mare dell' Hotel Burj Al Arab Jumeirah. E chi sosterrà il contrario, ribadisce, verrà querelato. La certezza è che a condurlo lì non è stato né uno speech di quelli che ha iniziato a tenere in giro per il mondo nella veste di ex premier italiano; né un weekend di piacere nel Paese di Khalfa Ahmad al-Mubrak, l' imprenditore emiratino presidente del Manchester City con cui intrattiene da anni rapporti amichevoli, tanto da essere anche andato in Inghilterra, prima della pandemia, per assistere alle partite della squadra britannica. Un viaggio di piacere, peraltro, non rientra fra le possibilità contemplate dalla rigida normativa anti-Covid in materia di spostamenti: in quel Paese consentiti solo per lavoro, studio, salute o assoluta urgenza. Il viaggio è un caso anche per la vicinanza alla contestatissima visita di Renzi in Arabia Saudita, con lodi al principe bin Salman e al "Rinascimento saudita", in quell' occasione parte di un rapporto di lavoro retribuito. Stavolta la ragione della missione resta avvolta dal mistero: escluso un ingaggio professionale o il viaggio di piacere, tra i fedelissimi si avanza l' ipotesi che l' ex premier abbia discusso di futuri incarichi di lavoro o abbia trattato questioni politico- diplomatiche, sebbene a titolo personale, come dimostra il pagamento delle spese di viaggio. La ministra Bonetti, all' oscuro della trasferta come la totalità di Iv, fa una difesa d' ufficio: «Nell' ambito del suo lavoro e delle sue attività, il senatore Renzi ha delle relazioni internazionali. E quando ha preso un compenso l'ha sempre fatto nella piena trasparenza e legalità». Ma «è proprio questo il punto», reagiscono con stizza i 5S: «Nei suoi viaggi fa gli interessi della nazione o svolge una consulenza retribuita per altri Paesi?». Una questione dirimente anche per l' eurodeputato Dino Giarrusso: «Ora gli restano solo due scelte: dimettersi da senatore e dedicarsi alla carriera privata, o interrompere subito ogni rapporto ambiguo con potenze straniere». Sarcastico il grillino Ferrara: «Mi auguro che sia andato negli Emirati in coincidenza con la Giornata della donna per promuovere la condizione femminile che lì è ancora molto critica. Sono certo che il leader di Iv chiarirà la natura dei suoi attuali rapporti con un Paese con il quale, da premier, ha patrocinato diversi affari di Stato poco chiari e poco vantaggiosi per l' Italia».

Da adnkronos.com il 9 marzo 2021. Matteo Renzi e il viaggio a Dubai nell'ultima enews del leader di Italia Viva, che accusa alcune testate di diffondere fake news e nella quale spiega come sia suo "dovere, non diritto, chiedere i danni". "A me dispiace fare azioni civili contro alcune testate. Ma dobbiamo essere chiari: le critiche servono e aiutano a crescere, le fake news no. Tutti possono criticare, nessuno può diffamare", scrive Renzi, che continua: "Per anni ho sottovalutato la montagna di accuse che mi venivano rivolte: da due anni ho deciso di cambiare stile: se qualcuno scrive falsità, è mio DOVERE, non diritto, chiedere i danni. Perché continuare a far finta di nulla sarebbe come ammettere di aver fatto qualcosa di illegale o di illecito - prosegue il leader di Iv -. Niente di personale, sia chiaro. Ma per troppo tempo ho sottovalutato l’alluvione di fake news contro di me. Adesso ho semplicemente deciso di reagire, colpo su colpo". "Nel frattempo, guardiamo il positivo: prima mi criticavano per le mie/nostre idee sull’Italia. Ora che finalmente il Paese sta cambiando passo e che molte delle nostre battaglie vengono riconosciute, nessuno ci critica più per la politica italiana (anzi, in molti ci danno ragione, anche se a bassa voce) ma si aggrappano ai miei viaggi. Prendiamola con allegria, amici, e senza mai arrabbiarsi: è il segno che sulle questioni italiane non hanno più nulla da criticare", sottolinea Renzi. "C’è un effetto Draghi anche sulla politica del nostro Paese. Il Pd deciderà cosa fare, dopo che il Segretario uscente Nicola Zingaretti ha detto di vergognarsi del proprio partito", continua il leader Iv nella enews. "I Cinque Stelle hanno organizzato un summit decisivo tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, nella casa al mare del comico genovese per rilanciare l’esperienza pentastellata in stretto raccordo col PD. Auguri a tutti -prosegue il leader di Iv-. La mia opinione è che per qualche mese ci sarà ancora da… ballare. Tutto ha iniziato a cambiare, ma molto ancora cambierà. I sondaggi di oggi tra un anno saranno un lontano ricordo per tutti. Per questo sarà fondamentale allenarsi come fosse una maratona, non come fossero i 100 metri". E sull'emergenza covid e i decessi in Italia, Renzi parla di "quota centomila. Devastante pensare al numero di decessi per Covid in questo anno, centomila solo in Italia. Non è una cifra, è una tragedia". "Ciascuno di noi ha un nome, un volto, un proprio caro da ricordare. Proprio quando, nel primo anniversario del lockdown, l’Italia supera questo tragico confine numerico, non possiamo che rilanciare l’appello per una campagna di vaccinazione organizzata in modo militare e dire grazie alla scienza che sta lavorando notte e giorno per sconfiggere la pandemia", prosegue il leader del Pd. "Vorrei che dedicassimo più attenzione anche alla questione dei anticorpi monoclonali, che sono un grande passo in avanti nella lotto contro il Coronavirus e dei quali, nelle prossime ore, tornerò a parlare su Facebook, Instagram e Twitter", aggiunge Renzi.

Otto e mezzo, Matteo Renzi a Dubai. Massimo Giannini sgancia un'altra bomba: "Chi c'era con lui". Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. "Matteo Renzi vuole querelarmi ma non so perché". Massimo Giannini sulla Stampa ha dato la notizia del viaggio a Dubai del leader di Italia Viva. L'ex premier ha chiarito di non esserci andato "né per lavoro né per vacanza", "ma ha confermato di esserci andato", sottolinea Giannini, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. "Quando all'alba ho ricevuto il suo messaggio sul mio cellulare che mi informava che avevamo scritto tutte sciocchezze, diciamo così, io ho temuto che ci fossimo sbagliati. Poi mi ha telefonato mentre era a Dubai, quindi non capisco più quali sono le ragioni che potrebbero portarci a giudizio né lui ha voluto darmele, dicendomi che le saprò quando arriverà l'atto di citazione". "Io continuo a pensare che le sue frequentazioni pericolose con quei regimi e quei mondi meriterebbero una spiegazione", incalza Giannini. "Abbiamo aggiunto che c'è forse un aspetto in più. Renzi a Dubai era con Marco Carrai, noto imprenditore toscano e amico intimo di Renzi che con la fondazione Open e le sue attività ha sostenuto molto le attività politiche dello stesso senatore di Italia Viva". "Forse questa è una pista? - domanda sibillino Giannini - Non lo so, perché Renzi continua a non spiegare. Secondo me invece dovrebbe spiegarlo non a me ma a gli elettori italiani ma da questo punto di vista non ci sente. Se la causa che faremo servirà a chiarire la situazione benvenga, io non so qual è il reato ma io sono pronto".

Renzi d'Arabia: la Cia accusa il principe “amico” bin Salman. Le Iene News il 09 marzo 2021. L’intervista di Matteo Renzi al principe saudita Mohammad bin Salman ha generato infinite polemiche politiche, sia per i temi trattati che per il compenso ricevuto dal senatore italiano. Ma soprattutto perché la Cia accusa bin Salman per l’efferato omicidio del giornalista Jamal Khashoggi: la nostra Roberta Rei ci racconta cosa è successo. Nelle scorse settimane la visita del leader di Italia viva e senatore Matteo Renzi in Arabia Saudita ha generato infinite polemiche politiche: l’ex premier si è recato a Riyadh per intervistare il principe dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman. Le sue dichiarazioni sul “nuovo Rinascimento” e sul costo del lavoro nel paese hanno fatto discutere, così come il compenso che l’ex premier riceve da una fondazione saudita riconducibile a bin Salman. Ma il vero motivo per cui l’intervista ha fatto scalpore è proprio il principe Mohammad bin Salman, che Renzi chiama “my friend”. Bin Salman è accusato dalla Cia di essere il mandate terribile omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, fatto letteralmente a pezzi all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018. La nostra Roberta Rei, nel servizio che potete vedere in testa a questo articolo, ci racconta come è stato pianificato e realizzato quell’efferato omicidio. Jamal Khashoggi è stato ucciso perché era un giornalista libero, ben informato sugli affari della famiglia regnante in Arabia Saudita. La Iena intervista anche Bryan Fogel, regista premio Oscar che ha girato il documentario The Dissident, proprio sull’omicidio di Jamal Khashoggi. Roberta Rei ha provato a parlare anche con Matteo Renzi, senza però avere una risposta. E allora gli suggeriamo alcune domande, che potete vedere qui sopra. Tra queste ce n’è una che ci preme particolarmente: il Rinascimento si fa tagliando a pezzi i giornalisti e mettendoli nelle valigie?

Marco Macca per fcinter1908.it il 3 marzo 2021. Non solo BC Partners e Fortress. Anche gli occhi dell'Arabia Saudita sull'Inter. Secondo quanto riporta l'edizione odierna della Gazzetta dello Sport, infatti, il fondo presieduto da Mohammad bin Salman, membro della famiglia reale, si sarebbe mosso sotto traccia per il club nerazzurro e immettere liquidità nella società, come vorrebbe Suning. "Suning, decisa a tenere il timone dell'Inter, cerca finanziatori per ottenere la necessaria liquidità: tra i tanti soggetti, si è aggiunto sotto traccia anche il Saudi Public Investment Fund, fondo presieduto da Mohammad bin Salman, membro della famiglia reale saudita, che ha già guardato alla Premier League in passato".

Nicola Porro, scivolone su Jamal Khashoggi: "Mercante d'armi? Mi scuso, un errore mostruoso". Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. "È stato un errore mostruoso". Con questa premessa Nicola Porro si scusa con tutti i suoi lettori. Colpa di una notizia apparsa sul suo sito nicolaporro.it, dove si dava spazio a Jamal Khashoggi, editorialista del Washington Post ucciso dal regime saudita. Qui però Khashoggi è stato definito un "mercante di armi". "Alla mia piccola redazione e al sottoscritto - spiega il conduttore di Quarta Repubblica - è sfuggito". Poi la firma del Giornale definisce quanto accaduto grave, "per di più nei confronti di un giornalista ucciso mostruosamente. Non posso che scusarmi". In realtà l'articolo è di Carlo Andrea Bollino, prof ordinario di Economia all'Università di Perugia. Bollino il 2 febbraio pubblicava sul sito di Porro l'articolo "Gli 8 misteri sull'embargo all'Arabia Saudita". Ma è al punto 4 che scivola: "Khashoggi non era solo un giornalista ma anche un mercante di armi e nessuno di noi sa ancora veramente cosa è successo". Tra i primi a notare l'errore il Fatto Quotidiano che, per sua ammissione, dice di aver scritto a Porro attraverso Twitter senza però ricevere risposta. "Non ho visto quel tweet, purtroppo", ha giustificato il conduttore quei 30 giorni intercorsi tra la notizia e le scuse. Per Porro non è il primo scivolone. In onda su Rete Quattro il giornalista si era scusato con Sergio Mattarella. Il motivo? Mentre Alessandro Sallusti parlava della centralità avuta da chi era al Colle all’epoca dei fatti riguardanti la condanna a Silvio Berlusconi, dietro apparivano le immagini dell'attuale presidente della Repubblica. Un errore visto che all'epoca c'era Giorgio Napolitano. 

La fidanzata di Khashoggi all’attacco del principe saudita: “Mohammed Bin Salman va punito immediatamente”. Massimiliano Cassano su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman “deve essere punito senza indugio” perché non ha più “nessuna legittimità politica”. L’attacco arriva da Hatice Cengiz, fidanzata del giornalista saudita Jamal Khashoggi, a pochi giorni dalla pubblicazione di un report della Cia che ha riconosciuto in Bin Salman il responsabile dell’uccisione del reporter nell’ottobre del 2018 nel consolato dell’Arabia Saudita ad Istanbul. Hatice ha scritto un comunicato, pubblicato anche sui social, in cui ritiene “essenziale che il principe ereditario, che ha ordinato il brutale omicidio di una persona innocente, sia punito immediatamente”. La donna, 39 anni, di origini turche, chiede a gran voce che dopo aver desecretato i documenti, gli Stati Uniti intervengano contro l’erede alla Corona in Medio Oriente, considerato però dagli Usa come un fondamentale alleato nel contrasto all’Iran. La sua è una richiesta che “non solo porterebbe la giustizia che stiamo cercando per Jamal ma impedirebbe anche ad azioni simili di ripetersi in futuro”. Per Hatice, se il principe non sarà punito, “si manderà per sempre il segnale che il maggior colpevole di un assassinio può cavarsela, il che ci metterebbe tutti in pericolo e sarebbe una macchia sulla nostra umanità”. Il 2 ottobre del 2018 Hatice Cengiz stava aspettando in auto fuori dall’ambasciata saudita a Istanbul che il suo compagno sbrigasse alcune pratiche burocratiche. In quei momenti però Khashoggi veniva ucciso e poi fatto a pezzi da alcuni agenti di Riad, che secondo la Corona saudita avrebbero agito “in autonomia” e non su istruzione del principe. Il Paese ha infatti “respinto del tutto” il rapporto della Cia e negato ogni responsabilità nell’omicidio. Nel dicembre 2020 il documentario “The Dissident” ha raccontato la storia di Jamal Khashoggi, e nel frattempo Hatice Cengiz è diventata una testimonial internazionale di primissimo livello impegnata a favore della libertà di stampa nel mondo. Sul caso si è svolto un processo in Arabia Saudita che ha condannato in via definitiva 5 imputati a 20 anni di prigione e altri 3 a pene tra 7 e 10 anni, rivedendo un precedente verdetto che prevedeva cinque condanne a morte. “Un processo farsa”, secondo la compagna del giornalista, che ha accusato Riad di voler chiudere il caso senza indicare la verità sul mandante dell’assassinio.

Il caso del giornalista saudita. “Mohammad Bin Salman autorizzò l’operazione per catturare o uccidere Khashoggi”, il report Usa. Vito Califano su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Il principe dell’Arabia Saudita Mohammad Bin Salman ha approvato l’operazione per “catturare o uccidere” il giornalista Jamal Khashoggi, collaboratore anche del Washington Post. È quanto emerge da un rapporto dell’intelligence degli Stati Uniti. Il giornalista venne attirato nel consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018, ucciso e fatto a pezzi. “Basiamo questa valutazione sul controllo del principe saudita sul processo decisionale nel regno, sul diretto coinvolgimento di un consigliere chiave e di membri della cerchia di Muhammad bin Salman nell’operazione, sul sostegno del principe ereditario all’uso di misure violente per silenziare il dissenso all’estero, incluso Khashoggi”, recita il rapporto secondo Cnn. È infatti dal 2017, continua a spiegare il dossier, che Mbs (com’è soprannominato il principe) ha il controllo delle organizzazioni di sicurezza e intelligence del Regno Saudita. È quindi “altamente improbabile che funzionari sauditi possano aver effettuato un’operazione di questa natura senza la sua autorizzazione”. Una notizia, quella della pubblicazione del documento atteso per oggi, che ha fatto molto discutere. Anche perché l’intelligence aggiunge dettagli raccapriccianti: a quanto ricostruito il principe ereditario “considerava Khashoggi una minaccia per il Regno e ha ampiamente sostenuto l’uso di misure violente, se necessario, per zittirlo. Nonostante i funzionari sauditi avessero pianificato in anticipo un’operazione non specificata contro Khashoggi, non sappiamo con quanto anticipo essi abbiano deciso di fargli del male”. Il documento elenca anche i nomi di 21 persone considerate a vario titoli partecipanti, complici o responsabili dell’omicidio del giornalista. La squadra sarebbe stata composta da 15 funzionari vicini alla corte saudita. Una squadra guidata dallo stretto consigliere del principe ereditario, Saud al-Qahtani, “che ha affermato pubblicamente a metà del 2018 di non prendere decisioni senza l’approvazione del principe ereditario”. Altro particolare che porta al principe ereditario è la partecipazione del team di sette membri della squadra d’èlite del RIF che “risponde solo a lui e aveva partecipato direttamente a precedenti operazioni di soppressione dei dissidenti nel Regno e all’estero sotto la direzione del principe ereditario”. Il rapporto stilato l’11 febbraio riporta anche l’ultimo depistaggio: indossare i vestiti e l’Apple Watch della vittima per far credere che Khashoggi avesse lasciato l’ambasciata di Istanbul. Il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha dichiarato che gli Stati Uniti ricalibreranno il loro rapporto con il Regno Saudita. Il segretario di stato statunitense, Antony Blinken, ha annunciato l’istituzione del Khashoggi ban, politica che “consente al dipartimento di Stato di imporre restrizioni sui visti a persone che, agendo per conto di un governo straniero, si ritiene siano state direttamente impegnate in gravi attività extraterritoriali contro i dissidenti, comprese quelle che sopprimono, molestano, sorvegliano, minacciano o danneggiare giornalisti, attivisti o altre persone percepite come dissidenti per il loro lavoro, o che si impegnano in tali attività nei confronti delle famiglie o di altri stretti collaboratori di tali persone. Anche i familiari di tali individui possono essere soggetti a restrizioni sui visti ai sensi di questa politica, ove appropriato”. I primi a essere colpiti dal Khashoggi ban saranno 76 individui considerati coinvolti nella minaccia di dissidenti all’estero. Non è destinatario il principe ereditario bin Salman. Il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti aveva invece annunciato sanzioni nei confronti di Ahmad Hassan Mohammed al Asiri, ex vice capo dell’intelligence generale dell’Arabia Saudita, e della Forza di intervento rapido.

Cinque condanne a morte per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2019. Il tribunale di Riad, in Arabia Saudita, ha condannato a morte cinque persone per l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuto all’interno del consolato dall’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, il 2 ottobre del 2018. Non è stato invece incriminato Saud al-Qahtani, ritenuto l’assistente del principe ereditario, Mohamed bin Salman. La procura di Riad ne ha disposto il rilascio, ma al-Qahtani resta indagato per l’omicidio del giornalista. Altre tre persone sono state condannate a 24 anni di carcere per aver cercato di "insabbiare il crimine".  Secondo la più recente indagine Onu pubblicata il 19 giugno 2019, dal giornale inglese “The Guardian”, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman dovrebbe essere indagato per l’omicidio del giornalista Khashoggi. Il rapporto dell’Onu, redatto da Agnes Callamard parla di omicidio “premeditato”, con prove credibili di responsabilità del principe ereditario dell’Arabia Saudita.

L’AUTOESILIO CONTRO IL REGIME – Khashoggi era da tempo un giornalista scomodo per il regime saudita. Lasciò la sua nazione nel settembre 2017 e andò in esilio autoimposto, denunciando che il governo del principe ereditario Mohammad bin Salman e del re Salman lo aveva “bandito da Twitter”.

L’OMICIDIO, L’INDAGINE E I DEPISTAGGI – Il giornalista il 2 ottobre 2018 si recò al consolato saudita di Istanbul per ottenere un documento che provasse che era divorziato. Questo documento gli avrebbe permesso di sposare la sua fidanzata, Hatice Cengiz, una cittadina turca, che lo aspettava fuori dall’edificio. Khashoggi però non lasciò più l’edificio: il giornalista è stato infatti ucciso e fatto a pezzi all’interno del consolato. Le indagini e le inchieste hanno infatti dimostrato come Khashoggi sia stato ucciso da un commando di 11 uomini sauditi, mandati quasi certamente in Turchia dal principe ereditario saudita. I giornali turchi, citando fonti interne alle forze di sicurezza, hanno in più occasioni svelato infatti come Mohammed bin Salman abbia avuto un ruoli di primo piano nella pianificazione dell’assassinio. Sotto la pressione della comunità internazionale l’Arabia Saudita, con una mossa di facciata, ha sostenuto quindi che l’uccisione di Khashoggi era stata organizzata dal generale Ahmed al Assiri ed era stata guidata da Saud al Qahtani. Entrambi sono stati licenziati dai loro rispettivi incarichi ma, come ha scritto il Wall Street Journal, Qahtani è ancora uno stretto collaboratore di Mohammed bin Salman, mantenendo però un profilo “più defilato”.

Da repubblica.it il 26 febbraio 2021. Gli Stati Uniti hanno diffuso un rapporto sull'omicidio del giornalista e blogger Jamal Khashoggi - assassinato nel consolato saudita a Istanbul nel 2018 - in cui si legge che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman "ha approvato un piano per ucciderlo o catturarlo". Tra le informazioni si legge anche che "gli agenti non avrebbero eseguito interventi sul giornalista senza l'autorizzazione superiore". "Basiamo questa valutazione - si legge nel rapporto - sul controllo del principe saudita sul processo decisionale nel regno, sul diretto coinvolgimento di un consigliere chiave e di membri della cerchia di Mohammed  bin Salman nell'operazione, sul sostegno del principe ereditario all'uso di misure violente per silenziare il dissenso all'estero, incluso Khashoggi". Nel documento dell'intelligence si afferma anche che Mbs vedeva il giornalista dissidente come una minaccia al regno e sostenne ampiamente l'uso della violenza se necessario per metterlo a tacere.  Il rapporto elenca 21 persone che gli 007 americani ritengono con "alta fiducia" complici o responsabili per la morte del giornalista. Il rapporto è stato pubblicato poche ore dopo la telefonata del presidente americano Joe Biden al re Salman dell'Arabia Saudita, padre di Mohammed bin Salman.

Valeria Robecco per “il Giornale” il 27 febbraio 2021. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha «autorizzato» un'operazione per «catturare o uccidere» il giornalista dissidente del Washington Post Jamal Khashoggi. È ciò che stabilisce l'atteso rapporto dell'intelligence Usa declassificato e diffuso ieri dall'amministrazione di Joe Biden. Nel dossier, prodotto dalla direzione della National Intelligence, si afferma che bin Salman vedeva Khashoggi come una minaccia al regno, e sostenne ampiamente l'uso della violenza se necessario per metterlo a tacere. L'intelligence, si legge nel documento di due pagine, ha basato le sue conclusioni sul controllo assoluto che il principe ereditario, noto come Mbs, aveva sui processi decisionali di Riad, sul suo «sostegno all'uso di misure violente per mettere a tacere i dissidenti all'estero, incluso Khashoggi» e la partecipazione alle operazioni dei suoi alti assistenti e funzionari della sicurezza. Gli 007 americani infatti elencano anche 21 persone che ritengono con «elevata fiducia» complici o responsabili per la morte e lo smembramento del giornalista dissidente - avvenuta nel consolato saudita a Istanbul nel 2018 - per conto di bin Salman. Washington sta adottando «misure per rafforzare la condanna mondiale di quel crimine e per respingere i governi che vanno oltre i loro confini minacciando e attaccando giornalisti e persone percepite come dissidenti per l'esercizio delle loro libertà fondamentali», spiega il segretario di Stato Anthony Blinken. Quindi, il titolare di Foggy Bottom annuncia il nuovo «Khashoggi ban»: gli Usa vieteranno l'ingresso di stranieri che siano impegnati «in attività extraterritoriali gravi contro i dissidenti», ad esempio le molestie ai giornalisti. Come prima azione vengono imposte restrizioni sui visti a 76 sauditi impegnati nella minaccia di dissidenti all'estero, incluso il caso Khashoggi. Mentre il governo dell'Arabia Saudita ha respinto «categoricamente» il rapporto pubblicato dai servizi segreti americani, ieri sera il segretario al Tesoro americano Janet Yellen ha annunciato l'adozione di sanzioni contro l'ex vice capo dell'intelligence saudita Ahmad Hassan Mohammed al Asiri e contro la Forza di intervento rapida in relazione all'omicidio di Khashoggi. «Coloro che sono stati coinvolti in quella orrenda uccisione devono essere chiamati a rispondere. Con questa azione, il Tesoro sanziona la Forza di intervento rapido e l'alto funzionario saudita direttamente coinvolto nell'omicidio del giornalista. «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - sono uniti ai giornalisti e i dissidenti politici nel contrastare le minacce di violenze ed intimidazioni. Continueremo a difendere la libertà di espressione, fondamento di una società libera». Come parte della sua promessa di «ricalibrare» le relazioni con Riad una volta arrivato nello Studio Ovale, Biden ha aperto nuovamente all'accordo sul nucleare iraniano e posto fine al sostegno ai sauditi nella guerra in Yemen, ma non si è ancora mosso per interrompere gli aiuti militari. La diffusione del rapporto degli 007 inizialmente era attesa per giovedì, ma la Casa Bianca ha spiegato che il presidente voleva prima aspettare di parlare con l'85enne re saudita Salman, colui che considera la sua «controparte». Nella prima conversazione tra i due si è discusso delle relazioni bilaterali, della sicurezza regionale, degli sforzi per concludere la guerra in Yemen e dell'impegno americano a difendere Riad dagli attacchi di gruppi filo iraniani..

Anna Guaita per “il Messaggero” il 27 febbraio 2021. «Risponderemo nel modo appropriato, e quando lo riterremo opportuno». Così dodici giorni fa la portavoce della Casa Bianca reagiva al primo di tre attacchi di milizie filo iraniane contro le truppe americane di stanza in Iraq. E la risposta è venuta nella notte di giovedì. Due aerei da combattimento F-15 hanno sganciato 7 bombe contro una base utilizzata dalle stesse milizie al confine fra l'Iraq e la Siria. È stata la prima missione militare della giovane amministrazione Biden, ed è stata anche molto letale, avendo lasciato almeno 22 morti sul terreno. Polemiche sono subito scaturite nell'ala sinistra del partito democratico, ma nessuno ha avuto dubbi sui motivi, e sul significato che l'attacco vuole avere nella politica estera e nazionale del nuovo presidente. Sul fronte interno Biden ha inteso rassicurare i democratici moderati e i repubblicani che le sue aperture diplomatiche nei confronti dell'Iran sulla questione dell'accordo nucleare non vanno interpretate come un segnale di debolezza verso Teheran. Sul fronte della politica internazionale, il nuovo presidente intende mandare un ammonimento diretto a Teheran e far capire agli alleati di condividere la preoccupazione - espressa soprattutto da Israele - che l'accordo sul nucleare lascia comunque scoperto un fianco pericoloso e cioè il riarmo convenzionale dell'Iran, e il suo sostegno a milizie destabilizzanti che agiscono in tutta l'area del Medio Oriente. Alcuni analisti aggiungono una terza considerazione a queste analisi, e cioè la necessità per l'amministrazione di non apparire troppo schierato a favore dell'Iran proprio quando sta ridimensionando l'alleanza con l'Arabia Saudita. Si tratterebbe cioè per Biden di fare un difficile equilibrismo fra le due potenze regionali rivali, quella saudita e quella sciita. Da un canto cioè raffreddare i rapporti con Riad in seguito alla conferma dell'intelligence che fu il principe ereditario Mohammad bin Salman a ordinare «la cattura o l'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi», e dall'altro aprire all'Iran senza però tradire particolari simpatie per gli ayatollah e le loro milizie. Il rapporto dell''intelligence Usa su Khashoggi, insabbiato da Trump, e reso noto ieri da Biden, contrasta con la versione saudita secondo la quale il principe non sapeva nulla della missione contro il dissidente, ucciso nel 2018. Washington ha deciso di non colpire bin Salman con sanzioni, limitandosi a introdurle per l'ex capo dell'intelligence saudita Al Asiri. I sauditi hanno comunque respinto il dossier, e le relazioni tra i due Paesi da ieri sono certamente più difficili. L'attacco di giovedì sera, è stato precisato dal Pentagono e dalla Casa Bianca, era stato discusso con gli alleati, e aveva ricevuto il via libera sia del governo iracheno che di quello regionale iracheno-curdo. Il bersaglio è stato scelto proprio per evitare di sganciare bombe sul territorio dell'Iraq, e il Pentagono ha assicurato che la base colpita è usata per il contrabbando di armi iraniane dagli stessi miliziani che hanno effettuato i tre attacchi in Iraq. Il governo siriano ha protestato per la violazione del suo territorio e ha definito il raid «un vile attacco». Anche la Russia, che da nove anni combatte in Siria al fianco del governo di Bashar al-Assad, ha criticato l'attacco americano e ha lamentato che il preavviso che di solito viene mandato in questi casi per evitare troppe vittime è arrivato solo cinque minuti prima. Ma la Casa Bianca non ha risposto, preoccupata piuttosto di ricordare a Putin che anche con lui c'è un contenzioso aperto, quello dell'Ucraina. A sette anni dall'invasione russa, la Casa Bianca ha inviato un messaggio a Mosca: «In questo triste anniversario noi riaffermiamo una semplice verità: la Crimea è Ucraina. Gli Stati Uniti non riconoscono e non riconosceranno mai la presunta annessione russa della penisola».

Omicidio Khashoggi, Biden pubblica il rapporto della Cia. «Il principe Bin Salman autorizzò blitz per catturarlo o ucciderlo». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 27/2/2021. Sette bombe di 250 kg sulle milizie irachene appoggiate dall’Iran. E un rapporto di quattro pagine per denunciare al mondo la responsabilità diretta del principe saudita Mohammed Bin Salman nell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Nel giro di 24 ore l’Amministrazione di Joe Biden prende due iniziative di grande impatto sugli equilibri del Medio Oriente. Il dossier della Cia conferma i sospetti che si erano diffusi subito dopo che Khashoggi fu ucciso nel consolato saudita di Istanbul, il 2 ottobre del 2018. Un omicidio politico, «approvato», scrivono gli analisti della Cia, da Bin Salman, il trentacinquenne erede al trono, fino a pochi mesi fa interlocutore privilegiato di Donald Trump e del genero consigliere Jared Kushner. La svolta di Biden nei confronti di Riad è netta. Prima ha bloccato importanti forniture di armi; poi ha ritirato l’appoggio all’invasione saudita dello Yemen e ora ha autorizzato la Cia a declassificare una parte delle indagini sull’editorialista del Washington Post. Giovedì 25 febbraio, il presidente americano ha spiegato tutto ciò in una complicata telefonata con il Re dell’Arabia Saudita, Salman, 85 anni. La «correzione» verso i sauditi, si dice a Washington, potrebbe lasciare spazio all’aggressività dell’Iran. La risposta è arrivata alle due di notte di venerdì 26 febbraio, (ora locale). Un bombardiere americano ha colpito un complesso di edifici e alcuni camion che trasportavano armi nella zona di Boukamal, lungo il confine orientale con l’Iraq. Non ci sono ancora conferme ufficiali sul numero delle vittime. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione britannica, sarebbero stati uccisi 22 miliziani, appartenenti alle formazioni sciite appoggiate dall’Iran. Stando a un comunicato diffuso dagli stessi gruppi paramilitari, ci sarebbe stato solo un morto. Il Pentagono ha spiegato di aver preso di mira una base utilizzata «anche da Kataeb Hezbollah e da Kataeb Sayyid al-Shuhada», considerati i responsabili del lancio di missili contro la base statunitense di Erbil, in Iraq, il 15 febbraio scorso. In quell’occasione perse la vita un contractor americano e ci furono diversi feriti, compreso un soldato Usa. Ieri mattina Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha aggiunto: «L’attacco aereo in Siria segnala che il presidente agirà per proteggere gli americani». È la prima azione militare ordinata da Biden, che ha seguito il suggerimento del Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, con un impatto tutto da verificare sulla scena internazionale. Il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, si lamenta perché gli americani «ci hanno dato solo pochi minuti di preavviso», ma nello stesso tempo chiede di «riprendere i contatti» per «chiarire qual è la posizione di Biden sulla Siria».

Il caso del giornalista saudita. “Mohammad Bin Salman autorizzò l’operazione per catturare o uccidere Khashoggi”, il report Usa. Vito Califano su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Il principe dell’Arabia Saudita Mohammad Bin Salman ha approvato l’operazione per “catturare o uccidere” il giornalista Jamal Khashoggi, collaboratore anche del Washington Post. È quanto emerge da un rapporto dell’intelligence degli Stati Uniti. Il giornalista venne attirato nel consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018, ucciso e fatto a pezzi. “Basiamo questa valutazione sul controllo del principe saudita sul processo decisionale nel regno, sul diretto coinvolgimento di un consigliere chiave e di membri della cerchia di Muhammad bin Salman nell’operazione, sul sostegno del principe ereditario all’uso di misure violente per silenziare il dissenso all’estero, incluso Khashoggi”, recita il rapporto secondo Cnn. È infatti dal 2017, continua a spiegare il dossier, che Mbs (com’è soprannominato il principe) ha il controllo delle organizzazioni di sicurezza e intelligence del Regno Saudita. È quindi “altamente improbabile che funzionari sauditi possano aver effettuato un’operazione di questa natura senza la sua autorizzazione”. Una notizia, quella della pubblicazione del documento atteso per oggi, che ha fatto molto discutere. Anche perché l’intelligence aggiunge dettagli raccapriccianti: a quanto ricostruito il principe ereditario “considerava Khashoggi una minaccia per il Regno e ha ampiamente sostenuto l’uso di misure violente, se necessario, per zittirlo. Nonostante i funzionari sauditi avessero pianificato in anticipo un’operazione non specificata contro Khashoggi, non sappiamo con quanto anticipo essi abbiano deciso di fargli del male”. Il documento elenca anche i nomi di 21 persone considerate a vario titoli partecipanti, complici o responsabili dell’omicidio del giornalista. La squadra sarebbe stata composta da 15 funzionari vicini alla corte saudita. Una squadra guidata dallo stretto consigliere del principe ereditario, Saud al-Qahtani, “che ha affermato pubblicamente a metà del 2018 di non prendere decisioni senza l’approvazione del principe ereditario”. Altro particolare che porta al principe ereditario è la partecipazione del team di sette membri della squadra d’èlite del RIF che “risponde solo a lui e aveva partecipato direttamente a precedenti operazioni di soppressione dei dissidenti nel Regno e all’estero sotto la direzione del principe ereditario”. Il rapporto stilato l’11 febbraio riporta anche l’ultimo depistaggio: indossare i vestiti e l’Apple Watch della vittima per far credere che Khashoggi avesse lasciato l’ambasciata di Istanbul. Il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha dichiarato che gli Stati Uniti ricalibreranno il loro rapporto con il Regno Saudita. Il segretario di stato statunitense, Antony Blinken, ha annunciato l’istituzione del Khashoggi ban, politica che “consente al dipartimento di Stato di imporre restrizioni sui visti a persone che, agendo per conto di un governo straniero, si ritiene siano state direttamente impegnate in gravi attività extraterritoriali contro i dissidenti, comprese quelle che sopprimono, molestano, sorvegliano, minacciano o danneggiare giornalisti, attivisti o altre persone percepite come dissidenti per il loro lavoro, o che si impegnano in tali attività nei confronti delle famiglie o di altri stretti collaboratori di tali persone. Anche i familiari di tali individui possono essere soggetti a restrizioni sui visti ai sensi di questa politica, ove appropriato”. I primi a essere colpiti dal Khashoggi ban saranno 76 individui considerati coinvolti nella minaccia di dissidenti all’estero. Non è destinatario il principe ereditario bin Salman. Il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti aveva invece annunciato sanzioni nei confronti di Ahmad Hassan Mohammed al Asiri, ex vice capo dell’intelligence generale dell’Arabia Saudita, e della Forza di intervento rapido.

La vicenda dell'editorialista del "Washington Post". Chi era Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso e smembrato a Istanbul protagonista di “The Dissident”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Che il principe saudita Mohammed bin Salman sia coinvolto nella sparizione e nell’uccisione del giornalista, e dissidente saudita, Jamal Khashoggi, lo ha riportato per iscritto un rapporto dell’intelligence degli Stati Uniti. Proprio dove il giornalista, collaboratore tra gli altri del Washington Post, si era auto-esiliato dopo la nomina di Mbs a erede al trono. Un caso internazionale, che ha portato l’opinione pubblica, in tutto il mondo, a interrogarsi sui legami con la monarchia del Medio Oriente, sulla libertà di stampa, sullo stato dei diritti umani e civili in uno dei principali alleati dell’Occidente. L’ex Presidente americano Donald Trump avrebbe ostacolato la pubblicazione del documento per non danneggiare un partner considerato strategico. La situazione è cambiata con l’elezione di Joe Biden, che si è insediato lo scorso gennaio. Il dossier degli 007 è stato reso noto a febbraio 2021. Mbs si è comunque sempre dichiarato innocente. La storia di Khashoggi ha fatto intanto il giro del mondo. Il regista premio Oscar per Icarus, Bryan Fogel, ha dedicato un film al giornalista scomparso. The Dissident, uscito nel 2020. In un articolo per Agi molto approfondito Brahim Maarad, corrispondente da Bruxelles, aveva messo l’accento sulle contraddizioni del personaggio e dell’uomo. “Un martire della libertà o una vittima delle sue stesse contraddizioni? Su di lui si è detto e scritto di tutto, sia da parte di chi vuole farne un’icona della lotta del mondo arabo per l’emancipazione dalle dittature, sia da chi mette in guardia nei confronti dei suoi numerosi voltafaccia”.

Chi era Jamal Khashoggi

Khashoggi era nato a Medina, seconda città dell’Arabia Saudita, nel 1958, da una famiglia saudita di origini turche. Una famiglia di spessore: suo nonno Mohammed era stato il medico personale del fondatore dell’Arabia Saudita (1932), il Re Abdul Aziz al-Saud. Adnan Khashoggi, suo zio, era invece diventato famigeratamente noto come trafficante d’armi. Da piccolo, Jamal, aveva studiato l’ideologia islamica e le idee liberali. Si laureò all’Indiana State University nel 1982. Cominciò a scrivere per i quotidiani sauditi Saudi Gazzette e Al-Sharq al-Awsat. Seguì sul campo il conflitto in Afghanistan, esploso nel 1979 con l’invasione dell’Armata Rossa sovietica. Prima controversia: in una fotografia si vede il cronista con fucile d’assalto e abiti afghani. Non combatteva ma simpatizzava per i mujaheddin. Si era infatti avvicinato alle idee dei Fratelli Musulmani, nati in Egitto e volti alla cancellazione dei resti del colonialismo occidentale nel mondo arabo. Conobbe e incontrò e intervistò in diverse occasioni quindi Osama Bin Laden, saudita come lui, fondatore dell’organizzazione islamista e terrorista Al Qaeda, diventato tristemente noto perché considerato responsabile degli attacchi dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti. Khashoggi prese tuttavia le distanze da Bin Laden negli anni ’90, disapprovando l’esaltazione dell’uso della violenza contro l’Occidente. Quando arrivò all’Al Watan, quotidiano saudita, da redattore capo, il giornalista fu costretto alle dimissioni dopo appena 54 giorni perché le sue idee erano considerate troppo progressiste per le autorità saudite. Con quest’ultime il giornalista intrattenne sempre legami ambigui. Quando il principe Turki al-Faisal, a capo dell’intelligence saudita per più di 20 anni, nel 2005 venne nominato ambasciatore a Washington, Khashoggi lo seguì. All’Al Watan tornò dopo due anni, e ci rimase per quasi tre anni, prima di essere licenziato. Khashoggi ha quindi lanciato Al-Arab, una rete all news, con il miliardario saudita Al-Waleed bin Talal. Il Bahrein, fedele alleato saudita, chiuse l’emittente nel 2015 dopo un’intervista a un funzionario dell’opposizione. Due anni dopo, 2017, dopo la nomina del principe Mohammed bin Salman a erede al trono, il giornalista fuggì dall’Arabia Saudita. Auto-esilio. Nel giro di un paio di mesi il principe Al-Waleed e centinaia di funzionari e uomini d’affari furono arrestati, coinvolti in un giro di vite feroce propagandato come un’operazione anti-corruzione. Sul Washington Post Khashoggi scrisse dunque che con il principe l’Arabia Saudita era entrata in una nuova era di “paura, intimidazioni, arresti e vergogna pubblica”. Critiche anche per il conflitto in Yemen, nel quale Riad fronteggia i ribelli Houti alleati dell’Iran – ancora irrisolto, ha causato migliaia di vittime e destabilizzato il Paese causando -, per essere stato bandito da Twitter dal suo Paese e per il boicottaggio promosso ai danni del Qatar. “Il mondo arabo sta affrontando la sua versione di una cortina di ferro, imposta non da attori esterni ma attraverso forze interne in lizza per il potere. Dobbiamo fornire una piattaforma per le voci arabe”, osservò nell’ultimo editoriale sul Washington Post.

L’omicidio

Il 2 ottobre 2018 il giornalista entrò nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia, e non uscì più. Si era recato presso la sede diplomatica per ottenere i documenti per il matrimonio: avrebbe dovuto sposare la sua compagna Hatice Cengiz. Da quel giorno fu dichiarato persona scomparsa. “Ucciso in una colluttazione”, la versione di Riad. “Fatto a pezzi mentre era ancora vivo”, avevano precisato gli inquirenti turchi. Il corpo di Khashoggi è stato smembrato. Nel processo l’autista del consolato, Edip Yilmaz, ha raccontato come quel 2 ottobre della sparizione lui e altri impiegati turchi furono chiusi in una stanza del consolato e lasciati ad aspettare per tutta la giornata. Per il caso un processo farsa si è svolto in Arabia Saudita, a porte chiuse, e otto anonimi sono stati condannati con pene tra i sette e i venti anni. Il rapporto dell’intelligence Usa che fa riferimento al ruolo di Mohammed Bin Salman non è stato incluso nel fascicolo del processo. Le Nazioni Unite hanno chiesto a Riad “di rivelare se i suoi resti (di Khashoggi, ndr) sono stati distrutti sul posto o come e dove sono stati smaltiti”.

“La storia di questo giornalista del Washington Post di 60 anni che era stato assassinato per aver detto cose vere ai potenti mi ha conquistato come mi ha conquistato la storia di Hatice Cengiz, la sua fidanzata. Pochi giorni dopo l’assassinio di Jamal, il New York Times pubblicò un articolo su Omar Abdulaziz, il giovane dissidente saudita che vive in autoesilio a Montreal, in cui sosteneva di sapere perché Jamal era stato ucciso e si sentiva in parte responsabile del suo assassinio perché avevano lavorato insieme. Questa storia ha stimolato in me il desiderio di fare film che abbiano una componente di attivismo”, ha detto il regista di The Dissident Bryan Fogel. Il film offre numerosi filmati inediti e testimonianze esclusive. The Dissident è stato finanziato dalla Human Rights Foundation.

Proprio il caso Khashoggi è stato rinfacciato a Matteo Renzi – leader di Italia Viva, senatore, segretario del Partito Democratico ed ex Presidente del Consiglio – dopo la sua visita in Arabia Saudita, lo scorso gennaio, per una conferenza organizzata da un think tank proprio con il principe Mbs. “È un grande piacere e un grande onore essere qui con il grande principe Mohammad bin Salman – aveva detto Renzi – l’Arabia Saudita possa essere il luogo per un nuovo Rinascimento”. Renzi si è difeso dicendo che non ci sarebbero prove che bin Salman sia stato il mandante dell’omicidio altrimenti l’amministrazione Biden avrebbe imposto sanzioni sull’Arabia Saudita.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Quei razzisti come gli yemeniti.

Guerra in Yemen: 10mila bambini uccisi o mutilati. Piccole Note il 20 ottobre 2021 su Il Giornale. “Una vergognosa pietra miliare è stata aggiunta al conflitto in Yemen” ha dichiarato il portavoce dell’Unicef James Elder al momento di rendere pubblico il nuovo rendiconto della guerra che vi imperversa, che ha ucciso o mutilato finora 10mila bambini. “Lo Yemen è il posto più difficile al mondo in cui essere un bambino. E, incredibilmente, sta peggiorando”, ha aggiunto. Infatti, i fanciulli non devono solo evitare bombe a proiettili. In questa guerra criminale si muore anche di malattia e di fame. L’Agenzia delle nazioni unite dedicata all’infanzia ha infatti dettagliato che più di 11 milioni di bambini (quattro su cinque) hanno bisogno di assistenza umanitaria e, di questi, circa 400.000 soffrono di malnutrizione acuta grave, mentre più di due milioni non vanno a scuola. E ancora: 1,7 milioni di bambini sono sfollati interni, vivono cioè in abitazioni improvvisate, spesso tendoni, e 15 milioni di persone (più della metà delle quali sono bambini) non hanno accesso all’acqua potabile, ai servizi igienici e vivono in condizioni igieniche degradate.

Gli Usa e gli “elicotteri d’attacco” difensivi

Comunicati del genere si susseguono da anni, e da anni la crisi umanitaria dello Yemen è classificata come la “peggiore al mondo”. E da anni il mondo ascolta distrattamente questi allarmi, dato che i media mainstream dedicano a questa tragedia qualche riga ogni tanto, con articoli in genere nascosti. È un tema da gestire con cura la guerre yemenita, dato che a bombardare sono i sauditi, stretti alleati dell’Occidente, colonna portante dell’asse anti-Iran in Medio oriente e Paese indispensabile per il petrolio. Tant’è. L’amministrazione Biden, al suo esordio, si era pronunciata con fermezza su tale crisi, annunciando solennemente la fine del sostegno americano nelle operazioni offensive in Yemen. Una determinazione che ha ottenuto pieno sostegno nel Congresso, ma che resta ambigua, essendo rimasta in piedi la partnership con i sauditi riguardo la difesa. Ciò implica un coordinamento di intelligence e militare dai contorni più che indefiniti, dal momento che in una guerra è difficile stabilire con chiarezza i confini tra operazioni offensive e difensive. Lo dimostra, solo per fare un piccolo esempio, quanto avvenuto a inizi settembre, quando l’amministrazione Usa ha notificato al Congresso di aver dato seguito a una vendita di armamenti ai sauditi per un totale di 500 milioni di dollari. In particolare, la notifica riguarda la vendita di servizi di manutenzione di hardware per gli “elicotteri d’attacco di fabbricazione statunitense già di proprietà del regno” (The National News). Una misura giustificata dalla necessità di rendere l’esercito saudita in grado di difendersi in caso di attacco, ma si può facilmente immaginare dove siano impiegati questi elicotteri d’attacco, dato che Riad non ha altre guerre aperte in corso se non quella yemenita. Tale l’ipocrisia dei signori della guerra.

La guerra al Terrore dirottata

Detto questo, a fronte dell’attivismo di tali ambiti guerrafondai, per i quali la guerra è solo un proficuo  business, sembra che l’amministrazione Biden stia cercando in qualche modo di fare qualcosa, lavorando sottotraccia, purtroppo, dato che le accuse incrociate derivanti dal ritiro afghano l’hanno costretta a rivedere al ribasso i piani per porre fine alle guerre infinite, alle quali appartiene di diritto il conflitto yemenita, dato che gli Usa vi si erano impegnati ufficialmente per contrastare la minaccia delle cellule terroriste che agivano in Yemen. Su Reveal si può leggere l’interessante, e dettagliata, storia di come gli Stati Uniti fossero consapevoli del fatto che il governo yemenita, al tempo, avesse “dirottato” la missione anti-terrorismo americana per combattere i ribelli Houti, cosa che, in fondo, da allora non è poi cambiata di tanto, al di là dei distinguo. Tornando all’impegno di Biden, da registrare la recente visita del ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan, negli Stati Uniti, dove ha incontrato il Capo del Dipartimento di Stato Anthony Blinken. In agenda, Iran e guerra in Yemen. In parallelo a questa visita, la nota del Washington Post sul negoziato che si è instaurato tra Teheran e Riad, che è serio, come da dichiarazioni di entrambe le parti, e che si sta sviluppando in una serie di incontri ad alto livello. Significativo il titolo del WP: “Arabia Saudita e Iran faranno pace sullo Yemen?”. Dietro la nuova propensione al dialogo di Riad vi è una chiara spinta dell’amministrazione Biden, che non può imporre, data la debolezza interna,, ma può far pressioni per chiudere un conflitto che la mette in serio imbarazzo dovendo proporsi al mondo come difensori dei diritti umani.

I sauditi nel pallone

In attesa che il punto di domanda del Washington Post diventi punto esclamativo, c’è da registrare l’attivismo di Riad nell’ambito sportivo: di queste settimane l’annuncio che il Fondo per gli investimenti pubblici ha acquistato il Newcastle e ha avviato una trattativa per l’acquisto dell’Inter. Una mossa che ha visto le squadre della Premier League insorgere, imponendo una regola che impedisce a una squadra di acquisire pubblicità da aziende legate al padrone, e poche contrarietà in Italia. D’altronde, pecunia non olet né è un male che il calcio attiri investitori, anzi.

Il problema è che tale attivismo non sembra affatto casuale: l’immagine dell’Arabia Saudita si è alquanto offuscata negli ultimi anni, sia per il conflitto in Yemen, sia soprattutto per l’omicidio del giornalista dissidente  Jamal Khashoggi, attribuito a Riad (tale assassinio ha fatto più clamore dell’uccisione di migliaia di bambini yemeniti…). Da qui la necessità per i sauditi di dare un ritocco alla loro immagine investendo nello sport più partecipato d’Europa. Calcolo non del tutto errato, considerando poi che il calcio è un sistema del quale partecipano i media, che attingeranno a cascata di tali investimenti. E ciò gli guadagnerà ulteriori simpatie. In attesa del fischio d’inizio delle nuove partite, si spera che finalmente giunga il fischio finale per il conflitto yemenita. Da qualche tempo, anche i sauditi vorrebbero uscirne, dato il danno di immagine che gli procura e l’impossibilità di conseguire la vittoria. Ma a dettar legge è la Macchina della guerra alla quale si sono consegnati all’inizio di questa brutta storia e che li ha resi schiavi. Una Macchina che può essere inceppata solo a Washington, da cui l’importanza del lavoro – seppur ambiguo, timido e sottotraccia – dell’amministrazione americana. 

Ps. Di oggi la notizia che la polizia tedesca ha arrestato due persone, Achim A. e Arend-Adolf G (nome appropriato) per aver tentato di costituire una milizia mercenaria da porre al servizio dei sauditi,  consapevoli che avrebbero commesso “omicidi” e che le loro azioni avrebbero comportato che “civili venissero uccisi e feriti” (generalbundesanwalt). I sauditi avrebbero rifiutato l’offerta, ma che esistano milizie simili attive in questa sporca guerra lo ha rivelato il New York Times, con un articolo sul reclutamento di mercenari colombiani da parte degli Emirati arabi uniti.

·        Quei razzisti come i bielorussi.

Luigi Guelpa per "il Giornale" il 9 agosto 2021. Un anno fa come oggi Aleksander Lukashenko si autoproclamava presidente della Bielorussia, malgrado il mancato riconoscimento delle istituzioni internazionali e le proteste. Il 9 agosto del 2020 festeggiava un trionfo costruito su evidenti e grossolani brogli elettorali. Quel giorno apparve in tv per chiosare di aver ottenuto l'80% delle preferenze, mentre gli osservatori internazionali presenti a Minsk riuscirono a provare che la leader dell'opposizione, Svetlana Tikhanovskaya aveva conquistato addirittura 85 dei 126 seggi, con oltre il 70% delle preferenze. Nell'ultimo anno in Bielorussia è accaduto davvero di tutto, tra arresti di oppositori e giornalisti, aerei dirottati, rappresentanti delle opposizioni costretti all'esilio o addirittura «suicidati», e organizzazioni umanitarie smantellate. Lukashenko ha usato il pugno di ferro, vantando l'appoggio di Mosca che non sembra essere più solido come un tempo. La repressione contro l'opposizione e la libertà di stampa va avanti a ritmo serrato, in risposta alle enormi proteste contro l'autoritarismo e i brogli elettorali. Secondo le Nazioni Unite, da agosto 2020 a oggi in Bielorussia sono state arrestate per ragioni futili legate alle proteste più di 35 mila persone. Molte delle quali potrebbero essere finite nel campo di prigionia per dissidenti politici di recente costruzione, a circa un'ora di macchina da Minsk, vicino all'insediamento di Novokolosovo, immortalato dalle immagini della Cnn. Senza contare che la nuova ondata di detenzioni cominciata a luglio è particolarmente grave perché ha riguardato una sessantina di Ong note e rispettate. C'era molta attesa in una nuova mossa della Tikhanovskaya, ma è ormai da quasi un anno in esilio all'estero, e la sua capacità di esercitare influenza sul Paese si sta affievolendo. Nelle ultime settimane la leader dell'opposizione, che ora vive in Lituania, è stata negli Usa, dove ha incontrato membri del Congresso e il segretario di Stato Blinken. Ha ottenuto numerose dichiarazioni di sostegno e appoggio, ma nessuna misura concreta. Sperava di convincere Biden (che non l'ha ricevuta) a imporre contro Lukashenko sanzioni ancora più dure di quelle già imposte, e fare in modo che il Fondo monetario internazionale posticipasse un pagamento previsto alla Bielorussia di un miliardo di dollari. Per ora nessuno di questi obiettivi è riuscito. Anche Vitaly Shyshou, a capo della Ong Belarusian House in Ukraine, aveva tentato di allestire una nuova macchina che organizzasse proteste di piazza in occasione dell'anniversario delle elezioni-farsa, ma il 2 agosto è morto impiccato. Gli osservatori internazionali non hanno dubbi e ritengono che Shyshou sia stato eliminato dai sicari del regime. Gli stessi che avrebbero voluto sbattere in cella o in un ospedale psichiatrico la sprinter Krystsina Tsimanouskaya, che da Tokyo ha ottenuto un visto umanitario dalla Polonia per lasciare il suo Paese e continuare la carriera senza il rischio di subire ritorsioni. Lukashenko del resto non si ferma di fronte a nulla. Lo si è compreso perfettamente a maggio, quando ha ordinato ai caccia di intercettare un aereo della Ryanair che volava da Atene a Vilnius, per costringerlo a un atterraggio di emergenza all'aeroporto di Minsk e arrestare l'attivista dell'opposizione Roman Protasevich che si trovava a bordo. Ufficialmente non sono previste per oggi manifestazioni di piazza. Domenica si sono mossi con striscioni e cortei solo i dissidenti che vivono a Vilnius e a Varsavia. Radio Svaboda, l'ultima voce libera del Paese, annuncia però che qualcosa potrebbe accadere sul confine con la Lituania, dalle parti di Rudninkai. Da alcune settimana infatti Lukashenko risponde alle sanzioni volute da Bruxelles usando i migranti come arma impropria. Il governo bielorusso si sta impegnando attivamente per portare migranti, via aria, direttamente sul suolo nazionale, indirizzandoli poi verso la Lituania. Rudninkai, ormai trasformata in una Calais dell'est, potrebbe diventare l'epicentro delle odierne proteste anti-regime.

Alessandra Muglia per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Provata, ma finalmente libera. Jeans, camicia e mascherina, Kristina Tsimanouskaya è arrivata a destinazione. Partita per il Giappone da atleta sconosciuta al mondo, è tornata ieri in Europa da dissidente riluttante, celebre in tutto il mondo suo malgrado. La velocista bielorussa che voleva solo correre si è ritrovata ai Giochi al centro di una crisi diplomatica inaspettata. Lontana dalla politica, mai avrebbe pensato di trasformarsi in un'icona della lotta alla repressione, lei che 24enne non ha mai conosciuto un presidente diverso da Lukashenko, al potere dal 1994. La sua storia dimostra che non occorre essere un'attivista per finire nel mirino del regime. Ieri sera alle 8 il suo volo è atterrato a Varsavia. Un viaggio ad alta tensione. Avrebbe dovuto dirigersi da Tokyo direttamente in Polonia ma all'ultimo il programma è cambiato. Questione di sicurezza: su quell'aereo si erano già prenotati alcuni giornalisti. E soprattutto, il dirottamento a maggio del volo Ryanair per arrestare l'oppositore Roman Protasevich, ha imposto cautele in più. Un aereo Austrian Airlines l'ha portata dopo le 15 a Vienna; da qui in serata il trasbordo a Varsavia. Giornalisti tenuti a distanza, Kristina è apparsa «in buona forma ma stanca» a Magnus Brunner, il viceministro austriaco dell'Ambiente che l'ha incontrata. «È preoccupata per la sua famiglia»: gli agenti del presidente-dittatore sono già andati a trovare i genitori. «È anche tesa per quello che l'aspetta». Una nuova vita, pur con il marito, un atleta anche lui che, fuggito a Kiev appena scoppiato il caso, ieri ha ottenuto il visto polacco. Resterà un'atleta: la Polonia, oltre al visto umanitario e all'asilo, le ha offerto la possibilità di continuare a correre. Non si aspettava che le sue rimostranze sportive al team di allenatori si trasformassero in un caso internazionale. «Non riesco a capacitarmi, non ho detto nulla riguardante la politica - ha detto martedì al New York Times - Ho solo manifestato il mio disaccordo con la decisione dello staff», quella di iscriverla all'ultimo alla staffetta 4x400 senza neanche avvisarla. Dopo il suo post sono arrivate quelle che lei ha chiamato «pressioni», in realtà minacce a leggere la sua conversazione con due tecnici che cercavano di convincerla a tornare a casa. «Così finiscono i suicidi, cosa vuoi dimostrare?». E lei: «Niente, voglio solo correre». Kristina non aveva neanche firmato la lettera aperta dei mille atleti bielorussi per chiedere nuove elezioni: per questo in 35 sono stati espulsi dalla nazionale. Tra loro l'eptatleta Yana Maksimava e il marito decatleta Andrei Krauchanka, non convocati per i Giochi: dopo il rimpatrio di Tsimanouskaya hanno annunciato sui social che «resteremo in Germania, in Bielorussia non si rischia solo la libertà ma anche la vita». Tsimanouskaya, invece, aveva solo le Olimpiadi in testa. Una volta a Tokyo, quando per punirla l'hanno costretta a ritirarsi, sapeva che se fosse tornata a Minsk il suo futuro era spacciato. La sua fermezza l'ha salvata.

Irene Soave per il "Corriere della Sera" il 5 agosto 2021. Il testo che segue è una parte della conversazione tra l'atleta bielorussa Kristina Tsimanouskaya, che ha appena criticato sui social i vertici della sua squadra, il vicedirettore della federazione di atletica leggera Artur Shumak e l'allenatore capo Yuri Moisevich. I due dirigenti stanno comunicando all'atleta che dovrà rientrare in Bielorussia. Una parte della conversazione, registrata clandestinamente, è stata diffusa poco dopo da un canale Telegram, @nic_and_mike, che pubblica informazioni «da dietro le quinte del potere»; l'atleta stessa, contattata dal canale in lingua russa Current Time, ne ha confermato l'autenticità. Dura 19 minuti. Shumak: «Sono arrivate le seguenti istruzioni: tu oggi te ne torni a casa, non scrivi niente da nessuna parte, non fai dichiarazioni. Te la dico così come me l'hanno detta, parola per parola. Se vuoi di nuovo gareggiare per la Bielorussia, vai a casa o dai tuoi o dove ti pare. Più ti agiti... Hai presente una mosca nella ragnatela? Più si dimena, peggio è. Ecco, la vita è così. Facciamo cose stupide. Tu hai fatto una cosa stupida».

Tsimanouskaya: «Non dovevate informarmi? [che avrebbe dovuto correre nella staffetta, ndr ]» 

S: «Te lo rispiego. Qui tu rappresenti la Repubblica di Bielorussia. Non è tua la colpa se non ti hanno informata, però resti responsabile di quel che dici. Stai accusando gente qua e là nel paese senza sapere nemmeno perché e percome. Sai cosa potrebbe provocare la tua stupidità? Che ci sia chi perde il lavoro. Gente che ha famiglie. Con la tua stupidità potresti distruggere vite intere. [...] Oltretutto, sai benissimo che non potresti competere in questo stato emotivo».

T: «Ho vinto un'Universiade in questo stato emotivo». 

S: «Non stavi così. Ora sei fuori controllo». 

Moisevich: «E mi dispiace, ma non lascerai un buon ricordo di te se non ti calmi».

M: «Ora devo andare. Devi anche darmi 350 dollari di diaria che non avrai più. [ fa i conti ] Guarda, dammi 150 dollari. Se è troppo te li ridò». 

T: «Per me non fanno alcuna differenza». 

M: «Non è che siano soldi miei. Non capisci? Ho sessant' anni, non mi spaventa più nulla, ma se arriva uno di questi funzionari e dice "Eseguirò gli ordini"? Potrebbe farci una purga tale che non resterebbe più nulla della squadra. E tu resterai nella storia: diranno, tutto è iniziato con la Tsimanouskaya. Mi ascolti?» 

T: «Non penso che questa storia finirà bene per me». 

M: «No. Hai sentito il ministro? Beh, poi mi ha parlato: è insubordinazione. [...] Mi ha detto: parlale tu... Se tu te ne vai le cose andranno avanti, ci saranno medaglie, tutto sarà dimenticato; se resti, contro la sua volontà, sarà un precedente che interferisce col futuro della squadra. Non puoi farlo per la squadra? [...] È così che vanno i suicidi, sai? Il diavolo spinge uno sul davanzale e gli dice: salta, dimostraci che lo sai fare. E sai cos' è la cosa peggiore? Che alla fine non avrai dimostrato niente a nessuno. E potevi vivere». 

M: «Ora diremo al Comitato che ti sei fatta male, la risolviamo così, e tu te ne vai. Quando poi tutto si è calmato ti prometto che resterai nell'atletica leggera». 

T: «Non ci credo». 

M: «Beh, lo sai che l'alternativa è peggio. Sai cosa si dice delle cancrene, no? Se non tagli mezza gamba poi muori. Sei una ragazza sveglia. Sai che ho ragione. [...] Dai, piangi un altro po' e vado a dire che siamo d'accordo». 

T (in lacrime): «Ma non siamo d'accordo».

Da ilgiorno.it il 2 agosto 2021. La Polonia ha offerto la possibilità di fornire asilo politico alla velocista bielorussa  Krystsina Tsimanouskaya che si rifiuta di tornare nel suo paese dopo le Olimpiadi: lo ha dichiarato oggi il segretario di Stato francese per gli Affari europei Clement Beaune. "Discuteremo con i nostri partner europei se possiamo concederle asilo politico entro le prossime settimane o addirittura giorni", ha detto Beaune alla stazione radio RFI. Tsimanouskaya ha accusato le autorità del suo paese di aver tentato di rimpatriarla con la forza, ed è ora sotto la protezione della polizia giapponese, ha affermato oggi il Cio. L'atleta bielorussa al momento è "al sicuro" in un albergo a Tokyo. Lo ha assicurato il Comitato Olimpico Internazionale (Cio). Domenica la velocista 24enne, che partecipa alle Olimpiadi, aveva espresso preoccupazione, dicendo di sentirsi minacciata, per aver apertamente criticato la sua federazione nazionale. "Ci ha detto che si sentiva al sicuro", ha reso noto il direttore della comunicazione del Cio, Mark Adams, precisando che Tsimanouskaya ha passato la notte in un albergo dell'aeroporto di Tokyo-Haneda. Adams ha aggiunto che il Cio si confronterà di nuovo con lei in giornata per conoscere le sue intenzioni e "sostenerla". La giovane, appoggiata dalla Belarusian Sport Solidarity Foundation, che in Bielorussia sostiene gli atleti imprigionati o messi da parte per le proprie posizioni politiche (in opposizione al regime di Alexander Lukashenko), ha detto di essere stata portata con la forza all'aeroporto per le critiche espresse nei confronti dei suoi allenatori. Una volta arrivata lì è però riuscita a chiedere aiuto alla polizia. Tramite il suo portavoce, il governo giapponese ha da parte sua assicurato che continuerà "a collaborare con le organizzazioni interessate" e che prenderà "le misure adeguate". Tsimanouskaya ha accusato le autorità del suo paese di aver tentato di rimpatriarla con la forza, ed è subito stata messa sotto la protezione della polizia giapponese. "Il Cio ha parlato con la valorosa atleta Tsimanouskaya direttamente la scorsa notte. Lei stava con le autorità aeroportuali all'aeroporto di Hanedsa, era accompagnata da membri dello staff di Tokyo 2020 e si sentiva al sicuro. Ha trascorso in tranquillità la notte presso l'Airport Hotel. Il Cio continuerà a parlare con lei e con le autorità giapponesi per determinare i prossimi passi da intraprendere nei prossimi giorni". L'atleta bielorussa avrebbe dovuto competere nei 200 metri femminili di atletica oggi, ma si è rivolta alla polizia ad Haneda chiedendo di aiutarla a non essere imbarcata in un aereo di ritorno verso la Bielorussa, dopo che ha criticato funzionari della delegazione bielorussa. Tsimanouskaya intende chiedere asilo politico in Germania o Austria, ma ha già ricevuto la disponibilità da parte della Polonia ad accoglierla: il Paese le ha infatti intanto concesso un visto per motivi umanitari e l'atleta si trova già nell'ambasciata di Varsavia. Per quanto riguarda l'accusa lanciata dall'atleta nei confronti della delegazione bielorussa di aver tentato di rapirla, Adams ha risposto: "Ha parlato alla polizia all'aeroporto. Se c'è un reato, se ne occuperà la polizia". "Il regime bielorusso è oramai alla stregua del peggiore regime sovietico: dirotta, incarcera, tortura e adesso rapisce. Manca soltanto il veleno e l'armamentario degli orrori sarà completo. Il tentativo di rapire l'atleta bielorussa Krystsina Tsimanousskaya dimostra che questo Stato si è trasformato in una signoria privata del suo presidente abusivo, per questo la Comunità internazionale deve continuare a condannare tali comportamenti e chiedere l'intervento della Corte Penale internazionale, prima che si arrivi a degenerare definitivamente". A dichiararlo è il deputato M5S, Aldo Penna. 

Anna Zafesova per "la Stampa" il 3 agosto 2021. C'è chi la paragona a Rudolf Nureyev, chi a Martina Navratilova: alle Olimpiadi di Tokyo la velocista bielorussa Kristina Tsimanouskaya ha resuscitato, suo malgrado, la tradizione delle star dello sport e dello spettacolo costrette a fuggire dalle dittature. Un genere che sembrava dimenticato con il tramonto del totalitarismo sovietico, con Nadia Comaneci l'ultima grande fuggitiva dalla Romania, pochi mesi prima della caduta del regime. Ma tra Minsk e Mosca, il ritorno al passato è ormai una politica e un'ideologia, e gli sportivi tornano a essere soldati arruolati in una guerra, e puniti per il «tradimento». Tsimanouskaya è stata considerata una «traditrice» dopo aver commentato, su Instagram, la decisione dei dirigenti olimpici bielorussi di farla correre i 400 metri, oltre che nelle sue specialità dei 100 e dei 200. L'atleta non era stata nemmeno informata che avrebbe dovuto sostituire le sue colleghe che non riuscivano a superare i controlli anti-doping, e aveva reagito in una maniera molto esplicita. Nessuna accusa politica, soltanto critiche ai capi sportivi, ma in Bielorussia il Comitato olimpico è presieduto dal figlio di Aleksandr Lukashenko, dopo che per anni è stato lo stesso presidente a guidarlo, e Kristina è stata ritenuta colpevole di un reato di lesa maestà. I responsabili della nazionale le hanno ordinato di ritirarsi dalle gare con il pretesto di un «esaurimento», e l'hanno portata all'aeroporto di Tokyo per caricarla su un aereo per Istanbul (lo spazio aereo bielorusso viene boicottato dalle compagnie aeree europee dopo che Minsk ha dirottato, nel maggio scorso, un volo della RyanAir per arrestare il dissidente Roman Protasevich che si trovava a bordo). Kristina però è riuscita ad avvertire alcuni connazionali presenti in Giappone, e ad attirare l'attenzione della polizia aeroportuale, che l'ha presa sotto la sua protezione. La Polonia le ha immediatamente concesso rifugio nella sua ambasciata a Tokyo, e l'asilo politico, mentre anche Repubblica Ceca, Slovenia e Francia si facevano avanti, e l'Ucraina accoglieva il marito e il figlio di Tsimanouskaya, scappati da Minsk per non diventare ostaggi del regime. La madre dell'atleta invece ha ricevuto una visita della polizia politica, che le ha chiesto di aiutare a far tornare in patria la figlia, vittima di un «complotto dei servizi segreti occidentali». I media d'opposizione bielorussi hanno pubblicato una registrazione nella quale si sentono i responsabili della nazionale aggredire e minacciare Tsimanouskaya, per poi prometterle di «mettere a tacere tutto» se avesse accettato di rientrare a casa e di «tenere la bocca chiusa». Si sente anche l'atleta singhiozzare, e poi rispondere «non vi credo» alle garanzie di incolumità offerte. Kristina ha raccontato che lo psicologo della nazionale è stato convocato per cercare di farla sentire «colpevole» rispetto ai compagni e ai superiori, che hanno usato anche insulti a sfondo religioso come «sei stata traviata dal demonio, pecchi di superbia!». Il Comitato Olimpico internazionale deciderà a breve eventuali sanzioni contro Minsk, e Amnesty International ha lanciato un appello alla solidarietà con gli sportivi bielorussi. Curiosamente, anche alcuni atleti e commentatori sportivi russi si sono schierati con Tsimanouskaya, un segno di come Lukashenko appaia a molti a Mosca più un problema che una soluzione. Dopo la vicenda dell'aereo dirottato per arrestare un dissidente, il dittatore di Minsk mostra di nuovo di non voler riconoscere alcun vincolo e regola. Di solito, gli autoritarismi cercano al contrario di approfittare delle Olimpiadi per sfoggiare un volto più pacifico, ma nell'anniversario della rivolta contro la sua rielezione truccata Lukashenko sembra rendersi conto di non poter contare su un compromesso, né con l'opposizione, né con l'Europa, e di aver scelto quindi una tolleranza zero al dissenso, costi quel che costi.

Bielorussia, il regime atterra un aereo per arrestare un dissidente. «Siamo ai dirottamenti di Stato. Inaccettabile». Luca Sebastiani su L'Espresso il 24 maggio 2021. Il caso del volo Ryanair dirottato a Minsk per ordine di Lukashenko scatena le reazioni delle diplomazie. Ue e Stati Uniti condannano l’atto, mentre la Russia difende il dittatore. Il regime di Aleksandr Lukashenko continua la sua repressione contro gli oppositori. L’ultimo caso è quello del 26enne giornalista e blogger Roman Protasevich, fermato dopo che l’aereo di linea su cui stava viaggiando, partito da Atene e diretto a Vilnius, è stato costretto da un caccia militare a deviare e atterrare su Minsk. Al momento del dirottamento mancavano solo due minuti prima che il mezzo entrasse nello spazio aereo della Lituania. Secondo quanto riferisce la stampa del paese, l’ordine è arrivato direttamente dal presidente bielorusso, giustificato da segnalazioni di pacchi sospetti all’interno dell’aereo. Esplosivi e pericoli non sono stati trovati, ma in compenso il ragazzo è stato bloccato dalle forze di sicurezza e con lui anche la fidanzata russa 23enne, Sofia Sapega. Dopo l’arresto, il volo è ripartito raggiungendo la capitale lituana con sei ore di ritardo. A poche ore di distanza, nella giornata di lunedì, la Bielorussia ha bloccato un altro volo «per una minaccia terroristica». Una soffiata ha fatto scattare l’allerta e le procedure di sicurezza su un volo della Lufthansa in procinto di partire da Minsk verso Francoforte. Una volta che la notizia dell’aereo dirottato è cominciata a circolare, le reazioni da Bruxelles e da tutto il mondo non si sono fatte attendere. «Un comportamento oltraggioso e illegale che avrà conseguenze» è come lo ha definito la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, auspicando la liberazione del giornalista. Gli ha fatto eco Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, che ha esortato ad aprire un'accurata indagine dell’incidente, mentre per Josep Borrell, l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera e di Sicurezza, è un avvenimento «inammissibile». La prima mossa è stata la convocazione dell’ambasciatore bielorusso in Ue ma potrebbero arrivare ulteriori sanzioni, visto che sia il Consiglio sia gli ambasciatori della Nato si riuniranno tra lunedì 24 e martedì 25 per stabilire l’entità dei nuovi provvedimenti. E una delle misure che verrà messa sul tavolo sarà quella di sospendere tutti i voli europei provenienti o diretti in Bielorussia fino alla liberazione di Protasevich. Ma si sono alzate voci non solo dai rappresentanti ufficiali di Bruxelles. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha esternato le sue preoccupazioni e ha lanciato un appello, come riferisce l’Ansa: «Quello che è avvenuto ieri è inaccettabile. Siamo al dirottamento di Stato. L’Unione europea deve essere unita, non facciamoci dividere da attori terzi perché è su questa arroganza che si compiono azioni del genere». Anche Londra e soprattutto Washington hanno manifestato il loro sconcerto per l’accaduto, con il segretario di Stato americano Antony Blinken e quello britannico Dominic Raab che hanno entrambi comunicato l’intenzione di coordinarsi con gli alleati per le risposte da dare. Espressioni tipiche, quasi di rito e diplomatiche. Ma un po’ meno lo sono state quelle rilasciate da un attore che a suo discapito è diventato protagonista del dirottamento: Ryanair. In un primo timido comunicato nella giornata di domenica 23, la compagnia di fatto non ha menzionato l’arresto del giornalista nè tantomeno la pratica inconsueta delle forze bielorusse. Tuttavia, poche ore dopo in un’altra nota la società ha condannato «le azioni illegali delle autorità bielorusse, un atto di pirateria aerea». Il Ceo Michael O’Leary, su una radio irlandese, ha affermato che sul velivolo c’è il sospetto siano saliti direttamente agenti del Kgb pronti ad agire e che siano scesi a Minsk. A bordo avrebbero intimato al personale di deviare e seguire il caccia bielorusso. Un fatto grave che ha già causato le prime ripercussioni. La Lituania ha vietato di sorvolare lo spazio aereo della Bielorussia a tutti i voli che partono o che arrivano nel paese. Ma le avvertenze non si sono limitate all’aeronautica civile. Il governo ha anche invitato i propri cittadini a non recarsi a Minsk e di lasciare immediatamente la Bielorussia. Una misura grave, per due paesi in “pace”. A Vilnius sono stati poi interrogati i piloti per avere la loro testimonianza. Chi invece ha difeso l’operato di Minsk è stata Mosca, alleata di Lukashenko e principale sponsor del regime. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, parlando di «approccio ragionevole», ha invitato tutta la comunità internazionale a «valutare a mente lucida la situazione». Anche se la nazionalità russa della compagna del giornalista ha forzato la scelta del Cremlino di richiedere un incontro del console. La ragazza, che secondo fonti locali sarebbe reclusa nel carcere di via Okrestina a Minsk, avrebbe fatto in tempo solo a scrivere un messaggio alla madre prima di essere fermata dai bielorussi. I due stavano ritornando da un semplice viaggio di vacanza. Protasevich era fuggito dalla Bielorussia nel 2019, accrescendo quella schiera di dissidenti politici rifugiati all’estero, specialmente nei paesi baltici e in Polonia. Una diaspora aumentata in maniera esponenziale dopo le proteste della scorsa estate. Dai paesi limitrofi sono in molti ad aver proseguito la lotta contro il regime di Lukashenko, divulgando e pubblicando le prove delle nefandezze compiute dalle forze di sicurezza di Minsk, sia per le strade che nelle carceri del paese. Proprio per questo i giornalisti continuano ad essere i primi bersagli della repressione.

(ANSA il 25 maggio 2021) - "Non tolleriamo che si giochi alla roulette russa con la vita dei civili": lo ha detto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel presentando le sanzioni contro la Bielorussia per il "fatto scandaloso accaduto ieri". La risposta Ue "è all'altezza dell'offesa", ha aggiunto.

(ANSA il 25 maggio 2021) - "Gli Stati Uniti condannano duramente il dirottamento del volo della Ryanair in Bielorussia per permettere l'arresto del giornalista Roman Protasevich": lo afferma il presidente americano Joe Biden, che accoglie favorevolmente la richiesta Ue di sanzioni economiche mirate. "Ho chiesto al mio team di studiare opzioni adeguate per i responsabili", ha aggiunto Biden, invocando "un'indagine internazionale sull'incidente".

(ANSA-AFP il 25 maggio 2021) - La compagnia di bandiera francese Air France ha annunciato che non volerà per il momento sulla Bielorussia dopo il caso Ryanair e le sanzioni decise dall'Ue contro Minsk. "Air France ha preso atto delle conclusioni del Consiglio europeo e di conseguenza ha deciso di sospendere, fino a nuovo ordine, il sorvolo dello spazio aereo (bielorusso) da parte dei suoi aeromobili", ha annunciato la compagnia in un comunicato nel quale si precisa che la rotta degli aerei già in volo verso la Bielorussia "sarà modificata".

Francesca Basso per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. Una discussione veloce. I capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri riuniti al Consiglio europeo straordinario si sono trovati rapidamente d' accordo sulle misure da adottare per «condannare con forza» l'atterraggio imposto dalle autorità della Bielorussia al volo Ryanair Atene-Vilnius che ha portato all' arresto del giornalista dissidente Roman Protasevich e della sua fidanzata Sofia Sapega. I leader Ue hanno chiesto il rilascio immediato di entrambi e che sia garantita loro la libertà di movimento. Protasevich è apparso in video dal suo luogo di detenzione assicurando di «stare bene», ma con il volto segnato. I leader Ue hanno deciso che siano adottate il più velocemente possibile nuove sanzioni nei confronti di persone ed enti della Bielorussia. Le sanzioni attuali - divieto di viaggio e congelamento dei beni - hanno già colpito sette entità e 88 persone tra cui lo stesso dittatore Alexandr Lukashenko, suo figlio Viktor che è consigliere per la sicurezza nazionale e altre figure chiave. I capi di Stato hanno invitato tutte le compagnie aeree con sede nell' Ue a evitare di sorvolare la Bielorussia e chiesto al Consiglio Ue di adottare le misure necessarie ad evitare il sorvolo dello spazio aereo dell'Unione da parte delle compagnie bielorusse e di impedire l'accesso agli scali dell' Ue. Hanno inoltre richiesto un'indagine dell'Organizzazione internazionale dell'aviazione civile (Icao) sull' accaduto. Inoltre invitano l'Alto rappresentante Josep Borrell a presentare proposte per nuove sanzioni economiche mirate o settoriali. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen, a margine del vertice, ha detto che «ci sono 3 miliardi di euro di investimenti pronti nell' Ue, congelati finché la Bielorussia non diventerà una democrazia». Questo per fare pressione su Minsk. La giornata è stata un crescendo di tensioni. L' Alto rappresentante Ue Borrell ha convocato l'ambasciatore bielorusso presso la Ue. Così hanno fatto Berlino e Roma. Anche Londra ha convocato l' ambasciatore e ha chiesto alle compagnie aeree britanniche di evitare lo spazio aereo della Bielorussia. Inoltre il governo britannico ha bandito la compagnia aerea bielorussia Belavia. Minsk ha espulso l' ambasciatore lettone e il suo staff, e la Lettonia ha fatto altrettanto in risposta. I leader Ue hanno espresso solidarietà a Riga. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha definito l' atterraggio forzato «uno scandalo internazionale: le vite di civili europei sono stato messe a rischio e non è accettabile». Per la presidente von der Leyen si è trattato di «un dirottamento completamente inaccettabile». E per la cancelliera tedesca Angela Merkel «tutte le spiegazioni invocate dalla Bielorussia sono completamente inverosimili». Minsk si è difesa dicendo di avere ricevuto «una mail da Hamas» in cui si minacciava di far «saltare in aria» l' aereo se l' Europa non avesse «cessato il suo appoggio verso Israele». E la minaccia terroristica è l' espediente usato anche ieri dalle autorità bielorusse per ritardare la partenza dall' aeroporto di Minsk del volo della Lufthansa diretto a Francoforte per controlli di sicurezza. L' Ue ha deciso le prime sanzioni contro la Bielorussia nell' ottobre scorso in risposta ai brogli nelle elezioni del 9 agosto 2020 e alla violenta repressione dei manifestanti pacifici. Sul tavolo dei capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri c' era oltre alla Bielorussia anche il dossier Russia, su cui la discussione si è protratta nella notte. In entrambe le sessioni, per garantirne la riservatezza, sono stati fatti togliere tutti i dispositivi elettronici dalla sala.

Da ilfattoquotidiano.it il 24 maggio 2021. L’Unione europea blocca il pacchetto d’investimenti da 3 miliardi di euro che dovevano finire in Bielorussia dopo il dirottamento di un volo Ryanair e l’arresto del dissidente Roman Protasevich che viaggiava a bordo. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, entrando al Consiglio Ue che, tra le altre cose, dovrà decidere quali provvedimenti prendere nei confronti del governo di Minsk, ha dichiarato che “serve una risposta molto forte contro questo dirottamento completamente inaccettabile. Lukashenko deve capire che questo atto non può essere senza conseguenze. Il pacchetto economico da 3 miliardi di investimenti pronto ad andare dalla Ue in Bielorussia resta congelato finché la Bielorussia non diventerà democratica”. E si stanno discutendo sanzioni dirette contro individui ed entità economiche che finanziano il regime e contro l’aviazione. La vicenda che ha coinvolto l’ex direttore del canale Telegram Nexta, nonché oppositore politico di Lukashenko, si allarga di ora in ora sul piano diplomatico, con la Bielorussia che si difende dagli attacchi dell’Occidente che “politicizza la situazione” e Mosca che prende le difese dell’alleato storico, aprendo una nuova frattura con Usa e Ue dopo i recenti scontri sul caso di Alexei Navalny. Il Consiglio Ue che si riunisce stasera ha in cima all’agenda la discussione su possibili sanzioni a Minsk, mentre la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha commentato: “Abbiamo assistito a un atterraggio forzato, tutte le altre spiegazioni sono del tutto inverosimili. Roman Protasevich deve essere rilasciato immediatamente, così come la sua compagna”. La Farnesina, così come altri Paesi europei, ha convocato l’ambasciatore bielorusso. E anche il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, chiede una presa di posizione forte da parte dell’Unione: “I fatti di ieri sono di una gravità inaudita. Chiediamo l’immediato rilascio e un’indagine internazionale. La nostra risposta dev’essere forte, immediata e unitaria. L’Unione europea deve agire senza esitazioni e punire i responsabili. Stasera avete una grande responsabilità per dimostrare che l’Unione non è una tigre di carta”. Anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “appoggia le richieste di un’indagine completa, trasparente e indipendente”. “Ricevuta una minaccia da Hamas” – Le autorità bielorusse avevano giustificato il loro intervento e l’atterraggio parlando di allarme bomba a bordo: un allarme che, ha detto il direttore del dipartimento dell’aviazione del ministero dei Trasporti, Artem Sikorsky, proveniva da Hamas ed è arrivato via mail. “Noi, i soldati di Hamas, chiediamo che Israele cessi il fuoco a Gaza e chiediamo che l’Ue rinunci al suo sostegno a Israele. I partecipanti al forum economico di Delfi tornano a casa con il volo 4978. Una bomba è stata messa in questo aereo. Se non soddisfate le nostre richieste, esploderà sopra Vilnius”, recitava la mail comunicata da Sikorsky. A questo però non è seguito il ritrovamento di alcun ordigno, ma solo l’arresto di Protasevich. Igor Goloub, comandante dell’aeronautica, ha inoltre aggiunto che la decisione dell’atterraggio “è stata presa dal comandante dell’equipaggio senza interferenze esterne”. Una versione dei fatti lontanissima da quella data alla radio irlandese Newstalk dal ceo di Ryanair Michael O’Leary, che ha denunciato un “sequestro di Stato” da parte di Minsk e ha aggiunto che a bordo dell’aereo ci fossero agenti del servizio di sicurezza bielorusso (Fsb). “Sembra che l’intenzione delle autorità fosse quella di far uscire un giornalista e la persona che viaggiava con lui”, ha spiegato. “Crediamo anche che all’aeroporto siano sbarcati agenti del Fsb“, ha aggiunto. E a meno di 24 ore dallo scoppio del caso Protasevich, un volo Lufthansa per Francoforte dall’aeroporto di Minsk è stato sospeso per la minaccia un imminente atto terroristico. “L’indirizzo mail dell’aeroporto nazionale ha ricevuto un messaggio da persone non identificate sull’intenzione di commettere un atto di terrorismo sul volo Lufthansa LH1487 sulla rotta Minsk-Francoforte. Il volo doveva decollare alle 14:20. L’imbarco su questo volo è stato sospeso”, si legge nel comunicato. Ue discute nuove sanzioni – Dagli Usa il segretario di Stato americano, Antony Blinken bolla l’azione bielorussa del dirottamento come un atto “sfrontato e scioccante” e insiste sulla necessità di una “indagine internazionale”, mentre domani gli ambasciatori della Nato discuteranno del caso. In Europa, invece, dove il Consiglio Ue è chiamato in serata a discutere di nuove sanzioni contro Minsk, il ministero degli Esteri tedesco ha convocato l’ambasciatore bielorusso perché “le spiegazioni avute fin qui dal governo bielorusso per l’atterraggio forzato sono assurde e non credibili”. “Il primo punto all’ordine del giorno del Consiglio europeo è la Bielorussia, quello che è successo ieri è uno scandalo internazionale, lavoriamo a sanzioni che sono sul tavolo del summit”, ha detto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Mentre il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, ha detto di augurarsi “una risposta forte a quello che è successo ieri”, un episodio “veramente senza precedenti, un fatto vergognoso e incredibile a cui l’Ue deve dare una risposta. Mi attendo il massimo di risposta possibile perché non si può stabilire un precedente di questo genere”. La Farnesina ha invece convocato l’ambasciatore bielorusso a Roma per esprimere la forte condanna dell’Italia, mentre la Francia evoca già l’opportunità di vietare lo spazio aereo bielorusso e da Bruxelles il Ppe chiede “l’istituzione di una no-fly zone sulla Bielorussia, l’adozione del quarto pacchetto di sanzioni e il rilascio immediato e incondizionato di Pratasevich“. “Il dirottamento di un volo dell’Ue da parte del regime di Lukashenko è una violazione del diritto internazionale e un atto di terrorismo di stato. Il limite è superato! I nostri governi devono agire ora”, si legge nella nota dei popolari europei. La Lituania ha reso invece noto di aver vietato a tutti i voli di attraversare lo spazio aereo bielorusso, che anche le compagnie Air Baltic e Sas eviteranno fino a nuove disposizioni. Anche il ministro dei Trasporti di Boris Johnson, Grant Shapps, ha chiesto alle compagnie aeree britanniche di non entrare nello spazio aereo bielorusso, mentre il governo di Londra ha convocato l’ambasciatore bielorusso e sta valutando sanzioni contro Minsk, come riferito dal ministro degli Esteri, Dominic Raab. L’asse Bielorussia-Mosca contro le critiche dell’Occidente – Il governo di Minsk prende le distanze dalle condanne arrivate finora da Bruxelles e Washington – convinte che il dirottamento giustificato dalla minaccia di una bomba fosse in realtà finalizzato all’arresto dell’oppositore a bordo – e difende le sue azioni che, dichiara il ministero degli Esteri, “hanno rispettato pienamente le regole internazionali stabilite”, aggiungendo che il caso del volo Ryanair in viaggio da Atene e Vilnius dovrebbe essere visto dal punto di vista della sicurezza che è stata fornita e che in Occidente politicizzano la situazione e arrivano a conclusioni affrettate. Il governo ha anche invitato “l’Associazione Internazionale del Trasporto Aereo, l’Agenzia Europea per la Sicurezza Aerea e le autorità aeronautiche interessate a partecipare a un’indagine imparziale sull’incidente che ha avuto luogo. Minsk è pronta a fornire tutte le informazioni imparziali” , ha dichiarato il direttore del dipartimento dell’aviazione presso il Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni, Artyom Sikorsky. A fianco della Bielorussia si schiera prontamente Mosca, suo storico alleato: “È scioccante che l’Occidente consideri l’incidente nello spazio aereo bielorusso ‘scioccante'”, ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova sulla sua pagina Facebook, notando che i Paesi occidentali sono stati in passato colpevoli di “rapimenti, atterraggi forzati e arresti illegali”. Per parte sua la Bielorussia si è inoltre detta disponibile a ricevere esperti e a dimostrare tutti i materiali relativi all’atterraggio del volo Ryanair a Minsk. “Non ho dubbi che possiamo garantire la piena trasparenza in questa questione, gli esperti saranno ricevuti e tutti i materiali saranno dimostrati, se necessario, al fine di escludere le insinuazioni“, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri bielorusso Anatoly Glaz in una dichiarazione pubblicata sul sito del ministero. I passeggeri arrestati sul volo – Oltre a Protasevich ieri è stata arrestata a Minsk anche la sua compagna Sophia Sapega, cittadina russa di 23 anni che sta frequentando un master all’Università Europea di Scienze Umanistiche di Vilnius nell’ambito del programma di Diritto Internazionale e dell’Ue. Anche lei è finita in manette e si trovava sempre a bordo dello stesso volo dirottato da un MIG-29 dell’aeronautica bielorussa. Protasevich e Sapega non sono però gli unici due passeggeri fatti scendere a Minsk e fermati dalle autorità: un membro del Presidium del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa, l’ex ministro della cultura Pavel Latushko, citato da Interfax, spiega che in tutto sono 4 i passeggeri di nazionalità russa che non hanno proseguito il viaggio verso Vilnius dopo il dirottamento. Protasevich è di nazionalità bielorussa. Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, spiega però che il Cremlino non dispone di informazioni sul presunto fermo “di una cittadina russa o di cittadini russi”. Cosa rischia Protasevich – Nel settembre 2020 Nexta e gli altri canali associati erano stati dichiarati “estremisti” e messi fuori legge in Bielorussia. Protasevich e il collega Stsyapan Putsila erano stati iscritti nella lista delle “persone coinvolte in atti di terrorismo” e incriminati per “incitamento a disordini di massa”, “incitamento all’odio sociale” e “gravi violazioni dell’ordine pubblico”, reati per i quali rischiano fino a 15 anni di carcere. Protasevich, ricercato per aver organizzato le proteste dello scorso anno contro Lukashenko, dal 2019 vive in esilio in Polonia, Paese che ha respinto la richiesta di estradizione di Minsk.

Bielorussia: con Protasevich arrestata la compagna, è russa. (ANSA il 24 maggio 2021) Le autorità bielorusse hanno arrestato almeno un altro passeggero del volo Ryanair atterrato ieri d'urgenza a Minsk. Come riferisce il servizio russo della Bbc, insieme all'ex direttore del canale Telegram Nexta Roman Protasevich, è stata arrestata la sua ragazza, una cittadina russa di 23 anni, Sophia Sapega, che sta frequentando un master all'Università Europea di Scienze Umanistiche di Vilnius nell'ambito del programma di Diritto Internazionale e dell'Ue. "L'Università sta facendo ogni sforzo perché Sofia Sapega venga rilasciata il più presto possibile", ha detto il portavoce dell'ateneo Maxim Milta. Lo riporta la testata Meduza.

Bielorussia: Usa chiedono rilascio immediato giornalista

(ANSA il 24 maggio 2021) Gli Stati Uniti "condannano duramente" il comportamento della Bielorussia e chiedono l'immediato rilascio il giornalista bielorusso Roman Protasevich. L'ordine di far atterrare a Minsk l'aereo di Ryanair in viaggio da Atene a Vilnius è stato dato ieri "personalmente" dal presidente Aleksandr Lukashenko a seguito di un allarme bomba: lo hanno riferito media di Stato della Bielorussia, a cominciare dall'agenzia di stampa Belta. Durante la sosta imprevista, durata ore, seguita all'affiancamento al velivolo di un caccia Mig-29, è stato fermato, costretto a scendere dall'aereo e arrestato Roman Protasevich, 26 anni, giornalista e co-fondatore di Nexta, una testata che trasmette su Telegram critica nei confronti del governo di Lukashenko, al potere a Minsk dagli anni Novanta. Secondo Belta, che non cita alcun provvedimento giudiziario, a bordo dell'aereo non sono stati trovati esplosivi. Il velivolo è poi ripartito per Vilnius, la capitale della Lituania, dove è giunto con circa sei ore di ritardo rispetto all'orario previsto. Sull'episodio, che ha coinvolto un volo interno all'Ue, sono intervenuti esponenti dell'Unione europea. Secondo la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, quello del governo bielorusso è stato "un comportamento irresponsabile e illegale" e "ci saranno conseguenze". Di "atto scioccante" ha detto invece il segretario di Stato americano Antony Blinken. Secondo il dirigente, Washington "si sta coordinando" con i suoi alleati "sui prossimi passi".

Bielorussia dirotta un aereo per arrestare oppositore. Proteste internazionali. Da agi.it il 24 maggio 2021. Un aereo Ryanair partito da Atene per Vilnius è stato dirottato quando era quasi arrivato a destinazione, a poche decine di miglia dal confine lituano, da un jet dell’aviazione militare bielorussa. Fra i 179 passeggeri, in serata atterrati nella loro destinazione, ce n’era uno che interessava particolarmente i servizi di sicurezza di Minsk: un giovane giornalista, il 26enne Roman Protasevich, già direttore di un canale di informazioni dell’opposizione, Nexta, attivo su Telegram dai tempi della contestata vittoria elettorale del premier Alexander Lukashenko, l’estate scorsa, e successivamente catalogato come “terrorista” dalle autorità bielorusse. Secondo i siti dell’opposizione che hanno diffuso sui social network la notizia, e in particolare secondo la leader del movimento Svetlana Tikhanoskaya, il giovane è stato arrestato subito dopo l’atterraggio di emergenza e “la sua vita è in pericolo”, essendo la Bielorussia l’ultimo Paese europeo in cui c’è ancora la pena di morte. Il canale Twitter dell'opposizione bielorussa Belarus Free Thatre riferisce che "anche la fidanzata di Roman Protasevic è stata arrestata e trattenuta sullo stesso volo". Il tweet aggiunge che non ci sono "informazioni su dove si trovino o in quali condizioni siano". Sempre secondo le informazioni diffuse dagli oppositori e confermate dalla Lituania, il caccia Mig-29 che ha costretto il velivolo Ryanair ad atterrare era armato con razzi ed era accompagnato da un biposto Su-29 e da un elicottero da attacco MI-24. Il dirottamento e l’arresto hanno scatenato la rabbia dell’Europa, ma le autorità bielorusse si sono giustificate dando una loro versione dei fatti: dall’aereo era stato lanciato un allarme bomba, e per questo è stato fatto atterrare a Minsk; si sarebbe trattato di un falso allarme, hanno poi spiegato le autorità aeroportuali. La spiegazione non ha convinto la comunità internazionale: da tutta Europa e dal Regno Unito si sono levate voci di sdegno e preoccupazione oltre alla richiesta formale, da parte delle autorità di Bruxelles, di consentire immediatamente ai passeggeri di proseguire il loro volo, come poi avvenuto dopo diverse ore di attesa. La Farnesina ha condannato l'accaduto: "Ferma condanna dell'Italia per l'atterraggio forzato di un volo commerciale ad opera delle Autorita' bielorusse", afferma il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, secondo cui si tratta di "una violazione inaccettabile delle regole internazionali di navigazione aerea". Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha definito l’accaduto un “atto criminale di terrorismo di Stato” e ha chiesto al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, che si appresta ad accogliere i 27 capi di Stato e di governo per un vertice domani a Bruxelles, di approfittare dell’appuntamento per discutere di sanzioni immediate contro Minsk.

Il giornalista 26enne Fondatore di Nextra. Chi è Roman Protasevich, l’oppositore di Lukashenko arrestato dopo il dirottamento del volo Ryanair in Bielorussia. Elisabetta Panico su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Roman Protasevich è il giornalista 26enne arrestato dopo il dirottamento del volo di linea Ryanair fatto atterrare in Bielorussia all’aeroporto di Minsk. Era in vacanza ad Atene con la sua fidanzata 23enne Sophia Sapega e insieme stavano facendo ritorno a casa a Vilnius in Lituania, dove viveva da novembre. Protasevich è un oppositore del regime di Aleksandr Lukashenko ed è stato arrestato ieri a seguito dell’atterraggio “d’emergenza” del volo su cui viaggiava. Il 26enne è il fondatore di Nextra, il canale Telegram della Bielorussia seguito da 578 milioni di persone, con sede in Polonia. Il giornalista era finito sotto il mirino del presidente-dittatore bielorusso dopo che aveva condiviso filmati delle manifestazioni dell’anno scorso iniziate a causa della rielezione di Lukashenko, dall’opposizione e da gran parte della Comunità internazionale ritenuta illegittima. Oggi il ragazzo rischia 15 anni di carcere con accuse di estremismo in Bielorussia, tra cui l’organizzazione di rivolte di massa e l’incitamento all’odio sociale. A bordo del volo low-cost c’erano 171 passeggeri e alcuni di loro hanno raccontato cosa ha detto Roman prima di essere stato arrestato. Uno di loro, seduto accanto a Protasevich ha raccontato a Delfi.lt cosa è successo gli attimi dopo la notizia dell’atterraggio. “Ci sono state molte voci. Dopo un’improvvisa manovra dell’aereo, un ragazzo è andato nel panico. Solo allora abbiamo capito perché. Secondo alcuni resoconti dei media, non ci sono stati conflitti a bordo. Solo quando il ragazzo ha scoperto che stavamo per atterrare si è arrabbiato. Siamo stati portati tutti fuori dall’aereo, i cani hanno annusato le nostre cose. Questo ragazzo è stato preso da parte e le sue cose sono state gettate sulla passerella. Gli abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. Ha detto chi era e ha aggiunto: ‘La pena di morte mi aspetta qui’. Era già più calmo, ma tremava. Un ufficiale era sempre in piedi accanto a lui e presto i militari lo portarono via”. Secondo quanto invece ha riportato sul canale Telegram il dissidente già ad Atene aveva la sensazione di essere seguito “all’aeroporto – ha scritto Roman – un uomo mi è stato dietro fino all’imbarco e ha tentato di fotografare il mio passaporto”. Un sito bielorusso inoltre ha detto che di tutti i passeggeri sei non sono mai risaliti sull’aereo per la Lituania: uno è Roman, l’altra è la fidanzata Sophia e si pensa che gli ultimi quattro siano degli agenti del KGB bielorusso, i servizi segreti.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

Cos’è Nexta, il canale che incita l’opposizione in Bielorussia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 24 maggio 2021. Il nome Nexta è balzato sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo il 23 maggio, quando un volo della Ryanair è stato costretto ad atterrare in territorio bielorusso nell’ambito di un’operazione hollywoodiana pianificata dalla presidenza Lukashenko per arrestare Roman Dmitriyevich Protasevich. Protasevich, noto attivista antigovernativo ed ex co-gestore di Nexta, il 5 novembre dell’anno scorso era entrato ufficialmente nel mirino della giustizia bielorussa. Incriminato per incitamento all’odio sociale, organizzazione di rivolte di massa e azioni che violano l’ordine pubblico – capi d’imputazione condivisi con il socio e fondatore di Nexta, Stepan Putilo –, Protasevich era stato successivamente inserito nell’elenco dei ricercati per terrorismo dai servizi segreti bielorussi (KGB). A partire da quel momento, all’ombra delle sfilate internazionali di Svetlana Tikhanovskaya e dell’apparente ritorno alla normalità a Minsk, l’apparato di sicurezza bielorusso avrebbe cominciato a pedinare Protasevich con l’obiettivo di catturarlo e portarlo dinanzi ai tribunali patri. Un’operazione spettacolare, quella del 23 maggio, consumata in spregio al diritto internazionale e con il probabile benestare del Cremlino, ergo da contestualizzare nel quadro dell’attuale guerra fredda 2.0 e, più nello specifico, nell’ambito dei preparativi dell’incontro Putin-Biden – una prova di forza concepita con il fine precipuo di giungere al tavolo negoziale da una posizione sopraelevata – e che dovrebbe suscitare delle domande: che cos’è Nexta? Rappresenta realmente un pericolo per la sicurezza nazionale della Bielorussia? E, soprattutto, chi si cela dietro al canale Telegram più politicamente influente degli anni recenti?

Alle origini del fenomeno Nexta. Nexta (let. “qualcuno”) è il termine con il quale si fa riferimento ad una realtà informativa basata su Telegram, dove è presente con tre canali (Nexta, Nexta Live e Luxta), fondata nel 2018 da Stepan Putilo, un attivista antigovernativo classe 1998. Putilo, figlio d’arte – il padre è un giornalista di Belsat, un canale televisivo polacco in lingua bielorussa – apre il canale Nexta poco dopo essersi trasferito in Polonia, dove risiede tutt’ora, dedicandosi inizialmente alla produzione di contenuti anticorruzione e satira contro Aleksandr Lukashenko. Il canale cessa di essere una realtà simil-studentesca e di nicchia a soltanto un anno dall’istituzione, quando Putilo produce e diffonde un documentario capace di fare breccia nelle stanze dei bottoni del palazzo presidenziale di Minsk, “Lukashenka: Criminal Materials“. Caricato anche su YouTube, dove registra oltre tre milioni di visualizzazioni, il documento attrarrà l’attenzione e l’interesse di Roman Protasevich, un giornalista classe 1995 reduce da Euromaidan – ex membro dell’ufficio stampa del Battaglione Azov – e forte di un bagaglio di conoscenze e competenze acquisite lavorando per Radio Free Europe. L’entrata di Protasevich nel progetto Nexta si rivela fondamentale al fine del suo salto di qualità, ovvero della trasformazione da uno dei tanti canali di sfogo antigovernativo ad il canale anti-Lukashenko per antonomasia. Gli iscritti aumentano con lo scorrere del tempo, di pari passo con la frequenza delle pubblicazioni, permettendo ai due giovani attivisti di condurre una campagna elettorale parallela per Svetlana Tikhanovskaya e di denunciare il clima di paura e repressione aleggiante nel Paese. Ma sarà soltanto nella tarda serata del 9 agosto, con la pubblicazione dei risultati delle presidenziali, che il duo riuscirà a dispiegare totalmente le potenzialità politiche del canale.

La telegrammizzazione del malessere. Le strade della Bielorussia vengono invase dalla rabbia nell’immediato post-pubblicazione dei risultati elettorali – Lukashenko riconfermato con l’80% dei voti –, la cui genuinità viene contestata a gran voce dai partiti di opposizione, dall’Unione europea e da una parte dell’opinione pubblica. I capi dell’opposizione cominciano a fuggire all’estero, perché spaventati dalla concreta possibilità di un arresto arbitrario, ma Nexta non demorde e, nonostante i tentativi di eliminazione dalla rete, riesce a capitalizzare il malcontento, convertendosi nell’inusuale ed immateriale voce delle piazze in subbuglio. Piazze che Putilo e Protasevich supporteranno in una varietà di modi, sfruttando sapientemente il potere della messaggistica istantanea per spezzare la barriera della distanza. Il canale Nexta sarebbe diventato, a partire dalla notte del 9 agosto, il nemico numero uno dell’ordine lukashenkiano. Un nemico intoccabile, perché gestito da persone residenti all’estero e protetto dal manto impermeabile di Telegram, quindi ritenuto ragionevolmente micidiale dall’apparato di sicurezza bielorusso. Il rischio di una EuroMinsk è concreto: il canale incita i dimostranti a proseguire le proteste, spiegando loro dove e quando riunirsi, quali punti attaccare e, soprattutto, diffondendo materiale su come affrontare un reparto antisommossa e su come portare avanti una guerra irregolare nei contesti urbani. Cosa più grave, gli hacker al servizio di Nexta trafugano e pubblicano i dati sensibili di personale impiegato presso il ministero degli Interni – nomi e indirizzi di mille persone vengono dati in pasto agli iscritti – e i gestori della pagina cominciano ad usufruire della possibilità della monetizzazione fornita dall’applicazione – fino a 6mila euro ad annuncio –, mettendo in allerta i servizi segreti sulle reali finalità dell’intero progetto (autofinanziamento in vista di una rivoluzione?). Il fenomeno Nexta si ingigantisce con il passare dei giorni, ad una media di centomila nuove sottoscrizioni giornaliere, attraendo un pubblico di quasi due milioni di persone all’acme delle proteste. Ma l’appello alla mobilitazione funziona fino ad un certo punto, perché l’apparato di sicurezza bielorusso non si rivela vulnerabile quanto quello ucraino, e la crisi rientra entro fine agosto. A conti fatti, il sistema di potere esce rafforzato dal mese di insurrezione: Lukashenko è salvo, il rapporto con la Russia viene ripristinato, le piazze sono domate e l’opposizione è fuggita all’estero. L’epopea di Nexta, però, è ben lungi dal terminare.

Nexta oggi e domani. Putilo e Protasevich vengono incriminati il 5 novembre 2020, a tre mesi dallo scoppio delle proteste di agosto. Accusati dalla giustizia bielorussa di incitamento all’odio sociale, organizzazione di rivolte di massa e azioni che violano l’ordine pubblico, i due entreranno nel mirino dei servizi segreti pochi giorni più tardi, in quanto inseriti nell’elenco dei ricercati per terrorismo. La pressione persuade Protasevich a fare un passo indietro, fuoriuscendo da Nexta, ma senza che ciò comporti la morte del canale, che continua a pubblicare contenuti a cadenza regolare, aggiornando gli iscritti sull’evoluzione del malcontento in Bielorussia ed anche su quanto accade nella contigua Russia, dove nel frattempo esplodono il caso Navalny e alcune proteste antigovernative verso l’inizio del 2021.

L’attenzione di Nexta per gli accadimenti che scuotono Mosca non è casuale – Aleksei Navalny è il modello di riferimento di Putilo – e neanche innocua – non è da escludere che un eventuale riorientamento dei contenuti sediziosi da Minsk al Cremlino, in ragione del numero degli iscritti e del fattore linguistico, possa contribuire alla causa dell’opposizione extraparlamentare russa. Vladimir Putin è avvisato: se non sarà il matrimonio fra Navalny e Nexta ad agitare le piazze della Federazione russa, allora sarà un altro canale Telegram. Perché Nexta ha determinato l’entrata delle guerre ibride e senza limiti in una nuova era, più micidiale delle precedenti perché ulteriormente immateriale, intangibile e onnipervasiva, e gli artisti della destabilizzazione hanno preso appunti. Lukashenko si è salvato – e, del resto, la storia delle guerre coperte insegna che le dittature sono più golpe-resistenti dei regimi democratici o semi-democratici – ma altri capi di Stato potrebbero non essere così fortunati: la telegrammizzazione del malessere promette tanti miracoli (e cambi di regime).

·        Quei razzisti come gli azeri.

Karabakh: passato, presente e futuro dell'Azerbaigian. Emanuel Pietrobon il 25 Agosto 2021 su Il Giornale. L'Azerbaigian ha dei grandi piani per i territori liberati: città intelligenti, turismo, ripopolamento e grandi infrastrutture. Una parte significativa del futuro dell'Azerbaigian si giocherà in quelle aree rispondenti ai nomi del più noto Karabakh e Zangezur orientale (a cui appartengono cinque dei sette distretti liberati: Kalbajar, Lachin, Zangilan, Gubadli e Jabrayil), vena scoperta del Caucaso meridionale e grande linea di faglia huntingtoniana. Qui, terra santa dei popoli delle montagne che abitano il Caucaso, Baku sta costruendo case, strade, ferrovie, aeroporti, città intelligenti, parchi tecnologici e centrali per la produzione di energia con il supporto dei suoi alleati e collaboratori, in primis Italia, Turchia e Israele. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, pensabile e attuabile se la seconda guerra del Karabakh non fosse esplosa e, soprattutto, se non fosse stata vinta. Perché tutti quei progetti stanno venendo implementati, poco alla volta e gradatamente, in quelle aree – villaggi, città e distretti – che in Azerbaigian sono popolarmente note come i territori liberati e sui quali l’Azerbaigian ha ripristinato la sua sovranità la sera del 9 novembre 2020, dopo un trentennio di occupazione armena cominciato nei primi anni Novanta.

Karabakh, un cantiere a cielo aperto. La prima impressione che si ha, una volta usciti dall'aeroporto di Baku, è che l'Azerbaigian, più che un Paese, sia un enorme cantiere a cielo aperto. Perché, invero, gru a torre, operai in divisa catarifrangente e lavori di asfaltatura e costruzione si trovano e possono essere visti ovunque – veramente e letteralmente ovunque –, da Baku centro a Baku periferia, e da Baku a Ganja, passando per Șușa e il resto dei territori liberati. I cantieri che costellano l'Azerbaigian in lungo e in largo, dalle montagne alla costa, sono imbibiti e madidi di una solennità molto espressiva. Una rappresentazione che parla di una situazione postbellica che, contrariamente a quella dell'Armenia, in Azerbaigian viene letta, interpretata e vissuta come sinonimo di rinascita nazionale – tanto fisica quanto spirituale. Piccoli e grandi cantieri, pur essendo disseminati a macchia d'olio sull'intero territorio, sono presenti in quantità particolarmente elevata nel Karabakh e nello Zangezur orientale. Perché è qui, in questa macro-area, che racchiude i territori liberati, che gru e avvisi di lavori si susseguono in maniera interminabile, senza sosta né tregua, catturando l'occhio e l'attenzione dei visitatori. E indubbiamente degni di nota, per dimensioni e rilevanza, sono i siti all'interno dei quali gli operai stanno costruendo un aeroporto internazionale – a Fuzuli –, una maxi-autostrada – la Ahmadbayli-Fuzuli-Șușa, altresì nota come la strada della Vittoria –, un'intera città – Agdam, l'Hiroshima del Caucaso – e una rete ferroviaria centochilometrica per collegare Azerbaigian e Nakhchivan. Infrastrutturare il Karabakh e lo Zangezur orientale sarà impegnativo in termini di capitale e know-how disponibili e di tempo necessario – da qui il richiamo costante delle autorità azerbaigiane agli investimenti dall'estero, preferibilmente dalla triade Italia-Turchia-Israele, perché fondamentali a tal proposito –, ma i lavori dovranno essere portati tassativamente a compimento: in gioco, invero, v'è il futuro dell'Azerbaigian quale potenza egemone del Caucaso meridionale. Un futuro che si scriverà più tra Fuzuli e Șușa che tra Baku e Ganja. Un futuro che potrà divenire realtà soltanto a patto di sviluppare pienamente il Karabakh e, non meno importante, di sbloccare le sterminate opportunità di crescita della regione Caucaso a mezzo della necessaria normalizzazione con l'Armenia.

Il turismo, l'altro oro nero di Baku. L'infrastrutturazione dell’area non significherà semplicemente edificazione di nuove strade, autostrade, rotte ferroviarie, collegamenti aerei, parchi tecnologici, centrali elettriche e solari e parchi eolici, perché il governo vorrebbe massimizzare il profitto derivante dalla riestensione della sovranità su una parte della regione attraverso un altro strumento: il turismo. Infrastrutturare allo scopo di alimentare i flussi turistici, sia interni – turismo autarchico – sia esterni – turismo internazionale –, equivale a costruire stazioni sciistiche, parchi divertimento, alberghi ed altri luoghi di intrattenimento. Perché il Karabakh e lo Zangezur orientale, una volta ricostruiti, non dovranno essere regioni periferiche dipendenti dal centro, quanto aree avanzate, autonome e in sintonia con il resto della nazione (e del mondo). E il turismo può servire a tale scopo. Per capire in che modo il governo azerbaigiano intenda rendere questi territori appetibili dal punto di vista turistico, popolandone tanto le case quanto gli alberghi e il futuro aeroporto, abbiamo raggiunto e intervistato Florian Sengstschmid, l'amministratore delegato dell’Ente per il turismo dell'Azerbaigian (Azerbaijan Tourism Board). Quando si scrive e si parla di turismo in Azerbaigian, ci spiega Sengstschmid, urge tenere in considerazione che "è un settore relativamente giovane" – contribuisce direttamente al 2,5% del prodotto interno lordo, che diventa un 4% includendo le entrate indirette – e che l'immagine del Paese presso il pubblico estero non gli rende giustizia. Perché sebbene per "molti di noi l'Azerbaigian continui ad essere uno di quegli anonimi Paesi dell'area postsovietica", la verità è che è una meta internazionale che, spesso e volentieri, ospita dei grandi eventi del calibro di "Eurovision, Giochi Islamici, Formula Uno ed Europei di calcio". Il turismo è alle prime armi, dunque, perché la gente ha cominciato a chiedersi "dove si trovasse Baku" soltanto in occasione dell'Eurovision del 2012, ospitato da Baku, ma questo non significa che manchino le infrastrutture, il personale preparato e i pacchetti tematici delle agenzie di viaggio. L'Azerbaigian, al contrario, "ha tutto dal punto di vista turistico: infrastrutture eccellenti, grandi marchi internazionali e negozi per le compere". Poco alla volta, inoltre, vanno prendendo forma dei "campi di nicchia, come il culinario – sviluppato in sinergia con l'italiana Slow Food –, l'osservazione degli uccelli – [perché] l'Azerbaigian ha degli ottimi posti per questo tipo di attività – e il vinicolo – alla cui rinascita hanno contribuito gli italiani". Oltre ai grattacieli all'americana di Baku, in breve, "c'è molto di più". Ad esempio, prosegue Sengstschmid, pochi sanno che l'Azerbaigian ha un lungo "e bellissimo litorale" e "che la stessa Baku ha un grande potenziale – non solo grattacieli, ma anche parchi dove fare sport, piste ciclabili e da skateboard, case da tè, casini del caffè, boulevard [...] e il più grande complesso di intrattenimento del Caspio – il Deniz Mall –, dove c'è persino una cascata all'interno". Baku, parimenti all'Azerbaigian, è da considerare come "una combinazione tra antico e moderno molto simile a quella che si può trovare in Italia e nelle città europee: strade strette, negozi di tappeti e luoghi mistici". E al di fuori della capitale, poi, va avanti Sengstschmid, si può trovare un po' di tutto: dalle cascate del sud alle montagne del Caucaso, le cui cime "raggiungono i quattromila metri" e "dove si può sciare, fare arrampicate sulla roccia e sul ghiacchio". Vedere tutto questo in un solo viaggio, dai limoni alle vette innevate, è possibile: perché "la distanza in auto tra il sud e il Caucaso è di sole cinque ore". Massimizzazione del profitto derivante dallo sfruttamento delle bellezze dell'Azerbaigian a parte, uno degli obiettivi principali della presidenza Aliyev è quello della brandizzazione del Karabakh e dello Zangezur orientale. Luoghi che nell'immaginario collettivo vengono associati alla guerra, ma che, in realtà, potrebbero offrire delle esperienze uniche a livello visivo e di arricchimento culturale: dalla vallata di Șușa a Kalbajar, "che ricorda da vicino le Alpi". E per il motivo di cui sopra che le autorità stanno lavorando alla modernizzazione dei territori liberati, “come dimostrato dalla costruzione di un'autostrada e dell'aeroporto di Fuzuli", nonché alla sua messa in sicurezza, ovvero lo sminamento, e all'elaborazione di "piani adeguati per potenziali investitori internazionali". E non mancano le idee su come guadagnare dall’area nell'attesa che venga portata a compimento la sua infrastrutturazione: "il primo passo", spiega Sengstschmid, "potrebbe essere l'edificazione di una tratta regolare – comune sia ai locali sia agli stranieri – per visitare posti come Agdam e Fuzuli, per vedere le devastazioni e le macerie, com'erano, come sono e cosa sta venendo ricostruito". L'Italia, che qui viene considerata "un partner molto fedele", è tra i grandi invitati a quella tavola che è l'industria turistica in divenire dell'Azerbaigian. Secondo Sengstschmid "v'è una gamma vasta e variegata di aree e settori dove il contributo italiano potrebbe rivelarsi utile, dallo stabilimento di nuovi alberghi alla produzione di intrattenimento, sebbene al momento sia limitato alla tecnologia e alle infrastrutture". E per contributo alla tecnologia e alle infrastrutture, chiarisce Sengstschmid, si intendono "l'utilizzo di tecnologia italiana nelle montagne del Caucaso per la produzione di neve artificiale e la manutenzione del manto nevoso" e le attività di una squadra di esperti italiani "nella conservazione e nel restauro di siti culturali nel Karabakh". Investitori a parte, Baku sta invitando nelle proprie terre anche i turisti italiani. Che qui, spiega Sengstschmid, potrebbero trovare diversi ristoranti italiani e paesaggi loro familiari. Forse, è per questi motivi, che "fra il 2018 e il 2019 si è assistito ad un aumento del 10,8% dei flussi turistici in arrivo dall'Italia", cioè da 11.026 a 12.215. E cosa troverebbero gli italiani una volta messo piede in Azerbaigian è "un Paese sicuro e multiculturale" – come dimostrato dal fatto di ospitare "il più grande insediamento ebraico al di fuori di Stati Uniti e Israele" – e che offre "i resti dell'Albania caucasica", "chiese, moschee, templi induisti, templi zoroastriani e siti appartenenti a culture e fedi differenti", "lo Yanar Dag, la montagna che brucia, dal quale esce fuoco sia d'estate sia di inverno", "l'Ateshgah di Baku, le cui iscrizioni in sanscrito attraggono i pellegrini induisti" e "molto altro ancora". Sengstschmid ne è convinto, "questo mix di culture e religioni è uno dei motivi per cui vale la pena di venire in Azerbaigian". Anche perché, prosegue l'amministratore delegato dell'ATB, "è un mix che può essere vissuto, percepito e visto in pochi giorni, dato che questo Paese è relativamente piccolo". Emanuel Pietrobon

·        Quei razzisti come i russi.

La caduta. Così, nel dicembre di trent’anni fa, si dissolse l’Urss e si concluse l’era cominciata con la prima rivoluzione bolscevica. Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Fiammetta Cucurnia, Enrico Franceschini ed Ezio Mauro su La Repubblica l'8 Dicembre 2021. Trent'anni fa, l'8 dicembre 1991, alle 21 in punto ora di Mosca, la televisione di Stato annuncia agli allora 294 milioni di abitanti delle quindici repubbliche socialiste sovietiche che l'Urss ha legalmente cessato di esistere. Due settimane dopo, la notte di Natale, la bandiera rossa verrà ammainata sul Cremlino e l'ultimo segretario generale del Pcus, Mikhail Gorbaciov, nominato sei anni prima per provare a salvare dal collasso il più grande Stato comunista della terra, un impero multietnico esteso su 22 milioni di chilometri quadrati e undici fusi orari, si dimetterà dal partito e dalla guida del Paese.

Dagotraduzione dal Guardian il 13 dicembre 2021. Il presidente russo Vladimir Putin ha raccontato che il crollo dell'Unione Sovietica ha segnato la fine della “Russia storica”, rivelando di aver guidato un taxi per sbarcare il lunario dopo la caduta dell'URSS. 

Putin, un ex agente dei servizi di sicurezza del KGB dell'Unione Sovietica, ha sempre lamentato la caduta dell'URSS, ma questa volta ha affermato che la disintegrazione di tre decenni fa è stata una «tragedia» per «la maggior parte dei cittadini». 

I commenti, riportati domenica dall'agenzia di stampa statale RIA Novosti, sono stati estratti da un film in uscita dall'emittente Channel One soprannominato “Russia. Storia recente". 

«Dopo tutto, cos'è il crollo dell'Unione Sovietica? È il crollo della Russia storica sotto il nome di Unione Sovietica», ha detto il leader russo. Leale servitore dell'Unione, Putin è rimasto costernato quando è crollata, definendo il crollo «il più grande disastro geopolitico del XX secolo».

Putin è sensibile all’espansione delle ambizioni militari occidentali nei paesi ex-sovietici e la Russia la scorsa settimana ha chiesto alla NATO di annullare formalmente la decisione del 2008 di aprire le sue porte alla Georgia e all'Ucraina. 

La fine dell'Unione ha portato con sé un periodo di intensa instabilità economica che ha fatto precipitare molti nella povertà, mentre la Russia, recentemente indipendente, è passata dal comunismo al capitalismo.

RIA-Novosti, riferendo da estratti del documentario, ha affermato che Putin ha rivelato di aver lavorato occasionalmente come tassista per aumentare le sue entrate. «A volte dovevo guadagnare soldi extra», ha detto Putin. 

«Voglio dire, guadagnare soldi extra in macchina, come autista privato. È spiacevole parlarne ad essere onesti ma, sfortunatamente, è stato così». La Russia era il centro di un'Unione Sovietica che crebbe fino a includere 15 repubbliche dal Baltico a ovest fino all'Asia centrale.

Nel 1991, devastata da problemi economici, l'Unione si disintegrò e la Russia divenne una nazione indipendente. 

Vladimir Putin brutale con la giornalista Usa: "Lei è anche una bella donna, ma...", un caso internazionale. Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. "Lei è una bella donna, ma non ascolta": il presidente russo Vladimir Putin si è rivolto così a una giornalista americana che lo stava intervistando. Per questo è stato accusato di atteggiamenti sessisti nei confronti della reporter della Cnbc, Hadley Gamble. Il leader politico, infatti, prima l'ha definita "bella" e "graziosa", poi però ha sottolineato, subito dopo, come lei non fosse in grado di capire quello che lui stava dicendo. L'intervista incriminata è avvenuta qualche giorno fa, nel corso della settimana dell'energia russa. Mentre l'oggetto della contesa erano i prezzi del gas. Un argomento evidentemente caro a Putin, che non ha gradito il modo di fare della giornalista che aveva di fronte. E così ha perso la pazienza, nel bel mezzo del dibattito è sbottato: "Lei è una bella donna, davvero graziosa. Ma le dico una cosa e lei mi dice immediatamente il contrario, come se non avesse sentito quello che ho detto". "Stiamo aumentando le forniture all'Europa, solo Gazprom del 10%. La Russia ha aumentato le forniture del 15%. Stiamo aumentando, non diminuendo, le forniture. Ho davvero detto qualcosa di così difficile da capire?", ha continuato Putin, rispondendo in maniera stizzita, dopo essere stato incalzato sulla questione dalla reporter. 

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

Elisa Messina ed Enrica Roddolo per "corriere.it" l'1 ottobre 2021. Da quanti anni non veniva celebrato un «royal wedding», un matrimonio reale in grande stile nella cattedrale di San Pietroburgo? Almeno da 113 anni, ovvero da quando la rivoluzione bolscevica d’Ottobre rovesciò la monarchia Romanoff e l’ultimo zar Nicola II. Così per sposi, familiari e invitati, deve aver avuto il sapore di una rivincita sulla storia il matrimonio celebrato oggi nel più solenne dei modi tra il gran duca George Mikhailovich, 40 anni, ultimo erede della famiglia Romanov e l’italiana Rebecca Bettarini, 39, imprenditrice che vive in Russia e autrice di thriller internazionali con lo pseudonimo di Georgina Perosch. È stata una cerimonia sontuosa, degna di uno zar, per l’appunto, celebrata con rito ortodosso e a cui hanno partecipato anche rappresentanti delle famiglie reali europee come la ex regina di Spagna Sofia: i Romanov, va detto, erano imparentati con molti regnanti, dagli Windsor ai Savoia ai Borbone. Al matrimonio, infatti erano presenti anche i duchi di Kent, cugini della regina Elisabetta II. La sposa, che è figlia dell’ex ambasciatore italiano Roberto Bettarini, indossava un abito di raso bianco dal lungo strascico, e, in testa, una tiara di diamanti disegnata da Chaumet, il gioielliere ufficiale della prima moglie di Napoleone, Giuseppina Bonaparte. Una relazione che dura da dieci anni quella tra l’erede Romanov e l’italiana: il primo incontro in un ricevimento all’ambasciata francese di Bruxelles. Dopo gli studi universitari in Italia e diversi anni di lavoro come manager in un azienda italiana in Russia Bettarini ora presiede una società di consulenza da le fondata e presiede anche la Russian Imperial Foundation, organizzazione che raccoglie fondi a finalità di charity, ma soprattutto è autrice di romanzi gialli su intrighi internazionali: essere cresciuta nell’ambiente diplomatico in giro per il mondo le ha regalato le chiavi giuste per inventare le sue spy stories. Rebecca si è convertita recentemente alla Chiesa ortodossa aggiungendo al suo nome quello di Victoria Romanovna. Quanto allo sposo, anche George Mikhailovich vanta una vita internazionale. È nato a Madrid, è cresciuto in Francia, si è laureato in legge ad Oxford ma si è trasferito nella «madrepatria« russa solo tre anni fa: è figlio della granduchessa Maria Vladimirovna Romanova, che si è autoproclamata erede al trono imperiale di Russia in quanto nipote del granduca Kirill, cugino di Nicola II, l’ultimo zar russo giustiziato insieme a tutta la sua discendenza diretta. Va detto che il titolo di capo della casa imperiale russa e, di conseguenza, il diritto alla successione al trono (che non c’è) è oggetto di contesa tra due diversi rami della famiglia: la linea dei Vladimirovic, a cui appartengono George e sua madre, e la linea dei Nikolaevic. La Chiesa ortodossa ha canonizzato la famiglia Romanov nel 2000 riconoscendoli «martiri». Dopo aver vissuto in Belgio per sei anni, la coppia abita ora a Mosca, a due passi dal Cremlino, residenza dei Romanov fin quando Pietro il Grande decise di trasferire la capitale a San Petroburgo. Oggi, dopo essere stato il centro del potere sovietico, è la residenza del presidente Putin.

JACOPO IACOBONI per lastampa.it l'8 ottobre 2021. Per molti, è stato il matrimonio da sogno italo-russo, celebrato dalla chiesa ortodossa tra icone russe e stile Fabergé. Per pochi, invece, si tratta del culmine, romanzesco ma ben reale, di un contesto di operazioni d’influenza russe in Europa, e in Italia, che lambiscono l’estrema destra europea e italiana, dietro l’affascinante paravento propagandistico della storia che è stata venduta: il favolesco “ritorno dei Romanov”. La Stampa è infine in grado di raccontare qualcosa di più prosaico sulle nozze tra l’ultimo erede dei Romanov, il granduca George Mikhailovich Romanov, e l’Italiana Rebecca Bettarini, avvenuto nella cattedrale di Isacco a San Pietroburgo il 2 ottobre scorso. Dei due sposi si sa che lui è il secondo in linea di successione al trono russo dopo la madre (Maria Vladimirovna di Russia; il padre è il principe Principe Franz Wilhelm di Prussia), e è titolare del rango di Zarevich (il principe ereditario al trono). Di lei, Rebecca Bettarini, che è figlia di un importante ambasciatore italiano, che ha vissuto in Zaire, Venezuela, Iran, Parigi e Bruxelles, dove i due sposi si sono conosciuti. Bettarini nel 2013 fu messa a capo tra l’altro della Russian Imperial Foundation, la fondazione creata da Romanov nell’anniversario dei 400 anni della dinastia. Bettarini è stata per dodici anni una dirigente di Finmeccanica, azienda italiana strategica in Europa nel comparto militare e d’intelligence (scrive anche interessanti romanzi sotto lo pseudonimo di Georgina Perosch, in cui il tema centrale è lo spionaggio: ne abbiamo letto uno, La dea della bellezza, nel quale racconta di una miss Venezuela che viene ingaggiata dalla Cia per uccidere il suo presidente). Romanov è un importante dirigente di Norilsk Nikel, un gruppo minerario da 33 miliardi di dollari, diviso e conteso tra il fondatore Vladimir Potanin (che ne detiene il 30,4%) e Oleg Deripaska, che con Rusal ne controlla il 27,8 per cento (Deripaska, plurisanzionato in Occidente, è una delle figure centrali dell’operazione di interferenza della Russia sulle elezioni americane del 2016). Ma altri particolari meritano di essere messi in fila. Alcuni noti: alle nozze reggeva a turno la tiara degli sposi Konstantin Malofeev, uno degli oligarchi sanzionati da Stati Uniti ed Europa, a cui è tuttora vietato viaggiare in Europa perché accusato di aver finanziato i separatisti filorussi in Donbass durante la guerra in Ucraina, e di sostenere in vario modo le destre conservatrici europee. Malofeev è stato anche accusato (lui nega) di essere un sostenitore attivo della Lega di Matteo Salvini. Il catering delle nozze è stato offerto da Yevgheny Prigozhin, lo “chef del Cremlino”, ma soprattutto un altro oligarca sanzionato l’anno scorso perché considerato dall’Unione europea (e da un report della Commissione intelligence del Senato americano) il capo del Wagner Group, il gruppo di mercenari russi che hanno combattuto in teatri di guerra, materiale o ibrida, in Crimea, Siria, Libia, Centroafrica (Prigozhin tra l’altro è il capo dell’IRA, la Internet Research Agency, la cosiddetta troll factory di San Pietroburgo che, nel Mueller Report, è considerata senza dubbi, e con diverse evidenze forensi, la centrale responsabile di una serie di interferenze e attacchi di disinfo ops nella campagna elettorale americana del 2016, che portò all’elezioni di Donald Trump). Tra gli ospiti in chiesa, fotografato in impeccabile abito con reggicoda, c’era anche il filosofo Alexandr Dugin, il teorico del sovranismo eurasiano, figlio di un funzionario del KGB, idolatrato dalle destre di mezza Europa, e in tour in Italia nella stagione dei populisti Lega e M5S al potere. Tra parentesi, la Russian Imperial Foundation di cui Bettarini era direttrice ha, tra l’altro, una partnership con Tsaargrad tv, tv diretta appunto da Dugin. Nulla di male, naturalmente, in questa rete di amicizie e relazioni di estrema destra e ultraconservatrici: se non fosse che siamo nel pieno delle operazioni d’influenza geopolitica del Cremlino in Europa, e bisognerebbe almeno saperlo.  Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha chiarito che le nozze «non sono nell’agenda del Cremlino». Ma chiunque a San Pietroburgo sa che George Romanov è andato in giro per anni in Europa fregiandosi dell’amicizia di Putin, come una specie di ambasciatore informale. Al matrimonio, era presente tra gli altri la portavoce del ministro degli Esteri Sergey Lavorv, Maria Zakharova. Romanov stesso tiene a chiarire in ogni occasione che il ritorno dei Romanov sul trono non è minimamente all’ordine del giorno. Al contrario, Putin sta ripristinando il triangolo ortodossia-mito dello zarismo-Cremlino, nell’unica logica imperiale: la sua. C’è di più, altri dettagli finora ignoti o ignorati, che dicono moto dell’amore di Romanov per l’Italia. Grazie ad amici in Toscana (terra amatissima, con l’Umbria, da russi potenti come Alexander Lebedev e Vladimir Yakunin), ha acquistato delle proprietà a Celle sul Rigo, all’inizio della val d’Orcia, nel comune di San Casciano dei Bagni. Ma per farsi raccontare la sua rete è utile andare a Milano, dove ancora ricordano bene il viaggio milanese di Romanov nel 2016. Il 26, 27, 28 gennaio, Romanov ebbe una serie di incontri istituzionali, con l’allora Regione Lombardia guidata dalla Lega (fu ricevuto dal presidente Roberto Maroni e dall’assessore Giulio Gallera), e rappresentanti di Assolombarda e Confindustria. Si faceva accompagnare a Milano dal nobile milanese Mario Filippo Brambilla di Carpiano, da monsignore Dimitri Fantini (archimandrita della Chiesa Ortodossa di Via Giulini a Milano) e da un uomo che oggi è salito alla ribalta delle cronache (dopo l’inchiesta di Fanpage, da cui è scaturita un’indagine per presunto finanziamento illecito a Fratelli d’Italia e riciclaggio): il barone e immobiliarista Roberto Jonghi Lavarini. L’evento clou si tenne allo studio legale Grimaldi, con un centinaio di ospiti, imprenditori e investitori italiani, di cui possediamo una lista non completa, venuti a dialogare con Romanov. Lo stesso Jonghi Lavarini, sul suo blog, per raccontare della visita di Romanov riproduce il pdf di una cronaca di giornale in cui si dice che Romanov, a Milano, «ha ufficializzato il suo rapporto di collaborazione con Lombardia-Russia, ed i suoi satelliti in Liguria e Piemonte, la più grande, storica ed organizzata associazione culturale filo-russa in Italia, presieduta da Gianluca Savoini, giornalista esperto di geopolitica». Savoini non è stato reperibile per un commento.

Enrica Roddolo per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2021.  

Dottoressa, Altezza imperiale... come dovrei chiamarLa, adesso?

«Sì Altezza imperiale, date le circostanze questo è il titolo ma... bisogna andare al significato profondo delle parole, principessa deriva a princeps, princìpi e sono i valori che condividiamo io e mio marito. Su questo ci siamo incontrati, amati», risponde al Corriere da San Pietroburgo Rebecca Bettarini, nel cuore dei festeggiamenti degni dei fasti imperiali, per le sue nozze con l’erede dell’ultimo zar, il granduca George Mikhailovich Romanov. Un’italiana che sposa l’erede degli zar: un matrimonio che ha radunato a San Pietroburgo, l’ex capitale imperiale russa, il Gotha europeo (con o senza più corona).

Da cent’anni non si celebrava un matrimonio così in Russia. Il mondo ne parla, dalla Bbc al New York Times. Confusa?

«Sorpresa sì, ma quanto agli invitati, il fatto è che l’aristocrazia reale è una grande famiglia che ha secoli di storia condivisa. Sono tutti cugini di primo o secondo grado di mio marito: duemila invitati in chiesa, Sant’Isacco, una delle cattedrali più grandi al mondo, e oltre 500 alla cena. Anzi, non fosse stato per il Covid sarebbero stati di più, poi qualche tampone positivo all’ultimo momento...».

Con il sì di poche ore fa, è entrata nella storia. Ha sentito il peso della responsabilità?

«Il mio amore per George è un sentimento che va avanti da molti anni, e abbiamo condiviso tante cose in questo tempo, sono entrata nel ruolo man mano. Poi certo mi fa impressione sapere che la tiara di Chaumet che ho indossato finirà in museo, è patrimonio storico ormai. L’anello di fidanzamento che mi ha regalato era del bisnonno, un gioiello da usare sempre per quel tempo perché i grandi gioielli dei Romanov dopo la rivoluzione sono stati confiscati o distrutti». 

Come ha incontrato George, nato a Madrid, cresciuto in Francia come molta nobiltà russa fuggita via, e studi a Oxford? Sapeva che oltre all’amore era anche l’erede degli zar?

«Ci siamo conosciuti adolescenti alle feste di discendenti di varia aristocrazia, tutti un po’ imparentati tra loro... anche nella famiglia di mio padre ci sono legami aristocratici». 

Suo padre, l’ambasciatore Roberto Bettarini e mamma Carla Virginia Cacciatore. Emozionati per questo sì sotto i riflettori del mondo?

«Papà era così emozionato che all’ingresso in chiesa è inciampato. Gli ho detto, dai fatti coraggio papà... certo una figlia unica che si sposa è una forte emozione per i miei genitori. Ma anche la Granduchessa (Maria Vladimirovna), era molto, molto emozionata, la conosco da tanti anni ormai e lo capisco subito».

Dopo quegli incontri da ragazzi quando è scoccata la freccia dell’amore?

«Anni dopo ci siamo rivisti a Bruxelles quando lavoravamo entrambi in Belgio, dopo laurea e master in relazioni internazionali io ho lavorato per 12 anni per una grande realtà aerospaziale italiana, lui per un colosso minerario russo, Norilsk Nickel. La scintilla a una serata in Belgio... c’era anche il principe Murat, ricordo. Poi ci siamo rivisti a un ricevimento dell’Ambasciata francese a Bruxelles e abbiamo iniziato a frequentarci. Lui mi ha detto che voleva avviare l’attività della fondazione dedicata alla storia di famiglia e mi sono offerta di aiutarlo. Poi gli amori sono difficili da spiegare, succedono e basta e adesso sogno presto una famiglia, dei figli».

Già, una famiglia. I Romanov, basta pronunciare il nome e si apre il grande libro della Storia. La rivoluzione d’ottobre in Russia nel 1917, l’eccidio della famiglia dell’ultimo zar Nicola II e della zarina Alexandra, a Yekaterinburg nel luglio 1918.

«Persino sull’isola di Pasqua, abbiamo constatato con il mio futuro marito, sanno chi erano i Romanov. Ne sono consapevole, è un nome che vuol dire storia». 

Con il granduca suo marito, la granduchessa, parlate di quel massacro, di quei momenti nella storia. Cosa dicono in famiglia?

«Per loro sono parenti, persone di casa, non personaggi nella storia. E ci si sente sempre un po’ in soggezione perché loro ne parlano con i ricordi e le passioni degli esseri umani, non dei nomi sui libri. La mamma di mio marito, nipote del granduca Kirill Vladimirovich (cugino dello zar Nicola II), ricorda spesso suo nonno che parlava dello “zio Nicki”, come suo zio non per il ruolo che aveva. Schegge di vita quotidiana, come il thé con due zollette di zucchero...». 

E non c’è rancore, senso di rivincita per quel che accadde con la rivoluzione bolscevica, l’eccidio?

«Il passato è il bagaglio culturale di un popolo. Nel bene o nel male, poco importa. E’ successo. Noi oggi rappresentiamo un casato con oltre tre secoli di storia che ha influenzato tutta l’Europa. E poche ore fa, dopo le nozze come è tradizione sono andata a deporre il mio bouquet nuziale sulla tomba degli ultimi zar, dove anche i nonni di mio marito sono sepolti, alla Fortezza dei Santi Pietro e Paolo». 

La famiglia di suo marito l’ha aiutata a entrare nel ruolo? In fondo la storia - anche recente - è piena di contrasti tra suocere e nuore Reali, basta pensare a Meghan Markle.

«Oh sì la madre di mio marito è stata di grande sostegno, per me è come una seconda madre. Mi ha aiutata molto, e io ho studiato, mi sono preparata per la conversione ortodossa. E poi sapevo bene cosa voleva dire la famiglia degli ultimi zar, la granduchessa da trent’anni partecipa a molte attività storiche e culturali legate al passato e alla chiesa ortodossa russa». 

Tornati in patria negli anni ‘90, i Romanov sono stati canonizzati dalla Chiesa ortodossa. Suo marito pensa mai al ruolo che potrebbe avere, se la storia non avesse deciso diversamente?

«Non abbiamo ambizioni politiche, proprio no, non ci interessa. Come dice mio marito: abbiamo già guidato il Paese per trecento anni, adesso tocca ad altri». 

Al nuovo «zar» Putin?

«Chiamarlo zar è una semplificazione che piace all’estero, ma Putin non è un nuovo zar... semmai un grande presidente, ha fatto un lavoro magnifico e gli auguriamo di continuare a farlo. Mio marito ed io, con il nome dei Romanov, siamo felici di continuare la storia culturale della famiglia, le tradizioni, i valori. E vedendo l’attenzione internazionale che ha destato il nostro sì, mi piace che ci sia un’alternativa alla società delle Influencer. E poi...». 

Poi?

«Come Romanov possiamo contribuire al racconto delle radici della Russia fino alla contemporaneità, è un modo per svelare al mondo il Paese moderno di oggi, che ha molti legami con l’Italia: gli italiani sono amati in Russia. In generale gli italiani sono amati nel mondo molto più di quanto accada in patria». 

L’ha sperimentato con la vita diplomatica di suo padre ambasciatore?

«Sì e sono nata a Roma, per caso perché mio padre al tempo era in missione a Parigi. E pure lui era nato a Roma per caso, mio nonno era in Marina e prestava servizio nella capitale quando nacque papà. La nostra, diplomazia a parte, è una classica famiglia italiana. La mia infanzia è stata bella, calorosa, un po’ movimentata: tanti luoghi, trasferimenti, lingue da imparare ma alla fine è stata un allenamento per la mia vita di adesso». 

Lasciare abiti borghesi per indossare quelli di Altezza reale. Una sfida che ha spezzato il cuore e la serenità di tante commoner. Lei come farà?

«Lo so, ora come Romanov rappresento una famiglia che vuol dire un Paese e infatti ho voluto un vestito da sposa di taglio italiano ma con ricami e strascico che ricordavano la storia imperiale russa. Per fortuna mi è di grande aiuto l’esperienza diplomatica di mio padre. Con papà ambasciatore siamo stati a Parigi come a Bagdad... prima che nascessi, i miei genitori hanno vissuto anche in Iran». 

Ha invitato anche l’ex imperatrice Farah Diba, la moglie dell’ultimo Scia. In chiesa c’erano i principi del Liechtenstein, l’ex re Simeone di Bulgaria e molti altri.

«Sì, peccato che per un guaio di salute Farah Diba non abbia potuto unirsi a noi». 

C’era invece la famiglia reale italiana, i Savoia, i due rami: Emanuele Filiberto e Aimone di Savoia Aosta. Che nella migliore tradizione dei grandi eventi del Gotha, alle nozze hanno fatto pace, dopo tante ruggini...

«Abbiamo voluto la famiglia Savoia, gli Aosta, una grande festa con tutti i nostri cugini dell’aristocrazia europea». 

Pronti adesso per la luna di miele, magari in Italia?

«Ci attende una settimana di grande lavoro qui in Russia, tra San Pietroburgo e Mosca dove viviamo da tre anni. Il viaggio di nozze più avanti. Quanto all’Italia, la verità è che passiamo sempre le vacanze in Italia». 

A proposito, della sua passione per i thriller — uno, “AristocraZy” sull’amore tra un giovane principe detronizzato e la figlia di un ambasciatore sembra autobiografico —, cosa sarà adesso? Continuerà a scrivere? Magari un giallo ambientato al tempo della rivoluzione russa?

«Scrivere gialli è la mia passione non rinuncerei per nulla al mondo. Ho due nuovi titoli in preparazione e sulla rivoluzione d’ottobre chissà, mai dire mai. Ora sono una Romanov, ma resto una giallista per passione»

L’esercito fantasma di Mosca alla conquista dell’Africa. Jean Marie Reure su Inside Over il 28 settembre 2021. Secondo una notizia fatta trapelare dall’agenzia Reuters la settimana scorsa, confermata da ben sette fonti diplomatiche, il governo di transizione maliano starebbe per siglare un accordo con l’agenzia di sicurezza privata russa Wagner per un valore complessivo di circa 10 milioni di dollari al mese. Se i dettagli del contratto rimangono segreti, la Pmc (Private Military Contractor) russa provvederebbe all’addestramento delle truppe maliane e fornirebbe i suoi servizi di scorta ai vertici di Bamako in cambio, oltre ad un lauto pagamento mensile, dello sfruttamento di tre giacimenti minerari, due di oro e uno di magnesio. La reazione di Parigi non si è fatta attendere: il ministro degli Affari Esteri Jean Yves Le Drian, ha infatti prontamente affermato che “la presenza di contractors russi in Mali è assolutamente inconciliabile con quella francese”. Anche Berlino, per bocca del suo ministro della Difesa, ha ribadito che la presenza di contractors russi metterebbe a repentaglio l’operato delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea in Mali e nel Sahel.  Il governo maliano ha invece smentito, definendo la notizia una diceria e dichiarando che il governo del Mali dialoga con tutte le parti.

Il colpo di stato e il flop di Parigi. Questa notizia si inserisce in un contesto di crescenti tensioni fra Bamako e Parigi: l’impegno ormai quasi decennale della Francia in Mali sembra infatti aver sortito relativamente pochi risultati se non sul piano strettamente militare. Il nesso fra sicurezza e sviluppo in cui confidava la Francia per stabilizzare uno dei paesi più estesi dell’Africa subsahariana ha infatti rivelato tutte le sue debolezze. I progetti di sviluppo tardano a partire e sovente non riescono a raggiungere le zone più remote del paese. La costante instabilità politica unita ad una gestione del potere personalistica e corrotta ha creato una sfiducia diffusa nei confronti del governo centrale che non ha saputo ridurre l’alto tasso di disoccupazione giovanile né porre fine alla crisi alimentare che mette a rischio la vita di più di 7 milioni di persone. Le carenze nella gestione della pandemia di Covid-19 hanno poi agito da moltiplicatore, accrescendo ulteriormente le tensioni sociali e le disparità tra centro e periferia. Proprio queste carenze nella governance del paese avevano portato ad un colpo di stato militare, la notte del 19 agosto 2020, che aveva rimosso il presidente democraticamente eletto Ibrahim Boubacar Keita (IBK) dando vita al Comitato Nazionale per la Salute del Popolo (Cnsp). Accolto con favore dalla popolazione, il comitato presieduto dai vertici dell’esercito maliano si era impegnato ad organizzare una transizione politica e ad indire nel più breve termine nuove elezioni. La Francia, l’Unione europea e l’Ecowas avevano accolto la notizia del colpo di stato con preoccupazione ma le rassicurazioni dei militari circa il mantenimento degli accordi presi dal precedente governo non avevano di fatto intaccato la natura del loro impegno in Mali, visto anche il supporto popolare di cui godeva il nuovo governo.

Soldati francesi dell’operazione Barkhane. Il 24 Maggio 2021, a soli 8 mesi dal primo colpo di stato, i militari maliani arrestano il presidente ad interim Bah N’Daw e il suo primo ministro Moctar Ouane, poco dopo la nomina di un nuovo governo che li vedeva esclusi da alcune posizioni apicali, come quelle del ministero della Difesa e della Sicurezza. Non solo questo secondo golpe non gode del favore popolare, ma porta anche la Francia e i partner internazionali a sospendere le operazioni congiunte con le forze armate maliane. Il 10 giugno 2021 Macron annuncia la fine dell’operazione Barkhane, escludendo un ritiro completo delle truppe francesi ma annunciando una sostanziale trasformazione dell’impegno francese. In realtà agli osservatori non era sfuggito come già durante il golpe di agosto del 2020 alcuni manifestanti sventolassero bandiere russe e cartelli inneggianti all’amicizia fra Russia e Mali, elemento piuttosto peculiare dal momento in cui i due paesi non intrattengono relazioni bilaterali significative. Già nel 2019 però, a margine del primo summit russo-africano, i due paesi avevano stretto un accordo di cooperazione in ambito di sicurezza che aveva comportato l’arrivo di alcuni elicotteri d’attacco MI-35M consegnati da Mosca a Bamako. Contestualmente i militari francesi avevano dovuto affrontare una campagna di disinformazione in chiave anti-francese sui social media. La notizia di un possibile contratto stipulato dal governo del Mali con la PMC Wagner si inserisce quindi in un contesto complesso, che porta ad interrogarsi sulle mire della Russia in Africa sub-sahariana.

Wagner, la punta della lancia della penetrazione russa in Africa. Secondo un rapporto del Centro di Studi Strategici ed Internazionali (Csis) di luglio del 2021, le Pmc rivestono un ruolo fondamentale nella strategia di espansione dell’influenza russa. Occorre innanzitutto sottolineare che in questo caso il termine Pmc è improprio poiché sebbene si tratti di aziende nominalmente private i vari contractors russi (fra cui figurano l’Anti-terror Group, Center R, Moran Security Group, RSB Group, E.N.O.T., Shchit, Patriot e l’ormai famoso Wagner Group) sono tutti legati ad agenzie di sicurezza russe come l’Fsb, il Gru o direttamente il ministero della Difesa. Inoltre, la nomea di alcuni di questi gruppi potrebbe far pensare a piccole unità di operatori altamente specializzati assimilabili alle forze speciali ma non è così. Le Pmc russe hanno diverse componenti al loro interno che vanno da interi reparti di fanteria a unità specializzate passando per istruttori e personale tecnico e di supporto. Altresì eterogeneo è il loro impiego: oltre a condurre operazioni di combattimento i contractor russi sono anche in grado di fornire servizi di intelligence e analisi (humint, sigint, osint), di protezione di personale Vip, di sicurezza per siti strategici ed operazioni di informazione e propaganda. La versatilità delle Pmc russe, la loro relativa convenienza economica e la cosiddetta plausible deniability, cioè l’impossibilità di ricondurre ufficialmente il loro operato alla Russia, costituiscono i punti di forza di queste aziende. Largamente impiegate nel 2015 nella guerra in Ucraina dell’est, il loro impiego non ha smesso di crescere, fino a diventare uno dei principali strumenti della guerra asimmetrica o ibrida russa. Se nel 2105 le Pmc russe operavano in soli 4 stati ad oggi operano in più di 27 paesi: la loro presenza è stati infatti evidenziata in Africa (Repubblica Centro Africana, Sudan, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Madagascar, Botswana, Guinea…), in Medio Oriente (in particolare in Siria, Yemen ed Iraq), in Europa, in Asia (Afghanistan, Azerbaijan) e in America Latina (in Venezuela in particolare). Divenute un formidabile strumento per proiettare l’influenza russa nel mondo, queste Pmc spesso agiscono secondo un preciso modus operandi. Intervengono in contesti difficili, in paesi relativamente deboli, la cui governance del territorio è spesso contestata da gruppi ribelli. Le Pmc russe svolgono quindi un servizio di stabilizzazione, puntellando lo stato target ed accrescendone le capacità. Al contempo avanzano gli interessi russi accrescendo l’influenza di Mosca nel paese, ottenendo l’accesso a risorse naturali ed aumentando i margini profitto degli oligarchi russi che le controllano. Grazie alla presenza delle sue Pmc, la Russia sarà poi in grado di imporsi come attore ineludibile dalle trattative sulle sorti del paese (come nel caso della Libia) e sarà anche in grado di ostacolare la proiezione degli interessi dei suoi rivali storici quali gli Usa e gli altri partner atlantici. Nel caso dell’Africa sub-sahariana, la presenza delle Pmc russe è stata osservata in ben 16 stati, tutti caratterizzati dalla presenza di risorse naturali e da una governance del territorio parziale e indebolita. La Russia ha così potuto offrire il suo supporto militare e la sua expertise in fatto di sicurezza pubblica, ottenendo in cambio vantaggi economici, geopolitici e militari. Uno dei casi più lampanti è quello della Repubblica Centro Africana (Car): la Russia a novembre del 2017 riceve l’autorizzazione all’esportazione di armi dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc) in deroga all’embargo che vige per il paese dal 2013. Oltre all’esportazioni di armi, la Russia attraverso le sue Pmc in breve tempo prenderà a fornire diversi servizi a Bangui fra cui l’addestramento delle truppe, operazioni di combattimento contro i ribelli che a inizio del 2021 minacciavano di avanzare verso la capitale, protezione dei siti estrattivi del paese, scorte armate, operazioni di (dis)informazione e addirittura consulenza politica. È proprio nella Repubblica Centro Africana che la propaganda pro Russa e anti francese si fa più virulenta, tanto da sfociare in una guerra di informazione coi servizi francesi. Frattanto Valery Zakharov, un ex ufficiale del GRU, diviene consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Touadéra. Zakharov, oltre ad avere stretti rapporti con l’FSB, è alle dipendenze di una società di comodo ricollegabile all’oligarca Eugeny Prigozhin, il quale controlla attraverso una serie di società di comodo la Pmc Wagner Group oltre ad alcune compagnie estrattive che operano in Africa sub-sahariana. Secondo la professoressa di Scienze Politiche al Barnard College ed esperta di Pmc Kimberly Martens, Zakharov non solo sarà in grado di formare una milizia privata fedele a Touadéra, ma riuscirà anche a intavolare delle negoziazioni fra il governo del Car e i ribelli, riuscendo laddove le Nazioni Unite e l’Unione Africana avevano fallito e ottenendo contemporaneamente concessioni minerarie piuttosto lucrative.

I veri interessi di Mosca. La penetrazione russa in Africa non è stata sempre un successo: in Madagascar, per esempio, i contractors russi non sono riusciti a far vincere nelle elezioni del 2018 i candidati cui avevano offerto i loro servizi. Il Mozambico recede il contratto con Wagner dopo che numerosi uomini della Pmc vengono sopraffatti dai ribelli nella parte nord del paese, incrinando contestualmente l’immagine di successo del gruppo. Se le operazioni della galassia di Pmc russe in Africa non hanno sempre riscosso dei successi, il loro utilizzo risponde comunque a tre interessi principali del governo russo. In primo luogo, ci sono infatti gli interessi economici. La Russia in Africa non ha che un ruolo residuale, di gran lunga inferiore a quello americano, francese o cinese, ma la possibilità di un accesso prioritario alle risorse naturali nel suolo africano permette al Cremlino di mantenere la competitività nei settori in cui eccelle, in particolare quello minerario ed energetico. Ci sono poi gli interessi geopolitici: la “svolta africana” della Russia permette a Mosca di espandere la sua influenza, ostacolando gli interessi dei suoi competitors e creando una nuova rete di alleanze per uscire dalla fase di isolamento internazionale dovuta all’annessione della Crimea. La creazione di basi navali nei paesi africani, come in Sudan, garantirebbe inoltre un accesso diretto al Mar Arabico e all’Oceano Indiano. Sul piano militare l’espansione nel continente africano permette invece a Mosca di stringere nuovi accordi di cooperazione in ambito di sicurezza e difesa (dal 2015 ad oggi la Russia ha firmato ben 21 accordi di cooperazione militare), di accrescere la vendita di armi e di costruire nuove basi militari in zone che finora erano pressoché inaccessibili per il Cremlino. È quindi naturale che la notizia di un possibile accordo fra il governo del Mali e il Wagner group desti preoccupazione nelle capitali europee ed occidentali. Il paese non solo è nel cuore della tradizionale sfera di influenza francese in Africa, ma è anche una sorta di banco di prova per una missione europea a guida francese. Se Parigi dovesse perdere la sua influenza in Mali e nei paesi del c.d G5 Sahel, dovrebbe anche ridimensionare le sue ambizioni di paese guida in un possibile (ed auspicabile) progetto di difesa europea. In summa, dopo i fallimenti della Siria e della Libia la Francia e i suoi partner europei non possono perdere in Mali.

Luigi Ippolito per corriere.it il 21 settembre 2021. Le trame assassine del regime di Vladimir Putin sono state portate ulteriormente alla luce da due procedimenti giudiziari, a Strasburgo e a Londra. Da un lato, la Corte Europea per i Diritti Umani ha giudicato la Russia responsabile dell’avvelenamento di Aleksandr Litvinenko, l’ex agente del Kgb ucciso nel 2006 nella capitale britannica con una dose di polonio radioattivo; dall’altro lato, la magistratura inglese ha incriminato il «regista» dell’attacco chimico condotto nel 2018 a Salisbury contro l’ex agente russo Serghej Skripal: anche in questo caso, a essere accusato è un ufficiale dei servizi militari russi. Alla Corte Europea si era rivolta Marina, la vedova di Litvinenko: e i giudici di Strasburgo hanno concordato pienamente con i risultati dell’inchiesta britannica, che già 5 anni fa aveva stabilito che l’assassinio dell’ex spia diventato dissidente era stato «probabilmente approvato» da Putin in persona. Gli inquirenti britannici avevano individuati i killer in due russi, Andrej Lugovoj e Dmitrij Kovtun: e secondo la Corte Europea, i due si sono mossi «come agenti dello Stato russo». Gli uomini di Mosca hanno sempre negato ogni responsabilità e Lugovoj è addirittura diventato deputato nel Parlamento moscovita: ma i magistrati di Strasburgo hanno stabilito «oltre ogni ragionevole dubbio» che i due russi hanno versato il polonio nella tazza di tè che ha avvelenato Litvinenko. Alla sua vedova è stato riconosciuto un risarcimento di 100 mila sterline. Contemporaneamente, in Inghilterra, la Procura della Corona ha autorizzato l’incriminazione di Denis Sergeev, un agente russo considerato il coordinatore del commando di due uomini che tre anni fa avvelenò a Salisbury col nervino l’ex spia Serghej Skripal e sua figlia Yulia. I due sopravvissero, ma alcuni mesi dopo una donna britannica, Dawn Sturgess, trovò in un parco una fiala abbandonata col veleno e rimase uccisa. Sergeev era stato smascherato già più di due anni fa dal sito investigativo Bellingcat, ma solo ora si è arrivati alla conclusione di un’inchiesta formale. Sia lui che gli altri due esecutori materiali dell’attacco erano agenti del Gru, i servizi segreti militari russi, ed erano stati responsabili di altre azioni di assassinio e sabotaggio in giro per l’Europa: e secondo i britannici «solo lo Stato russo aveva i mezzi tecnici, l’esperienza e le motivazioni per portare a termine l’attacco» a Salisbury. Ad accomunare Litvinenko e Skripal c’era il fatto che si trattava di agenti segreti russi che erano passati dalla parte dell’Occidente: il primo era diventato un aperto critico del Cremlino mentre il secondo aveva preso a collaborare con i servizi britannici. Agli occhi di Putin, due «traditori» la cui morte doveva servire da monito per tutti.

 Anna Zafesova per “la Stampa” il 22 settembre 2021. Colpevole: la Corte europea per i diritti umani ha emesso il suo verdetto sulla responsabilità della Russia nell'omicidio di Aleksandr Litvinenko, morto nel 2006 a Londra dopo essere stato avvelenato dal polonio. Lo Stato russo dovrà anche pagare 100 mila euro di risarcimento alla vedova dell'ex spia, Marina, che dice di non sperare in una reazione di Mosca, ma di considerare molto importante la sentenza del tribunale europeo. E nello stesso giorno, Londra ha annunciato di incriminare ufficialmente un terzo uomo coinvolto nell'avvelenamento di Sergey Skripal e di sua figlia Yulia, avvenuto nel 2018 a Salisbury: si tratterebbe di un generale dello spionaggio militare russo, Denis Sergeev. Due omicidi di Stato, due operazioni dell'intelligence russa, due casi clamorosi che hanno contribuito ad allontanare la Russia dall'Europa, e a riportare d'attualità le guerre di spie della Guerra fredda. E due messaggi inviati da Strasburgo e da Londra a Mosca, proprio mentre il Cremlino sta mietendo i frutti della sua vittoria alle elezioni della Duma di domenica scorsa, segnate da massicci brogli e manipolazioni. L'indagine sul caso Litvinenko in realtà era già stata conclusa dalla giustizia inglese anni fa, e i nomi degli indiziati sono ben noti: Andrey Lugovoy, ex agente delle scorte del Kgb, e Dmitry Kovtun, ex militare, che hanno portato a Londra il polonio-210, un materiale radioattivo raro e pericolosissimo, che hanno versato nel tè dell'ex ufficiale del Kgb che aveva ottenuto rifugio nel Regno Unito. Scotland Yard aveva ricostruito i movimenti della coppia di russi, che si spacciavano per imprenditori e che avevano lasciato tracce di polonio in alberghi, aeroporti e ristoranti. Una monumentale relazione degli inquirenti aveva stabilito che i due avvelenatori avevano agito «come agenti dello Stato russo», e che esistevano «prove indirette» del fatto che l'ordine di eliminare Litvinenko - che aveva denunciato le trame dei suoi ex colleghi - fosse partito dai vertici del governo. Ora la Corte europea per i diritti umani ha avvallato questa conclusione, respinta subito dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov come «totalmente infondata». Un verdetto che non cambierà la situazione di fatto: Lugovoj viene protetto da anni da un mandato cattura internazionale dalla sua carica di deputato della Duma, dove è stato eletto dopo l'incriminazione. E gli emendamenti alla Costituzione voluti da Vladimir Putin l'anno scorso stabiliscono che le leggi russe hanno la prevalenza sul diritto internazionale: una misura voluta proprio per cautelarsi dalle numerose sentenze emesse da Strasburgo a favore di dissidenti russi, tra cui Alexey Navalny, e di vittime delle violazioni dei diritti umani, come gli omosessuali ceceni perseguitati in patria. Per questo, forse, sarà molto più sensibile all'incriminazione del "terzo uomo" nel caso Skripal: ora il probabile capo della cellula degli avvelenatori ha un nome, un cognome e un volto, in altre parole, è un 007 bruciato. Denis Sergeev, sbarcato a Londra nel marzo 2018 con i documenti di Sergey Fedotov, ha incontrato nella capitale britannica la coppia di agenti arrivati da Mosca con un altro volo, ripartendo proprio mentre si avviavano a spalmare di veleno Novichok la maniglia della casa degli Skripal a Salisbury. L'identità di Sergeev era già stata ricostruita dal team di giornalisti investigativi Bellingcat, ma ora le autorità britanniche hanno confermato il suo ruolo e la sua identità: si tratterebbe di un general-maggiore del Gru, lo spionaggio militare russo. Le sue tracce si ritrovano anche in Bulgaria, in coincidenza con l'avvelenamento da Novichok del commerciante di armi Emilian Gebrev, e nella Repubblica Ceca, dove gli stessi agenti che hanno tentato di avvelenare Skripal sono stati incriminati per aver piazzato delle bombe in depositi di armi. Londra ieri ha confermato che i due 007 - apparsi successivamente alla tv russa assumendo nomi e identità false di «imprenditori di integratori alimentari» che erano andati a Salisbury «a vedere la guglia della cattedrale» - si chiamano in realtà Aleksandr Mishkin e Anatoliy Chepiga, agenti dei reparti speciali del Gru. 

Il rozzo contadino Kruscev, imparò a leggere e scrivere dopo i 30 anni. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. Il presidente sovietico è scomparso l’11 settembre 1971. Da leader Pcus seppe denunciare i crimini di Stalin. Affannato e rubicondo, si altera a sentire il delegato filippino attaccare la sua Unione Sovietica e gli risponde battendo tre pugni sul tavolo. Poi, non contento, si sfila la scarpa e batte e ribatte. Siamo nell’ottobre 1960 e Nikita Kruscev, presidente sovietico fa la sua sparata nel tempio dell’Onu e con quel gesto entra nella leggenda. Qualcuno mise in dubbio che di scarpa si trattò, ma un filmato di Rai Storia dice che scarpa fu. Il carattere di quel politico contadino dal cervello molto fino che non fini le elementari e che imparerà a leggere e scrivere solo dopo i 30 anni, era parecchio fumantino. E per questi suoi gesti e per quel suo faccione simpatico su un corpo tondo da brevilineo divenne personaggio mediatico, molto popolare anche in Occidente, complice una certa sua strana disponibilità a favore di telecamera. Ma non bisognava sottovalutarne l’astuzia, Nikita non era certo solo un personaggio folcloristico venuto da Kalinovka, paesino della Russia imperiale vicino all’attuale confine con l’Ucraina. Si era mosso sapientemente fra le insidie staliniane prima, diventando membro del Politburo nel 1938 e entrando nel gruppo dei fedelissimi del dittatore e poi nella destalinizzazione. Nel febbraio 1956, poco prima della rivolta d’Ungheria, nella Sala Bianca del Cremlino, al XX Congresso del Pcus, il rozzo Kruscev, diventato segretario generale, denuncia i crimini di Stalin e il culto della personalità e i giornalisti notano che in sala non compaiono più ritratti del dittatore giorgiano. Già allora Kruscev teorizzava la «coesistenza pacifica» asserendo che «le forze del socialismo possono affermarsi senza rivoluzioni, senza guerre civili, mediante processi parlamentari».

Il confronto con Nixon. E nel 1959, proprio su questi temi improvvisò un confronto con Richard Nixon allora vicepresidente Usa in visita a Mosca, passato alla storia come «il dibattito in cucina». Nixon in visita all’Esposizione Nazionale americana si era fermato davanti a un modello di cucina americana e lì i due ingaggiarono un confronto sui meriti del capitalismo rispetto al comunismo e viceversa. Apparentemente Nixon ne uscì vittorioso, ma quando Kruscev pochi mesi dopo ricambiò la visita gelò gli americani dicendo che la famosa «coesistenza pacifica» avrebbe portato alla vittoria, appunto pacifica, del sistema comunista. Guardando in camera disse alla tv: «I vostri nipoti vivranno sotto un regime comunista». Ma in qualche modo quel nonno sempliciotto e zoticone con il suo linguaggio del corpo un po’ arrembante rassicurava l’Occidente. E quando nel 1962 scoppia la crisi per i missili nucleari schierati dai sovietici a Cuba, il mondo resta col fiato sospeso. John Kennedy alla fine riuscì a prevalere, mentre per Kruscev iniziò il declino e un complotto mise fine al suo potere nel 1964. Kruscev morì da pensionato scrivendo memorie, l’11 settembre 1971. Che fosse abile politico o solo acrobata provetto, con lui se ne erano andati tutti i grandi protagonisti di quegli anni, John Kennedy e Papa Giovanni XXIII, «gli ideali alla cogliona fatti coi miti del ‘63, i due Giovanni e pace un po’ alla buona», come avrebbe cantato Francesco Guccini nel 1978 in 100, Pennsylvania Ave.

L’incredibile esperimento di DAU. Natasha, il Truman Show stalinista. Fabio Ferzetti su L'Espresso l'1 settembre 2021. Un progetto faraonico avviato più di dieci anni fa con l’obiettivo inquietante di ricreare un mondo scomparso, l’Urss tra il 1938 e il 1968. Molto più di un film. L’ufficiale indossa una giacca militare ma per i primi minuti vediamo solo le sue mani, mani grosse che sfogliano carte e maneggiano una penna. I modi sono meticolosi, addirittura garbati. La faccia occhialuta, i capelli corti sulle tempie, potrebbe essere quella di un preside. Lei è spaventata ma imperturbabile. Si torce un poco le mani, lo ascolta con attenzione, cerca di seguire i suoi suggerimenti, ovvero di capire cosa le sta dicendo davvero. Ma l’ufficiale, che adesso è in camicia, senza mai alzare la voce d’improvviso la porta in una cella imbottita e inizia a mostrarle cosa la aspetta. Perché siamo nell’Urss del 1952, Natasha (Natasha Berezhnaya), una bella donna curata e lievemente sfiorita, fa la cameriera nel ristorante della Città della Scienza, un incarico delicato in un luogo riservato a una casta di privilegiati. Nella prima parte del film, minuziosa e a tratti interminabile, l’abbiamo vista litigare con una giovane collega, disperarsi per la sua vita, fare bisboccia con i clienti, militari e teste d’uovo. Infine andare a letto con un ospite dell’Istituto, uno scienziato francese di nome Luc Bigé (i nomi dei personaggi sono quelli degli interpreti) in una lunga e dettagliata scena d’amore dal vero, senza simulazioni, molto tenera ed emozionante. Sicché ora è in trappola. L’ufficiale, che si chiama Vladimir Azhippo, vuole farne un’informatrice dei servizi segreti e tanto per cominciare le fa firmare una deposizione in cui accusa il povero francese invaghito delle peggiori perversioni. Una resa senza condizioni, nonché l’opposto di ciò che abbiamo appena visto. Dettaglio geniale: mentre scrive la sua falsa deposizione, Azhippo invita Natasha a non andare fuori dei margini, come una scolaretta. Prima però, per piegare la sua strenua dignità, le strappa i vestiti, le spiega quasi contrito cosa potrebbe accaderle, toglie una a una con molta pazienza le mollette che ha nei capelli («potrebbero finirmi in un occhio, anche se ho una certa competenza in queste faccende»), la costringe a infilarsi il collo di una bottiglia nella vagina, scena che ha fatto sobbalzare il Festival di Berlino e provocato reazioni prevedibilmente indignate, anche se si vede ben poco ed è con ogni probabilità simulata. «Dobbiamo proprio rimettere in scena gli orrori delle dittature col pretesto di denunciarle?», ha scritto semplicisticamente Le Monde. Domanda capziosa, oltre che retorica, perché “DAU. Natasha”, il film appena sbarcato nelle sale italiane di cui stiamo parlando, non è certo un lavoro ordinario e tantomeno un banale esercizio di pornografia del dolore. Diretto da Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel, fotografato in un magnifico 35 millimetri dal grande Jürgen Jürges, già operatore di Fassbinder, Wenders e Haneke, premiato a Berlino «per l’eccezionale risultato artistico», ma destinato a spaccare la critica ancor prima che il pubblico, “DAU. Natasha” appartiene infatti a un esperimento faraonico avviato dal semisconosciuto Khrzhanovskiy più di dieci anni fa e detto appunto Progetto DAU, anche se la stampa internazionale lo ha subito ribattezzato “il Truman Show stalinista”. L’idea originaria era semplice. Girare un “biopic” dedicato all’inesauribile figura di Lev Landau (1908-1968), fisico sovietico e premio Nobel nel 1962, inviso a Stalin ma risparmiato per meriti scientifici, noto anche per aver predicato e praticato l’amore libero. La vera ossessione di Khrzhanovskiy, classe 1975, figlio di un celebre regista d’animazione, era però un’altra. Ricreare in vitro un mondo scomparso: l’Urss fra il 1938 e il 1968, resuscitata in tutti i dettagli materiali e, si suppone, morali, dando vita a un mondo parallelo al cui interno il regista e i suoi collaboratori selezionano storie e personaggi lavorando nella quasi totalità dei casi con attori non professionisti che finiscono per mettere in gioco non solo le loro facce ma i loro sogni e le loro esperienze. Riassorbita l’idea del biopic dentro un progetto ben altrimenti ambizioso, Khrzhanovskiy costruisce un “Istituto di Ricerca per la Fisica e la Tecnologia” ispirato a quello di Landau nella città ucraina di Kharkiv, sui resti di un complesso sportivo. Ben 12mila metri quadri che ospitano migliaia di tecnici, attori e comparse per anni, spesso 24 ore al giorno, in una simulazione totale che rimescola ad arte identità vere e fittizie e abbraccia ogni elemento della vita quotidiana: dagli abiti, biancheria compresa, agli oggetti più comuni, dalle tecnologie al taglio di capelli, dal linguaggio (vietato usare parole allora inesistenti come Internet o Google per esempio, pena multe salate anche per giornalisti e visitatori) alla valuta usata, vecchi rubli naturalmente, fino alle tubature e perfino al rumore dello sciacquone, tutto dev’essere rigorosamente d’epoca. Simulazione paranoide o realtà parallela, l’esperimento va avanti per anni diventando ben presto una leggenda che attira reporter e celebrità di ogni campo da tutto il mondo. Se al carismatico direttore d’orchestra greco Teodor Currentzis tocca il ruolo di Landau, a Kharkiv passano artisti come Marina Abramovic, fisici come Carlo Rovelli e David Gross, Nobel 2004, registi teatrali come Anatolij Vasil’ev, Peter Sellars e Romeo Castellucci, matematici come il cinese Shing-Tung Yau, usati talvolta come attori. Anche se tutte queste celebrità servono forse soprattutto a ricreare una sorta di “nomenklatura” da contrapporre all’esercito di maestranze e figuranti impiegati nel progetto, costato secondo stime non ufficiali almeno 70 milioni di dollari forniti dal magnate russo delle telecomunicazioni, nonché finanziatore del giornale d’opposizione Novaja Gazeta, Sergei Adonyev. Oltre a “Natasha” e a “Degeneratsia”, un film di 6 ore intriso di problemi teologici e filosofici, presentati alla Berlinale, Khrzhanovskiy e il suo team girano infatti altri 13 film più 4 miniserie tv, in buona parte visibili sulla piattaforma DAU.com, anche se non si deve pensare a un sistema di produzione continuo e oppressivo. Dall’insieme del progetto promana quasi per forza di cose un’aura sinistramente totalitaria, le riprese però si svolgono solo per brevi periodi. In tre anni Jürgen Jürges totalizza 700 ore di girato per 100 giorni di riprese. Ma soprattutto nulla viene “rubato” alla vita quotidiana di attori e comparse come in un volgare Grande Fratello sovietico. Al contrario, le sceneggiature sono abbastanza aperte da spingere ogni interprete a improvvisare, almeno in parte, perché questo è in fondo lo scopo del Progetto DAU. Ricreare non solo un sistema sociale ma il suo modo specifico di funzionamento. Ribaltando l’estetizzazione della politica propria dei regimi totalitari in una gigantesca operazione consapevolmente, dunque politicamente, artistica. Sintetizza il regista: «Presi uno a uno tutti questi dettagli sono puro delirio. Nel loro insieme però finiscono per creare una profondità altrimenti impossibile da raggiungere». Il problema a ben vedere è tutto lì e non riguarda solo Khrzhanovskiy ma lo sguardo che ormai posiamo sulla produzione culturale. Certo, non contano solo i risultati finali, anche il metodo è centrale, ma i reportages dal set del Progetto DAU hanno fatto a gara nel dipingere il regista come un incrocio tra il Coppola di “Apocalypse Now” e il colonnello Kurtz perso nella sua brama di potere. Finendo per considerare l’esito di questa colossale impresa - i film e la versione teatrale immersiva andata in scena a Parigi - una specie di trascurabile epifenomeno. Mentre la visione di “DAU. Natasha” sembra dare ragione a Khrzhanovskiy, per quanto dispotici possano essere stati i suoi atteggiamenti sul set. L’interrogatorio subito dalla protagonista non sarebbe così sconvolgente se questa formidabile attrice non professionista alla fine non ribaltasse i ruoli tentando di sedurre il suo carnefice. E se a interpretare il funzionario che la interroga non fosse un vero ex-ufficiale del KGB (defunto nel frattempo), esperto in questo genere di pratiche, che dopo l’esperienza sul set avrebbe preso coscienza del proprio ruolo finendo per pentirsi e testimoniare contro la tortura per Amnesty International.

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” il 26 agosto 2021. Torna la leggenda dei due Putin. Dopo che cinque anni fa lo aveva scritto un giornale inglese peraltro non particolarmente autorevole, adesso sono ambienti del governo georgiano che in via non ufficiale stanno ripetendo la tesi che il vero Putin è defunto o malato, ed è stato sostituito. La prova? Da un po' di tempo a questa parte non ostenta più il perfetto tedesco che aveva appreso quando lavorava per il Kgb in Germania Est, e nelle occasioni ufficiali si fa assistere da un interprete. Questo tipo di leggende corrisponde a un plot classico e ben attestato nella storia russa, anche se in passato più che su un vivo sostituito insistevano su un morto redivivo. All'inizio del '600, ad esempio, ben tre persone affermarono di essere Dmitrij, figlio di Ivan il Terribile, miracolosamente scampato all'assassinio del 1591: un falso Dmitrij I che fu messo sul trono dai polacchi l'11 giugno 1605 e linciato il 27 maggio 1606; un Falso Dimitrij II che regnò su una parte della Russia tra 1607 e 1610 prima di essere anche lui assassinato; un Falso Dimitrij III insediato come zar il 2 marzo 1611 e a sua volta ucciso a luglio. Anche lo zar Pietro III, morto nel 1762 dopo essere stato fatto internare dalla moglie Caterina II, ebbe ben cinque reincarnazioni. La più famosa fu quella del contadino cosacco Emel'jan Ivanovic Pugachëv, capo della grande rivolta narrata nella "Figlia del capitano" di Puskin. E più di recente ci fu l'Anastasia pretesa figlia di Nicola II scampata alla strage della famiglia da parte dei bolscevichi, e protagonista di un film e di un cartone animato. La leggenda dei due Putin nacque nel 2015, quando Putin sparì misteriosamente dalla circolazione per una decina di giorni. Fu poi rilanciata con forza nel dicembre del 2016 dal Daily Star: un foglio inglese specializzato in gossip che sparò "Avvelenato e sostituito da un sosia". Secondo la teoria, l'uomo forte della Russia sarebbe stato ucciso nel 2014 da un complotto di Cia e MI6 e al posto suo sarebbe stato messo un alter ego. Il giornale non chiariva se da parte della Cia o da parte dello stesso potere russo. Altre prove: un confronto di foto, con il passaggio del neo sullo zigomo. «Vlad è cambiato molto negli ultimi anni». «La sua peggiorata capacità di parlare tedesco, e il divorzio da sua moglie dimostrano che il presidente russo non è il vero Vlad» e che il suo «doppio molto probabilmente è sotto il controllo della Cia». In effetti il neo spostato può derivare semplicemente da una foto ribaltata al computer e la moglie non è che le cambiano solo gli alter ego. Il tema più forte è quello del tedesco meno fluente. Però si è risposto che l'uso dell'interprete può essere dovuto semplicemente alla necessità di farsi capire dalla gran parte dei russi nelle dirette tv, mentre magari un tedesco meno fluido dipende solo da una mancanza di pratica. Dopo tutto, sono ormai oltre 30 anni che Putin non risiede più in Germania. Anche il preteso controllo della Cia sembra in netto contrasto con una linea internazionale che invece rispetto agli Usa è entrata sempre più spesso in rotta di collisione. Semmai, potrebbero essere stati gli ambienti che ruotano attorno al suo potere ad avere interesse di blindarlo. In realtà nel febbraio del 2020 Putin con la Tass ha ammesso che esisteva un piano segreto per sostituirlo. Non però in chiave golpista, bensì per proteggerlo quando compariva in pubblico. «Ma io ho rifiutato di avere dei sosia»". Secondo quanto ha spiegato, la questione si era posta nei primi anni Duemila, quando aveva lanciato una guerra feroce contro i separatisti della Cecenia. Ne erano seguiti attentati sanguinosi e sequestri di persona in massa, e il pericolo per la stessa vita del leader russo era percepito come reale. «Secondo il piano di allora», ha precisato Putin, «un sosia avrebbe dovuto prendere il mio posto in occasioni pubbliche pericolose, ma io non ho mai voluto che mi sostituissero». Ma quella del sosia non è neanche la leggenda più estrema. Due fotografie di soldati sovietici apparse su internet e risalenti una al 1920 e l'altra al 1941 mostrano infatti volti talmente somiglianti a quello di Vladimir Vladimirovic da lasciare sbalorditi. E in Russia si è parlato allora sia di una presunta immortalità; sia di una macchina del tempo che gli permetterebbe di viaggiare nel passato.

Anna Zafesova per “la Stampa” il 19 agosto 2021. Boris Eltsin che si arrampica sul carro armato mandato dai golpisti per chiamare alla rivolta. I moscoviti che costruiscono barricate intorno al parlamento russo. I falchi del Pcus che raccontano in conferenza stampa di aver preso il potere al Cremlino, con le mani che gli tremano in mondovisione. Mikhail Gorbaciov che, dopo tre giorni di arresti domiciliari nella sua dacia crimeana, scende la scaletta dell'aereo che lo riporta a Mosca, il volto scavato, gli occhi due fosse nere, con alle sue spalle una Raisa devastata che abbraccia la nipotina avvolta in una coperta: un'immagine da naufrago che preannuncia la caduta del primo e ultimo presidente sovietico. Il tricolore degli zar che sventola nelle piazze, soppiantando la bandiera rossa, mentre la statua di Dzerzhinsky, il fondatore della polizia segreta diventata celebre con il nome del Kgb, viene sollevata dal suo piedistallo con un cappio al collo, in un'impiccagione simbolica che doveva concludere, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, il collasso del castello di carte del blocco sovietico. Immagini entrate nella storia trent' anni fa, e che tornano alla memoria oggi, quando si discute di nuovo di regimi crollati in tre giorni. Dovevano essere i tre giorni che sconvolsero il mondo, come quei dieci giorni che nel 1917 avevano segnato la nascita dell'impero che si sgretolava ora sotto gli occhi attoniti di analisti, strateghi e politici, alleati o avversari, che l'avevano considerato una grande potenza. Una rivoluzione pacifica - il comunismo sovietico cadde al prezzo di tre vite di giovani che avevano cercato di fermare un blindato dei golpisti nel centro di Mosca - che conserva molti retroscena misteriosi, ma che riuscì a vincere grazie a un'alleanza della piazza, della parte più modernizzata delle élite, e della comunità internazionale. Il tentativo di golpe conservatore che doveva riportare le lancette dell'orologio indietro non aveva fatto che accelerare la fine di un sistema che Gorbaciov aveva tentato disperatamente di riformare prima dell'inevitabile rottamazione. Furono giorni di un entusiasmo e di un ottimismo globale: l'Unione Sovietica aveva abbattuto il suo Muro, con due anni di ritardo rispetto ai suoi satelliti nell'Est Europa. Il Kgb era stato chiuso, Dzerzhinsky mandato in pensione in un parco, dei 16 milioni di membri del Pcus messo al bando non ne rimaneva più nessuno, e un tale Vladimir Putin, rimasto disoccupato, stava meditando seriamente di fare il tassista. Sembrava un indiscutibile lieto fine, la storia era finita, la Guerra fredda pure, la Russia tornava nel mondo dal quale si era autoisolata 73 anni prima, lasciando libere le altre 14 repubbliche che avevano composto uno degli imperi di vita più breve della storia. Sembrava una ricorrenza da celebrare nei secoli, da raccontare ai nipoti, da immortalare nei film. Soltanto trent' anni dopo, non se la ricorda nessuno. Chi si è lasciato alle spalle senza rimpianti quell'ideologia e quel Paese - i Baltici ormai nell'Ue e nella Nato, e l'Ucraina e la Georgia che stanno bussando alle loro porte - non guarda al passato. Chi avrebbe preferito che nell'agosto 1991 avessero vinto i golpisti - i nuovi manuali di storia in arrivo nelle scuole russe raccontano che il collasso dell'Urss sia stato frutto di un complotto di Eltsin e del presidente ucraino Leonid Kravchuk, ispirato dagli occidentali - semmai vorrebbe indire il lutto, come Vladimir Putin, convinto ancora che la fine dell'impero comunista sia stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». A Mosca si discute appassionatamente di far tornare Dzerzhinsky sulla piazza dove ha sede l'ex Kgb, che ha cambiato nome, ma è più potente che mai, nelle prigioni ci sono più dissidenti che nel 1991, la tv trasmette film nostalgici, la Guerra fredda è più fredda che mai, e circa la metà degli under 24 russi dice ai sondaggisti che vorrebbe scappare all'estero. L'unica cosa veramente cambiata, con la storia che ha fatto andata e ritorno, sono i consumi: le code nei negozi sono un ricordo dei più anziani (insieme allo scarso ma capillare welfare socialista), e la ricchezza viene cercata e ostentata con uno sfarzo che avrebbe messo in imbarazzo perfino i Romanov, nel frattempo completamente riabilitati e rimpianti insieme a Stalin. Nel 1991, si dava per scontato che i Paesi ex sovietici, Russia in testa, si sarebbero rapidamente uniti alla libertà e al benessere occidentale, con più o meno difficoltà. Quando questo sogno si scoprì utopico, la priorità di tutti - di Mosca come delle capitali occidentali - fu quella di garantire una transizione dal comunismo pacifica: la tragedia della ex Jugoslavia era sotto gli occhi di tutti. Trent' anni dopo, anche il mito di una dissoluzione non violenta va archiviato: dalle sanguinose guerre civili nel Tagikistan e in Georgia, alla tragedia cecena e al «conflitto congelato» in Trasnistria, alla guerra tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, fino all'annessione della Crimea e all'invasione russa nel Donbass ucraino, un conflitto di cui non si vede la soluzione, che a oggi ha fatto 14 mila morti e più di un milione di profughi, il numero più alto nell'Europa del secondo dopoguerra. Nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia Centrale i leader comunisti sono rimasti al potere in khanati di stampo nordcoreano. In Russia e Bielorussia due leader che hanno cavalcato la sindrome post-traumatica della perdita dell'impero si stanno contendendo il titolo di «ultimo dittatore d'Europa». Non è stata una transizione pacifica, e la fine dell'ideologia comunista non è bastata a portare democrazia: l'Unione Sovietica era un colosso su gambe d'argilla, ma anche una mina a scoppio ritardato, e il giorno in cui la sconfitta del golpe dell'agosto 1991 verrà festeggiata come l'inizio della fine deve ancora arrivare.

Alle origini dell’eurasiatismo: storia e pensiero di Lev Gumilëv. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 17 agosto 2021. Dopo un periodo di focalizzazione obbligata sugli affari interni durato dall’immediato post-implosione sovietica all’alba degli anni Dieci del Duemila – dovuto al dissesto economico-finanziario, alla quasi-guerra civile nella Russia europea e alla pioggia di separatismi etno-religiosi tra Volga e Caucaso –, lo Stato-civiltà Russia si è riaffacciato sul balcone con vista panoramica che dà sul mondo. A partire dalla guerra contro la Georgia, che è e resta uno dei principali eventi spartiacque del 21esimo secolo, la Russia ha progressivamente ed estesamente cercato di riaffermare il proprio antico e storico ruolo di grande potenza. Perché non v’è teatro geopolitico di rilievo che non abbia assistito al reingresso dei russi: dal Medio Oriente all’Africa, passando per l’America Latina e l’Eurasia in ogni sua frazione. In alcuni casi, come quello africano, il Cremlino ha semplicemente capitalizzato il significativo legato sovietico, ricorrendo a tecniche, tattiche e strumenti di guerrafreddesca memoria, come armamenti, energia, mercenari, cultura e università. In altri, come quello latinoamericano, Mosca si è limitata a fiutare un’opportunità – quella della “primavera rossa” dei primi anni Duemila, rappresentata da fenomeni quali il lulismo e il bolivarismo – allo scopo di consumare azioni di disturbo nel cortile di casa degli Stati Uniti. Dalla Georgia al Nicaragua, passando per le Terre palestinesi e la Mongolia, le mosse degli abilissimi scacchisti del Cremlino sono accomunate da una peculiarità: mai figlie dell’impulsività e dell’avventatezza, esse rispondono, sempre e comunque, a delle logiche tanto fredde quanto ferree, e tanto calcolate quanto lungimiranti. L’obiettivo del Cremlino, invero, non è mai il pedone in sé e per sé: è lo scacco matto. V’è un modo per comprendere in profondità la logica delle azioni di Mosca nell’arena internazionale: andare alla scoperta di coloro che le hanno ispirate, suggerite e formulate. Personaggi che, contrariamente all’opinione diffusa, spesso e volentieri non appartengono a questa epoca, ma al passato remoto. Personaggi come Dmitriy Gerasimov – teorico del passaggio a nord-est –, Aleksandr Michajlovič Gorčakov – stratega del Grande Gioco –, Evgenij Primakov – preconizzatore dell’africanizzazione dell’agenda estera del Cremlino – e Lev Gumilëv – il padre fondatore dell’eurasiatismo.

Nemico giurato di Stalin. Lev Nikolaevič Gumilëv nasce a San Pietroburgo il primo ottobre 1912. Figlio d’arte – i genitori erano lo scrittore Nikolai Gumilev e la poetessa Anna Akhmatova –, Gumilëv cresce e si forma all’interno della neonata Unione Sovietica, assistendo all’assassinio del padre da parte della Čeka in tenera età – fu giustiziato nel 1921. Ribelle e anticonformista, Gumilëv avrebbe trascorso la giovinezza alternando università e prigionia, venendo fermato e arrestato più volte in qualità di sorvegliato speciale del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD, Народный комиссариат внутренних дел). Neanche l’arruolamento nelle forze armate, che nel 1945 lo condusse a combattere a Berlino, lo avrebbe salvato dalle maglie della (in)giustizia nel secondo dopoguerra. Tradotto in arresto nel 1949, e condannato a dieci anni in un campo di lavoro, Gumilëv sarebbe stato il testimone infelice di un ignominioso tentativo di mediazione tra sua madre Anna Akhmatova e Stalin. Costretta a realizzare un canto corale in onore del dittatore sovietico – un ditirambo – in cambio della libertà propria e del figlio, la Akhmatova avrebbe ottenuto soltanto la prima. E lui, Gumilëv, inconsapevole dell’inganno, avrebbe trascorso gli anni successivi serbando rancore nei confronti della madre, misinterpretando quel gesto di amore materno.

Dal dopo-Stalin alla morte. Tornato letteralmente a nuova vita nel dopo-Stalin, Gumilëv sarebbe stato riscoperto, rivalutato e valorizzato tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Non più visto dal pubblico (e dalle autorità) come un eterno dissidente, ma per quello che era realmente – uno studioso appassionato di geografia, etnologia e storia dei popoli russi e turchici –, Gumilëv avrebbe fatto carriera all’interno dell’Hermitage e dell’università di Leningrado (oggi università statale di San Pietroburgo) e trovato un caldo accoglimento presso gli ambienti accademici e intellettuali. Erudito, austero e contornato da un velo quasi-mistico agli occhi dei colleghi, Gumilëv avrebbe ottenuto tanta popolarità quanto avrebbe suscitato discordia e divisione. Le sue idee sull’eurasiatismo, invero, catturavano l’attenzione della classe dirigente e dei decisori politici, ma il suo persistente protendere verso il cospirazionismo e l’antigiudaismo lo avrebbe reso inviso agli occhi di buona parte di intellettuali, sostenitori e politici. Affascinante ma polarizzante ed ecumenico ma giudeofobo, Gumilëv avrebbe conseguito la più elevata popolarità e i più grandi riconoscimenti negli ultimi anni di vita, corrispondenti, tra l’altro, alle ultime fasi dell’Unione Sovietica. E in ragione del suo contributo significativo alla causa eurasiatistica, pochi anni dopo la morte – avvenuta il 15 giugno 1992 –, il presidente kazako Nursultan Nazarbaev avrebbe intitolato la più importante università del Paese a suo nome, ribattezzandola l’università nazionale eurasiatica L. N. Gumilëv (Евразийский Национальный университет имени Л. Н. Гумилёва).

Il pensiero di Gumilev. Gumilëv può essere considerato un seguace del determinismo in ogni sua forma: biologico, ambientale e persino geografico. I popoli, spiegava il pensatore russo, non sono che il riflesso del loro patrimonio genetico, tramandatogli dagli antenati, e del loro habitat naturale, il cui modo di plasmare le genti varia a seconda delle sue peculiarità (confini fluidi o rigidi, montagne o valli, temperature alte o basse, eccetera). E i popoli, tutti, al di là delle loro caratteristiche, nel pensiero gumilëviano affrontano un processo di sviluppo lineare e progressivo (etnosi), diviso in stadi evolutivi – ascesa, acme, rottura, inerzia, omeostasi e memoriale –, che li accompagna dalla nascita alla morte. L’apogeo di questo processo civilizzazionale sarebbe costituito dall’acme, dove si registra la prevalenza dei “passionari” sugli inerti: uomini e donne che alla stasi culturale preferiscono la produttività, che all’individualismo prediligono il comunitarismo e che, soprattutto, sono protesi verso la conquista di nuovi territori perché guidati da uno “spirito marziale”.

Le civiltà e i popoli, in breve, fioriscono quando dominate dai passionari e appassiscono quando, superata la fase dell’acme, si addentrano negli stadi involutivi che le condurranno al decesso. Secondo Gumilëv, un caso particolarmente evidente di civiltà che, concluso il ciclo della passionarietà aveva abbracciato l’oscurità della fine, era costituito dall’Europa. Una civiltà più unica che rara, invece – perché ancora passionaria, perché forgiata dalla guerra sin dai primordi, perché stanziata su un lebensraum senza eguali dal punto di vista climatico e botanico-pedologico e perché plasmata dalla mescolanza con i popoli nomadi-guerrieri turco-mongoli –, sarebbe stata quella russa. I russi, non a caso, venivano definiti da Gumilëv in termini di portatori di un “super-ethnos“, cioè i figli della combinazione di più ethne. Ragion per cui, contrariamente alla vulgata, il pensatore russo invitava a rivalutare positivamente il periodo dell’invasione mongola della Rus’ di Kiev.

La rinascita durante l'era Putin. Gumilëv è stato oggetto di una rivalutazione tardiva già in vita, ovvero durante le ultime fasi dell’epopea sovietica, ma è soltanto dopo la sopraggiunta morte che è stato introdotto nell’Olimpo dei padri fondatori dell’eurasiatismo e degli intellettuali più importanti della storia russa. Nonostante il persistere delle accuse di cospirazionismo giudeofobico – credeva che i ricchi mercanti ebrei della Rus’ di Kiev avessero avuto un ruolo nell’assoggettamento degli slavi ai tataro-mongoli, vedendo due prove di ciò nei loro buoni rapporti coi vari khan e nelle ondate di conversioni all’ebraismo dei cazari –, Gumilëv, oggi, ha cessato di rappresentare un personaggio divisivo, controverso e censurato dalla condanna della memoria. Perché Gumilëv, al contrario, è stato investito di nuova legittimità proprio dal Cremlino, da Vladimir Putin in persona. Citato periodicamente dal longevo presidente della Russia, il pensiero gumilëviano appare nel corso di appuntamenti con il mondo accademico, di dibattiti parlamentari e, ultimo ma non meno importante, in occasione dei discorsi annuali all’assemblea federale. E il perché di questa riabilitazione post-mortem è tanto chiaro ai russi quanto semisconosciuto agli occidentali: Gumilëv inquadrava il collasso dell’odiata Unione Sovietica all’interno della seconda fase del ciclo evolutivo delle civiltà – quella discendente – e Putin, l’Uomo inviato al Cremlino dallo Stato profondo per porre fine al caos eltsiniano, ha creduto fermamente, sin dai primordi, nell’imperativo di portare a compimento la missione storica di dotare il popolo russo di un’identità con la quale affrontare le sfide del 21esimo secolo. Prevarranno i passionari, avrebbe spiegato Putin all’assemblea federale nel 2016, citando Gumilëv. E i passionari sono coloro che possiedono “l’abilità di andare avanti ed abbracciare il cambiamento”. Sono coloro dalla cui volontà di potenza dipende il futuro delle nazioni. Sono coloro che, come Cristo costretto dai legionari a raggiungere il Golgota tra mille supplizi – da qui il loro nome –, sono l’energia interiore delle nazioni e rappresentano la loro unica speranza di redenzione, salvezza ed, eventualmente, resurrezione. E la Russia dell’era Putin, tra ritorno del Sacro nella vita pubblica e rinazionalizzazione delle masse, non aspira ad altro che a forgiare nuove generazioni di passionari.

Articolo di “The Guardian” - dalla rassegna stampa estera di “Epr Comunicazione” il 15 luglio 2021. Vladimir Putin ha autorizzato personalmente un'operazione segreta dell'agenzia di spionaggio per sostenere un "mentalmente instabile" Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2016 durante una sessione chiusa del consiglio di sicurezza nazionale della Russia, secondo quelli che si ritiene siano documenti del Cremlino trapelati. L'incontro chiave ha avuto luogo il 22 gennaio 2016, suggeriscono i documenti, con il presidente russo, i suoi capi spia e gli alti ministri tutti presenti. Hanno concordato che una Casa Bianca con Trump avrebbe aiutato a garantire gli obiettivi strategici di Mosca, tra cui "l'agitazione sociale" negli Stati Uniti e un indebolimento della posizione negoziale del presidente americano. Alle tre agenzie di spionaggio della Russia è stato ordinato di trovare modi pratici per sostenere Trump, in un decreto che sembra portare la firma di Putin. A questo punto Trump era il frontrunner nella corsa alla nomination del partito repubblicano. Un rapporto preparato dal dipartimento di esperti di Putin raccomandava a Mosca di usare "tutta la forza possibile" per assicurare una vittoria di Trump. Le agenzie di intelligence occidentali sono a conoscenza dei documenti da alcuni mesi e li hanno attentamente esaminati. I documenti, visti dal Guardian, sembrano rappresentare una fuga di notizie seria e molto insolita dall'interno del Cremlino. Il Guardian ha mostrato i documenti ad esperti indipendenti che dicono che sembrano essere autentici. I dettagli accidentali sono accurati. Il tono e la spinta generale si dice siano coerenti con il pensiero di sicurezza del Cremlino. Il Cremlino ha risposto in maniera smaccata. Il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, ha detto che l'idea che i leader russi si fossero incontrati e avessero concordato di sostenere Trump nell'incontro all'inizio del 2016 è "una grande pulp fiction" quando contattato dal Guardian giovedì mattina. Il rapporto - "No 32-04 \ vd" - è classificato come segreto. Dice che Trump è il "candidato più promettente" dal punto di vista del Cremlino. La parola in russo è perspektivny. C'è una breve valutazione psicologica di Trump, che è descritto come un "individuo impulsivo, mentalmente instabile e squilibrato che soffre di un complesso di inferiorità". C'è anche un'apparente conferma che il Cremlino possieda kompromat, o materiale potenzialmente compromettente, sul futuro presidente, raccolto - dice il documento - dalle precedenti "visite non ufficiali di Trump nel territorio della Federazione Russa". Il documento si riferisce a "certi eventi" accaduti durante i viaggi di Trump a Mosca. I membri del Consiglio di sicurezza sono invitati a trovare i dettagli nell'appendice cinque, al paragrafo cinque, afferma il documento. Non è chiaro cosa contenga l'appendice. "È assolutamente necessario usare tutta la forza possibile per facilitare la sua [di Trump] elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti", dice il documento. Questo aiuterebbe a realizzare il favorito "scenario politico teorico" della Russia. Una vittoria di Trump "porterà sicuramente alla destabilizzazione del sistema sociopolitico degli Stati Uniti" e vedrà il malcontento nascosto scoppiare allo scoperto, prevede. 

Il vertice del Cremlino. Non c'è dubbio che l'incontro del gennaio 2016 abbia avuto luogo - e che sia stato convocato all'interno del Cremlino. Una foto ufficiale dell'occasione mostra Putin a capo del tavolo, seduto sotto una bandiera della Federazione Russa e un'aquila d'oro a due teste. L'allora primo ministro russo, Dmitry Medvedev, ha partecipato, insieme al veterano ministro degli esteri, Sergei Lavrov. Erano presenti anche Sergei Shoigu, il ministro della difesa responsabile del GRU, l'agenzia di intelligence militare russa; Mikhail Fradkov, l'allora capo dei servizi segreti esteri russi SVR; e Alexander Bortnikov, il capo dell'agenzia di spionaggio FSB. Nikolai Patrushev, l'ex direttore dell'FSB, ha partecipato anche come segretario del consiglio di sicurezza. Secondo un comunicato stampa, la discussione ha riguardato l'economia e la Moldavia. Il documento visto dal Guardian suggerisce che il vero scopo segreto del consiglio di sicurezza era quello di discutere le proposte riservate elaborate dal servizio analitico del presidente in risposta alle sanzioni statunitensi contro Mosca.

L'autore sembra essere Vladimir Symonenko, l'alto funzionario responsabile del dipartimento di esperti del Cremlino - che fornisce a Putin materiale analitico e rapporti, alcuni dei quali basati su intelligence straniera.

I documenti indicano che il 14 gennaio 2016 Symonenko ha fatto circolare un riassunto esecutivo di tre pagine delle conclusioni e delle raccomandazioni del suo team. In un ordine firmato due giorni dopo, Putin ha incaricato l'allora capo della sua direzione di politica estera, Alexander Manzhosin, di convocare un briefing chiuso del consiglio di sicurezza nazionale. Il suo scopo era quello di studiare ulteriormente il documento, dice l'ordine. A Manzhosin fu dato un termine di cinque giorni per prendere accordi. Ciò che è stato detto all'interno della stanza del secondo piano del palazzo del Senato del Cremlino è sconosciuto. Ma il presidente e i suoi funzionari dell'intelligence sembrano aver firmato un piano multi-agenzia per interferire nella democrazia statunitense, inquadrato in termini di autodifesa giustificata. Sono citate varie misure che il Cremlino avrebbe potuto adottare in risposta a ciò che considera come atti ostili da parte di Washington. Il documento espone diverse debolezze americane. Questi includono un "profondo divario politico tra sinistra e destra", lo spazio "media-informazione" degli Stati Uniti, e un umore anti-establishment sotto il presidente Barack Obama. Il documento non nomina Hillary Clinton, la rivale di Trump nel 2016. Suggerisce di impiegare le risorse dei media per minare le principali figure politiche statunitensi. Ci sono paragrafi su come la Russia potrebbe inserire "virus mediatici" nella vita pubblica americana, che potrebbero diventare autosufficienti e auto-replicanti. Questi altererebbero la coscienza di massa, specialmente in certi gruppi, si dice. Dopo l'incontro, secondo un documento separato trapelato, Putin ha emesso un decreto che istituisce una nuova e segreta commissione interdipartimentale. Il suo compito urgente era quello di realizzare gli obiettivi indicati nella "parte speciale" del documento n. 32-04 \ vd. Tra i membri del nuovo organismo di lavoro sono stati dichiarati Shoigu, Fradkov e Bortnikov. Shoigu è stato nominato presidente della commissione. Il decreto - ukaz in russo - diceva che il gruppo avrebbe dovuto prendere al più presto misure pratiche contro gli Stati Uniti. Queste erano giustificate da motivi di sicurezza nazionale e in conformità con una legge federale del 2010, 390-FZ, che permette al consiglio di formulare la politica statale in materia di sicurezza. Secondo il documento, ad ogni agenzia di spionaggio è stato dato un ruolo. Il ministro della difesa è stato incaricato di coordinare il lavoro delle sottodivisioni e dei servizi. Shoigu era anche responsabile della raccolta e della sistematizzazione delle informazioni necessarie e della "preparazione di misure per agire sull'ambiente informativo dell'oggetto" - un comando, sembra, per hackerare sensibili cyber-obiettivi americani identificati dall'SVR. All'SVR è stato detto di raccogliere ulteriori informazioni per sostenere le attività della commissione. All'FSB fu assegnato il controspionaggio. Putin ha approvato il documento, datato 22 gennaio 2016, che la sua cancelleria ha timbrato. Le misure sono entrate in vigore immediatamente alla firma di Putin, dice il decreto. Ai capi delle spie è stata data poco più di una settimana per tornare con idee concrete, da presentare entro il 1° febbraio. Scritto in un linguaggio burocratico, i documenti sembrano offrire uno sguardo senza precedenti nel mondo solitamente nascosto del processo decisionale del governo russo. Putin ha ripetutamente negato le accuse di interferire nella democrazia occidentale. I documenti sembrano contraddire questa affermazione. Suggeriscono che il presidente, i suoi ufficiali di spionaggio e gli alti ministri erano tutti intimamente coinvolti in una delle più importanti e audaci operazioni di spionaggio del 21° secolo: un complotto per aiutare a mettere il "mentalmente instabile" Trump alla Casa Bianca. I documenti sembrano stabilire una tabella di marcia per ciò che è effettivamente accaduto nel 2016. Poche settimane dopo la riunione del consiglio di sicurezza, gli hacker del GRU hanno fatto irruzione nei server del Comitato Nazionale Democratico (DNC) e successivamente hanno rilasciato migliaia di email private nel tentativo di danneggiare la campagna elettorale della Clinton. Il rapporto visto dal Guardian presenta dettagli che ricordano il lavoro dell'intelligence russa, dicono fonti diplomatiche. L'identikit della personalità di Trump è caratteristico dell'analisi dell'agenzia di spionaggio del Cremlino, che pone grande enfasi sulla costruzione di un profilo degli individui utilizzando sia la psicologia reale che quella basata sul pregiudizio. Mosca guadagnerebbe di più da una vittoria repubblicana, afferma il documento. Questo potrebbe portare ad una "esplosione sociale" che a sua volta indebolirebbe il presidente degli Stati Uniti, dice. C'erano benefici internazionali da una vittoria di Trump, sottolinea. Putin sarebbe in grado, in modo clandestino, di dominare qualsiasi trattativa bilaterale USA-Russia, di decostruire la posizione negoziale della Casa Bianca e di perseguire audaci iniziative di politica estera per conto della Russia, dice. Altre parti del rapporto di più pagine trattano temi non-Trump. Dice che le sanzioni imposte dagli Stati Uniti dopo l'annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 hanno contribuito alle tensioni interne. Il Cremlino dovrebbe cercare modi alternativi per attirare liquidità nell'economia russa, conclude. Il documento raccomanda il riorientamento del commercio e delle esportazioni di idrocarburi verso la Cina. L'obiettivo di Mosca dovrebbe essere quello di influenzare gli Stati Uniti e i suoi paesi satelliti, dice, in modo che abbandonino del tutto le sanzioni o le ammorbidiscano. 

Documenti "vincolanti”. Andrei Soldatov, un esperto di agenzie di spionaggio della Russia e autore di The Red Web, ha detto che il materiale trapelato "riflette la realtà". "È coerente con le procedure dei servizi di sicurezza e del consiglio di sicurezza", ha detto. "Le decisioni vengono sempre prese così, con consiglieri che forniscono informazioni al presidente e una catena di comando". Ha aggiunto: "Il Cremlino gestisce in modo minuzioso la maggior parte di queste operazioni. Putin ha chiarito alle sue spie almeno dal 2015 che nulla può essere fatto indipendentemente da lui. Non c'è spazio per azioni indipendenti". Putin ha deciso di rilasciare le email DNC rubate dopo una riunione del consiglio di sicurezza nell'aprile 2016, ha detto Soldatov, citando le proprie fonti. Sir Andrew Wood, ex ambasciatore del Regno Unito a Mosca e socio del thinktank Chatham House, ha descritto i documenti come "incantatori". "Riflettono il tipo di discussione e di raccomandazioni che ci si aspetterebbe. C'è un completo fraintendimento degli Stati Uniti e della Cina. Sono scritti per una persona [Putin] che non può credere di aver sbagliato qualcosa". Wood ha aggiunto: "Non c'è alcun senso che la Russia possa aver fatto un errore invadendo l'Ucraina. Il rapporto è pienamente in linea con il tipo di cose che mi aspetterei nel 2016, e ancora di più ora. C'è una buona dose di paranoia. Credono che gli Stati Uniti siano responsabili di tutto. Questa visione è profondamente scolpita nell'anima dei leader russi".

Francesco Bechis per formiche.net il 16 luglio 2021. Il Russiagate scatena una guerra a base d’inchiostro. Scoppiano scintille fra il Guardian e Le Monde. Il quotidiano inglese due giorni fa ha sganciato una bomba: un documento russo che, secondo l’autore, il giornalista investigativo Luke Harding, dimostra come nel 2016 la Russia di Vladimir Putin abbia scommesso tutto sull’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, ritenuto dagli 007 di Mosca “mentalmente instabile”. Per il primo giornale francese, però, lo scoop potrebbe dimostrarsi una bufala. Le presunte prove allegate dal Guardian “sono circondate da ripetuti ricorsi alla retorica”, sibila Le Monde. Tutta l’inchiesta, che già ha sollevato un polverone fra i democratici americani, ruota intorno a un documento “segreto” in cirillico che dà conto di una riunione avvenuta il 22 gennaio 2016 fra Putin, il primo ministro Dmitrij Medvedev, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e i direttori delle agenzie di intelligence. Obiettivo del meeting, secondo i resoconti ufficiali, lo stato dell’economia del Paese e le tensioni in Moldavia. Secondo Harding invece durante l’incontro Putin si sarebbe confrontato con i suoi sui vantaggi per la Russia di una vittoria di Trump alle elezioni presidenziali. Fra gli altri, la certezza che il successo del Tycoon alle urne avrebbe portato a “una destabilizzazione del sistema sociopolitico degli Usa”. Di qui l’esortazione finale riportata nel documento: “È assolutamente necessario usare tutte le forze possibili per facilitare l’elezione di Trump alla presidenza americana”. Sull’autenticità del rapporto, però, restano molti dubbi. Le Monde li elenca uno ad uno, criticando la vaghezza delle accuse contro Mosca nell’articolo del cronista inglese. Il decreto “appare” firmato da Putin, i documenti “si ritiene provengano” da un leak del Cremlino, e offrono “una conferma apparente” delle informazioni compromettenti su Trump in mano ai Servizi di Mosca. Anche se queste informazioni, chiosa Le Monde, sarebbero state raccolte durante precedenti visite di Trump in Russia “sulle quali non è mai stata fatta luce”. Di più: “Il documento russo si riferisce a certi eventi riportati nell’Annesso 5. Purtroppo, di questo annesso non c’è traccia nel documento riportato dal Guardian”. Inoltre, citando Chris Krebs, ex direttore della cybersecurity americana licenziato da Trump per non aver aderito alla teoria delle elezioni rubate nel 2020, il testo appare “troppo comodo, e puzza di operazione di disinformazione”. Ma l’invettiva del più letto quotidiano parigino non finisce qui. Ha nel mirino lo stesso autore dell’inchiesta del Guardian. Noto per i suoi best-seller sui grandi gialli internazionali, dal caso Snowden a Wikileaks fino all’avvelenamento dell’ex agente russo Alexander Litvinenko, Harden ha alle spalle una carriera trentennale. Eppure, ricorda Le Monde, c’è chi ha messo in dubbio la sua attendibilità. “Il giornalista Glenn Greenwald, anche lui un ex Guardian, quando ha pubblicato le rivelazioni di Snowden, ha contestato la credibilità di Harding, ricordando come in passato abbia falsamente dichiarato che nel novembre 2018 Paul Manafort, l’ex manager della campagna di Trump, abbia incontrato Julian Assange all’ambasciata ecuadoriana a Londra”.

Putin-Trump: cosa non torna nella rivelazione del “Guardian”. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 16 luglio 2021. La “bomba” arriva dal solito Luke Harding – insieme Julian Borger and Dan Sabbagh – e dalle colonne del prestigioso Guardian: secondo alcuni documenti esclusivi pubblicati dalla testata britannica, il presidente russo Vladimir Putin avrebbe autorizzato personalmente un’operazione di spionaggio segreta per sostenere un Donald Trump “mentalmente instabile” alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 durante una sessione riservata del Consiglio di sicurezza nazionale della Federazione russa. L’incontro chiave si sarebbe svolto il 22 gennaio 2016, alla presenza del presidente russo e dei suoi capi dell’intelligence oltre che di alcuni ministri. I vertici della Federazione russa avrebbero concordato sul fatto che l’ingresso di Trump alla Casa Bianca avrebbe aiutato a raggiungere gli obiettivi strategici di Mosca, tra cui il “tumulto sociale” negli Stati Uniti e un indebolimento della posizione negoziale del presidente americano. Alle tre agenzie di spionaggio russe sarebbe stato ordinato di trovare modi pratici per sostenere Trump, in un atto che sembra portare la firma di Putin. Il Guardian osserva che le agenzie di intelligence occidentali sarebbero a conoscenza dei documenti da alcuni mesi e li avrebbero fatti esaminare con attenzione e spiega di aver mostrato i documenti a esperti indipendenti i quali ritengono che si tratti di materiale autentico. “È assolutamente necessario usare tutta la forza possibile per facilitare la sua [di Trump] elezione alla carica di presidente degli Stati Uniti”, afferma il documento diffuso dalla testata britannica. Secondo il Cremlino, Donald Trump sarebbe un “individuo impulsivo, mentalmente instabile e squilibrato che soffre di un complesso di inferiorità”.

Documenti autentici? Il portavoce di Putin ha criticato lo scoop del Guardian. “Questa è finzione totale”, ha osservato Dmitry Peskov. “A rigor di termini, è una totale assurdità. Naturalmente, questo è il segno distintivo di una pubblicazione di qualità assolutamente bassa. O il giornale sta cercando di aumentare in qualche modo la sua popolarità o si attiene a una linea rabbiosamente russofoba”. Russia Today accusa inoltre Luke Harding di aver pubblicato in passato falsi scoop, come quello relativo un presunto incontro a Londra fra Julian Assange e e il lobbista americano Paul Manafort che, in realtà, non si è mai verificato.

Veniamo poi al merito dei documenti pubblicati dal Guardian. Premessa: difficile se non impossibile stabilire con assoluta certezza se si tratti di materiale autentico o meno. Detto questo, alcuni esperti esprimono dei dubbi. Secondo il giornalista moscovita e madrelingua Ivan Tkachev il testo pubblicato dalla testata inglese sarebbe molto sospetto per alcuni errori di sintassi e grammatica contenuti in esso. “Ho contato 4 errori linguistici e un paio di casi dubbi sull’uso delle parole” osserva su Twitter. “Quindi, con un notevole grado di sicurezza, posso presumere che si tratti di un testo tradotto da Google da una lingua straniera al russo o di un testo composto con l’aiuto di un russo non istruito, o entrambe le cose. Sarebbe interessante osservare altri documenti originali”. Secondo altri utenti, invece, si tratterebbe di un tipico “documento burocratico russo”, ma anche qui le certezze scarseggiano.

Le agenzie d’intelligence non hanno aiutato Trump. Va sottolineato che se anche la documentazione resa nota dal Guardian fosse autentica, non ci sono prove che le agenzie di intelligence russe – come ordinato da Putin – abbiano poi effettivamente dato una mano a Donald Trump a sconfiggere Hillary Clinton nel 2016. Facciamo un passo indietro e a quanto già evidenziato in più occasione da InsideOver in merito al dossier Russiagate. Come sottolineato da Aaron Maté su The Nation, nel rapporto redatto dall’ex procuratore speciale Robert Mueller, il governo russo avrebbe “interferito nelle elezioni presidenziali del 2016 in modo radicale e sistematico”. Alcuni paragrafi dopo, Mueller spiega che l’interferenza russa si è verificata “principalmente attraverso due operazioni”. La prima di queste le operazioni consisteva in “una campagna sui social media che favoriva il candidato alla presidenza Donald J. Trump e denigrava il candidato alla presidenza Hillary Clinton”, condotto da una fabbrica di troll russi conosciuta come Internet Research Agency (Ira). Eppure la squadra di Mueller è stata costretta ad ammettere in tribunale che questa era una falsa insinuazione: un giudice federale ha infatti rimproverato l’ex procuratore e il dipartimento di Giustizia per aver “suggerito erroneamente un collegamento” tra l’Ira e il Cremlino. Il giudice distrettuale americano Dabney Friedrich ha osservato che l’accusa di Mueller del febbraio 2018  “non collega l’Ira al governo russo” e sostiene che si tratta di un’iniziativa privata “condotta da privati”. Non solo, dunque, non c’è stata alcuna “collusione” fra Donald Trump e la Russia, come stabilito dallo stesso Mueller, ma un giudice americano smentisce anche vi sia un collegamento fra la citatissima Internet Research Agency (Ira) e il governo di Vladimir Putin. Come se non bastasse, la maggior parte dei contenuti dei social media russi non aveva nulla a che fare con le elezioni (solo il 7% dei post su Facebook dell’Ira menzionava Trump o Clinton). Se non con le fake news sul web, allora il Cremlino si è servito dell’enigmatico professor Joseph Mifsud per aiutare Donald Trump? Come già approfondito da InsideOver, il docente scomparso nulla aveva legami molto più stretti con l’intelligence occidentale – in particolare con i servizi inglesi – che non con il Cremlino. Benché, infatti, l’ex direttore dell’Fbi James Comey abbia definito Mifsud “un agente russo”, nemmeno il Procuratore speciale Mueller si è mai azzardato a definirlo tale.

Trump duro con la Russia. Più di Biden. Veniamo infine alla prova dei fatti: durante la sua presidenza Donald Trump non ha fatto assolutamente nulla per avvantaggiare il Cremlino. Anzi. Trump ha portato avanti una politica estera spesso aggressiva nei confronti della Federazione Russa – che certamente non ha fatto piacere a Putin, come la decisione di ritirare gli Usa dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbacev, a seguito del vertice di Reykjavík. Sotto Trump, il Congresso ha inoltre approvato una legge che autorizza 250 milioni di dollari di assistenza militare, comprese armi letali, all’Ucraina. Il Congresso aveva votato per due volte il sostegno militare a Kiev durante gli ultimi anni dell’amministrazione di Obama, ma la Casa Bianca ne aveva bloccato l’attuazione. L’amministrazione Trump lo ha invece approvato. Durante l’amministrazione dell’ex presidente Trump, il gasdotto Nord Stream 2 è stato uno dei principali punti di conflitto con Mosca e Berlino: Washington aveva previsto di introdurre misure contro tutte le società europee che collaborano con la Russia alla costruzione del Nord Stream 2: il Presidente Usa Joe Biden, al contrario, ha deciso di risparmiare dalle sanzioni la Nord Stream Ag, la principale azienda impegnata nella costruzione del gasdotto.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 2 luglio 2021. Vladimir Putin ha reso illegale paragonare i sovietici ai nazisti, ordinando che al contrario si riconosca la missione umanitaria della Russia per liberare l’Europa. Putin ha firmato ieri sera il disegno di legge che vieta la pubblicazione di materiale che mette in parallelo “obiettivi e decisioni” dei sovietici con quelli del Terzo Reich. Bandito anche tutto ciò che nega il “ruolo decisivo” dell’Armata Rossa nella sconfitta di Hitler. Il Cremlino ha sempre più indurito il suo revisionismo storico e ha utilizzato la Seconda Guerra Mondiale per cercare di unire una società che a detta di Putin ha perso di morale dopo il crollo dell’Unione sovietica del 1991. La nuova legislazione prevede il riconoscimento «della missione umanitaria dell’Unione Sovietica nella liberazione dei paesi europei». L'affermazione è destinata a far infuriare gli ex stati sovietici come Estonia, Lettonia e Lituania, che sostengono di essere stati occupati dall'Armata Rossa e costretti ad aderire all'Unione Sovietica. In effetti, la caduta di Berlino, l'orgogliosa vittoria dell'Armata Rossa celebrata ogni anno nella Piazza Rossa, fu in parte alimentata dal sospetto di Stalin che gli alleati occidentali non avrebbero restituito il territorio da loro occupato nella zona sovietica del dopoguerra. Putin ha presentato la nuova legge a gennaio dopo un periodo di aspre contese con la Polonia su chi abbia causato la seconda guerra mondiale. Due anni fa, il parlamento europeo adottò una risoluzione che convenne che l'Unione Sovietica e la Germania congiuntamente «preparavano la strada allo scoppio della seconda guerra mondiale» nell'agosto 1939, con la firma del patto Molotov-Ribbentrop. Putin ha risposto in una conferenza stampa nel dicembre 2019, affermando che l'Unione Sovietica è stata l'ultimo paese in Europa a firmare un patto di non aggressione con la Germania nazista dopo che le altre potenze lo hanno placato. «Stalin non si è macchiato del contatto diretto con Hitler, mentre i leader francesi e britannici si sono incontrati con lui e hanno firmato alcuni documenti», ha detto, aggiungendo che le forze sovietiche sono entrate in Polonia solo «dopo che il governo polacco ha perso il controllo delle proprie forze armate». Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha definito Putin un «bugiardo». Anche gli Stati Uniti sono entrati nella querelle. Georgette Mosbacher, ambasciatore americano a Varsavia, ha twittato: «Caro presidente Putin, Hitler e Stalin hanno collaborato per iniziare la seconda guerra mondiale. Questo è un dato di fatto. La Polonia è stata vittima di questo orribile conflitto».

Dagotraduzione da The Sun il 25 giugno 2021. Secondo i rapporti delle organizzazioni sui diritti umani, nella Crimea occupata i detenuti rinchiusi nelle infernali prigioni di Vladimir Putin verrebbero torturati con scariche elettriche e picchiati con tubi di ferro. Tra gli altri metodi utilizzati, anche quello di stritolargli il pene fino a sottometterli. La penisola di Crimea è stata annessa illegalmente dalla Russia nel 2014. Gli osservatori della Unian Information Society hanno denunciato più di duecento casi di trattamento disumano, di cui un quarto ascrivibili a tortura. Ibrahimjon Mirpochchaev, nato in Crimea, è stato catturato durante un raid dell’FSB mentre era in casa. Ai giornalisti ha raccontato la sua storia: seduto su una sedia, legato mani e piedi con lo scotch, è stato brutalmente picchiato. Poi gli agenti dell’Fsb lo hanno strangolato, chiedendogli di confessare di essere un estremista. «Steso a terra, nudo e con le mani e i piedi legati insieme, mi hanno infilato qualcosa dietro, lo hanno collegato, poi mi hanno messo uno straccio in bocca. A quel punto hanno acceso una specie di macchina e sono stato colpito da una scossa elettrica. Mi sentivo come se stessi bruciando dentro» ha detto l’uomo, che poi è riuscito a scappare. Open Democracy parla dei detenuti costretti a confessare crimini mai commessi. Come Evgeny Panov: «Mi hanno torturato con una pinza sul pene, che avvitavano fino a farmi perdere i sensi». È stato anche sottoposto a elettroshock: «Avevo elettrodi sul ginocchio destro, sulla gamba sinistra e sull’anca. Poi hanno acceso l’elettricità. Sono svenuto diverse volte». E non è finita. «Mi hanno colpito in testa, sulla schiena, sui reni, sulle braccia e le gambe con un tubo di ferro». I russi non hanno lasciato niente di intentato: «con le ginocchia al petto, hanno incastrato le mie mani ammanettate davanti alle gambe, e hanno infilato una sbarra di ferro sotto le ginocchia e mi hanno appeso. Ho provato un dolore indicibile». Da quando la Russia si è impadronita della penisola di Crimea in Ucraina, i tartari di Crimea - che quasi all'unanimità si sono opposti all’annessione - sono stati presi di mira per repressione, spiega Radio Free Europe. Nel 2020 ha riferito che centinaia di bambini dei tartari di Crimea sono detenuti dalla Russia. Mumine Saliyeva, attivista tartara della Crimea, il cui marito, Seiran Saliyev, è stato arrestato, ha parlato delle punizioni estreme che vengono inflitte quotidianamente lì. «Abbiamo visto persone scomparire senza lasciare traccia. Le caricano sui furgoni della polizia e le portano nelle prigioni russe. In Crimea, stanno arrestando gli uomini più nobili, coraggiosi e moralmente forti. I bambini coinvolti in questa storia sono le creature più vulnerabili e indifese. Alcuni dei bambini sono disabili, altri hanno malattie gravi». In un nuovo rapporto l'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha già avvertito che la tortura viene utilizzata dal servizio segreto russo, l'FSB, per estorcere "confessioni" con "processi" basati esclusivamente su "testimoni" anonimi, avverte. L’organizzazione ha denunciato i gravi abusi compiuti «nella Repubblica autonoma di Crimea e nella città di Sebastopoli, in Ucraina» definendo la Crimea un territorio occupato. La Russia ha rifiutato la richiesta dell'OHCHR di condurre una missione di persona in Crimea e monitorare in prima persona il trattamento riservato ai detenuti. Tutte le organizzazioni umanitarie sono tenute fuori dalla Crimea. L'organizzazione ha intervistato le vittime di presunte violazioni dei diritti umani in Crimea tramite monitoraggio a distanza.

Fabrizio Dragosei per il "Corriere della Sera" il 7 giugno 2021. Sono comparse tutte e due allo stesso evento pubblico, probabilmente per la prima volta da quando Vladimir Putin è al potere. Ma nessuno può giurare che siano effettivamente le figlie del presidente, visto che entrambe usano altri cognomi e che nessuno in Russia si azzarda più a fare domande eccessivamente indiscrete su un argomento che Vladimir Vladimirovich ha detto con voce forte e chiara di considerare «off-limits», quello della sua vita privata, la sua famiglia, le eventuali avventure sentimentali. E chi non capisce l'antifona rischia grosso, come il giornale Moskovskij Korrespondent che nel 2008 scrisse di un imminente matrimonio tra il presidente e la ex ginnasta Alina Kabayeva. Pochi giorni dopo il quotidiano sospese le pubblicazioni. Ma da un po' di tempo le figlie Maria e Katerina (o meglio due signore con gli stessi nomi) di 36 e di 34 anni, sono alla ribalta delle cronache per i loro progetti nella genetica e nell'intelligenza artificiale. Così in questo fine settimana hanno parlato al Forum economico di San Pietroburgo. A una sessione sugli investimenti economici Katerina venerdì ha dissertato su tecnologie innovative. Naturalmente è stata presentata con il suo «vero» cognome, Tikhonova. Sabato è stata la volta di Maria, anche lei, naturalmente, con il cognome che usa: Vorontsova. Solo che tutte e due le donne usano il patronimico «giusto» cioè Vladimirovna, vale a dire figlia di Vladimir. I padri potrebbero ovviamente essere due omonimi, ma il rispetto con il quale vengono trattate sembra confermare che non siano due Vladimir qualunque. Katerina, per capire, ha parlato davanti a un uditorio di ministri e alti funzionari che l'ascoltavano in religioso silenzio. Ad un certo punto il rettore dell'università di San Pietroburgo che fungeva da moderatore, si è permesso di fare una battuta mentre Katerina parlava. È stato subito zittito da un infastidito ministro della Giustizia. In realtà le figlie del presidente e della ex moglie Lyudmila, sposata nel 1983, sono scomparse dalla scena ufficiale già nel 1999. L'ex agente del Kgb venne scelto come successore da Boris Eltsin e nominato primo ministro (nel Duemila prese il posto di Eltsin che si dimise). Immediatamente le due ragazze che studiavano alla scuola tedesca di Mosca (la famiglia aveva vissuto nella Germania comunista quando Putin era a capo della stazione del Kgb di Dresda) vennero ritirate dall'istituto e continuarono l'anno privatamente. Ufficialmente non si è mai parlato di loro e Putin in qualche occasione si è limitato a dire che sono fluenti in varie lingue, perseguono la loro carriera, vivono in Russia. È stato scritto che Maria aveva sposato un imprenditore olandese e che Katerina si era unita con il figlio di un amico intimo di Putin, Nikolaj Shamalov. Entrambe però ora usano altri cognomi, come abbiamo visto. La moglie Lyudmila si sarebbe risposata con un imprenditore che ha vent' anni meno di lei e vivrebbe in una specie di castello a Biarritz in Francia. Di Alina Kabayeva si dice che abbia dato tre figli al presidente e che lui l'abbia sposata segretamente. Di certo sappiamo solo che da semplice atleta ha fatto una carriera prodigiosa e ora è a capo della holding che controlla alcune delle principali tv e che è di proprietà di oligarchi e amici di Putin.

Ricostruzione storica. La zampata dell’orso: il libro che ricostruisce le operazioni militari della prima guerra mondiale. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2021. “La zampata dell’orso” è il titolo del nuovo libro scritto a sei mani da Basilio Di Martino, Paolo Pozzato ed Elvio Rotondo e pubblicato da Libellula Edizioni. Il volume ricostruisce le operazioni militari portate avanti durante il primo conflitto mondiale nel corso della cosiddetta offensiva Brusilov (dal nome del generale russo Aleksei Alekseevich Brusilov), che rappresentò il momento più alto delle fortune dell’esercito zarista.

LA NARRAZIONE. La grande offensiva è considerata la più grande vittoria della Triplice intesa durante tutta la grande guerra. Lo scontro ebbe inizio il 4 giugno 1916, quando lo zar Nicola II di Russia ordinò al generale Brusilov di attaccare le forze degli imperi centrali su un fronte di oltre 500 km che andava dalle paludi del Prypjat, sulla frontiera polacca, all’estremità dello schieramento austriaco. L’attacco guidato da Brusilov ebbe fine il 20 settembre 1916, dopo aver raggiunto l’obiettivo principale di distogliere importanti forze tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli austro-ungarici a levare truppe dal settore del Trentino nel pieno dell’offensiva della Battaglia degli Altipiani (Strafexpedition).  L’offensiva convinse la Romania ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa (alla quale però non diede alcun tipo di valido apporto), mentre le perdite furono notevoli per entrambi gli schieramenti: oltre 500mila soldati, in una delle battaglie più sanguinose della storia moderna.

IL VOLUME. Il volume di Di Martino, Pozzato e Rotondo, grazie all’utilizzo di materiale inedito e a uno studio specifico sull’aviazione russa, che grande peso ha avuto nell’ambito dell’offensiva militare che vide protagonista Brusilov, ripercorre uno dei momenti più cruciali di tutta la grande guerra, che cambierà in maniera determinante uno dei conflitti che hanno segnato la storia del Novecento. Quel lungo e sanguinoso ciclo operativo fu sul punto di decidere in modo del tutto inatteso le sorti della guerra, spingendo l’Austria-Ungheria sull’orlo del baratro. Tuttavia, il pronto intervento dell’alleato germanico e i fattori di debolezza intrinseca della Russia, duramente provata dalle disastrose sconfitte del 1914 e del 1915, contribuirono a far sì che la spinta delle armate del fronte sud-occidentale si esaurisse già prima della fine dell’estate 1916, producendo un precario equilibrio che si sarebbe definitivamente rotto nel 1917.

STORIA E DOCUMENTI. Quello che può essere a ragione considerato l’ultimo, disperato sforzo dell’esercito zarista, ebbe però due importanti conseguenze: da un lato determinò la definitiva subordinazione strategica e tattica delle forze imperial regie austro-ungariche (kaiserliche und königliche Armee) all’alto comando tedesco, dall’altro, con il fallimentare intervento rumeno ad agire da catalizzatore, accelerò la crisi finale di quello stesso esercito fino alla sua dissoluzione. L’attuale storiografia europea e statunitense – a differenza di quella italiana –, se pur attratta dal corso del conflitto sui fronti francese e belga, non ha mancato, a sua volta, di cogliere l’importanza degli avvenimenti del fronte orientale per l’andamento complessivo del conflitto, individuando proprio nell’offensiva Brusilov dell’estate del 1916 un punto di svolta cruciale nella guerra del 1914 – 1918. Cosa può dunque aggiungere questo nuovo lavoro alla bibliografia già disponibile sull’argomento, a parte l’ovvio utilizzo della lingua italiana? Sicuramente un approfondimento tangibile, basato sul fatto che i saggi e gli apporti citati nella struttura del volume, sebbene in molti casi siano ampiamente documentati sia sulle fonti d’archivio, sia avvalendosi della memorialistica dei protagonisti, sono ancora lungi dall’aver esplorato in toto la mole di assoluto rilievo del materiale disponibile.

GLI AUTORI. Uno dei tre autori dell’opera, Elvio Rotondo, analista del think tank di geopolitica trentino “Il Nodo di Gordio”, ha evidenziato che nelle ricerche delle fonti: «non sono stati utilizzati solo gli apporti della storiografia russa dell’epoca, spesso conditi da vera propaganda post-rivoluzione, ma sono state impiegate anche le ricerche effettuate da nuove generazioni di storici russi che hanno garantito l’utilizzo di ulteriori e importanti materiali, tanto documentari quanto di natura memorialistica, dando il via all’esplorazione di un filone in precedenza poco approfondito. Quindi sono state in qualche modo rimesse in discussione molte vicende legate alla figura del Generale Brusilov, deviando, senza dubbio, dalla storiografia viziata da forti condizionamenti ideologici e politici dell’Unione Sovietica».

Un altro coautore del volume, Paolo Pozzato, docente di storia e filosofia, nonché membro della Società italiana di storia militare, osserva che: «ci sono due ragioni principali per occuparsi dell’offensiva russa che prende il nome dal generale Brusilov e per dedicarle un saggio per i lettori italiani. La prima è senz’altro che essa rappresentò una svolta nell’intero corso della prima guerra mondiale. Gli austro-ungarici subirono infatti una rotta di dimensioni maggiori anche di Caporetto e dovettero quindi accettare da quel momento la sudditanza strategica all’alleato tedesco. La seconda è che essa dimostra come a livello operativo non esista alcuna “regola” che non possa essere violata con risultati addirittura maggiori di quelli ci si riprometteva dall’applicazione dei principi tradizionali».

Il terzo coautore, il Generale ispettore capo dell’Aeronautica militare Basilio Di Martino, evidenzia che «la cosiddetta offensiva Brusilov presenta caratteri di modernità che smentiscono molti degli stereotipi relativi all’esercito zarista e propone soluzioni originali al problema della rottura dei fronti trincerati. Uno degli aspetti di maggiore interesse è l’impiego che fu fatto dell’aviazione. La Russia non disponeva di un’industria aeronautica adeguata alle sue ambizioni, nonostante la disponibilità si alcuni progettisti di grande valore e fu sempre dipendente dalle forniture degli alleati e dalle produzioni su licenza. Brusilov riuscì però a sfruttare al meglio quanto aveva a disposizione, facendo della ricognizione aerea uno dei fattori che gli assicurarono il successo, almeno finché fu in grado di contare sulla superiorità aerea locale».

Perché il Tatarstan è la spina nel fianco di Putin. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 12 maggio 2021. Giovani, ricolmi di odio nei confronti della società, disincantati verso la politica, immuni alla nazionalizzazione, guidati da una visione anarco-nichilista della vita e cresciuti con il mito del massacro della Columbine High School; quello che a prima vista può sembrare l’identikit unico ed esclusivo dello strategista medio americano, in realtà, combacia perfettamente con il profilo dell’attentatore di Kazan e dei suoi precedessori.

La strage di Kazan. Kazan, ore 9,20 dell’11 maggio 2021. Un lucido folle entra nella scuola 175 della capitale del Tatarstan con l’intenzione di commettere una mattanza, armato di un esplosivo artigianale e di una mitragliatrice regolarmente acquistata e detenuta. L’attentatore ha successo, complici l’assenza di controlli e vigilanza, come dimostrano i numeri della strage: 9 morti e 23 feriti, sia tra gli alunni sia tra il corpo docente, secondo l’ultimo aggiornamento disponibile (ore 11 del giorno successivo). Un uomo armato che irrompe in una scuola e compie un massacro, agendo in una regione a maggioranza musulmana, non estranea alle tensioni etno-religiose, che sin dagli anni Novanta fornisce manovalanza alle organizzazioni dell’internazionale jihadista operanti tra Russia, Asia centrale e Medio Oriente. Il collegamento con Beslan 2004 è subitaneo, come immediati sono i sospetti su Hizb-ut Tahrir (HT) – la principale organizzazione terroristica del Tatarstan –, ma l’arresto dello stragista svela un’altra realtà. L’attentatore, rispondente al nome di Ilnaz Galyaviev, nato l’11 settembre 2001, non ha agito né per fede né per politica. Su Telegram vengono recuperate prove utili a ricostruire quadro e cornice del massacro: mosso dall’odio nei confronti della “spazzatura biologica” (биомусор) – un linguaggio che ricorda i teorici del gioco omicida della Blue Whale –, Galyaviev recentemente aveva comunicato ai propri lettori di essere “un dio” e di avere in mente l’attuazione di una strage. Galyaviev come i terroristi ceceni? No, Galyaviev come Vladislav Roslyakov (autore del massacro scolastico di Kerch del 2018: 21 morti e 70 feriti) o come Sergey Gordeev (firma di una tentata strage in una scuola moscovita nel 2014: 2 morti e un ferito): adolescenti, russi etnici il più delle volte, autoradicalizzati, ricolmi di odio nei confronti della società, disincantati verso la politica, immuni alla nazionalizzazione, guidati da una visione anarco-nichilista della vita e cresciuti con il mito del massacro della Columbine High School. Seguire le mosse degli aspiranti stragisti alla Columbine non è semplice, perché estranei alle realtà organizzate e non sempre propensi a manifestare il proprio disagio nella realtà virtuale, ma la consapevolezza della loro esistenza ha condotto le autorità ad estendere i controlli preventivi in rete, con il risultato che fra il 2017 ed il 2018 è quintuplicato il numero di gruppi e blog chiusi per incitamento allo stragismo.

Le bombe Tatarstan e generazione Columbine. La Russia non è alle prese con un’emergenza all’americana, perché i massacri compiuti dai giovani votati alla misantropia omicida sono relativamente pochi, ma Kazan è la prova che un problema emergente esiste e, come tale, non può essere trascurato – pena un letale aggravamento. Il Cremlino, all’indomani del massacro nella capitale del Tatarstan, ha annunciato l’introduzione di nuove misure in materia di circolazione delle armi e rilascio delle licenze, nonché un ulteriore aumento della sorveglianza digitale. Lo spettro di massacri in stile Columbine in salsa russa, però, è soltanto l’ultimo dei problemi del Cremlino. Terrorismo islamista e secessionismo continuano ad essere le minacce principali alla sicurezza nazionale, con il primo che incombe sulle metropoli della Russia europea ed il secondo che aleggia sulle realtà remote del Volga, della Siberia e dell’Estremo Oriente. Nel solo 2019, a titolo esemplificativo, le autorità russe hanno arrestato quasi 900 persone e smantellato 78 cellule terroristiche. E il Tatarstan, storico bacino di reclutamento delle principali organizzazioni islamiste e jihadiste operanti dentro e fuori la Russia – almeno tremila gli islamisti censiti ufficialmente –, è vulnerabile sia all’effetto Columbine sia alle annose questioni del secessionismo e della radicalizzazione religiosa. Tale è il livello delle preoccupazioni in seno al Cremlino in merito al fascicolo Tatarstan, della cui autonomia ha tratto vantaggio Recep Tayyip Erdogan per promuovere sentimenti panturchisti e panislamisti tra i giovani, che l’anno scorso ha avuto luogo un eloquente tentativo di fermare il 468esimo anniversario della presa di Kazan (Xäter Köne), nella cognizione che sia oramai divenuto un evento intriso di risentimento russofobico, fonte di tensioni interetniche e oligopolizzato dagli islamisti di HT e dagli aspiranti separatisti del Centro Pubblico Tataro (ATPC) e dell’Associazione della Gioventù Tatara Azatlyk. Un problema, quello del Tatarstan, che avevamo ampiamente analizzato nel passato recente, lo scorso ottobre, descrivendo ideologia, attività ed influenza di ATPC e Azatlyk, “due delle forze sociali e culturali più rilevanti e influenti che stanno guidando il risveglio identitario nel Tatarstan […] e contribuendo a politicizzare la gioventù tatara e ad ampliare il divario con Mosca e con gli stessi russi che vivono nella repubblica autonoma”. L’ATPC è, indubbiamente, il più periglioso tra i due movimenti, perché, come scrivevamo, “è in prima fila in ogni iniziativa di stampo antirusso: dalla ritualizzazione dell’anniversario della caduta di Kazan alle proteste contro l’estensione dell’utilizzo della lingua russa nella sfera pubblica e nell’istruzione, dalla somministrazione di corsi gratuiti di tataro, rigorosamente scritto in alfabeto latino, alle pressioni sui governi che si succedono regolarmente affinché rivedano gli accordi sulla natura della repubblica all’interno della Federazione russa”. Non deve sorprendere, dunque, che a inizio 2021 sia cominciata la procedura per il suo inserimento nell’albo delle organizzazioni estremistiche. Il Tatarstan non è una polveriera pronta ad esplodere, ma il risveglio identitario trainato dal protagonismo della Turchia – il cui raggio d’azione è esteso dal Caucaso settentrionale all’Estremo Oriente, ovvero ovunque risiedano popoli turchici – e l’esposizione della gioventù a fascinazioni perigliose, quali la misantropia omicida e l’islam radicale, la rendono sicuramente una delle realtà più sensibili all’interno del panorama federale.

Alle origini dell’intesa tra Russia e Cina.  Emanuel Pietrobon, Federico Giuliani su Inside Over il 12 maggio 2021. Il sistema internazionale sta venendo interessato da dei processi di deformazione tettonica di natura epocale. Perché la guerra fredda 2.0, e in esteso la competizione tra grandi potenze, condurranno inevitabilmente ad un profondo rimescolamento della divisione del potere nelle terre emerse, simile, per dimensioni e portata, a quello avvenuto all’indomani della fine della seconda guerra mondiale (crollo definitivo dell’eurocentrismo nelle relazioni internazionali) o della guerra fredda (estinzione del bipolarismo e avvio del momento unipolare). In palio, rispetto agli episodi storici menzionati di cui sopra, non v’è l’egemonia globale: né gli Stati Uniti né la Cina, e meno che mai la Russia, invero, sono o sarebbero in grado di sostenere i gravi oneri derivanti dal mantenimento di un impero terracqueo. Il mondo è troppo caotico perché su di esso troneggi un solo re: la Casa Bianca ha appreso questa dura ed inalterabile verità nel corso del breve paragrafo unipolare post-guerra fredda, che, cominciato all’insegna delle crisi in Iraq e Iugoslavia e proseguito con Afghanistan, Guerra al Terrore (War on Terror) e inattesi ritorni di fiamma in una varietà di teatri, si trova, oggi, sul viale del tramonto a causa della resurrezione della Russia, dell’ascesa della Cina e, a latere, di una competizione tra grandi potenze che, divise dalla (geo)politica, sono accomunate dall’anelito di accelerare la transizione multipolare. Fondamentale è il ruolo che sta venendo giocato da Russia e Cina all’interno di questo contesto altamente conflittuale e dalle implicazioni potenzialmente epocali. Le due potenze egemoni dell’Eurasia, approfittando del fatto che gli Stati Uniti abbiano avuto gli occhi puntati sulla Guerra al Terrore per un’intera decade, hanno lentamente guadagnato terreno nel continente (e oltre) e istituzionalizzato la loro visione di lungo termine per tramite di un partenariato strategico che con lo scorrere del tempo ha dato vita ad un asse adamantino. Ed è così che, nel periodo compreso tra Euromaidan e l’inizio dell’era Trump, l’Orso e il Dragone hanno messo da parte le ultime diffidenze e rivalità, tenendo a mente la lezione del tranello Kissinger, inaugurando ufficialmente l’avvio della nuova guerra fredda tra Occidente e Oriente.

Le ragioni del Cremlino. Euromaidan è stato per gli anni 2010 quello che gli attentati dell’11 settembre sono stati per i primi anni 2000: uno spartiacque. Perché la riapertura ufficiale del confronto egemonico tra Russia e Occidente si deve precisamente alla rivoluzione colorata più celebre del nuovo secolo, che ha comportato la transizione subitanea e traumatica dell’Ucraina dalla sfera d’influenza russa a quella occidentale – traslando in realtà i sogni di Zbigniew Brzezinski – e che è stata seguita dall’invasione-per-annessione della Crimea da parte del Cremlino e dall’introduzione di un regime sanzionatorio antirusso da parte del blocco euroamericano. Ed è a quel punto, in occasione dell’annuncio di un regime sanzionatorio avente come obiettivo il tracollo economico della Russia, che Vladimir Putin opta l’incamminamento in una strada battuta in passato e terminata rovinosamente: l’asse antiegemonico con il Celeste impero. L’amalgamazione è tanto rapida quanto estesa: non v’è settore che le due potenze escludano dalla cooperazione avanzata, dai più intuibili (come lo scambio di beni energetici e il turismo) ai più imprevedibili (come Artico, telecomunicazioni e difesa). A questo punto sorge un “però”. La fusione tra le due potenze è avvenuta troppo rapidamente perché possa essere giustificata da una delle tante rivoluzioni colorate, e da una delle molteplici e periodiche crisi tra Russia e Occidente. È vero: la differenza tra Euromaidan e la rivoluzione delle rose in Georgia è immane, ma perché rivolgersi proprio alla Cina? La verità è che le due potenze, legate da un trattato di amicizia e buon vicinato siglato nel 2001, stavano ponderando la costruzione di un asse antiegemonico da molto tempo. Entrambe erano state toccate direttamente dal dramma delle guerre iugoslave – con Mosca testimone inerme della disgregazione di Belgrado e con Pechino spettatrice del bombardamento della propria ambasciata, ufficialmente avvenuto per errore ma ufficiosamente condotto per punire gli scambi di intelligence con i serbi – ed entrambe avevano appoggiato con riluttanza i cambi di regime nell’Iraq di Saddam Hussein e nella Libia di Muammar Gheddafi, sullo sfondo di rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico e di un crescente protagonismo militare occidentale nell’Indo-Pacifico. Euromaidan, in sintesi, ha svolto la funzione della classica goccia che fa traboccare il viso: vaso che, lungi dall’essere stato riempito nel corso del 2014, era stato saturato da oltre un decennio di operazioni di polizia globale da parte della Casa Bianca. Non a caso, dapprima che la Cina intervenisse in soccorso della Russia nel dopo-regime sanzionatorio, le due nazioni avevano dato prova di una volontà collaborativa in Siria e in Venezuela.

Le ragioni di Pechino. Quella tra Russia e Cina è la più classica delle alleanze strategiche possibili e immaginabili. Per capirlo, e senza scendere troppo nel dettaglio, basta focalizzare l’attenzione sui principali punti di forza dei due attori in campo: Mosca ha da sempre prediletto l’apparato militare, puntando sullo sviluppo di armi e strumenti sempre più potenti e, al tempo stesso, relegando l’economia in secondo piano. Ancora oggi, infatti, il governo russo continua a dipendere eccessivamente dall’esportazione di gas e risorse naturali, risultando troppo sensibile a fattori esterni avversi (e non parliamo soltanto delle sanzioni economiche). Pechino ha puntato tutto sulle riforme economiche. Dal 1979, in maniera “graduale e progressiva”, come amano ripetere i funzionari cinesi, la Cina si è aperta al mondo esterno mettendo a disposizione degli altri prima la sua immensa forza lavoro, poi il suo enorme mercato interno. È così che il Dragone ha frantumato ogni record, arrivando oggi a insidiare gli Stati Uniti per ciò che riguarda gli indicatori economici più rilevanti. Per quanto riguarda l’esercito, Xi ha modernizzato le forze armate imitando, non a caso, la Russia. L’Esercito Popolare di Liberazione cinese (EPL), ovvero il braccio armato del Partito Comunista cinese, è stato ridimensionato tanto dal punto di vista numerico che nell’intera struttura di comando. Marina e Aeronautica hanno eroso spazi di importanza alle forze di terra, ora ridimensionate e ridotte. L’Epl ha, di fatto, assorbito la dottrina militare di Mosca, sia per ristrutturare l’esercito che per modernizzare l’equipaggiamento. Xi Jinping ha poi “imitato” Putin, usando le suddette riforme militari per stabilire un fermo controllo sull’esercito. Non solo: strateghi e ufficiali cinesi continuano a essere istruiti nel pensiero russo della cosiddetta New Generation Warfare, ovvero nella guerra di nuova generazione. Questo punto di contatto ha cementato un patto d’acciaio tra russi e cinesi sfociato in esercitazioni terrestri, marittime e aree. Tutte esercitazioni congiunte, affiancate ad altre operazioni in aree altamente sensibili come l’informazione e la tecnologia antimissile. Possiamo dunque dire che la Russia ha messo sul tavolo le proprie conoscenze militari, mentre la Cina ha risposto con una notevole spinta economica. Considerando che i progetti inerenti alla Belt and Road Initiative hanno un valore totale di 575 miliardi di dollari, e che l’investimento in campo energetico vale, da solo, il 45% del pacchetto, la Russia è ben felice di prestarsi a una sorta di relazione win-win. Non solo: stando alle ultime statistiche, al termine del primo trimestre del 2020, Mosca ricopre il ruolo di maggior beneficiario della BRI, con 126 progetti all’attivo e un valore di 296 miliardi di dollari. Facile, dunque, intuire già così le ragioni dell’alleanza russo-cinese. Siamo di fronte a un rapporto complementare, un asse calibrato al dettaglio per garantire un mondo multipolare e opporsi, in più ambiti, all’egemonia incarnata dagli Stati Uniti. Appurate le ragioni della partnership russo-cinese, è interessante dare un’occhiata alle origini di questa vicinanza. Iniziamo subito col dire che le relazioni tra Mosca e Pechino sono migliorate dal 1991 in poi, ossia dopo il crollo dell’Unione Sovietica. In seguito alla caduta dell’Urss, infatti, la Cina iniziò a specchiarsi nella Federazione Russa, lasciando in secondo piano la sponda americana. Ricordiamo che quelli erano gli anni in cui l’opinione pubblica statunitense riteneva plausibile trascinare il Dragone nell’alveo delle democrazie occidentali soltanto appoggiando le sue riforme economiche e coinvolgendolo nelle organizzazioni internazionali, tra cui l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Nel 1992 Russia e Cina affermarono di star perseguendo una partnership costruttiva, mentre nel 1996 si parlò di partnership strategica. Nel 2001, invece, le due potenze firmarono un trattato di amicizia e cooperazione.

La SCO, un esempio di successo. La punta dell’iceberg della partnership russo-cinese può essere rappresentata dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO). Siamo di fronte al segno più evidente di una svolta eurasiatica nelle alleanze globali, realizzabile in molteplici campi d’azione: dalla cooperazione economica e militare alla lotta al terrorismo, dalle esercitazioni congiunte a una spiccata convergenza negli atteggiamenti politici e dei valori perseguibili. Alcuni analisti hanno definito la SCO una sorta di Nato asiatica, visto e considerando che questo organismo intergovernativo è stato fondato nel giugno 2001 da sei capi di Stato – Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan – sulle ceneri del precedente Gruppo di Shanghai. Oggi si sono aggiunti altri Paesi, Pakistan e India, oltre che Afghanistan, Bielorussia, Iran e Mongolia nei panni di osservatori e Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Turchia, Sri Lanka ed Armenia nelle vesti di partner di dialogo. La SCO, utile sia alla Cina che alla Russia, è operativa per quanto concerne la cooperazione in sicurezza, economia e cultura. La sua efficacia potrebbe tuttavia essere indebolita dall’asimmetria insita nella relazione sino-russa, ben visibile in ambito economico. Il Pil della Russia non raggiunge neppure quello della provincia cinese del Guandong, mentre la sua spesa per la difesa, come ha sottolineato ISPI, è appena un terzo rispetto a quella cinese.

David Sassoli, "divieto di entrare in Russia". Vladimir Putin, una mossa diplomatica pesantissima: guerra tra Mosca e l'Unione europea. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Il presidente dell'Europarlamento David Sassoli "nemico pubblico" del Cremlino e di Vladimir Putin. "In risposta alle misure limitative introdotte il 2 e il 22 marzo nei confronti di sei cittadini russi", annuncia una nota di Mosca, a Sassoli e ad altri 7 responsabili europei "sarà vietato l'ingresso in Russia". Lo ha reso noto il ministero degli Esteri russo, citato dall'agenzia Ria Novosti. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha subito espresso "piena solidarietà" a Sassoli. La Russia ha vietato l'ingresso anche a Vera Jourova, vicepresidente della Commissione europea responsabile per le politiche su valori e trasparenza, e a Jorg Raupach, capo dell'ufficio del procuratore generale di Berlino. Colpiti dalle sanzioni russe anche Ivars Abolins, presidente del Consiglio nazionale dei mass media elettronici della Lettonia, Maris Baltins, direttore del Centro linguistico statale della Lettonia, Jacques Maire, membro della delegazione francese all'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, Ana Scott, capo del laboratorio di sicurezza chimica e nucleare dell'Istituto svedese di ricerca sulla difesa, e Ilmar Tomusk, capo del dipartimento linguistico dell'Estonia. Lo scorso marzo l'Unione europea aveva sanzionato la Russia colpendo enti e singole persone per "le torture e la repressione a danno delle persone LGBTI e degli oppositori politici in Cecenia". Per tutti i colpiti congelamento dei beni in Europa, divieto per persone ed entità dell'Ue di sostenere economicamente i sanzionati e divieto per questi ultimi di viaggiare nei Paesi dell'Unione. Quindi il duro aut aut per il caso dell'oppositore di Putin Navalny, imprigionato e in precarie condizioni psicofisiche. La decisione odierna di Mosca rappresenta l'ultima tappa di una escalation di tensione nei rapporti tra Russia e Bruxelles che dura da anni e che vede proprio le aziende italiane, molto forte nell'ex impero sovietico, tra le maggiormente danneggiate dalle sanzioni economiche imposte contro il Cremlino.

Dalla paura rossa alla paura russa, in Europa è gelo con il Cremlino. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 30 aprile 2021. La Russia è quella potenza con cui il sistema Europa è in bellum perpetuum da tempo immemorabile. Storicamente ritenuta più asiatica che europea (“gratta un russo e troverai un tataro”, diceva Joseph de Maistre già a fine Settecento), indi trattata alla stregua di un intruso ritrovatosi per errore alle porte del Vecchio Continente, né più né meno periglioso della Sublime Porta, la Russia ha uno storico di relazioni lunatiche e conflittuali con le potenze europee lungo almeno tre secoli. Se è vero che historia magistra vitae, cioè che la storia è maestra di vita, gli eventi che hanno avuto luogo tra il blocco-civiltà Occidente e il mondo russo dagli albori dell’Ottocento ad oggi sembrano corroborare l’esistenza di una maledizione della geografia per la quale non vi sono né panacee alchemiche né re taumaturghi: è la maledizione del contenimento infinito. In principio fu Michał Sokolnicki in combutta con Napoleone nella diffusione de “La volontà di Pietro il grande” (Aperçu sur la Russie), falso storico utile a legittimare la campagna di Russia agli occhi dei popoli europei, poi seguirono la caccia alle streghe durante le presidenziali americane del 1828, la guerra di Crimea – un contenimento ante litteram –, il Grande Gioco per l’Asia centrale, il Lungo Telegramma di George Kennan – spaventevolmente rimembrante dell’hoax napoleonico – e un quarantennio di guerra fredda. La quiete tra i due universi civilizzazionali è durata relativamente poco, perché nel 2014, causa Euromaidan, è riesplosa ufficialmente quella che giornalisti e politologi hanno ribattezzato la “nuova Guerra Fredda”. In realtà, come abbiamo spiegato a più riprese sulle nostre colonne, la Guerra Fredda non è mai terminata: era entrata in uno stadio di dormiveglia, proseguendo in maniera morbida (soft) e sotto mentite spoglie, come dimostrano l’allargamento di Unione europea e Alleanza atlantica tra ex patto di Varsavia e Balcani, la sequela di rivoluzioni colorate nello spazio postsovietico e l’appoggio dell’amministrazione Biden alla “rivoluzione della neve” tentata dall’allora semi-sconosciuto Aleksei Navalny nel 2011. Oggi, rispetto alla seconda parte del Novecento, è mutata la forma, perché la paura rossa è stata sostituita dalla paura russa, ma la sostanza rimane identica ed inalterata: il contenimento infinito. E dopo il parziale rilassamento dell’era Trump – una pace di piombo costellata di periodiche escalation –, la tensione tra i blocchi è tornata ai livelli dell’immediato post-Euromaidan a partire dal 20 gennaio, ovvero da quando alla Casa Bianca si è insediata ufficialmente l’amministrazione Biden. Captata e recepita la chiamata alle armi lanciata dal nuovo inquilino della Casa Bianca nella giornata del 17 marzo, tra gli stati membri dell’Ue ha avuto inizio una corsa frenetica per fornire prove di lealtà alla nuova amministrazione, principalmente consistenti nell’altolà allo Sputnik V, in guerre di spie e in rappresaglie diplomatiche, e geograficamente localizzate tra Baltici, area Visegrad e Balcani – con la curiosa, ma non sorprendente, partecipazione dell’Italia.

L’Est Europa, cuore della guerra fredda 2.0. È in quella parte di continente europeo estesa geometricamente dal mar Baltico al mar Nero, ribattezzata Intermarium da Józef Piłsudski e Nuova Europa da Donald Rumsfeld, che sta venendo scaricata gran parte della tensione accumulata durante la pace di piombo dell’era Trump. Qui, dove la (geo)politica è riuscita nell’obiettivo di dividere ciò che la cultura dovrebbe unire, le principali realtà statuali postsovietiche e postcomuniste stanno cavalcando con maestria il clima di rinnovato e aperto antagonismo tra Washington e Mosca, riaprendo dossier insoluti di sette anni or sono – come il caso Vrbetice –, guerreggiando diplomaticamente e snidando presunte reti spionistiche rispondenti al Cremlino. L’obiettivo delle dirigenze di Baltici, V4 (Ungheria esclusa) e Balcani orientali è duplice: accreditarsi agli occhi degli Stati Uniti e mobilitare le proprie opinioni pubbliche, anche per ragioni di consenso e calcolo elettorale, facendo leva sul sempreverde spauracchio del pericolo proveniente dai figli di Rurik e san Vladimir. I rischi di questa caccia alla streghe, localizzata nell’Europa orientale e bene accolta dalla Casa Bianca, sono tutt’altro che bassi: la recente entrata in scena della Romania mostra e dimostra come l’alea di un esiziale effetto domino nel resto del continente sia lungi dall’essere irrealistica. Il governo Cîțu, invero, il 26 aprile ha etichettato come persona non grata un diplomatico russo di stanza a Bucarest, Alexei Grichayev, adducendo come motivi la volontà di esprimere solidarietà alla Repubblica Ceca e delle presunte violazioni della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Il vero epicentro di questa crisi diplomatica estesa da Tallinn a Sofia, e che sta attraversando Bucarest, Varsavia, Kiev e Bratislava, si trova a Praga, dove sta avendo luogo una piccola primavera tinta di atlantismo e basata su espulsioni di diplomatici russi, esclusioni di firme russe da appalti miliardari, operazioni di polizia a detrimento di presunti circoli spionistici e riapertura di vecchi cold case. I numeri possono illustrare ed esplicare con efficacia ciò che alle parole riesce soltanto a metà: la guerra dei diplomatici tra il blocco euroamericano e la Russia ha condotto a 152 espulsioni nel periodo 15-30 aprile, ovvero una media di 10 espulsioni al giorno. La classifica è saldamente guidata dalla Repubblica Ceca, la quale troneggia senza rivali, forte dell’allontanamento coatto di 81 diplomatici russi, e seguono la Russia (47 espulsi da dieci ambasciate), gli Stati Uniti (10), Polonia e Slovacchia (3 a testa), Lituania e Ucraina (2 per ognuna), Bulgaria, Romania, Lettonia ed Estonia (una per ciascuna).

I cechi contro Zeman. A Praga, nel pomeriggio del 29 aprile, dalle 10mila alle 20mila persone si sono date appuntamento in Piazza Venceslao, teatro dello storico suicidio di Jan Palach, per dare vita ad una protesta tanto sui generis quanto indicativa del clima nevrastenico che aleggia in questa parte d’Europa. Il raduno, caratterizzato dall’elevata presenza di bandiere europee, è stato allestito allo scopo di ottenere le dimissioni dell’attuale presidente, Milos Zemon, che i dimostranti accusano di eccessiva russofilia. Zeman, che non è nuovo a certe accuse – nonostante la Repubblica Ceca aderisca al regime sanzionatorio e non abbia mai tentato di boicottarlo –, è finito originariamente nell’occhio del ciclone a metà febbraio, perché interessato ad aprire un tavolo negoziale con il Fondo russo per gli investimenti diretti in relazione all’acquisto dello Sputnik V, ma la goccia che ha fatto traboccare il viso, inondando d’acqua le strade di Praga, è stata la posizione assunta nel merito del caso Vrbetice. Il presidente ceco, oltre ad aver espresso dubbi circa la matrice russa delle due esplosioni, ha criticato apertamente la decisione dell’esecutivo di dare il via ad una battaglia diplomatica con il Cremlino, che in pochi giorni ha comportato il quasi azzeramento delle attività presso l’ambasciata russa a Praga, e invitato la popolazione a non cadere preda dell’isteria. Vani gli appelli alla calma e controproducenti le elucubrazioni, perché il malcontento serpeggiante tra opposizione e popolazione ha assunto la forma di un’avversione insopprimibile, che il 29 aprile ha incoraggiato migliaia di cechi a prendere il controllo di quella piazza da cui, suggestivamente, nel 1968 prese piede la primavera di Praga.

Il silenzio franco-tedesco. Gli Stati-guida dell’Ue stanno assistendo con fare circospetto all’evolvere della crisi diplomatica tra l’Est e Mosca. Il disinteresse ai limiti dell’apatia dell’asse franco-tedesco si spiega in termini di prudenza machiavellica: Berlino non può sposare la nuova primavera di Praga per via del Nord Stream 2, nonché per lo Sputnik V, mentre Parigi ha l’obbligo di mantenere una posizione defilata perché intromettersi nella guerra delle spie e dei diplomatici equivarrebbe ad autosabotare il concretamento dell’anelito macroniano di trasformare l’Eliseo nel ponte tra Casa Bianca e Cremlino. Non sono da escludere a priori, comunque, delle manifestazioni di lealtà, ricalcanti il modello Biot, più dirette a rabbonire Washington che a solidarizzare con Praga. Le diplomazie francese e tedesca vorrebbero intervenire per stemperare la tensione, anche perché effettivamente in grado di esercitare del potere persuasivo sulla “Nuova Europa”, ma tale interferenza non è, al momento, né possibile né auspicabile. Perché questo ambiente, che il presidente ceco ha bollato come isterico – e le proteste di piazza Venceslao ne sono la prova corroborante –, non è nato per caso e non si fonda sull’aria: è funzionale, utile e necessario alla preparazione della bilaterale tra Vladimir Putin e Joe Biden, allo stesso modo della crisi nel Donbass e del nuovo ciclo di sanzioni da parte statunitense. In estrema sintesi, crisi controllate, ritorsioni diplomatiche e punizioni economiche convergono verso uno scopo comune, ossia la creazione di potere negoziale, ed una meta condivisa, cioè la fine di questa fase transitoria della nuova guerra fredda. Fase che, come avevamo preludiato sulle nostre colonne, sarebbe stata connotata da “periodiche escalazioni calcolate e prove di fedeltà all’ideale atlantista da parte degli alleati europei”. 

Angelo Allegri per "il Giornale" il 20 aprile 2021. Mosca, fine 1999: Vladimir Putin, da qualche mese premier, è ospite di un ricevimento alla Lubyanka, storica sede dei servizi segreti russi. Si festeggia la fondazione della Cheka, la polizia bolscevica. L' uomo destinato di lì a pochi giorni a sostituire Eltsin alla presidenza e a rimanere per decenni alla guida del Cremlino, è perfettamente a suo agio tra gli ex colleghi e prende la parola per il brindisi ufficiale: «Cari compagni, voglio subito riferirvi che il gruppo di agenti infiltrati nel governo ha svolto con successo la prima parte della sua missione». Una risata generale accoglie la boutade. È uno scherzo, ma non troppo, dice Mark Galeotti, professore e ricercatore britannico, massimo esperto di servizi di sicurezza russi. Al di là (...) (...) del suo passato di agente (e «non esistono ex agenti» è una frase che gli viene, forse a torto, attribuita) Putin ha fatto dei servizi uno dei pilastri del suo potere. Calibrando poteri e rivalità, competenze e attribuzioni, ha dato loro perfino più potere che in epoca sovietica.

PCUS ADDIO In quel periodo a tenere sotto controllo i servizi erano le varie articolazioni del partito comunista e ogni reparto aveva il suo commissario politico, la cui rete disegnava una linea di comando alternativa. Oggi il comando è uno solo e fa capo direttamente al Cremlino, a Putin e al potente Nikolai Patrushev, pietroburghese, ex numero uno del Fsb (ex Kgb) e dal 2008 segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione. Del potere e del ruolo degli uomini della sicurezza Patrushev è il teorizzatore. In un discorso di qualche anno fa diventato poi famoso descrisse gli agenti come la «nuova nobiltà» destinata a guidare la Russia (l' espressione è poi diventata anche il titolo di un libro di Andrei Soldatov, uno dei maggiori esperti del tema). Sotto la sua guida il mondo dei «siloviki» (letteralmente: uomini della forza) ha assunto la struttura attuale: cinque apparati principali, per un totale di almeno un milione di uomini. Tra queste strutture l' ultima nata è stata di recente anche tra le più impegnate: è la Guardia nazionale, conosciuta come Rosgvardia. Putin l' ha creata e disegnata di suo pugno nel 2016, riunendo in una sola istituzione le truppe del ministero dell' Interno nonché reparti speciali e anti-sommossa come Omon e Sobr: poco meno di 400mila uomini (quattro volte gli effettivi dei Carabinieri italiani) che hanno guidato la repressione delle recenti proteste legate al ritorno in patria di Alexei Navalny. Ma l' attività di questo servizio di sicurezza è più ampia: al corpo appartengono anche un' unità per le attività cibernetiche e reparti, come la Divisione Dzerzinskij, che schierano in campo perfino cannoni e carri armati. Rosgvardia è considerata la vera e propria guardia pretoriana di Putin, che a comandarla ha voluto un «duro» che è anche un fedelissimo, Viktor Zolotov, sua guardia del corpo personale sin dai tempi in cui era vice sindaco di San Pietroburgo. Zolotov, che evidentemente ama i simboli, ha acquisito dallo Stato scegliendola come residenza di famiglia, la grandiosa dacia-palazzo nei dintorni di Mosca in cui hanno vissuto Felix Dzerzinskij, il già citato fondatore della Cheka, e Anastas Mikoyan, politico tra i protagonisti dell' era staliniana. L' altra agenzia di sicurezza poco conosciuta in Occidente è il cosiddetto Fso, Servizio di protezione federale: gestisce, come il nono direttorato del Kgb ai tempi dell' Unione Sovietica, comunicazioni e sicurezza delle residenze ufficiali e degli uomini dell' élite di potere. Proprio questa caratteristica ne fa un formidabile centro di informazioni e pettegolezzi su abitudini e vizi dell' establishment. Non è un caso che Putin inizi la sua giornata lavorativa leggendo il rapporto quotidiano scritto dal Fso (è contenuto in una valigetta di cuoio insieme a quelli di Fsb e Gru). Secondo alcune indiscrezioni, l' inquilino del Cremlino, sempre attento a utilizzare le ambizioni dei diversi apparati della sicurezza come uno strumento di controllo incrociato, ha di recente ampliato i suoi compiti nel campo dell' intelligence, che si aggiungono a un altro incarico delicato da sempre affidato al Fso, la custodia della valigetta con i codici nucleari.

TUTTI FANNO TUTTO Le altre tre agenzie di sicurezza sono più note: Svr, Fsb e Gru. L' Svr (Sluzba vnesnej razvedki, «Servizio di intelligence internazionale») è il classico servizio di spionaggio estero simile alla Cia o al MI6 britannico. Qualche anno fa fece rumore la scoperta da parte degli americani di una rete di spie inserite dallo Svr ad alto livello nell' establishment Usa. La più nota tra loro, Anna Chapman, venne scambiata con Serghey Skripal, doppio agente al servizio dell' Occidente, scoperto e condannato in Russia e poi oggetto di un tentativo di avvelenamento al novichok quando era esule in Inghilterra. Con un esempio di quelle duplicazioni su cui si regge il sistema russo, i compiti dell' Svr si sovrappongono almeno in parte con quelli del Gru (servizi di sicurezza delle Forze armate): l' Svr si occupa per esempio anche di spionaggio scientifico, tecnologico e industriale, materia contigua a quella coperta dallo spionaggio militare. Del Svr fa parte anche una delle unità più segrete, la cosiddetta Zaslon, la cui esistenza è stata più volte smentita (salvo poi essere incongruamente confermata in altre occasioni). Si tratta di un reparto speciale di 300/400 uomini super addestrati e super armati: come i loro colleghi delle più famose unità Alpha e Vympel, gestite dal Fsb, sono in grado di affrontare le missioni più pericolose e delicate. Secondo una serie di indiscrezioni convergenti agli uomini della Zaslon è stata affidata la sicurezza della famiglia Assad nei giorni in cui la continuità del loro dominio autocratico sulla Siria sembrava messa in discussione.

«HACKERARE» È IL MIO MESTIERE Il cuore del potere repressivo del Cremlino resta però come ovvio l' Fsb, erede, sia come dimensioni (circa 400mila effettivi) sia come ampiezza di compiti, del vecchio Kgb. Spazia dalla repressione interna (sono suoi uomini quelli che hanno tentato di avvelenare l' oppositore Alexei Navalny), all' intervento sul campo nella guerra in Ucraina, fino alla disinformazione e ai tentativi di hackeraggio di governi e istituzioni internazionali. Se si eccettua la repressione dell' opposizione interna molte di queste cose le fa anche il Gru (Glavnoe razvedyvatel' noe upravlenie, direttorato principale per l' informazione), che ufficialmente dipende dallo Stato Maggiore delle Forze armate, ma che poi, per le operazioni più a rischio prende direttamente ordini dal Cremlino. Erano ufficiali del Gru gli uomini che hanno assoldato l' ufficiale della Marina arrestato poche settimane fa a Roma. Network ancora più estesi gestiti sempre dal Gru sono stati scoperti di recente in Repubblica Ceca e Bulgaria. Condotto (in maniera più che malaccorta) da ufficiali del Gru è stato il già citato avvelenamento dell' ex agente del servizio Serghey Skripal. Le glorie più recenti per gli agenti segreti che fanno capo alle Forze armate vengono però dalla tecnologia. Da anni gli uomini del Gru e i confratelli del Fsb si sono lanciati nel campo della guerra cibernetica, stringendo accordi con le migliori università e i migliori licei del Paese specializzati in campo matematico e informatico. Nel 2017 il ministro della Difesa Serghey Shoigu si vantava di fronte alla Duma di poter schierare «truppe informative molto più efficaci e potenti di quelle della vecchia contro-propaganda». Gli attacchi cyber di gruppi come Apt28 Fancy Bear e Apt28 Cozy Bear (il primo fa capo al Gru, il secondo al Fsb) hanno seminato il panico in mezzo mondo. Poi, certo, a volte anche nelle unità più sofisticate si respira un' aria di trascuratezza da vecchia Unione Sovietica. Dopo l' avvelenamento del «traditore» Skripal i giornalisti internazionali che indagavano sulla vicenda furono aiutati da una scoperta imprevista: ben 305 ufficiali del Gru sospettati di attività illegali all' estero utilizzavano altrettante vetture registrate a un unico indirizzo: la sede dell' unità per la guerra cibernetica del servizio segreto. Un' ingenuità quasi da dilettanti.

Il ritorno delle spie bulgare: il gioco oscuro che è duro a morire. Spie e segreti non appartengono alla Guerra Fredda: sono ancora protagoniste dei nostri tempi e continuano a "servire" in nome di ideologia e denaro. Le due cose che dall'alba dei tempi stimolano sofisticati stratagemmi e trame intricate. Davide Bartoccini - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. Spia, colui o colei che attraverso stratagemmi che prevedono l’inganno, la dissimulazione e la falsa identità si impossessa d’informazioni coperte da segreti che appartengono a rivali o nemici, per trarne vantaggi militari, politici o talvolta economici. Sia per interesse personale che per quello del proprio Paese o mandante. Questa è la definizione, a grandissime linee, di un’attività svolta da quando l’uomo ha inventato la guerra. E che ha sempre influito, nelle sorti di essa, più della guerra stessa. Molti di noi, scrittori o lettori, abbiamo imparato a conoscere le spie attraverso romanzi e film; e quando parliamo di spy story, pensiamo subito all’eterno confronto da Guerra fredda tra Cia e Kgb, o agli 007 britannici; pensando spesso che oramai sia storia passata. La verità invece è ben diversa: le spie oggi sono più attive che mai, e spesso operano in teatri e territori defilati, come gli stati baltici e quelli balcanici: ex satelliti di Mosca che ora hanno accesso ai segreti militari che riguardano anche Washington, dal momento che sono entrati a far parte della Nato. Ecco perché occupandoci di spionaggio nell'attualità, torniamo a parlare della Bulgaria - vecchia alleata di Mosca quale firmataria del Patto di Varsavia - ora diventata oggetto d’interesse di una rete di spie - o meglio di talpe - che conoscendo i trucchi del mestiere operavano ancora, a livello “amatoriale”, per fornire al Cremlino informazioni militari trafugate dai palazzi governativi. Soprattutto dal Ministero della Difesa bulgaro. Negli interessi dei sei agenti “in pensione”, coordinati dall’ex colonnello settantenne Ivan Ivliev, c’erano quanti più segreti potessero essere “rivelati”: dai documenti che riguardavano proprio la Nato, gli Stati Uniti, l’Ucraina, la Bielorussia alle presenze di intelligence straniere in loco: agenti della Cia, dell’Nsa e delle altre divisioni di spionaggio internazionale. Del resto, se conosci il profilo di un operativo a Sofia, domani lo riconosci anche se viene distaccato a Istanbul o a Berlino se nessuno brucia la sua copertura. E troppe sono le possibilità di utilizzare una “spia” avversaria a proprio vantaggio. Così la rete di spie gestita da “The Resident” - nome in codice scelto per l’ex colonnello in pensione - ha passato sotto compenso e per anni informazioni e resoconti all’ambasciata russa di Sofia. Dove alcuni diplomatici conniventi - forse agenti in auge e sotto copertura - li inviavano direttamente a Mosca. Questo almeno fino alle scorse settimane, quando il controspionaggio bulgaro ha scoperto e arrestato le sei talpe altolocate - compresa la moglie dell’ex colonnello, che si recava regolarmente in ambasciata per consegnare plichi di documenti “classificati” e ritirare il pagamento in dollari. La combriccola di nostalgici russofili, tutti bulgari che hanno vissuto all’ombra della cortina di ferro e sono stati addestrati a praticare lo spionaggio dai sovietici del Gru (il servizio d’intelligence dell’Esercito russo) e del ben più noto Kgb (oggi Fsb, ndr), contava tutti anziani signori ben inseriti nei palazzi del potere. Uno di loro partecipava alla stesura del bilancio militare, dunque conosceva nel dettaglio, probabilmente, informazioni sugli armamenti acquisiti e in via di acquisizione. Un altro era attaché militare impegnato presso la cancelleria dei documenti segreti per il parlamento, mentre un terzo era addirittura tra i responsabili delle “strategie per contrastare le interferenze di Mosca” - che mantiene ancora uno stretto rapporto con il Paese membro dell’Unione Europea. Ciò che ha stupito, o più precisamente preoccupato, l’establishment bulgaro e i tutti partner esteri è stata non solo la facilità con cui la rete del “residente” operava senza troppi accorgimenti, ma la scoraggiante prova che ai piani alti dei nuovi alleati Nato abbiano libero accesso, e per giunta pieni poteri, elementi addestrati dagli specialisti della Lubjanka ai tempi di Bréžnev. Uomini e donne tanto fedeli a Mosca da essersi occupati, in passato, dei “lavori sporchi” di fronte ai quali anche gli agenti russi più talentuosi dovevano passare la mano. Il rischio di essere svelati era troppo alto e le conseguenze dirette avrebbero potuto innescare escalation pericolose. Due esempi emblematici, riportati dall’esperta di questioni russe Anna Zafesova, sono l'attentato a Giovanni Paolo II da parte del “lupo grigio” Alì Ağca, avvenuto secondo molti su mandato dei servizi segreti bulgari che aveva tratto ispirazione dai vertici sovietici; e l’omicidio dello scrittore dissidente Georgiy Markov, assassinato a Londra con un ombrello modificato per sparare pallini contenenti la Ricina - potente e letale citossina. Un’arma mai ritrovata, a dire il vero, ma degna della più fervida fantasia di uno Ian Fleming in grande spolvero. Questo scandalo ha dato un punto di vista inquietante riguardo la possibilità di altre e ulteriori infiltrazioni che possono verificarsi ad alto livello in potenze ora fedeli alla Nato, ma un tempo amiche del Cremlino. La volontà di Mosca di entrare in possesso dei segreti dei suoi “avversari teorici”, del resto, è sotto gli occhi di tutti e da diverso tempo. Lo dimostra, tra le altre, l’ignominiosa condotta dell’ufficiale di Marina che è stato intercettato dagli agenti del Ros mentre cedeva sotto compenso informazioni a un diplomatico russo in missione a Roma. La Bulgaria, come l’Italia, ha promesso come da consuetudine, dopo gli arresti, una serie di espulsioni di diplomatici russi: su modello americano e britannico. Potenze che si trovano regolarmente al centro di scandali di spionaggio, talvolta orchestrati da vecchi doppiogiochisti ancora intenzionati a mettere a frutto i vecchi trucchi del mestiere. Perché le spie non vanno mai in pensione. Anzi spesso, nutrendo fino all’ultimo una profonda convinzione nei loro vecchi ideali, preferiscono continuare il “gioco”. Sia perché è un ottimo modo per sbarcare il lunario, sia perché si annoiano; sia perché non sanno rinunciare al brivido. In attesa del loro epitaffio.

 (ANSA il 5 aprile 2021) Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato la legge che gli permette di candidarsi altre due volte alla presidenza e dunque rimanere potenzialmente al potere fino al 2036. La legge, modificata con il referendum costituzionale, vieta a un presidente russo di rimanere in carica per più di due mandati. Tuttavia questo non si applica a chiunque abbia ricoperto la presidenza prima dell'entrata in vigore dei relativi emendamenti alla costituzione (in altre parole, prima del 2020). Pertanto il presidente Vladimir Putin e l'ex presidente Dmitry Medvedev possono candidarsi alla presidenza per altre due volte. Lo riporta Meduza. (ANSA).

Roberto Fabbri per "Il Giornale" il 6 aprile 2021. Sembra che Vladimir Putin non gradisca di sentirsi appiccicare addosso la qualifica adulatoria di Zar. Il richiamo alla monarchia assoluta, per quanto lusinghiero in un Paese che ha sempre avuto un debole per gli uomini forti, disturba l'uomo venuto dal Kgb che ha sempre visto confermare la sua scalata al potere da trionfali successi elettorali. Eppure, oggi che la sua firma è stata apposta sotto il testo di una legge che lo autorizza di fatto a rimanere presidente fino a quando avrà 84 anni, il richiamo al concetto di padre e padrone di tutte le Russie si riaffaccia. Se davvero riuscirà a mantenersi assiso sulla poltrona più dorata fino al 2036, avrà battuto perfino il record di un altro padre e padrone, quello Stalin la cui sanguinaria memoria ha fatto riabilitare riconoscendogli il ruolo di costruttore e difensore della grandezza nazionale. Come si è arrivati ad attribuire a un uomo solo la possibilità di dominare di fatto sulla Russia per 36 anni consecutivi? La procedura seguita appare formalmente ineccepibile, ma è stato necessario fare ricorso a un trucco. La legge firmata ieri dalla stessa persona che potrà approfittarne, è stata varata dalla Duma dopo che i necessari emendamenti alla Costituzione erano stati approvati a giugno con un referendum: essa stabilisce che vi sia un limite di due mandati presidenziali, ma guarda caso prevede anche che nel conto non vengano considerati i mandati già compiuti dal presidente in carica. Ecco dunque che Putin potrà presentarsi ad altre due elezioni (nel 2024 e nel 2030), puntando di fatto alla presidenza a vita. A ben vedere, con questo meccanismo costruito su misura per le sue ambizioni, non punta tanto a esercitare il potere fino a vecchiaia inoltrata: il suo disegno sembra piuttosto privilegiare una garanzia di immunità a vita. La legge che il Parlamento dominato dal suo partito nazionalista Russia Unita aveva approvato include infatti un comma di importanza fondamentale, che esclude la possibilità di perseguire gli ex presidenti anche per eventuali reati non commessi durante il mandato. Insomma, una botte di ferro legale disegnata per impedire che, quando Putin lascerà prima o poi il potere, possano aprirsi per lui le porte di un tribunale. Occasioni non ne mancherebbero, se si pensa ai metodi non proprio cristallini con cui lo «zar» ha arricchito se stesso e beneficato gli uomini della sua cerchia, i cosiddetti «siloviki» provenienti in massima parte dal mondo inquietante dei servizi segreti russi. Per non parlare dei numerosi «misteriosi» omicidi di cui sono rimasti vittima in patria e all'estero personaggi del mondo economico, politico e giornalistico che avevano osato sfidarlo: da Aleksandr Litvinenko ad Anna Politkovskaja, da Boris Berezovsky a Boris Nemtsov solo per citare i più famosi e senza dimenticare il caso clamoroso dell'avvelenamento di Aleksei Navalny, attualmente ospite di un penitenziario in seguito a una sentenza palesemente addomesticata. Navalny è l'uomo che è stato capace, attraverso le sue implacabili denunce di corruzione a carico di Putin, del suo vice Dmitry Medvedev e del loro «cerchio magico» di suscitare una volontà di opposizione presso le classi più istruite e tantissimi giovani in Russia. Messi in galera lui e i suoi collaboratori, lo «zar» ritiene di essersi garantito il futuro. Ma il fatto che abbia preteso l'immunità a vita per legge la dice lunga su ciò che davvero lo preoccupa. E proprio ieri Navalny è stato spostato nell'infermeria del carcere con febbre alta e tosse, al quinto giorno di sciopero della fame. Si sospetta tubercolosi. Ma il penitenziario smentisce.

Anna Politkovskaja, la voce libera che il regime russo volle zittire. Sabrina Pisu su l’Espresso il 6 ottobre 2021. Quindici anni fa l’omicidio della giornalista che aveva denunciato i crimini del Cremlino. Il ricordo di Lana Estemirova che allora aveva 12 anni, figlia di un’altra reporter sequestrata e uccisa. "Anna e mia madre lavoravano insieme in Cecenia. Finché Putin è al potere non ci sarà verità sulle loro morti”. «Anna è stata uccisa»: il viso di Natalya Estemirova si fa bianco mentre ripete alla figlia Lana quello che le hanno appena detto al telefono. Quattro parole che hanno il suono delle quattro pallottole che quel giorno, il 7 ottobre del 2006, hanno fermato la vita della collega e amica Politkovskaja. Istanti impressi nei ricordi di Lana Estemirova, che aveva dodici anni: «Io e mia madre eravamo appena salite sull’autobus nel centro di Grozny, tornavamo a casa quando è arrivata quella telefonata, aveva gli occhi spalancati. Ha poi gridato all’autista di fermare l’autobus e siamo scese, camminavamo, era sotto shock, in silenzio e io non sapevo cosa fare per consolarla». Lana Estemirova sapeva che era pericoloso il lavoro che facevano Anna Politkovskaja e sua madre, giornalista e attivista della Ong russa Memorial in Cecenia, ma quell’omicidio ha trasformato quella preoccupazione in realtà.

Quel pomeriggio di ottobre, Anna Politkovskaja, che aveva 48 anni, era andata con la sua automobile al supermercato. Non era sola, una giovane donna e un uomo alto con il volto coperto da un berretto da baseball la seguivano, come mostreranno dopo le immagini di una delle telecamere di sorveglianza installate nel negozio. Al ritorno, ha parcheggiato a pochi metri dall’ingresso del suo palazzo, ha preso l’ascensore per portare i primi due sacchi fino al suo appartamento, al settimo piano, e lasciarli davanti alla porta. È scesa poi a prendere il resto della spesa ma quando al piano terra l'ascensore si è aperto, ad aspettarla c’erano quattro proiettili. I primi vanno dritti nel cuore e nei polmoni, il terzo si conficca nella spalla, con una potenza tale da scaraventarla dentro l'ascensore. È partito, poi, il «kontrolnyi vystrel», il colpo di controllo, un proiettile in testa sparato a pochi centimetri di distanza, perché la morte doveva essere certa. L’assassino ha lasciato cadere a terra la pistola Makarov 9 mm. La morte seguiva Anna, le minacce erano insistenti, lettere, telefonate ma questa paura, o consapevolezza, non fermava la sua penna, precisa, concisa, inarrestabile e feroce come quello che raccontava e denunciava nel piccolo quotidiano di opposizione Novaya Gazeta di cui era corrispondente. Resoconti minuziosi degli orrori commessi dalle forze russe e da quelle locali cecene nel corso della seconda guerra in Cecenia, dichiarata da Putin, eletto presidente nel marzo del 2000, e chiamata ufficialmente «operazione antiterrorista nel Caucaso del nord». Esecuzioni di massa, sequestri, torture, incendi, uccisioni indistinte in nome della «lotta contro il terrorismo». «Mia madre ed Anna si sono conosciute nel 1999, all’inizio della seconda guerra in Cecenia, mia madre lavorava spesso come fixer (base sul campo di lavoro, ndr)  per lei e Anna quando veniva a Grozny stava sempre a casa nostra, andavano a fare visita alle vittime, nelle zone in cui c’erano state le operazioni di rastrellamento delle forze militari russe, lavoravano anche tutta la notte nel nostro appartamento che all’epoca non aveva acqua corrente e poca elettricità. Erano un team incredibile ed erano grandi amiche», racconta Lana Estemirova. «Ero molto felice ogni volta che Anna veniva, era una persona molto seria e un po’ austera, ma anche con un grande senso dell’umorismo. Mi portava sempre un libro, li ho ancora con me», continua Lana Estemirova che della Politkovskaja ricorda «umanità, talento, compassione, tenacia, gentilezza e coraggio. È stata molto più di una giornalista, è stata un’attivista, una negoziatrice, un simbolo di speranza per le persone». Una fonte di ispirazione: «Lo è stata per me, perché ha salvato vite umane, si è fatta carico del dolore delle persone come se fosse stato il proprio», dice Lana Estemirova che lavora per la fondazione Justice for Journalist ed è autrice del podcast Trouble with the True dove dà voce ai cronisti coraggiosi nel mondo. Anna Politkovskaja annottava ogni cosa, «tutti i particolari che posso», documenti, drammi di madri a cui avevano ucciso figli innocenti - «madri considerate fortunate quando riottengono il corpo del loro figlio. Pazienza se è deturpato, se lo hanno crivellato di colpi», scriveva riportando con precisione le loro accuse e richieste di giustizia con la speranza di restituire loro la dignità, il rispetto calpestato, un anelito di vita. E, quindi, fare dei suoi scritti delle prove per incriminare i responsabili di quella guerra «che annienta quanto c’è di vivo nell’anima di chi è ancora vivo». Anna Politkovskaja conosceva bene le rimozioni della storia, il silenzio che spesso si fa cadere e, che come scriveva, «non può essere un caso» come era successo alla prima guerra Cecena. Non c’era un confine tra la vita e la professione, e questo è tutto dentro una delle sue più note dichiarazioni: «Io vivo la mia vita, e scrivo ciò che vedo». E la sua vita era non solo vedere e scrivere ma anche trasformare quelle parole in azioni concrete per aiutare le vittime. Lo ha fatto nel dicembre del 1999 quando, sotto le bombe, ha tenuto per mano gli anziani per farli uscire dall’ospizio abbandonato di Grozny, capitale della Cecenia, e mettendone in salvo 89. E nel 2002 quando ha trattato la liberazione di alcuni ostaggi rimasti, dal 23 al 26 ottobre, in mano a un commando di una cinquantina di terroristi ceceni che avevano preso d'assalto il teatro della Dubrovka a Mosca. «Sono rassegnati a morire e lo dicono, faccio fatica ad accettarlo», dice alle telecamere interrompendo subito chi continuava a farle domande. «Non perdiamo tempo, dobbiamo portare acqua agli ostaggi». «Non perdiamo tempo», ma l'irruzione delle forze speciali russe manda all’aria il suo negoziato, 130 ostaggi perdono la vita soprattutto a causa dei gas utilizzati dalle forze speciali. Era pronta a negoziare anche nel 2004 quando si stava recando a Beslan, nell’Ossezia del Nord, dove i terroristi avevano sequestrato una scuola e preso centinaia di ostaggi, perlopiù bambini. Un tè bevuto sull’aereo la fa stare molto male e all’atterraggio a Rostov viene ricoverata d’urgenza in ospedale, il giorno dopo viene trasportata in aereo a Mosca per le cure. Un tentativo di avvelenamento, i risultati dei suoi esami del sangue che scompaiono: lei era sicura che fossero stati i servizi segreti russi. Prima di morire stava preparando un articolo sulle torture praticate da una sezione delle forze di sicurezza cecene legate al primo ministro Ramzan Kadyrov, fedele di Putin. Ne aveva parlato a Radio Svodoba due giorni prima di essere uccisa: «Sto conducendo un’inchiesta. Riguarda le torture perpetrate nelle prigioni segrete di Kadyrov oggi e nel passato. Persone che sono state sequestrate dagli uomini di Kadyrov senza alcuna giustificazione. Ho un solo sogno personale nel giorno del compleanno di Kadyrov. Sogno che sieda sul tavolo degli imputati». Il suo sogno non si è realizzato, non ancora. Perché i fatti sono tutti lì, messi in fila da Anna Politkovskaja. Ed è per questo che dopo la sua morte, l’amica e collega Natalaja Estemirova invece di fermarsi, ha sentito il dovere di fare di più: «Ha raddoppiato l’impegno, ha sentito di dover raccogliere la sua eredità e continuare a denunciare quei crimini». Quel patto con Anna Politkovskaja, e con la verità, è costato la vita a Natalya Estemirova, uccisa il 15 luglio del 2009: «L’hanno rapita a casa, mentre io dormivo, non me ne sono accorta. Quando mi sono svegliata credevo fosse andata in ufficio, le ho telefonato ma non rispondeva, sono andata a cercarla lì, dicendo ai colleghi che non rispondeva», ricorda sua figlia. Il suo corpo crivellato di colpi è stato trovato in un bosco nei pressi della città di Nazran, in Inguscenzia. Anna e Natalya erano nel mirino del presidente della Cecenia, Ramzan Kadyrov, fedele di Putin: «Il presidente Ramzan Kadyrov aveva minacciato personalmente sia Anna che mia madre che per proteggermi mi ha mandato via: l’ultimo anno della sua vita sono stata fuori dalla Cecenia, a casa di alcuni zii, senza poterla vedere, è stato doloroso». La morte della Politkovskaja è «un omicidio politico», «una punizione per i suoi articoli», non hanno mai avuto dubbi i colleghi di Novaya Gazeta. Ma nel 2014, dopo otto anni e tre processi, la giuria popolare del tribunale di Mosca ha dichiarato colpevoli della sua morte solo i sicari ceceni ma non ha individuato i mandanti. Per Natalaja Estemirova, invece, nessuno ha ancora pagato e dopo la sua morte, visto l’alto rischio per gli altri attivisti, la Ong Memorial è stata chiusa. Sono 58 i giornalisti uccisi in Russia dal 1992 al 2021, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ). «In Russia dire la verità e difendere i diritti umani è ancora pericoloso, non c’è la volontà di fare chiarezza su questi omicidi», dice Natalia Zviagina, direttrice degli uffici di Amnesty a Mosca. «Il Cremlino sta usando la legge repressiva sugli “agenti stranieri” contro i media indipendenti decimando il giornalismo investigativo e imparziale nel paese», continua Natalia Zviagina in riferimento alla legge promulgata nel 2019 da Putin che estende lo status di «agenti stranieri» anche ai giornalisti indipendenti che devono comunicare al ministero della Giustizia russo i dati personali dei dirigenti, la contabilità finanziaria e le revisioni contabili. È reato il mancato rispetto di questi requisiti, con pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e la reclusione fino a sei anni. «È una nuova forma di minaccia, molto pericolosa», commenta la direttrice degli uffici di Amnesty a Mosca, anche lei più volte minacciata per la sua attività. Ogni anno, nel giorno della morte della Politkovskaja, una folla depone fiori davanti al suo portone: «Un gesto dal grande valore simbolico, nello stesso giorno del compleanno di Putin. La richiesta di giustizia è ora un’azione pubblica, civile com’è stata la sua attività, che andava ben oltre l’essere una giornalista», dice Natalia Zviagina. «Fino a quando Putin sarà al potere non ci sarà giustizia per Anna, mia madre e tanti altri. Quando il suo regime finirà tante verità fino a ora nascoste verranno fuori», è la convinzione di Lana Estemirova. Intanto in Cecenia, dove, come scriveva la Politkovskaja, «il baratro tra ciò che è palese e ciò che è segreto sta aumentando sempre di più», l’orrore non è finito: «Ci sono ancora torture, rapimenti, omicidi solo che sono tenuti più nascosti e dietro le porte chiuse ci sono ancora prigioni segrete con macchie di sangue sui muri. È una verità scomoda sulla quale l’Europa, e l’Occidente in generale, dovrebbe riflettere», dice Lana Estemirova. L’odio era quello che Anna Politkovskaja temeva più di qualunque altra cosa: «Si accumula sempre di più ed è fuori controllo». Un odio che ha documentato e pagato, trattata prima come una «pazza» e «reietta» e poi uccisa. Ma, ancora oggi, a chi le avrebbe chiesto di lasciar perdere, lei direbbe: «Come potrei vivere con me stessa se non scrivessi la verità?».

Come Pietro I o Nicola II? Ecco per cosa verrà ricordato Putin. Emanuel Pietrobon, Paolo Mauri si Inside Over il 28 marzo 2021. Vladimir Putin è colui che ha assunto il potere all’apice della stagione di turbolenze sociali ed economiche che scossero la Federazione russa a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. A lui il merito di aver salvato il Caucaso settentrionale e la regione del Volga dalla deflagrazione, ponendo fine ad un decennio di insurgenza e terrorismo, di aver riportato l’economia sul viale della crescita e, soprattutto, di aver reintrodotto la Russia nell’alveo dei grandi protagonisti delle relazioni internazionali. Figura tanto affascinante quanto divisiva anche all’interno della stessa Russia, Putin verrà ricordato dai posteri per una moltitudine di ragioni: da quelle menzionate poc’anzi all’aver restituito Mosca al proprio legittimo destino, cioè quello di essere la Terza Roma, passando per l’onere di aver dovuto affrontare il risveglio dal sonno della guerra fredda con l’Occidente. In quest’ultimo caso, a lui il riconoscimento per aver evitato che la Siria della famiglia Assad e il Venezuela di Nicolas Maduro seguissero il fato dell’Iraq di Saddam Hussein e della Libia di Mu’ammar Gheddafi, ma a lui anche una serie di gravi responsabilità: dalla “perdita” dell’Ucraina alla caduta del monopolio russo sull’intero spazio postsovietico. Numeri e fatti dissonanti alla mano, la domanda sorge spontanea: Putin, già soprannominato “lo zar” dalla grande stampa occidentale, verrà ricordato dai posteri come un padre fondatore alla Pietro il Grande o come una vittima del fato alla Alessandro II? Nell’impossibilità di prevedere il futuro, cerchiamo di apprendere dal passato e di leggere il presente: questo è quanto accaduto durante l’era Putin tra Ucraina e Moldavia.

Il prezzo della Crimea. Sull’Ucraina, più volte al centro della cronaca per via dei conflitti nel Donbass e per la Crimea, è stato scritto tanto, e spesso con occhi filtrati dall’ideologia. Cercheremo di dare un quadro generale per spiegare perché la Russia ha fondamentalmente già perso quel Paese pur avendo inferto due duri colpi, seppure con esiti opposti. Tutto cominciò con la cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, che si originò anche per via delle fragili condizioni politiche ed economiche dell’Ucraina di quel tempo. Il risultato delle elezioni, avvenute quell’anno, che videro Viktor Yanukovych, filorusso, vincitore, vennero duramente contestate con l’accusa di brogli. Questa frode elettorale spinse Viktor Yuschenko, l’altro candidato e filoeuropeo, a chiedere ai propri sostenitori di scendere in piazza e protestare. Le violenti proteste portarono a nuove elezioni che, nel dicembre 2005, sancirono la vittoria di Yuschenko. In questo modo l’Ucraina si avvicinò all’Europa, tanto da volerne chiedere l’adesione, e soprattutto alla Nato. Ma Yanukovych, sostenuto palesemente da Mosca, non era ancora fuori dai giochi. Nelle elezioni presidenziali del 2010 ottenne la vittoria contro Yulia Timoshenko (anche lei una “rivoluzionaria arancione”), che venne arrestata un anno dopo con l’accusa di abuso di potere per uno scandalo coinvolgente Gazprom. Yanukovych chiarì subito la sua linea filorussa: l’Ucraina abbandonò i piani di adesione a Nato ed Unione Europea. Nel 2013, la popolazione, sobillata anche qui da agenti esterni, scese nuovamente in piazza manifestando a favore dell’Europa e contro l’amministrazione Yanukovych. Il governo cercò di arginare le rivolte emanando un pacchetto legislativo composto da 12 leggi, cosiddette anti-protesta, ma ormai si era scatenato un meccanismo perverso che condusse, a febbraio 2014, ad una vera e propria rivolta: Euromaidan. La sommossa, sanguinosa e con la presenza di fazioni estremiste, non fu vana: le leggi anti-protesta furono rimosse e il presidente Yanukovych lasciò il Paese. Le nuove elezioni del maggio 2014 videro vincitore Petro Poroshenko, che riprese una posizione molto più prona all’Occidente riaprendo nel contempo alla possibilità di adesione alla Nato. Davanti a questa possibilità il Cremlino agì prontamente per cercare di mettere al sicuro quello che restava dei suoi interessi strategici nel Paese, ovvero la base navale di Sebastopoli. Sempre nel 2014, e con un colpo di mano magistrale, la Russia mette in pratica la dottrina Gerasimov sulla guerra ibrida e con un’invasione “non ufficiale” (ricorderete i famosi “omini verdi”, anche definiti “gentili”) preceduta e affiancata da una massiccia campagna di conquista “dei cuori e delle menti” che ha utilizzato per la prima volta anche gli strumenti di comunicazione di massa online, si impadronisce manu militari della penisola di Crimea. Effettuato il putsch, le autorità locali (filorusse) decisero di indire un referendum sull’autodeterminazione della penisola e la conseguente scissione dall’Ucraina. Il referendum rispecchiò la volontà popolare (secondo le fonti russe più del 96% della popolazione votò per l’annessione alla Russia), ma non venne riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale. Come atto finale di questa operazione di estensione territoriale, il 18 marzo 2014, la Repubblica di Crimea e la Federazione Russa firmarono il trattato per l’annessione della penisola alla Federazione. Il giorno dopo, le forze armate ucraine vennero ritirate dalla penisola, segnale indicativo del fatto che il processo non poteva più essere fermato. Oggi, il territorio è definito della Federazione come “circondario federale di Crimea”, costituito dalla Repubblica di Crimea e dalla città federale di Sebastopoli.

La questione Donbass. Se la Crimea è stato un colpo magistrale, così non lo è stato il Donbass. Qui il meccanismo messo in atto per la prima volta nella penisola si inceppa, e le regioni di Donetsk e Lugansk, nonostante si siano successivamente autoproclamate repubbliche autonome, continuano a restare legate al governo di Kiev, che non ha affatto ritirato il suo strumento militare come ha fatto in Crimea. In Donbass, nonostante anche qui la Russia sia intervenuta prima in modo non ufficiale poi quasi apertamente (anche se inizialmente mandando avanti i “contractor” del gruppo Wagner), ci sono stati e continuano ad esserci combattimenti tra le due fazioni, cosa che non è avvenuta in Crimea: Kiev, da questo punto di vista, ha “imparato la lezione” e non ha commesso lo stesso errore due volte, sebbene la situazione nella regione possa definirsi di completo stallo, in quando gli accordi di Minsk, che prevedono il cessate il fuoco e la definizione di una road map per la risoluzione del conflitto, sono ad un punto morto. Qui le ostilità cominciano poco più un mese dopo gli avvenimenti in Crimea, il 6 aprile 2014, quando le forze armate separatiste, supportate dal governo russo, occuparono le istituzioni locali delle regioni di Donetsk, Lugansk e Karkiv. L’occupazione venne preceduta da proteste popolari pro-Russia, abilmente orchestrate dal Cremlino, che così facendo credeva che Kiev, ancora alle prese con lo shock per la Crimea, non sarebbe stata capace di “parare il colpo”. L’oblast di Donetsk fu proclamato Repubblica Popolare il 7 aprile, mentre quello di Lugansk il 27, ottenendo entrambi l’indipendenza (anche qui non riconosciuta) l’11 maggio con un referendum. La risposta militare ucraina, inizialmente inefficace, diventa più decisa col passare del tempo tanto da suscitare l’intervento russo, sino a giungere ad una situazione di stallo militare che porta ai già citati e inefficaci accordi di Minsk. L’aggressione russa – perché tale è stata –, se possibile, ha spinto ancora di più l’Ucraina nelle braccia della Nato, che oggi ha ottenuto uno status simile a quello della Georgia di “osservato speciale” per il suo ingresso nell’Alleanza, ma, per assurdo, proprio l’attuale situazione di conflitto irrisolto nel Donbass è l’ostacolo maggiore verso questa prospettiva: un conflitto aperto, sebbene “congelato”, è contrario ai requisiti per l’ammissione (che spaziano anche sino alla stabilità del regime democratico), e pertanto, paradossalmente, Mosca potrebbe avere più interesse a mantenere questo status quo che a risolvere la questione del Donbass. L’Ucraina, infatti, al pari della Georgia, è ormai persa: la Russia infatti non ha “guadagnato” la Crimea, ma ha perso il Paese che storicamente rappresenta la sua porta di ingresso meridionale, per questioni prettamente geografiche. Basta dare uno sguardo ad una mappa per notare che dal confine con la Polonia sino a quello con la Russia, passando per Kiev e Karkiv, il territorio è quasi del tutto pianeggiante con la presenza di un solo ostacolo naturale, rappresentato dal fiume Dnepr. Un ostacolo che non è servito a frenare le divisioni corazzate tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale, peraltro, ed i russi se lo ricordano ancora perfettamente. Nella mente degli inquilini del Cremlino, sin dai tempi degli Zar, questa particolare problematica era ben viva: la Russia, infatti, per difendere i suoi confini occidentali, proprio per l’assenza di barriere naturali non ha, storicamente, potuto far altro che espanderli per cercare di frapporre più “terreno” possibile tra Mosca ed i territori “al di qua” degli Urali – cuore pulsante della Russia – ed un nemico invasore.

La questione Moldavia. Il 2020 è stato l’anno della svolta per la piccola ma pivotale Moldavia, uno storico avamposto del Cremlino che, complici la fine della guerra fredda e l’albeggiare dell’epoca multipolare, ha assunto la forma di un huntingtoniano stato in bilico (a metà tra Occidente, Russia e Turchia) il cui fato sembra essere quello dell’ingresso nel campo occidentale. La rilevanza di questo piccolo Paese incuneato tra Romania e Ucraina è data da tre elementi: la posizione geostrategica, la presenza di minoranze strumentalizzabili per minare la stabilità regionale e, infine, l’essere un punto di snodo centrale per i traffici leciti e illeciti che avvengono tra l’estrema periferia orientale dell’Unione Europea e lo spazio postsovietico. Avere il controllo dei punti caldi del Paese, come la Transnistria e la Gagauzia, equivale a possedere una leva funzionale al condizionamento della politica domestica ed estera del governo centrale; perciò la Russia ha stabilito una presenza nella prima regione e la Turchia ha costruito una sfera d’influenza sulla seconda. La Russia sta perdendo il controllo della Moldavia perché, molto semplicemente, si è ritrovata ad aver affrontare una competizione modellata sul “tutti contro uno” che vede il coinvolgimento di Romania, Turchia, Stati Uniti, Germania e organizzazioni internazionali come Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale (FMI). Bucarest sta provando ad accelerare il processo d’integrazione del proprio vicino nell’Ue tramite lobbismo, diplomazia ed economia e, soprattutto, sta investendo in cultura, cooperazione allo sviluppo e istruzione con il duplice obiettivo di derussificare la popolazione e incoraggiare le nuove generazioni a sposare l’idea della rumenosfera, ossia della Grande Romania. Bruxelles e Washington, invece, hanno ridotto a livelli critici la dipendenza di Chișinău da Mosca a mezzo di accordi commerciali, investimenti, maxi-prestiti e grandi opere. I più importanti traguardi delle due potenze sono stati tagliati l’anno scorso e sono, rispettivamente, la realizzazione del gasdotto Iași-Ungheni-Chișinău e l’intercessione presso il FMI ai fini dello sblocco e dell’invio di un maxi-prestito da oltre 200 milioni di dollari al governo moldavo. La questione dello Iași-Ungheni-Chișinău è meritevole di ulteriore approfondimento. Lungo centoventi chilometri e realizzato con il contributo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), il gasdotto è stato progettato con l’obiettivo specifico di emancipare la Moldavia dal gas russo ed è stato inaugurato lo scorso agosto. Il canale di trasporto, ampiamente pubblicizzato da Chișinău come il salvavita che entrerà in funzione “in caso di problemi sulla rotta tradizionale”, ossia la rete della Gazprom, è in grado di soddisfare fino al 75% del fabbisogno medio moldavo e transnistriano e fino al 60% del loro consumo medio durante i mesi freddi. Vi sono, infine, Berlino, che ha investito e sta investendo nel settore idrico moldavo più di ogni altra nazione al mondo, facendo dell’acqua un instrumentum regni con il quale ritagliarsi una sfera d’influenza all’interno del Paese, e Ankara, il cui dinamismo irrefrenabile ha condotto al conseguimento di risultati di rilievo sia a Chișinău che a Comrat, capoluogo della Gagauzia. Oggi, 2021, la Turchia è il settimo investitore ed il settimo partner commerciale della Moldavia e contribuisce in maniera significativa alla produzione del benessere e alla vitalità del mercato del lavoro per via della presenza sul territorio di circa 1.200 imprese. La Sublime Porta, inoltre, ha giocato un ruolo da coprotagonista nella guerra degli aiuti sanitari combattutasi in Moldavia, posizionandosi dietro a Russia e Cina per quanto riguarda l’impegno complessivo ma troneggiando in una regione: la Gagauzia. Nominata oramai per la terza volta, è giunto il momento di spiegare brevemente che cosa sia la Gagauzia. Trattasi di una regione autonoma della repubblica moldava abitata dai gagauzi, un popolo turcico ivi stanziatosi tra il 12esimo e il 13esimo secolo, dalla quale ebbe inizio la breve stagione di separatismo che colpì la nazione all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica. Le autorità gagauze, infatti, dichiararono la propria indipendenza nell’agosto 1991 – ossia un mese prima che la più celebre Transnistria facesse lo stesso – salvo poi abbandonare l’agenda secessionista in cambio di una vasta autonomia. Un riepilogo della due-giorni in Moldavia dello scorso agosto dell’influente ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, può essere utile a comprendere quanto sia marcata la presenza della Sublime Porta in questo stato in bilico. Il primo giorno di lavoro era stato utilizzato per partecipare al primo incontro del Gruppo congiunto per la pianificazione strategica – uno dei frutti maturati dall’elevazione dei rapporti bilaterali al livello di partenariato strategico –, e il secondo era stato impiegato per prendere parte all’attesissima inaugurazione del consolato turco a Comrat, la cui realizzazione era stata chiesta a gran voce dalla popolazione. Perché l’inaugurazione di un consolato dovrebbe essere importante? Il punto è che la Gagauzia è stata a lungo un feudo russo al pari della Transnistria, ma la situazione è cambiata radicalmente da quando Recep Tayyip Erdogan ha deciso di darle priorità all’interno della propria agenda estera, istruendo l’Agenzia Turca per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale (TIKA) affinché si occupasse di riscriverne la mappa urbana, dei servizi e delle infrastrutture. Qui la Tika ha costruito nuove scuole, ospedali e strade, rinnovato interi quartieri, contribuito ad incrementare l’accesso della popolazione all’acqua e all’elettricità e, ultimo ma non meno importante, ha dato impeto ad un processo di nazionalizzazione delle masse basato sulla somministrazione di corsi di lingua gagauza e sulla promozione di iniziative e programmi culturali miranti ad instillare negli abitanti la convinzione che siano parte integrante del mondo turco. In sintesi, la questione Transnistria si è rivelata utile a rallentare l’inglobamento della Moldavia nella sfera d’influenza euroamericana, ma il congelamento in toto del processo non è stato possibile e la sequela di eventi dell’anno passato ne è la dimostrazione. Perché il 2020 è stato l’anno del gasdotto Iași-Ungheni-Chișinău, del consolato turco a Comrat, dell’attivismo statunitense e della diplomazia idrica tedesca, ma è stato, anche e soprattutto, l’anno dello storico insediamento alla presidenza di una europeista, Maia Sandu, la cui vittoria ha assestato un colpo quasi letale al sistema di potere ruotante attorno al socialista e filorusso Igor Dodon.

Angelo Allegri per “il Giornale” il 19 marzo 2021. «Putin sembra molto stanco. Vent' anni di potere sono un tempo lunghissimo in un Paese come la Russia, dove gli intrighi politici e le pugnalate alle spalle sono all' ordine del giorno. Gli piacerebbe dare le dimissioni, ma né lui né il circolo di persone che gli sono più vicine se lo possono permettere». Catherine Belton, giornalista del team investigativo dell' agenzia Reuters, ha appena pubblicato in Italia «Gli uomini di Putin» (La nave di Teseo). È il frutto di 15 anni passati a Mosca, dove la Belton ha lavorato tra l' altro come corrispondente per il Financial Times e per Business Week.

In che senso non possono permettersi le dimissioni?

«Gli uomini del suo entourage potrebbero essere chiamati a rispondere di quanto fatto in questi anni. E stiamo parlando di crimini e reati. Per il libro ho parlato con una delle persone più vicine a Putin: già nel 2012 avrebbe preferito rimanere sullo sfondo e non tornare alla presidenza, ma fu spinto a farlo dal suo circolo più ristretto, perché Medvedev, che per quattro anni lo aveva sostituito, stava facendo salire alla ribalta i suoi uomini».

La novità comunque è il linguaggio di Biden, ben diverso da quello del suo coinquilino alla Casa Bianca, Obama.

«L' amministrazione Obama ha aperto la porta all' influenza russa nel mondo. La sua volontà di «resettare» il rapporto con Mosca su toni più soft si è rivelata comodissima per Putin. Che infatti ne ha tratto grande profitto. Basti pensare alla Siria, lasciata a disposizione dei russi. O all' attività di infiltrazione nelle istituzioni occidentali grazie a soldi e corruzione. L' Occidente ha mostrato una compiacenza fuori luogo nel pensare che la Russia andava trattata come uno scolaretto cattivo ma che non era pericolosa perché debole. È vero, ma fino a un certo punto».

Che cosa intende?

«L' economia russa è debole, ma il regime di Putin può usare grandi quantità di contante sparso per il mondo in società offshore di cui ha il controllo e che può impiegare anche per influenzare la politica. Quanto al linguaggio di Biden sotto certi aspetti per Putin è più comprensibile, ma un ambiente ostile renderà più difficile ai russi perseguire i propri obiettivi. E sul lungo periodo avrà influenza anche sull' atteggiamento dei russi, che sono sempre più stanchi degli atteggiamenti anti-occidentali».

Ma il consenso per il presidente resta alto.

«È abbastanza vero ma solo se si resta alla superficie. E non è un caso che al Cremlino siano tanto nervosi e abbiano reagito in maniera cosi pesante contro il principale oppositore, Navalny. È vero, per esempio che i rating di quest' ultimo non sono saliti e sono intorno al 20% da settembre. Ma tra i giovani sono molto più alti, fino al 50/60%. In più la popolarità di Putin è ai livelli più bassi dal 2014, prima dell' annessione della Crimea. Per questo le manifestazioni di piazza in Bielorussia o quelle dell' estremo oriente russo, nella zona di Khabarovsk, hanno fatto così paura. In settembre ci sono le elezioni politiche: le previsioni di voto per il partito di Putin, Russia Unita, sono al minimo storico e a malapena raggiungono il 30%. Potranno mantenere la maggioranza solo con il ricorso a massicce frodi elettorali».

Ma un attacco così duro come quello di Biden non rischia di provocare un riflesso patriottico a favore del Cremlino?

«Sul breve periodo forse. Ma, come dicevo, i sondaggi dimostrano che buona parte dei russi ha un atteggiamento pro-occidentale. Sono stanchi del continuo confronto. Temono i minori investimenti, il peggioramento delle sanzioni. Negli ultimi 8 anni il reddito disponibile è diminuito del 10%. Qualche diversivo in politica estera è possibile, ma alla fine conterà il tenore di vita della gente, che è sempre più basso».

Giuseppe D'Amato per “il Messaggero” il 21 ottobre 2021. Ad Aleksej Navalnyj ora il premio Sakharov 2021 del Parlamento europeo; dodici giorni fa al giornalista di opposizione, Dmitrij Muratov, il primo Nobel per la pace. L'Occidente pare aver decisamente mutato rotta nei suoi legami con la Russia di Vladimir Putin. Se negli anni passati, dopo lo scoppio della crisi ucraina nel 2014, si è tentato di evitare qualsiasi tipo di confronto o scontro col Cremlino adesso a Bruxelles, a Washington e a Oslo si è passati al contrattacco.

LE MINACCE

Nel mezzo di questi 12 complicati giorni otto diplomatici russi sono stati cacciati dalla Nato e, per risposta, Mosca ha chiuso o fatto chiudere le rispettive missioni di rappresentanza, mentre sono volate tra le leadership accuse di uso delle materie prime (leggasi gas) come arma geopolitica. Il barometro dei rapporti tra Occidente e Russia è, in sintesi, fermo sulla voce buriana.

LIBERTÀ DI PENSIERO

Come era nelle attese della vigilia, Aleksej Navalnyj, acerrimo oppositore del presidente russo, si è così aggiudicato la più alta onorificenza Ue in campo della difesa dei diritti dell'uomo, precedendo le donne afghane anti-talebane e Jeanine Anez, ex capo di Stato della Bolivia, adesso in carcere con l'accusa di aver organizzato un golpe nel 2019. Questo premio, dedicato al dissidente sovietico, il fisico russo Sakharov, rappresenta dal 1988 il più importante riconoscimento continentale per chi lotta per la libertà di pensiero e di espressione.Attualmente Navalnyj, uno dei punti di riferimento delle composite opposizioni russe, sta scontando una condanna a due anni e mezzo di reclusione per aver violato la libertà vigilata, concessagli nel 2014, mentre si trovava l'anno scorso in Germania per curarsi da un avvelenamento con un agente nervino. Per la sua liberazione, nei mesi scorsi, accorati appelli sono stati lanciati da vari capi di Stato occidentali, tra i quali il presidente Usa, Joe Biden, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel. La Corte di Strasburgo ha definito la sentenza di reclusione contro il dissidente russo «sproporzionata». 

VITTORIA DELLA VERITÁ

«È la vittoria della verità», hanno commentato numerosi simpatizzanti e dirigenti del movimento che fa capo a Navalnyj, molti dei quali riparati all'estero. «Il premio Sakharov è un riconoscimento a tutti voi, a tutte le persone che non sono indifferenti, a quanti anche nei tempi più cupi non sono impauriti nel dire la verità», ha scritto FBK, la Fondazione anti-corruzione, facente capo all'oppositore anti-Cremlino, che negli anni passati ha condotto inchieste e pubblicato video contro le élite federali e quelle regionali. Di recente il movimento vicino a Navalnyj ha ricevuto la definizione giuridica di estremista e i suoi membri, passati e presenti, non hanno così potuto candidarsi alle ultime legislative, tenutesi il 18 settembre. La ricerca voto intelligente, proposto agli elettori dal dissidente contro il partito del Cremlino, è stato bloccato in Russia il mese scorso su Internet. Aleksej Navalnyj era uno dei candidati anche al premio Nobel per la pace, assegnato invece a sorpresa da Oslo al direttore del foglio di opposizione Novaja Gazeta, Dmitrij Muratov. Probabilmente, in dicembre, sarà la moglie del dissidente incarcerato a ritirare a Strasburgo l'alta onorificenza continentale. L'anno scorso il premio Sakharov era stato assegnato all'opposizione bielorussa, scesa in strada a protestare contro i brogli alle presidenziali di agosto, e nel 2018 al regista ucraino Oleg Sentsov, condannato da un tribunale russo a 20 anni di reclusione per terrorismo, ma poi liberato l'anno successivo nel corso di uno scambio di prigionieri.

Giuseppe D'Amato per "Il Messaggero" l'11 marzo 2021. La risposta russa alla fine è arrivata. L'Autorità per le comunicazioni federale (Roskomnadzor) ha disposto ieri il «rallentamento» di Twitter. È la prima volta che viene attuata una misura del genere. Secondo Mosca la compagnia americana non ha rimosso circa 3 mila post, vietati in Russia, riguardanti suicidi, droga e pornografia. A nulla, è stato spiegato, erano valse finora precedenti minacce e multe. La vicenda giudiziaria si trascina dal 2017. «Non abbiamo il desiderio di bloccare qualcuno - ha spiegato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov -, ma è ragionevole prendere misure per forzare queste compagnie a tenere conto delle nostre leggi». Roskomnadzor ha ora dato tempo a Twitter per adempiere alle proprie richieste, altrimenti seguiranno relativi provvedimenti. Mosca mostra così i muscoli, utilizzando nuove tecnologie nel quadro del progetto Internet sovrano, chiamato da altri Internet russo, approvato in Parlamento nel 2019. Qualcuno è anche arrivato ad ipotizzare la volontà politica di staccare il ramo russo dal web internazionale. La Russia starebbe iniziando lo stesso percorso seguito dalla Cina, che impedisce l'accesso a numerosi siti occidentali. In precedenza, tra il 2018 ed il 2020, Mosca aveva tentato invano di bloccare sul territorio nazionale il sistema di messaggistica Telegram, andando incontro a figuracce inattese e provocando disservizi in serie. Adesso viene utilizzata un'altra strategia, con l'uso dei DPI (installati presso i provider) e non più degli account IP. Ma anche ieri, come nel caso di Telegram, l'intero sistema ne ha risentito del rallentamento. Numerosi siti ufficiali, anche governativi - tra cui quello del Cremlino, della Duma e di vari ministeri - hanno avuto problemi tecnici, rimediati solo nella tarda giornata. Quanto successo (ossia gli effetti collaterali), ha commentato Stanislav Selezniov, capo di una Ong, «dimostra l'impreparazione tecnica da parte di chi ha attuato tale provvedimento». Stando ad Andrej Soldatov, esperto di sicurezza cibernetica, quanto accaduto è soltanto una prova, un messaggio di fare attenzione da parte delle autorità recapitato ai social media. Secondo gli specialisti del settore oltre a Twitter in futuro altre piattaforme occidentali verranno presto soggette ad analoghe misure. «Questo è solo l'inizio - prevede Michail Klimariov, direttore della Società di protezione di Internet - Facebook e Google saranno i prossimi. Stanno mandando un segnale forte». A breve in aprile sono in agenda presso un tribunale moscovita nuove udienze contro Twitter, Facebook, Google, TikTok e Telegram per non aver rimosso messaggi collegati con le manifestazioni di protesta contro l'arresto del blogger e politico, Aleksej Navalnyj, ora detenuto in carcere, manifestazioni registratesi in tutto il Paese a cavallo tra gennaio e febbraio. I social media sono utilizzati tantissimo dalle opposizioni anti-Cremlino e hanno ormai un'efficacia e influenza paragonabili a quelle delle televisioni, completamente controllate dal potere. Il caso Navalnyj, una sfida considerata serissima, va inquadrato anche in questo scenario di scontro mediatico. Le giovani generazioni, fino ai quarantenni compresi, si informano solo su queste piattaforme, contro le quali il potere fino ad oggi si è mostrato inerme, subendone del tutto il peso. I social media sono poi considerati nelle stanze del potere moscovita un mezzo utilizzato dall'Occidente per interferire in questioni interne. Quest'anno a settembre sono programmate le elezioni parlamentari. Ecco un'altra ragione della stretta. Al Forum economico di Davos il presidente russo Vladimir Putin ha accusato i giganti del web di «controllare la società», di «competere contro gli Stati» e di «restringere il diritto di esprimere liberamente i propri punti di vista». In gennaio la Russia aveva anche criticato Twitter per aver annullato l'account dell'ex presidente Usa Donald Trump e qualche giorno fa Facebook per aver censurato articoli della stampa pro-Cremlino. Mosca afferma di avere proprie opinioni e di avere il diritto di sostenerle. L'Occidente, invece, controbatte e le definisce «mistificazioni, falsificazioni e propaganda».

Paolo Mastrolilli per "la Stampa" il 4 marzo 2021. Lee Harvey Oswald aveva ucciso John Kennedy per obbedire ad un ordine di Nikita Krusciov. E questa è sola una delle rivelazioni esplosive contenute nel libro Operation Dragon, appena pubblicato dall'ex direttore della Cia Jim Woolsey e dall'ex capo dei servizi segreti romeni Mihai Pacepa. Perché quando poi passiamo all' Italia, escono notizie che varrebbero ognuna un libro: Stalin aveva cercato di eliminare Pio XII; Enrico Fermi aveva contribuito a passare i segreti della bomba atomica a Mosca; Togliatti era stato fatto fuori in Urss perché aveva urtato Krusciov. Più di recente, poi, sono credibili l'audio di Gianluca Savoini all'albergo Metropol che documenta la corruzione della Lega, le interferenze nelle elezioni italiane, e gli obiettivi nascosti della missione inviata in Lombardia per il Covid.

Perché è convinto che Oswald lavorasse per Mosca?

«Krusciov era uomo emotivo ed impetuoso, e odiava Kennedy dall' epoca delle crisi dei missili a Cuba, perché lo aveva fatto sembrare uno stupido costringendolo al ritiro. L'ordine per eliminare il capo della Casa Bianca era stato emesso. Poi Krusciov aveva capito che così rischiava la guerra con gli Usa, e aveva bloccato il Kgb. Oswald però era un fanatico e non era riuscito a fermarsi».

Jack Ruby fu parte dell'operazione?

«Il Kgb gli ordinò di uccidere Oswald, perché altrimenti avrebbe sicuramente parlato».

Perché gli investigatori e la Commissione Warren non lo avrebbero scoperto?

«L'analisi delle comunicazioni fra Krusciov ed Oswald non fu fatta in maniera efficace. Il mio coautore Pacepa, che operava in quel mondo, ne era convinto. Ora speriamo nella revisione dei fatti».

Voi scrivete che dopo l'uccisione di Kennedy l'Urss aveva lanciato una campagna di disinformazione, anche attraverso la pubblicazione di libri, a cui aveva partecipato l'editore di origini italiane Carlo Aldo Marzani.

«I russi fanno sempre disinformazione, è un aspetto centrale del loro rapporto col mondo esterno. A volte ci incappano buoni autori, altre volte quelli cattivi. Sarebbe bello poter verificare credenziali e motivi di tutti, ma su Kennedy sono stati pubblicati oltre 3.000 libri, e buona parte contiene bugie».

Denunciate che Marzani era «un noto agente del Kgb (nome in codice Nord)».

«Il Kgb ha sempre usato centinaia di "illegali", cittadini stranieri che passano l'intera vita a disposizione di Mosca, magari per essere chiamati all'azione una sola volta, o anche mai. Ruby era uno di questi. In genere fanno lavori e conducono esistenze normali, fino a quando vengono attivati».

Scrivete che uno di loro era Teodoro Castro, ambasciatore della Costa Rica in Vaticano, che in realtà era l'agente Iosif Grigulevich mandato da Stalin a Roma per eliminare Pio XII.

«La Chiesa cattolica è sempre stata un target del Kgb, per molti motivi. Pio XII era inviso per varie ragioni. È una vergogna, perché durante la Seconda Guerra Mondiale aveva compiuto molti passi per proteggere gli ebrei ed ostacolare i nazisti. I papi avevano operato in onestà, a differenza di chi uccideva».

Dite che il complotto era stato cancellato per la morte di Stalin.

«Il processo decisionale somiglia a quello che aveva usato Krusciov nei confronti di Kennedy».

Denunciate che il padre della bomba atomica, Oppenheimer, aveva passato i segreti delle armi nucleari ai sovietici, parlandone con i colleghi del Manhattan Project, incluso Enrico Fermi.

«La condivisione di questi segreti con Mosca è avvenuta, con l'accordo di Oppenheimer e gli altri colleghi».

Perché?

«Ragioni ideologiche, e la preoccupazione che i nazisti arrivassero prima. Coinvolgendo i sovietici speravano di accelerare».

Fermi sapeva ed era d'accordo?

«Questo ho letto, e credo sia così».

Riportate una conversazione di Pacepa con il leader romeno Gheorghe Gheorghiu-Dej, in cui il suo amico Chivu Stoica dice che Togliatti era stato ucciso in Crimea, non era morto di malattia.

«È una conversazione che ha ascoltato di persona».

Nel libro sostenete che questi comportamenti sono una costante dei russi, anche oggi. È credibile che abbiano interferito nelle elezioni in Italia e il referendum del 2016?

«Assolutamente. I russi interferiscono nella politica dei vicini da decenni, è quello che fanno. Semmai bisogna chiedersi perché non lo fanno, quando non avviene. Lo considerano un loro diritto, e non è limitato alle operazioni digitali o all'uso dell'intelligenza artificiale. Include anche l'omicidio, come nel caso di Ruby».

L'audio di Gianluca Savoini, collaboratore di Matteo Salvini che discuteva di corruzione all'hotel Metropol, è credibile?

«Certo. È sfacciato parlarne seduti nella hall di un hotel a Mosca, ma i russi vanno oltre la sfacciataggine. Sono molto diretti nelle operazioni di interferenza».

Danno soldi per ottenere favori, o come strumento di ricatto?

«Usano entrambe le tecniche. L'Italia è da sempre un target. Pacepa era informato sulle operazioni nell'area del Mediterraneo e lo confermava».

Quando la Russia aveva inviato la missione in Lombardia per il Covid, La Stampa aveva rivelato che era condotta da personale militare dell'intelligence. Il ministero della Difesa di Mosca aveva reagito con un comunicato minaccioso.

«Noi americani - ride Woolsey - definiremmo una simile risposta come "spararsi nei piedi", ma i russi hanno un approccio filosofico diverso».

Il New Yorker ha scritto che hanno usato ceppi di Covid italiano per fare i test del loro vaccino Sputnik.

Il Belgorod, il sottomarino russo armato coi nuovi supersiluri atomici. Paolo Mauri su Inside Over il 3 marzo 2021. Secondo quanto riporta la Tass in un breve comunicato, il sottomarino a propulsione nucleare per operazioni speciali Belgorod, project 09852, a maggio potrebbe effettuare le prove in mare. “I test del Belgorod inizieranno a maggio, dopo che il Mar Bianco si è liberato dal ghiaccio. Non sono in alcun modo legati ai test del siluro atomico Poseidon”, ha riferito una fonte specializzata all’agenzia di stampa russa. Sevmash, i cantieri in cui Belgorod è in fase di allestimento, facenti parte della United Shipbuilding Corporation non hanno commentato questa indiscrezione. Il Belgorod (identificativo K-239) è stato varato il 23 aprile del 2019 ed è un battello derivato da quelli di classe Oscar II (Project 949A Antey in Russia) ma ampiamente modificato. Il sottomarino, infatti, si differenzia molto da quelli appartenenti a questa classe di unità navali tipo Ssgn (lanciamissili da crociera). Innanzitutto lo scafo è più grande: le sue dimensioni sono di 178 metri di lunghezza (a fronte dei 154 degli Oscar II e più lungo quindi dei vecchi classe Typhoon) per 15 metri di larghezza massima (più stretto di tre metri), che portano il dislocamento totale, in immersione, a 24mila tonnellate standard (30mila a pieno carico) invece di, rispettivamente, 16.400 e 24mila delle altre unità. La propulsione è di tipo nucleare assicurata da due reattori ad acqua pressurizzata tipo Ok-650M.02 in grado di erogare una potenza di 190 Mw ciascuno collegati, tramite due turbine a vapore, a due eliche di nuovo disegno che dovrebbero garantire al sottomarino un’elevata silenziosità. Si ritiene che la velocità massima sia inferiore ai 32 nodi e che la profondità operativa sia la stessa degli Ssgn da cui deriva, ovvero intorno ai 500/520 metri. L’equipaggio, stimato, è più numeroso rispetto agli Oscar II: 110 uomini invece di 94. Le modifiche più importanti hanno riguardato l’eliminazione del compartimento coi tubi di lancio dei missili da crociera per fare spazio ad un nuovo settore, lungo circa 18 metri, in grado di accogliere i sottomarini per operazioni speciali come il Losharik o il Paltus. A prua della falsatorre – anche questa più lunga rispetto ad una normale di un classe Oscar II – è presente un nuovo compartimento (lungo 38 metri sino all’estrema prora) che serve per operare con i nuovi siluri atomici a propulsione nucleare Poseidon: il Belgorod sembra avere sei tubi lanciasiluri rotanti – come in una pistola “revolver” – in grado di accoglierli, ma questo dato è ancora da confermare. Il progetto di trasformazione del Belgorod è datato 2010 mentre i lavori sono iniziati ufficialmente nel 2012. Il sottomarino, insieme ad altre unità per compiti speciali, opera per conto del Gugi, il Direttorato Principale per la Ricerca Marina Profonda, inquadrato nel Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie) il servizio informazioni delle Forze Armate russe. Per effettuare operazioni di spionaggio, cartografia dei fondali e sabotaggio, il Belgorod è stato pensato in modo da poter ospitare tutta la gamma di minisottomarini e droni subacquei (Uuv – Unmanned Underwater Vehicle) in servizio nella Voenno-morskoj Flot (la Flotta Russa). Il sottomarino, comunque, resta ancora un enigma per gli analisti occidentali: Mosca ha fatto di tutto per mantenere segreti alcuni dettagli chiave del battello. In particolare è stata accuratamente celata, anche durante la cerimonia del varo (pubblica), la sezione di prua, proprio per nascondere importanti dettagli sulla possibile disposizione e meccanismo di lancio dei nuovi supersiluri a propulsione nucleare. Izvestia aveva riferito, lo scorso 11 febbraio, che il Belgorod era in preparazione per effettuare test con il nuovo siluro Poseidon, ma ora arriva la smentita da parte dei russi. Potrebbe comunque trattarsi solo di disinformazione, in quanto immagini satellitari commerciali risalenti al 10 febbraio di Severodvinsk, dove è ormeggiato il sottomarino, hanno mostrato il battello con i portelloni dei tubi lanciasiluri aperti, e si ritiene che, date le dimensioni, siano quelli per il supersiluro. Le riprese da satellite mostrano chiaramente due grandi aperture a prua ciascuna larga circa sei due metri, ovvero tre volte il diametro delle aperture per i normali siluri da 533 millimetri. Questo perché il Poseidon è circa 20-30 volte più grande di un siluro pesante tradizionale. Rivelato nel 2015, il siluro è un’arma strategica automatica progettata per scivolare sotto la rete di difesa missilistica balistica degli Stati Uniti. L’arma è progettata per distruggere importanti installazioni economiche del nemico in zone costiere e causare danni devastanti creando ampie aree di contaminazione radioattiva, rendendole così inutilizzabili per attività militari, economiche o di altro tipo per lungo tempo. Come detto il Belgorod potrebbe avere sei di questi siluri in dotazione ed essendo così grandi e alimentati a energia nucleare, sono probabilmente trasportati esternamente allo scafo a pressione principale, quindi non è ancora chiari il meccanismo preposto al loro lancio. Sebbene alcuni rapporti affermino che il sottomarino condurrà imminenti lanci di prova del Poseidon, questo è ritenuto improbabile da alcuni analisti. Non è infatti ancora chiaro se il sottomarino abbia mai condotto test di immersione, pertanto i test a cui faceva riferimento l’articolo di Izvestia riguardano probabilmente il caricamento di siluri inerti in porto e i controlli meccanici tra il sottomarino e l’arma, che corrisponderebbero alle immagini satellitari che mostrano i portelloni esteri aperti. Alcune fonti russe sostengono che il Poseidon non sia solo in grado di manovrare autonomamente, ma può anche adagiarsi sul fondo e restare in attesa, potenzialmente per anni essendo propulso da un piccolo reattore nucleare. In questo modo, in particolari condizioni come ad elevata profondità (il Poseidon si ritiene possa raggiungere i 6mila metri) sarebbe praticamente impossibile da intercettare e tanto meno colpire. Se scoperto, poi, può riattivarsi e cambiare posizione in previsione della chiamata in azione. Chiamata che potrebbe arrivare, in qualsiasi momento, proveniente da una nave militare di passaggio, una nave di linea o attraverso il canale radio a bassissima frequenza del sistema di comunicazione Zevs, il trasmettitore di segnali codificati per mantenere i contatti coi sottomarini ovunque siano negli oceani del mondo situato vicino alla base navale di Murmansk, nella penisola di Kola.

Morto l'ultimo autore del golpe contro Gorbaciov. Ansa il 28/7/2021. L'ultimo autore ancora in vita del mancato golpe comunista a Mosca nel 1991 che ha innescato la dissoluzione dell'Urss, è morto all'età di 89 anni, ha annunciato un responsabile russo. "Oleg Dmitrievitch Baklanov, che ha diretto la nostra industria spaziale e il ministero delle Costruzioni dell'Urss, è morto oggi" ha scritto su Twitter il direttore dell'agenzia spaziale russa Roscosmos, Dmitri Rogozine.     Poco conosciuto all'estero, Oleg Baklanov fu uno degli otto responsabili sovietici all'origine del tentativo di deporre Mikhaïl Gorbaciov, che cominciò il 19 agosto 1991. 

Manlio Graziano per “La Lettura – Il Corriere della Sera” il 19 luglio 2021. Tra poche settimane cadrà il trentesimo anniversario di uno degli eventi che hanno cambiato la faccia del mondo alla fine del secolo scorso: il tentativo di colpo di Stato contro Mikhail Gorbaciov, il cui fallimento accelerò l'implosione dell'Unione Sovietica. Gorbaciov era stato issato alla testa del Paese nel 1985, con il mandato di «ristrutturare» l'economia parassitaria dell'Urss, aprendola al libero mercato. Nel giro di poco tempo, però, fu evidente al mondo intero che lunghi decenni di assistenzialismo e di spesa militare sproporzionata rispetto alle risorse del Paese erano difficilmente redimibili: dall'elezione di Gorbaciov al 1991, l'Unione Sovietica era precipitata da una situazione già difficile all'impotenza totale. Il collasso economico accelerava la perdita di credibilità e di prestigio all'interno e all'estero: il Paese era stato costretto a un umiliante ritiro dall'Afghanistan, alla resa di fronte al riarmo reaganiano, alla perdita di tutti i Paesi dell'Europa centro-orientale, alla defezione dei suoi già fedeli alleati in Medio Oriente e, soprattutto, a subire l'inarrestabile movimento centrifugo delle 15 repubbliche che lo componevano. Nel 1991, l'Urss era afflitta da un'endemica scarsità di cibo, medicine e altri beni di consumo, le fabbriche non avevano di che pagare i salari, le scorte di carburante erano la metà di quel che serviva per passare l'inverno e l'inflazione superava il 300 per cento. A quella situazione avevano in parte contribuito anche i gerarchi convinti che l'Urss senza i metodi del passato non avrebbe potuto sopravvivere, e che avevano passato cinque anni a «remare contro» la perestrojka di Gorbaciov: molti mossi dal desiderio di conservare i propri privilegi, altri da un genuino patriottismo, e alcuni da una miscela opportunistica dell'uno e dell'altro. In quei cinque anni si delinearono due forme opposte di «lealismo»: da una parte, chi pensava che la sopravvivenza dell'Urss dipendesse dalla prosecuzione e dall'approfondimento delle riforme iniziate da Gorbaciov; dall'altra, chi pensava che la sopravvivenza dipendesse dal ripristino del vecchio centralismo burocratico autoritario e poliziesco. Nell'agosto 1991 si giocò il duello finale tra quelle due forme di «lealismo». Alla vigilia della creazione dell'«Unione delle repubbliche sovrane» - un nuovo patto tra 12 delle 15 repubbliche dell'Urss (i tre Paesi baltici si erano già chiamati fuori), approvato pochi mesi prima dal 70 per cento della popolazione in un referendum - alcuni personaggi di primo piano decisero di mettere in atto il putsch che era in corso di preparazione da ormai più di un anno. Il primo ministro Valentin Pavlov, il vicepresidente Gennadij Janaev, il capo del Kgb Vladimir Krjuckov, il ministro degli Interni Boris Pugo e il ministro della Difesa Dmitrij Jazov fecero arrestare Gorbaciov, allora in vacanza in Crimea, e cercarono di assumere il controllo delle leve dello Stato. Senza però riuscirci: grandi manifestazioni contro il golpe scoppiarono in molte città (a Mosca, fu il presidente della Russia Boris Eltsin a mettersi alla testa della resistenza), e le truppe rifiutarono di sparare sulla folla. Il putsch era fallito. Il giorno dopo, l'Ucraina dichiarava l'indipendenza. Era, di fatto, la fine dell'Urss. Entrambe le forme di «lealismo» uscirono dunque sconfitte da quell'estrema prova di forza. L'esito penoso del conato di putsch dimostrò che l'estremo tentativo di «rendere l'Urss di nuovo grande» non aveva nessuna possibilità di successo; ma, al tempo stesso, dimostrò che neppure il tentativo di salvare l'Urss attraverso le riforme della perestrojka aveva possibilità di riuscire. Deposto per due giorni dai golpisti, Gorbaciov poté tornare a Mosca protetto da chi si apprestava a deporlo definitivamente con altri mezzi, sciogliendo puramente e semplicemente quel che restava del fantasma dell'Unione Sovietica, di cui era l'ancor più fantasmatico presidente. Non fu, come hanno detto molti, la fine di un particolare regime politico; fu un'altra finis Russiae , una delle tante che hanno regolarmente segnato la storia del Paese. La Russia è infatti colpita, più di ogni altro Paese al mondo, dalla maledizione vichiana dei corsi e ricorsi storici: a cicli di espansione seguono ineluttabilmente cicli di contrazione. Contrazione che non si manifesta soltanto nel restringimento dei confini, ma anche nelle condizioni materiali, politiche e morali dell'intero Paese: il collasso del 1917 fu il prezzo pagato alla hybris , la tracotanza espansionistica dell'Ottocento; il collasso del 1991 fu il prezzo pagato alla hybris espansionistica dell'Unione Sovietica. Questa apparente fatalità è il risultato della combinazione di due condizioni specifiche: da una parte, la necessità vitale di espandersi per premunirsi contro i rischi di un'eventuale invasione; dall'altra, l'incapacità strutturale - per mancanza di mezzi - di sostenere a lungo i costi dell'espansione. L'origine di queste due condizioni si perde nella notte dei tempi. Gli storici individuano nelle invasioni dei Cavalieri teutonici e, soprattutto, dell'Orda d'oro mongola, nel XIII secolo, la nascita di quel sentimento permanente di insicurezza che G. Patrick March definisce «paura paranoide di un'invasione». Ma, come pare abbia detto Henry Kissinger, anche i paranoici ogni tanto hanno ragione: è precisamente il caso della Russia, piagata da ricorrenti tentativi di conquista. Tentativi frustrati proprio dalle lunghe e, in definitiva, impercorribili distanze fisiche che si frappongono tra i territori dei suoi invasori e il cuore pulsante del Paese. Spiegava March: «La paura paranoide di un'invasione... ha suscitato [nei russi] una coazione a espandersi a spese dei propri vicini, per timore che questi si possano espandere a spese loro». Il secondo fattore specifico è l'impossibilità di sostenere a lungo i costi dell'espansione. Una delle cause principali del declino e della caduta dei grandi imperi è il loro overstretching , la loro sovraestensione: l'incapacità, cioè, di mantenere sul lungo periodo il controllo di tutti i territori conquistati e di rispettare tutti gli impegni presi. Nel caso particolare della Russia, tale incapacità non si manifesta sul lungo periodo, ma appare subito, al ritmo stesso delle conquiste; l'overstretching , si potrebbe dire, è consustanziale all'esistenza stessa di un impero russo. La ragione è da ricercarsi nella inclemente geografia del Paese, che lo priva di vie di comunicazione naturali all'interno e rende impervie le vie di comunicazione verso l'esterno, data l'assenza di sbocchi aperti su mari navigabili tutto l'anno. Questi handicap geografici, che sono immediatamente handicap economici e diventano infine handicap politici, condannano la Russia a essere tutt' al più una media potenza. Quando pretende di giocare nella superlega delle grandi potenze, è costretta a spendere più di quanto incassi, innescando il meccanismo che, dall'espansione, porterà ineluttabilmente alla contrazione. Questa, in breve, è stata la storia dell'Unione Sovietica a partire dall'alleanza con Hitler nel 1939, e poi con gli Stati Uniti nel 1941, fino al suo schianto nel dicembre del 1991. L'ingordigia con cui Stalin restaurò e poi oltrepassò i confini dell'impero zarista fu pari solo all'incapacità di mantenere quelle conquiste. Mentre gli Stati Uniti potevano permettersi di inondare di capitali la parte di Europa rimasta nelle loro mani, la Russia dava vita a una triste parodia del Piano Marshall (il «Piano Molotov»), che divenne poi il Comecon, un sistema di accordi bilaterali volti a vincolare i Paesi satelliti al commercio con l'asfittica economia russa. Il solo modo in cui l'Urss poté mantenere la propria unità - così come il blocco europeo centro-orientale ottenuto dagli accordi di Yalta - fu l'impiego sistematico della repressione poliziesca e militare. Ma, da che mondo è mondo, la forza bruta non è sufficiente a garantire l'esistenza di un impero, o di uno Stato, o anche solo di un regime; anzi, il ricorso esclusivo alla forza bruta può accelerarne la caduta invece di procrastinarla. È quello che accadde nei convulsi mesi che seguirono il tentato golpe dell'agosto 1991, quando l'Unione Sovietica si dissolse nel nulla. Il 12 dicembre 1991, i presidenti russo Boris Eltsin, ucraino Leonid Kravcuk e bielorusso Stanislau ukevic chiusero a Minsk il capitolo sovietico della storia russa con l'intenzione di aprirne uno nuovo, partendo dal suo cuore slavo. Un progetto che non decollò mai; non perché l'«Occidente» si fosse messo di mezzo (cosa che l'«Occidente» fece, comunque), ma perché la Russia non aveva i mezzi per riuscirci. Nel 2005, Vladimir Putin definì la dissoluzione dell'Urss la «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Anche se il XX secolo non è stato avaro di catastrofi, geopolitiche e umane, di cui sembra inopportuno stabilire una gerarchia, non c'è da stupirsi che uno dei più longevi vod (infallibile leader carismatico) della storia russa lo consideri «il più grande». Fedele al suo ruolo e al suo compito, Putin ha tutto l'interesse a imputare pubblicamente quella catastrofe ai «nemici» del suo Paese. Quell'evento, in realtà, si iscrive perfettamente nella continuità geopolitica della Russia, nella maledizione vichiana che spinge ogni vod emerso da un ciclo di contrazione a spingersi con cieca determinazione in un nuovo - e, in definitiva, nuovamente fatale - ciclo di espansione.  

I 90 anni di Gorbaciov, padre della perestrojka e ultimo leader sovietico. Enrico Franceschini su La Repubblica il 2 marzo 2021. Dopo il crollo dell'Urss, nel '91, tentò di restare in politica, ma quando si ricandidò alla presidenza prese meno dell'1 per cento. Finché la salute glielo ha permesso, ha girato il mondo per conferenze: ora vive nella dacia fuori Mosca che gli concessa dal suo successore Eltsin. Per uno di quegli scherzi del destino che nessuno poteva prevedere, Mikhail Gorbaciov compie 90 anni, un traguardo significativo nella vita di ogni uomo, proprio nel trentesimo anniversario del crollo dell’Unione Sovietica, l’immensa nazione di cui era stato il leader supremo e della cui dissoluzione molti nel suo Paese lo ritengono responsabile. Domani, giorno del compleanno, il suo successore Vladimir Putin gli invierà gli auguri: lo ha sempre trattato con rispetto ed è stato ricambiato dall’uomo della perestrojka, che pur avendolo talvolta criticato non è mai arrivato a definirlo un autocrate, come lo chiamano oggi in Occidente. Ma Putin considera la fine dell’Urss “la più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo” e ha provato a ricostruirne almeno un pezzo, tra l’annessione della Crimea in Ucraina e le manovre per una possibile riunificazione con la Bielorussia: l’attuale capo del Cremlino non ha certo dimenticato che la superpotenza comunista cadde sotto la guida di Gorbaciov. La coincidenza del trentennale del collasso sovietico con le sue novanta candeline dà dunque all’occasione un sapore mesto. Perso il potere nel 1991, Mikhail Sergeevic provò a restare per un po’ in politica, illudendosi di potere avere consensi: una volta si è anche candidato alla presidenza, ottenendo meno dell’1 per cento. Da quel momento si è accontentato di presiedere la fondazione che porta il suo nome e di andare in giro per il mondo per conferenze, finché l’età e la salute glielo hanno concesso: chi scrive, dopo averlo conosciuto a Mosca, lo ha rincontrato a Tel Aviv e a Londra. Nel 1999 ha perso anche la moglie, Raissa, a cui era molto unito e che era stata una “first lady” diversa dalle precedenti, più moderna e volitiva, quanto lui è stato diverso dai leader che lo hanno preceduto: Lenin, Stalin, Krusciov, Breznev, Andropov e Chernenko. Da allora vive alla dacia fuori Mosca conferitagli da Boris Eltsin, il presidente che prese il suo posto al vertice della Russia, e mantenutagli da Putin, confortato dalla figlia Irina. I sovietologi, categoria per un po’ caduta in disuso ma tornata utile, lo hanno chiamato “il riformatore inconsapevole”, sostenendo che il suo tentativo di riformare il comunismo, ossia democratizzarlo con la glasnost, alla lettera “trasparenza”, intesa come libertà di stampa e di pensiero, e con la perestrojka, ovvero la riorganizzazione politica ed economica, provocarono il caos che ha distrutto l’Urss, senza che il fautore di questo cambiamento si rendesse conto delle conseguenze. Sicuramente Gorbaciov fu un riformatore pasticcione, che faceva un passo avanti e un passo indietro, promettendo un giorno “un’economia alla svedese” (ma per farla, ribatteva una barzelletta dell’epoca, servirebbero gli svedesi) e il giorno dopo una svolta conservatrice, come accadde nei mesi prima del golpe d’agosto del ‘91, il putsch dei nostalgici del comunismo duro e puro, che lo tennero prigioniero per tre giorni nella dacia delle vacanze sul Mar Nero. Il colpo di Stato fallì per la resistenza di Eltsin e del popolo, oltre che per l’inconsistenza dei golpisti: ma la disgregazione dell’Unione Sovietica, che era già in pieno corso, divenne a quel punto inarrestabile, sei mesi dopo la bandiera rossa scese dal pennone sul Cremlino e Gorbaciov fu costretto a dimettersi. Credeva di essere accolto come un eroe, al ritorno a Mosca, invece fu trattato come un complice dei golpisti o perlomeno un corresponsabile: era stato lui a metterli nei posti chiave, capo del Kgb, ministro della Difesa, presidente del Soviet Supremo, senza comprendere che si preparavano a tradirlo. Di una cosa, tuttavia, Gorbaciov era sicuramente consapevole: di non voler tornare indietro, verso lo stalinismo nelle cui purghe era finito pure suo nonno contadino, verso la violenza che aveva portato i carri armati sovietici a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. Ci furono spargimenti di sangue anche nella confusa stagione della perestrojka, nel Baltico e nel Caucaso, ma quale che fosse la sua responsabilità in quelle circostanze, Gorbaciov cercò sempre di risolvere le crisi con il dialogo, non con la forza. Ai russi non era simpatico, anche perché astemio: lo avevano ribattezzato il “Segretario Minerale” quando alzò il prezzo della vodka per combattere l’alcolismo. “Eppure, un giorno dovranno riconoscergli i suoi meriti”, ha detto nel Natale scorso Pavel Palazchenko, suo fido interprete di tanti summit con Ronald Reagan. Finora, quei meriti glieli hanno riconosciuti soltanto all’estero, tributandogli il premio Nobel per la pace. Senza di lui, non è chiaro se nel 1989 sarebbe crollato il muro di Berlino e l’Europa orientale avrebbe potuto ritrovare indipendenza da Mosca e democrazia. Fu l’uomo della perestrojka ad aprire le porte della prigione che era stata l’Urss fino alla sua ascesa al potere nel 1985. E chissà, se un giorno conquisteranno la piena democrazia, forse i russi si ricorderanno che Gorbaciov sognava di costruire “una casa comune europea”, coronando l’aspirazione occidentalista avviata dallo zar Pietro il Grande e ricongiungendo finalmente Santa Madre Russia con il continente a cui è legata dalla geografia, sebbene non dalla storia. Ma intanto, compie novant’anni. Avendolo intervistato più volte, negli anni in cui ero corrispondente da Mosca di questo giornale, domani vorrei potergli fare gli auguri anch’io: C dniom rozhdenia, Mikhail Sergeevic!

In "fuga" sul carrello: così i diplomatici russi lasciano la Corea del Nord. L'epopea del gruppo si è conclusa con il terzo segretario Vladislav Sorokin in piedi, sui binari, costretto a spingere il carrello a mano per più di un chilometro. Federico Giuliani - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Hanno lasciato la Corea del Nord a bordo di un vecchio carrello ferroviario. Una piattaforma, per essere più precisi, attivabile dai suoi passeggeri attraverso l'uso di una leva a pompa oppure da persone che la spingono manualmente da dietro. Il viaggio di alcuni familiari dei dipendenti dell'ambasciata russa a Pyongyang è avvenuto così, in condizioni quasi estreme, come documentano le immagini e i video diffusi dal Ministero degli Esteri della Federazione russa. Il viaggio, estenuante e faticoso, è durato oltre 34 ore, dalla capitale Pyongyang a Vladivostok, al confine settentrionale tra Corea del Nord e Russia. L'epopea del gruppo si è conclusa con il terzo segretario Vladislav Sorokin in piedi sui binari, costretto a spingere il carrello a braccia per più di un chilometro. L'immagine è quasi comica: sopra il mezzo di fortuna, si vede la famiglia dell'uomo, formata da moglie e figli, assieme a una discreta quantità di bagagli. D'altronde, quello usato dalla famiglia di Sorokin era forse l'unico modo possibile per lasciare il Paese. Da un anno a questa parte, infatti, per tenere a bada la pandemia di Covid-19, Kim Jong Un ha blindato la Repubblica Popolare Democratica di Corea sia in entrata che in uscita. Ufficialmente, oltre il 38esimo parallelo non vi è traccia di Sars-CoV-2. Per mantenere la situazione sotto controllo, il governo ha deciso di sospendere i voli della compagnia area statale Air Koryo.

Un viaggio bizzarro. Le peripezie degli otto cittadini russi iniziano con un viaggio "in treno". Usiamo le virgolette, perché il treno utilizzato è, come detto, un antiquato carrello ferroviario da dirigere lungo l'altrettanto antiquato sistema ferroviario nordcoreano. Questa parte del viaggio è durata 32 ore. In un secondo momento, la famigliola è salita su un autobus, prima di caricare le valige su un tram ferroviario e spingerlo per il restante tragitto. Secondo quanto riportato dalla Cnn, Sokorin ha dovuto spingere il carretto a mano per circa un chilometro, compresa la parte sopra il ponte sul fiume Tumen. Una volta giunti nella stazione russa di Khasan, i viaggiatori sono stati accolti dai colleghi del Ministero degli Esteri russo. È lo stesso Ministero degli Esteri russo a raccontare con un post su Facebook la bizzarra vicenda capitata a Sokorin. "Il 25 febbraio, 8 dipendenti dell’Ambasciata russa nella Repubblica Popolare Democratica di Corea e i loro familiari sono tornati in patria. Dato che le frontiere sono chiuse da oltre un anno e che il traffico passeggeri è stato fermato – si legge sul social - hanno dovuto affrontare un lungo e difficile viaggio per tornare a casa". "Prima 32 ore di treno da Pyongyang verso Nord, poi altre due ore di autobus fino al confine e finalmente, l’attraversamento verso il versante russo. Per farlo – ha quindi concluso il post - hanno dovuto preparare un carrello, metterlo sui binari, caricarci sopra bagagli e bambini e andare. L’unico uomo del veicolo non semovente, Vladislav Sorokin, ha fatto da motore, cioè ha dovuto spingere a braccia il carrello lungo i binari per più di un chilometro. La parte più difficile è stata il ponte sul fiume Tumannaya".

Isolamento e paura del virus. Al di là del grottesco viaggio, la notizia ci offre almeno due spunti di riflessione. Il primo: la Corea del Nord ha preso sul serio la minaccia sanitaria rappresentata dal virus e, sapendo di non poter contare su un sistema sanitario tale da poter fronteggiare gli effetti del Sars-CoV-2, ha pensato bene di staccare la spina con il resto del mondo. Isolarsi per scongiurare ogni forma di contagio. Al momento, a quanto pare, la mossa di Kim sembrerebbe aver funzionato (il condizionale è tuttavia d'obbligo). Arriviamo alla seconda considerazione. La partenza della famiglia Sorokin indica che la maggior parte dei pochi cittadini stranieri presenti in Corea del Nord sta per lasciare o ha già lasciato il Paese. Il motivo è semplice: nessuno vuole rischiare di restar bloccato, lontano da casa, per via dei rigidissimi controlli predisposti da Pyongyang lungo le frontiere.

Il cimitero dei sottomarini nucleari russi minaccia il mondo. Davide Bartoccini su Inside Over il 22 gennaio 2021. Nella acque gelide che bagnano gli oblast più remoti delle sconfinata Russia, il cimitero dei sottomarini nucleari che hanno solcato gli oceani nella Guerra Fredda, a caccia di sottomarini e portaerei nemiche, minaccia di scatenare un disastro ecologico dalle conseguenza insanabili con l’equivalente di “sei Hiroshima e mezzo” di elementi radioattivi. Una sorta di Chernobyl sommersa che incombe sul Cremlino, costretto a fare i conti con uno dei segreti indicibili dell’epoca sovietica: lo smaltimento a basso costo dei rifiuti nucleari tra corsa agli armamenti per conquistare il mondo, e le conseguenze del crollo inesorabile del sogno comunista e del suo sistema economico. È solo questione di tempo, prima che le paratie stagne dei sottomarini nucleari mai smantellati abbandonati sui fondali oceanici, come anche i container nei quali sono stati affidanti al dimenticatoio delle profondità marine i rettori nucleari che li alimentavano, vengano completamente corrosi dalla salsedine e penetrati dall’effetto del tempo; costringendoli a rilasciare nel Mare di Barents e nel Mare di Kara, una bollente nube radioattiva sprigionata dalle barre di uranio intatte che potrebbero contaminare l’intero ecosistema marino; avvelenando la flora marina, inibendo intere zone di pesca indispensabili per la popolazione e mettendo a rischio non solo l’importante esplorazione petrolifera condotta da Mosca: ma anche le rotte artiche che sono già oggetto di feroci scontri diplomatici a livello internazionale. Una vera e propria “bomba ad orologeria” nascosta sui fondali che si affacciano sull’Artico. Composta da “migliaia di tonnellate di materiale nucleare, pari a quasi sei volte e mezzo la radiazione rilasciata a Hiroshima”. Scaricate nell’oceano per ordine delle vecchie nomenclature comuniste che al tempo, forse prive delle adeguate conoscenze o forse della volontà di impegnare maggiori risorse per stoccarlo, decisero di creare la più pericolosa discarica nucleare sottomarina del pianeta. Una discarica che comprende almeno 14 reattori e due sottomarini interi. Stiamo parlando del K-27: prototipo sperimentale della classe November (secondo il codice identificativo Nato) – primo tipo di sottomarini a propulsione nucleare sovietici – che giace intero e abbandonato a 50 metri di profondità nel mare di Kara con i suoi due reattori raffreddati a metallo liquido. Dopo un grave incidente avvenuto nel 1968 uccise nove membri dell’equipaggio – contaminando gli altri ottantatré per l’esposizione alle radiazioni, il relitto definito già inservibile venne affondato al largo della costa nel 1981, ancora carico di carburante e di altri rifiuti. Lo smantellamento allora fu ritenuto troppo pericoloso e troppo costoso. A distanza di quarant’anni le conseguenze sembrano essere più invasive. E del del K-159: anch’esso sottomarino della classe November – progettati appositamente per condurre degli attacchi atomici sulle città costiere americane – che fu il triste protagonista di un’incidete nel 1965, ma che rimase tuttavia in servizio fino al 1989. Abbandonato in un deposito per oltre quattordici anni, venne affondato da una tempesta del 2003; quando lo scafo già duramente provato dai lunghi anni di servizio nelle profondità oceaniche, finì sul fonda del mare di Barents. Anche in questo caso persero o la vita nove membri dell’equipaggio. Intrappolati nel relitto che si trova ad una profondità di circa 250 metri, con i suoi reattori nucleari intatti e non sigillati. A questi due relitti, che attendono il loro destino come fantasmi della Guerra Fredda rilegati alle gelide profondità marine, si sommano materiali stoccati e affondati secondo le procedure – ma soprattutto secondo le disponibilità economiche – dell’epoca di coloro che assistettero impotenti al crollo definitivo dell’Unione Sovietica. La temibile superpotenza costretta a disfarsi delle più obsolete unità che avevano composto la più grande flotta di sottomarini nucleari mai varata per combattere una guerra che non sarebbe mai stata combattuta. Si tratterebbe, secondo le informazioni ufficiali, di almeno 14 reattori nucleari appartenuti ad altrettanti sottomarini in linea con Flotta del Nord e con quella del Baltico, sigillati e scaricati sul fondale senza che venisse prima rimosso il combustibile radioattivo. Come oltre 17mila container di materiale nucleare, colato a picco nella pancia ormai provata dalla corrosione di diciannove navi da trasporto che andavano radiate. E questo è il punto alla data odierna. Poiché il cimitero dei sottomarini potrebbe anche accogliere nuovi relitti – sebbene smantellati e stoccati secondo procedure adeguate. Questo perché la flotta russa prevede di ampliarsi per tornare ai vecchi fasti, considerando di dismettere e sostituire le unità più obsolete a vantaggio di nuovi e sofisticati sottomarini che sono già in cantiere. È fatto noto, infatti, che i sottomarini, dato il ruolo strategico che non hanno mai perso nelle guerre contemporanee, sono oggetto di continua ricerca e sviluppo per migliorarne le capacità; fornendo alle super potenze tecnologie sempre più letali e sofisticate. Tecnologie queste, che, per quanto sofisticate e avveniristiche (anche nel passato recente), sono costrette ad operare per 20-30 anni nelle inospitali profondità oceaniche che logorano con la pressione, le temperature e le lunghe missioni, i macchinari e gli stessi reattori nucleari che alimentano i vascelli. Lo stress, la corrosione portata dal mare e dal tempo, l’usura di componendi e supporti che finisce per annullare l’isolamento acustico rendendo il sottomarino “udibile” ai sonar – quindi più facilmente individuabile dal “nemico” -, finisce per costringere il Cremlino come il Pentagono ad ordinare nuove unità. Lasciando al loro triste e pericoloso destino nel unità varata negli anni ’80 e ’90. Sottomarini per la stragrande maggioranza alimentati da combustibile nucleare. Secondo il parere e le verifiche condotte dagli esperti, tra i quali viene annoverato anche il report di una no-profit norvegese che nel 2012 ha inviato un team di sommozzatori nel mare di Kara a visionare lo stato del K-27, i segni di deterioramento dello scafo di quest’ultimo sono già evidenti, e potrebbero cedere entro il 2032. “La violazione delle barriere protettive e il rilevamento e la diffusione di radionuclidi nell’acqua di mare potrebbero portare a restrizioni di pesca”, ha dichiarato il capo della spedizione congiunta che comprendeva anche personale russo. Queste criticità potrebbero, sempre secondo le analisi condotte dal team, “danneggiare seriamente i piani per lo sviluppo della rotta del Mare del Nord” – “Gli armatori potrebbero rifiutarsi di percorrerla”, afferma l’esperto; e non è un segreto l’importanza che le rotte artiche stanno assumendo; come la diatriba diplomatica che potrebbe sorgere ancora prima dello scontro che il Cremlino, interessato alle enormi risorse economiche che la regione artica promette, minaccia di essere pronto ad intraprendere per proteggere la propria giurisdizione esclusiva. Sebbene le prospettive non siano rosee, dal canto suo Mosca – che ha abbandonato da almeno un decennio il suo status di potenza misteriosa e insensibile ai problemi globali – ha annunciato di aver già sviluppato un piano di recupero per sventare il disastro ecologico. Questo prevedere il sollevamento dalle profondità marine dei relitti abbandonati del K-27 e del K-159, insieme al recupero ad altri quattro compartimenti di reattori nucleari identificati come potenzialmente pericolosi che sono stati affondati nell’Artico. Tale piano prevede un investimento quantificato in circa 330 milioni di dollari, e la costruzione di una nave apposita che inizierà in questo 2021 e terminerà nel 2026. Con la speranza che fino ad allora, il cimitero dei sottomarini dell’Unione Sovietica custodisca il suo veleno radioattivo.

Russia, rinascere tra i ghiacci. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 20 gennaio 2021. Similmente alla leggendaria araba fenice, la cui anima viene liberata da un fuoco che si nutre del caldo ustionante, i russi, eredi di Rurik e di San Vladimiro, trovano nel freddo glaciale del loro gelido inverno il rimedio ai mali spirituali accumulati durante l’anno, immergendosi ogni 19 gennaio in fonti battesimali (Iordan’) suggestivamente scavate nella neve. Il 19 gennaio è, per la Chiesa Ortodossa Russa e per tutte le Chiese ortodosse che basano la loro liturgia sul calendario giuliano, il giorno in cui si celebra l’Epifania. Le differenze fra cristianità occidentale ed orientale nei riguardi di questa solennità non si fermano alle variazioni di data, a cambiare, infatti, è anche il significato: non la manifestazione del Divino all’umanità, ma il battesimo di Gesù nelle acque del Giordano da parte di Giovanni Battista.

Uno dei momenti più attesi dell’anno. Il 19 gennaio di ogni anno i fedeli ortodossi che seguono il calendario giuliano commemorano il battesimo di Gesù. La solennità che in Occidente è conosciuta come Epifania, in Russia viene chiamata Kreshenie, ovvero battesimo, ed è accompagnata da un costume malioso, antico e che ha resistito a quasi un ottantennio di repressione da parte sovietica: i tre bagni negli Iordan’. Iordan’ è il nome dato alle vasche a forma di croce in cui si immergono i fedeli dell’ortodossia russa a partire dalla sera della vigilia dell’Epifania; un evidente ed esplicito richiamo al Giordano, il fiume santo nelle cui acque l’enigmatico asceta Giovanni Battista battezzò Gesù e che da duemila anni è meta di pellegrinaggi da parte di peccatori redenti e aspiranti cristiani. Nel Giordano, e quindi anche negli Iordan, l’Uomo rinasce a nuova vita – una vita in Cristo – e, secondo la leggenda, potrebbe beneficiare di potenti effetti taumaturgici. Realtà vivida per alcuni, superstizione per altri, fatto sta che le grandi famiglie della nobiltà europea, dai Windsor ai Savoia, battezzano i loro figli e le loro figlie con l’acqua proveniente dal Giordano da tempi immemori; un’usanza sopravvissuta alla secolarizzazione e alla modernità. I fedeli ortodossi russi entrano negli Iordan nella speranza e nell’aspettativa di ottenere che la loro anima venga ripulita dal peccato, o meglio che venga rigenerata, seguendo una tradizione madida di misticismo ed ugualmente sentita e partecipata tanto dal volgo quanto dall’aristocrazia sin dalle origini – tracciate nella prima parte del sedicesimo secolo. L’immersione segue un cerimoniale semplice ma preciso, indicativo e testimone di quanto sia importante il bagno rituale: il fedele entra nella fonte e prima di inabissarsi deve fare il segno della croce, un comportamento ripetuto per un totale di tre volte – tre, la Trinità. Le fonti battesimali vengono realizzate in maniera congiunta da autorità religiose e civili, con le prime incaricate della benedizione delle acque e le ultime adibite alla vigilanza e alla sicurezza dei siti (che, preferibilmente, dovrebbero essere muniti di scalette per facilitare discesa e salita) e dei partecipanti. Sono i numeri a rendere fondamentale la presenza di controlli: l’anno scorso circa 125mila persone si sono battezzate nelle 46 vasche “ufficiali” allestite a Mosca, una cifra oltre le attese che, quest’anno, ha spinto le autorità ad installarne più di 220 nella consapevolezza che la pandemia non avrebbe ostacolato la ricerca di purificazione dei russi.

Patria e misticismo. Siamo a Kiev, nel 1956, e il giornalista francese Dominique Lapierre, dopo aver assistito alla celebrazione di un matrimonio religioso presso la cattedrale di san Vladimiro e compreso quanto sia frequente che nelle case di quasi ogni famiglia vengano custodite (e nascoste) gelosamente Bibbie, icone e santini, emette la propria sentenza sulla politica di ateizzazione della società intrapresa dalla dirigenza sovietica sin dai tempi di Lenin e Stalin: ha fallito. Scriveva Lapierre in “C’era una volta l’Urss“, resoconto biografico di un viaggio in macchina epico da Mosca alle alture del Caucaso, che “nessun regime potrà mai cambiare la natura profonda della stupenda sensibilità russa”. Quella sensibilità, di cui il giornalista era stato testimone diretto, aveva molto a che fare con il forte attaccamento alla fede degli antenati – un sentimento radicato ad una tale profondità che i sovietici mai avrebbero potuto estirparlo totalmente. Lapierre aveva ragione: l’esperimento sovietico è collassato sotto il peso delle contraddizioni e la Russia, superato il momento di transizione degli anni ’90, si è riappropriata dell’antico ruolo di Terza Roma. L’importanza folcloristica del rito dei tre bagni è pienamente comprensibile soltanto attraverso una visione di insieme e indossando occhiali da lettura che non siano occidentalo-centrici. Esso è, infatti, un atto con il quale si manifestano simultaneamente fede e fedeltà (all’ideale patrio), da qui la partecipazione di credenti, non credenti, personaggi pubblici, politici e naturalmente di Vladimir Putin, il padre fondatore della nuova Russia. “È la sua tradizione, e lui non tradisce le tradizioni”; questo è stato il breve ma eloquente commento di Dmitrij Peskov, il portavoce della presidenza, in merito la decisione di Putin di eseguire il rito dei tre bagni anche quest’anno, nonostante l’età oramai avanzata (68 anni) e la temperatura rigida – venti gradi sotto lo zero al momento del battesimo. Il rito dei tre bagni nel Giordano ricostruito in miniatura, esattamente come il Natale di Lipno, se letto e decifrato nel modo giusto, ossia senza pregiudizi e preconcetti, può rivelarsi estremamente utile nel processo di analisi e comprensione della complessa identità della Russia, uno stato-civiltà millenario la cui anima giacerà eternamente – si scriveva sulle nostre colonne – fra Lipno e Velikij Novgorod, e che può essere percepita e toccata con mano in rari momenti dell’anno, come in occasione del Kreshenie. 

Giuseppe D'Amato per il Messaggero il 7 febbraio 2021. Da mesi la voce gira incontrollata: il presidente russo ha una figlia segreta. Vladimir Putin come Francois Mitterand, quindi? L'ufficio stampa del Cremlino nega decisamente e non sa nemmeno chi abbia messo in giro questa storia, che è stata ripresa anche dall'oppositore Aleksej Navalnyj nel recente video dal titolo Il Palazzo di Putin (valore della tenuta sul mar Nero stimata in 1,3 miliardi di dollari), visto da milioni di russi in Internet. Un video, è bene ricordarlo, che è uscito qualche giorno dopo l'arresto del blogger il 17 gennaio scorso al ritorno in Patria dalle cure in Germania per il noto avvelenamento e che ha suscitato sentimenti contrastanti in un Paese in grave crisi economica. È servito anche a lanciare le due giornate di manifestazioni di protesta non autorizzate del 23 e 31 gennaio.

I DOCUMENTI. Chi è, pertanto, la 17enne Elizaveta Krivonogikh? La domanda se la pongono in tanti, non solo in Russia, ma anche in Inghilterra, dove la giovane avrebbe soggiornato. I primi ad accorgersi dell'incredibile somiglianza della ricca ragazza con il capo del Cremlino sono stati nello scorso novembre i reporter di sito investigativo russo Proekt. Sua madre Svetlana Krivonogikh è la beneficiaria di una compagnia che detiene un certo quantitativo di azioni della banca Rossija, sotto sanzioni da parte dell'Occidente dopo la crisi ucraina del 2014 per i suoi legami con l'élite politica federale. Proekt stima che il valore totale delle proprietà conosciute e dei suoi asset sia di circa 100 milioni di dollari. Il suo yacht personale - di fabbricazione italiana lungo 37 metri - l'Al'doga, è stato pure scortato dalla Marina russa. Proekt ha ottenuto copie di alcuni documenti non specificati - probabilmente il certificato di nascita di Elizaveta - in cui non è indicato il cognome del padre, ma solo il suo nome, ossia Vladimirovna, di Vladimir. Successive prove di riconoscimento facciale al computer hanno evidenziato la somiglianza tra il presidente e la ragazza al 70,44%. In alcune foto tale percentuale arriva al 75%. Ma allora chi è veramente Svetlana Krivonogikh? Classe 1975, sanpietroburghese, di professione cameriera, ha vissuto a lungo con la madre in un semplice appartamento della capitale baltica. Poi si sarebbe innamorata di un benefattore, così avrebbe raccontato a dei conoscenti, e da allora la sua vita è cambiata. La donna si è trasferita in un quartiere residenziale, dove vivono le élite dell'ex Leningrado. Secondo i reporter di Proekt la possibile amicizia con il benefattore è iniziata a metà degli anni Novanta. In quel periodo Putin ha ricoperto vari incarichi al Municipio di San Pietroburgo, prima di trasferirsi a lavorare all'Amministrazione presidenziale a Mosca. Dal 1983 il capo del Cremlino è stato sposato con Liudmila Shkrebneva, che gli ha regalato due figlie Marija ed Ekaterina (sconosciute al grande pubblico, non vi sono loro fotografie; quando erano bambine ospiti per un periodo di vacanza nella villa di Silvio Berlusconi in Sardegna) - e da cui ha divorziato nel 2013. Sempre secondo Proekt la storia tra Svetlana ed il benefattore sarebbe finita una decina di anni fa. Attualmente, come ha ricordato nel suo video Navalnyj, Putin sarebbe legato sentimentalmente all'ex ginnasta Alina Kabaeva, ma non vi sono conferme ufficiali. La misteriosa Elizaveta è nata nel marzo del 2003. Come tutte le ragazze della sua età ha postato sui social media numerose fotografie con il suo viso ben in vista, ma poi quasi tutte sarebbero state cancellate. La giovane è decisamente bella, magra, bionda. La classica bellezza slava. Chiaramente le piace la moda ed ha postato le foto di numerosi articoli. La stampa britannica è riuscita ad identificare una persona che è in sua compagnia in una clip su TikTok. Per il quotidiano Daily Mail è il 20enne Robert Skigin, già studente a Londra, nipote di un noto uomo d'affari di San Pietroburgo, che alla sua morte ha lasciato in eredità 600 milioni di euro.

Putin e la reggia di Gelendzhik. Irene Soave per "corriere.it" il 20 gennaio 2021.  Un palazzo principesco da oltre 14 mila metri quadri sulle rive del Mar Nero, circondato da possedimenti grandi «come 39 volte il Principato di Monaco». È questo, secondo Alexey Navalny, il segreto dei segreti della Russia di oggi. Perché questa specie di Versailles apparterrebbe, di fatto, a Vladimir Putin. Il principe degli oppositori sfida frontalmente Putin dalla cella con un’inchiesta sulla genesi e la gestione odierna del palazzo, che sarebbe costato oltre 1,1 miliardi di euro e sarebbe stato «regalato» al presidente come una tangente. «È la struttura più segreta e sorvegliata della Russia, senza esagerare», scrive Navalny, che all’inchiesta ha dedicato un intero sito, palace.navalny.com. Sul sito sono pubblicate decine di foto satellitari della cittadella, prese dallo staff dell’oppositore «con molta fatica». Navalny descrive la villa così: «Questa non è una casa di campagna, non è una dacia, non è una residenza: è un’intera città. O piuttosto un regno. Ha recinzioni inespugnabili, un porto, le proprie guardie, una chiesa, un proprio controllo degli accessi, una no-fly zone e persino un posto di controllo di frontiera. È direttamente uno Stato separato all’interno della Russia. E in questo Stato c’è un unico e insostituibile re: Putin».

14 mila metri quadri, 7.500 ettari di parco e la «bufala» del proprietario. Secondo Navalny il complesso — circondando da 7.500 ettari di parco gestiti dall’FSB, di cui Putin è stato direttore, così da evitare sguardi indiscreti — è dotato di palazzetto da hockey, un anfiteatro, una casina per il tè collegata al complesso principale da un ponte di 80 metri, nonché un accesso sotterraneo al mare che all’esigenza può diventare un bunker. Il palazzo in sé, di tre piani, è dotato dei comfort più lussuosi, interamente arredato da ditte italiane. In più, nel parco, ci sono vigneti e persino un allevamento di ostriche. Questa storia, scrive Navalny, non è nuova: nel 2011 un ex del circolo stretto putiniano, dopo essere fuggito a Tallin, aveva spifferato tutto e l’esistenza del palazzo era stata rivelata al mondo. La spiegazione diffusa dal Cremlino era stata che Putin aveva sì commissionato la costruzione di questa villa, ma poi l’aveva interrotta ed era stato un uomo d’affari a comprarla. Tutte sciocchezze, scrive Navalny. La sua inchiesta segue dunque per filo e per segno il movimento dei quattrini, elenca i prestanome incaricati di detenere le chiavi di accesso e ne descrive le affiliazioni con Putin. Formalmente il palazzo apparterrebbe all’uomo d’affari Alexander Ponomarenko. Ma come dice Navalny, «nessun imprenditore ha una no-fly zone sulla sua villa» o vanta la guardia presidenziale come security.

La mappa e la sicurezza. La villa di Putin si trova a Gelendzhik, verso la Crimea. Sarebbe — con 17.691 metri quadri di estensione — il più grande edificio residenziale di tutta la Russia. È stata costruita per non essere praticamente avvicinabile da terra, e con difficoltà per mare e in elicottero. Chi arriva deve lasciare il cellulare, e lo accettano tutte le maestranze della villa. Ci sono per auto barche e elicotteri decine di checkpoint e chiunque arrivi viene perquisito. Le immagini di questo sito sono tutte provenienti dal satellite. «Tutti ci dicevano che la villa era impossibile da filmare. Noi ci siamo riusciti al terzo tentativo», scrive Navalny. Cosa hanno visto: lavori di rifacimento estesi. Dopo 6 anni di lavoro la villa era pronta. Ma piena di muffa. E così «si è voluto rifare tutto. Buttati via marmi, mobili, preziosi». L’immagine di un Putin satrapo lontano dalla povertà del suo popolo è sempre più chiara.

L’eliporto e il palazzetto da hockey. Le immagini mostrano una pista per elicotteri e una collinetta verde di 56 metri per 26: dentro c’è un campo da hockey su ghiaccio con pista olimpica.

L’anfiteatro. Ancora in costruzione, nel parco della villa.

Il ponte di 80 metri verso la casina del té. Un ponte nel verde verso una casina, meta di passeggiate.

I 7.500 ettari di parco di proprietà dei servizi segreti. La villa e le sue pertinenze, circa 68 ettari, sono incastonate in 7.500 ettari sui quali c’è no-fly zone e vige un divieto di accesso dal mare. Questo appezzamento di terra è di proprietà del Fsb, il servizio di sicurezza russo. Perché, se non per scopi di protezione d un’altissima carica, scrive Navalny, è impossibile accedere a quest’area se è di un’agenzia pubblica?

La piscina a piano terra. Il piano terra è dedicato al relax, scrive Navalny. Spa, massaggi, piscine, saune, hammam. Le foto sul sito sono molte e addirittura si possono scaricare come sfondi per le proprie stories Instagram.

Un teatro al piano terra. Avere un teatro dentro il palazzo era prerogativa degli zar: Putin non è da meno. C’è anche una discoteca. Le foto dell’interno del palazzo divulgate da Navalny sono foto che circolavano nel 2011, ai tempi della prima costruzione della residenza, prima cioè dei lavori in corso ora.

La spa. Saune e Jacuzzi — le sale da bagno srebbero però devastate dalla muffa, scrive Navalny, e in completo rifacimento.

Saloni e mobili in stile italiani. «Forzando molto il nostro senso estetico», ironizza l’oppositore, «abbiamo ricostruito tutti gli ambienti con tanto di decorazioni e mobilio». I mobili più preziosi, tutti rigorosamente in stile, sono italiani, di due marchi: Pozzoli e Citterio Atena. La villa conterrebbe 47 divani, di cui uno in cuoio da due milioni di rubli.

La chiesa comprata in Grecia. Nel parco della villa c’è poi una chiesa ortodossa; comprata in Grecia e portata in Russia a pezzi, è stata riassemblata negli ultimi anni.

Elisa Messina per "corriere.it" il 21 gennaio 2021. La video-inchiesta di Alexey Navalny sul palazzo segreto di Vladimir Putin da oltre 1,1 miliardi di euro sul Mar Nero è stata vista da oltre 40 milioni di utenti in meno di 48 ore. Lo fa sapere la portavoce dell’oppositore russo, Kira Yarmish, pubblicando su Twitter uno screenshot della pagina sui dati di YouTube. Nell’inchiesta, pubblicata creando un sito ad hoc (palace.navalny), Navalny, che è stato arrestato appena ritornato in Russia il 17 gennaio scorso, assieme alla sua organizzazione, l’Anti-Corruption Foundation (FBK l’acronimo russo), fa una dettagliatissima descrizione del lusso esagerato e costoso che caratterizzano il gigantesco palazzo (17 mila metri quadrati) e il parco annesso (68 ettari). Ma sono soprattutto le immagini degli interni (riprodotte digitalmente grazie a rendering e progetti) a lasciare senza parole: super piscina, saloni e sale da pranzo, sala da gioco con tavolo verde, teatro, cinema, palestra, molte camere da letto tra cui spicca una, la più grande, da oltre 76 metri quadrati (c’è un close-up della stanza anche dalla mappa del palazzo) con un super letto a baldacchino e le tende di tulle bianco. Colpisce anche la presenza di una sala night-club con velluti rossi alle pareti e divanetti (made in Italy) che circondano un palco con un palo da lap-dance al centro. Luogo di intrattenimento serale per ospiti di rilievo prevalentemente maschili. Nel descrivere questo “salotto privato” Navalny non risparmia un certo sarcasmo: «Quando abbiamo visto il progetto della stanza ci siamo chiesti a cosa servisse il palo, forse era un campo di addestramento per vigili del fuoco». Sala night club, grande letto a baldacchino in stile imperiale. Inevitabile, a questo punto, ritornare con la memoria al tempo degli incontri tra il presidente russo e l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e alle cronache di quel periodo, quando si faceva riferimento al «lettone con baldacchino e tende bianche» che Putin avrebbe donato all’amico italiano. Così dichiarò Patrizia D’Addario che in quel letto, a Palazzo Grazioli, nel novembre 2008, avrebbe trascorso un‘intera notte in compagnia del premier. Come fanno parte delle cronache del tempo anche le visite di Vladimir Putin a Villa Certosa, residenza sarda del fondatore di Forza Italia, e gli apprezzamenti che il presidente russo non risparmiava all’ex premier per la bellezza della dimora, del suo parco e delle sue attrazioni. Potrebbe aver preso ispirazione per la sua villa sul Mar Nero. Di camere da letto lussuose nel piano nobile del palazzo-reggia che Putin, secondo Navalny, avrebbe realizzato con fondi illeciti, ce ne sono altre 10, anche se una sola ha le dimensioni e lo sfarzo che si vede nell’immagine postata sul sito. Attigua alla stanza del lettone, una sala da bagno-spa (sarebbe riduttivo chiamarlo solo bagno) in marmo bianco con poltrone di broccato e un’enorme vasca sormontata (pure qui) da un baldacchino. Stando alla descrizione di Navalny ci sarebbero due spa e un hammam al piano. Molti gli arredi realizzati in Italia: solo di divani se ne contano almeno 47. E made in Italy sarebbe anche uno scopino per il wc da 700 euro e un porta carta igienica da mille euro. Tra le esagerazioni della villa e della sua tenuta nel report si parla anche di vasti vigneti in cui la musica classica risuona 24ore su 24 perché aiuterebbe la maturazione dell’uva. Lo confermano ai reporter di Navalny i viticoltori della zona che avrebbero visitato la tenuta. Sempre secondo il racconto degli attivisti-reporter del FBK la viticoltura sarebbe «l’hobby molto costoso di Putin», perché al presidente russo piace offre il vino qui prodotto agli ospiti, stando a quanto rivelano i menù dei pranzi qui organizzati. Navalny pubblica anche la pianta dei vari piani del palazzo dettagliando la dislocazione dei vari ambienti: sale, salette, vestiboli, sale da pranzo, sale per riunioni. «Questo è come uno stato all’interno di uno stato in cui governa uno zar inamovibile - dice Navalny nel documentario - È costruito in modo che nessuno possa raggiungerlo via terra, mare o aria, a migliaia di persone che ci lavorano è vietato portare anche un semplice cellulare con fotocamera». In palazzo arredato con uno stile che rimanda da una parte allo sfarzo del palazzo degli zar a San Pietroburgo e dall’altra al kitch lussuoso dei casinò di Las Vegas non poteva mancare una vera sala da gioco: enormi lampadari di cristallo sopra tavoli verdi. Una parte della descrizioni di Navalny è dedicata alle spese per la costosa mobilia e fa l’esempio di un tavolino realizzato da un’azienda italiana del valore di oltre 50mila euro e i divani da circa 20mila euro ciascuno. Dietro la realizzazione di questa reggia ci sarebbe un complesso sistema di finanziamenti illeciti che Navany spiega nel video e documenta con grafici. L’ufficio del presidente russo nega ogni cosa. Ufficialmente, Putin possiede una villa, ben più piccola, solo a Sochi, dove si erano tenute le Olimpiadi Invernali.

Paolo G. Brera per “La Repubblica” il 25 gennaio 2021. Parla Cirillo, architetto del palazzo sul Mar Nero al centro dell'inchiesta di Navalnyj di Paolo G. Brera «Quel palazzo è un'eccellenza italiana, e ne sono orgoglioso». Lanfranco Cirillo, 61 anni, l'architetto bresciano che secondo un'inchiesta della Fondazione anti-corruzione di Navalnyj ha costruito la villa faraonica «di Putin» sul mar Nero, arredata con mobili delle più esclusive aziende italiane e ispirata a Villa Certosa di Berlusconi, è in partenza per l'Africa: «Vado per la mia fondazione sul clima». Da qualche anno vive a Dubai: «Combatto per la difesa degli Oceani, ho finanziato laboratori scientifici al Polo. Facevo una vita da matti, poi un giorno arrivi a casa e trovi tua figlia con metastasi dappertutto. Ho detto basta, me ne vado. Hanno cercato di trattenermi, C'era anche il capo della sicurezza del Cremlino. Ho detto: se non capite cosa sia la famiglia non mi interessa più lavorare con voi».

Per la villa sul mar Nero vi siete ispirati a Villa Certosa?

«Ma no, sono molto diverse per dimensioni e stile. Villa Certosa è francese mediterraneo, il palazzo di Gelendzhik neoclassico. Solo l'anfiteatro può ricordare Villa Certosa. Ma l'uscita a mare l'abbiamo fatta prima noi! E la pole dance è un'invenzione: nella ricostruzione le pareti sono di colore diverso e le finiture non corrispondono».

È stato Putin a volere il palazzo fatto così? Lei con chi trattava?

«Io non ho fatto la casa per il presidente. Ero commissionato da una società moscovita, Stroi Gas Consulting Ltd. Avevo altri interlocutori e contratto regolare, e mi hanno pagato. Putin non l'ho mai incontrato lì, e non ho mai discusso con lui di quel progetto».

È stato pagato con fondi destinati alla sanità?

«A quanto so la società medicale a cui fanno riferimento è privata, non vedo illeciti. Non faccio politica né il finanziere, non ho informazioni sulla provenienza dei soldi: le persone che ne discutono fanno guerra tra loro».

Nelle intercettazioni c'è anche lei e la sua società Medea.

«Dico che devono pagare i mobili che ho ordinato. Medea non è mia, penso fosse una società ponte per far arrivare i soldi in Italia. Tutto legale, sono cittadino italiano».

E russo.

«Sì, un onore concessomi da Putin. Se avessi fatto cose illegali la giustizia italiana me lo avrebbe contestato, no? Ho fatto il mio mestiere, portando l'immagine del nostro Paese in Russia al più alto livello».

Navalnyj dice che Putin comprò il suo silenzio con una delle 4 ville nelle vicinanze. È vero?

«Nessuno mi ha mai regalato nulla. Le case di cui parla le ho disegnate ma non sono mai state mie. Villette a schiera di 400 mq l'una con entrata e portico, 3 camere, soggiorno, 4 terrazze, tre bagni e una camera al piano di sopra. Belle, ma non regge. Sono andate a persone vicine a Putin, e sono partite le polemiche».

Putin era contento del palazzo? Ci va, l'ha venduto?

«Non ne ho idea, ma la casa è molto bella: abbiamo portato centinaia di camion dall'Italia dando lavoro a aziende, falegnami, decoratori, parchettisti. Ha 90 colonne, marmi spettacolari, piscina e Spa; un home theatre molto grande, passeggiata e parco con migliaia di cipressi e piante aromatiche italiane. Ha 12 stanze da letto, un'orangerie di 800 mq, serre per le piante d'inverno, l'anfiteatro in travertino romano... Ne sono orgoglioso».

La villa di Putin a sua insaputa.  Michele Serra su Espresso il 31/1/2021. Fa molto discutere la favolosa villa di Putin sul Mar Nero, così grande che dall’ala Est all’ala Ovest cambia il fuso orario. Lui, come strategia difensiva, ha adottato la rinomata Linea Scajola, ormai canonizzata nei testi giuridici di tutto il mondo: «La villa è stata costruita a mia insaputa». Le illazioni Nel frattempo si cerca di fare chiarezza sulle informazioni diffuse dall’opposizione russa (che da qualche anno si divide in due principali organizzazioni politiche: Partito dei Detenuti, Partito degli Imputati in attesa di giudizio). È vero, per esempio, che la dimora dispone di un campo da hockey sotterraneo? Il Cremlino smentisce con sdegno quella che in un comunicato viene definita «la classica illazione malevola per screditare il governo»: il campo di hockey si trova infatti al terzo piano. Quanto all’allevamento di ostriche, agli scopini da cesso da 700 euro, ai portarotolo di carta igienica da mille euro l’uno, si tratta molto semplicemente di regali di Silvio Berlusconi che sta cambiando gli arredi di Villa Certosa. Lo stile Critici d’arte e studiosi di estetica, in tutto il mondo, stanno cercando da molti anni di codificare lo stile Berlusconi-Putin. L’orso impagliato in ogni stanza da letto (sostituito da un orso vivo per gli ospiti più prestigiosi) è la variante russa, ma l’estetica italiana rimane dominante. Non per caso il progettista della villa di cui tanto si parla è un italiano, presentato a Putin da Toto Cutugno. L’ispirazione è neoclassica: colonnati dappertutto, anche nei bagni, dove i capitelli corinzi fungono anche da portasciugamani. I letti girevoli con baldacchino, i bidet con idromassaggio, il posto-auto accanto al letto, il comodino abbastanza capiente da potervi riporre una escort, sono tutte soluzioni di arredamento già presenti nelle principali dimore di Berlusconi. È un modello che tutto il mondo ci invidia: lo stesso Trump, per rinfrescare gli arredi della Casa Bianca, si è ispirato a Rete Quattro. La politica Il dibattito politico, in Russia, verte soprattutto su una domanda: visto come sono andate le cose, non valeva la pena tenerci lo zar? La famiglia Romanov aveva lo stesso potere di Putin, ma un tenore di vita molto meno costoso. Quanto agli aristocratici, rispetto agli attuali oligarchi almeno sapevano stare a tavola senza soffiarsi il naso col tovagliolo e pulirsi le unghie con la forchetta. Non parliamo poi delle spese militari: per arrestare tremila persone in un pomeriggio, come ha fatto Putin, è stato necessario un numero di uomini pari a quello che affrontò Napoleone sulla Beresina. Un piano alternativo Per mantenere l’ordine pubblico, si calcola che un uso interno dell’arsenale atomico costerebbe meno dell’attuale esborso in personale di polizia, servizi segreti, esperti di veleni, centrali di fake-news, eccetera. Le atomiche sono già lì, inutilizzate, da molti anni. Il classico investimento da ammortizzare. Collaboratori di Putin erano in stretto contatto, a questo proposito, con Steve Bannon e altri strateghi dell’amministrazione Trump. L’idea era un attacco nucleare simultaneo, russo contro i russi, americano contro gli americani. Con un innegabile effetto-sorpresa che avrebbe spiazzato i cosiddetti esperti. I gasdotti L’enorme potere economico dell’oligarchia russa è dovuto a due fattori. Il primo è che l’intero patrimonio dello Stato è stato rubato, dopo la caduta del comunismo, da chi è riuscito a fare irruzione per primo negli uffici del Cremlino, frugare nei cassetti e trovare i moduli per intestarselo. Il secondo è la straordinaria ricchezza di gas. L’economia russa si divide infatti nei seguenti settori: giacimenti di gas, gasdotti, contatori del gas, tubi del gas, fornelli a gas. Putin può contare su ottimi amici in tutti e cinque i settori. Secondo gli osservatori internazionali, è soprattutto sui Paesi con cucine a lunga cottura (stufati, stracotti, minestroni, bolliti) che la Russia punta per la sua penetrazione economica, mentre ha scarsa presa su Paesi dove la cucina è a base di cibi freschi e cibi crudi.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. Aleksej Anatolevic Navalny è un eroe. La parola è abusata. Ma non si potrebbe definire diversamente un uomo disposto a mettere in gioco i suoi beni, i suoi cari, la sua stessa vita, per il suo Paese. Perché opporsi a Vladimir Putin significa essere disposti a mettere in gioco la vita. Navalny ha passato 14 mesi agli arresti domiciliari. È stato avvelenato, è finito in coma, ha rischiato di morire. La Germania l' ha accolto. Ma Navalny non voleva vivere in esilio; tanto meno diventare una pedina dello scontro tra Putin e Angela Merkel, che si combattono in pubblico ma quando si incontrano in privato confabulano per mezz' ora a tu per tu, senza interpreti (la Cancelliera parla russo e il neo-Zar parla tedesco; del resto, entrambi si sono formati nella Ddr). Navalny voleva combattere e, se necessario, morire in patria. Così è tornato a Mosca, dove sapeva che l' avrebbero atteso le manette e la cella per chissà quanto tempo, dimostrando un coraggio anche fisico d' altre epoche, che evoca quello di un Giuseppe Garibaldi o di un Giuseppe Mazzini. Non sembri un accostamento eccessivo. Gli eroi del Risorgimento italiano erano gli uomini più famosi del mondo. Ovunque ci fosse un popolo oppresso, si custodivano i loro ritratti nelle case, si scandivano i loro nomi nei cortei. Purtroppo non possiamo dire lo stesso di Navalny. Il suo arresto, la persecuzione dei suoi collaboratori - tutti in esilio o in galera -, la brutale repressione dei manifestanti scesi in piazza a sua difesa non hanno suscitato nell' opinione pubblica globale l' emozione che meriterebbero. Certo, altre cose incombono: la crisi sanitaria e quella economica, che in Italia sono diventate anche crisi del sistema politico. E la rete, se può essere una formidabile arma di organizzazione del dissenso - in rete è nato il movimento di Navalny, essendo i media tradizionali controllati rigidamente dal Cremlino -, può rivelarsi anche un' arma di distrazione di massa. Navalny è un eroe, non un santo. Molte sue idee sono discutibili (come emerse dall'intervista-scoop che Paolo Valentino gli fece sul Corriere nel 2016). È un democratico, ma è anche un nazionalista. Nei suoi occhi Enzo Bettiza avrebbe forse intravisto quel «lampo di follia» che secondo lui balenava «nello sguardo dei russi bianchi». Inoltre, Navalny non ha con sé la maggioranza dei connazionali, che sono riconoscenti a Putin per aver riportato l'immenso Paese tra le superpotenze, sia pure a prezzo di una guerra di sterminio in Cecenia, dell' aggressione alla Georgia e all' Ucraina, dei dispendiosi interventi in Medio Oriente e in Nordafrica. Ma Navalny non è isolato. L' ultima volta che poté presentarsi alle elezioni, quando nel 2013 si candidò sindaco di Mosca, raccolse il 27%. Le sue denunce sulla corruzione del regime sono state confermate dai fatti. La «Russia del futuro», che è anche il nome del suo partito, non potrà fare a meno di lui. Ieri Putin ha parlato al mondo dal podio digitale di Davos. L'altro ieri ha avuto la prima, difficile telefonata con il nuovo presidente americano. Il momento è cruciale. La Russia ha la sua atomica e il suo vaccino, ha l' energia e i gasdotti per esportarla, ha un esercito e a differenza degli europei è disposta a usarlo. Tutto questo induce giustamente le democrazie dell' Occidente a prendere Putin molto sul serio. Ma proprio perché siamo democrazie, nessuno di noi dovrebbe dimenticare che la forza della libertà alla lunga si rivela insopprimibile; persino per un autocrate talmente cinico da dire che «se davvero l' avessi fatto avvelenare io, Navalny sarebbe morto».

Da Open.online il 26 agosto 2021. Per la prima volta dal suo arresto, il politico russo Alexei Navalny ha rilasciato un’intervista dal carcere. Nelle 54 pagine di risposta alle domande messe per iscritto dal New York Times, Navalny ha parlato dei suoi 8 mesi di carcere. A gennaio, l’attivista russo era stato arrestato al suo arrivo all’aeroporto di Mosca dopo mesi di convalescenza passati in Germania a causa delle conseguenze di un avvelenamento. Quando si pensa alle carceri russe, dice, si immaginano «uomini muscolosi tatuati, con denti d’acciaio che combattono con i coltelli per prendere il miglior lettino vicino alla finestra». Invece, «devi immaginare qualcosa come un campo di lavoro cinese, dove tutti marciano in fila e dove le telecamere sono appese ovunque. C’è un controllo costante». Durante il giorno, «guardiamo film sulla Grande Guerra Patriottica», ha detto Navalny riferendosi alla Seconda guerra mondiale, «o su come un giorno, 40 anni fa, i nostri atleti hanno sconfitto gli americani o i canadesi». «Quando vedo queste cose», ha detto Navalny, «capisco molto chiaramente l’essenza dell’ideologia del regime di Vladimir Putin: il presente e il futuro vengono sostituiti con il passato – il passato veramente eroico, o il passato abbellito, o il passato completamente immaginario. Tutti i tipi di passato devono essere costantemente sotto i riflettori per allontanare i pensieri dal futuro e dal presente». Per quanto riguarda le sue condizioni di salute, Navalny dice che sono migliorate da quando le guardie hanno smesso di svegliarlo ogni notte. «Ora capisco – ha detto – perché la privazione del sonno è una delle torture preferite dei servizi speciali. Non rimangono tracce, ed è impossibile tollerarlo». Come fatto più volte, Navalny ha poi criticato l’Europa e gli Stati Uniti per le sanzioni economiche imposte alla Russia. Per il politico russo, le sanzioni hanno danneggiato la vita delle persone comuni, e rischiano di allontanare molte persone dalla politica: «Così perdiamo alleati importanti».

Jacopo Iacoboni per "la Stampa" il 28 gennaio 2021. «Alexei Navalny è rinchiuso in una prigione molto particolare a Mosca. Si chiama "Kremlin Central" e non è un comune centro di detenzione», spiega Olga Zeveleva, sociologa del Social Sciences Lab a Cambridge, studiosa di Storia delle prigioni. È una delle sette prigioni storiche del Kgb in Russia. Luoghi infami, ma che potrebbero porre un problema anche alla Russia, se l' Ue prestasse attenzione al caso. Sentite perché. Mentre ieri dei presunti agenti si sono presentati a casa del dissidente e di sua moglie, Yulia, per effettuare una perquisizione (il capo dell' FSb ha incredibilmente detto che la coppia ha violato le norme sanitarie sul Covid), Navalny è tuttora rinchiuso nel carcere «Fku Sizo-1 Fsin», detto appunto «Kremlin Central» una delle 7 carceri russe subordinate all' amministrazione penitenziaria centrale. Si tratta di un blocco separato della prigione «Fku Sizo-1 Ufsin» (il nome è quasi identico), nota invece come «Matrosskaya Tishina» o Sailor' s Silence, che spesso vengono confuse perché allo stesso indirizzo. In realtà «Kremlin Central» è qualcosa di molto diverso, e con una sua storia nera, in Russia. Navalny, arrivando a Kremlin Central, ha detto: «Ho letto di questa prigione nei libri, e ora sono qui. Vita in Russia». Le altre sei carceri speciali si trovano nei maggiori luoghi strategici: sono Fku Sizo-2 Fsin o Lefortovo, che era la prigione principale del Kgb a Mosca; Fku Sizo-3 Fsin a San Pietroburgo noto come Shpalernaya; Fku Sizo-4 Fsin a Rostov-on-Don; Fku Sizo-5 Fsin a Krasnodar Krai; Fku Sizo-6 Fsin a Vladikavkaz in Ossezia e Fku Sizo-7 Fsin a Chelyabinsk. In pratica, sono le sette prigioni più segrete in Russia e, secondo convinzione degli studiosi, sono tuttora gestite de facto dall' Fsb. «Fino al 2008 - spiega la studiosa di Oxford Judith Pallot, una delle grandi esperte in materia - le sette carceri, incluso "Kremlin Central", erano ufficialmente subordinate all' Fsb, che le aveva ereditate dal Kgb nel 1994. Poi sono state trasferite sotto il controllo degli Interni, ma sono state restituite all' Fsb nel 1997, fino al 2008, quando sono stati trasferiti al servizio carcerario (ministero della Giustizia). L' Fsb si è opposto fermamente alla perdita delle sue prigioni, ma sembra sia stato in grado di mantenere il controllo de facto almeno su alcune di esse», dice Pallot, che ha intervistato detenuti delle 7 prigioni, che in alcuni casi coincidono tuttora con il quartier generale dell' Fsb. Kremlin Central è solo un po' più giovane dell' infame Lefortovo: nacque nel 1985. A Kremlin Central vennero tenuti in duro isolamento serial killer, presunti terroristi, mafiosi invisi al regime (gli amici sono a piede libero), intellettuali o artisti, famosi, alti funzionari governativi e imprenditori pericolosi per il regime. Putin vi rinchiuse, per dire, Platon Lebedev, Mikhael Khodorkovsky, Alexei Pichugin. O nemici politici che voleva far fuori, come l' ex ministro dell' economia Aleksei Ulyukaev. Senonché, stando alle norme che vincolano anche la Russia in quanto appartenente al Consiglio d' Europa, l' Fsb non dovrebbe gestire alcuna prigione: viola i diritti umani dei detenuti avere un' agenzia che, ad un tempo, fa indagini e avvelenamenti di dissidenti, e poi è responsabile anche della loro custodia. 

Le proteste in Russia. Chi è Yulia Navalny, moglie dell’oppositore russo e nuova leader anti-Putin. Antonio Lamorte su Il Riformista l'1 Febbraio 2021. Decine di migliaia di persone in piazza, città bloccate, metro chiuse. Manifestanti pacifici in Russia e, secondo l’ong Ovd-Info, oltre 5mila sono stati fermati. Tra questi anche Yulia Navalnaya, moglie del dissidente russo Aleksey Navalny. L’avvocato 44enne è in carcere, al Matrosskaya Tishina di Mosca, è il principale dissidente del Presidente Vladimir Putin. E i russi scendono in piazza, come non succedeva da decenni. Con il fratello del dissidente Oleg in carcere, come la collaboratrice Lyubov Sobol, Yulia Navalny potrebbe raccogliere l’eredità della leadership del marito, lo scrivono in tanti, già in questi giorni è al centro dell’attenzione dei media. Le proteste erano esplose già lo scorso fine settimana in Russia. Gli agenti sono intervenuti a colpi di manganello e taser, anche quando i manifestanti erano già nelle loro mani. A far esplodere questa ondata di malcontento verso Putin il caso dell’avvelenamento e dell’arresto di Navalny e la pubblicazione, sempre da parte dell’avvocato, attraversi la Fondazione anticorruzione da lui creata, di un’inchiesta sul “castello segreto” sul Mar Nero da oltre 7.000 ettari. Il 17 gennaio, al suo rientro in Russia, dopo le cure a Berlino, l’arresto di Navalny all’aeroporto di Mosca. Domani sarà processato per violazione del controllo giudiziario: potrebbe scontare tre anni e mezzo per una condanna per truffa (una sorta di pena sospesa) e altri 10 anni per appropriazione indebita. All’aeroporto, già diventato simbolico, lo scatto del bacio con la moglie Yulia. “Mi hai salvato”, aveva scritto su Telegram Aleksey al risveglio nell’ospedale di Berlino. Yulia Navalnaya è laureata in Relazioni Internazionali, ex funzionaria di banca, 44 anni. La coppia ha avuto due figli. La donna ha vissuto tutte le aggressioni e le sventure giudiziarie, politiche e personali del marito. Lo scorso agosto, dopo un tour elettorale in Siberia, l’avvelenamento di Navalny con il gas nervino Novichok. Soltanto l’atterraggio di emergenza ha salvato la vita all’avvocato. Yulia parlava con i giornalisti e metteva in dubbio le esternazioni dei medici di Omsk, dove Navalny era ricoverato. È stata lei a scrivere a Putin per chiedere il trasferimento in Germania. Con l’avvelenamento del marito la personalità di Yulia è emersa come mai era successo prima. Se Navalny sarà condannato, molti ipotizzano, potrebbe essere lei a sostituirlo nella leadership. C’è chi anticipa una sua candidatura alle parlamentari di settembre. Nessuna conferma. È stata arrestata durante le proteste del 23 gennaio e ieri, quando agenti in assetto antisommossa l’hanno fermata e caricata su un furgoncino scuro impedendole di raggiungere  il carcere di Mosca dov’è detenuto il marito. Yulia oggi dovrà comparire in tribunale. “Il suo ruolo è certamente cambiato. Ha carisma e fascino, è una persona creativa e coraggiosa e può facilmente sostituire suo marito se necessario”, spiega l’esperto di politica russa Konstantin Kalachev all’Afp. Alcuni media la descrivono come un agente destabilizzatore della Russia per contro dell’Occidente. Proprio come il marito e il Fondo Anti-Corruzione creato dallo stesso Navalny.

Le 5 mosse con cui Alexei Navalny ha messo spalle al muro. Dalle accuse per l’avvelenamento al video che mostra il castello sul Mar Nero, il leader dell’opposizione accende la piazza e l’arresto rivela la debolezza del presidente. E l'ondata di manifestazioni e arresti lo dimostra. Svetlana Ivanova su L'Espresso il 2 febbraio 2021. a Russia è una terra sconfinata: il Paese più grande del mondo. Qui, il tempo e lo spazio si scambiano e a volte coincidono in modo imprevedibile. Quando il sole comincia il suo giro, parte da Vladivostok e quando termina il suo viaggio, a San Pietroburgo, ha attraversato 10 fusi orari e più di diecimila chilometri. Il giorno delle proteste in Russia è stato perciò un giorno esteso quanto tutto il Paese. Una vera e propria staffetta di manifestazioni da una parte all’altra della nazione. Una protesta collettiva che ha abbattuto ogni limite di tempo e spazio. Non deve esser stata una giornata semplice, quella del 23 gennaio.

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 2 febbraio 2021. La Francia ha chiesto a Berlino di abbandonare il Nord Stream 2, il controverso gasdotto russo-tedesco in via di completamento sotto il Mar Baltico, come risposta all'incarcerazione del dissidente Alexeij Navalny e alla repressione da parte del Cremlino delle dimostrazioni in suo favore. «Occorre essere lucidi: penso che sia un'opzione da considerare, visto che le sanzioni già prese non sono bastate», ha detto il segretario di Stato francese agli Affari europei, Clement Beaune, che ha confermato i «grossi dubbi» del presidente Macron sul progetto, precisando tuttavia che l'eventuale abbandono sarebbe «una decisione tedesca». «Significa che la Francia vuole la fine del Nord Stream 2?», gli è stato chiesto. «Lo abbiamo appena detto», è stata la risposta di Beaune. È la prima volta che Parigi si pronuncia in modo netto per la rinuncia definitiva al gasdotto da parte di Berlino ed è un brutto colpo per la cancelliera Merkel, che fin qui aveva potuto contare sulla neutralità quanto meno apparente di Emmanuel Macron, il suo principale alleato in Europa. Merkel tuttavia non è intenzionata a cedere su un progetto che è sostenuto a spada tratta dall'industria tedesca ed è considerato «esistenziale» per i partner di governo socialdemocratici, nel solco storico della Ostpolitik e dei buoni rapporti economici con la Russia. Ieri una portavoce della cancelleria ha ribadito che «il governo federale non ha cambiato la sua posizione di base», quella che considera il gasdotto separato dalla questione dei diritti umani. A sostegno del condotto è tornato anche a parlare l'ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, l'uomo che firmò con Putin il contratto per il Nord Stream 2 e oggi presiede il consorzio che lo sta realizzando: «Se lo abbandoniamo tagliamo il ramo della politica energetica sul quale siamo seduti».  Ma la posizione di Merkel si fa sempre più difficile. Intanto perché dall'interno stesso della Cdu, il suo partito, si levano voci importanti a favore dell'abbandono, a cominciare dal presidente della Commissione esteri del Bundestag, Norbert Röttgen. Ma anche perché, di fronte al caso Navalny e alla nuova ondata repressiva in atto in Russia, la cancelliera subisce una doppia pressione sulla scena internazionale: quella degli alleati europei, quasi tutti schierati per l'abbandono del Nord Stream 2 e con i quali il suo stesso portavoce, Steffen Seibert, ha ammesso che sono in corso «discussioni difficili». Ancora più imbarazzante per Merkel è l'offensiva della nuova amministrazione americana, decisa a varare nuove sanzioni extraterritoriali oltre quelle che per un anno hanno di fatto fermato il progetto, i cui lavori sono ripresi da poche settimane. Cercando di bloccare il Nord Stream 2 gli Stati Uniti perseguono un doppio obiettivo: primo impedire che l'Europa diventi troppo dipendente da Mosca per il suo fabbisogno energetico e compri invece il gas da argille made in Usa; secondo evitare che l'Ucraina, una priorità per Joe Biden, sia in parte bypassata dai nuovi tubi sottomarini. Insistere sul gasdotto baltico significa quindi per Merkel mettere a rischio la ripartenza nei rapporti con Washington, dopo il disastro dell'era Trump. La reputazione di Angela Merkel sulla scena internazionale è anche, ma non solo, basata sul fatto che la cancelliera intende sempre quello che dice. Ma nel caso del Nord Stream 2, la sua onestà intellettuale la mette tra l'incudine e il martello: se va avanti rischia di pagare un prezzo politico altissimo, se lo blocca i contribuenti tedeschi dovrebbero onorare penali molto salate.

Perché i rapporti tra Germania e Russia non sono mai stati tanto deteriorati. L’uccisione di un ceceno in pieno centro, il caso Navalny, l’attacco informatico al Bundestag: fra i due Paesi le relazioni sono diventati pessime e l’affare multimiliardario del gasdotto Nord Stream potrebbe essere bloccato. Roberto Brunelli su L'Espresso l'1 febbraio 2021. A sangue freddo d’estate in un parco a Berlino. «La prima cosa che ho sentito è stato il suono di uno sparo. Poi l’urlo di una donna. Davanti a me, a circa trenta metri, un uomo scende dalla bicicletta. Un altro uomo è per terra. Quello della bicicletta fa due o tre passi nella sua direzione, gli punta una pistola alla testa e spara. Due volte. Poi torna alla bicicletta, infila l’arma in uno zaino e riparte. Portava una parrucca». A parlare è Eugene D., 60 anni, insegnante d’inglese, uno dei principali testimoni al processo che potrebbe segnare il punto di non ritorno nei rapporti tra la Germania e la Russia: alla sbarra c’è Vadim Sokolov, 50 anni, l’uomo arrestato poco dopo il delitto compiuto in pieno giorno - il 23 agosto 2019 - al parco Kleiner Tiergarten. La vittima è Zelimkhan Khangoshvili, quarantenne georgiano che aveva combattuto con i ribelli ceceni, odiato da Mosca, freddato con una Glock 26 dotata di silenziatore mentre stava andando in moschea. Il russo che secondo gli inquirenti tedeschi è il killer, invece, si chiamerebbe in realtà Vadim Krasikov, e non sarebbe un pacifico ingegnere edile come affermato dal suo avvocato, bensì un ex combattente che, tra l’altro, negli anni Ottanta faceva parte di un’unità speciale in Afghanistan. «È stata un’esecuzione», insiste Eugene D., a quanto riferisce la Berliner Zeitung. «Il killer era freddo e sicuro di sé».

Fabrizio Dragosei per il "Corriere della Sera" il 26 gennaio 2021. Per ora niente nuove sanzioni europee contro la Russia, ma pressioni continue sul Cremlino per la liberazione di Aleksej Navalny e monitoraggio attento di quello che sta accadendo in Russia. E in un clima sempre più acceso, Mosca e Washington si scambiano accuse particolarmente dure. Gran parte dei 3.700 fermati delle dimostrazioni di sabato sono stati rilasciati. Alcuni hanno ricevuto multe e un certo numero dovrà fare qualche giorno di prigione. Per altri saranno i giudici a decidere nei prossimi giorni. Questo mentre i sostenitori del blogger che si trova in carcere hanno convocato nuove riunioni di massa per domenica. L' Ue tiene in sospeso nuove sanzioni e vuole prima provare a intavolare un dialogo con i vertici russi tramite il Rappresentante per la politica estera Borrell che sarà a Mosca il 5 febbraio. Nel frattempo inizieranno le udienze per decidere se far finire in carcere Navalny per tre anni e mezzo. È chiaro che da quello dipenderà il discorso sulle sanzioni europee. I Paesi ex Urss ed ex Patto di Varsavia (i Baltici, Polonia, Romania) spingono per decisioni dure. Altri, come la Germania, frenano e soprattutto non vogliono che ci vada di mezzo il raddoppio del gasdotto sotto il Mar Baltico (Nord Stream) che porta direttamente il metano russo e che sta molto a cuore a Berlino. Ieri intanto il ministero degli Esteri di Mosca ha inviato una protesta all' ambasciata Usa per un presunto sostegno alle manifestazioni di sabato scorso. In realtà la sede diplomatica aveva diffuso un usuale avviso ai cittadini Usa a tenersi lontani dai raduni, a girare sempre col passaporto, ad evitare assembramenti. Ma aveva anche indicato orari e luoghi degli appuntamenti (definiti «non autorizzati») nelle varie città. Il governo di Mosca ha ritenuto che questo fosse uno stratagemma per far pubblicità alle proteste. Putin non sa proprio cosa fare con Navalny. Il caso ormai ha avuto una tale risonanza (avvelenamento con il Novichok nelle mutande, eccetera) che le ripercussioni internazionali di eventuali condanne penali potrebbero essere gravissime per l' economia russa. Ma d' altra parte il blogger è una spina nel fianco del potere con le sue documentate inchieste sulla corruzione. Basti pensare al fatto che il filmato sul cosiddetto «castello di Putin» ha avuto 88 milioni di visualizzazioni. La cifra continua a salire e le smentite sembrano lasciare il tempo che trovano. Ieri Putin ha detto che quella proprietà non è sua né di nessun suo parente. Ma Navalny ha sempre sostenuto che tutto è intestato a dei prestanome. E il presidente russo non ha potuto negare che alcuni dei personaggi citati come finanziatori siano suoi conoscenti o amici.

Giuseppe Agliastro per "La Stampa" il 23 gennaio 2021. Repressione, arresti e censura: sono queste le armi che il Cremlino ha deciso di usare per soffocare le proteste contro la detenzione di Aleksey Navalny. Le manifestazioni a sostegno del rivale numero uno di Putin cominciano oggi in 65 città della Russia e le autorità hanno già promesso che useranno le maniere forti. Il giro di vite in realtà è iniziato ancora prima delle proteste. Alcuni dei più stretti collaboratori di Navalny sono stati infatti trascinati in commissariato, compresa la portavoce del dissidente, Kira Yarmish, condannata a dieci giorni di reclusione, mentre a social media e siti internet è stato ordinato di cancellare immediatamente gli appelli a scendere in piazza con cui i più giovani hanno sommerso il web. La polizia di Mosca ha lanciato un chiaro avvertimento: i cortei «verranno considerati una minaccia all'ordine pubblico e saranno subito repressi». In Russia vige una legge che è una contraddizione in termini: per manifestare contro le autorità serve il permesso delle stesse autorità, e queste non hanno alcuna intenzione di permettere i cortei a favore di Navalny. Il trascinatore delle proteste anti-Putin è stato sbattuto in galera non appena ha rimesso piede a Mosca dopo un avvelenamento per il quale i principali indiziati sono proprio il Cremlino e i suoi servizi segreti. Rischia di rimanere in cella parecchi anni perché sul suo capo pendono quattro grane giudiziarie. Di certo Navalny ha lanciato a Putin una sfida senza precedenti: non solo è tornato in Russia pur sapendo che con ogni probabilità sarebbe finito in galera, ma ha continuato a pungere il presidente russo anche dal carcere. L'ultima video-inchiesta della sua Fondazione Anticorruzione risale infatti a quattro giorni fa ed è una bomba mediatica contro Putin: accusa il leader del Cremlino di possedere una villa da mille e una notte sul Mar Nero con tanto di casinò, vigneti, un teatro. Il tutto realizzato con fondi illegali per un costo di oltre un miliardo di euro. La presidenza russa smentisce, ma il filmato sta spopolando sul web e ieri contava già 55 milioni di visualizzazioni. Su Internet Navalny pare avere la meglio su Putin. Tik-Tok si è riempito di brevi video di ragazzi che si dicevano pronti a scendere in piazza. Alcuni nelle scuole sostituivano il ritratto di Putin con quello del dissidente in carcere. In pochi giorni, questi filmati hanno raccolto oltre 200 milioni di click e le autorità hanno reagito ordinando, e ottenendo, la loro rimozione con la minaccia di multe salatissime per Tik-Tok e gli altri social media. L'Occidente intanto continua a premere per il rilascio di Navalny. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha parlato al telefono con Putin ribadendo che «l'Ue è unita nella sua condanna per la detenzione» dell'oppositore che ieri, come garanzia per la propria incolumità, ha sottolineato di non avere nessuna intenzione di suicidarsi. Giovedì il Parlamento Europeo ha chiesto di «interrompere immediatamente il completamento» del gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe raddoppiare il flusso di gas russo che giunge in Germania attraverso il Baltico. Lunedì i ministri degli Esteri della Ue si troveranno per decidere la linea.-

CASO NAVALNY. Timide sanzioni dell'UE nei confronti della Russia. Da tvsvizzera.it il 22 febbraio 2021. (TG del 22.2.2021). Alexei Navalny è stato condannato a due anni e otto mesi di carcere. L'Unione Europea ha raggiunto un'intesa per sanzioni contro quattro non meglio precisati alti funzionari russi coinvolti nei procedimenti giudiziari contro l'oppositore Alexei Navalny. La risposta di Bruxelles circa il caso dell'oppositore russo Alexey Navalny, condannato il 2 febbraio scorso a due anni e otto mesi di carcere, era attesa. Tuttavia, la decisione dei ministri degli esteri dei 27 di limitarsi a sanzionare solo quattro alti funzionari è accolta con delusione da chi voleva un intervento più deciso nei confronti delle autorità russe. La risposta europea è "mirata, proporzionata e giuridicamente inattaccabile", ha sostenuto un ministro. "È difficile punire gli oligarchi. Possiamo agire solo contro i funzionari, e solo se abbiamo prove", aveva spiegato il capo della diplomazia lussemburghese Jean Asselborn prima della riunione. Le sanzioni europee consistono in un divieto di visto e un congelamento dei beni nell'UE per le persone o entità interessate. Il Cremlino aveva lanciato un avvertimento agli europei prima del loro incontro. Mosca è "pronta a reagire" in caso di un "nuove misure restrittive, unilaterali e illegittime", aveva avvertito l'ambasciatore russo presso l'UE, Vladimir Tchijov, in un'intervista al quotidiano tedesco Die Welt. Le cerchie vicine a Navalny hanno da parte loro espresso disappunto: "Punire qualche funzionario del Cremlino che non ama viaggiare e non ha proprietà all'estero, servirà a ben poco e non farà passare alcun tipo di messaggio", ha dichiarato Leonid Volkov, presente a Bruxelles per chiedere sanzioni nei confronti degli oligarchi vicini al presidente Putin. Lo stesso Navalny nel novembre scorso, durante la sua convalescenza in Germania dove era stato curato dopo il tentativo di avvelenamento in Russia, aveva sottolineato la necessità di "prendere di mira il denaro, gli oligarchi, non solo quelli vecchi ma anche i nuovi, i membri della cerchia ristretta di Putin".

Tensione a Mosca. La Russia espelle diplomatici Ue e si difende: “Anche in Italia picchiano i manifestanti”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. Le scintille iniziali avevano lasciato presagire uno strappo, che alla fine c’è stato: la Russia ha convocato al ministero degli Esteri gli ambasciatori di Svezia, Polonia e Germania per comunicare loro l’espulsione dal Paese. Secondo dicastero di Sergej Lavrov avrebbero preso parte alle “proteste illegali” del 23 gennaio scorso, a Mosca e San Pietroburgo. I diplomatici in questione sono stati dichiarati “persone non gradite” e dovranno lasciare la Russia “nel prossimo futuro”. I rispettivi Paesi hanno accolto con stupore la notizia, e hanno minacciato azioni in risposta. La decisione è arrivata poco dopo la fine dell’incontro istituzionale tra Lavrov e l’Alto rappresentate per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell. I rapporti tra i due durante il colloquio si sono molto raffreddati, con il membro dell’esecutivo di Putin che ha parlato dell’Ue come di un “partner non affidabile” che impone sanzioni “senza un legittimo fondamento”, aggiungendo per difendersi che “anche in Italia c’è una repressione violenta delle manifestazioni”. Il capo della diplomazia comunitaria ha riconosciuto che questo momento storico rappresenta “il punto più basso” dei rapporti tra le due potenze e ha espresso la sua “profonda preoccupazione” per la deriva autoritaria del Paese. Il riferimento è chiaramente rivolto alla condanna nei confronti dell’oppositore politico Alexei Navalny, contro la quale migliaia di persone sono scese in piazza a protestare in questi giorni. L’occidente continua a chiederne compatto la liberazione, ma oggi il blogger è stato sottoposto a un secondo processo, stavolta per diffamazione: avrebbe pubblicato un commento sui social contro il veterano di guerra Ignat Artyomenko, definito “un traditore” e “una vergogna per la nazione” per aver difeso il referendum finalizzato ad aumentare i poteri di Putin. Rischia fino a 5 anni di reclusione, da aggiungere ai 3 anni e 5 mesi inflitti per il caso Yves Rocher. Una condanna che la Corte di Strasburgo ha bollato come “motivata politicamente” e contro la quale continua a battersi Borrell, che anzi ha chiesto a Lavrov di “avviare un’indagine indipendente” sull’avvelenamento che ha quasi ucciso Navalny ad agosto.

(ANSA il 12 febbraio 2021) La Russia "è pronta a rompere le relazioni con l'Unione europea". Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov al programma Soloviev Life. "Se vediamo ancora una volta, proprio come in altre occasioni, che le sanzioni vengono imposte in alcuni settori e creano rischi per la nostra economia, anche nei settori più sensibili, allora sì. Non vogliamo essere isolati dalla vita internazionale, ma dovremmo essere preparati a questo", ha detto Lavrov. "Se vuoi la pace, prepara la guerra", ha aggiunto. Lo riporta Interfax.

Estratto dell’articolo di Bernard Guetta per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Putin ha fatto una mossa che va contro gli interessi del suo Paese, e con l'occasione si è dato anche la zappa sui piedi. Il dittatore russo sta perdendo la mano, si fa prendere dal panico e si illude. Che cosa ha fatto quando l'Unione europea gli ha inviato il capo della sua diplomazia per cercare di evitare che l'affare Navalnyj finisse per compromettere ogni azione coordinata dei 27 e della Russia sulle aree di interessi comuni? Invece di constatare che gli europei condannavano - naturalmente, ovviamente - questo accanimento giudiziario contro Aleksej Navalnyj, ma restavano desiderosi di non rompere del tutto con Mosca, li ha pubblicamente maltrattati, per non dire schiaffeggiati. Avrebbe potuto ricevere il capo della diplomazia europea per sottolineare che auspicava anche lui che rimanessero aperti i ponti fra l'Unione e la Federazione russa. Non gli sarebbe costato nulla fare un gesto del genere, ma non l'ha fatto. Josep Borrell ha potuto incontrare soltanto il suo omologo, Sergej Lavrov, che si è superato nel suo ruolo di bulldog; e come ciliegina sulla torta, prima ancora che la visita di Stato fosse terminata, Mosca ha annunciato l'espulsione di tre diplomatici europei, colpevoli di essere andati a osservare de visu le manifestazioni di protesta contro la persecuzione del Robin Hood russo. Era esattamente quello che non doveva fare, perché non ci ha guadagnato nulla. Se avesse avuto un grammo di abilità, avrebbe potuto insistere, come aveva fatto recentemente, sulla sua volontà di valorizzare i punti in comune con l'Unione. Avrebbe potuto prendere ispirazione da quello che ha saputo fare Xi Jinping a dicembre, quando ha firmato un accordo che allontana l'Unione europea dagli Stati Uniti, sul piano dei rapporti con Pechino. Ora che ha perso il suo amico Trump, avrebbe potuto tornare ai tradizionali sforzi russi per "disaccoppiare" le due sponde dell'Atlantico. Avrebbe almeno potuto fingere di non sentire, come fecero i dirigenti sovietici quando François Mitterrand prese le difese di Andrej Sacharov in piena cena ufficiale al Cremlino, e invece no! Putin ha giocato a fare il gradasso, il bullo del cortile. Ma l'unico risultato che ha ottenuto è stato palesare il suo panico, un panico che trova una semplice spiegazione. Avendo avuto l'audacia inaudita di rientrare a Mosca, Aleksej Navalnyj si è imposto come avversario alla pari del presidente russo. Per la prima volta in vent'anni di potere, Vladimir Putin ha di fronte a sé un capo dell'opposizione che gli sarà difficile far assassinare, ora che il tentativo di avvelenarlo è andato fallito.

Tra Russia e Ue altro che caso Navalny. La vera questione? Gas e destabilizzazione. Alberto negri su Il Quotidiano del Sud il 13 febbraio 2021. Il caso Navalny ha un forte sentore di gas e destabilizzazione. Mosca minaccia la rottura dei rapporti con l’Unione europea in caso di nuove sanzioni, la Germania risponde definendo l’ultimatum “sconcertante”. La realtà è che la vera resa dei conti non è con l’Europa ma con gli Stati Uniti. Prima di esaminare la questione politica è bene dare un’occhiata alle cifre per vedere a chi conviene un’eventuale rottura. In pratica a nessuno dei due. L’interscambio tra Russia e Unione europea nel 2019 era di 232 miliardi di euro, una cifra rilevante, anche se lontana dal picco dei 322 del 2012, e condizionata dalle sanzioni imposte a Mosca nel 2014 per l’annessione della Crimea. L’Europa resta comunque il principale partner commerciale di Mosca: rappresenta il 35% delle sue importazioni ed è anche il maggiore investitore in Russia, 276 miliardi di dollari nel 2018, che non sono bruscolini. Mosca è il quinto partner economico della Ue, molto rilevante dal punto di vista energetico: l’Unione importa dalla Russia il 40 per cento del suo gas e il 27% del petrolio. Questi dati sono importanti per capire chi è veramente interessato alla rottura dei rapporti tra Europa e Russia, ovvero gli Stati Uniti che vogliono vendere a tutti i costi il loro gas liquido agli europei anche se costa di più, bisogna costruire i rigassificatori e necessita di un trasporto di 10mila chilometri. Soltanto un mentecatto può pensare che il gas americano sia un affare, a meno che non venga venduto a prezzi politici come hanno già fatto gli Usa con la Polonia e imposto ai tedeschi.

I RAPPORTI UE-RUSSIA NEL MIRINO USA. La faccenda è talmente scoperta che appena nominato il nuovo segretario di stato Antony Blinken ha minacciato sanzioni alla Germania se ultimava il gasdotto Nord Stream 2 con Putin. Insomma prima ancora che Navaly rientrasse in Russia e Putin dimostrasse la sua vulnerabilità con un processo farsa, la nuova amministrazione Biden, esattamente come Trump, intendeva prendere di mira i rapporti economici Ue-Russia e colpire Mosca nei suoi interessi vitali, cioè l’export di energia. I tedeschi stavano, o stanno per cedere, a un ricatto degli americani. E ora ne abbiamo le prove: una lettera dei tedeschi agli Usa in cui si promette un miliardo di euro per l’acquisto di gas liquido Usa in cambio della fine delle sanzioni per il Nord Straeam 2. La lettera è stata pubblicata dalla Deutsche Umwelthlife, associazione ambientalista tedesca, è sta provocando un putiferio. La lettera riservata, datata agosto 2020, è firmata dal vicecancelliere tedesco Olaf Scholz, attuale ministro delle Finanze e candidato cancelliere della Spd alle elezioni federali del prossimo settembre. Certifica il tentativo di scambio sottobanco tra la Germania di Angela Merkel e gli Usa di Donald Trump per disinnescare la “guerra del gas” sul Mar Baltico. “Il governo tedesco è disposto ad aumentare il suo investimento nelle infrastrutture di gas naturale liquefatto (Gnl) fino a un miliardo”. Significa che Berlino si impegna a costruire due rigassificatori a Brunsbüttel e Wilhelmshaven per importare il gas americano estratto con la devastante tecnica del fracking: molto meno redditizio di quello fornito da Mosca ma perfetto per far quadrare i conti delle imprese energetiche Usa. Altro che transizione ecologica del Recovery Fund. Così è riportato nella missiva inviata l’estate scorsa a Steven Mnuchin, segretario al Tesoro degli Stati Uniti fino all’insediamento dell’amministrazione Biden.

IL PATTO INDECENTE. La vicenda è esplosa in Germania per due motivi: il patto è indecente sotto il profilo ambientale e il ministro Scholz lo avrebbe chiuso tenendo politicamente all’oscuro i deputati del Bundestag. Altro che la transizione ecologica voluta dal Recovery Fund. Ora che si capisce bene qual è il giochino degli americani, ovvero alleggerire la dipendenza europea dal gas russo a vantaggio di quello Usa, e si comprende meglio che cosa ha spinto Putin a calcare la mano sul caso Navalny. La Russia ha reagito alle manovre americane di contenere l’export di gas, vitale per le sue finanze, e Putin ha reagito mandando il messaggio che non è disposto a retrocedere su niente, neppure su Navalny, anche al rischio di martirizzare di un personaggio dal passato ambiguo. Ma c’è ovviamente anche dell’altro. Con il caso Navalny Putin tenta di proiettare all’esterno le sue difficoltà interne nel gestire gli oligarchi e un’economia in crisi. Quello russo, nonostante le tante riforme annunciate, è un sistema ancora troppo legato alle esportazioni di materie prime. La Russia è il secondo produttore di gas naturale al mondo e il terzo di petrolio: lo stesso ministero delle risorse naturali e dell’ambiente della Russia stima che il valore complessivo delle attività collegate al petrolio, gas e altre risorse naturali ammonta al 60% del Pil. Una relazione pericolosa, che rende Mosca vulnerabile alle variazioni del prezzo globale delle materie prime, in primo luogo del petrolio. Cosa che è puntualmente avvenuta con la recessione seguita alla pandemia da Covid. Ma perché Putin rischia tanto sul caso Navalny che avrebbe potuto disinnescare senza troppo clamore? Per sopravvivenza politica. Questo è un braccio di ferro ai vertici del potere. In gioco ci sono la stabilità del sistema e la sua perpetuazione anche se Putin, per qualunque motivo, se ne dovesse andare. Ovvero gli oligarchi, le famiglie che contano e la sua stessa cerchia di potere non hanno ancora soluzioni per assicurare una continuità del sistema. La situazione è seria? Sì, lo è. Gli Stati Uniti lo sanno e sono pronti a puntare sulla destabilizzazione dei rapporti tra Mosca e l’Europa e della stessa Russia. Auguri.

Sommossa per Navalny. In manette la moglie e più di tremila ribelli. Scontri in decine di città, arrestati centinaia di minorenni. Poi rilasciata la Navalnaya. Luigi Guelpa, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. Le undici fasce di fuso orario della Russia hanno ricalcato gli eventi programmati dal dissidente Alexei Navalny, che nei giorni scorsi aveva invitato la popolazione dell'ex orso sovietico a manifestare contro il suo arresto e a favore di una maggiore democrazia nel Paese. Iniziative vietate dal Cremlino e che sono state fermate con l'intervento di polizia ed esercito. I primi a scendere in piazza sono stati gli abitanti di Vladivostok, e a ruota, seguendo il sorgere del sole, quelli di Khabarovks, Ekaterinburg e Samara, fino ad arrivare a Mosca. Le forze dell'ordine, come per altro mostrato dalle decine di video pubblicati in rete da blogger anti-Putin, hanno usato lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti, arrivando ad arrestare (ma i dati sono parziali) 3.721 persone, 312 sono minorenni tra di loro anche un ragazzino di 12 anni. A Mosca e San Pietroburgo le detenzioni sono cominciate ancora prima dell'avvio dei cortei alle 14 (le 12 in Italia). Nella capitale, piazza Pushkin, area destinata all'evento, è stata delimitata da barricate, così come le vie dello shopping e le stazioni della metropolitana. Altri agenti sono stati collocati sulla piazza Rossa. Tra i fermati molti portavano cartelli con scritto «Io non ho paura», citazione dello stesso Navalny e diventata uno degli slogan della giornata di protesta. Alla chiamata del dissidente hanno risposto soprattutto i giovanissimi, almeno stando al tam tam che è emerso sul web. I video pubblicati su TikTok con l'hashtag #FreeNavalny hanno raccolto quasi 300 milioni di visualizzazioni. Tanto che l'autorità per le Telecomunicazioni, il Roskomnadzor, ha intimato ai maggiori social (TikTok, Instagram, Facebook e YouTube) di rimuovere i contenuti, ritenuti illegali e bollati come minaccia all'ordine pubblico. Il Cremlino ha cercato in ogni modo di fare terra bruciata attorno a Navalny, fermando nel corso della giornata i suoi più stretti collaboratori. In manette è finita anche la moglie Yulia Navalnaya, poi rilasciata in serata, che sul suo profilo Instagram ha postato una foto scattata all'interno di una camionetta della polizia, con la frase: «Scusate la bassa qualità. C'è una luce terribile qui dentro». Tra i fermati anche Liubov Sobol, la primula rossa del movimento anti-Putin, la portavoce Kira Yarmish, gli attivisti Sergei Ukhov, Ilya Danilov e Olga Kartavtseva, e una decina di giornalisti locali. Come accennato, i cortei di protesta hanno toccato ogni punto della Russia, almeno 120 località. A Khabarovks, in Siberia, le forze dell'ordine hanno usato i manganelli per disperdere la folla. Gli attivisti hanno condiviso video che mostrano poliziotti che picchiano manifestanti, poi spinti su furgoni. In Siberia nei mesi scorsi a far scoppiare la protesta era stato l'arresto dell'ex governatore Sergei Furgal. A Balgoveshensk fermati anche minorenni. Centinaia di disobbedienti sono scesi in piazza anche a Vladivostok e Irkutsk, sfidando le temperature gelide. «Siamo forti» e «Putin è un bugiardo», sono tra gli slogan portati in piazza. «Siamo orgogliosi di voi. Siamo almeno 200mila. Vogliamo felicità per il nostro Paese e stiamo manifestando pacificamente per la nostra libertà e per quella di Navalny», si legge nel messaggio diffuso dal canale Telegram del politico anti-Putin, che da ieri mattina pubblica a getto continuo i video delle adunate e che ha confermato nuove proteste il 30 e 31 gennaio. Da parte sua Mosca si è affidata a un comunicato di Dmitry Peskov, portavoce di Putin, che ha definito «deplorevole quanto sta accadendo. Sappiamo che si tratta di un gruppo di provocatori, sobillatori che non hanno nulla a che vedere con la gente per bene del nostro Paese». Tutto questo mentre l'Alto rappresentante Ue, Josep Borell, ha twittato tutta la preoccupazione di Bruxelles: «Deploro le detenzioni, l'uso sproporzionato della forza, l'interruzione delle connessioni internet e delle reti telefoniche. Lunedì discuteremo i prossimi passi da intraprendere nei confronti di Mosca con i ministri degli esteri degli stati membri».

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 24 gennaio 2021. «Siamo in guerra, perché non c'è nessun dubbio che questa è una guerra tra le democrazie e un regime. E non c'è nessun dubbio, in questa giornata in cui siamo tutti sotto choc per Alexey Navalny, che non esiste alcuna possibilità di dialogare con il regime di Putin». Mikhail Khodorkovsky, l'ex patron della compagnia petrolifera Yukos, che ha resistito senza piegarsi all'esproprio illegale da parte di Putin dei suoi asset e alla galera in Siberia, oggi vive a Londra e è forse la bestia nera numero uno da anni del Cremlino. Risponde così, quando gli chiediamo come giudica i silenzi di alcuni leader occidentali, tra cui il premier italiano, sull'arresto illegale di Navalny. Khodorkovsy ha organizzato, con alcuni intellettuali e giornalisti, una videochat per reagire alla repressione di Mosca e l'arresto illegale di Navalny, assieme ad altri personaggi che sono stati i più temuti e odiati dal Cremlino in tutti questi anni: Garry Kasparov, l'ex campione di scacchi, un genio matematico diventato attivista liberal negli Stati Uniti. Bill Browder, a lungo gestore del principale fondo di investimento estero, Hermitage Capital, nella Russia della prima fase post-sovietica, poi finito nella lista nera putiniana, e oggi uno dei più prominenti sostenitori dell'adozione nel mondo del Magnitsky Act (le norme che congelano gli asset degli oligarchi putiniani legati a violazioni di diritti umani, intitolate alla memoria di Sergey Magnitsky, l'avvocato fatto morire in carcere da Putin perché aveva denunciato centinaia di schemi societari corruttivi dell'entourage putiniano). Infine, Vladimir Kara-Murza, ex collaboratore di Boris Nemtsov (che fu assassinato sull'uscio di casa sua, molto probabilmente dall'FSB). Kara-Murza è stato avvelenato due volte con una tossina di grado militare, e è miracolosamente vivo. «Non sono sorpreso che il premier italiano taccia su Navalny», dice Kasparov. Parlando in generale, Kasparov descrive così il contesto italiano: «L'Italia è stata inondata per anni da un fiume di denaro russo, che ha conquistato un'influenza diffusa del regime di Putin nel vostro Paese, e in molti personaggi dell'establishment italiano». Molto duro anche Kara-Murza che, citando il libro del celeberrimo dissidente Vladimir Bukovsky («Letters of a Russian Traveler»), commenta amaro: «Scaldare il bacon con il gas russo è stato più importante, per molti, dei diritti umani». Colpisce, nella conversazione con questi quattro dissidenti, il coraggio e la franchezza delle posizioni. Una boccata d'aria contro la violenza e gli opportunismi. Kasparov osserva: «Non possiamo purtroppo proteggere Navalny, ma possiamo combattere per ciò per cui lui sta combattendo». Lo strumento con cui farlo c'è già, dice Khodorkovsky, «sanzioni estremamente mirate contro gli oligarchi del giro di Putin. La maggioranza delle persone in Occidente non vuole questi soldi sporchi. Sono i soldi di una mafia, soldi di gangster». Un Magnitsky Act reso davvero effettivo in tutti i Paesi europei servirebbe a questo. «Il mondo libero deve alzarsi in piedi contro Putin, oppure sarete complici», constata Kasparov: «La gente in Russia ne ha abbastanza, e si sta ribellando, dall'estremo oriente fino a Kalinigrad. L'Occidente non può rimanere inerte». Kara-Murza approfondisce il concetto: «Per vent' anni le caratteristiche dell'opinione pubblica russa sono state due: silenzio e acquiescenza passiva. Nella nuova generazione non vediamo più questo silenzio e questa acquiescenza. E è questo che spaventa il regime. Cacciare Putin toccherà ai russi, ma l'Occidente può bandire i soldi dei suoi compari». L'America di Joe Biden può cambiare le cose? «Sappiamo che Biden era il più falco dell'amministrazione Obama sulla Russia, e che imparerà dagli errori di Obama», spiega Kasparov. «Venire a patti con Putin sarebbe non solo moralmente sbagliato - osserva Kara-Murza - ma soprattutto totalmente inefficace. In Putin, repressione interna e aggressioni all'estero fanno tutt' uno». Nessuno, non solo a Mosca, può dirsi al sicuro.

L’enigma Navalny: chi è davvero il principale oppositore di Vladimir Putin. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 7/2/2021. Avvocato e blogger anticorruzione, nazionalista e populista: come è cambiato in 20 anni il grande nemico del presidente russo? Quando in Russia è tempo di torbidi, torna d’attualità la doppia suggestione dello Zar buono e del Falso Dmitrij.

La prima figura rimanda a Boris Godunov, il sovrano illuminato che governò la Russia dopo la morte di Ivan il Terribile

La seconda rimanda invece a tre impostori, che tra il 1600 e il 1613 si accreditarono come figli di Ivan. Sfidarono Boris e si autoproclamarono sovrani, prima di finire assassinati dopo regni brevi e scellerati.

Quale delle due figure si rivelerà Aleksej Navalny?

Quando in Russia è tempo di torbidi, torna sempre d’attualità la doppia suggestione dello Zar buono e del Falso Dmitrij. Nella tormentata storia russa, la prima figura rimanda a Boris Godunov, il sovrano illuminato che governò la Russia dopo la morte di Ivan il Terribile, nel 1584, prima nell’ombra di Fjodor I e poi brevemente da Zar. La seconda rimanda invece a tre impostori, che tra il 1600 e il 1613 si accreditarono uno dopo l’altro come figli di Ivan, sfidando Boris e autoproclamandosi sovrani, prima di finire assassinati dopo regni brevi e scellerati.«Anche se finge di essere un grande politico, passerà alla storia come l’avvelenatore delle mutande»Aleksej Navalny su Putin, prima della condanna del 2 febbraio 2021. Quale delle due figure si rivelerà Aleksej Navalny ce lo diranno i prossimi mesi e anni. Nella narrazione del Cremlino di Putin, il dissidente più famoso del mondo è un nuovo Falso Dmitrij, venuto a ingannare il popolo russo e deciso a usurpare il trono dello Zar. Ma con la sua tenacia e il suo coraggio, egli non fa mistero di voler indossare i panni di Boris Godunov, beniamino degli ultimi e profeta di una nuova era. Ma chi è veramente Aleksej Navalny, questo avvocato ultraquarantenne nei cui occhi azzurri brilla quello che Enzo Bettiza definiva «il lampo di follia proprio di tutti i russi bianchi»? Quale ruolo si prepara per lui, ora che una condanna senza veri motivi a 2 anni e 8 mesi di carcere mostra il nervo scoperto di Vladimir Putin, deciso a pagare qualsiasi prezzo politico pur di emarginarlo? Figlio di un ufficiale dell’Armata Rossa, cresciuto nelle città militari chiuse agli stranieri intorno a Mosca, laureato alla prestigiosa Rudn, l’ateneo moscovita una volta intitolato a Patrice Lumumba e poi ribattezzato Università dell’Amicizia fra i Popoli, Navalny attraversa i tumultuosi anni Novanta mostrando subito una passione per la politica. Nel 1999 aderisce a Yabloko, il piccolo partito liberale di Grigory Yavlinski, dal quale però verrà espulso nel 2007. Ragione principale della sua uscita: la progressiva deriva del giovane attivista, sempre più attratto dal nazionalismo grande russo, che culmina nella sua decisione di partecipare nel 2006 alla Russkij Marsh, la marcia russa, tradizionale parata dell’estrema destra xenofoba, dove abbondano anche i saluti nazisti. Ci tornerà regolarmente negli anni seguenti. Pochi mesi dopo la cacciata da Yabloko, Navalny fonda il movimento patriottico Narod, che subito si allea con due altre formazioni dell’estremismo nazionalista, il Movimento contro l’emigrazione illegale e Grande Russia. Il nazionalismo di Navalny va naturalmente contestualizzato. Siamo all’inizio dell’era Putin, il nuovo presidente è impegnato a restituire orgoglio e status internazionale alla Russia dopo il Far West seguito al crollo dell’Urss e le umiliazioni subite negli anni Novanta. Uvazheniye, rispetto, è quello che Putin pretende dalla comunità internazionale. Ma Vladimir Vladimirovich, che considera la fine dell’Unione Sovietica «la più grande catastrofe geopolitica del Novecento», vuole recuperarne l’eredità complessiva, compresi il carattere multietnico e l’ambizione imperiale. I nazionalisti invece, da Eduard Limonov in giù, chiedono la restaurazione della supremazia russa. Navalny è fra questi. Appoggia l’intervento militare del 2008 in Georgia. Pubblica video nei quali paragona i musulmani del Caucaso a scarafaggi da eliminare. Teorizza l’espulsione di tutti i georgiani da Mosca e dalla Federazione russa. Aderisce alla campagna «Stop Feeding the Caucasus», basta nutrire il Caucaso. Oggi Navalny concede che non userebbe più quei termini ed espressioni. Ma nessuno gli ha mai sentito prendere le distanze dal suo nazionalismo.

Quello che succede dall’estate scorsa a oggi è storia nota. L’avvelenamento in Siberia, l’atterraggio di emergenza a Omsk che gli salva la vita, il ricovero in Germania. Le rivelazioni sul ruolo dei servizi russi, il ritorno in Russia, l’arresto. Infine, la condanna.

Eppure, all’inizio degli anni Dieci del nuovo Millennio, succede qualcosa. Il populismo carismatico di Navalny imbocca la strada della lotta alla corruzione, di nuovo dilagante dopo le iniziali mosse dimostrative di Putin contro gli oligarchi. In realtà, al posto di quelli vecchi come Berezovsky, Khodorkovsky e Gusinsky, lo Zar ha solo creato i nuovi predatori, come Abramovich, Usmanov, Rotenberg. Mostrando di capire la grande potenzialità della rete, Navalny indossa i panni del blogger, denunciando (con nomi, cognomi e prove) tangenti, bustarelle e ruberie di denaro pubblico. Il suo Live Journal diventa popolarissimo.«Qualcuno non voleva che facessi un solo passo da uomo libero nel mio Paese». Nel 2010 apre RosPil, il sito che lo consacra nel suo ruolo di fustigatore del sistema, dove ancora oggi un gruppo di giovani giuristi passa al setaccio montagne di documenti di contratti pubblici, smascherandone irregolarità, violazioni dolose e trucchi illegali. Nel 2013 è tra i leader della protesta di strada che per la prima volta fa vacillare Putin. Comincia la lunga ordalia degli arresti, entra ed esce da Matrosskaya Tishina, il carcere di Mosca. Il regime identifica in lui uno degli obiettivi prioritari contro i quali agire. I margini di ambiguità però rimangono. In Crimea, nel 2014, Putin gioca la carta patriottica della Reconquista. La penisola a maggioranza etnica russa, regalata da Krusciov all’Ucraina, viene riannessa alla Federazione. I suoi indici di popolarità schizzano in alto. I nazionalisti, Limonov e il politologo Alexandr Dugin in testa, si schierano con lo Zar. È l’ora dei Nashi, i nostri, l’organizzazione (governativa) di giovani a sostegno del nuovo corso presidenziale, che nel vocabolario di Putin si riassume nella parola Novorossya. Il riflesso nazionalista sembra di nuovo toccare anche Navalny, che pure non dà tregua al regime sul fronte della lotta alla corruzione. E quando Alexeij Venediktov, direttore di Radio Echo di Mosca, gli chiede se lui restituirebbe la Crimea all’Ucraina, Navalny dagli arresti domiciliari risponde. «La Crimea non è un sandwich al prosciutto, che prima si prende e poi si restituisce così». Eppure, a sbagliare è ancora Putin, che usa le procure per impedire a Navalny di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018. Vince facile lo Zar, con oltre il 76% dei voti. Ma corre di fatto da solo. E da quel momento il blogger può a pieno titolo entrare nel ruolo del primo oppositore. Lo aiuta la fine del miracolo economico putiniano, non più sostenuto dai corsi del petrolio e del gas: la classe media nata nel primo decennio del nuovo secolo si ritrova impoverita, le condizioni di vita peggiorano per tutti, il malcontento cresce alimentato anche dalla rabbia per i facili arricchimenti. Il canale YouTube lanciato da Navalny non dà tregua al sistema, denunciando sempre nuovi scandali e puntando sempre più in alto, come le rivelazioni sugli affari e le proprietà dell’allora premier Dmitrij Medvedev. Nel 2019, grazie a un sistema di «smart voting», Navalny riesce a far eleggere alla Duma di Mosca candidati alternativi a quelli di Russia Unita, il partito del presidente. Quello che succede dall’estate scorsa a oggi è storia nota. L’avvelenamento di Navalny in Siberia, l’atterraggio di emergenza a Omsk che gli salva la vita, il ricovero in Germania, le rivelazioni sul ruolo dei servizi russi nel tentativo di eliminarlo con il Novichok, il ritorno in Russia, l’arresto e lo scoop del video sul lussuoso palazzo con vista sul Mar Nero, che secondo lui apparterrebbe a Putin, visto da 100 milioni di persone. Infine, la condanna. Putin ha deciso di bruciare i ponti. Il leader del Cremlino, alle prese con la propria successione, è convinto che l’emarginazione a lungo termine di Navalny valga qualsiasi prezzo politico, in termini di nuove sanzioni occidentali e isolamento internazionale. Lo dimostra la crisi aperta in modo quasi sprezzante con l’Unione europea venerdì, quando il Cremlino ha espulso tre diplomatici di Germania, Polonia e Svezia proprio durante la visita dell’Alto rappresentante Joseph Borrell, venuto a chiedere la liberazione del dissidente. Forse è un calcolo giusto. Forse alcuni anni in galera basteranno a farlo dimenticare. Forse. Ma così facendo, lo Zar ha dato a Navalny la dignità di capo di un’opposizione, che sicuramente non ha ancora massa critica, ma per la prima volta è diffusa sull’intero territorio degli undici fusi orari. Soprattutto, è giovane. E con i Rolling Stones può dire: il tempo è dalla mia parte. La partita rimane aperta: Putin vuole trasformare Navalny in un Falso Dmitrij, ma i suoi adepti vogliono in lui il nuovo Boris Gudonov. Saranno i russi, ancora in maggioranza affezionati allo Zar, a decidere chi vedere in Aleksej Navalny.

Putin è convinto che l’emarginazione di Navalny valga qualsiasi prezzo politico. Ma così facendo, lo Zar ha dato a Navalny la dignità di capo di un’opposizione. Putin vuole trasformare Navalny in un Falso Dmitrij, ma i suoi adepti vogliono in lui il nuovo Boris. Saranno i russi a decidere chi vedere in Aleksej Navalny.

Democratico o populista? Il doppio volto di Navalny. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Alexei Navalny, Imprenditore, blogger, attivista politico, ma soprattutto oppositore più celebre di Putin, nasconde un passato nazionalista e xenofobo. È sorprendente come Alexei Navalny possa agitare a tal punto i sonni di Vladimir Putin. L’uomo che i media internazionali hanno designato come il “grande oppositore” del Cremlino, sorvegliato con occhiuta tenacia dai servizi di sicurezza di Mosca al punto da venire accusati di averlo avvelenato, gode di un consenso risibile nel suo Paese. Al di là dell’area metropolitana moscovita dove risiede il suo zoccolo duro ( si è candidato come sindaco nel 2013 superando il 20%) nel resto della Russia il suo nome è pressoché sconosciuto. Se si votasse domani difficilmente riuscirebe a superare il 5%. Eppure i ripetuti arresti, le aggressioni, i processi penali, lo zelo persecutorio con cui la magistratura russa lo tampina da anni ne hanno accresciuto la fama e il prestigio, anche ai limiti del grottesco con diversi giornali che lo hanno paragonato al premio Nobel Nelson Mandela. Ma chi è realmente Alexei Navalny? Un sincero democratico in lotta contro il tetragono clan dello “zar” Putin o un abile trasformista privo di una sua specifica ideologia come sostengono i detrattori? Imprenditore, blogger, attivista, militante politico, nel corso della vita ha cambiato più volte posizioni, sfilando sotto diverse bandiere e flirtando con personaggi di dubbia caratura democratica. Un passato pieno di ombre che oggi in parte rinnega e in parte prova a nascondere con le nuove campagne politiche. Figlio di un ufficiale dell’esercito sovietico e di una brillante economista, Navalny nasce nel 1976 alla periferia di Mosca. Da bambino trascorre le vacanze a Zalissya il piccolo villaggio ucraino da dove proviene il padre che si trova a pochi chilometri dalla centrale di Chernobyl e che verrà abbandonato dopo la catastrofe nucleare del 1986. Laurea in diritto nel 1998, si specializza negli anni successivi all’Università americana di Yale, Poi il rientro in patria e l’inizio di una lunga militanza politica. Da giovane Navalny è un fervente nazionalista e si iscrive al partito Jabloko di cui diviene il responsabile nell’area di Mosca. Sono i primi anni 2000 e le sue uscite xenofobe nei confronti degli immigrati dell’Asia centrale imbarazzano i vertici di Jabloko che lo espellono nel 2007: l’anno precedente aveva partecipato al corteo annuale di Marcia Russia, un cartello di formazioni ultranazionaliste di estrema destra. Navalny sostiene al contrario che il suo siluramento è stata una purga del leader del partito Grigorij Javlinskij di cui aveva chiesto le dimissioni. Poco male: i tempi sono maturi per fondare il suo movimento politico, Narod, che in russo vuol dire “popolo”. Ma la linea intransigente verso gli stranieri non cambia: in un video rivolto ai suoi sostenitori paragona i caucasici, in particolare ceceni e georgiani a degli «scarafaggi» che come tali dovrebbero essere eliminati. Come un sovranista qualunque del mondo occidentale afferma che in Russia la gran parte dei crimini viene commessa dagli stranieri e propone un rigido sistema di visti per gli immigrati delle ex repubbliche sovietiche. Nel 2008 quando scopèpia la guerra in Ossezia del sud chiede l’espulsione dal paese delle persone di etnia georgiana. Ma la carriera da giovane leader populista non decolla, troppa concorrenza in paese che ha il nazionalismo vergato nel proprio Dna politico dalla notte dei tempi. Navalny ha cambiato radicalmente le sue critiche, appoggiando le campagne per i diritti civili e contro la discriminazione dei gay. Ci vuole qualcosa di diverso, una svolta. Da uomo intelligente qual è Navalny ha saputo trasformare il suo discorso pubblico, adattandolo agli standard delle democrazie occidentali cambiando radicalmente il bersaglio delle sue critiche, appoggiando le campagne per i diritti civili e contro la discriminazione dei gay. Non più i migranti «scuri di pelle» dell’Asia centrale ma il sistema di potere di Vladimir Putin: lo fa attraverso il suo blog da cui denuncia la corruzione dei funzionari pubblici, in particolare nel settore degli appalti. Le sue inchieste pubblicate su internet in nome di un progetto chiamato RoPil hanno un buon seguito, soprattutto all’estero tramite un sistema di donazioni online riesce a coprire le spese legali delle sue denunce. Viene a sua volta accusato di frode con il fratello Oleg per appropriazione indebita ( avrebbe usato le donazioni per scopi personali) e viene condannato a 3 anni e 6 mesi. Nel 2018 crea un nuovo partito “Russia del futuro” che nel 2019 ottiene un ottimo risultato alle municipali nella circoscrizione di Mosca con il sistema dello smart vote, che consiste nel far votare il candidato anti- Cremlino in ogni collegio. Un piccolo rovescio per Russia Unita di Putin che nella capitale dimezza i voti rispetto al turno precedente. Ma nel frattempo la sua fondazione anti- corruzione viene sciolta dalle autorità che la classificano come “agente straniero”, alimentando la leggenda popolare che Navalny sia in realtà una spia, un mestatore sul libro paga della Cia. L’ultimo evento che lo riguarda è il presunto avvelenamento da parte dei servizi segreti russi dello scorso agosto: colpito da un malore mentre era in volo tra Tomsk e Mosca viene ricoverato in coma all’ospedale di Omsk e nei giorni seguenti a Berlino in Germania dove le sue condizioni migliorano fino alle dimissioni e al ritorno in Russia la scorsa settimana dove è stato nuovamente arrestato per violazione della libertà vigilata. Dovrà scontare 30 giorni di reclusione. Poi tornerà a sfidare Vladimir Putin nei panni del “grande oppositore” vezzeggiato dall’Occidente anche al di lù dei suoi meriti.

Da "Ansa" il 2 febbraio 2021. Alexei Navalny è stato condannato a 3 anni e 5 mesi di carcere da un giudice del tribunale distrettuale Simonovsky, riunitosi per l'occasione presso la sede del tribunale della città di Mosca. Lo riporta Dozhd. Il giudice ha deciso però di prendere in considerazione l'anno di detenzione domiciliare già scontato per il caso Yves Rocher e dunque ha ridotto la detenzione in carcere dai 3 anni e 5 mesi a 2 anni e 5 mesi di colonia penale.

Giuseppe Agliastro per "La Stampa" il 3 febbraio 2021. Alexey Navalny è stato condannato. La mannaia di una giustizia ritenuta al servizio del Cremlino si è abbattuta sul principe degli avversari di Putin imponendogli due anni e otto mesi dietro le sbarre. Il tribunale di Mosca ha riesumato una sentenza vecchia e controversa, dietro la quale molti vedono la volontà politica di colpire il principale animatore dei cortei d'opposizione, già vivo per miracolo dopo un avvelenamento per il quale si sospettano gli 007 di Putin. Una mera prepotenza secondo i governi occidentali, che da Washington a Bruxelles, da Berlino a Parigi, hanno subito domandato il rilascio di Navalny e altrettanto rapidamente si sono sentiti rispondere da Mosca che la loro richiesta «è sconnessa dalla realtà». Non sono bastate le critiche internazionali piovute sul Cremlino, e neanche le decine di migliaia di persone che negli ultimi due weekend sono scese in piazza. Il tribunale che ha esaminato il caso ha accolto le motivazioni della procura: Navalny - è la sua conclusione - non si è presentato davanti al giudice di sorveglianza a Mosca e ha quindi violato i termini della sospensione condizionale della pena concessagli nel 2014. Poco importa se quando ha ricevuto l'avviso il dissidente si trovava in Germania, ancora in convalescenza dopo l'avvelenamento con una micidiale neurotossina che ha fatto temere per la sua vita e per il quale gli occhi sono tutti puntati sul Cremlino. La motivazione appare grottesca ai più, ma la corte ha deciso che la condizionale va cancellata e che il dissidente deve scontare in galera la famigerata condanna per una presunta truffa alla società di cosmetici Yves Rocher (che peraltro nega di aver subito danni): tre anni e mezzo, a cui vanno sottratti i dieci mesi che il dissidente ha passato ai domiciliari. Si tratta della stessa sentenza per la quale il fratello di Alexey Navalny, Oleg, ha già trascorso in carcere tre anni e mezzo. La stessa già definita «arbitraria e infondata» dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo. Ma al governo russo non sembra importi molto. Il Cremlino ha deciso di andare avanti con i suoi metodi repressivi pur rischiando di trasformare in un martire della democrazia Navalny, finito in manette a metà gennaio non appena ha rimesso piede in Russia dopo l'avvelenamento. La polizia ieri ha arrestato oltre 350 persone che manifestavano davanti al tribunale. Poi ha blindato il centro di Mosca non appena l'opposizione ha invitato la gente a sfilare in Piazza del Maneggio, a due passi dalla Piazza Rossa, e anche lì sono scattati gli arresti. Alla fine il bilancio (parziale) della giornata era di 750 fermi, di cui 613 a Mosca. Navalny rischia di restare a lungo in cella. Su di lui pendono altre tre inchieste penali. Ma questo non gli ha impedito di scagliarsi contro Putin usando come un palcoscenico l'aula di tribunale. Chiuso dentro una gabbia di vetro, l'oppositore ha definito la sua detenzione una strategia del governo per «intimidire» i russi. «Vogliono imprigionare una persona per spaventarne milioni», ha dichiarato. Poi ha avuto anche la forza di fare dell'ironia su Putin lo «zar» e sul proprio avvelenamento. «Sapete - ha detto - c'erano Alessandro il Liberatore e Yaroslav il Saggio. Ora abbiamo Vladimir l'Avvelenatore». Poi, prima di essere portato via, ha formato con le mani un cuore dedicandolo a sua moglie Yulia. In aula c'erano diversi diplomatici stranieri e tanto è bastato alla Russia per accusare l'Occidente di «ingerenze». Tra Mosca e Occidente il duello è più acceso che mai. «La condanna di Navalny è contraria agli impegni internazionali della Russia in materia di Stato di diritto e libertà fondamentali», ha dichiarato l'Alto Rappresentante Ue Josep Borrell, atteso domani a Mosca per discutere di questa delicata questione che potrebbe costare alla Russia nuove sanzioni. Neanche gli Usa post-Trump sembrano voler restare con le mani in mano e il segretario di Stato Antony Blinken ha annunciato che Washington si coordinerà con i suoi alleati per valutare come rispondere al Cremlino. La Farnesina ha espresso «costernazione» e «forte preoccupazione», Macron ha definito la condanna «inaccettabile» e Berlino ha parlato di «puro cinismo», anche se al momento non pare voler rinunciare al gasdotto russo-tedesco Nord Stream-2.

Navalny al processo: «Putin passerà alla storia come Vladimir l'avvelenatore delle mutande». Il leader dell'opposizione ora non è più solo: in Russia milioni di persone conoscono la sua storia. «E presto  scopriranno molto di più. Ed è questo che fa impazzire il piccolo ladro nascosto nel suo bunker». Mentre le prigioni sono strapiene di manifestanti. Svetlana Ivanova su La Repubblica il 3 febbraio 2021. In Russia, per legge, un numero ristretto di liberi cittadini, ha potuto assistere, il 2 febbraio 2021, al processo in cui Navalny (leader dell’opposizione in Russia) è stato condannato a 2 anni ed 8 mesi di prigione. Davanti alla cattedra del tribunale si sono presentati 20 ambasciatori stranieri. Il Ministero Russo degli Affari Esteri ha considerato la presenza dei 20 ambasciatori come un’ingerenza negli Affari Russi. Ed ha perciò detto che la loro presenza era in realtà una manifestazione. "La sentenza che oggi ordina la reclusione di Alexei Navalny […] sfida ogni credibilità e viola gli obblighi internazionali in materia di diritti umani in Russia", così ha affermato il Commissario della Corte europea dei diritti dell'uomo. Navalny è stato condannato per un vecchio caso penale che la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva chiuso per mancanza di corpus delicti. Il dissidente Alexei Navalny è stato condannato a 3 anni e mezzo di carcere, di cui un anno già scontato agli arresti domiciliari. Navalny, prima della sentenza, ha rivolto più volte un 'cuore' alla moglie Yulia, presente in aula insieme ad altri suoi sostenitori. In seguito alla sentenza sono state organizzate diverse manifestazioni di protesta in Russia: circa 1000 persone sono state arrestate, la maggior parte di queste a Mosca. Nel suo discorso in tribunale, Navalny salutando tutti coloro che lottano e non hanno paura, ha detto: «Ho inflitto un'offesa mortale [a Putin, ndr] per il fatto di essere sopravvissuto. […] Poi l'ho offeso ancora di più – per il fatto che, essendo sopravvissuto, non mi sono nascosto, vivendo da qualche parte sotto scorta nel bunker più piccolo che potevo permettermi. E poi è successo qualcosa di terribile. Non solo sono sopravvissuto, non solo non mi sono spaventato o nascosto – ma ho anche partecipato alle indagini sul mio avvelenamento. E abbiamo dimostrato così che è stato Putin, usando l'FSB (Servizi Segreti Russi, ndr), a tentare questo omicidio». Navalny ora non è più solo. Adesso in Russia milioni di persone conoscono la sua storia. «E presto – ha continuato Navalny- scopriranno molto di più. Ed è questo che fa impazzire il piccolo ladro (Putin, ndr) nascosto nel suo bunker. E precisamente il fatto che tutto questo è stato rivelato, capisci?» dice Navalny inchiodando con lo sguardo i suoi giudici. «È così che [Putin, ndr] passerà alla storia, come Vladimir l'avvelenatore delle mutande». «La cosa principale in questo processo non è nemmeno come finirà per me. […] In generale, non è difficile mettermi in prigione, per questa o per un'altra scusa. Ma lo scopo principale è intimidire un numero enorme di persone. Funziona così: viene imprigionato un singolo uomo per spaventare milioni di persone». Il presidente russo Vladimir Putin, durante il processo di Navalny, era in collegamento video con i vincitori del concorso "Insegnante dell'anno Russia-2020", la cui finale si è svolta martedì. Peskov, il suo press secretary, ha detto che “Putin non sta seguendo affatto il processo di Navalny”. Questo far finta di niente, fingere di ignorare totalmente l’avversario, al punto da non chiamarlo mai per nome, è ovviamente un bluff. I colleghi di Navalny hanno indetto una "protesta immediata a Mosca" dopo la decisione della corte. Sembra che le forze dell’ordine fossero informate in anticipo sulla decisione del tribunale. Per le strade del centro di Mosca, infatti, c’erano più forze dell’ordine, che passanti. Nel gelido buio invernale, se appena due persone si fermano a guardare cosa sta succedendo e si chiedono come mai ci siano tutti questi militari in giro; i poliziotti subito gridano con voce dura: «questa manifestazione non è autorizzata!». Per la prima volta la metropolitana moscovita è stata bloccata. La fermate del centro son state chiuse. Gli agenti della polizia hanno perquisito gli appartamenti seguendo delle liste precise. Su queste liste non c’erano sono solo attivisti e persone del mondo della cultura, che hanno parlato per Navalny, ma anche, e per la prima volta, i giornalisti indipendenti che hanno seguito e raccontato le manifestazioni. Nel frattempo, da più di 48 ore, stanno ancora girando, per le gelide strade russe, gli autobus-cellulari della polizia, stracarichi di cittadini trattenuti alle scorse manifestazioni. Su questi mezzi è impossibile dormire e mangiare e non ci sono servizi igienici. Queste persone non hanno trovato riparo in prigione, perché non ci sono più posti liberi. Le prigioni sono strapiene di manifestanti.

Il dissidente russo avvelenato e imprigionato. Navalny trasferito in una colonia penale: “Nessuna minaccia per la sua salute e la sua vita”. Vito Califano su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Alexei Navalny è stato trasferito in una colonia penale. Questo il nuovo capitolo del caso del dissidente avvocato 44enne russo del Presidente Vladimir Putin. A far sapere del trasferimento il capo dei servizi carcerari russo. Uno degli avvocati del dissidente, Olgo Mikhailova, aveva denunciato proprio l’imminente trasferimento dalla prigione di Mosca. Navalny è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione. “È stato trasferito esattamente nel luogo in cui deve stare in base alla sentenza del tribunale”, ha dichiarato il capo del servizio carcerario federale Alexander Kalashnikov, che non ha reso noto il nome dell’istituto dov’è stato trasportato Navalny. “Garantisco che non esistono minacce per la sua vita e la sua salute”, ha aggiunto Kalashnikov. La settimana scorsa il tribunale di mosca ha confermato la pena a quasi tre anni per il blogger dopo il ricorso contro la condanna per violazione dei termini della libertà provvisoria, relativa a una condanna, anche questa controversa, per frode del 2014. Navalny è stato condannato anche per diffamazione per aver definito “traditore” un veterano della Seconda Guerra Mondiale che ha appoggiato pubblicamente la riforma della Costituzione che ha permesso il Presidente Putin di ricandidarsi al Cremlino fino al 2036. La scorsa settimana la Corte europea dei diritti umani aveva ordinato alla Russia di rilasciare Navalny sostenendo che la sua vita fosse in pericolo in prigione, ma Mosca ha respinto la richiesta. Quello di Navalny – una figura comunque controversa, come dimostra la cancellazione da parte di Amnesty Internationale del suo nome tra i prigionieri di coscienza – è diventato un caso internazionale: lo scorso agosto è stato avvelenato. Soltanto un atterraggio di emergenza del suo volo di ritorno dalla Siberia ha impedito la morte. È stato intossicato con il Novichok, gas nervino utilizzato e perfezionato dai servizi dell’Unione Sovietica. Sospettati funzionari dei servizi segreti russi. Il 44enne dissidente è stato trasferito e curato a Berlino. Ha quindi, dopo essersi svegliato, deciso di tornare in patria, cosciente che sarebbe stato arrestato, lo scorso gennaio. La sua rete ha pubblicato intanto un’inchiesta, che ha avuto risonanza mondiale, sulla villa “segreta” di Putin sul Mar Morto. Proteste e manifestazioni come in Russia non se ne vedevano da anni si sono viste negli ultimi mesi a partire dall’avvelenamento e dall’arresto di Navalny.

Da adnkronos.com il 3 marzo 2021. E' considerata "zona rossa", nel senso che ogni aspetto della vita del detenuto è sotto controllo. Non sono autorizzate le mail e le lettere arrivate con la posta ordinaria vengono consegnate dopo settimane, se non mesi, dal loro arrivo, dopo essere state lette dai secondini. "E' una struttura dura, con regole molto rigide, per usare un eufemismo", ha spiegato Eva Merkacheva, che fa parte dell'organizzazione civica per il controllo del sistema carcerario, in una intervista a Bloomberg. "Cercano di controllare ogni tuo passo e ogni tuo pensiero", ha aggiunto testimoniato Konstantin Kotov che a Ik-2 ha trascorso un anno e mezzo, dopo essere stato condannato per aver ripetutamente partecipato a manifestazioni di protesta nell'estate del 2019, a Mosca. Vieni punito per non aver salutato una guardia o per aver chiesto in prestito dei guanti, dopo che quelli che ti sono stati spediti non ti sono stati consegnati, aggiunge, ricordando "l'enorme pressione psicologica" subita. I detenuti sono ospitati in stanzoni con anche 150 brandine. "E' un posto in cui non esiste legge. Ti spezzano. Da tempo accadono cose negative, alcune delle quali sono state denunciate già dieci anni fa", ha spiegato Pyotr Kuryanov, avvocato della Fondazione per la difesa dei detenuti, in una intervista a Moscow Times. Vi fu rinchiuso Vladimir Pereverzin, ex manager della Yukos di Mikhail Khodorkovsky che ha descritto in un memoriale i due anni trascorsi a Ik-2. "La prigione è vicina a una palude, è freddo e il cibo è pessimo. E' un posto violento in cui stare", ha commentato. Vi è stato detenuto anche il nazionalista Dmitry Demushkin, condannato per istigazione all'odio, per cui il carcere è stato "come una tortura". "Non potevo parlare ad altri detenuti, non potevano guardarmi". Un quarto detenuto, che ha preferito non farsi citare, ha raccontato di essere stato spesso picchiato dalle guardie e da altri detenuti. "C'è un intero sistema che consente violenze e umiliazioni su base quotidiana", ha affermato.

Da “il Giornale” il 16 marzo 2021. Alexey Navalny, il principale avversario politico del presidente russo Vladimir Putin, ha denunciato di essere stato trasferito in un «accogliente campo di concentramento» dopo la pena di due anni e mezzo da scontare ancora. Con un post pubblicato sul suo account Instagram, in cui conferma il suo arrivo nel centro di detenzione Ik-2 di Pokrov, nella regione di Vladimir, ha anche reso noto di essere stato rasato al suo arrivo. «Bisogna riconoscere che il sistema carcerario russo è riuscito a sorprendermi. Non pensavo che si potesse costruire un campo di concentramento a cento chilometri da Mosca», ha scritto il dissidente. «Qualcuno ai piani ha letto 1984 di Orwell e ha detto: bello, facciamolo. Educazione attraverso la disumanizzazione. Ma se non prendi tutto con ironia, riesci a sopportarlo. Tutto sommato, sto bene». La vita nella colonia penale, ha aggiunto, consiste «nell' adempimento di regole senza fine». «Tre cose non cessano di sorprendermi. Il cielo stellato sopra di noi, l' imperativo categorico che ci portiamo dentro, e la sensazione incredibile di passarsi la mano sul capo appena rasato. Saluti a tutti dal Settore del Controllo rafforzato A», ha scritto. La scorsa settimana gli avvocati del dissidente sono andati a trovarlo nella struttura carceraria di Kolchugino, in cui era stato portato per un periodo di quarantena ma non lo hanno trovato e non sono state fornite loro informazioni sulla nuova destinazione. La notifica informa Navalny che il caso giudiziario relativo alla sua denuncia inizierà oggi. Il tribunale chiede al carcere «di fare in modo che Navalny partecipi all' udienza in video conferenza». Il carcere IK-2, che si trova a un centinaio di chilometri da Mosca, viene considerato come uno dei più duri della Russia europea.

Fabrizio Dragostei per "corriere.it" il 26 marzo 2021. Lo aveva detto subito, appena era stato trasferito nel centro di detenzione di Kolchugino a 150 chilometri da Mosca. «Non credevo che oggi in Europa potessero ancora esistere i campi di concentramento». Aleksej Navalny è sottoposto a un regime durissimo che non ha alcuna motivazione se non quella di minare la sua salute mentale e fisica, come ha scritto la moglie in un appello al presidente Vladimir Putin. «Ciò che sta accadendo è giustizia sommaria per realizzare una vendetta personale». Il blogger e principale oppositore del presidente sta male e non viene curato adeguatamente, secondo quanto ha affermato il suo avvocato che ieri è riuscito finalmente a incontrarlo, dopo aver insistito a lungo. Ha da tempo forti dolori alla schiena, non riesce quasi più a usare una gamba e, finora, in carcere gli hanno somministrato solo degli anti-infiammatori per bocca. Poi è stato sottoposto a una tac ma i risultati non sono noti. La situazione di Navalny appare assurda dall’inizio. È stato condannato anni fa per una truffa a una società francese, la Yves Rocher, che ha sempre affermato di non aver mai avuto alcun danno. La sentenza è stata giudicata immotivata dalla Corte europea per i diritti umani che ha intimato allo Stato russo di pagare i danni al blogger e a suo fratello Oleg, coimputato (e la Russia ha liquidato più di 70 mila euro). Dopo aver scontato una parte della pena in carcere, Navalny era in libertà con la condizionale. Per l’avvelenamento subito in Siberia, era stato portato in Germania per essere curato e per questo motivo ha saltato i controlli periodici di fronte alle autorità carcerarie. Così un tribunale lo ha rispedito in carcere per due anni e mezzo. Pur sapendo che sarebbe stato immediatamente arrestato, Navalny ha deciso di ritornare in patria. Ma ora a Kolchugino è catalogato come detenuto ad alto rischio di evasione. Quindi è in un reparto speciale e ogni due ore di notte una guardia lo sveglia per vedere se è ancora lì. Il presidente lo ha messo in prigione «perché ha paura della competizione politica e vuole rimanere sul trono per tutta la vita», ha scritto Yulia Navalnaya. «Vladimir Putin ha detto a tutto il Paese che legge i miei appelli. E quindi esigo che mio marito, Aleksej Navalny, che egli ha messo in prigione illegalmente, venga rilasciato immediatamente».

Navalny si fa i selfie con lo smartphone da un “campo di concentramento” . Rec News il  16 Marzo 2021. L’esponente di Russia del Futuro sta scontando due anni e mezzo presso la colonia penale numero 2 nella città di Pokrov, nella regione di Vladimir. Il motivo non è l’opposizione a Putin (il suo movimento che non è mai riuscito a trasformarsi in partito per irregolarità burocratiche ha un gradimento pari a quello di +Europa in Italia), ma l’affare Yves Rocher. I giudici nelle motivazioni della sentenza hanno rilevato come Navalny abbia truffato la filiale tramite la sua società GPA (Glavnoye Podpisnoye Agentstvo) assieme ad altri componenti della sua famiglia. Un ruolo preponderante è stato svolto dal fratello, Oleg Navalny, e dalla moglie Yulia Navalnaya, per la quale è stato emesso un ordine di cattura internazionale. Non a caso, la donna a febbraio è fuggita in Germania, dove i Navalny con buona probabilità godono di protezione e sussidio: sono infatti tedeschi i medici che hanno dichiarato l’avvelenamento da novichok, in netta discordanza rispetto a quanto è stato appurato attraverso i referti medici. Per tutte queste vicende, Navalny è attualmente detenuto a circa cento chilometri da Mosca. Il campo di Pokrov è sicuramente noto per la rigidità del clima in inverno, per il protocollo discretamente rigoroso (non ci vanno i ladri di merendine) e per le attività lavorative che vi si svolgono all’interno. Con tutto questo, l’esponente di “Russia del Futuro” sembra stia godendo di un trattamento discretamente privilegiato, al contrario di quanto sostiene. Il clima da dittatura è tale, in Russia, che un “oppositore” in carcere può utilizzare lo smartphone, scattarsi selfie e postarli su Instagram. Ovviamente il mainstream abbocca e questa mattina ha riportato le considerazioni di Navalny, che è apparso col cranio rasato in rispetto dei protocolli igienico-sanitari della struttura. Ha parlato di “etichette e numeri” sulla maglia ma, nei fatti, indossava una normale maglia verde militare con su una scritta.  “La routine, il quotidiano, l’osservanza letterale di regole infinite. Telecamere ovunque, tutti sono monitorati e alla minima infrazione viene fatta una denuncia. L’educazione attraverso la disumanizzazione”, scrive Navalny, teatrale come sempre. Una disumanizzazione che passa anche dalla possibilità di mantenere i contatti con l’esterno, con lo smartphone.

"Navalny è di certo un agente occidentale. Le sanzioni Ue e Usa sono come medaglie". La direttrice di "Russia Today", la voce di Putin nei media mondiali: "Secondo voi lo Stato lo avrebbe fatto avvelenare da 8 del Fsb soltanto per poi salvarlo?" Angelo Allegri - Lun, 08/03/2021 - su Il Giornale. È la rappresentante ufficiosa del Cremlino nel mondo dei media internazionali: Margarita Simonyan dirige Rt (fino a qualche tempo fa Russia Today), canale satellitare all news, e l'agenzia di stampa Rossiya Segodnya, entrambe create e finanziate dalla Russia di Vladimir Putin. Nata a Krasnodar, nella parte meridionale del Paese, da una famiglia armena sfuggita alle persecuzioni ottomane, ha fatto crescere Rt un po' alla volta, aggiungendo al servizio in lingua inglese, trasmesso in tutto il mondo, anche quelli in arabo, francese, spagnolo e tedesco. Con il ruolo sono cresciute anche le polemiche: Rt è stata spesso accusata di essere un elemento importante della macchina propagandistica russa, grazie a una linea editoriale in cui figurano ampie dosi di complottismo e una costante svalutazione delle democrazie liberali. I collaboratori di Alexey Navalny, il dissidente incarcerato, hanno appena chiesto che venga sottoposta a sanzioni da parte dell'Occidente per il ruolo nella repressione del movimento di protesta. Le sue parole sono un buon termometro dell'opinione della classe dirigente di Mosca.

Quindici anni fa lei ha fondato, da direttore, RT. Allora di anni ne aveva solo 25. Che obiettivi avevate allora e che obiettivi avete oggi?

«Allora volevamo solo che nel mondo fosse disponibile un ritratto accurato della realtà russa, che finalmente la voce della Russia fosse ascoltata e che non fossero più gli altri Paesi e i loro media a definire chi e cosa siamo, come è avvenuto per generazioni. Con il tempo abbiamo scoperto che nel mondo c'era una grande richiesta non solo di una prospettiva russa, ma di voci, storie e visioni alternative. Da allora il nostro obiettivo è stato quello di essere la piattaforma leader di questa alternativa su ciò che succede nel mondo».

E di questi 15 anni che cosa la inorgoglisce di più?

«Sono orgogliosa del fatto che Rt è diventata un'alternativa decisiva ai media mainstream dell'Occidente, la piattaforma per le storie e i punti di vista trascurati dagli altri. Da Larry King, recentemente scomparso, a Julian Assange e Rafael Correa, Rt è il canale dove si è potuto parlare liberamente, anche di verità scomode».

In questo periodo però le relazioni tra Occidente e Russia sono peggiorate. Si parla di una nuova guerra fredda.

«La vecchia guerra fredda non è mai finita perchè l'atteggiamento nei confronti della Russia, il fatto di vederla come un avversario, non è mai cambiato. Nè è mai stato fatto uno sforzo serio per capirla davvero. Per parecchi anni dopo il crollo dell'Unione Sovietica, la Russia è stata vista in Occidente come il Paese che aveva perso il confronto internazionale e che per questo era troppo debole per essere presa in considerazione o rispettata. Appena è tornata più forte economicamente, socialmente o dal punto di vista geopolitico, appena l'establishment occidentale non è più riuscita a controllarla e a dominarla, la Russia è diventata di nuovo il nemico».

Ci sono però cose che in Occidente è impossibile capire, come l'atteggiamento russo sul caso Navalny. Viene avvelenato e le autorità di Mosca non aprono nemmeno un'inchiesta. Un ufficiale del Fsb (l'ex Kgb) ammette in una conversazione telefonica di aver partecipato all'avvelenamento e non succede niente. Navalny torna in Russia e viene arrestato, nonostante il Tribunale europeo per i diritti umani dica che la sua condanna viola lo stato di diritto. Come lo spiega?

«Ogni volta che Mosca ha fatto degli sforzi per indagare sull'incidente, quando ha chiesto di accedere alle prove che apparentemente erano state raccolte dalle autorità tedesche o proposto una collaborazione sulla questione, le sue richieste sono state rifiutate. Ma proviamo a valutare l'incidente in generale. Pensa davvero che lo stato russo volesse davvero così disperatamente eliminare qualcuno da spedire una squadra di 8 ufficiali dei servizi di sicurezza, altamente addestrati; che questi gli abbiano dato la caccia per 3 anni per fargli poi scivolare addosso qualche tipo di veleno, solo perché i dottori dello stesso Stato russo impiegassero ore per salvargli la vita e perché infine lo lasciassero volare via su un aereo tedesco, con i confini internazionali chiusi per la pandemia? È uno scenario assurdo, non capisco come qualcuno possa crederlo».

Allora è d'accordo con la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, quando dice che gli aderenti al movimento di Navalny sono agenti della Nato?

«Per me è ovvio che Navalny è una risorsa dell'Occidente, se specificamente della Nato, degli Stati Uniti o della Germania non saprei dirlo. E ho questa convinzione, non solo e non tanto per i comportamenti di Navalny, ma per il comportamento di questi Paesi, per come i loro politici, i loro servizi di sicurezza e i loro media lo trattano e ne parlano, e per come l'hanno fatto ormai da 10 anni a questa parte».

Il movimento di Navalny ha chiesto che lei sia oggetto di sanzioni da parte di Ue e Usa per aver attivamente contribuito alla repressione contro l'opposizione. Che effetto le fa?

«Lo prendo come un distintivo d'onore. E ogni patriota russo reagirebbe allo stesso modo».

Nel suo passato c'è anche il soggiorno di un anno negli Usa come studente. Che ricordo ha conservato di quel periodo?

«Il più bello è quello del tempo trascorso con la mia famiglia americana, che mi ha accolto come fossi di casa sin dal primo giorno. Sarò sempre affezionata ai piccoli momenti passati con il mio papà e la mia mamma americani. Lei è morta per un tumore l'anno scorso, ma il ricordo resterà con me per sempre».

Biden chiede il rilascio dell'oppositore. Morto improvvisamente il medico russo che curò Navalny dopo l’avvelenamento. Redazione su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. È morto uno dei medici dell’ospedale russo dove il leader dell’opposizione, Alexey Navalny, è stato curato immediatamente dopo il suo avvelenamento la scorsa estate. Lo ha comunicato la struttura sanitaria, secondo quanto riporta la Cnn. Sergey Maximishin, che era il vice primario dell’ospedale di emergenza di Omsk, è deceduto “improvvisamente” all’età di 55 anni, secondo una dichiarazione rilasciata dal nosocomio. “Con rammarico, vi informiamo che … il vice capo medico per l’anestesiologia e la rianimazione dell’ospedale di emergenza №1, assistente del dipartimento dell’Università statale di medicina di Omsk, dottore di ricerca in scienze mediche Maksimishin Sergey Valentinovich è improvvisamente morto”, si legge nella dichiarazione dell’ospedale, che non ha menzionato una causa di morte. Proprio oggi il presidente Usa Joe Biden, parlando dal dipartimento di Stato, aveva sottolineato che l’oppositore di Putin “dovrebbe essere rilasciato immediatamente e senza condizioni“. “Non esiteremo ad aumentare i costi per la Russia e a difendere i nostri interessi vitali e il nostro popolo”, ha aggiunto Biden.

Da "lastampa.it" il 5 febbraio 2021. Sergey Maximishin, il medico russo che ha curato Alexey Navalny dopo l'avvelenamento da Novichok, la scorsa estate, all'ospedale di Omsk, è morto improvvisamente a 55 anni. Lo rende noto lo stesso ospedale con una dichiarazione riportata dalla Cnn, senza rendere note le cause del decesso. «Con rammarico, vi informiamo che ... il vice capo medico per l'anestesiologia e la rianimazione dell'ospedale di emergenza No1, assistente del dipartimento dell'Università statale di medicina di Omsk, dottore di ricerca in scienze mediche Maksimishin Sergey Valentinovich è improvvisamente morto», si legge nella dichiarazione dell'ospedale, che non ha menzionato una causa di morte. Maksimishin Sergey Valentinovich era considerato uno dei migliori medici della struttura ospedaliera. 

Morto il medico russo che curò Navanly dopo avvelenamento: è giallo. Debora Faravelli su Notizie.it il 05/02/2021. L'ospedale di Omsk ha comunicato che il medico russo che curò Navalny dopo l'avvelenamento è morto all'improvviso per cause ignote. Il medico russo che ha curato Alexey Navalny all’ospedale di Omsk dopo l’avvelenamento da Novichok avvenuto nell’estate del 2020 è morto improvvisamente a 55 anni. Si indaga sulle cause del decesso. A confermare la notizia è stata una nota del nosocomio in cui lavorava: “Con rammarico vi informiamo che il vice capo medico per l’anestesiologia e la rianimazione dell’ospedale di emergenza, assistente del dipartimento dell’Università statale di medicina di Omsk e dottore di ricerca in scienze mediche Maksimishin Sergey Valentinovich è improvvisamente morto“. Considerato uno dei migliori medici della struttura ospedaliera, non c’è alcun riferimento alle cause della morte, che ci penserà soltanto l’esame autoptico a chiarire con certezza. Nel mentre Alexei Navalny, considerato il maggior oppositore di Putin, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere per aver violato le condizioni sulla libertà condizionale in seguito ad una condanna del 2014. Si tratta proprio del periodo di diversi mesi che il giovane aveva trascorso in Germania in seguito all’avvelenamento e alle prime cure ricevute in Russia proprio dal medico Maksimishin Sergey Valentinovich. Non appena tornato nel suo paese, le forze dell’ordine lo avevano infatti arrestato scatenando proteste violentissime nelle più grandi città russe. Inevitabile che il suo caso sarà al centro del colloquio tra il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea Josep Borrell. L’uomo è volato a Mosca per una delicata visita di tre giorni.

Debora Faravelli. Nata in provincia di Como, classe 1997, frequenta la facoltà di Lettere presso l'Università degli studi di Milano. Collabora con Notizie.it

Al suo avvocato non è stato consentito raggiungerlo. Navalny arrestato a Mosca, bacio alla moglie e bagno di folla vietato per l’oppositore di Putin. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Gennaio 2021. Alexei Navalny è stato arrestato al controllo passaporti dell’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, dove l’aereo sul quale viaggiava era atterrato intorno alle 18 di domenica 17 gennaio. Lo riporta il Moscow Times, aggiungendo che al suo avvocato non è stato consentito raggiungerlo. Navalny e sua moglie hanno lasciato l’aereo per salire sulla navetta dell’aeroporto con gli altri passeggeri verso l’edificio del terminal. Prima dell’arresto, Navalny ha dato un bacio a sua moglie ed è scomparso con gli agenti. La causa ufficiale dell’arresto di Navalny è stata la mancata comparizione all’udienza per la libertà vigilata per una condanna ricevuta nel 2014. Poco prima, dopo essere arrivato nel terminal dell’aeroporto, Navalny aveva detto ai giornalisti di sentirsi “assolutamente felice” e aveva definito oggi “il miglior giorno dei miei ultimi cinque mesi”. L’oppositore di Putin aveva inoltre criticato le autorità per avere deviato l’aereo facendolo atterrare nell’aeroporto Sheremetyevo e non nello scalo di Vnukovo dove l’atterraggio era inizialmente previsto, probabilmente per evitare la presenza di giornalisti e sostenitori che erano giunti a Vnukovo per assistere da testimoni al rientro dell’oppositore in Russia. Prima di partire da Berlino per Mosca, Navalny a proposito del rischio di arresto aveva detto: “È impossibile, sono un uomo innocente”. Il servizio penitenziario russo (Fsin) ha confermato l’arresto di Navalny dopo il suo rientro dalla Germania, dicendo che è accusato di numerose violazioni della libertà condizionale e delle condizioni di una pena detentiva sospesa. Navalny – ha fatto sapere il sistema penitenziario – resterà in custodia finché una Corte non deciderà sul suo caso. Precedentemente il Fsin aveva riferito che per Navalny il fatto di stare fuori dal Paese (era in Germania per curarsi a seguito dell’avvelenamento di agosto con un gas nervino di cui accusa il Cremlino) aveva violato le condizioni previste da una pena sospesa del 2014 a suo carico per appropriazione indebita. Il portavoce di Aleksei Navalny, Kira Yarmysh, ha detto che il Cremlino era terrorizzato da Navalny e dalle immagini che mostravano grandi folle che volevano salutarlo. “Fino a poco tempo fa, era impossibile credere che le autorità fossero cosi’ spaventate. Ma ecco la conferma”, ha scritto su Twitter.

Caos in Russia. Navalny in carcere almeno fino al 15 gennaio, l’oppositore di Putin attacca: “Illegalità di prim’ordine”. Redazione su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Alexei Navalny resterà agli arresti fino al 15 febbraio. O meglio, almeno fino al 15 febbraio. Il rischio, infatti, è che debba scontare tre anni e mezzo di carcere. Lui ha invitato i suoi sostenitori a non aver paura e scendere in piazza. E l’arresto è subito diventato un nuovo tassello di tensioni fra la Russia e l’Occidente. La prima udienza, a poche ore dall’arresto nell’aerporto Sheremetyevo di Mosca al suo arrivo da Berlino, si è tenuta in una stazione di polizia alle porte di Mosca, dando un preavviso di solo qualche minuto ai legali dell’oppositore russo e lasciando fuori molti giornalisti. “Perché l’udienza della Corte si sta tenendo in questura?”, è “una beffa della giustizia” e “un’illegalità di prim’ordine”, ha detto Navalny in un video. Poi un riferimento a Vladimir Putin: “Pare che un uomo anziano nel bunker (Putin ndr.) abbia così paura che ha palesemente fatto a pezzi il codice penale”. Il giudice gli ha imposto 30 giorni di detenzione. Oppositore di Putin, 44 anni, noto per le sue inchieste contro la corruzione, Navalny domenica sera è stato fermato al suo rientro per la prima volta in Russia dopo l’avvelenamento del 20 agosto, per il quale accusa il Cremlino. Quel giorno si era sentito male su un volo di ritorno a Mosca dalla città siberiana di Tomsk: l’aereo si era allora fermato a Omsk e da qui, dopo due giorni di braccio di ferro diplomatico, era stato trasferito in ospedale a Berlino. La condanna internazionale è unanime: dall’Onu alla Nato; dall’Ue, per bocca della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, agli Usa, per bocca tanto del segretario di Stato uscente dell’amministrazione Trump, Mike Pompeo, quanto del prescelto da Joe Biden come consigliere per la sicurezza nazionale. Tutti chiedono, oltre che il rilascio immediato, “un’indagine accurata e indipendente sull’attacco alla vita di Alexei Navalny”, come ha detto von der Leyen. Ma la risposta di Mosca è secca: le reazioni dell’Occidente riflettono un tentativo di “distrarre l’attenzione dalla crisi del modello di sviluppo occidentale”, ha tagliato corto il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. La Russia si rifiuta di aprire un’indagine sul tentato omicidio di Navalny, sostenendo che manchino prove di avvelenamento: dalle analisi effettuate da laboratori di Germania, Francia e Svezia, nonché dall’Opac, risulta che l’attivista è stato esposto all’agente nervino di epoca sovietica Novichock, ma Mosca insiste che i medici che hanno curato Navalny in Siberia prima del trasferimento in Germania non hanno trovato nessuna traccia di veleno. Il motivo dell’arresto di Navalny è il seguente: con la sua permanenza fuori dalla Russia, cioè appunto a Berlino dove è stato portato ad agosto in coma dopo l’avvelenamento, avrebbe violato le condizioni di una pena sospesa del 2014 a tre anni e mezzo per appropriazione indebita, pena che ora il servizio penitenziario russo (Fsin) chiede alla Corte di convertire in detenzione effettiva. Il 29 gennaio si terrà una nuova udienza, per determinare se la pena sospesa di Navalny debba essere convertita realmente nel carcere. Intanto per questo sabato, 23 gennaio, un collaboratore dell’attivista, Leonid Volkov, ha convocato massicce proteste in tutto il Paese.

Mary Hanbury and Áine Cain per businessinsider.com l'11 gennaio 2021. Vladimir Putin potrebbe tranquillamente essere l’uomo più ricco del mondo. Ma è impossibile dirlo con certezza. Secondo il Cremlino, il presidente russo guadagna circa 133.000 dollari (circa 115 mila euro) all’anno e vive in un piccolo appartamento. Questa descrizione non combacia con la maggior parte dei resoconti sullo stile di vita di Putin. L’ex consigliere del governo russo Stanislav Belkovsky ha stimato che la sua fortuna vale 70 miliardi di dollari (60,2 miliardi di euro). Il gestore di fondi speculativi Bill Browder, un noto critico di Putin, ha affermato che la sua ricchezza sarebbe più vicina ai 200 miliardi di dollari (172 miliardi di euro). Una fortuna enorme che lo spingerebbe alla pari di Jeff Bezos (o di Elon Musk, che lo ha appena superato). Dunque perché non possiamo definire con certezza il patrimonio netto di Putin? I Panama Papers del 2015 hanno rivelato che Putin potrebbe oscurare e rafforzare la sua fortuna attraverso le deleghe concesse a persone di sua fiducia. Abbiamo messo insieme un elenco di tutti gli indizi che mostrano come probabilmente Putin sia una delle persone più ricche del mondo:

LA RESIDENZA GOVERNATIVA. Come presidente della Russia, la residenza ufficiale di Putin è il Cremlino, a Mosca. Tuttavia egli trascorre la maggior parte del suo tempo in una residenza governativa periferica che si trova al di fuori della città di Novo-Ogaryovo. Secondo quanto riferito da lui stesso, ha accesso a 20 diversi palazzi e ville.

LA VILLA. I registri ufficiali pubblicati nel 2016 dal Cremlino vorrebbero farci credere che Putin abbia un portafoglio immobiliare molto modesto. Il rapporto diceva che possedeva solo un piccolo appezzamento di terra e un appartamento con un garage.

Ma nel corso degli anni Putin è stato collegato ad altre proprietà. La più controversa delle quali è il cosiddetto “palazzo segreto”. Secondo quanto riferito, è stato costruito per Putin utilizzando dei fondi statali illegali.

IL PALAZZO SEGRETO. Secondo quanto riferito,  per costruire questa fantastica villa è stato speso 1 miliardo di dollari (860 milioni di euro). Ha un teatro privato e una pista di atterraggio con lo spazio per tre elicotteri. Le camere sono appositamente grandiose. E le decorazioni delle pareti sono altrettanto sfarzose. Alcune istantanee della villa in costruzione trapelarono già nel 2011.

LE CAMERE. E l’anno seguente il leader dell’opposizione e critico di Putin Boris Nemtsov produsse un dossier sostenendo che Putin possedeva diversi jet privati, elicotteri e yacht. Nemtsov affermò che, su 20 residenze statali a cui Putin aveva accesso, nove erano state costruite durante il suo mandato come presidente. Il presidente è stato anche accusato di possedere 58 diversi tipi di velivoli, tra cui un Dassault Falcon, che ha 19 posti. Si dice che uno dei suoi aerei abbia una cabina da 11 milioni di dollari (9,5 milioni di euro) allestita dai gioiellieri e una toilette che è costata circa 100.000 dollari (86.000 euro). Questo aereo può ospitare fino a un massimo di 186 passeggeri. Putin è accusato di possederne cinque.

AFFRESCHI. Il dossier ha affermato che Putin ha una collezione di quattro yacht, per mantenere ognuno dei quali ci vogliono migliaia di dollari. Rossiya, uno dei suoi yacht, è stato potenziato nel 2005. Secondo quanto riferito, il costo totale è di 1,2 miliardi di dollari. “The Graceful”, un altro dei suoi yacht, (mostrato sotto) a quanto pare ha 14 posti letto e 6 stanze da letto.

LO SFARZO NELLE CAMERE. Poi c’è Olympia. Secondo quanto riferito, questo yacht di lusso di 57 metri, del valore di 35 milioni di dollari (30,1 milioni di euro), è stato donato dal proprietario del Chelsea Football Club l’oligarca Roman Abramovich. Secondo un ex capo della compagnia di navigazione statale russa, Putin mantiene lo yacht usando soldi pubblici.

YACHT. A Putin piace anche curare molto il suo aspetto. Il dossier del 2012 ha affermato che Putin ha 11 orologi per un valore stimato di 687.000 dollari (591.000 euro). Secondo il documento di proprietà del governo russo “La Russia oltre i titoli”, Putin possiede un Tourbograph di A. Lange & Söhne Perpetual “Pour Le Mérite”, che costa mezzo milione di dollari.

STESSO MODELLO DI QUELLO DI PUTIN. Un Patek Phillippe da 1 milione di dollari (860.000 euro) che è andato all’asta nel luglio 2017 sarebbe stato anch’esso di proprietà di Putin. La documentazione di accompagnamento affermava che ne era stato il proprietario. Il Cremlino ha negato queste affermazioni. In passato Putin ha persino regalato i suoi orologi. Il presidente, a quanto si dice, possedeva ben cinque orologi Blancpain ma ne ha regalato uno a un ragazzo siberiano mentre era in vacanza e un altro a un operaio che gli aveva chiesto un suo ricordo personale. Gli orologi secondo quanto riportato valevano 10.500 dollari (9.000 euro) l’uno.

UN AEREO COME QUELLO DI PUTIN. Poi ci sono i suoi vestiti. Ben Judah di Newsweek ha trascorso tre anni facendo ricerche su Putin per il suo libro e ha affermato che Putin preferisce sopra ogni cosa abiti su misura e cravatte “scure” di Valentino. Il giornale di proprietà del governo russo “Russia Beyond the Headlines” ha confermato i gusti costosi di Putin per gli abiti su misura. Nel 2015 ha pubblicato un articolo in cui affermava che i marchi preferiti del presidente erano Kiton e Brioni, “Abiti del genere sono fatti da zero da un sarto, richiedono dozzine di ore per essere completati e hanno un prezzo di partenza di 5.500 dollari (4.731 euro)” diceva l’articolo.

PALESTRA PERSONALE DI PUTIN. Secondo quanto riportato da “Russia Beyond the Headlines”, Putin ha anche uno stilista che lo ha vestito per oltre 10 anni. “Lo stilista strappa via tutte le etichette dai suoi vestiti, in modo che non catturino accidentalmente la curiosità dei giornalisti”. Nel 2015, Putin è stato fotografato mentre si allenava con il primo ministro russo Dimitri Medvedev. Quartz ha riferito che i suoi pantaloni di tuta in seta e cashmere di Loro Piana costavano 1,425 dollari (1,225 euro) e Putin li ha abbinati con un top corrispondente, facendo salire la cifra totale del suo outfit a 3,200 dollari (2,800 euro circa).

OROLOGI. Nel 2007 l’ex funzionario del Cremlino Stanislav Belkovsky ha affermato che Putin aveva una fortuna di 40 miliardi di dollari (34,4 miliardi di euro) nascosta in Svizzera e Liechtenstein. All’epoca questo lo avrebbe reso la quarta persona più ricca del mondo, tra il magnate d’affari Carlos Slim e il defunto fondatore di Ikea Ingvar Kamprad. All’epoca Belkovsy ha detto che Putin controllava segretamente il 37% delle azioni di Surgutneftegaz e il 4,5% di Gazprom, due gigantesche compagnie petrolifere russe. Ha detto anche che controllava “almeno il 75%” della compagnia petrolifera svizzera Gunvor, secondo il Guardian aggiungendo poi” Sospetto che ci siano anche altri business di cui io non so nulla”. Tuttavia Gunvor ha respinto queste affermazioni. “Il Presidente Putin non detiene e non ha mai detenuto la proprietà di Gunvor” ha detto un portavoce di Gunvor in una dichiarazione a Business  Insider. “Non è un beneficiario di Gunvor o delle sue attività”.

OROLOGI DI PUTIN. Le stime del patrimonio netto di Putin sono sempre aumentate nel corso del tempo. Browder, amministratore delegato di Hermitage Capital Management, ritiene che Putin abbia accesso a una fortuna segreta di 200 miliardi di dollari (172 miliardi di euro). Browder aveva investito in Russia negli anni ’90 ma alla fine era entrato in conflitto con Putin. Dopo che l’avvocato di Browder, Sergei Magnitsky fu imprigionato e brutalmente ucciso mentre le indagini venivano insabbiate, Browder nel 2012 sostenne l’approvazione del “Magnitsky Act”, un atto che portò all’applicazione di sanzioni degli Usa contro gli oligarchi russi.

La cerchia ristretta di Putin è in realtà la ragione per cui nessuno può definire con precisione l’esatto patrimonio di Putin. Il The Guardian ha riferito che nel 2010 “dei documenti riservati della diplomazia statunitense hanno suggerito che Putin detenesse le sue ricchezze tramite alcuni prestanome”, incluso il suo migliore amico Sergei Roldugin e il banchiere Yuri Kovalchuk. Alcune di quelle connessioni sono state rese pubbliche nei Panama Papers del 2015. La massiccia fuga di notizie non includeva nessun documento che rimandava direttamente a Putin ma ha rivelato che “i suoi amici hanno guadagnato milioni da contratti che apparentemente non potevano essere garantiti senza il suo appoggio” ha scritto il Guardian. I giornalisti russi Andrei Soldatov e Irina Borogan hanno detto che, di conseguenza, la fuga di notizie dei Panama Papers è stata “vista come un attacco agli amici personali di Putin, alla sua cerchia più intima”. Ma Putin e il Cremlino hanno smentito le accuse secondo cui il presidente russo avrebbe usato il suo ruolo per arricchirsi e far arricchire i suoi amici. Myers ha scritto che il leader russo ha detto: “Io sono l’uomo più ricco, non solo in Europa ma nel mondo intero: raccolgo emozioni. Sono ricco in quanto il popolo della Russia mi ha affidato due volte il comando di una grande nazione come la Russia. Credo che sia la mia ricchezza più grande”. Le ripetute smentite non hanno dissipato l’esame continuo delle presunte ricchezze di Putin. “In un paese in cui 20 milioni di persone riescono a malapena a far quadrare i conti, la vita lussuosa del presidente è un affronto spudorato e cinico per la società da parte di un potentato arrogante” ha scritto Nemstov su un libro bianco del 2012. Il politico, un critico di Putin di lunga data e che si faceva sentire, è stato assassinato nel 2015.